Carte darte rivista

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CARTE D’ARTE INTERNAZIONALE Inverno 2012

In quarta di copertina

MARIKO MORI Tom Na H-Iu II, 2005-06 Glass, stainless steel, LED, Real time control system 427 x 156.3 x 74.23 cm On loan from the Mariko Mori Studio © Mariko Mori Studio Photo Richard Learoyd Royl Academy of Arts, London

In copertina

MICHELANGELO PISTOLETTO The Mirror of Judgement, 2011 Foto Sebastiano Pellion Serpentine Gallery, London

SOMMARIO Direttore responsabile/Managing Editor Direttore/Editor Antonio Freiles Editore esecutivo/Excutive Editor Associazione culturale Carte d’Arte Internazionale Comitato di redazione/Editorial staff Bruno Bandini Mario Bertoni Silvia Freiles Giovanni Iovane

LE POETICHE DEL MERCATO

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EDITORIALE DI ANTONIO FREILES

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Mario Bertoni

NEXT PAGE Bruno Bandini

ALBERTO GARUTTI L’INVISIBILE ALTROVE Mario Bertoni

VICTORIA RABAL Relazioni pubbliche/Public relations ClaraStampa clarastampa@gmail.com Cura editoriale Katia Vespertino

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PRINCIPIO DI SPERANZA

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CAPTURING THE SPIRIT OF FISH Silvia Freiles

FELIX CURTO

BACK ON THE ROAD AGAIN Giovanni Iovane

ANGELO SAVELLI

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IL MAESTRO DEL BIANCO Direzione, Redazione / Editorial Offices Via Manzoni, 31 - 98120 Messina tel +39 3346198284 freiles.a@libero.it redazione@cartedartemagazine.it www.cartedartemagazine.it www.cartedarteinternazionale.wordpress.com

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Serena Carbone

LO SPAZIO ETEREO DI ANGELO SAVELLI Anna Guillot

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FRANCO FANELLI

LA PASSIONE E IL SEGNO Silvia Freiles

Stampa/Printed Tipografia Stampa Open – Messina

AVANGUARDIA SENZA FINE IL DISEGNO DI WILLIAM KENTRIDGE

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Franco Speroni

LIAM GILLIC Registrazione presso il Tribunale di Messina N°14-90 del 19/5/90 Pubblicità inferiore al 70% © copyright 2012 CARTE D’ARTE INTERNAZIONALE

Four Propositions Six Structures

CARACALLA PARADISO CONTEMPORANEO PRESS IMAGES

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CARTE D’ARTE

I N T E R N A Z I O N A L E

LE POETICHE DEL MERCATO O IL MERCATO DELLE POETICHE?

Mario Bertoni

“I

cinquant’anni di pittura di cui sono stato testimone temo che saranno ricordati come un’epoca di puro commercialismo… Spero che questa mediocrità, condizionata da troppi fattori estranei all’arte per sé, conduca questa volta a una rivoluzione a livello ascetico, di cui il pubblico non sarà nemmeno consapevole e che solo pochi eletti svilupperanno al margine di un mondo accecato da fuochi d’artificio economici. Il grande artista di domani entrerà nella clandestinità”. Parola di Marcel Duchamp. Bisogna fare molta attenzione e soppesare bene quel che si dice, prima di ribattere, a chi mette in dubbio che Damien Hirst sia un grande artista o comunque un artista: “chi nega il valore dell’arte di Hirst nega tutta l’arte moderna da Duchamp in poi”. E Karel Teige nel 1936: “sul mercato dell’arte non sono in vendita soltanto i quadri, ma anche gli artisti. La creazione artistica è prigioniera dei lacci dell’interesse dei collezionisti-speculatori, che non solo impongono sul mercato il proprio gusto non coltivato, ma causano anche la corruzione e il tradimento degli artisti. Il potere della commercializzazione della produzione artistica è tale che perfino l’industria che produce gli oggetti d’uso quotidiano si è accorta che il prezzo di mercato e la possibilità di smercio dei suoi prodotti aumentano qualora i suoi prodotti d’uso quotidiano portino impresso il marchio dell’arte e vengano immessi sul mercato dell’arte”. L’atteggiamento filisteo, proprio in seno alle avanguardie, ha fatto il resto: “il mercato dell’arte ha vinto, la moralità è restaurata”. Scene già viste nel basso impero della Roma imperiale, poi le cose sono andate come sappiamo. Alla fine degli anni ‘50 è stata la volta di Piero Manzoni e della sua lucida ironia: siccome fin dalla notte dei tempi il principio del “valore universale” ha fatto dell’opera d’arte un oggetto magico o religioso e dell’artista un dio, e siccome, poi, “gli dei cambiano e si evolvono con l’evolversi della civiltà”, e siccome “l’artista è l’annunciatore di queste nuove condizioni umane (egli scopre nuovi totem e tabù di cui la sua epoca ha in sé il germe, ma non ancora la consapevolezza)”, ne consegue che in epoca di capitalismo avanzato l’artista non può che scoprire il valore universale del denaro, perché “nessun mercato d’arte è fruttuoso quanto il mercato d’arte”. Una volta riconosciuto il denaro come archetipo e come linguaggio universale, non resta che sviluppare, del denaro e del mercato, i nuovi totem e tabù, ripeterne parodisticamente, parossisticamente, i riti e i miti, denigrandoli ed esaltandoli in perpetuum. Subito dopo, e qui siamo alla chiave di volta della contemporaneità, è arrivato Andy Warhol: se Manzoni era stato un istrione, che ha visualizzato la classica sgarbata da bar (l’arte moderna è tutta merda, roba da bagni pubblici, tieh! la merda in scatola portata in galleria, e del resto a Milano c’è un detto che nessuno ha mai preso in considerazione al proposito: “l’è come en scatolin de merda secca”), e che nuovo Re Mida trasforma la merda in oro (venduta al prezzo corrente), Warhol fotocopia un dollaro, lo firma e lo moltiplica vendendolo in galleria, povero cristo (quello dei pani e dei pesci) che si avvita su di sé, eseguendo la finzione di una finzione, cioè mettendo in atto un meccanismo cinico e baro, non una virtualità goliardica come avevano fatto Duchamp e Manzoni. Perché citare sempre Warhol e mai Manzoni? Perché, come si legge nel Cuore deamicisiano a proposito di Franti, “lo sciagurato rideva”? Già, l’aveva capito per tempo Duchamp: “avevo fatto una battuta e mi hanno preso sul serio”: la tragedia dell’arte moderna finita pisciandosi addosso dalle risate e dal pianto (o per non piangere)? È che, a forza di citare, come fa Hirst con grande vanto, si rischia di non fare più ridere, vuoi perché le battute sono vecchie, vuoi perché l’attore non le sa raccontare. Un cazzo di diamanti o diamanti del cazzo? This is the question (con un teschio di diamanti in mano). Il fatto è che, mettendo da parte “Beautiful Inside My Purse Forever” (il che non è poco), ciò che si sta tentando è proprio la liquidazione delle avanguardie usando gli stessi strumenti, ma rovesciandone il senso: tutto appare sterilizzato, narcotizzato (sotto formaldeide, appunto), politicamente

PIERO MANZONI Merda d’artista, 1961 Fer blanc, papier, hauteur: 4,8 x (diam.) 6,5 cm. Signée et numérotée au cachet sur le couvercle: Piero Manzoni / N° 31 Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Paris Don de Liliane et Michel Durant-Dessert, 1994 © Centre Pompidou, Mnam-Cci, Paris/ Dist RMN/Photo: Documentation photographique des collections © Adagp, Paris 2010

corretto, esteticamente rispettoso del designer, dell’architetto, della computer graphic, del regista cinematografico, del fotografo, delle ricerche di mercato e dello psicologo, della stilista, del parrucchiere e del truccatore, ma tutto assolutamente, fottutamente noioso e palloso e normotico: “Vale la pena ricordare come le case d’asta maggiori, Christie’s e Sotheby’s in particolare, si siano prestate al gioco di alzare le quotazioni in modo anche artificiale, con il risultato di soffiare sul fuoco della spettacolarità”: è questa la vera novità sul piano critico? Ma di quale attività critica? Quella del critico manager o del manager critico? Sembra che le stesse domande, sempre in tema di frizzi e lazzi, ricorrano anche in politica: il politico pagliaccio o il pagliaccio politico? Vanitas vanitatum: come ha messo giustamente in evidenza Pippo Ciorra nel suo “Senza architettura” (Bari, Laterza), l’archistar funziona per la pubblicità del politico di turno che si fa la campagna elettorale gratis a spese dei contribuenti. Ma quando la sarabanda finisce? Tutti a guardarci nelle ballotte degli occhi più frastornati e desertificati di prima? The show must go on, seguendo le indicazioni degli esperti di ricerche di mercato. “L’idea di una fruizione dell’arte come attività rilassante è radicata nel pubblico. Ma il diritto del fruitore, di pensare all’arte negli intervalli delle sue primarie occupazioni, ha un’occulta influenza su chi, invece, dovrebbe dare rilievo alle differenze, alle incrinature… Se il sistema economico dell’arte, invece di essere mascherato con vecchie e inadeguate patinature, fosse posto in evidenza e approfondito nelle sue motivazioni e prospettive, porterebbe un sicuro contributo sull’attuale fenomenologia dell’arte” (Accame). Parafrasando Rita Levi Montalcini: cerco un’arte che dia vita ai giorni e loro continuamente ripropongono un’arte che aggiunge giorni alla vita.

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CARTE D’ARTE

EDITORI A LE D I A N TO N I O FR EI L ES

I N T E R N A Z I O N A L E

ANTONIO FREILES Next page, 2012

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THE SMALL UTOPIA. ARS MULTIPLICATA Veduta dell’installazione Foto Attilio Maranzano Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Venezia

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I N T E R N A Z I O N A L E

PRINCIPIO DI SPERANZA

BRUNO BANDINI

C

he suscitasse polemiche era pressoché inevitabile. Eppure la mostra ordinata da Germano Celant per la Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina costituisce una sorta di risarcimento nei confronti di quanti – e sono stati parecchi – ha ritenuto che la stucchevole distinzione tra “arti pure” ed “arti applicate” dovesse prima o poi cadere. The small Utopia offre una riflessione ed una ricostruzione dei percorsi, artistici e progettuali, che hanno tentato di smontare il sistema della “belle arti” e di ricostruirne l’assetto nell’età della tecnica. L'arte moltiplicata, riprodotta, divulgata e resa popolare è un sogno trasversale che percorre tutto il Novecento: un'avventura che ha coinvolto Futurismo e Bauhaus, Suprematismo e Costruttivismo, Neoplasticismo, Dada, Surrealismo, Nouveau Réalisme, Optical, Fluxus e Pop Art. Un supermarket dell’oggetto artistico che viene via via declinato in libro, tessuto, oggetto d’arredo, film, giocattolo, indumento, copertina per un disco. Un percorso che, con oltre seicento lavori, e che si dispiega attraverso i primi tre quarti del secolo scorso, analizza l’ “opera d’arte nell’età della sua riproducibilità tecnica” e la sua percezione attraverso la moltiplicazione degli oggetti e la proliferazione dei linguaggi cui il meccanismo della riproducibilità ha dato luogo. Tra le carte da parato dell’ Arts & Crafts e la Boite en valise di Marcel Duchamp, tra le invenzioni di Fortunato Depero e le progettazioni del Bauhaus e le serigrafie della Campbell’s soup di Andy Warhol, fino alle soluzioni più pervasive degli anni Settanta, si definisce un filo rosso attraverso il quale verificare la molteplicità degli atteggiamenti con i quali le arti visive si sono appropriate delle tecniche di produzione e di comunicazione proprie della società di massa e della società dei consumi. Eppure non si tratta, se non in parte, di un’aspirazione volta alla democratizzazione dell’arte. Si tratta piuttosto di un processo innescato da quella straordinaria rivoluzione cui la fotografia ha dato luogo, che mette in discussione per la prima volta in modo netto e risoluto il concetto di rappresentazione e la relazione tra arte e documento. Se l’opera d’arte è un’instaurazione – di un percorso originale, di un linguaggio originale, che salvaguarda e che disvela la verità – capace di fondare la storia: è la “messa in opera della verità”, nell’ età della tecnica essa diventa un progetto ed un processo sempre più complesso, ma che in ogni caso appare idoneo a ristabilire, nella storia, nell’ esser-ci, la presenza dell’origine, della verità. E proprio lì, nella faglia che la “riproducibilità tecnica” instaura, nella crisi nichilistica che nella sua forma più compiuta assume le sembianze della “tecnica” – tecnica che significa «apertura di una regione in cui muoversi – sottolinea Martin Heidegger – … assicurazione del primato del procedimento rispetto all’ente (natura e storia) che, di volta in volta, è oggettivato nella ricerca» che il problema dell’opera d’arte si fa più complesso, dinamico, ambivalente. Già qualche anno prima di Walter Benjamin e del suo saggio fondamentale L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, era stato Paul Valéry ad intuire lo spettro del problema. «Sicuramente saranno dapprima solo la riproduzione e la trasmissione delle opere a vedersi coinvolte. Saremo in grado di trasportare o ricostituire in qualsiasi luogo il sistema di sensazioni – o più esattamente di eccitazioni – che emana in un luogo qualunque un oggetto o un avvenimento qualunque. Le opere acquisteranno una sorta di ubiquità. La loro presenza immediata o la loro restituzione a qualsiasi epoca obbediranno al nostro richiamo. Non esisteranno più solo in se stesse, ma ovunque ci sarà qualcuno, e qualche strumento. Saranno solo una sorta di fonti o di origini, e i loro benefici si troveranno o si ritroveranno interi come si vorrà». Ma già nel 1923, El Lissitskij, nel manifesto Topografia della tipografia, con la sua intuizione dell’ “elettrobiblioteca”, aveva come ci si trovasse di fronte ad un mutamento radicale imposto dalla tecnica che mette a soqquadro tanto la cultura materiale quanto la percezione del mondo.

THE SMALL UTOPIA. ARS MULTIPLICATA Veduta dell’installazione Foto Attilio Maranzano Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Venezia pagg 6-7

THE SMALL UTOPIA. ARS MULTIPLICATA Installation view, including works by Man Ray, Meret Oppenheim, Maurice Henry, Max Ernst Foto Attilio Maranzano Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Venezia

E, di questo, anche le forme dell’immaginazione, le forme dell’arte, devono tener conto: occorre fare i conti con mezzi espressivi infinitamente più potenti – e coinvolgenti – rispetto al recente passato. Insomma, dalla “grande utopia”, dall’opera che si manifesta in tutta la sua prepotenza e instaura la propria “aura”, ci si avvicina alla “piccola utopia” che rispecchia lo stato delle cose dell’arte “moltiplicata”: sia come diffusione quantitativa, sia come procedura di produzione dell’opera. «Una mostra che – ha sottolineato Vittorio Gregotti – proprio perché fondata su una sua speciale interpretazione dei documenti, meriterebbe (al di là dei valori di immagine qualche volta prevaricanti) una discussione ampia sul significato della relazione tra la tradizione della modernità e l'eccitazione ormai accademica, offerta dal contemporaneo e dalla sua ideologia». Insomma, si tratta di riprendere il filo di una riflessione sul passaggio di valori dalla grande utopia intesa come speranza in grado di rivoluzionare l’intesa società ad un’utopia di scala ridotta, dinamica e seduttiva, ma decisamente disillusa, che constata nei fatti il trionfo della società dei consumi.

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THE SMALL UTOPIA. ARS MULTIPLICATA MARCEL DUCHAMP La mariée mise à nu par ses célibataires même or La Boîte verte (The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even or The Green Box),1934 Neue Galerie Graz am Universalmuseum Joanneum,Graz; Zignone Collection De ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy or La Boite-en-valise (From or by Marcel Duchamp or Rrose Sélavy or The Box in a Valise),1941(1947) series B, Private Collection; series F, FRAC Poitou-Charentes, Angoulême; series D, Pignone Collection Foto Attilio Maranzano Fondazione Prada Ca’ Corner della Regina, Venezia

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THE SMALL UTOPIA. ARS MULTIPLICATA ANDY WARHOL Campbell’s Tomato Juice Box, 1964 The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Andy Warhol Mott’s Apple Juice Box, 1964 The Andy Warhol Museum, Pittsburgh; Founding Collection, Contribution The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Foto Attilio Maranzano Fondazione Prada, Ca’ Corner della Regina, Venezia

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ALBERTO GARUTTI Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora, 2010 Aeroporto di Malpensa Alberto Garutti durante l’installazione dell’opera Marmo serpentino 68x115 cm PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano

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ALBERTO GARUTTI L’INVISIBILE ALTROVE

Mario Bertoni

C’

è un’arte che nell’arco degli ultimi decenni ha fatto un uso reiterato dell’avverbio “qui” e dell’aggettivo “questo” (questa, queste, questi) e che ha sempre voluto sottintendere “altrove”: è l’arte di Alberto Garutti, la cui mostra “Didascalia” al PAC di Milano consente di analizzare il percorso storico dell’artista nell’arco di quarant’anni di lavoro e di veder all’opera, nelle sale espositive del Padiglione, il filo invisibile che sfiora e fa dialogare quanto prodotto dall’artista in questo arco di tempo. Il titolo “Didascalia” fa riferimento ai titoli delle video installazioni realizzate nell’arco di un ventennio, ora accumulate a pacchi coloratissimi al centro dell’ambiente, e diventa emblematico quando le frasi, disarticolate dal loro contesto d’origine, realizzano, con modi e strumenti diversi, l’altrove annunciato e promesso: “L’opera è dedicata agli abitanti di Buonconvento e a tutti coloro che, anche da molto lontano, vorranno passare di qui solo con un pensiero”; “Quest’opera è dedicata alle ragazze e ai ragazzi che in questo piccolo teatro si innamoreranno”; “Dedicato alle ragazze e ai ragazzi che in questa sala hanno ballato”; “Il cane qui ritratto appartiene a una delle famiglie di Trivero. Quest’opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno”. Il questo qui, ora, è ciò che congiunge il troppo poco fisico temporale della frase nell’attimo in cui viene letta e il troppo sconfinato e illimitato a cui rinvia nelle azioni e nei pensieri passati, presenti, futuri. Davvero, nella produzione di Garutti non c’è differenza di matrice profonda negli intenti e negli obiettivi tra lo spirito che anima gli interventi pubblici e le opere che sondano lo spazio domestico, perché la congiunzione fisica, visibile, è riscontrabile in famiglie di lavori che fanno da trait d’union. “Matasse”: si fa presto a dire “54 km e 221 metri, la distanza dalla mia porta di casa a Milano alla porta di casa di Tullio Leggeri”, avvolti in una matassa di filo colorato, il fatto è che lo spessore iperbolico che l’opera si porta dietro non è quantificabile (a dispetto del titolo), perché quello spessore è fatto di immaginazione, di transito, di sensazioni ed emozioni di viaggio impalpabili, e dunque irriproducibili. “Orizzonti” (notare la data: 1987/2012) costruisce per la prima volta, attraverso l’installazione di venti lastre di vetro nere e bianche realizzate nel corso degli anni, un asse simbolico dilatato tra l’orizzonte di comprensione e l’orizzonte delle scelte, tra il pensiero che abbraccia e il pensiero che indica. In un mondo ipercodificato, quale quello attuale, dove tutto è ossessivamente occupato da feticci e da oggettistica kitsch, che valgono perché rappresentano e perché sono immediatamente riconoscibili, lo spazio tempo affacciato sul vuoto (pieno) di Garutti è aria che ossigena la mente e lo spirito, è la domanda costantemente aperta sulla dimensione dell’arte tra presentazione e impresentabile. “Moquette: Stanza di soggiorno” scontorna le distanze dell’arredo di casa con un tuffo nell’improbabilità della forma concreta e materiale, ma per ciò stesso impensabile. “Misure di mobili” è la cerniera che disfa e rifà costantemente il percorso spaziale e temporale collocato tra il progetto e la realizzazione dell’opera. Un’arte che è fatta per coloro che accostandola “penseranno al cielo” o per chi “guarda in alto” fa pensare alla felicità di quel detto in voga negli anni sessanta “se il dito indica la luna, l’imbecille guarda il dito”, o a quella scritta, nei pressi di Prato, eseguita con porpora dorata sulla cabina dei contatori di un condominio: “Poesia”, così, semplicemente, con l’iniziale maiuscola, perché poesia è un momento, un sospiro, un respiro lieve dell’aria che fa…, cosa fa? pensare? sognare? vibrare? emozionare? relazionare? dubitare? Per questo la mostra non può che aprirsi e chiudersi verso due “orizzonti” infiniti, l’uno costituito dai progetti delle sue opere pubbliche e rivolto al ciò che è stato, l’altro da un dispositivo di 28 microfoni che registra tutto il sonoro che accade nelle sale espositive durante l’intera durata della mostra, materiale rivolto al futuro della pubblicazione in cui la mostra, nel suo transito giornaliero, sfuma nel brusio di fondo: “In queste sale 28 microfoni registreranno tutte le parole

che gli spettatori pronunceranno. Un libro a loro dedicato le raccoglierà”. In mezzo, tra questi due vettori, tra queste due polarità, “Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora”, riassunto, o sintesi, del più e del meno che è il dettato stesso della vita. L’arte di Garutti fa pensare al detto del poeta indù Kabir: “Dovunque siate, quella è la porta”. Già, ma dove? E quella quale?

ALBERTO GARUTTI Irrigatori, 2003 Come organismi in movimento, le strutture per l’irrigazione spruzzano scenografici getti d’acqua, compiendo un’operazione necessaria alle colture e movimentando il paesaggio. Campus Tiscali, Cagliari Tubature metalliche e ugelli, h. 9 m Courtesy Collezione Tiscali PAC; Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano

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ALBERTO GARUTTI Il cane qui ritratto appartiene a una delle famiglie di Trivero. Quest'opera è dedicata a loro e alle persone che sedendosi qui ne parleranno, 2009 Città di Trivero Cemento e ferro zincato, dimensioni variabili Fotografia Demian Dupuis Courtesy All’Aperto, Fondazione Zegna PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano

pag 13 ALBERTO GARUTTI Didascalia/Caption, 2012 Veduta dell’allestimento della mostra © Delfino Sisto Legnani PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano

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VICTORIA RABAL

CAPTURING THE SPIRIT OF FISH

Silvia Freiles

L’

operazione compiuta da Victòria Rabal al mercato ittico di Barcellona non ha solo i contorni di una semplice performance, ma di una vera e propria liturgia. Comprare il pesce, sceglierlo accuratamente e, sotto gli occhi di tutti, imprimerne con l’inchiostro le forme e le striature su pregiata carta fatta a mano, assume non solo il significato di catalogazione delle specie ittiche presenti nel mercato più grande del mondo assunto a paradigma di uno ancora più grande, il mare, con le sue trentamila specie diverse, ma della ripetizione cultu(r)ale di un gesto con il quale si imprime nello spazio bianco della memoria collettiva il transeunte, rappresentato dalla forma vivente destinata al consumo e alla consunzione, al rapido scacco, alla perdita. Le sagome accuratamente stampate con l’antichissima tecnica giapponese del gyotaku, ritornano alla luce come creature per la seconda volta, riacquisiscono quell’identità conosciuta solo dalle antiche lontananze marine, dalle profondità abissali. Nonostante le opere di Victòria Rabal abbiano la stessa natura ambigua, anzi, composita che appartiene alla riproduzione ipotipotica, oscillante tra scrittura e fotografia, una cosa è certa: sembrano orientate, più o meno volontariamente, a riaffermare l’unicità individuale sulla molteplicità, il valore della differenza sull’omologazione attraverso la meticolosa numerazione dei fogli e la puntuale firma dell’artista. I pesci di Victòria Rabal non sono altro che impronte, relitti di un mondo muto, quello della pura esistenza, che sembra collidere con l’altro mondo, quello rumoroso e capitalistico dello scambio, della mercificazione della relazioni interpersonali, della continua accelerazione dei bisogni. Il lavoro della Rabal sembra muoversi dunque con disinvoltura tra lessicografia scientifica e illustrazione necrofila e ossessiva di una vita che è stata ma non è più, tra recupero archeologico e manipolazione feticistica delle forme naturali, tra iperrealismo e sublimazione del quotidiano. Le forme sono ora immobili, fissate per sempre, eppure hanno già compiuto un viaggio. Si sono spostate dalla materialità di una esistenza inconsapevole che non necessita di alcuna ricerca di senso o di espressione, alla immaterialità della riproduzione tipografica, che le trasforma in misteriosi segni da indagare, esporre, guardare, che le rende volenterose rappresentazioni di qualcosa: in una parola sola, immagini. Apponendo fogli di carta su pesci e crostacei di differenti dimensioni e imprimendone la sagoma, Victòria Rabal attraverso una sorta di imposizione delle mani nel senso originario di “porre sopra”, officia il rito sacramentale che trasforma la morte in vita, l’effimero in imperituro, l’io-per-sé in io-per-l’altro, la natura in arte. L’esperienza reiterata al Mercabarna nella zona di confine tra il buio e la luce, la notte e l’alba, come poi di nuovo alla Pescheria di Catania, ha il sapore di una consacrazione: la consacrazione della vita all’arte che, come la grazia divina, è capace di rendere visibile ciò che prima è nascosto, di accendere gli oggetti quotidiani di significati simbolici, di trasfomarli in segni, di compiere rivelazioni.

VICTORIA RABAL Gyotaku, 2012 su carta giapponese misure variabili

pag 14 VICTORIA RABAL Performance al mercato del pesce di Catania, 2012 Foto di Katia Vespertino VICTORIA RABAL Tecnica Gyotaku su carta giapponese misure variabili

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FELIX CURTO Back on the Road Again Chapa The grass roots, 2006/2007 Porta di pick up, pastello ad olio, ossidazione 47x155x8 cm Nuova Galleria Morone, Milano

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FELIX CURTO

BACK ON THE ROAD AGAIN

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Giovanni Iovane

a parecchi decenni la nostra epoca è stata definita quella “del mondo come immagine”. Il tanto riflettere sul valore e sul potere dell’immagine, attitudine peculiare della contemporaneità, ha fatto sì che quell’affermazione di Martin Heidegger si scomponesse fino a perdere, in un costante rinvio, il suo significato originario o almeno la sua direzione. Così, oggi, non sappiamo se l’immagine sia un mondo o il mondo si presenta come se fosse una immagine. Dubbi fondamentali, inoltre, li abbiamo anche su cosa sia esattamente la “contemporaneità”. E tutto questo dinanzi ad una domanda posta più di recente, “Che cosa vogliono le immagini?”. L’estetica (e anche l’etica) modernista era molto più sobria e diretta con il suo schematismo e con la “riduzione” degli elementi rappresentativi. Ernest Junger diceva che nella modernità bisognava viaggiare leggeri. Il bagaglio a mano è sicuramente più comodo negli spostamenti ma anche e soprattutto nell’esperienza artistica. Nelle arti visive Marcel Duchamp è stato il primo a prendere alla lettera questo suggerimento con i suoi ready made e con la sua Boîte-en-valise. Dagli anni 50 e sino agli anni 80 il “viaggiare leggeri” si è felicemente unito alle pratiche del detournement, alla culture jamming e al subvertising. Il riuso o la riappropriazione “sovversiva” di oggetti del panorama visivo quotidiano (specialmente le immagini delle Corporations, della pubblicità, della politica) si è presentata come una forma, talora parodistica, di critica sociale e, nello stesso tempo, di esperienza estetica. Negli anni 60, uno degli artisti più originali e fedeli agli insegnamenti di Duchamp è stato William Anastasi, sia per l’uso concettuale del ready made e dei materiali industriali e sia perché per diversi anni giocò a scacchi con John Cage ogni giorno. Opere come What was real in the world (1964), un parallelepipedo composto da mattoni di cemento o Beethoven's Fifth Symphony (1965), una scultura a parete composta dal nastro magnetico aggrovigliato di cassette che riproducevano la “Quinta” di Beethoven, sono veramente esemplari. Il lavoro di Felix Curto ha come fondamento processuale la pratica del ready made e come generalissimo modello processuale l’esperienza artistica di William Anastasi a cui sostituisce, tuttavia, la maschera concettuale, e un suo relativo ermetismo, a favore di una narrazione non esclusivamente autoreferenziale. I suoi lavori fotografici, le sue sculture, i dipinti e i suoi disegni si situano tutti in un contesto geopolitico preciso, il Messico. Per lungo tempo il Messico, infatti, è stato la seconda patria dell’artista spagnolo (Salamanca 1967). Al panorama messicano Curto aggiunge tutta una personale iconografia legata alla controcultura della Beat Generation degli anni 60, a cominciare da autori come Jack Kerouac, e alla musica di Johnny Cash, Neil Young e alla country music. L’originalità del lavoro di Curto ( di cui si è avuto un ottimo esempio nella sua recente mostra personale al Musac, Museo de Arte Contemporaneo de Castilla y Leòn) consiste nell’assemblaggio e soprattutto nella sincronizzazione di panorama visivo politico e sociale (la frontiera del Messico con gli Usa) con testi e riferimenti iconografici di una determinata cultura sia letteraria che musicale. Un tempo, e precisamente tra gli anni 60 e 70, si sarebbe definito tutto questo “immaginario”, un luogo insieme reale e fantasmatico in cui si fondevano esperienze personali sullo sfondo, o meglio, attraverso una reale geografia. Alla autoreferenzialità linguistica dell’arte concettuale, Curto sostituisce però la propria esperienza personale, il suo viaggio “on the road”. In tal modo, la chiamata in causa, ad esempio, della Beat Generation, non diviene solo citazione o ricordo personale ma, oltre alla apparenza dell’immagine o della scrittura, mette in scena il processo creativo delle opere di Curto. Nei suoi disegni o nelle pitture sono presenti le stesse tecniche che avevano caratterizzato gli autori “on the road”, come la calligrafia, la scrittura automatica, il cut up, o il dripping.

Esempi di queste tecniche le ritroviamo, anche sotto forma di procedimento, nei suoi disegni o nei quadri ove compaiono, ad esempio, riferimenti testuali a un album di Mark Olson, “Salvation Blues”, in cui il musicista americano, simbolo della musica country alternativa, fa riferimento agli anni 60/70, e a “luoghi” tipici della geografia americana di quegli anni. Citazione e tecnica rappresentativa insieme contribuiscono a creare un con-testo, uno spazio visivo evocativo; non un semplice enigma ma una immagine reale di luoghi e storie ben precise ed identificabili. Tale rievocazione, personale, sociale e culturale (dal repertorio delle visual cultures) si mostra immediata nelle sue fotografie. La serie fotografica “Carros”, dedicata alle automobili americane in uso in Messico è anche una diretta testimonianza della geografia sociale, culturale ed economica del paese americano. Negli oggetti e nelle sculture la testimonianza diventa più complessa. L’artista adopera spesso lamiere di automobili (appartenenti a quelle auto americane ritratte nel suo personale ritratto iconografico del Messico) sia come ready made, come oggetto trovato, ma anche come fondo per un particolare oggetto-quadro. La lamiera- quadro presenta segni, scritte e colature casuali di colore. Talora accoglie degli inserti in oro o argento che ancora una volta si rifanno alla geografia messicana ma che possono essere osservati anche come una sorta di “valore aggiunto” che nobilita questa sorta di personale archeologia del passato prossimo o recente. Il campionario delle cose trovate (o degli oggetti appartenuti allo stesso Curto durante il suo lungo soggiorno messicano) è vasto. Oggetti domestici si affiancano ad automobili intere e solo parzialmente modificate. Questo senso di raffinata ricostruzione di un’esperienza singolare, all’interno dell’immaginario “oggettivo” di un grande Paese come il Messico, trova anche una espressione, insieme discreta e monumentale, in una grande porta di legno o in un recinto di bastoni e filo spinato. Installazioni che “si fanno spazio” ben oltre la rituale ascesi minimal o concettuale.

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FELIX CURTO Back on the Road Again Calexico Mexicali, 2003 Frigorifero, neon, cavi e argento 110x50x50 cm Nuova Galleria Morone, Milano

FELIX CURTO Back on the Road Again Electric tex”, 2002 Pastello ad olio su seggiola di metallo 73x31x27 cm Nuova Galleria Morone, Milano

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FELIX CURTO Back on the Road Again Jack, 2002 Cartone, acrilico e corda 15x13,5x11 cm Nuova Galleria Morone, Milano

FELIX CURTO Back on the Road Again Cow Boy, 2000 Pesi e pastello grasso 17x4x4 cm Nuova Galleria Morone, Milano

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ANGELO SAVELLI Grande orizzontale, 1960 MARCA Museo delle Arti, Catanzaro

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ANGELO SAVELLI

IL MAESTRO DEL BIANCO

Serena Carbone

A

ssoluto e puntuale è il bianco di Angelo Savelli, a cui il MARCA di Catanzaro dedica una grande rassegna a cura di Alberto Fiz e Luigi Sansone, dal 15 dicembre al 30 marzo 2013. Settanta circa le opere in mostra, dai lavori in cui ancora vi è l'uso del colore, ai primi bianchi degli anni Cinquanta, agli ultimi realizzati fino poco prima della sua morte, avvenuta nel 1994. Il percorso allestito racconta un strana storia, vi sono le testimonianze degli amici e conoscenti, come Afro, Fontana, Guttuso, vi sono i grandi prestiti, della GNAM di Roma, del Mart di Rovereto, del Museo del Novecento di Milano, della Fondazione Prada e della Fondazione VAF-Stiftung, oltre le opere provenienti dalla sua nativa Calabria, della famiglia Savelli, del Museo Civico di Taverna e del Centro Angelo Savelli; vi è ancora l'opera White Space che, esposta nel 1958 da Leo Castelli in occasione della personale a lui dedicata, testimonia la sua fruttuosa permanenza in America; vi è la ricostruzione ambientale, Spazio luce, progettata - ma mai realizzata - nel 1992 per il Museo di Taverna in Calabria. La sua vita s'interseca con quella di Dorazio, Fontana, Newman, Reinhardt, la sua ricerca viene sostenuta da Argan come dalla Bucarelli, eppure Savelli rimane una figura isolata nella storia dell'arte del Novecento, di difficile collocazione nel mercato come nella critica. La prima grande mostra è al PAC di Milano nel 1984, segue poi a tre mesi dalla sua scomparsa, quella del Pecci di Prato, da cui sono trascorsi quasi vent'anni. Nato in Calabria nel 1911, Angelo Savelli si trasferisce a Roma alla fine degli anni Venti, per poi nel 1954 andare in America, dopo aver partecipato a tre edizioni della Biennale di Venezia. E sia in Italia come all'estero mantiene quella autonomia che, come scrive Fiz nel testo critico in catalogo, citando a sua volta il ricordo di Fabrizio D’Amico, era stato lo stesso Savelli a sottolineare nell’autopresentazione a una sua mostra milanese proposta alla galleria del Naviglio del 1954: “Astratto, realista, figurativo, spaziale - niente di tutto questo. Fuori dalle gerarchie stabilite dal catasto della critica.” Savelli abbandona presto la figurazione ma non si riconosce completamente nella rigida definizione di astratto-concreto che gli avrebbe consentito l'ingresso nel gruppo creato da Venturi, non fa parte degli spazialisti e nemmeno di Azimut; il suo primo bianco risale al 1957, stesso periodo degli Achromes di Manzoni, delle tele fasciate di Scarpitta e delle estroflessioni di Castellani e Bonalumi. Nelle sue opere il rapporto con lo spazio si sintetizza nell'uso del bianco, intimo e familiare (si pensi ai lavori degli anni Sessanta in cui inserisce l'oggetto-corda come quella dei pescatori della sua infanzia), che parla nel silenzio con l'intensità di un vortice che tutto avvolge, luce e ombra, colori e piani, restituendo il tutto su una superficie assolta dal peso della realtà. Savelli mantiene un rapporto costante con la pittura, conducendo con ciò che lo circonda un dialogo d' amorosi sensi che porterà avanti fino alle estreme conseguenze. Così scrive in The figure point n. 3 del1971 “[…] accadde che mano mano/ che le mie mani sempre più a fondo/ […] piano, sempre più piano/ presero a inscindersi/ in frammenti infiniti.../ Poi quando nulla d'esse/ fu dato di vedere/ quella stessa energia/ prese a dividermi il corpo/ finché ogni sua parte/ si fece minima e minima e ancora più minima/ tanto da raggiungere la sua stessa invisibilità - / Nondimeno, poiché ormai ero/ né punto né figura/ che occupasse lo spazio/ sentii che lo spazio ero diventato, io/ io stesso ero diventato spazio …”. Immerso nelle viscere del Novecento, Savelli ne interpreta la parte più spirituale, imprigionando nelle sue opere la fluidità del tempo e la complessità dello spazio, e il suo bianco riflette di luce propria.

ANGELO SAVELLI Traccia, 1990 MARCA Museo delle Arti, Catanzaro

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LO SPAZIO ETEREO DI ANGELO SAVELLI

intervista a cura di Anna Guillot

A

ngelo Savelli esprime subito la sua condizione atarassica. Per eredità genetica, ma più come conquista della ragione, il suo comunicare esplicita una speculazione divenuta ragione stessa di vita oltre che arte. Etere che la fisica aristotelica stabilisce quinto elemento incorruttibile, lo spazio etereo virtualmente infinito di Savelli è grado supremo di qualità dove Jñãna, Karman, Hatha della sua pratica Yoga si costituiscono come materia e forma di un’astrazione che è ricerca di valori assoluti. Solo il bianco è possibile all’interno di una simile visione estetica: assenza e somma di colori, estremità della scala cromatica, luminoso, purissimo, estatico.

P.A. Museum, e Paradiso, del ’94, la stanza dell’Atelier sul Mare di Antonio Presti, a Castel di Tusa.

Anna Guillot: Lo Yoga per te vita e arte, ti accompagna costantemente verso la definizione estetica delle “visioimmagini”. Come ha inciso tale pratica sulla tua produzione artistica? Spiegaci quell’ “atto creativo lucido e spontaneo”.

AS: Per un anno, sensibilizzato al colore e alla luce delle vetrate di NotreDame, realizzai quasi unicamente disegni con prevalenza di linee continue, tratteggi e colori sottili. Il colore si frantumò per poi ripresentarsi in forma di sintesi luminosa come unità totale. La “linea zero” fu una presa di posizione radicale. Da allora la mia astrazione cominciò ad essere un processo conoscitivo più vasto. Mi aprii inoltre a nuove esperienze tecniche. Con i versi del ’76 da te citati, Lou Kahn, che con Wright fu maestro dell’architettura americana, non allude alla luce solare bensì alla luminosità di una superficie plasmata e iridata d’illuminazione creativa.

Angelo Savelli: L’approccio con lo Yoga risale al 1942. Lessi un libro che mi fu regalato. Yoga è un modo di vivere, intimamente e profondamente. Insieme con l’esercizio fisico, realizza l’assoluta integrità spirituale, la grande costruzione interiore che – come dice Dante – porta alla “diritta via”. Religione o filosofia, non è né l’una né l’altra. Senza la necessità e la convinzione di una spiritualità mentale e fisica è impossibile raggiungere quei momenti alti nei quali si riceve quanto altri non possono ricevere. Quasi tutte le mie opere, soprattutto le installazioni, non sono altro che il recupero estetico di un fluire continuo di visioimmagini. Sono le mani e il subcosciente a guidarmi, non la testa. La testa non crea, la mente non crea. Sa solo ciò che si fa correntemente.

AG: La permanenza del ’48 a Parigi stimola la svolta decisiva. Una condizione fortemente autocritica ti porta a scrivere: «Mi resi conto che dovevo liberarmi della divina tradizione italiana e trovare qualcosa per dare il mio contributo al continuum storico». Così procedi verso una sorta di tabula rasa culturale, la “linea zero”. Come risulta dalle parole di Louis I. Kahn: «The work of Savelli moves from silence to light».

AG: L’incontro con la giornalista americana Elisabeth Fisher è stato determinante per il trasferimento a New York. Parlaci di lei, dei contatti con gli esponenti del mondo dell’arte statunitense, dei rapporti con l’Abstract Expressionism e l’Action Painting, dell’attività didattica.

AG: Inizialmente nel tuo lavoro il bianco è subordinato a un’idea religiosa. Dopo il ’46, con un graduale processo di epurazione non soltanto estetica, estremizza il suo ruolo definendosi come esclusivo assolo energetico, interprete ideale di una scansione dello spazio prossima all’idea di Malevich di “geometria del sentimento”. In quale modo questo processo da un avvio cubo-espressionista perviene al rigore assoluto di tale “bianca geometria”? AS: Tra il ’36 e il ’46 l’arte risentiva del clima di tensione e paura. El Greco, Rouault, Soutine e gli espressionisti erano quanto a me più vicino. A Roma con Severini, Prampolini, Jarema, Guzzi, Tamburi, Montanarini fondammo l’Art Club. Più tardi con Dorazio, Perilli, Scialoja, Consagra, Accardi costituimmo un gruppo di tendenza. Dopo la guerra, il grande entusiasmo per il lavoro fu l’unica forza a tenerci vivi. Nel ’45 lasciai il barocco romano per la classicità di Firenze. La suggestione di una chiesa tutta bianca, semplice, con cornici dorate, mi portò spontaneamente alla conseguenza del bianco, che nelle crocifissioni del ’46-47 incarnava l’amore spirituale ma che nell’arco di dieci anni vivrà di energia propria, affrancato da ogni simbologia e rispondente a un processo di semplificazione formale radicale. La geometria di tale astrazione però non era assoluta bensì irregolare, e non sottendeva l’implicazione rigida di leggi formali. Anche le installazioni denotano tracce delle forti impressioni giovanili. Le prime idee riguardo agli allestimenti sono del ’58, mentre le realizzazioni hanno inizio nel ’64, in seguito a un ulteriore processo di scarnificazione delle strutture geometriche, quando l’attenzione era incentrata sulle interazioni tra gli elementi costruttivi e il rapporto forma-spazio. Paradise, del ’65, è la prima “cella di meditazione” costruita nello studio, al 186 Bowery Spring street di New York. Seguiranno, tra il ’67 e il ’70, Paradise II, una piramide capovolta con triangoli ritagliati sui lati – nell’ ’84 al PAC di Milano, nell’ ’89 alla Corcoran Gallery of Art, a Washington D.C. – e Dante’s Inferno, alla Peale Galleries of Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia. Poi ancora Illumine one, in mostra nel ’72 all’Everson Museum di Syracuse, New York, con presentazione di Louis Kahn; The tree with 84 tree trunks, dell’ ’84, Inficosmo, dell’ ’87 – museo di Gibellina –, quella del ’90 all’Allentown

AS: Elisabeth è stata una donna particolarmente attiva, una delle prime femministe americane. La incontrai a Roma, divenne mia moglie. Ci stabilimmo a New York nel ’54, affascinati dalla grande vitalità del primo dopoguerra. Ora vive nell’altra dimensione ma il nostro rapporto non si è mai interrotto. Risiedo ancora in quella città, nell’ultimo lembo di Manhattan, vicino al Fish Market, e al Paris Cafè dove sono di casa – che allora era albergo e laboratorio dove Thomas Edison fece esperimenti fondamentali –. Negli anni 50 ero assiduo all’Art Club della 10ª strada, vitalissimo luogo d’incontro tra artisti. Il primo momento americano con i grandi titani fu un fenomeno unico. L’Espressionismo astratto, la Scuola di New York, spazzarono via in modo drastico tutto ciò che era imitazione dell’Europa. L’America doveva conquistare la propria autonomia spirituale per affermarsi. Senza spirito creativo nella scienza, nelle arti e in letteratura, il Paese sarebbe rimasto grande soltanto per la vastità del territorio. Artisti come Jackson Pollock, Barnett Newman – con il quale ero a stretto contatto – de Kooning, Motherwell, Rothko, Reinhardt, Kline, Smith, Gottlieb, Stamos, Marca-Relli, Baziotes, Guston, Ferber inconsapevolmente si fecero carico dell’impegnativo ruolo che la storia aveva loro assegnato. Fu per me un periodo di coinvolgimento intenso. Tali eventi fondamentali per la cultura artistica americana, mi diedero conferma della validità del passaggio dall’Espressionismo figurativo a quello astratto, da me attuato tra il ’46 e il ’48. Durante i primi anni negli Stati Uniti ho insegnato in varie scuole d’arte. In seguito ho avuto incarichi nelle università. Il più importante è stato alla Pennsylvania University a Philadelphia, dove il direttore della facoltà di Architettura, Gorge Perkins, volle favorire il contatto fra architetti e artisti giovani. Credo che in quella circostanza l’architetto Romualdo Giurgola, ormai famoso, abbia avuto un’influenza notevole. Così nel ’60 decisi di lasciare la direzione della scuola d’arte di Postano per partecipare al primo nucleo della facoltà di Arti Visive della University of Pennsylvania. Mi chiesero di suggerire il nome di un artista italiano in grado di dare un energico contributo culturale. Scelsi Piero Dorazio. Perkins si recò a Roma per conoscerlo e invitarlo a dirigere la nuova facoltà. Avviai le prime classi mentre Piero era costretto a Roma da numerosi impegni. Seguii anche il corso di Pittura. In seguito, con l’intervento di Dorazio, il Fine Arts Department raggiunse un livello non comune. Molti tra i più importanti artisti e

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Anna Guillot e Angelo Savelli

critici americani diedero il loro contributo. Dieci anni più tardi lasciammo l’università: Dorazio continuò la sua ascesa come artista, ed io accettai altri incarichi da diverse università americane. L’ultimo, come visiting professor, fu all’Università del Texas, ad Arlington dove sono tornato ogni semestre per quattro anni consecutivi. Nell’ ’80 ho dovuto interrompere l’insegnamento per impegni artistici e recentemente ho accolto l’invito della Academy of Fine Arts di Philadelphia P.A. dove seguo il lavoro dei giovani pittori. AG: Poi dal ’50, per te l’esperienza grafica diviene funzionale alla pittura, ne sintetizza la costruzione in un linguaggio più serrato. AS: Ho sempre inteso la tecnica come occasione creativa. Quanto alla grafica ho limitato il mio interesse principalmente alla litografia, con una attenzione particolare alla carta, alla quale attribuisco una speciale attitudine espressiva. La cartella Portfolio of eleven prints, del ’61, fu realizzata per Il Torchio di Milano. Non avevo alcuna esperienza specifica. La sperimentazione mi portò al superamento dei vecchi codici retorici. Scaturirono le incisioni a rilievo ottenute con la pressione di forme metalliche sul foglio che chiamai “estampilles”. Subito dopo aderii al progetto della stamperia Romero di Roma per 10 Poeti americani. Si trattava di illustrare. Nemmeno sotto il profilo interpretativo potevo operare con procedimenti tradizionali. Quindi collaudai ulteriormente il rilievo litografico con matrici metalliche includendo la corda, per produrre immagini libere da qualsiasi intenzione illustrativa. In una grafica tra le più interessanti, Ero carta, ora sono forma, la carta fu passata sotto il torchio dopo aver subito un lungo processo. L’opera era spazio, la completa assenza d’immagini sollecitava la meditazione, guidava il pensiero verso un livello più alto spostandolo nell’altra sfera… verso l’etereo, la sostanza imponderabile oltre il limite dell’atmosfera. AG: Sono tue le parole: «White: not subject of it self / not visual / not simple / not spiritual / no ‘more is less’ / not psycological / not religious / not ‘minimal’ / not geometric / no reduction / nothing of the solar spectrum / not litterary / no idea of the beautiful / idea of feelings?... / not political / nothing of the pure / not mistic / not emotional / not silent / no confessions / nothing of the light…». Aggiungeresti qualcosa? AS: Una sola cosa: li comprende tutti.

L’intervista, una delle ultime rilasciata dall’artista prima della sua scomparsa, risale alla permanenza di Angelo Savelli in Sicilia in occasione della sua personale negli spazi espositivi della nostra redazione catanese. È stata pubblicata su Carte d’Arte Internazionale nel settembre 1995.

ANGELO SAVELLI Shelter 12th Floor MARCA Museo delle Arti, Catanzaro

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FRANCO FANELLI

La passione e il segno

Silvia Freiles

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unto di riferimento indiscusso della ricerca incisoria in Italia, Franco Fanelli da decenni dilata ed approfondisce quasi ossessivamente alcuni nuclei espressivi fondanti la sua opera che, dagli scudi cinquecenteschi degli anni Ottanta, fino alle ultime prove caratterizzate dal visionarismo antiquario e geologico che ne ha permesso il troppo immediato accostamento a Piranesi (con il quale condivide la passione per l’archeologia, per l’architettura e varie suggestioni vedutistiche), è percorsa dalla volontà di sperimentare, variare ed attuare con minuzia - questa sì settecentesca - di tratteggio un’ars sottilissima ma irta di imprevisti ostacoli e innate resistenze della materia quale è quella dell’Incisione. Ma per comprendere l’opera di Fanelli sono utili anacronistiche sovrapposizioni di lettura? Se è vero che anche nella tradizione letteraria otto/novecentesca da Gozzano a Pessoa, da Verne a Salgari, lo sguardo sul passato si configura come studio dell’obsoleto, di un mondo fantasmatico in cui la mente lacerata dalla società del consumo può sprofondare alla ricerca di un altrove metafisico e salvifico da declinare sia in senso temporale (la Roma classica, il Medioevo), che geografico (l’Oriente, l’America), le acqueforti di Fanelli presentano tuttavia uno stratificato gioco di rimandi segnici, di sottocodici linguistici, di evoluzioni citazionistiche ed autocitazionistiche, di accennati tranelli che svelano la natura squisitamente postmoderna dell’operazione compiuta, allontanandola molte miglia dall’assimilazione a modelli del passato. Fanelli non punta alla descrizione di sobri monumenti classici eternati dall’ideale del prèpon visto che, quando ci sono, questi si presentano o già ibridati o in decadenza, né alla riproposizione di un certo rovinismo di maniera, come potrebbe di primo acchito sembrare. I templi (Orange I, 2011; Orange II, 2011), i vasi cinocefali, le imponenti architetture integrate perfettamente nel paesaggio frastagliato dei blocchi di pietra, ultime testimonianze di grandiose civiltà scomparse (Il sogno dell’archeologo, 2010-2011) ma ancora spiranti una vitalità minacciosa, insieme agli altri reperti di Fanelli non sono frammenti di un grande mito di fondazione (il frammento, per sua natura, presupporrebbe un’unità, un tutto che non ci è dato conoscere) ma piuttosto impronte mnestiche, percezioni concettuali improvvisamente riemergenti dal silenzioso fondale della pagina bianca che non incoraggiano né aspirano ad alcuna ricomposizione. Le immagini, infatti, sembrano escludere una fruizione contemplativa o meramente passiva da parte dell’osservatore. Nell’imagery fanelliana la civiltà è contesa ad una natura selvaggia, edenica, lussureggiante, che si palesa in figure dell’irrazionale, come per esempio i babbuini, tradendo l’inimicizia di simmeliana memoria tra lo spirito e la natura che lo sopraffà, tra l’autonomia del progetto che resiste alla violenza distruttiva delle ere e il tramontare del sogno di grandezza culturale dell’uomo, significativamente assente nell’ultima produzione dopo la serie dei “neri”. L’opera di Fanelli mette in scena, in poche parole, l’antagonismo tra il presente, effimero, e il passato di cui rimane il peso grave e bruto della materia immersa nel caos. Quest’ultimo, sintetizzato nel groviglio segnico che persistentemente avvolge, sostiene, permea le figure, testimonia con il non-finito l’arroganza di qualsiasi volontà definitoria, l’impossibilità di ogni appagamento formale - ed etico - seppur nell’immaginazione. In questo senso mi sembra molto appropriato l’uso, da parte di Flaminio Gualdoni, dell’espressione «dèplacement della mente» a proposito

dell’opera di Fanelli che vuole essere ricostruzione fittizia di una memoria collettiva, citazione di un passato che non esiste, reminiscèntia intesa etimologicamente nel senso di “rappresentazione della mente” e dunque alterata, essendo gli oggetti rappresentati privi di riferimenti simbolici codificati: questo il fil rouge che percorre tutta l’opera, se pensiamo agli scudi rabbuiati (Delfica, 1988-89; Eritrea, 1988) citati all’inizio. Nell’epoca sancita dalla fine delle grandi narrazioni, le immagini senza storia di Fanelli si collocano tutte nel presente, col loro offrirsi desolatamente alla possibilità remota di una conoscenza e di un’interpretazione, col loro proporsi come pure simulazioni allo sguardo di uno spettatore che è forse l’unico a salvarsi dalla decadenza e dalla rovina, l’unico in grado di scegliere il proprio passato.

FRANCO FANELLI Eritrea,1988 Acquaforte, acquatinta, vernice molle e puntasecca su rame Lastra 653x493 mm Foglio 987x695 mm

FRANCO FANELLI Urna Cinocefala I, 2005 Acquaforte e puntasecca su rame Lastra 350x200 mm Foglio 540x395

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FRANCO FANELLI Il sogno dell’archeologo, 2010-2011 Acquaforte, acquatinta, vernice molle e puntasecca su rame Lastra 490x537 mm Foglio 615x720 mm pag 26

FRANCO FANELLI Orange 1, 2011 Acquaforte, vernice molle e puntasecca su rame Lastra 700x500 mm Foglio 830x620 mm

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WILLIAM KENTRIDGE Zeno Writing, 2002 Video Collezione MAXXI, Roma

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AVANGUARDIA SENZA FINE

IL DISEGNO DI WILLIAM KENTRIDGE

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Franco Speroni

icordate la scena finale del film Entr’acte (1924) di Rene Clair? Quando una specie di mago/direttore d’orchestra esce dalla bara caduta dalla carrozza e, con la sua bacchetta, fa sparire gli attoniti personaggi che avevano seguito di corsa il feretro? Nel film, il mago/direttore abbozza una sorta di Rewind di tutta la pellicola che fino ad allora aveva avuto le accelerazioni ardite di una spericolata corsa in avanti. Non solo. Superando il limite della scritta FINE (e quindi la fine della storia) il mago tenta di rientrare in scena bucando lo schermo (come poi farà Murakami Saburo in una performance Gutai del 1955) ma con un calcio viene respinto aldilà del telo strappato che, così, si ricompone. Insomma, un procedimento Play – Rewind che svolge e inverte la successione del tempo. Già in questo celebre film dada, che nel titolo stesso (Entr’acte cioè intervallo, intermezzo) alludeva ad un tempo sospeso rispetto a quello della narrazione lineare, c’è in embrione la riflessione sul tempo che William Kentridge ha fatto nei suoi due ultimi lavori: The Refusal of Time esposto a Kassel per Documenta 13 e poi al museo MAXXI di Roma e Refuse the Hour, lo spettacolo messo in scena sempre a Roma, al teatro Argentina. Il primo è un’installazione audiovisiva che nella mostra al MAXXI, curata da Giulia Ferracci con il titolo Vertical Thinking, si contorna di altri lavori dell’artista che ne sostengono il senso; il secondo uno spettacolo/ performance multimediale che, a sua volta, contiene molti elementi presenti nell’installazione. Due lavori complessi nel vero significato del termine, cioè ricchi di implicazioni che non si possono né si devono sciogliere del tutto. A colpo d’occhio, una ricca campionatura di memorie delle avanguardie storiche, in particolare dada e futurisste (citazioni dagli intonarumori di Russolo, ad esempio, o il Metronomo di Man Ray…) ma poi, se si riflette sull’articolazione dei materiali, ci si rende conto che, proprio a partire dalla rivoluzione culturale dadaista, il “mago” Kentridge mette in scena due lavori che allargano quelle tematche. Ne estraggono, si potrebbe dire, quella natura “postmoderna” già implicita nel dadaismo e che si focalizza in particolare nella sovversione del valore della categoria “tempo” (e per estensione di ogni categoria) nella nostra cultura. Categoria tempo, infatti, che grazie a Dada, e poi al Surrealismo, viene destabilizzata dall’introduzione del Caso. Tuttavia, come stavo dicendo, sarebbe sbagliato considerare i due lavori un caleidoscopico omaggio al passato, perché Kentridge è un artista che, come ha bene argomentato Rosalind Krauss1 , reinventa il medium. Cioè è in grado di reinventare Dada estraendone quella che a posteriori potremmo chiamare la radice postmoderna: l’aspetto più radicale della rivolta culturale delle avanguardie. Il rifiuto del tempo, il rifiuto dell’ora, dunque, è il tema di queste due opere che si basano ancora sulla centralità metodologica del disegno e, aggiungerei, dei suoi corollari che sono la messa in scena teatrale, la narrazione cinematografica, persino le arie musicali ecc… . E’ quindi, ancora, il valore molto dilatato del disegno ciò che l’artista affronta. Il disegno che, come la scrittura, articola il pensiero, lo svolge fino a chiuderlo in una forma irreversibile. Lo spettacolo Refuse the Hour inizia con la storia del mito di Perseo il cui destino comporterà che l’eroe uccida il re Acrisio. Nonostante i tentativi che il re compie per cercare di difendersi da una profezia che gli aveva predetto questa sorte, ebbene, non c’è nulla da fare. Il tempo, come dire, è segnato, anzi disegnato da una forza imperscrutabile. Da notare il fatto che questa storia, Kentridge bambino se la sente raccontare dal padre in treno, quindi in una condizione determinata dal percorso lineare dei binari, dai quali, come si sa, non si può uscire. Qui è già contenuta in embrione la differenza tra il Fato e il Caso. Il primo è determinato al di fuori della storia con i suoi conflitti, è l’ideologia della necessità, il secondo, invece, irrompe nella storia portandovi elementi imprevisti2 . Per traslato, dunque, è già accennata la differenza tra un disegno che chiude e uno invece che apre; che, come

l’antica figura simbolica del Caso o Fortuna (la giovane dal volto coperto dal ciuffo in equilibrio precario su una sfera) è disponibile all’indeterminato. Ma vediamo meglio. Per cercare di districarci nella fitta trama di relazioni, proviamo a pensare che il disegno sia il minimo comune denominatore di ogni progetto di Kentridge. In Occidente, in particolare, il disegno è stato scrittura visiva in quanto narrazione verosimile, naturalistica. Il disegno, come la scrittura, fissa l’idea, indica le sequenze, la successione temporale. Tutto questo, che nella cultura rinascimentale raggiunge l’apoteosi, entra in crisi quando il disegno si trasforma in gesto, in segno reversibile perché più simile (prossemicamente) all’atto performativo che alla scrittura. Pensiamo, ad esempio, a quando Rauschenberg cancellò un disegno regalatogli da de Kooning trasformandolo in un monocromo intitolato Erased de Kooning (1953), “avviando”, così, il neo-dadaismo. C’era già allora una forte corrispondenza tra cancellatura e inversione del tempo. Ricordiamoci anche, infatti, che i monocromi inaugurati da Rauschenberg fecero parte della prima performance organizzata da John Cage al Black Mountain College nel 1951, intitolata 4’33’’, basata sul silenzio e la sua capacità di afferrare – come del resto concettualmente i monocromi - l’evento casuale. Anche Kentridge lavora con le cancellature. Tanto nell’installazione, quanto nello spettacolo, le cancellature corrispondono all’inversione temporale di una sequenza lineare, ad un Rewind dal quale può partire una variante della trama. In Refuse the Hour, Kentridge pronuncia frasi che poi inverte, mimando il desiderio di rimangiarsi le parole. La cantante Joanna Dudley risucchia le arie di Berlioz cantate dalla sua antagonista Donatienne Michel-Dansac e, alla fine, tutto viene risucchiato acusticamente in una sorta di buco nero, dove il tempo non esiste più. Lo stesso vale per le immagini, le sequenze narrative cinematografiche, i passi dei danzatori. Tutto può essere invertito rispetto ad un ordine logico sequenziale, perché quest’ordine è una convenzione culturale come la misurazione del tempo: astrazione ideale rispetto al caos dell’esperienza. E qui entra in gioco la collaborazione dell’artista con Peter Galison, fisico e storico della scienza, che ha riflettuto sul tema della relatività e su come le astrazioni convenzionali delle unità di misura – la misurabilità condivisa del tempo è tra queste – abbiano costruito l’apparato logico e retorico, nonché le infrastrutture dell’ordine sociale3 . Anche il Fato, il Destino, con la sua linearità incontrovertibile, conferma quest’ordine, anzi ne è l’ideologia: qualcosa che oggi, con termini aggiornati all’attualità, si potrebbe chiamare il “pensiero unico” della necessità. Il disegno del Caso, e non del Fato, è l’esatto opposto perché apre all’inedito e quindi all’invenzione. Il disegno di Kentridge (sicuramente più evidente in altri precedenti lavori come i disegni animati) è un disegno che decostruisce per raccontare la storia non come sviluppo ma come palinsesto, come possibilità. C’è una crescita verticale della storia più che uno sviluppo orizzontale. È una storia vortice di matrice warburghiana e benjaminiana quella che emerge, cioè basata sul vortice generato dall’ accostamento delle immagini che determina un archivio post-testuale, al di là, quindi, di un luogo tassonomicamente ordinato4 . Il caso aveva già realizzato i collages di Hans Arp e “i disegni” generati sul Grande Vetro di Marcel Duchamp con l’incrinatura delle lastre in seguito ad un trasporto incauto. Similmente, il caso determina l’evoluzione dei disegni di Kentridge perché l’artista non lavora con un piano preordinato, né con una sceneggiatura o uno storyboard da animatore professionista. La “trama” deriva dalla meditazione sui singoli dettagli, dai ripensamenti, dalle associazioni suggerite dagli oggetti (telefoni in bachelite, macchine da scrivere, caffettiere fumanti, metronomi…). Come scrive Krauss, la trama nasce nello spazio che sta tra la macchina da presa e il tavolo da disegno. Durante questo piccolo spostamento, durante questa piccola passeggiata meditativa, quando l’artista si alza dal tavolo per andare alla macchina da presa per poi tornare di nuovo al tavolo, nasce uno sviluppo

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WILLIAM KENTRIDGE How do I Know VP1 The Refusal of Time Still video Courtesy Fondazione MAXXI, Roma

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che somiglia agli effetti digitali del morphing usati nel cinema per rendere fluide le trasformazioni. Ma ottenere l’effetto morphing senza tecnologia significa invertire il processo storico. Rifare un effetto speciale della cinematografia contemporanea utilizzando un medium antico come il disegno è, a sua volta, una deviazione/eversione creativa, è la reinvenzione del medium disegno e, nello stesso tempo, la reinvenzione della tecnologia digitale stessa poiché l’autore sovrappone, come in un palinsesto, i risultati dei due procedimenti che non sono distinguibili osservando solo il prodotto finale. Insomma, nulla è dentro una logica evolutiva così necessaria che non possa essere rovesciata, generando, magari, ibridazioni tra tecniche e quindi tra logiche differenti. Nell’installazione The Refuse of Time tutto questo torna. Lo spazio espositivo potenzia il senso di disordine e frantumazione della narrazione. Più che di “installazione” bisognerebbe parlare di una vera e propria piccola mostra che comprende materiali installativi, film, audio, tutti organizzati per costruire un palinsesto. In questo caso è la museografia, il disegno espositivo che costruisce l’ambiente, a contenere il valore metodologico che Kentridge dà al disegno, creando un luogo assai vicino al fascino delle Wunderkammern, dove il dettaglio prevale sulla possibilità dello sguardo totalizzante. Dentro questo spazio, circondato da cinque schermi5 dove un film muto racconta la stessa storia ma in maniera asincrona e con delle varianti possibili6, tra strumenti che ricordano, di nuovo, gli intonarumori futuristi, campeggia una macchina che richiama sia le invenzioni leonardesche sia la macchina della tortura che Kafka descrive Nella colonia penale. La macchina della tortura di Kafka ci riporta al meccanismo incontrovertibile del rapporto trasgressione - punizione. E’ la macchina che non sente ragioni perché “la colpa è sempre fuori dubbio” (come scrive Kafka). E’ l’equivalente di un ordine che si fonda sulla necessità senza ammettere altre possibilità. La macchina leonardesca è invece l’emblema dell’invenzione, del percorso creativo che trova una via inedita per raggiungere uno scopo. Nel congegno fatto costruire da Kentridge, che richiama contemporaneamente questi due opposti, torna ancora il senso della cancellatura, attraverso il passaggio da un oggetto all’altro per analogie e divergenze, come appunto l’artista fa quando disegna un oggetto che ne suggerisce un altro: da una confortevole caffettiera fumante può derivare l’alienante ciminiera di una fabbrica, lasciando il fumo e sostituendo la caffettiera cancellata con il profilo di una ciminiera. La struttura a “palinsesto” di questi due opposti – macchina della tortura e macchina dell’invenzione - genera una macchina celibe, di nuovo di origine duchampiana, il cui scopo non è la funzione, cioè il rapporto univoco causa – effetto, ma la creazione di un percorso euristico aperto e problematico, fondato sul valore poetico e poietico della ricerca attraverso percorsi non lineari del pensiero. Da questo punto di vista, torna anche una certa affinità teorica col senso che il disegno aveva per Leonardo e cioè strumento per la conoscenza sperimentale finalizzata a generare ciò che prima non esisteva. Torniamo, in conclusione, allo scontro tra Fato e Caso: tra “disegno del destino”, lineare e indiscutibile, e invenzione che ci porta a cambiare il punto di vista. Il disegno (l’arte ) di Kentridge è un segno senza fine, come il suo cinema la cui trama è fatta di ripensamenti, di cancellature, di passi indietro, perché contraddice il movimento inteso come successione necessaria. Dello stesso cinema delle origini, infatti, tornano gli elementi più fantasmatici alla Meliès e le sperimentazioni dadaiste rispetto anche alla cronofotografia di Muybridge e all’idea di sviluppo che essa conteneva. Muybridge che comunque è citato e, ovviamente, contraddetto. Il movimento in quanto sviluppo, in Kentridge, diventa un falso movimento come era accaduto nel Nudo che scende le scale di Duchamp. Per questo il suo disegno (la sua arte) è un segno senza fine nel doppio significato che la parola fine comprende: fine come chiusura

della forma e della trama secondo un progetto obbligato, fine come obiettivo perseguibile in modo assoluto e necessario. Al contrario l’apertura del suo disegno visualizza il valore del processo, del ripensamento e della deviazione, della possibilità infinita di riscrittura tipici di un percorso euristico, ironico e leggero. C’è, infatti, sicuramente ironia, forse, persino nei confronti del ruolo emergente dell’ entropia e dell’informe nel discorso della critica d’arte7 e quindi autoironia ma quello che resta determinante è che l’ironia genera un pensiero verticale (Vertical Thinking è proprio il titolo della mostra del MAXXI) per opporre alla legge della necessità la ricerca della possibilità e questo, inevitabilmente, con spirito leggero, perché la leggerezza può contrapporre la possibilità alla necessità, la differenza alla ripetizione. Un pensiero verticale profondamente post-moderno, se così vogliamo chiamare la versione più radicale del moderno, perchè oppone la possibilità di molte vie alla necessità di un’unica strada, e quindi, anche, profondamente dada.

1 Krauss R., (2000), “La roccia”: i disegni per la proiezione di William Kentridge, in Id., Reinventare il medium. Cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005. 2 La prima riflessione scientifica moderna su queste tematiche è il celebre Monod J, (1970), Il caso e la necessità. Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea, Mondadori, Milano, 1971 3 Cfr. Galison P., (2003), Gli orologi di Einstein, le mappe di Poincaré. Imperi del tempo, Raffaello Cortina editore, Milano, 2004 4 Cfr. Didi-Huberman G., (2000), Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007; Speroni F., L’archivio post-testuale. Aby Warburg e il suo Atlante della memoria, in Pireddu M. e Serra M. (a cura), Mediologia. Una disciplina attraverso i suoi classici, Liguori, Napoli, 2012. 5 Come nei Panorami nelle metropoli del XIX secolo che così escludevano la possibilità di un punto di vista unico. Per questo motivo, tra l’altro, da considerarsi tra le origini della partecipazione emozionale e individuale del fruitore verso i prodotti della cultura visiva, cfr Speroni F., (1995) Sotto il nostro sguardo. Per una lettura mediale dell’opera d’arte, costa& nolan, Milano 2005. 6 Lo stesso accade nel film Sliding doors di Peter Howitt del 1998 che a sua volta rielaborava il film Destino cieco di Krzystof Kieslowski del 1981, entrambi due riflessioni sul rapporto trama – narrazione - destino. 7 Come sostiene Burgio V., William Kentridge, in “alfabeta 2” 16/12/2012, http://www. alfabeta2.it/2012/12/16/william-kentridge/, avendo come riferimento, probabilmente, proprio Rosalind Krauss.

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WILLIAM KENTRIDGE Vertical Thinking Foto Flaminia Nobili Fondazione MAXXI, Roma

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WILLIAM KENTRIDGE Refuse the Hour, settembre 2011 Musiche di Philip Miller Coreografie di Dada Masilo Foto John Hodgkiss Teatro Argentina, Roma Produzione Romaeuropa Festival 2012 e Teatro di Roma

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LIAM GILLIC

Four Propositions Six Structures

LIAM GILLICK Four Propositions Six Structures, 2012 Veduta parziale della mostra Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli LIAM GILLICK Four Propositions Six Structures, 2012 Veduta parziale della mostra Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli pag 34

LIAM GILLICK Four Propositions Six Structures, 2012 Veduta parziale della mostra Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

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CARACALLA PARADISO CONTEMPORANEO DI MICHELANGELO PISTOLETTO

MICHELANGELO PISTOLETTO Autoritratto con lente, 1975 Fotografia su carta cornice di legno con chiave 60x50 cm Courtesy RAM radioartemobile MICHELANGELO PISTOLETTO Il Terzo Paradiso a cura di Achille Bonito Oliva, Terme di Caracalla in collaborazione con RAM radioartemobile

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Michelangelo Pistoletto traccia il Terzo Paradiso su uno specchio Terme di Caracalla

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Che cos’è il Terzo Paradiso?

È

la fusione tra il primo e il secondo paradiso. Il primo è il paradiso in cui gli esseri umani erano totalmente integrati nella natura. Il secondo è il paradiso artificiale, sviluppato dall’intelligenza umana attraverso un processo che ha raggiunto oggi proporzioni globalizzanti. Questo paradiso è fatto di bisogni artificiali, di prodotti artificiali, di comodità artificiali, di piaceri artificiali e di ogni altra forma di artificio. Si è formato un vero e proprio mondo artificiale che, con progressione esponenziale, ingenera, parallelamente agli effetti benefici, processi irreversibili di degrado a dimensione planetaria. Il pericolo di una tragica collisione tra la sfera naturale e quella artificiale è ormai annunciato in ogni modo1. Il progetto del Terzo Paradiso consiste nel condurre l’artificio, cioè la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la politica a restituire vita alla Terra, congiuntamente all’ impegno di rifondare i comuni principi e comportamenti etici, in quanto da questi dipende l’effettiva riuscita di tale obiettivo. Terzo Paradiso significa il passaggio ad un nuovo livello di civiltà planetaria, indispensabile per assicurare al genere umano la propria sopravvivenza. Il Terzo Paradiso è il nuovo mito che porta ognuno ad assumere una personale responsabilità in questo frangente epocale. Il Terzo Paradiso è raffigurato simbolicamente da una riconfigurazione del segno matematico dell’infinito. Con il “Nuovo Segno d’Infinito” si disegnano tre cerchi: i due cerchi opposti significano natura e artificio, quello centrale è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo generativo del Terzo Paradiso. Michelangelo Pistoletto

1 Il termine artificio ha come radice la parola arte, perciò l’arte assume oggi essenziali responsabilità riguardo all’intero mondo artificiale.

Estratto dal volume Michelangelo Pistoletto Il Terzo Paradiso. Courtesy Ed Electa - RAM radioartemobile

MICHELANGELO PISTOLETTO The Mirror of Judgement, 2011 Foto Sebastiano Pellion Serpentine Gallery, London

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GIANNA NANNINI / MICHELANGELO PISTOLETTO Il Terzo Paradiso – Mama, 2007 Orchestra di Stracci Boilers, glass, fabric 200 x 250 cm Courtesy RAM radioartemobile

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PRESS IMAGES

RICHARD ARTSCHWAGER About Wood Chair Credit: Camden Arts Centre David Nolan Gallery, New York

RICHARD DEACON Four by Four, 2012 Powder coated steel 194x209x180 cm Marian Goodman Gallery, New York

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JONAS MEKAS To Petrarca, 2009 Digital print on photographic paper on aluminium
 Dimensions variable
Installation view, 
 2012 Jerry Hardman-Jones Serpentine Gallery, London


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LAWRENCE WEINER Stasis as to Vector all in due course, 2012 Language & the materials referred to Dimensions variable Lisson Gallery, London

KIKI SMITH Chorus The Last Lot project space on 46th Street and 8th Avenue in New York City Photo James Ewing Courtesy of Art Production Fund, New York KEITH ARNATT Works 1967 – 1996 Mirror-lined pit (grass bottom),1968 Black and white print 29.6 x 30.8 cm Curtesy Maureen Paley, London

DANH VO Chung ga opla We The People (detail) Rame Photo Nils Klinger Villa Medici, Roma

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DANIEL ARSHAM Hollow Figure, 2012 in collaboration with The Fabric Workshop and Museum, Philadelphia Aqua resin, fiberglass, epoxy Photo Credit Carlos Avendaño ALICE ANDERSON Library, 2012 Series of 50 books bind with copper thread Whitechapel Gallery, London

ROBERT BARRY Light and Dark The Projections of Robert Barry 1967 - 2012 Galerie Yvon Lambert 2012 Courtesy of the artist and Yvon Lambert Photo Rebecca Fanuele

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JASPER JOHNS Light Bulb II, 1958 Sculp-metal 3 1/8 x 8 x 5 in. (7.9 x 20.3 x 12.7 cm) Collection of the artist © Jasper Johns / Licensed by VAGA, New York, NY San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco

ROSEMARIE TROCKEL A Cosmos Lucky Devil, 2012 Stuffed crab and Perspex base with fabric 78 x 78 x 78 cm Private collection © Rosemarie Trockel, VG Bild-Kunst, Bonn 2012 Courtesy Sprüth Magers Berlin, London Serpentine Gallery, London ERWIN WURM De profundis Ohne Titel (Michael) 5, 2012 © Erwin Wurm/Albertina, Wien. VBK, Wien 2012 Albertina, Wien

ALICE CHANNER Tectonic Plates, 2012 Mirror-polished stainless steel, cast bronze, cast aluminium, accordion pleated hi-tech lamé, elastic, and nail polish 16.5 x 68 x 58 inches Lisa Cooley, New york

GÜNTHER UECKER Optische Partituren II (Optical Scores II), 2012 Paint (glaze) on canvas 78 3/4 x 63 in. (200 x 160 cm) Haunch of Venison, London

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RACHEL WHITEREAD Three of Live, 2012, The Frieze of Whitechapel Gallery, London Bronze and gold leaf RACHEL WHITEREAD Gold Leaf, 2012, Bronze and gold leaf 14 x 9.5 x 2.5 cm Whitechapel Gift edition Whitechapel Gallery, London

GIUSEPPE PENONE Spazio di Luce, 2012 (particolare) Bronzo Whitechapel Gallery, London ALAN SHIELDS Find a Penny,1984-85 Watercolor, stitching on handmade paper 21 x 21 inches (53.3 x 53.3 cm) Greenberg Van Doren Gallery, New York JOSIAH McELHENY The Spatial Body (after Fontana), 2012 Hand blown and carved grey moir glass, wood, low iron glass and steel 64 3/4 x 32 1/2 x 20 1/2 in. (164.5 x 82.6 x 52.1 cm) White Cube, London

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MARIKO MORI Transcircle 1.1 (Indoor), 2004 Stone, corian, LED, real time control system Overall dimensions: 336 cm Diameter 110 x 56 x 34 cm (each stone) The Mori Art Collection, Tokyo © Mariko Mori Photo Ole Hein Pedersen Royal Academy of Arts, London MARIKO MORI Tom Na H-Iu II, 2005-06 Glass, stainless steel, LED, Real time control system 427 x 156.3 x 74.23 cm On loan from the Mariko Mori Studio © Mariko Mori Studio Photo Richard Learoyd Royl Academy of Arts, London

ANTONY GORMLEY Model Loss III, 2012 74 x 27 3/8 x 26 15/16 in. (188 x 69.6 x 68.5 cm) Cast iron White Cube, London SOL LEWITT Wall Drawing #443: Asymmetrical Pyramid with Color Ink Washes Superimposed Color ink wash Marian Goodman, Paris

MARIO CEROLI Faccia a faccia, 2012 Veduta dell’allestimento (al centro Mario Ceroli) Foto Aurelio Amendola Museo d'Arte Moderna di Bologna, MAMbo

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25/28 GEN/JAN 2013 BOLOGNA/ITALY www.artefiera.bolognafiere.it

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