Periodico di approfondimento culturale - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013- Prezzo euro 5
“...non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini...” Elio Vittorini, 1945
Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo
“Scrivere non è descrivere. Dipingere non è rappresentare.” George Braque
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Padana Spedizioni S.a.S.
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
VESPERTILLA Direttore Responsabile: Serena Petrini
Doganalisti specializzati in Mostre d’Arte Padova Rovigo Vicenza
Direttore Editoriale: Luigi Silvi
Tutte le operazioni doganali e le istanze presso la Sovrintendenza alle Belle Arti p er re p e r ti a rc heologici e opere d’arte p ro v e n i e n t i d a l l ’ e s t e ro e i n v i a t i a l l ’ e stero per esposizioni e scambi culturali.
Vicedirettori: Serena Epifani, Francesca Martellini
PADANA SPEDIZIONI S.A.S. SPEDIZIONI E TRASPORTI INTERNAZIONALI
Condirettore: Ilaria Lombardi
Responsabile settore teatro: Mariella Demichele Segretaria di Direzione: Maria Pia Monteduro
Hanno collaborato a questo numero: Concita Brunetti, Mariella Demichele, Serena Epifani, Marina Humar, Ilaria Lombardi, Francesca Martellini, Maria Pia Monteduro, Sibilla Panerai, Laura Ruzickova, Luigi Silvi, Ofelia Sisca. La collaborazione sotto ogni forma è gratuita
Impaginazione grafica: Maria Pia Monteduro Editing: Serena Epifani
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VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
Teatro
SEZIONE SPETTACOLO SOMMARIO
TEATRO
VERITÀ INUTILE ORPELLO, ONESTÀ ETERNA SCONFITTA Un marito ideale, Teatro Qurino, di Concita Brunetti
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INTERPRETARE PIRANDELLO: PERCHÈ? Il fu Mattia Pascal, Teatro Quirino, di Francesca Martellini
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DUE GRANDI FRATELLI SERVILLO PER EDUARDO Le voci di dentro, Teatro Argentina, di Maria Pia Monteduro
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LA DANZA MACABRA DEL VIVERE AL BUIO I giorni del buio, Teatro Argentina, di Maria Pia Monteduro
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SULLE TRACCE DI UN GENIO Io, Ludwig van Beethoven, Teatro Belli, di Maria Pia Monteduro
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DISCUTIBILE TENTATIVO DI AFFRONTARE L’OMOFOBIA Still Life, Teatro Argentina, di Mariella Demichele
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TRAGICO MINUETTO DI CORPI PRESENTI NELL’ASSENZA Judit, Teatro di Documenti, di Concita Brunetti
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MERCUZIO
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DONNA DI CLASSE ATTRICE DI CARISMA Ricordando Rossella Falk, di Maria Pia Monteduro
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LEONESSA INDOMITA Ricordando Franca Rame, di Maria Pia Monteduro
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SERVILLO COME MASTROIANNI La grande bellezza, Paolo Sorrentino, di Luigi Silvi
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SUL FILO DEL RASOIO SOCIALE Gli equilibristi, Ivano De Matteo, di Maria Pia Monteduro
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VIOLETA PARRA E LA CANZONE POPOLARE Violeta Parra Went to Heaven, Andrés Wood. di Luigi Silvi
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BEATA SOLITUDO SOLA BEATITUDO? Viaggio sola, Maria Sole Tognazzi, di Maria Pia Monteduro
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POLITICA TRA MARKETING E MERCATO No. I giorni dell ’arcobaleno, Pablo Larrain, di Luigi Silvi
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NON SI TACITI LA COSCIENZA Muffa – Ruf, Ali Aydin, di Maria Pia Monteduro
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ODIO RISPOSTA ALLA CRISI La quinta stagione, Peter Brosens e Jessica Woodworth, di Luigi Silvi
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RESTAURATO TO BE OR NOT TO BE DI ERNST LUBITSCH Vogliamo vivere, Ernst Lubitsch, di Ofelia Sisca
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FELICE CONNUBIO TRA SPORT E SPETTACOLO Ricordando Esther Williams, di Maria Pia Monteduro
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E ALTRE UTOPIE REALIZZATE ,
di Mariella Demichele
CINEMA
MUSICA
MA QUANDO SCOPPIA LA RIVOLUZIONE? Franco Battiato, Auditorium Parco della Musica, di Maria Pia Monteduro
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Teatro
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VERITÀ INUTILE ORPELLO, ONESTÀ ETERNA SCONFITTA UN MARITO IDEALE, Teatro Quirino
“Gli uomini possono essere analizzati, le donne, l ’irrazionale, possono solo essere ammirate ”. Oscar Wilde Il testo andò in scena per la prima volta a Londra nel 1895, ma ad assistervi oggi non si direbbe affatto per l ’eterna attualità del testo. Un marito ideale, opera tra le migliori del “famigerato dandy ” Oscar Wilde, è portata in scena dalla compagnia Lavia Anagni, con la regia di Roberto Valerio. Il regista, che ha curato anche la traduzione, ha liberato lo spirito di Wilde dal pantano del luogo comune. La questione che si dibatte sulle tavole del palcoscenico non può lasciare nessuno indifferente, perché riguarda quanto mai da vicino tutti: esiste un legame fra la moralità pubblica e quelle privata oppure tutto è lecito? Questo tema, di cocente attualità, viene svolto attraverso conversazioni brillanti, dialoghi pungenti, massime e aforismi di inusitata precisione. Valerio riserva fin da subito una sorpresa, spiazzando il pubblico: accoglie con la fine della commedia laddove tutti si attendevano l ’inizio. Inchino, applausi, e poi via con il rewind. La scena, che si offre mentre gli attori si muovono al contrario, è di grande impatto: due enormi strutture di legno, dentro cui basculano dei pannelli che, aprendosi e chiudendosi modificano l ’ambiente e danno vita alla scena. Si comincia con immancabili temi di una conversazione borghese, politica, commercio, donne, dove si rivelano opinioni discordanti tra le parti. In scena gli archetipi di uomini e donne della società inglese. Il primo è Mrs. Cheveley (Valentina Sperlì eccellente), spregiudicato e moderno membro dell ’alta società, donna di potere molto interessante con la passione per la politica. Ma non si dimentichi che nelle opere di Wilde nulla è ciò che appare e la perfezione affettata è pura apparenza. La dama è giunta a Londra per ricattare il giovane e morigerato Sir Chiltern (Roberto Valerio), giovane sottosegretario agli Affari Esteri, il secondo archetipo. L ’astuta donna è in possesso di una lettera che testimonia una scorrettezza di cui Sir Chiltern si è macchiato all ’inizio della sua brillante carriera politica. A condire il piatto già ricco, Lady Gertrude Chiltern (Chiara Degani), moglie-bambina affetta da grave ingenuità, e poi, ultimo ma non per importanza, l ’alter-ego wildiano Lord Goring
(Pietro Contempo), in apparenza leggero e contrario all ’utile, ma che utile sarà a dirimere la questione. La giovane moglie mette subito in chiaro la sua avversione per la navigata Mrs. Cheveley, così distante dai suoi ideali di limpidezza. Ma, come le spiega il suo dolce maritino, gli affari della politica e i suoi ingranaggi spingono al compromesso, le cose cambiano al variare delle circostanze. E alla tenera donna le circostanze, ovvero la corruzione passata di suo marito, sono sconosciute, almeno per ora. Ma la verità le verrà presto rivelata, poiché il marito si rifiuta di accettare il ricatto e allora il suo stesso amore per il marito vacilla con l ’onore di quest ’ultimo. Eppure ella non accetta le ragioni del compromesso, che per lei è vergogna. Arriva la sera sui problemi di quest ’apparente perfetta società e il tramonto trapela dai pannelli che si muovono per variare la scena. Artur, l ’amico, il mercuzio, il giullare, fa notare al pubblico e al giovane giglio-moglie come il vangelo dell ’oro non sempre funzioni e che i penitenti sono amati a meno che essi non siano politici. Infatti un politico non può pentirsi, come farebbe poi a parlare di moralità due volte al giorno, davanti a un pubblico totalmente immorale, essendo esso stesso e col bene placido di tutti, un immorale? Dunque anche Gertrud dovrebbe accettare la sporcizia dell ’animo di suo marito e gettarla sotto il tappeto del silenzio. In fondo tutti hanno i piedi di creta! Si arriva allo scontro diretto tra le due dame: il bene contro il male, persino i loro abiti gridano questa contraditio terminis: la sposina, avvolta in un vestito da fata turchina e la ben navigata dama, ammantata di rosso e nero. Ma alla fine, il bene della società e della giovane coppia trionfa grazie al salvifico intervento del leggiadro amico lord Goring che assesta un colpo gobbo contro la scaltra dama in rosso, costretta a retrocedere e, come se non bastasse, il giovane politico ha l ’occasione di fare passi in avanti nella sua carriera. Così tutto è bene ciò che finisce bene, in barba alla verità, inutile orpello, e all ’onestà, eterna sconfitta. Per consolazione al pubblico resta la splendida recitazione degli attori, tutti perfetti nei tempi e nelle pause, capaci di arricchire un dialogare già di gran pregio. Concita Brunetti
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Lady Gertrude Chiltern (Chiara Degani), Sir Chiltern (Roberto Valerio).
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Teatro
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Teatro
Mattia Pascal (Tato Russo).
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Teatro
INTERPRETARE PIRANDELLO: PERCHÉ?
IL FU MATTIA PASCAL, Teatro Quirino
Sul calendario ad anelli aperto sulla scrivania di Pirandello, all ’ultimo piano del villino in una traversa di via Nomentana, a Roma, in data 9 dicembre 1936 il figlio Stefano annotava: “Sempre a letto ”. Lo scrittore morì il giorno successivo, per una polmonite contratta mentre assisteva alle riprese del film Il fu Mattia Pascal del regista e sceneggiatore Pierre Chenal, ispirato all ’omonimo romanzo. L ’autore aveva seguito attivamente le scene romane, girate soprattutto negli studi di Cinecittà che allora si trovavano in via Tuscolana. L ’anno successivo uscirono due versioni del film – in francese e in italiano – entrambe girate da Chenal che scelse Pierre Blanchar per il ruolo del protagonista; titolo originale L ’homme de nulle part, richiamo alla condanna del protagonista a “porsi fuori dalla vita ” e da ogni meccanismo sociale. Una prima versione cinematografica del romanzo risaliva al 1926 con la regia del francese Marcel L ’Herbier, la più recente è quella diretta da Mario Monicelli nel 1985, Le due vite di Mattia Pascal, con Marcello Mastroianni che incarna le peripezie dello squattrinato bibliotecario. Il romanzo era stato scritto dopo la grave crisi familiare del 1903, che mise Pirandello in difficili condizioni economiche e scatenò la malattia mentale della moglie. Fu pubblicato a puntate sulla rivista Nuova Antologia nel 1904, e il notevole successo introdusse l ’autore presso il più importante editore del tempo, Emilio Treves. A pochi anni dopo risale l ’esplicito collegamento al saggio su L ’umorismo, che uscì nel 1908 con la dedica “Alla buon ’anima di Mattia Pascal bibliotecario ”. I due capitoli iniziali del romanzo, con la Premessa, e l ’intero capitolo XII, dedicato allo strappo del cielo di carta di un teatrino (che enuncia la trasformazione di Oreste, tipico eroe della tragedia, in un moderno Amleto) sono a tutti gli effetti dei contributi teorici alla poetica dell ’umorismo: i personaggi moderni sono incerti e problematici perché intuiscono l ’oltre che c ’è nelle cose, ma sono incapaci di coglierlo, riducendosi a marionette lontane da azioni concrete. Il fu Mattia Pascal fu il primo successo letterario di Pirandello; sebbene a partire dal 1915 la sua scrittura si orienti decisamente verso il teatro – adattando per la scena gran parte del suo patrimonio di novelle – non si conoscono versioni drammaturgiche del testo firmate dallo stesso autore. Nel 1974 il critico cinematografico Tullio Kezich curò l ’adattamento teatrale del romanzo, che ricevette il suo “battesimo ” al Teatro di Genova con Giorgio Albertazzi e la regia di Luigi Squarzina; nel 1986 il copione è stato ripreso dalla produzione del Teatro di Roma, messo in scena da Maurizio Scaparro e interpretato da Pino Micol. Un articolo di La Repubblica, del 6 aprile dello stesso anno, ricorda che “è soprattutto il rapporto tra Pirandello e Roma che Scaparro ha voluto mettere in evidenza in questo spettacolo, un rapporto che – ciascuno con le sue peculiarità – hanno vissuto quanti, da altre parti d ’Italia, si sono trasferiti nella capitale, e pur essendone condizionati, hanno a loro volta contribuito a mutarla ”. Nonostante l ’adattamento del 1974 abbia superato (con grande successo di critica e di pubblico) le migliaia di rappresentazioni, Tato Russo cura personalmente la versione teatrale dello spettacolo, del quale si riserva anche il ruolo di
regista e di protagonista. L ’impresa (ardua) presentava dei rischi: Il fu Mattia Pascal è uno dei testi più letti del Novecento, strutturato in tre parti che corrispondono a diversi modelli di romanzo, esposti in una sorta di lungo flash back dall ’ormai “fu ” Mattia Pascal che – come estraneo alla vita – racconta in prima persona la propria storia. Attraverso le vicende di Pascal e di Adriano Meis, Tato Russo sembra chiedersi – con tono shakespeariano – a cosa corrisponda un semplice nome proprio, e per viaggiare nel mondo delle convenzioni e dei modi d ’apparire sceglie di allontanarsi da una proposta troppo vincolata alla struttura del testo, per riscrivere la commedia in chiave autoironica e leggera. Ne nasce un personaggio “esile ”, che ride di sé in maniera fastidiosa e si lascia sopraffare dagli eventi come se venisse trascinato di peso da una scena all ’altra. L ’inettitudine, il doppio, il sogno di un ’evasione impossibile che alla fine trasforma consapevolmente Mattia/Adriano in un antieroe sono alcune delle tematiche più forti del romanzo, ma nella versione teatrale di Russo ogni aspetto è dilatato e rallentato al punto di ottenere l ’effetto opposto, ovvero quello di distrarre lo spettatore che si perde tra scene al rallenty e digressioni musicali. Il primo atto è quasi interamente dedicato alla parte idillico-familiare del romanzo, ambientata tra la casa e la biblioteca di Miragno, e sfoltire alcuni dei litigi domestici avrebbe aiutato a introdurre con maggior freschezza la scena della roulette, che – al contrario – passa quasi in sordina. Ogni attore, per scelta di regia, porta in scena più ruoli, come se tutti i personaggi fossero coinvolti nello scambio di identità e nella tendenza allo sdoppiamento che caratterizza la storia. Nelle battute viene ovattato ogni riferimento ai soliloqui, segnati dal ricorso continuo alle interiezioni e alle domande retoriche, in uno stile già di per sé “recitativo ” che – pur togliendo fluidità al romanzo – animava il testo di una espressività grottesca che manca totalmente nell ’adattamento teatrale. Le scenografie di Tonino Di Ronza creano un palcoscenico senza soluzioni di continuità, sorta di “magazzino ” praticabile che all ’occorrenza diviene salotto, treno, lungotevere: “Un gran luogo dei ricordi – scrive Tato Russo nelle note di regia – uno spazio vuoto di memoria, una perenne evocazione di fantasmi, un sorgere di anime vaganti che man mano prendevano i colori dei personaggi e degli interpreti ”. Non convincono le scelte di Russo, che sembrano ridurre il testo a un onirico passaggio da una scena all ’altra senza cogliere il “frutto che se ne può cavare ” (come dice lo stesso Pascal, nel capitolo finale, a proposito del suo racconto): le riflessioni del protagonista sono “chiacchiere ” poco consapevoli, e senza amalgamare il ridicolo e il tragico – che insieme esprimono la consapevolezza di un ’esistenza assurda – diventano macchiette autoreferenziali. Misurarsi con testi così importanti è una scelta ambiziosa, ma talvolta necessaria nella vita artistica di un regista: dispiace che Il fu Mattia Pascal in questione brilli solo della luce del lanternino, una fiaccola “che projetta tutt ’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale l ’ombra è nera ”. Francesca Martellini
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Teatro
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DUE GRANDI FRATELLI SERVILLO PER EDUARDO LE VOCI DI DENTRO, Teatro Argentina
Alberto Saporito (Toni Servillo).
Toni Servillo ha molto rispetto e ammirazione per Eduardo. Lo chiarifica egli stesso: “Eduardo De Filippo è il più straordinario e forse l ’ultimo rappresentante di una drammaturgia contemporanea popolare: dopo di lui il prevalere dell ’aspetto formale ha allontanato sempre più il teatro da una dimensione autenticamente popolare. È inoltre l ’autore italiano che con maggior efficacia, all ’interno del suo meccanismo drammaturgico, favorisce l ’incontro e non la separazione tra testo e messa in scena. Seguendo il suo insegnamento cerco nel mio lavoro di non far mai prevalere il testo sull ’interpretazione, l ’interpretazione sul testo, la regia sul testo e sull ’interpretazione. Il profondo spazio silenzioso che c ’è fra il testo, gli interpreti ed il pubblico va riempito di senso sera per sera sul palcoscenico, replica dopo replica ”. Queste profonde osservazioni nell ’edizione di Servillo si tramutano in uno spettacolo di particolare equilibrio registico, che rispetta totalmente la traccia di Eduardo, ma la rivitalizza senza alterarla. Il testo fu composto dal commediografo napoletano in soli sette giorni nel 1948, per sostituire La grande magia, le cui repliche furono forzatamente interrotte a causa di una malattia di Titina. Con quest ’ultima opera e Questi fantasmi
si può parlare di una trilogia surreale di Eduardo, dov ’è sempre presente una dimensione pirandelliana metateatrale, ma si può quasi risalire alla dimensione onirica di molto teatro strindberghiano. Il la viene dato dalla grande delusione subita da Eduardo nella ricostruzione dell ’Italia. La guerra ha lasciato ferite profondissime nell ’animo umano, con un sfiducia generale e con un radicato sospetto l ’uno nei confronti dell ’altro. La mancanza di stima reciproca è per Eduardo di per sé un delitto, che può far scaturire nuovi delitti. Egli scrive Le voci di dentro proprio sulle macerie della seconda guerra mondiale, evidenziando con penetrazione quella tragica caduta di valori che poi segnerà purtroppo la società, e non solo quella italiana, per i successivi decenni. Come sempre poi c ’è un richiamo all ’attualità: alcune situazioni richiamano subito alla mente episodi di cronaca nera che in quegli anni riempivano le prime pagine dei quotidiani: immeditato il richiamo alla Cianciulli, la saponificatrice, nella figura di donna Rosa che, per risparmiare, fabbrica in casa, un po ’ misteriosamente invero, saponi e candele. È molto spesso così nel teatro di Eduardo: un fatto di cronaca, l ’aver avuto notizia di un ’ingiustizia fa scaturire
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nell ’autore la molla per comporre una sua commedia. L ’edizione di Toni Servillo, che interpreta anche il ruolo del protagonista Alberto Saporito, sembra voler riprendere, attualizzandola, questa mancanza di valori che tanto aveva colpito Eduardo. E con grande intelligenza affida il ruolo del fratello del protagonista, Carlo, a suo fratello Peppe che offre un ’interpretazione molto positiva, arricchita da una mimica straordinaria. Sicuramente de Filippo, che aveva composto spesso drammi, come Napoli milionaria!, Filumena Maturano, proprio per sé e per i suoi fratelli attori Peppino e Titina, sarebbe entusiasta di questa scelta. Toni Servillo riduce la commedia di Eduardo un po ’ all ’essenziale, togliendo alcuni barocchismi, letterari e scenografici, che l ’autore partenopeo spesso utilizzava. Ne risulta uno spettacolo essenziale, pulito, quasi minimalista, dal quale emergono con straordinaria potenza le interpretazioni notevolissime di tutto il cast, capitanato ovviamente dai fratelli Servillo. Le luci sottolineano l ’aspetto legato all ’inconscio del testo, in trasparenza si intravedono le sedie, patrimonio dei fratelli Saporito che vivono in una particolare
Teatro abitazione in cui affastellano sedie perché sono “apparecchiatori ” di feste, mestiere tipicamente napoletano. Regia, attori, scene, luci: tutto contribuisce a delineare un quadro sconsolato del dopoguerra (ma s ’insinua prepotente l ’oggi …), ove personaggio emblematico diviene zi ’ Nicola Saporito, che da anni ormai ha smesso di parlare, perché ha compreso come sia del tutto inutile appunto parlare, e pertanto comunica con i nipoti solo attraverso lo scoppio dei fuochi d ’artificio, utilizzati in genere per le feste. Vanno sottolineate serietà e umiltà di Toni Servillo: ai calorosissimi applausi e alla conclusiva standing ovation, Servillo risponde uscendo alla ribalta sempre e comunque con tutta la compagnia, senza concedersi qualche vezzo da divo, che poteva forse permettersi. Forse è l ’unico attore e regista a interpretare egregiamente Eduardo senza imitarlo. Parafrasando Luigi Pirandello che, quando vide proprio Eduardo de Filippo interpretare Il berretto a sonagli, disse “Ciampa ha trovato il suo interprete ”, si potrebbe dire che in Toni e Peppe Servillo i fratelli Saporito hanno trovato i loro interpreti. Maria Pia Monteduro
Carlo Saporito (Peppe Servillo), Alberto Saporito (Toni Servillo).
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LA DANZA MACABRA DEL VIVERE AL BUIO
I GIORNI DEL BUIO, Teatro Argentina
Come cinicamente e lucidamente raccontato da Wainer Molteni nel recente Io sono nessuno, ogni persona, anche la più insospettabile, può divenire un barbone, un clochard, un underclasser, come si diceva in epoche dove l ’ideologia contava. Roma – Roma Capitale anzi, come pomposamente è definita – lo sa bene e le sue strade, non quelle periferiche, sono popolate, frequentate, abitate da persone che fanno della strada, delle stazioni, la propria casa, la propria vita. Questa è la traccia-base su cui si muove Gabriele Lavia, drammaturgo e regista, per il saggio di Diploma del III anno del Corso di Recitazione Accademia Nazionale d ’Arte Drammatica Silvio d ’Amico, che ha coinvolto diciannove giovani attori. Le note di regia così spiegano: “Ho chiesto ai giovani attori dell ’Accademia d ’Arte Drammatica di raccogliere le testimonianze o confessioni (ma forse sarebbe meglio dire le confidenze) di uomini e donne che vivono accanto ad altri uomini e donne con la casa. Cosa differenzia gli uni dagli altri? La casa, appunto. Non avere la casa è il buio per questi uomini e donne. Vivere per la strada non ha luce ”. Giorni del buio quindi, dove buio è mancanza di rapporti veri, di solidarietà, di riferimenti personali, di speranza, di progettualità, di ricchezza di ricordi. Buio sociale, spesso buio ontologicamente personale e individuale. Lo spettacolo ha la struttura quasi di una danza (coreografia di Enzo Cosimi), ma pur se condotta a tratti anche con levità, trattasi comunque di una danza macabra. Entrano in scena spingendo silenziosamente il proprio carrello, con le loro poche cose; sulle loro spalle di vinti pesa la condanna, spesso definitiva e senza appello, all ’invisibilità. Uomini e donne, nudi nella loro sconfitta sociale, spesso esistenziale. Ai giovani – bravissimi – attori il compito di dare voce e visibilità a ognuno per i pochi minuti che occupano, da protagonisti, la scena, uno alla volta, prima di ripiombare nel buio dell ’emarginazione. Un preciso disegno-luci aiuta a sottolineare la disperazione e la tristezza delle loro esistenze. Si assiste (decisamente infastiditi dalle risate sciocche e vacue di alcuni spettatori, che confondono l ’amara ironia di alcune battute con situazioni comiche!) a una triste mescolanza di età, nazionalità, sessi, lingue: i reietti di Roma (ma mai come in questo caso Caput mundi) appaiono massa indistinta, ombre anonime, pur se ognuno si presenta con nome, nazionalità e zona cittadina “preferita ”. A parere della scrivente avrebbe completato meglio il quadro, quasi agghiacciante, almeno un accenno a un ’indagine sociale e civile sul perché di queste tragedie, che sfiorano ognuno di noi, senza quasi mai turbarci più che tanto. Forse però l ’intenzione dell ’autore-regista era di realizzare uno spettacolo-saggio, in cui gli interpreti non avessero punti di riferimento di personaggi teatralmente già codificati, presentando figure quasi “anonime ”, da vestire con il proprio talento e la propria capacità interpretativa attoriale. In tal caso operazione riuscita. È giusto ricordare i nome dei giovani attori, sperando che per loro si aprano strade professionali degne di questo nome: Rosy Bonfiglio, Valentina Carli, Barbara Chichiarelli, Giulio Maria Corso, Flaminia Cuzzoli, Valerio D ’Amore, Alessandra De Luca, Arianna Di Stefano, Desiree Domenici, Carmine Fabbricatore, Giulia Gallone, Samuel Kay, Matteo Mauriello, Marco Mazzanti, Ottavia Orticello, Alessandra Pacifico Griffini, Gianluca Pantosti, Eugenio Papalia, Matteo Ramundo, Veronica Polacco. Maria Pia Monteduro
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Teatro
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SULLE TRACCE DI UN GENIO
IO, LUDWIG VAN BEETHOVEN, Teatro Belli
Non è facile parlare e far vivere la musica in uno spettacolo teatrale. Dar corpo alle note e farle sussistere di vita propria. Non è facile, ma quando si riesce il risultato è straordinario. Questo è quanto è avvenuto in questo spettacolo, ideato, scritto, diretto e interpretato da Corrado d ’Elia. Si inizia con l ’Ouverture di Coriolano, che già dà forza e potenza alla scena, per altro ridotta al minimo: uno sgabello alto, su cui è seduto d ’Elia, un sapiente e ritmato gioco di luci, e poi ancora e sempre tanta e tanta musica. Quasi sempre di Ludwig van Beethoven, ovviamente, ma anche di Nicolò Paganini, di Gioacchino Rossini, per illustrare al meglio la temperie culturale in cui operò e compose l ’aquilotto di Bonn. Cor-
Corrado d ’Elia
rado d ’Elia, con trasporto e intelligente passione, racconta la vita straordinaria di Beethoven, non risparmiando di definirlo più volte genio: tormentato, spesso infelice, umanamente incompreso (non artisticamente), ma sempre genio. Solitario, inviso agli uomini, ma compagno fedele di una capacità creativa e rivoluzionaria che fanno di lui un pilastro della musica e della cultura tedesca, ma soprattutto europea. Un uomo che rompe gli schemi musicali in primis, ma anche dei rapporti interpersonali, incurante di convenzioni e prassi tradizionali, obbediente solo all ’imperativo categorico del suo intelletto: creare musica, scrivere continuamente, anche negli anni apparentemente di silenzio creativo. Uno tra i
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maggiori compositori della storia della musica colpito dalla più grande sciagura che possa colpire un musicista: la sordità. Ma Ludwig non si arrende mai: compone, compone, compone. Nove sinfonie (nove capolavori), concerti, sonate, quartetti d ’archi, un ’opera lirica, sempre nuovi e rivoluzionari, sempre con il suo stile inconfondibile e pur sempre imprevisti e imprevedibili. L ’acme dello spettacolo (e l ’acme della vita artistica di Beethoven) è narrato da d ’Elia con un ’emozione che coinvolge il pubblico, straordinariamente numeroso e attento: dopo dieci anni di silenzio, nel 1824 Beethoven si ripresenta all ’intellighenzia e al popolo di Vienna, città che comunque lo considera un idolo, dirigendo la Nona Sinfonia. Il pubblico viennese è in attesa spasmodica di conoscere l ’ultima creazione di Beethoven, che infatti non delude: l ’immissione in una Sinfonia del coro che canta l ’Inno alla gioia di Friedrich Schiller (1786) è, musicalmente parlando, sconvolgente! Il pubblico lo capisce, ne resta folgorato e alla fine, per tributare il proprio omaggio e ringraziamento al musicista, lo “applaude ” sventolando fazzoletti bianchi, sapendo bene che Beethoven non avrebbe potuto godere del suono degli applausi. D ’Elia è un ’interprete coinvolgente: si emoziona,
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Teatro
spiega la musica con una semplicità e una competenza tali da far invidia a musicologi e a insegnanti di musica. Sarebbe auspicabile anzi che uno spettacolo simile sia portato nelle scuole, per far approcciare i ragazzi, anche i bambini, al mondo della musica in maniera non fredda e prettamente teorica, ma appassionante e trascinante. Solo d ’Elia quindi, Ludwig van Beethoven e un sapientissimo gioco di luci coordinate alla musica stessa per uno spettacolo egregio, un piccolo capolavoro, dove l ’equilibrio tra parola, musica, luci non si interrompe mai. In questi tempi bui e volgari un evento così riconcilia con il teatro, anche lui colpevole di aver, in troppi casi, rincretinito il pubblico con spettacoli leggeri e superficiali, a volte camuffati con intellettualismi falsi e di maniera. Più di una persona, compresa la scrivente, si sono commosse durante lo spettacolo: non è superficiale dar spazio anche alle emozioni nel seguire e recensire uno spettacolo. L ’importante, a parere di chi scrive, è che queste emozioni (come in questo caso) siano guidate da un evento teatrale realizzato con rigore scientifico e con autentica professionalità. Corrado d ’Elia opera propriamente così. Maria Pia Monteduro
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VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
DISCUTIBILE TENTATIVO DI AFFRONTARE L ’OMOFOBIA STILL LIFE, Teatro Argentina
La ventesima edizione della rassegna Garofano verde, la manifestazione pubblica “più longeva in Italia tra quelle basate su drammaturgia e performance a tematica omosessuale ” – come ha scritto il suo storico curatore, Rodolfo di Gianmarco – quest ’anno non ha potuto avvalersi del sostegno economico del Comune di Roma: si spera in rapidi interventi della nuova giunta, tali da consentire almeno una parziale programmazione in autunno. Un così importante anniversario non poteva però passare inosservato e, grazie alla collaborazione di più soggetti, è stato possibile festeggiare con un ’unica serata evento che ha visto in scena al Teatro Argentina lo spettacolo Still life di Ricci/Forte, appositamente creato per l ’occasione. Il lavoro – definito dagli autori come “massacro a cinque voci per una vittima ” – si è ispirato al recente episodio del giovane studente di un liceo romano impiccatosi perché vittima degli insulti omofobi dei suoi compagni; centrale, dunque, “il tema della discriminazione, del mobbing psicologico identitario che determina la repressione dell ’immaginazione e spinge all ’a utoannientamento ”. Un grido d ’a ccusa che é segno d ’encomiabile sensibilità civile, in un momento in cui si assiste al dilagare dirompente dell ’intolleranza e della violenza nei confronti di tutto ciò che viene percepito come diversità; un appello per suscitare “la responsabilità dei cittadini della polis, dal momento che per combattere la discriminazione ” – così Ricci e Forte – “è necessario scuotere l ’indifferenza sociale e politica con atti di coraggio ”. Il teatro è senz ’altro “un mezzo potentissimo attraverso il quale esaltare il potenziale che c ’è nelle differenze tra gli esseri umani e lo strumento con cui comunicare nuovi modi di osservare la realtà, nel rispetto delle scelte e delle nature dei singoli ”, ma può assolvere a questa funzione solo se attinge a risorse sue proprie, capaci di trasfigurare in poesia l ’oggettività bruta della cronaca. Purtroppo, capita spesso, andando a teatro, di ripensare alle parole di Jean Genet che, alla metà del secolo scorso, lamentava la pessima abitudine di caricare gli spettacoli di “intenti che hanno a che vedere con la politica, la morale, o chissà che altro ancora ”, trasformando così “l ’azione drammatica in strumento didattico ”. E proprio questo sembra il limite fortissimo di Still life che, pensato come una conferenza, riesce a concentrare nei testi tutta una serie di luoghi comuni sull ’argomento, raggiungendo in alcuni passaggi – come ad esempio quello della coppia lesbo che parla dell ’educazione che vorrebbe dare a un/a eventuale figlio/a – livelli di inaudita banalità. Cosa c ’entra con l ’identità di genere il desiderio di insegnare ai propri figli a non azionare il tergicristallo quando al semaforo si avvicina il lavavetro o a preferire il
calore degli abbracci degli amici all ’algido riflesso azzurrino dello schermo di un computer? Una qualsiasi coppia eterosessuale dotata di buon senso condividerebbe questi desideri e l ’intero repertorio delle buone intenzioni! Sul palcoscenico dilatato fino a occupare tutta la parte centrale del primo settore di poltrone e delimitato sullo sfondo dal tagliafuoco abbassato, davanti al quale sono stati sistemati centinaia di lumini accesi e usato come schermo per proiettare i nomi delle tante vittime, i cinque attori – Fabio Gomiero, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori e Francesco Scolletta – vestiti da ragazzi perbene si muovono velocemente impegnati nel gioco dei mimi. Il gruppo è preciso e sicuro nei movimenti e s ’intuisce che l ’a ffiatamento è il risultato di un lungo lavoro di laboratorio. Dopo un ’a mmiccante coreografia sulle note di un brano di Shirley Ellis si entra nel vivo della conferenza-spettacolo che, anche questa volta, come in tutti i precedenti lavori di Ricci/Forte, cerca il coinvolgimento degli spettatori in un continuo processo osmotico con i performer. La radicalità di alcune azioni teatrali, pur se tipiche dello stile volutamente dissacrante e iconoclasta degli artisti romani, è sembrata forzata e, talvolta, poco rispettosa. Non disturbano certo le frattaglie bovine maciullate con ostentato compiacimento; né l ’esposizione del corpo nudo di Francesco Scolletta, deturpato dai rivoli di vernice ematica che gli colano dalla bocca e dai segni di inchiostro nero che lasciano le suole degli anfibi con i quali lo colpiscono i suoi compagni. Ma non si può davvero pensare, a parere della scrivente, che sia legittimo “smascherare il fantasma razzista ” che c ’è in ognuno di noi costringendo il pubblico in sala ad accettare il bacio omosessuale imposto dai performer. E la spruzzatina di deodorante per la bocca non rende certo più accettabile la violenza dell ’a tto performativo. Un susseguirsi frenetico di scene di cui non si coglie la consequenzialità e la necessità che confluiscono nella liturgia di catarsi collettiva con la quale, alla fine dello spettacolo, sulle note di La fine di Nesli, gli spettatori vengono invitati a scrivere su un tabellone posto al centro della scena il nome di una persona cara che ha subito sulla propria pelle il dramma dell ’esclusione. La poesia è comunque riuscita ad aprirsi un varco nella mole di metafore inutilmente complesse, liberandosi leggera nel momento in cui sono esplosi i cuscini che soffocavano i volti degli attori: l ’unica immagine che rimarrà impressa, legata indelebilmente al tema dell ’omofobia, sarà quella delle piume che fluttuavano leggere nella sala, nei tagli di luce creati dai fari, in un silenzio irreale e metafisico più potente ed espressivo di qualsiasi parola o astruso funambolismo. Mariella Demichele
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Giuseppe Sartori e Anna Gualdo.
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Liliana Laera, Anna Gualdo, Francesco Scolletta, Giuseppe Sartori.
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TRAGICO MINUETTO DI CORPI PRESENTI NELL ’ASSENZA JUDIT, Teatro di Documenti
Le botole del Teatro di Documenti si aprono su una tragedia vivida e reale scritta dall ’autore argentino Jorge Palant, una delle personalità più vigorose del teatro argentino degli ultimi decenni. La tragedia prende corpo grazie alla magia creata da Luciano Damiani, uno dei massimi scenografi di tutti i tempi. Damiani, dopo aver lavorato nei principali teatri di prosa e di lirica del mondo, decise di creare uno spazio che potesse esprimere la sua idea di teatro, uno spazio che, senza rinnegare il passato e la tradizione, diventasse il “teatro che prima non esisteva ”: il teatro dell ’assistere, del partecipare e della libera scelta. Il Teatro di Documenti, “gioiello architettonico ”, è tutto questo, è teatro all ’ennesima potenza. Dunque le botole si aprono per dar vita a un testo che tratta una storia, una piccola storia, racchiusa in una più grande: la terribile dittatura del regime militare che ha dilaniato l ’Argentina dal 1976 al 1983; un momento oscuro della storia, quando qualsiasi forma di opposizione o dissenso non mancava di essere soffocata con la violenza. Tradotta e diretta da Anna Ceravolo, la pièce inizia con una tangera che apre le porte per l ’ingresso delle attrici, poi esce di scena per scomparire dietro le quinte, lasciando il pubblico al caldo abbraccio della musica. La prima a entrare in scena è una donna matura, Melissa, (Martha Cok), che si siede e comincia un racconto coivolgente. Nel contempo, sul muro vengono proiettate pagine di un calendario, il ricordo degli eventi mai dimenticati. Entra sulla scena in seconda battuta la protagonista della storia, Judit, interpretata da Cristina Maccà. Questi numeri e queste date scorrono sulle teste degli spettatori a ricordare che vent ’anni sono passati dal tragico momento in cui il tempo, per l ’allora giovane Judit, si è fermato. Ha provato a dimenticare Judit, ma come dimenticare l ’aguzzino che ti ha dato una figlia. Sì, una figlia, Leda è il suo nome. Melissa, la tata, un po ’ grillo parlante, spiega cos ’è accaduto negli anni della dittatura, quando la giovane Judit lottava contro il potere occulto, contro la sua famiglia potente, scontrandosi con il più atroce dei destini. Aranda, criminale di guerra che il tribunale dovrà giudicare, è l ’uomo che la sequestrò e ne fece la sua schiava. Melissa, dopo aver fornito un quadro degli avvenimenti, lascia il palco e nel versante opposto del ventre della balena del Teatro di Documenti, come per magia, un argano solleva parte del palco: appare lui, Aranda (Francesco
Marzi). Judit vuole incontrarlo per dirgli tutto, ma il dialogo fra i due è difficile. Lei gli ha promesso di ucciderlo, ma ha mancato l ’occasione ben vent ’a nni prima. Judit gioca con la sua ombra sul portale da cui, come una perla spunta dall ’ostrica, è venuto fuori il comandante. È stata Judit a volere questo incontro, cerca un risarcimento morale, vuole che la verità trionfi, e chiede a quell ’individuo perché abbia accettato il suo invito. La sua risposta non si fa attendere: “perché sentire la tua voce mi ha fatto ritornare in mente l ’atmosfera della guerra! ”. Tutto il potere di un militare in una dittatura si esprime nel disprezzo e nella violenza delle sue parole che raggelano Judit e la riconducano allo stato di paura in cui deve aver vissuto quando, pur di salvare la propria vita, è divenuta amante di Aranda. Quelli di Judit e Aranda sono corpi che resistono allo spazio, rigidi, completamente privati di quella necessaria comunione con lo spazio scenico, presenti nell ’assenza. Intercorre tra i due una sorta di coreografia statica dove, come il gatto con il topo, si stuzzicano, si provocano, si spingono e si sporgono sull ’orlo di orridi baratri psicologici. Si dipana un tragico minuetto, in cui i due protagonisti si parlano, ma i loro corpi sono rivolti ai due opposti muri che delimitano la scena. Si danno le spalle incarnando l ’incomunicabilità dell ’odio, nato da una violenza indimenticabile. Torna Melissa e con lei le immagini, stavolta quelle di Giuditta e Oloferne, di cui racconta la storia, e di quanto Judit abbia osservato quel quadro. Ma Judit nel confronto con il mito biblico, non è così forte o forse lo è anche di più. Riesce a liberarsi del peso di un segreto che la divora, gli dice della loro Leda, la figlia nata dall ’odio e dalla violenza. Provocata e armata Judit resiste, ancora una volta non spara, sarebbe la cosa più facile, ma si stanno riaprendo i processi per le stragi di guerra e Aranda teme la testimonianza di questa donna distrutta. Lui ha una scintilla di malvagità negli occhi mentre racconta la sua storia, la storia di un gruppo di militari contro ragazzi che giocano ai rivoluzionari. Questione di ruoli, dice; in quegli anni in Argentina c ’erano due tipi di persone: quelli che credevano che le cose dovessero cambiare e quelli che non pensavano che qualcosa dovesse cambiare. Chi sa dire chi abbia prevalso! Ma almeno sulla scena, sarà la giustistia e il tribunale a decidere chi aveva ragione. Concita Brunetti
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Judit (Cristina Macchè) e Aranda (Francesco Marzi).
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MERCUZIO E ALTRE U Volterra Teatro festeggia il venticinquesimo compleanno e, come anteprima del Festival che si svolgerà dal 18 al 28 luglio, Armando Punzo e cinque dei suoi detenuti attori hanno incontrato il pubblico a Firenze al Gabinetto Vieusseux presso Palazzo Strozzi. Già il titolo dell ’incontro – Mercuzio e altre utopie realizzate – è una sintesi efficace della rivoluzione culturale e sociale che Punzo ha operato nel carcere di Volterra: con un lavoro ostinato e silenzioso ha trasformato questo luogo di reclusione in un centro di cultura nel quale, oltre alle centinaia di spettatori che accorrono ogni estate, a fine luglio, per assistere allo spettacolo della Compagnia della Fortezza, s ’incontrano tutto l ’a nno studiosi di teatro e studenti di tutto il mondo, attratti da questa esperienza unica al mondo. Attraverso i frammenti di alcuni degli spettacoli più importanti e i contributi di qualificati ospiti che – come si legge nel comunicato stampa – “da sempre sono stati spettatori di quest ’esperienza, ma che ora fanno parte, a tutti gli effetti, della vita, della storia e della realizzazione di questa utopia ”, il pubblico ha ripercorso le tappe principali della storia della Compagnia. Il viaggio è cominciato con la testimonianza di Gianfranco Capitta che ha parlato della sua esperienza di spettatore del primo spettacolo della Compagnia, La Gatta Cenerentola, nel 1989. Lavoro estremamente godibile che sprigionava una forza capace di rompere i confini fisici e mentali imposti dalla realtà carceraria. Gli spettatori, sorpresi dall ’inconsueta immagine di virili attori en travesti che sotto le vaporose gonne bianche lasciavano intravedere polpacci tatuati, venivano letteralmente travolti da quell ’e nergia scenica che è rimasta una delle caratteristiche principali di tutti gli spettacoli successivi, oltre al desiderio di ricerca estetica da condurre attingendo a ogni singolo elemento del linguaggio teatrale. Autore dei costumi fu Tobia Ercolino, artista che l ’a nno precedente aveva lavorato per Le Troiane di Thierry Salmon. Grande conquista, nel contesto carcerario, fu quella di ottenere dagli attori che interpretassero parti femminili: unico ruolo
Incontro per il venticinquennale della Compagnia della Fortezza al Gabinetto Vieuss
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UTOPIE REALIZZATE
eux a Firenze.
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Teatro che rifiutarono fu quello del “femminiello ” che toccò – ricorda divertito Capitta – allo stesso Armando Punzo. Sulla processualità della costruzione drammaturgica e del lavoro con gli attori come elemento specifico della maieutica teatrale di Punzo si sono soffermati molti degli ospiti della serata. Teresa Giannoni, giornalista e autrice del libro La scena rinchiusa, tra i primi lavori dedicati alla Compagnia della Fortezza, ha raccontato dei lunghi pomeriggi in carcere durante la preparazione dello spettacolo Masaniello del 1990, dello straniamento provato dal lei, unica donna, in un ambiente tutto maschile in cui il tempo veniva scandito dai rituali del caffè e delle sigarette. Interminabili tempi d ’a ttesa in cui si alternavano pieni e vuoti, silenzi e intense discussioni, in cui sembrava non succedesse niente fino all ’esplodere improvviso e dirompente della scintilla creativa. Un continuo rimescolarsi di umori ed energie che la sensibilità artistica e umana di Punzo riesce a trasformare in azione teatrale. Sul fascino del processo creativo ha insistito anche Piergiorgio Giacchè, il quale, a partire dalla sua prima visita in carcere per una conferenza su Masaniello, ha maturato la convinzione che il complesso lavoro della Compagnia sia stato, e continui ancora a essere, alimentato dal contrasto tra la duplice identità del detenuto/attore e tra la grandezza del luogo/carcere, rappresentato dall ’imponente fortezza medicea, e l ’e siguità dello spazio/teatro, collocato, ancora oggi, in una ex-cella di tre metri per nove. Contrasto che non può e non deve essere sciolto e sul quale sarebbe opportuno riflettere, a più livelli, per comprendere in che modo sia stato possibile trasformare il carcere in un luogo di cultura che avrebbe molto da insegnare a tanti Teatri Stabili italiani, che si limitano a replicare stancamente forme e modelli oltremodo datati. Il teatro di Armando Punzo è teatro di poesia, qualità che si evidenzia, come spiega Giacomo Trinci, nella “radicalità con la quale si pongono le domande principali, senza intellettualismi pacificanti ”. Il confronto con le opere-mondo avviene in modo da portare a una totale destrutturazione della forma che “invade ” il nostro mondo, generando un processo oppositivo. Gli spettacoli della Compagnia non sono “oggetti torniti da portarsi a casa ” ma sfida continua a mettersi in discussione; un ’idea di teatro come “rivelazione e provocazione ” che, per le sue implicazioni estetico-poetiche, andrebbe paragonato – così Goffredo Fofi – alla ricerca artistica di autori come Scaldati e Ciprì e Maresco. Sulle dinamiche del rapporto con gli spettatori si è soffermata anche Cristina Valenti, ricordando lo spettacolo La prigione, ispirato a The Brig di Kenneth H. Brown; rappresentato in carcere nel 1994, fu inserito due anni più tardi nel programma di una manifestazione teatrale a Forlì durante la quale la curiosità un po ’ morbosa del pubblico si trasformò in pieno apprezzamento e riconoscimento del valore artistico di quel lavoro che Judith Malina, storica fondatrice del Living Theater, aveva definito un “urlo ”, per la sua capacità di comunicare, attraverso la trasfigurazione artistica dei racconti degli attori,
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l ’a ssurdità del sistema concentrazionario. Lo spettatore, dunque, non è un semplice fruitore: gli si chiede di “farsi ” il suo spettacolo muovendosi da un luogo all ’a ltro – come accadeva nel labirinto dell ’Orlando furioso nel 1998, nell ’Opera da tre soldi del 2002 e nei Pescecani del 2003, fino all ‘Hamlice del 2010 –, di accettare sarcasmo e dissacrazione – come in Budini, capretti, capponi e grassi signori ovvero La Scuola dei Buffoni, spettacolo del 2006 ispirato a Rabelais – , ma anche momenti che Gabriele Rizza ha definito di “rarefazione onirica ” – come nell ’Amleto del 2001 – o liberatori, nei quali lasciarsi andare alla felicità di una ritrovata fanciullezza – come avveniva nel momento finale del lancio delle lettere in Hamlice o passeggiando nel luna park popolato di elfi e fate in P.P. Pasolini ovvero Elogio al disimpegno del 2004. Storia lunga e complessa quella della Compagnia della Fortezza che sarà possibile ripercorrere nel libro intitolato È ai vinti che va il suo amore, che le edizioni Clichy stanno preparando per celebrare questo importante anniversario, e del quale sono state date delle anticipazioni; una storia che non si sarebbe mai potuta realizzare se l ’intuizione di Armando Punzo non fosse stata inizialmente accolta da Renzo Graziani, Direttore del carcere di Volterra, e costantemente sostenuta, nel corso degli anni, dalla Provincia di Pisa e dalla Regione Toscana, che continuano a investire in questo progetto, nonostante le attuali difficoltà economiche perché – come ha ricordato l ’Assessore Scaletti – è sempre più importante tutelare l ’importanza della “parola ” che consente il teatro, soprattutto in luoghi come il carcere, per loro natura destinati alla rimozione e al silenzio. Un impegno che non ha niente a che vedere con l ’a zione sociale e il pietismo, ma radicato nella volontà di far emergere attraverso l ’arte quel “meraviglioso potenziale che è in ognuno ” e che – come scrive Punzo – è “piagato da una natura che non crede in niente, che tutto imbriglia, imprigiona e giustizia ”. La scelta di confrontarsi con le opere di Jean Genet per lo studio che la Compagnia presenterà in carcere durante il Festival non è casuale, ma deriva proprio dal bisogno di “dare voce ai muti ”, di “portare ad un livello estetico ciò che è impossibile esaltare ”. La scoperta della dignità del lavoro nell ’esperienza della pratica teatrale, il confronto serrato con le grandi domande che da sempre agitano il cuore dell ’uomo, sono i presupposti che rendono possibile la trasformazione di tutti i soggetti coinvolti; processo lento e doloroso in cui ognuno dei detenuti/attori cerca di ricostruire se stesso come persona, per ritrovare – come ha ricordato la Dott.ssa Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze – “quella identità di sé che hanno perso commettendo delitti ”. In quella cella di tre metri per nove, allora, il teatro non è solo una delle possibili attività trattamentali che il carcere può offrire: lì si “disfa e si rifà l ’uomo ”. Motivo che sembra più che sufficiente per augurare alla Compagnia della Fortezza che il progetto di un Teatro stabile all ’interno del carcere di Volterra possa al più presto diventare realtà. Mariella Demichele
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Armando Punzo e Gianfranco Capitta.
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Armando Punzo e Goffredo Fofi.
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DONNA DI CLASSE ATTRICE DI CARISMA
RICORDANDO ROSSELLA FALK
Rossella Falk.
Un ’altra grande attrice, forse l ’ultima diva, lascia la scena. Rossella Flak è morta all ’età di ottantasei anni e la camera ardente è stata allestita nel Teatro Eliseo, di cui è stata dal 1981 al 1997 assieme a Umberto Orsini direttore artistico, e nel cui palazzo viveva. La Falk – il cui vero nome era Rosa Antonia o Rosellina Falzacappa – aveva un tratto distintivo che esaltava ancora di più il suo straordinario talento: era regale, quasi austera, di una bellezza algida. L ’attrice ci scherzava sopra, dicendo che la scelta dei personaggi da intepretare era determinata anche dalla sua altezza, notevole per quegli anni ( “Essere alta un metro e settantasei, che ai miei tempi era davvero molto, mi ha impedito di interpretare certi ruoli tradizionali come Ofelia o Giulietta, insomma quelle fanciulle vulnerabili, palpitanti. Fui sempre chiamata a impersonare donne di grande carattere, inavvicinabili. Ma io non sono così ”). Eccezionale interprete teatrale di autori contemporanei, che aveva conosciuto personalmente (ad esempio Tennessee Williams), il grande salto nella storia dello spettacolo avviene prima con la compagnia Paolo Stoppa-Rina Morelli e poi quando diviene tra le fondatrici e le colonne portanti della Compagnia dei giovani, assieme a Romolo Valli e Giorgio De Lullo. Fu questa compagnia che ebbe il merito di diffondere il teatro di Pirandello, interpretandolo in maniera filologica, ma nel contempo riuscendo a divulgarlo. Pur se si sentiva principalmente attrice teatrale, la Falk lavorò anche nel grande cinema: basti ricordare 8 e ½ di Federico Fellini (1963) e Quando muore una stella di Robert Aldrich (1968). Donna di grande ironia e autoironia, si divertiva molto quando la chiamavano “la Greta Garbo italiana ”, per la sua eleganza innata e per quel pizzico di apparente alterigia che invece era solo un atteggiamento scherzoso, non sempre compreso: come ebbe a dire la stessa Falk: “Fin dai primi momenti della mia carriera mi sono sentita guardare in un certo modo, quasi che gli altri avessero soggezione. Mi vedevano alta, regale, con un ’attitudine naturale a mettere in riga la gente. Entravo in scena, o in una stanza, e mi rimiravano come la Madonna ”. Grazie alla sua reale amicizia con il soprano greco, seppe portare in scena, con grande affetto e verosimiglianza, la biografia di Maria Callas nel 2004 con Vissi d ’arte, vissi d ’amore. Forse, tra le tante, la migliore definizione l ’ha offerta Roberto Herlitzka il giorno delle esequie alla Chiesa degli Artisti di piazza del Popolo ricordando “quell ’ironia un po ’ beffarda che sembrava dicesse a noi attori: voi recitate, io parlo ”. Un altro grave lutto quindi nel panorama teatrale italiano, accresciuto dal fatto che si avverte come, purtroppo, molti di questi artisti non hanno assolutamente degni sostituti. Maria Pia Monteduro
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Federico Fellini e Rossella Falk alla prima di Otto e 1/2 (1963).
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Franca Rame in Lo stupro.
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LEONESSA INDOMITA
RICORDANDO FRANCA RAME
Gad Lerner, compagno di scuola di Jacopo Fo e quindi amico e frequentatore da sempre della famiglia Fo-Rame, dà, a parere della scrivente, forse la migliore definizione tra le tante che si sono lette su Franca Rame dopo la sua morte: una leonessa. Bella con la sua biondissima criniera, fiera, dotata di carisma, indomabile e indomata (ci provarono anche con lo stupro …), donna sul palcoscenico, attrice nella vita. Una persona che non voleva e non sapeva distinguere l ’impegno sociale da quello politico, da quello artistico da quello civile: straordinaria sintesi di impegno totale e totalizzante, autentica risorsa per la cultura e la democrazia. Una leonessa in tutte le occasioni forti della sua vita: quando con il marito Dario Fo lasciò l ’ETI, struttura forte e che proteggeva gli attori, per approdare a situazioni teatrali-organizzative più rischiose ma più libere; quando non si fece intimidire dalla censura RAI; quando decise di portare sulla scena, senza sconti né addolcimenti, il dramma dello stupro subito ad opera di cinque neofascisti, che obbedivano a non si sa chi …. Una leonessa nel gestire le varie difficoltà di una compagnia libera, nel voler contribuire allo sviluppo di Soccorso Rosso, nell ’insistere e ottenere che i proventi del Nobel andassero quasi completamente in beneficenza. Una leonessa apparentemente in secondo piano nei confronti del marito leone, che invece nel ricevere proprio il Nobel nel 1999 riconobbe pubblicamente che Dario senza Franca non sarebbe mai stato Dario Fo. Una leonessa nel gestire il rapporto di coppia, fortissimo ma comunque anticonvenzionale, con una gestione quasi “pubblica ” delle crisi che, come ogni coppia, attraversarono. Una leonessa conscia della propria bellezza e avvenenza, che però, incredibilmente, non riusciva a far capitolare il giovane e un po ’ imbranato Dario Fo, finché, come sempre spiritosamente ricordava, non fu lei a prendere l ’iniziativa. Una leonessa nel gestire un amore e un sodalizio artistico quasi unico nel panorama del teatro italiano. Ed è stata una leonessa anche in politica, nella sua breve parentesi istituzionale in Senato, dal quale si dimise amareggiata e nauseata, ma soprattutto nella sua militanza continua e indefessa da parte degli ultimi e degli emarginati, soprattutto in termini politici e sociali. Di lei, per fortuna, rimangono moltissime testimonianze artistiche e civili, libri, registrazioni video, atti parlamentari, interviste, scritti autografi e via discorrendo. Sarebbe importante che questa sgangherata Italia, non solo artistica ma soprattutto civile, ricordi di lei (per imitarla) la fierezza e la dignità della leonessa. Franca Rame Fo ne sarebbe sicuramente orgogliosa. Maria Pia Monteduro Franca Rame in Mistero Buffo.
Franca Rame e Dario Fo in L ’anomalo bicefalo, 2003.
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Don Andrea Gallo e Franca Rame.
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Cinema
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SERVILLO COME
LA GRANDE BELLEZZA, PAOLO SORRENTINO
Un film su Roma, sulla Roma di oggi, come negli anni ’60 lo fu la felliniana Dolce vita. Lì guidava un giornalista, Marcello Mastroianni, qui un intellettuale, Toni Servillo. Ma cosa vuol dire magnificare la bellezza di Roma? Per certe cose basta dire “Roma ”, oppure ammirarla come lo fanno gli orgogliosi romani e i milioni di turisti e pellegrini che la sfiorano senza conoscerla. Paolo Sorrentino invece vuole anatomizzarla, sperando di farla sfolgorare con inquadrature che certo non stupiscono chi Roma la conosce o con volute, ma inutili, citazioni felliniane. Inutili perché fuori luogo e perché vuotate del proprio senso nel momento che vengono estrapolate dal rigido contesto in cui, con alta valenza stilistica, le aveva incastonate il regista riminese. Fellini è stato forse il più grande cantore di Roma, lo è stato in Lo sceicco bianco, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, La dolce vita, Giulietta degli spiriti, Fellini Satyricon, Roma, e da ultimo, con sguardo diverso, Toby Dammit, ma anche L ’intervista. Per Fellini Roma e il suo hinterland sono lo scenario naturale del suo fare cinema: la cita sempre, ma mai in maniera scontata, la guarda dall ’alto con gli occhi del Cristo che vola nelle prime sequenze de La dolce vita; la fa protagonista di se stessa in Roma, e poi è sempre lì che occhieggia, forse un po ’scontrosa, quasi nume tutelare, o musa ispiratrice, che mai abbandona il regista. Quasi a ogni volger di decennio Fellini la rimedita e la affresca. Altra cosa è il film di Sorrentino. Egli racconta, senza affrescare, una delle Rome di oggi. Ma Roma non occhieggia, Roma non tutela, sembra un collage sbagliato, Roma si è ritirata e si offre solo a pochi: a chi è in grado di cogliere il suo spirito e sa cercarla rispettandola. Ogni tanto le vicende del protagonista si svolgono in situazioni romane, ma che potrebbero anche svolgersi in altri luoghi e a volte sono solo forzate. In Roma Fellini racconta Palazzo Altieri e piazza del Gesù incontrando Anna Magnani, che rientra, e un po ’lo sfotte, nella sua abitazione proprio a Palazzo Altieri. In La grande bellezza Toni Servillo incontra in via Veneto, richiamo estremo, un vecchio amico che lo fa entrare in un locale che gestisce. Ma la scena poteva svolgersi dappertutto: a Broadway o a Place Pigalle o ancora a Soho. Sicuramente una certa Roma è come quella descritta da Sorrentino, ma è una Roma di estrema nicchia, una Roma di intellettuali falliti, di prelati tra quelli combattuti da papa Francesco, di nobili più che decaduti e di rami più che cadetti, che utilizzano la propria storia solo per alzare il prezzo delle comparsate di cui vengono richiesti. Ma Roma non è solo questo. La “dolce vita ” fu sì un episodio effimero e fugace, ma direttamente o indirettamente coinvolse tutta la città e tutta la sua popolazione: questo lesse e affrescò Fellini. I protagonisti del film di Sorrentino invece si conoscono e si riconoscono solo tra di loro e lo spettatore addirittura conosce e riconosce solo Toni Servillo e non il suo personaggio. Forse, anche se “con i se e con i ma la storia non si fa ” senza Fellini e senza il cinema italiano degli anni ’60, La grande bellezza potrebbe essere ascritta tra i capolavori, ma in questo caso i metri di giudizio sarebbero radicalmente diversi. Di questo film, a parte le citazioni, rimarrà solamente la grande interpretazione di Toni Servillo, che, se paragoni si devono fare, è l ’unico aspetto del film che non fa rimpiangere Marcello Mastroianni. Se Servillo fosse americano avrebbe già ricevuto l ’Oscar e non solo uno. Luigi Silvi
Jep Gambardella (Toni Servillo).
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E MASTROIANNI
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Jep Gambardella (Toni Servillo).
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Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) e diva americana (Anita Ekberg) in La dolce vita, regia Federico Fellini, 1960.
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Diva americana (Anita Ekberg) in La dolce vita, regia Federico Fellini, 1960.
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Piazza Santa Maria in Trastevere da Roma, regia Federico Fellini, 1972.
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Trinità dei Monti da Roma, regia Federico Fellini, 1972.
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SUL FILO DEL RASOIO SOCIALE
GLI EQUILIBRISTI, IVANO DE MATTEO
Giulio (Valerio Mastandrea).
Non s ’illuda nessuno, a meno che non possieda un conto in qualche banca (meglio all ’estero …) con cifre dai molti zeri: il confine tra benessere e miseria, tra rispettabilità e vergogna, tra integrazione ed emarginazione sociale è estremamente labile e dietro l ’angolo, per una fascia sempre più ampia di popolazione, c ’è lo spauracchio della povertà conclamata, non più mimetizzabile. E come per vivere la propria vita individuale di essere umano è necessaria una buona dose di equilibrio, così per salvarsi in una società trita-tutto bisogna trasformarsi in equilibristi. Ne sa qualcosa Giulio (un valido Valerio Mastandrea, David di Donatello 2013 – miglior attore protagonista, Premio Francesco Pasinetti a Venezia 2012 come attore protagonista) che, causa una sua infedeltà, è trascinato dalla moglie in un divorzio che lui non vuole, ma che cerca di subire con rispetto e dignità. Per lui è sempre più difficile dare gli alimenti alla famiglia e mantenere se stesso, cercando di sopravvivere al dolore personale e alla povertà sempre più vicina. Ivan De Matteo offre uno spaccato abbastanza veritiero e sensibile dell ’Italia d ’oggi, con qualche punta di sentimentalismo che poteva essere risparmiata, ma con molta verosimiglianza. Battuta chiave del film è probabilmente “Il divorzio è per i ricchi, quelli come noi non se lo possono permettere ”, che non lascia certo scampo a illusioni e a speranze di happy end. Un ’Italia per ricchi quindi, una società che non aiuta né le mogli né i mariti separati, e che troppo spesso si affida a soluzioni, egregie e meritorie, ma pur sempre private quali, ad esempio, la Caritas. E chi ne fa le spese è la persona magari più sensibile o più sprovveduta. Così specifica il regista, spiegando che il protagonista arriverà a “un suo vero e proprio scollamento con la società. Giulio continuerà a raccontare a tutti, famigliari ed amici, che sta bene e se la cava, ma ovviamente non è così … è la vergogna che lo fa agire in questo modo. E non vi è peggior sentimento che la vergogna verso gli altri e, soprattutto, verso sé stessi da saper affrontare, perché è qualcosa di impalpabile, non è visualizzabile, ma che ti trascina a fondo ”. Certo, è una storia che Vittorio De Sica, mutatis mutandi, aveva già raccontato in Umberto D con risultati innegabilmente diversi e superiori. Ma è pur importante che il cinema italiano affronti ancora le realtà sgradevoli della società, come i nuovi poveri, anche se le soluzioni, purtroppo, non sono mai indicate. Maria Pia Monteduro
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Giulio (Valerio Mastandrea).
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VIOLETA PARRA E LA CANZONE POPOLARE
VIOLETA PARRA WENT TO HEAVEN, ANDRÉS WOOD
Violeta Parra (Vanesa González).
Violeta Parra è figlia d ’arte, il padre insegnante di musica, il fratello poeta. Causa gravi problemi economici della famiglia, decide di cantare e suonare insieme ai fratelli per le strade, nei circhi ambulanti, sui treni e anche nei bordelli; Violeta sceglie di studiare i generi poetici popolari, uscendo dalle strade del folklore tradizionale, cercando le radici musicali del proprio popolo. Dopo un recital a casa di Pablo Neruda, viene chiamata da Radio Cile per un programma sul folklore locale: è diventata uno dei maggiori conoscitori della musica popolare cilena e cerca di conservare la grande tradizione orale, registrando quanto più materiale possibile. Negli anni ’50 compie una serie di tournée che la portano in Europa. Nel 1964 è la prima donna latino-americana a esporre le proprie opere in una personale al Louvre: nella sezione arti decorative propone i propri arazzi. In Cile installa un grande tendone, la carpa de la Reina, alle porte di Santiago, con l ’intenzione di costituire un centro culturale per le ricerche sulle tradizioni popolari; è sostenuta in particolare da Victor Jara, ma non riesce a ottenere l ’interesse del grande pubblico. Nel 1967, a cinquant ’anni, colpita da grave forma depressiva, si suicida. Il film cerca di cogliere il carattere e le vicende personali di una grande artista poliedrica e di una ricercatrice, che salverà da perdita irreparabile il patrimonio musicale del popolo cileno, e di leggere attraverso le sue vicende personali, sia artistiche che private, la sua vita intensa e le motivazioni che l ’hanno portata alla tragica scelta definitiva. Andrés Wood riesce a proporre in maniera credibile una Violeta sia pubblica che privata. Luigi Silvi
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Violeta Parra (Vanesa González).
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BEATA SOLITUDO SOLA BEATITUDO?
VIAGGIO SOLA, MARIA SOLE TOGNAZZI
Irene (Margherita Buy).
Libertà serena o solitaria rinuncia a una vita piena? Irene (Margherita Buy, ineccepibile come sempre) di professione fa la cosiddetta ospite a sorpresa, vale a dire una persona che, rigorosamente in incognito, visita alberghi a 5 stelle per controllare che tutto mantenga il loro standard di lusso, dalla temperatura giusta del brodo servito in camera alla pulizia sotto i letti alla cortesia non invadente del personale. Lei vive così, viaggiando continuamente, mantenendo uno splendido rapporto di vera amicizia con l ’exfidanzato Andrea (Stefano Accorsi, preciso nel delineare il personaggio) e con la sorella molto diversa da lei. Irene è serena, non le manca nulla, viaggia sola per lavoro e nella vita. Ma quando Andrea le confida che una donna con cui ha avuto una fuggevole storia è rimasta incinta e vuole tenere il bambino, Irene inizia a vivere una crisi personale. Farla riflettere con profondità sul suo modo di vivere sarà compito di Kate Sherman, antropologa inglese incontrata a Berlino. Il film si interroga con intelligenza e senza arroganza sulla generazione dei quarantenni, schiacciati forse dall ’ultima generazione che ha creduto nell ’impegno, ma comunque meno disincantati e cinici dei giovani venticinquenni che si stanno affacciando, senza alcuna speranza, al mondo del lavoro e dei sentimenti. Maria Sole Tognazzi, al suo terzo lungometraggio, ha creduto nella forza e nella validità di una solitudine, purché sia ricca di saggezza e non autoreferenziale, e, assieme agli sceneggiatori Francesca Marciano e Ivan Cotroneo, suoi coetanei ( “Siamo tutti e tre quarantenni, tutti e tre non sposati, tutti e tre senza figli, e stiamo bene così ”) ha costruito una storia credibile, pur se la protagonista svolge un lavoro quantomeno “raro ”. Il film ha riscosso un successo superiore alle aspettative della stessa regista, sicuramente anche grazie ai protagonisti: la Buy infatti ha ottenuto il David di Donatello come migliore attrice protagonista, e la stessa regista il Nastro d ’argento per la migliore commedia. Un film gradevole, che fa sorridere e riflettere e non ha atteggiamenti da “trancia-giudizi ”. Sembra suggerire che il vecchio adagio “meglio soli che male accompagnati ” sia sempre valido, ma che la scelta di solitudine non deve essere una fuga dalla condivisione di progettualità, né difesa dalla paura di soffrire. Se è la risposta a una reale esigenza diviene sola beatitudo, ma non deve chiudere la porta aprioristicamente a nessun tipo di amore, amicizia, affettività. Maria Pia Monteduro
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Irene (Margherita Buy).
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POLITICA TRA MARK
NO. I GIORNI DELL ’ARCOBALENO, PABLO LARRAIN
Nel 1988, costretto dalle pressioni internazionali, il generale Augusto Pinochet, da quindici anni dittatore del Cile dopo aver preso il potere con un sanguinoso colpo di stato e con l ’assassinio del Presidente in carica democraticamente eletto Salvador Allende, dopo aver torturato gli oppositori e stroncato nel sangue ogni tentetivo di pensiero diverso dal suo, indice un referendum sulla propria permanenza alla Presidenza. È convinto di vincere: crede infatti che i Cileni alla libertà preferiscano un ordine sicuro, anche se basato su violenza, ingiustizia, torture e assassinii. L ’opposizione democristiana, comunista e socialista compie un azzardo e incarica della gestione della campagna referendaria un giovane pubblicitario, che lavora per un importante studio americano, René Saavedra (Gael Garcia Bernal) (gli Americani, che sostennero pesantemente il golpe contro Allende, ora si accingono a cambiare cavallo). Il giovane sfacciato e spregiudicato, che però s ’innamora della causa, capisce, e convince i leader dell ’opposizione, che non si vince ricordando le brutture e le violenze, ma dando speranza, perché il mondo è cambiato e non è più quello dei tempi di Allende. La vittoria viene raggiunta con quindici minuti di spot televisivo quotidiano nei 27 giorni di campagna elettorale, con lo slogan Chile l ’alegria ya viene. Quando una parte dello spot viene censurata dai militari, in quello del giorno seguente appaiono le manifestazioni di piazza contro la censura. Il NO, è storia, è quasi plebiscitario: il Cile si libera di uno dei peggiori dittatori della storia del XX secolo senza spargere una goccia di sangue. Non c ’è possibilità però di proporre un sistema alternativo a quello capitalista , non c ’è spazio per marxismo e/o teologia della liberazione: libertà sì, diritti sì, giustizia sì, ma all ’interno di un sistema di mercato. Il film è girato con macchine da presa analogiche per non far pesare la differenza tra i filmati degli anni ‘70 e quelli girati oggi. L ’opera di Pablo Larrain pone la politica di fronte a due grandi dilemmi: si può vincere una consultazione popolare senza utilizzare al meglio le tecniche avanzate di pubblicità e di marketing, ed è possibile costruire un sistema alternativo a quello capitalista, o si può soltanto imbrigliare questo all ’interno di regole certe e condivise? La risposta sta, purtroppo, nel fatto che, anche se benauguratamente, i Cileni hanno scelto la speranza. Il regista coglie puntualmente tutte le ambiguità e le difficoltà che si palesano per la prima volta drammaticamente nel referndum cileno. La stampa italiana di destra esprime ancora una volta su questo film la propria volgarità, la propria pochezza, la propria ignoranza, la propria arroganza, scrivendo che il film ha poca suspence (beceri e ridicoli!) e definendo in termini offensivi l ’attore Bernal “nanerottolo messicano ”. Guai però a chi in Italia osa far satira o ironia sulla bassa statura di alcuni dei leader della destra...! Questa destra vergognosa ancora una volta si qualifica da sola: l ’opposto di ogni formula democratica e nessun rispetto per la dignità degli avversari. Luigi Silvi
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KETING E MERCATO
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NON SI TACITI
MUFFA – KUF, ALI AYDIN
Ali Aydin, regista turco nato nel 1981, ha vinto, meritatamente, il Premio Luigi De Laurentiis per la migliore opera prima alla sessantanovesima Mostra del Cinema di Venezia. Un film da più parti definito neorealista, l ’accanimento disperato di un padre che non si arrende e continua nonostante tutto a chiedere notizie del figlio arrestato per le proprie idee politiche e sparito diciotto anni prima: nonostante arresti, torture, risposte vaghe ed evasive, tentativi di stupro, intimidazioni varie, non si arrende e continua a scrivere ogni mese due lettere, una al Ministro dell ’Interno e una alla Questura, per sapere che fine abbia fatto il figlio. Basri (un intenso Ercan Kesal, attore già apprezzato in altre pellicole turche), questo il nome del padre indomito, ha cinquantacinque anni e di lavoro fa il controllore di binari. Cammina ogni giorno, che piova o tiri vento, per venti chilometri, da solo, con l ’unica compagnia di una radiolina. Solo al mondo – anche la moglie è morta – Basri non si arrende, non può arrendersi. Personaggio, per stessa ammissione del regista, dostoevskiano, quest ’uomo è la rappresentazione della coscienza che non si ferma, che non ammette sconti, che non si fa comprare: “l ’e lemento che mi ha portato a scrivere questa storia è stato la mia coscienza. Scrivendo, volevo mettermi in pace con lei e fare in modo che la tragedia delle persone scomparse pesasse sulla coscienza di tutti. Durante la fase di scrittura, che è durata sette anni, sono stato colpito da due cose: la prima riguarda senz ’a ltro le storie delle famiglie devastate degli scomparsi, la seconda è legata invece alla lettura di Dostoïevski, che descrive con acume in quasi tutte le sue opere la solitudine, le nevrosi, i sensi di colpa, i dubbi, le malinconie che assalgono la coscienza umana. La cupezza delle sue atmosfere ha nutrito così l ’essenza del mio personaggio che perde a poco a poco la speranza. ” Atmosfere neorealiste, si diceva, piccole storie di piccole persone ma narrate con rigore morale e stilistico: la grande storia sullo sfondo – un gruppo di donne che nel 1995 ha iniziato una protesta permanente, riunendosi ogni sabato davanti al liceo di Galatasaray con le fotografie dei propri figli scomparsi in seguito al loro arresto – e in primo piano la stoia di un padre che pian piano diviene disperato. “Le madri del sabato ” sono un solido gruppo che si dà forza al suo interno, Basri è solo ivece, anche se nei suoi diciotto anni di ricerca ha incontrato tanti altri Basri, tanti altri “idioti ” dosteovskiani che vivono per colmare una perdita, senza riuscirci. Un titolo assolutamente fuori marketing per una storia che ricorda un ’Italia cinematograficamente passata, che solo qualche distributore coraggioso (la Sacher di Moretti) fa girare, perché è un film scomodo, cupo, sicuramente non di intrattenimento, ma di alto valore civile. Maria Pia Monteduro
Basri (Ercan Kesa).
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LA COSCIENZA
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Basri (Ercan Kesa).
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ODIO RISPOSTA ALLA CRISI
LA QUINTA STAGIONE, PETER BROSENS e JESSICA WOODWORTH
In un villaggio nelle campagne delle Ardenne la vita di una piccola comunità rurale viene sconvolta da un mutamento inquietante, oscuri presagi di fine del mondo. Qualcosa impedisce l ’avvicendamento delle stagioni, il corso normale della vita animale e vegetale, la primavera si rifiuta di arrivare, la terra inaridisce, la legna del falò non prende fuoco, il gallo ammutolisce, le api scompaiono, i semi non germinano più, gli alberi cadono, le mucche non producono latte, i pesci muoiono, le provviste scarseggiano, gli abitanti si cibano di mosche e blatte. Il ciclo della natura si sconvolge, la natura stessa prende il sopravvento, provocando così l ’implosione della comunità. Sembra fantascienza, ma gli autori di questo genere, di norma, proiettano le vicende in un futuro indeterminato, dove il pianeta ormai invivibile è già stato abbandonato dai suoi abitanti: i registi Peter Brosens e Jessica Woodworth invece propongono una vicenda che si svolge nel presente. Ma, come in ogni crisi, è in agguato la risposta dell ’odio: a pagarne le conseguenze chi è slegato dalle radici, chi è nomade e libero. Nella ricerca di una causa e di un colpevole i paesani trovano una risposta feroce: il capro espiatorio diventa l ’uomo venuto dall ’altrove, il diverso, lo straniero che parla un ’altra lingua. Se il falò per bruciare l ’inverno non si è acceso, bisogna comunque fare “la festa ” a qualcuno. La favola ecologica è foriera di un messaggio contro l ’avidità dell ’uomo che accompagna il genere umano verso l ’ecatombe ambientale e l ’estinzione della specie, che ne è artefice. Il film forse è un po ’ lezioso e portatore di un pessimismo cosmico, spesso esagerato. Ma ancora una volta da destra si leva lo squillo dell ’ignoranza e della volgarità. Il film viene definito “cupo e crudele dramma campagnolo ” con spregio razzista alla campagna e alla vita rurale aggiunge “che barba il finale horror ” (ma dov ’l ’horror? Neanche conoscono il significato corretto dei termini!) e chiude in bellezza dimostrando di non capire nulla per l ’ennesima volta: “per fortuna non ci sono più le mezze stagioni ”. Luigi Silvi
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RESTAURATO TO BE OR NOT TO BE DI ERNST LUBITSCH VOGLIAMO VIVERE, ERNST LUBITSCH
Ci sono opere, film nella fattispecie, che toccano dentro, che è impossibile ignorare che parlano direttamente alla propria anima. Senti che si rivolgono direttamente, con precisione millimetrica, a te, che stai in sala e ti guardi intorno con l ’aria di chi vorrebbe chiedere al proprio vicino di posto: “Scusa ma parla con me, o sbaglio? A te fa lo stesso effetto? ”. È proprio di questo attimo, in cui il tuo sguardo e quello di chi è seduto di fianco si incrociano, che è ora il caso di parlare. Perchè nella maggior parte dei casi, e molte volte ciò si dimostra essere anche piuttosto divertente a pensarci a posteriori, il vicino di posto, che sgranocchia tranquillamente i suoi pop-corn, non capisce ciò che, implicitamente, gli si chiede di condividere; molte volte ti guarda con un vago sorriso e intanto si stringe nella sua poltrona pensando quanto è stato sfortunato a sedersi proprio vicino al matto quella sera. Questo perché? Perché spesso e volentieri ci sono film (spettacoli, testi, opere d ’arte) che parlano a noi e noi soltanto, che segnano qualcosa nelle nostre vite, anche se si fatica in principio a crederlo, disabituati alla magia. Sono quelle opere che ricordano che la sinestesia è possibile, che, per quanto ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole (ed è subito sera), esistono degli spiragli, insperati e inspirati, di condivisione nell ’arte, che fanno della vita un gioco bello e sempre nuovo, Arte/Vita che a momenti di totale isolamento dal mondo alterna quelli in cui, con getto repentino e stregonesco, svela avvinghiati in un abbraccio fraterno e stritolante con lui. Ma questo non è il momento di parlare di opere che parlano a uno e uno soltanto, questo è il momento di chiedersi: cosa succede, invece, quando il vicino di posto, nella sala buia e accogliente di un cinema, ricambia lo sguardo complice, non si ritira nella poltrona, ma, divertito e, sempre implicitamente, risponde, “Lo so, lo so, per me è lo stesso! ”? Credo di conoscere la risposta, e la condividerò come ho condiviso quello sguardo. Vuol dire che siamo davanti al capolavoro. Quello che si rivolge a tutti, tutti riesce a coinvolgere come fossero uno. Questo è Vogliamo Vivere (titolo che è melensa traduzione di un evocativo To be or not to be originale), film che non è solo un ’ora da passare chiuso in un cinema a di-
strarsi dalla vita esterna e reale; è la dimostrazione che anche l ’uomo è capace di creare ritmi vitali perfetti. In questo caso l ’uomo si chiama Ernst Lubitsch, e, guarda caso, è uno dei più grandi registi e sceneggiatori di tutti i tempi. Ogni spettatore è galvanizzato alla visione, divertito nel seguire l ’incalzante incedere dell ’azione mai ridondante, tanto ben oliata. Oltre al piacere sensuale di seguire una storia scorrevole, tragica e comica sempre al momento giusto, il ritmo dell ’azione dà carica, e sembra innescare, anche negli ingranaggi dei nostri ragionamenti abituali e quotidiani, un ’accelerazione; sembra di essere improvvisamente in grado di usare un tempo mentale nuovo, sgranchito. Naturale e sconosciuto. La storia è presto detta, una compagnia di attori polacchi, all ’indomani dell ’invasione nazista capeggiata da Hitler che incombe insieme come essere abominevole e annichilente e ridicolo spauracchio di se stesso, si trova dall ’oggi al domani a poter modificare le sorti della guerra, salvando la resistenza polacca dalle spie tedesche. Tutto in ballo, dai sentimenti di amor patrio all ’amore sensuale, beghe matrimoniali, gerarchie di palcoscenico, scene di guerra e pietà, velleità di varia natura e piani militari magistralmente organizzati si intersecano e si incastrano senza sforzi e, sull ’onda dell ’incredulità – di chi guarda – e senza mai perdere la veridicità – la loro – portano storditi ai titoli di coda. Milioni le frasi che sarebbero da citare, i dialoghi che hanno fatto storia. Letteratura e vita di strada si amalgamano in sipari che creano attese e risvolti sempre più sorprendenti di quelli che ci si aspettava. Figlio degli anni Quaranta che continuano a sembrare prematuri per la modernità, sarcasticité e sguardo lucido e tagliente, Vogliamo Vivere, fuori da ogni logica di genere e di gusti personali, continua a insegnare come si fanno i film, perché li si fa, perché li si va ancora a vedere, ma, soprattutto, ricorda i motivi per i quali, il cinema, si continua ancora ad amarlo. Con lo spirito che molte volte si pensa di aver irrimediabilmente perduto, di anno in anno, di filmaccio in filmaccio, ci si scopre invece frementi sulle poltrone, sempre pronti e speranzosi, ansiosi di lasciarsi stupire, ancora e ancora, e deliziare. Ofelia Sisca
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FELICE CONNUBIO TRA
RICORDANDO ESTHER WILLIAMS
Un ’atleta e un ’attrice, non solo una nuotatrice che recitava. Queste è stata Esther Williams, morta in giugno all ’età di 91 anni. Già campionessa di nuoto – a 15 anni aveva vinto tutte le gare disputate in California nei 100 metri stile libero femminili – arriva inaspettatamente al cinema causa la Seconda Guerra Mondiale, che la costringe a interrompere attività agonistica e studi universitari. Scritturata dalla Metro-Goldwyn-Mayer, dopo qualche film in cui non è notata in maniera preponderante, il successo arriva con Bellezze al bagno del 1944 con la regia di George Sidney, dove sa sfruttare al meglio le sue doti di bella nuotatrice con scene di acrobazie acquatiche entrate nella storia del cinema. Dopo alcuni musical minori (eccezion fatta per Ziegfeld Follies del 1945 dove interpreta se stessa in un balletto acquatico acrobatico), nel 1947 arriva un altro successo strepitoso: La matadora dove è diretta da Richard Thorpe. Da quel momento in poi i film vengono cuciti su misura per lei: La figlia di Nettuno (Edward Buzzell, 1949), La duchessa dell ’Idaho (Robert Z. Leonard, 1950), La sirena del circo (Charles Walters, 1951), ma soprattutto La ninfa degli antipodi (Mervyn LeRoy, 1952), dove la Williams dà una grande prova come attrice drammatica. Quando qualche anno dopo arriva il primo insuccesso, segnale che i gusti del pubblico sono irrimediabilmente cambiati, Esther Williams ha l ’intelligenza di dare l ’addio alle scene; dopo questa decisione si dedica alla meritoria attività benefica di insegnante di nuoto per bambini ciechi. Simbolo di un ’Hollywood spettacolare e scacciapensieri, la sirena Esther Williams rappresenta un interessante fenomeno di felice connubio tra lo sport e lo spettacolo. Maria Pia Monteduro
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A SPORT E SPETTACOLO
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Dangerous When Wet, regia Charles Walters, 1953 .
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Musica
MA QUANDO SCOPPI
FRANCO BATTIATO. ARIA
DI RIVOLUZIONE ,
Auditorium Parco della Musica
Un concerto particolare, diverso dai soliti concerti del cantautore catanese, per lo meno all ’inizio. Infatti l ’evento è inserito nella manifestazione Per voi giovani, realizzata per celebrare la trasmissione radiofonica di Radio2RAI che seppe avvicinare nei primi anni ‘70 milioni di ascoltatori alla grande musica rock internazionale, autentica e insostituibile colonna sonora di trasformazioni epocali in ambito culturale, sociale, esistenziale. Trasmissione che tanto ha contribuito a valorizzazione, studio e diffusione di una nuova musica leggera: impegnata, seria, portatrice di un ’aria di rivoluzione. Il concerto era stato programmato assieme a Claudio Rocchi (curatore e ideatore dell ’interra rassegna) e Gianni Maroccolo, ma la recentissima scomparsa di Rocchi – purtroppo da tempo malato – ha fatto sì che Battiato si esibisse da solo. Ovviamente non è mancato il giusto omaggio e riconoscimento al cantautore milanese, già bassista degli Stormy Six, conduttore radiofonico (proprio di Per voi giovani), senza dubbio uno dei protagonisti del rock psichedelico e rock progressivo italiano. Rocchi e Battiato condividevano anche il debito culturale per la spiritualità orientale. L ’artista ha eseguito con commozione uno dei brani più profondi e interessanti di Rocchi stesso (La realtà non esiste) e ha impostato tutta la prima parte del concerto sulla musica psichedelica, elettronica, di ricerca. D ’altronde lo stesso Battiato, una delle personalità più eclettiche e originali del panorama musicale italiano, durante i primi anni della sua carriera – gli anni ’70 – ha composto musica psichedelica e di ricerca, ottenendo anche prestigiosi riconoscimenti (Premio Stockhausen di musica contemporanea 1979). Sul palco della cavea dell ’Auditorium Carlo Guaitoli al pianoforte, Angelo Privitera alle tastiere e programmazione, Davide Ferrario, Andrea Torresani alla chitarra e basso e Giordano Colombo alla batteria. Aria di rivoluzione quindi, dal titolo di una canzone del 1973 di Battiato ( “Questa mia generazione / vuole nuovi valori /e ho già sentito / aria di rivoluzione ”), ma la rivoluzione è presente anche in molti altri brani eseguiti nel corso del concerto. Una rivoluzione musicale (un omaggio ai Rolling Stones con la celebre cover del 2000 di Ruby Tuesday del 1967), ma soprattutto una rivoluzione interiore, il coraggio e la determinazione nell ’affrontare scelte categoriche e rigorose soprattutto con se stessi ( “Non servono più eccitanti o ideologie: ci vuole un ’altra vita ”da Un ’altra vita 1983). Ecco quindi sapientemente alternate canzoni celeberrime (quelle più cult del quarantennale repertorio del cantautore catanese, cantate a squarciagola da tutto il pubblico) a brani più remoti, con un ’atmosfera misticheggiante (per altro abbastanza comunque in moltissimi brani di Battiato), quali ad esempio Da oriente a occidente ( “Lontano da queste tenebre / matura l ’avvenire ”, 1973), Il mantello e la spiga dove si esorta improrogabilmente “Lascia tutto e seguiti ”. E poi tanti intransigenti attacchi alla società contemporanea ( “Viviamo in un mondo orribile ” da Passacaglia, 2012), ( “Abbocchi sempre all'amo / le barricate in piazza le fai per conto della borghesia / che crea falsi miti di progresso ” da Up Patriots To Arm, 1980), ( “Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro “ da Bandiera bianca, 1981), sottolineati sempre da scroscianti applausi di un pubblico, variegatissimo per età, che riconosce in Battiato una sorta di autorità da profeta, che l ’artista accoglie con sorniona ironia. Un concerto dove il passato e il presente dell ’artista, che ha attraversato molti stili e affrontato tanti linguaggi musicali sempre con molta coerenza, si amalgamano perfettamente per offrire tante occasioni di riflettere sulla rivoluzione, soprattutto quella interiore e personale, che forse sarebbe ora che scoppiasse. Maria Pia Monteduro
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IA LA RIVOLUZIONE?
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Franco Battiato
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Claudio Rocchi
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Claudio Rocchi e Franco Battiato.
“... La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli...” (Marcel Proust)