Periodico di approfondimento culturale - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012- Prezzo € 5
“...non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini...” Elio Vittorini, 1945
“Scrivere non è descrivere. Dipingere non è rappresentare.” George Braque
Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
2
INDICE TEATRO
RECENSIONI SPETTACOLI IN MEMORIA RECENSIONE SAGGI
TEATRO DANZA
RECENSIONI SPETTACOLI
ARCHEOLOGIA
RECENSIONI MOSTRE ANALISI SITI PRESENTAZIONI SITI RECENSIONI SAGGI
ARTE
RECENSIONI MOSTRE RECENSIONI SAGGI
ARCHIETTURA
RECENSIONI MOSTRE
CINEMA
RECENSIONI FILM RASSEGNE IN MEMORIA RECENSIONI SAGGI
MISCELLANEA
RECENSIONI MOSTRE
LETTERATURA IN MEMORIA
ALLEGATO 1 MACBETH
RECENSIONE MACBETH NIGHT
ALLEGATO 2 AUTOMATA
RECENSIONE
HUGO CABRET
PAG. PAG. PAG.
3 40 41
PAG.
42
PAG. PAG. PAG. PAG.
46 56 66 72
PAG. PAG.
76 114
PAG.
118
PAG. PAG. PAG. PAG.
122 144 146 150
PAG.
152
PAG.
168
Doganalisti specializzati in Mostre d’Arte Padova Rovigo Vicenza Tutte le operazioni doganali e le istanze presso la Sovrintendenza alle Belle Arti p e r re p e r t i a rc h e o l o g i c i e o p e re d ’ a r t e p ro v e n i e n t i d a l l ’ e s t e ro e i n v i a t i a l l ’ e stero per esposizioni e scambi culturali.
PAG. II PAG. XXIV PAG. II PAG.XXXVI
VESPERTILLA Direttore Responsabile: Serena Petrini Direttore Editoriale: Luigi Silvi Condirettore: Ilaria Lombardi Vicedirettore: Francesca Martellini Segretaria di Direzione: Maria Pia Monteduro Hanno collaborato a questo numero: Michela Barbieri, Concita Brunetti, Silvia D’Addazio, Mariella Demichele, Palmira Di Marco, Serena Epifani, Andrea Festuccia, Marina Humar, Ilaria Lombardi, Francesca Martellini, Bruna Monaco, Maria Pia Monteduro, Luigi Silvi, Ofelia Sisca. La collaborazione sotto ogni forma è gratuita Impaginazione grafica: Maria Pia Monteduro Editing: Serena Epifani Editore: Associazione Culturale ANTICAMente - via Sannio 21, 00183 Roma INFO 3476885334 - 3331904856 rivista.vespertilla@live.it - vespertilla@tiscali.it Pubblicazione registrata presso il Tribunale Civile di Roma n. 335-05.08.2004 Stampa: Copypoint - via dei Funari 25, 00186 Roma
PADANA SPEDIZIONI S.A.S. SPEDIZIONI E TRASPORTI INTERNAZIONALI 35127 Padova-Zona Industriale-Corso Stati Uniti, 18 Telefono (049)8702322 - Telefax (049)8702327 e-mail laura@padanaspedizioni.com Codice fiscale e Partita I.V.A. 00289000283
3
ANCORA ROMEO E GIULIETTA? PERCHÉ NO!
ROMEO E GIULIETTA, Teatro Belli Rappresentazione solo apparentemente classica del, forse più noto, testo di Shakespeare: Romeo e Giulietta. La pièce è un allestimento della Società per attori, con la regia di Giuseppe Marini, che decide di far riferimento alla matrice cartacea e letteraria dell'illusione poetica. La domanda più ricorrente davanti a una messa in scena shakespeariana, in particolare a questa tragedia, è quale sia il valore del continuare a dare spazio a queste opere. Sembra strano, ma già nell’Ottocento Shakespeare è stato oggetto di recriminazioni da parte della critica. Ne è un esempio Christian Dietrich Grabbe, autore di un vero e proprio libello antishakespeariano, fu responsabile di un attacco frontale contro il maggior drammaturgo dell'età moderna. Titolo significativo del testo di Grabbe: Sulla shakespearomania, proprio a sottolineare l’onnipresenza delle opere di Shakespeare delle quali, secondo Grabbe, nessuna si salverebbe. Eppure una riproposizione shakespeariana acquista senso quando se realizzata da un regista come Marini che crede nel tentativo di attualizzare il testo prescelto, seppur rimanendo nel solco del rispetto dell’originale, proponendo un modello culturale e drammaturgico fondato sulla parola scritta e la tradizione letteraria. D’altra parte, lo stesso Harold Bloom riconosce che la grandezza del poeta inglese è innegabile e risiede non certo nell'originalità, bensì nel valore antropologico e fondativo. Il valore esclusivo del Bardo sta nel fatto che, attraverso le sue opere immortali, ha inventato una nuova tipologia umana: dopo Romeo e Giulietta l’uomo ha cominciato ad amare in maniera diversa, concependo l’amore stesso secondo criteri inediti, poi radicatisi nell’immaginario collettivo fino a oggi. Tornando a Marini e alla sua Società per attori, la scelta
Giulietta (Fiorenza Pieri), Romeo (Lucas Waldem Zanforlini)
vincente e diversificante consiste nell’aprire il tutto con un libro, dal quale far scaturire la rappresentazione della realtà come specchio di essa. Quel libro che rimane aperto in scena per tutto lo spettacolo, tre ore che scorrono lievi grazie ai bravissimi interpreti, testimonia la duplice natura del testo: quella teatrale troppe volte tagliuzzata e semplificata, e quella testuale originaria, della lettura privata, trascendente come e più della visione scenica, così come racconta Dante per Paolo e Francesca. La chiusa non è quella schakespeariana delle ultime parole del Principe che rimanda ai posteri la tragedia di Romeo e Giulietta: il libro si richiude e la conclusione viene affidata a una voce off che spegne lentamente l’illusoria realtà, scaturita dal libro sul proscenio. Altra caratteristica da sottolineare è l’attenzione data alla figura di Mercuzio, personaggio straordinario e ingiustamente sempre messo da parte, che invece incarna una tragedia nella tragedia. Il regista lascia scorrere in sottofondo l’idea che Mercuzio sia innamorato di Romeo, spiegando così la sua devozione per la casata dei Montecchi, i suoi eccessi d’ira, i suoi deliri e il suo sacrificio dinnanzi all’offesa dell’amico. Bravo Mauro Conte a esprimere tutto questo, con la realizzazione di un personaggio bizzarro, schizzofrenico, inquietante, decisamente folle: una fusione tra fool shakespeariano e drugo. La recitazione di tutti gli interpreti è forzosamente condizionata dalla scelta di una traduzione in versi e, in alcuni passi troppo legata al vecchio stile delle regie shakesperiane. Anche i costumi di Mariano Tufano, seppur staordinari per la cura e la meticolosità con cui sono stati realizzati, risultano espressivamente troppo raccordati alla “vecchia scuola”. Concita Brunetti
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
4
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
TRA NATURALISMO ED ESPRESSIONISMO
LA SIGNORINA GIULIA, Teatro Eliseo La produzione artistica dello svedese Johan August Strindberg (1849-1912) è molto complessa e diversificata, toccando ambiti e discipline artistiche diverse. Strindberg fu drammaturgo, romanziere, poeta, pittore e in ogni diversa situazione saprà alternare brama di ricerca a tracce autobiografiche. Nelle varie fasi della sua vicenda umana prima ancora che artistica, l’autore svedese pone sulla scena e nei suoi romanzi le angosce esistenziali e le forti bufere emotive che scuotono e costellano la sua vita privata. Certo però alcuni leit motiv sono costantemente presenti e diventano l’ossatura della sua attività di scrittore. Uno dei temi cardine è il rapporto uomo/donna, che è sempre scontro maschio/femmina. Poco può interessare quanto di autobiografico ci sia in questo approccio con i personaggi maschili e femminili (ma ce ne è moltissimo!): di fatto le diverse coppie che si alternano sui palcoscenici strindberghiani sono composte da partner in contrasto, in lotta, in antagonismo, che si dilaniano, si danneggiano, si odiano. L’attrazione fisica, quasi una pulsione animale, scatena dapprima l’incontro uomo/donna, che diventa, prima o dopo, ma inesorabilmente, scontro maschio/femmina. Alla gioia quasi animalesca che fa cercar l’altro da sé, lo trova e fa scaturire una grande passione, subentra poi, con dolore, rabbia, cattiveria, la vis distruens che distrugge appunto non solo il rapporto di coppia, ma in molti casi la vita stessa dei due contendenti. Anche Si-
gnorina Giulia, composta da Strindberg nel 1888 e definita da lui stesso “tragedia naturalista”, non si sottrae a questa Weltanschauung. Va sottolineato però che, pur se lo stesso autore definisce appunto questa tragedia “naturalista” (assieme a Il Padre, Camerati, Creditori), di fatto la vicenda narrata dal drammaturgo di Stoccolma sfugge alla tipologia del naturalismo, splendidamente delineato da Émile Zola nella prefazione del romanzo Thérése Raquin (1867): specificatamente la storia raccontata in Signorina Giulia non scaturisce deterministicamente né dalla race, né dal milieu, ne dal moment. Classico caso di eterogenesi dei fini: Strindberg vorrebbe consegnare alla storia vicende naturaliste, e invece apre la strada all’avanguardia espressionista, che ha come uno degli obiettivi primari realizzare opere teatrali (e non solo) anti-naturaliste! Il servo Jean e la giovane nobildonna Giulia (Julie in svedese) nella tanto attesa notte di San Giovanni (Midsommarnatten, notte di mezz’estate) nel giro di pochissime ore passano dal corteggiamento (condotto più da lei che da lui) al consumare un rapporto fisico vorace e disinibito, fino alla disintegrazione del mondo della ragazza a tal punto da spingerla a un suicidio non imprevedibile. Per comprendere appieno l’atteggiamento che Giulia ha nei confronti dell’altro sesso, basti pensare che la stessa contessina nel raccontare al seduttore/sedotto la sua infanzia afferma: “… Amavo mio padre, ma presi le parti di mia
Jean (Valter Malosti), Cristina (Federiuca Fracassi), in secondo piano Giulia (Valeria Solarino).
5
madre, perché non conoscevo le circostanze. Avevo appreso da lei a odiare e diffidare degli uomini - lei odiava gli uomini. Ed io giurai che non sarei mai stata schiava di nessun uomo…”. Tematiche estreme, che poi troveranno uno sviluppo organico nel teatro espressionista che tanto prese dalla forza dirompente di Strindberg, considerato, assieme a Franz Wedekind, il “padre nobile “ di quest’avanguardia principalmente tedesca. Signorina Giulia è anche, non solo, dramma sociale: la disparità di classe, uno dei motori della reciproca attrazione tra Giulia e Jean (perché entrambi la avvertono fortemente e desiderano infrangerla) ad esempio, è pesantemente presente tra i genitori di Strindberg, che penserà a se stesso sempre come Il figlio della serva, dal nome del suo romanzo autobiografico, 1886), l’obbedienza cieca che un servitore dovrebbe al proprio padrone (che in definitiva egli teme, ma gode nel venerare) sono ancora strascichi del teatro sociale ibseniano ed espressione artistica delle lotte sociali che iniziavano a infiammare l’Europa in quegli anni. Strindberg, pur vivendo esperienze psicologiche molto individualiste e personali (si pensi agli episodi di solipsismo di cui fu vittima) è un uomo intellettualmente molto attivo, calato nel modo culturale europeo, da cui egli trae ispirazione e che a sua volta ispira. Il pittore scandinavo Edvard Munch, ad esempio, affida alla tela molte delle angosce strinberghiane e Strindberg, dal canto suo, pone sul palcoscenico l’ansiosa inquietudine del pittore di Oslo: Strindberg e Munch, peraltro, si conobbero a Parigi. Lo spettacolo, diretto e interpretato da Valter Malosti, che ne ha curato anche una nuova traduzione più consona al mondo contemporaneo,
Giulia (valeria Solarino), Jean (Valter Malosti).
coglie tutto questo. Scenografia espressionista, con un uso manicheo del colore, interpretazione che oscilla tra un naturalismo di facciata e un espressionismo quasi fisico, danno spessore alle contraddizioni che ogni personaggio vive in se stesso: il cameriere Jean altalenante tra seduttore e sedotto (Valter Malosti, perfetto nel delineare la mancanza di scrupoli dell’arrampicatore sociale), la cuoca Cristina, giovane donna subalterna, ma ricca di una dignità che la fa apparire quasi una nobile (Federica Fracassi, sempre in gara a superare se stessa!), e la protagonista, Giulia che, nel giro di poche ore, sembra inizialmente sapersi liberare del gioco impostole dalla società borghese, ma poi è vista soccombere davanti al proprio decoro e prestigio sociali calpestati da se stessa (Valeria Solarino, molto attendibile nel delineare gli sbalzi d’umore e di pathos). Forse si poteva pensare di veder rappresentato qualche riferimento cromatico in più (l’uso del giallo o dell’arancione), così da rendere palpabile la gioia popolare insita nella notte di mezza estate, momento dell’anno ricco di tradizioni e di suggestioni, che tanto ha influenzato culture europee e discipline artistiche diverse per latitudine ed epoche (due esempi tra tanti: William Shakespeare e Ingmar Bergman!). Ma la scelta operata da Malosti in questo allestimento è indirizzata decisamente su uno Strindberg pre-espressionista. Purtroppo non tutto il pubblico ha compreso lo spessore del testo e della coraggiosa mise-en-scène: lo testimoniano inequivocabilmente alcune risate del tutto gratuite e assolutamente inadeguate e fuori posto! Maria Pia Monteduro
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
6
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Carl Larsson, Ritratto di August Strindberg, 1899.
Giulia (Valeria Solarino).
Jean (Valter Malosti), Giulia (Valeria Solarino).
7
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Jean (Valter Malosti), Giulia (Valeria Solarino).
8
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
IBSEN DEPOTENZIALIZZATO
L’ULTIMO RAGGIO DI LUCE, Teatro Argot Studio Henrik Ibsen passa da Romanticismo e drammi storici al teatro naturalista, e quindi a quello simbolista, pur coniugandolo sempre con il naturalismo appunto, per scrivere poi drammi sociali (Casa di bambola, Spettri, L’anitra selvatica, La donna del mare, Hedda Gabler), venati anche di suggestione metafisica. Segno questo del passaggio dell’attenzione su temi ricorrenti nel dibattito culturale e ideologico allora in corso in Europa. Ascendente fondamentale è il Faust goethiano con tutte le problematiche legate alla modernità, con riferimento al pensiero riformistico da Lutero a Kierkegaard e al nascente superomismo nietzschiano. Nell’opera di Ibsen, più che la struttura drammaturgica, prevalgono le tesi esposte, i temi avanzati, i concetti espressi. Ibsen conduce il dramma borghese alle sue vette più alte, ma allo stesso tempo decreta la crisi irreversibile del sistema valoriale su cui esso si fonda. L’interno borghese ibseniano è un ambiente in cui la tranquillità virtuosa di superficie si fonda sul suo opposto: un passato di inconfessabili vicende e desideri inappagati con cui prima o poi tutti sono costretti a fare i conti. Ma questa dimensione “epica” del dramma ibseniano inevitabilmente mina l’equilibrio del dramma borghese, fondato su presente e futuro, e costringe il pubblico a riflettere sull’ambiguità dei propri valori di riferimento. Ibsen cambia i modi e le motivazioni di fruizione del teatro. Prima il pubblico lo frequentava vivendolo come rito mondano, per mero intrattenimento. Con Ibsen giunge a compimento quanto preconizzato da Diderot e promosso da Zola: il teatro specchio critico della società, luogo deputato al dibattito su famiglia, lavoro, dissidi psicologici e scontri inevitabili tra maschile e femminile. Le sue opere sono testimonianza del disordine sociale e morale che causò la crisi degli intellettuali in Europa. Il suo teatro d’idee predica la ribellione dei sentimenti e dei pensieri della borghesia contemporanea e orienta verso l’anarchia, atteggiamento comune in tutto l’occidente al tramonto del XIX secolo. Il suo individualismo esaltato e il suo socialismo idealistico rispondevano infatti ad aspirazioni comuni a un gran numero di spiriti inquieti. Rappresenta la ribellione dello spirito moderno, in antitesi a bassezza e vigliaccheria borghese. Così come nel verismo italiano, anche nel naturalismo nordico, l’occhio dell’artista si sofferma su drammi umani reali, su problematiche di fondo della borghesia spregiudicata. Considerato padre della drammaturgia contemporanea per aver introdotto la dimensione più intima della borghesia ottocentesca mettendone a nudo le contraddizioni e in particolare il profondo maschilismo che non permette alla donna la propria piena realizzazione. Soprattutto con Casa di bambola e Spettri scuote le coscienze dei conservatori e diviene riferimento per que-
Filippo Gili.
gli intellettuali che sostenevano il dramma di idee. Entrambe mettono in discussione l’inviolabilità del matrimonio, per l’allusione, pur se velata, alla sifilide. Spettri (titolo originale Gengangere) è dramma emblematico del teatro ibseniano. Scritto a Sorrento (1881), l’anno successivo a Casa di bambola, rappresentato in prima mondiale l’anno dopo a Chicago, l’opera fu censurata e proibita in molti paesi. La protagonista Helene Alving soffre fino all’esasperazione il proprio dramma interiore: dopo anni vissuti a Parigi rientra il figlio Osvald, cui Helene non ha mai rivelato la vera personalità del padre, corrotto, libertino, ammalato di sifilide, morto pazzo. La sua difesa, fino alla menzogna. dell’onorabilità del marito non serve a salvare Osvald, che ha ereditato dal padre la sifilide. Dramma di una donna, che non si è ribellata alla menzogna, sposata senza amore, che ha nascosto un terribile segreto. Per Ibsen chi non si batte per la verità, contro l’ipocrisia, è destinato a cadere assieme a tutta la propria famiglia. L’ultimo raggio di luce il dolore di vivere è ispirato a Spettri. Filippo Gili, autore della pièce e anche regista, sposta l’azione dalla Norvegia in Italia sulle Alpi, elimina i personaggi maschili, sorvolando così sulle figure del Pastore Manders e del falegname Engstrand, sulle quali Ibsen impernia le proprie ansie e le proprie critiche alla società borghese del tempo. Engstran, padre padrone, vuole scegliere al posto della figlia, il pastore aveva convinto la protagonista Melene a mentire per coprire il marito e la conduce a commettere un errore irreparabile per salvare la propria immagine. A Gili insomma non interessano le accuse di Ibsen all’ipocrisia borghese e al maschilismo ottuso ed egoistico, ma soltanto la morte per pazzia da sifilide. Tutto il testo corre diretto a questa conclusione, tradendo così completamente Ibsen. Gili semplifica, scoglie le parole labirintiche di Ibsen e in questo si allinea con l’imperante ed eccessivamente diffusa abitudine contemporanea di semplificare, saltare passaggi per raggiungere obiettivi personali nei tempi più brevi possibili, senza considerare la complessità di ogni situazione e le inevitabili conseguenze di queste mancanze che irrimediabilmente peseranno sul futuro a breve-medio termine. Lo spettacolo in sé regge, gli attori sono ben diretti e da corretti professionisti interpretano al meglio quanto loro viene richiesto, gli interpreti si trovano quasi allo stesso livello e vicinissimi agli spettatori ricreando così una situazione da salotto borghese, anche se alterando la struttura della sala si creano fastidiosi problemi acustici: le parole pronunciate dagli attori più vicini rimbombano e quelle dei più lontani si perdono. Resta che la pièce come tale, tagliato il profondo di Ibsen, perde ogni interesse e spessore. Luigi Silvi
9
UMORISMO RIDOTTO A COMICITÀ DOZZINALE
IL BERRETTO A SONAGLI, Teatro Eliseo
Ciampa (Sebastiano Lo Monaco).
Una meraviglia della produzione pirandelliana, “la più perfetta commedia scritta da Pirandello’’ (Leonardo Sciascia), Il Berretto a Sonagli (1918), è un’esplosione di modernità nella sublimazione dell’ironia e insieme della profonda angoscia che si sustanzia dietro il tocco del genio siciliano e che si legge, ma di più si tocca, si annusa. Testo che nasce vivo, i cui personaggi cercano in scena la propria dimensione (inutile ricordare che questo, come molti testi di Pirandello, nasce per la scena, fatto che i manuali di storia della letteratura sembrano aver completamente rimosso). In bilico tra pianto disperato e impotente, e risata rassegnata del “ ma sì...’’ ogni personaggio cerca di trovare il proprio posto così nella scena come nella vita. È sostanziale che l’accento cada su quell’ogni, perché la prima fascinazione per questo testo (e per altri pirandelliani) nasce proprio dalla centellinata cura per ogni singolo personaggio, più ancora amore, che l’autore nutre verso le sue creature, delle quali sembra assecondare le disgraziate vite, più che deciderle egli stesso di proprio pugno (forse anche in questo senso gli eroi pirandelliani “cercano sulla scena e non “traspongono’’ dalla pagina?). Proprio in questo dare verità e spessore a ogni singolo personaggio, l’azione che si svolge sulle tavole del palco rappresenta qualcosa di più di un mero spaccato quotidiano da teatro di posa, e la storia, a conti fatti, ne darebbe il diritto, imbastita su un canovaccio potenzialmente ordinario, in special modo se lo si traspone in una produzione contemporanea, di tradimenti e soluzioni riparatorie. Ma perché rimarcare così profondamente questo primo approccio al personaggio, che dopotutto non è che l’incipit a tutta una fascinazione che il testo, la scena, l’azione vera e propria sanciscono definitivamente? Ebbene perché in questo sta anche la difficoltà di mettere in scena Pirandello, e ancor di più una commedia, e prima fra tutte Il Berretto a Sonagli. Nella bellezza mai semplicistica che fa di ciascun personaggio un possibile protagonista sta anche l’enorme difficoltà di una messa in scena densa, e che riesca a dare allo spettatore i giusti mezzi per entrare nell’opera e per sentire quelle sensazioni di condivisione e
paura che sempre sono auspicabili. Non ci sono capocomici che tengano nell’opera pirandelliana (forse in questo un Pirandello straordinariamente fuori dalla logica teatrale) e ce lo testimonia una curiosità secondo cui nella prima messa in scena dell’opera Musco e Pirandello si scontrarono proprio su chi fosse realmente il personaggio cardine, e non è un caso che l’autore vedesse in Beatrice, e non in Ciampa, il perno su cui doveva ruotare la vicenda. E sono proprio Beatrice e Ciampa i poli opposti e gli argini che contengono la vicenda; rispettivamente il tragico e il comico, argini che pian piano durante l’azione vediamo creparsi al suono di scricchiolii sempre più destabilizzanti. Crepitii continui, che diventano stridori, e nell’incedere degli eventi, si trasformano nel tintinnio assordante dei cincianeddi della berretta che calza la testa di quel miserrimo uomo, quel becco, caprone, buffone di turno. Un ominicchio che si insinua nelle pieghe della vita senza mai imprimere la propria impronta, muta forma, nel cigolare delle viti che stringevano la diga, straripando nel mostro; Ciampa inverte, ma silenziosamente, il suo ruolo meschino (ma nel senso siciliano) e farsesco con quello della tragica lucidità femminile (Beatrice), che con lui teneva in equilibrio la vita ignara di tutti gli altri. Ma un demone normalizzato, legittimato dalle capovolte regole sociali e societarie, è quello che si è ‘costretti’ a vedere, e, nel presenziare all’assurda approvazione generale, la platea non può che assistere atterrita all’inondazione, che travalica la scena e, dopo aver affondato inesorabilmente tutti i personaggi, bagna anche gli astanti. Non è proprio questa sensazione che lo spettacolo di Lo Monaco (già trasposizione di quello di Bolognini) infonde, ma piuttosto una prova d’attore su un testo che indiscutibilmente possiede in sé già tutte le caratteristiche per farci ridere e piangere. Ancora legati al rispetto pressoché pedissequo si rimane in quel limbo in cui non si ha il coraggio per stravolgere né quello per esasperare. Ma, potenza, almeno, della parola, l’eco lontano di quei cincianeddi arriva insieme con gli odori, le cadenze e i colori della Sicilia. Ofelia Sisca
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
10
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro GOTIC PIRANDELLO PER LAVIA, IPOCRISIA IN BIANCO E NERO TUTTO PER BENE, Teatro Argentina Una consapevolezza che sconvolge la vita, che capovolge tutte le certezze e presenta d’improvviso un mondo che non si immaginerebbe mai di vedere. Martino Lori scopre, a pochi giorni dal matrimonio della figlia Palma, e dopo sedici anni di compito lutto per la morte della moglie, che i valori fondanti della sua esistenza - onestà, amicizia, rispetto - son solo cenere da nascondere sotto il tappeto, mentre lui stesso, ignaro, li ostentava alimentando lo sdegno di chi lo credeva un opportunista commediante. Un mondo cupo, quasi in bianco e nero quello in cui Gabriele Lavia fa fluttuare il suo personaggio, con quella morbidezza e instabilità di un burattino dai fili troppo corti che, goffamente, quasi per gioco del burattinaio, sfiora appena la scena con la punta dei piedi. Lucia Lavia (Palma) con una recitazione fredda e imperativa fa gravitare attorno a sé uomini di indole diversa (Gianni De Lellis è un bonario Salvo Manfroni, Roberto Bisacco un condiscendente ma distaccato Flavio Guadi, marito di Palma) ma come nel più classico dei gotic novel, oltre le alte cupe vetrate che dominano la scena, scroscia un temporale costante che imprime un senso di fastidioso malessere, sostenuto da luci tenui e da personaggi costantemente in penombra che sembrano sopportare con fastidio la reciproca presenza in quello spazio così
Gabriele Lavia (grande nella disperazione, il suo orrore spasmodico è la reazione di un uomo cui manca il fiato dopo un colpo allo stomaco. Annaspa, si smarrisce, cade in ginocchio, con un monologo sofferto prende coscienza sul passato: “... Non sono stato mai nulla, non sono più nulla, non ho nulla, neanche quella morta, più nulla!...”. La reazione di Lori è una nuova scintilla elettrica in un circuito paralizzato da anni, aprire gli occhi, per tutti, è sorprendente e doloroso. Lori è ebbro di lucidità (“...Sono come un cavallo scappato. Mi frustano tutte le cose, che mi sono all’improvviso uscite dall’ombra da tutte le parti...”); Palma, disincantata, vede in lui un sentimento autentico che la commuove, il senatore Manfroni si mostra più afflitto che umiliato (soprattutto dopo che emerge la vera natura sulla pubblicazione che gli ha dato fama, sottratta al padre dell’amante -noto scienziato- e edita a suo nome). In questo continuo passaggio dalla commedia alla tragedia Lavia sceglie di non condannare nessuno e di non cadere in una semplicistica suddivisione buoni-cattivi, come se la vita stessa fosse una maschera ancora più grande dei suoi personaggi in cui ciascuno -a suo modo- rimane orfano di ogni certezza. Monumentale Lavia, come sempre, il teatro intero si addensa con tutto il dolore che una commedia sull’ipo-
Martino Lori (Gabriele Lavia).
denso. Nei primi due atti un imponente contrasto bianco -gli abbondanti fiori nuziali, il solenne divano in pelle- interrompono il grigiore dominante senza addolcirlo, mentre nel terzo squarciano la scena omogenea solamente gli improvvisi bagliori dei fulmini, che, perfettamente, con una cadenza scontata ma non banale, accompagnano la presa di coscienza del consigliere Lori: “come colpito in testa” -per usare una delle didascalie di Pirandello- apprende dalla figlia l’adulterio della moglie, amante del senatore Salvo Manfroni che, dopo la dopo la morte della donna, ha approfittato dell’amicizia e della riconoscenza di Lori (“risarcito” dell’infedeltà con un ruolo di consigliere di stato) per avvicinarsi a lei e sostituirne la presunta figura paterna al punto da rivelarle la parentela. Realtà evidente a tutti, a quanto pare, ma non al mite Martino Lori che fino a quel momento aveva avuto un occhio di riguardo (e magari l’aveva chiuso pure) verso quegli affetti che alle sue premure rispondevano con insofferenza gratuita, alla quale si era da tempo rassegnato. La dolorosa scoperta della verità che la figlia, sfinita, gli getta in faccia per scuoterlo dalla commedia nella quale crede che il padre si ostini, genera in lui un’angoscia che lo soffoca: il Martino Lori
crisia può emanare quando finisce tra le mani di un regista attento alle minime sfumature del testo, per il quale le musiche di Giordano Corapi e le luci di Giovanni Santolamazza costituiscono valore aggiunto (da ricordare l’intervento della danzatrice Alessandra Cristiani, la cui figura sembra evaporare mentre Lori si perde nei ricordi). Il finale, così come l’inizio, si risolve ai piedi dell’imponente monumento funebre della moglie che, dal proscenio sinistro, domina i tre atti come a voler ribadire la sua presenza ingombrante ma, allo stesso tempo, esemplare. Solo alla defunta consorte, infatti, Lori può sentirsi ancora vicino, a lei che dopo il tradimento si pentì e tornò per compensarlo con la sua presenza: lunghi ralenti all’indietro sembrano voler offrire nuove opportunità al passato, come se si cercasse di ripartire da un momento che poteva risolversi in un modo piuttosto che in un altro, ma “...Tutto il resto è stato inganno...”, dice Martino Lori con voce ferma, e sarà commedia anche il “...tutto per bene...” che s’inscenerà da quel momento in poi. Nel destino crudele di Pirandello, ancora una volta, non c’è spazio per cucirsi addosso una “vestina decente’’. Francesca Martellini
11
CON PIRANDELLO NESSUN RUOLO AL SICURO
QUESTA SERA SI RECITA A SOGGETTO, Teatro Quirino La terza parte della trilogia pirandelliana del Teatro nel teatro fu composta tra il 1928 e il 1929, quasi dieci anni dopo la rivoluzione drammaturgica e spettacolare dei Sei personaggi in cerca d’autore (1921). Con tale termine si intende quella parte della produzione pirandelliana (principalmente Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo -1924- e Questa sera si recita a soggetto) in cui l’autore non si accontenta più di rappresentare una storia, ma vuole co-agire con il pubblico tramite gli attori. Non gli è più sufficiente parlare alle orecchie dello spettatore, ma vuole coinvolgere anche gli occhi. Ecco quindi il ricollegarsi alla felice esperienza del cosiddetto palcoscenico multiplo di shakespeariana memoria, in cui simultaneamente possono coesistere sul palcoscenico stesso situazioni e momenti diversi, sorta di segmenti teatrali affiancati per svelare meglio i meccanismi del teatro, metafora della vita. Perciò, come già ampiamente utilizzato dalle avanguardie d’inizio secolo, la “quarta parete” viene gradatamente meno utilizzata, coinvolgendo di conseguenza sempre più il pubblico a vivere la vita dei personaggi sul palcoscenico, più ancora che condividere le emozioni degli attori. Molti i riferimenti personali e autobiografici che Pirandello colloca in Questa sera sirecita a soggetto e nelle relative didascalie. Innanzi tutto il personaggio regista è tedesco e non è certo inopportuno ricordare la formazione culturale che l’autore di Girgenti ebbe in Germania, dove studiò a lungo a Bonn e dove entrò in contatto con la vivace vita culturale tedesca, animata da intenso fermento, che influenzò nel profondo la poetica pirandelliana. Non è quindi un caso che la prima assoluta si tenga nel 1930 in Germania, a Königsberg (patria di Immanuel Kant, alla cui casa Pirandello si recherà per rendere omaggio); dopo quattro mesi la prima italiana al Teatro di Torino. Sono gli anni della straordinaria esperienza politica e culturale della Repubblica di Weimar, Pirandello ha scelto una sorta di esilio volontario a Berlino, dopo la chiusura della sua compagnia teatrale: né lui, né altri intellettuali possono immaginare lo spaventoso baratro in cui precipiteranno poco dopo Germania ed Europa! Pirandello ormai è autore più che affermato, dopo qualche anno (1934) riceverà il Premio Nobel “per il suo coraggio e l’ingegnosa ripresentazione dell’arte drammatica e teatrale” (dalla motivazione ufficiale della giuria del Premio) e perciò può permettersi attacchi alle gerarchie teatrali che altri autori non possono. Certo, già le avanguardie avevano rovesciato ruoli e stilemi, ma con la voluta caducità propria delle avanguardie stesse. Pirandello invece struttura e organizza la sua rivoluzione teatrale, che diventa rivoluzione copernicana, totale. E in questo caso, non pago di aver dato forza, spessore e vigore ai personaggi teatrali, dotandoli di vita autonoma, destruttura la figura del regista, lo trasforma in antagonista dell’autore; ma non basta: sono poi gli attori che contestano l’egemonia del regista stesso, mentre lo stesso pubblico diventa coprotagonista della pièce, fino ad arivare all’ultimo intervento, forte, dei personaggi. E proprio Pirandello, uomo non incline agli entusiasmi facili, alla conclusione di tale prima tedesca, esclamerà molto soddisfatto “Tutto il teatro recita”. Le didascalie abbondano di suggerimenti e indicazioni per le luci, i suoni, tutti gli accessori tecnici teatrali, che devono tutte insieme concorrere a concretizzare la possibilità di effettuare la svolta rivoluzionaria del “recitare a soggetto”, che è poi un ritorno alle origini del teatro. Nessun ruolo ormai è sclerotizzato in un’icona accettata e mai posta in discussione; nulla dei meccanismi e delle componenti teatrali può sopravvivere al vento rivoluzionario che Pirandello fa soffiare sui palcoscenici di tutto il mondo. Il Pirandello che si autocita ormai non è più una novità. Questa volta è la novella Leonora addio, molto “sicilianamente” incentrata sul tema della gelosia parossistica, che porta a distruggere l’oggetto del proprio amore. Non era successo qualcosa di simile nella vita reale di Pirandello, dove la povera moglie Maria Antonietta Portolano, nella sua mente malata, sommò allo choc per il dissesto finanziario della famiglia una spasmodica e irrefrenabile gelosia nei confronti del marito? Questa sera si recita a soggetto pone nel titolo una limitazione temporale (questa sera), ma è un gioco dell’autore, perché per lui sarebbe forse opportuno iniziare a recitare, ma soprattutto a vivere a soggetto. La presente edizione della Compagnia Moliere, con la regia di Ferdinando Ceriani, ha il suo punto di forza in Mariano Rigillo, che interpreta il vecchio attore: ironico, autoironico forse, esibisce tutto l’umorismo di cui Pirandello lo dota, con atteggiamenti quasi da straniamento brechtiano (un altro riferimento al mondo tedesco…). Tutto il cast, i supporti spettacolari contribuiscono a realizzare uno spettacolo filologico, ma nel contempo attualizzato, coinvolgendo ancora una volta il pubblico e soggiogandolo questa sera, cioè per sempre, alla genialità dell’autore siciliano. Maria Pia Monteduro
Signora Ignazia (Anna Teresa Rossini).
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
12
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni), Blanche Dubois (Laura Marinoni).
Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni), Blanche Dubois (Laura Marinoni).
13
SVUOTATO DI TUTTO NON RIMANGONO CHE LE EMOZIONI UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO, Teatro Argentina
Blanche Dubois (Laura Marinoni), Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni).
Originale riadattamento, che porta la firma di Antonio Latella, di una delle opere di maggior fortuna del drammaturgo statunitense Tennessee Williams, scritta nel 1947. Testo che divenne subito successo, debuttando a Broadway nello stesso anno, per la regia di Elia Kazan, con Marlon Brando nel ruolo di Stanley Kowalsky e Jessica Tandy in quello di Blanche Dubois. Un tram che si chiama Desiderio è una turgida storia di passioni, di sesso, di violenza, di inquietudini sottili e morbose. Williams ricerca il caso limite e abnorme delle psiclogie patologicamente contorte, ambientate tra le classi popolari, realizzando violenti e sanguigni ritratti di vita. Il dramma “tiene” ancora, l’edizione al Teatro Argentina, nella traduzione di Masolino d’Amico, si discosta dalle letture tradizionali secondo la particolarissima poetica del regista. Un occhio critico che ha saputo spogliare ogni elemento scenografico per far emergere tutta la ferocia e l’impeto del dramma e per scavare nell’anima di Blanche Dubois, interpretata splendidamente da Laura Marinoni. La vicenda si svolge a New Orleans nei primi anni ‘40, quando le aspettative per un futuro migliore erano tante e per tutti, anche per Stanley Kowalsky, protagonista e marito di Stella, emigrante polacco affascinato dal sogno americano. Stanley insieme alla giovane moglie vive in un vecchio appartamentino alla periferia della città. La coppia aspetta un bambino. A turbare questo equilibrio giunge Blanche, sorella di Stella, donna dai molti lati oscuri che pian piano andrà svelando, fino a rivelarsi pazza ed essere ricoverata in manicomio. Latella di lei dice: “...troppo ammalata di vita per riuscire a vivere... ”. Sul palco dell’Argentina l’idea del direttore tecnico e cura-
tore delle luci, Robert John Resteghini, è quella di creare uno speciale rapporto tra scenografia e illuminotecnica: da una parte la mise en scene scarna ed essenziale costituita da scheletri di arredamento, dall’altra l’alternanza delle luci, a volte calde, a volte fredde, che si muovono a scatti come fossero i terminali nervosi degli stati d’animo dei protagonisti. Allora un frigorifero, una vasca, una struttura letto e pochi altri elementi asettici occupano il palcoscenico, rendendo astratto il luogo che è proiezione della mente di Blanche. L’attacco è affidato al racconto/voce in campo del medico (Rosario Tedesco), che ha in cura Blanche, e segue tutta la vicenda, diventando una sorta di coscienza collettiva, sottolineando gli stati d’animo degli attori e preannunciandone umori e gesti. Un espediente che accentua l’atroce bestialità insita in Stanley e la crescente follia di Blanche, fino a svuotare le sue emozioni. Il dottore rimarrà vicino a Blanche per tutto il tempo, in bilico tra angelo custode e narratore onnisciente, posizionato a destra della paziente, lasciando traccia di sé sulla scena con una poltrona in pelle e un’abat-jour. Il rapporto conflittuale tra Stella e sua sorella Blanche viene percepito sin dall’arrivo di quest’ultima a New Orleans, ma sarà ancora più forte con il suo rozzo cognato con il quale ha un ambiguo rapporto di seduzione che si chiude con uno stupro che la fa scivolare nella follia. Tutta l’opera gira attorno al personaggio di Blanche e l’esperienza soggettiva dello spettatore viene portata al limite, mentre le luci creano un effetto sturbante. Vinicio Marchioni costruisce un Kowalsky dal forte accento dell’est, che lascia senza fiato. Silvia D’Addazio
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
14
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni), Blanche Dubois (Laura Marinoni).
15
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni), Blanche Dubois (Laura Marinoni).
Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni), Blanche Dubois (Laura Marinoni).
Blanche Dubois (Laura Marinoni), Stanley Kowalsky (Vinicio Marchioni).
16
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro ALLEN E DE FILIPPO SI DANNO LA MANO NELLA REGIA DI PUGLIESE LA LAMPADINA GALLEGGIANTE, Teatro Quirino
Enid (Mariangela D’Abbraccio).
Nell’oscurità più totale si accende una lampadina. Alla debole luce vediamo un ragazzo che si esercita a fare giochi di prestigio. La lampadina gli si è materializzata sulla punta delle dita ed è alimentata da una magica energia, non è collegata a niente. Presto comincerà a galleggiare misteriosamente nell’aria... Passi trafelati su scalini di lamiera suonano da avvertimento, una porta che sbatte è l’interruttore con cui si accende la concretezza di scena. La magia della didascalia iniziale è scoppiata come una bolla di sapone, tornerà all’apertura del secondo atto ma la sua sospensione suona estranea e lontana nella mente dello spettatore, è fine a se stessa. Nella New York dagli alti grattacieli una squinternata famiglia ebrea ne occupa i piani più bassi, nell’eccezione sociale e topografica del termine: in un appartamento in penombra tra mattoni e finestroni dei palazzi circostanti Paul (Emanuele Sgroi) si esercita in giochi di prestigio destinati a se stesso e al fratello minore con fantasie piromani (Luca Buccarello, giovanissimo e grintoso), entrambi pressoché ignorati da un padre farfallone, Max (Mimmo Mancini) che affida il futuro a cavalli e ai numeri del lotto e inganna il presente con la sua giovane amichetta, che lo distoglie dagli strozzini. Di scuola e di soldi non se ne parla, o meglio, se ne grida tanto ma le parole si gettano al vento perché del mondo “di fuori” -istruzione, impegno, professione- a suo modo ciascuno ne ha paura. Max non si separa dalla sua pistola, che porta sotto la giacca come un secondo cuore metallico; Paul si rifugia al secondo piano del letto a castello, il suo quoziente intellettivo è una promessa ma è affetto da una timidezza che rasenta la fobia e il terrore dell’altro; Steve non si farebbe scrupoli a indossare il cappotto e correre dagli amici del quartiere, ma un tentativo (uno sforzo, si può dire) di salvarlo dalla strada riesce ancora a relegarlo in casa nonostante i suoi sbuffi non promettano a lungo remissività. Chi indirizza i propri circuiti mentali verso cose più realistiche, sulle quali poggiare ancora la moralità della famiglia, è una figura materna spicciola e pratica, Enid (Mariangela D’Abbraccio), che si arrabatta per risollevare le sorti familiari sullo sfondo di questo dramma comico che proprio non ne vuol sapere di risolversi in un happy end. Quando un impresario teatrale accetta di assistere a un’esibizione “salottiera” di Paul sembra che per tutti sia giunta la grande occasione di riscatto, ma sono stati sottovalutati imprevisti e patologie che ancora una volta allontanano utopie di serenità che svaniscono in un senso di impotenza. Cos’è la lampadina galleggiante, che fa da titolo ad una commedia di Woody Allen mai rappresentata in Italia? Una parentesi, una visione, una magia. Non un trucco degno del mago, ma un mondo parallelo fluttuante raggiunto dal più fragile dei personaggi, il balbuziente Paul, un guscio fragile ma nascosto nel quale nessuno può entrare e che anche lo spettatore è destinato a carpire nella sua manifestazione di scintilla, che poi si dissolve nel caos. Armando Pugliese scurisce una commedia leggera e sconsolata con i fumi dei bassifondi newyorkesi, ma vi aggiunge toni eduardiani e caratteri mediterranei che rendono familiare la scena, avvicinandola al pubblico italiano nel momento in cui se ne sfumano le caratteristiche originali. Mariangela D’Abbraccio, che all’ultimo momento sostituisce Giuliana De Sio, è un carattere “ciociaro” che scalda la scena di vero amore materno e di affetto coniugale, il suo è un personaggio a tutto tondo che le calza alla perfezione: una donna la cui passione per il futuro dei figli è più forte dei propri rimpianti (il passato da ballerina, una vita familiare serena) e da sola anima uno spettacolo a tratti lento e dispersivo. Si fa fatica a pensare un’attrice diversa per un ruolo come quello. Per chi da questa commedia si aspetta quasi di trovare Woody in persona sul palco, La lampadina galleggiante è un’amara sorpresa, perché di “alleniano”, se non la somiglianza di Barbara Giordano con Scarlett Johansson, in due ore di spettacolo c’è ben poco: la comicità è intima e pungente ma il ritmo si perde, i toni appaiono troppo spesso concitati, le chiacchiere dell’improbabile impresario con la donna alla lunga annoiano e distolgono l’attenzione del pubblico. Uno scoppio di paiette luccicanti nel momento in cui Enid vorrebbe definitivamente scacciare il marcio dalla sua vita riporta in scena un’amarezza consapevole, e il buio cala su tutti quei fluttuanti pezzettini colorati mentre non c’è alcuna lampadina a dar briciole di speranza futura. Francesca Martellini
17
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Paul (Emanuele Sgroi), Enid (Mariangela D’Abbraccio)
Enid (Mariangela D’Abbraccio).
18
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro VIAGGIO NELLA DRAMMATURGIA INGLESE CONTEMPORANEA ABBASTANZA SBRONZO DA DIRE TI AMO? e PRODOTTO, Teatro Vascello In compagnia di Carlo Cecchi, che dopo aver chiuso due stagioni di totale ambiguità. Il tutto è messo in scena come una danza, grazie all’autournée con Sogno di una notte d’estate debutta in prima nazionale al silio di una semplice ma efficace scenografia composta di pochissimi eleTeatro Vascello con il dittico composto da Abbastanza sbronzo da dire ti menti, tra cui un divano girevole. Il dialogo quotidiano e sconclusionato amo? di Caryl Churchill e da Prodotto di Mark Ravenhill, facciamo un cela nei suoi interstizi tutto l’orrore, l’orrore della guerra del calcolo spreviaggio dal classico al contemporaneo. E contemporanei i due testi lo gevole che non tiene in conto l’uomo e l’umanità. La perversione orrorisono a pieno dato che Caryl Churchill è considerata uno dei più grandi fica della guerra si deconnota a tal punto da divenire erotismo e drammaturghi viventi, mentre Mark Ravenhill, nato nel ‘66, può a ben autoerotismo. Il pezzo si chiude con un inquietante dichiarazione dell’Adonde esser definito il miglior drammaturgo della sua generazione. En- merica, esportatrice di democrazia e libertà: “devi amarmi!’’. Dopo l’intrambi i testi, uno del 2006 e uno del 2005, fotografano lo scontro della tervallo si riprende con Prodotto di Mark Ravenhill che, sebbene realtà europea con quella americana, in un momento in cui gli equilibri altrettanto carico di ulteriorità e giocato anch’esso sul doppio senso polidella società civile, per la prima volta in questo nuovo secolo, dimostra- tico-sessuale, risulta meno scorrevole, meno capace di evoluzione dramvano ancora una volta di essere appesi a interessi internazionali. A dialo- maturgica. La storia è quella di un regista cinematografico che cerca di gare in questa rutilante realtà a motore principalmente economico sono il essere convincente e accattivante per coinvolgere una giovane star nel petrolio, i genocidi e l’assenza pressoché totale di senso di colpa. Il primo film che intende fare; cerca di trasmettere tutto il suo entusiasmo, spedi questi due testi, Abbastanza sbronzo da dire ti amo?, risulta il meglio rando di conquistarla al suo film: senza la star, si intuisce, i produttori riuscito, sia per la splendida prova attoriale di entrambi i protagonisti, ov- non cacceranno the money. La storia che il regista racconta è una di quelle vero il regista e attore Carlo Cecchi e una tra le voci migliori del teatro ridicole fiction d’amore che l’industria hollywoodiana pretende di far italiano, Tommaso Ragno. In questa pièce l’amore tra una nazione (gli passare come i nuovi miti moderni. Alla fine il regista riesce nell’intento Stati Uniti) e un individuo (europeo), osserva una “ascesa e caduta”, su- e il film si farà. Ma l’intera non-azione scenica si regge sulle eccezionali bisce le crisi tipiche di ogni coppia, riscopre i valori della passione e della doti recitative di Carlo Cecchi e null’altro, dato che la sua compagna in famiglia, perde e ritrova quella coesione d’alleanza che è stata l’ago della scena, Barbara Ronchi, fuma mille sigarette ma non pronuncia una parola. bilancia dell’America di G.W. Bush. Il testo di Churchill ripercorre due Ma tutto questo passa in secondo piano se a condurre il gioco, seppur audecenni di geopolitica al ritmo irresistibile di un dialogo spezzato, monco, toreferenziale, è il grande Cecchi davanti al suo pubblico. dilaniato e dipanato lì dove il senso si completa da sé o affonda nella più Concita Brunetti
Carlo Cecchi.
19
VERITÀ ALLO SPECCHIO: IL PARADOSSO DEI SENTIMENTI VARIAZIONI ENIGMATICHE, Teatro della Cometa Un’intervista. Un incontro. Uno scrittore e un giornalista si trovano faccia a faccia per un colloquio di apparente routine professionale. Uno, Abel Znorko, premio Nobel osannato da pubblico e critica, volontariamente confinato da anni nell’esclusivo romitaggio intellettuale di un’isola nordica. L’altro, Erik Larsen, modesto estensore della pagina culturale di un giornale di provincia. È questo il punto di partenza di Variazioni enigmatiche, la pièce di Éric-Emmanuel Schmitt del 1996, portata al successo all’estero da interpreti del calibro di Alain Delon e Donald Sutherland, ora sulla scena italiana, al Teatro della Cometa. Un incontro in realtà voluto - e temuto - dai due più di quanto le circostanze iniziali facciano supporre. Occasione la pubblicazione di un libro, un romanzo epistolare sull’amore a distanza tra un uomo e una donna che, nel distacco dalla quotidianità, sembrano aver raggiunto l’ideale di una sublime affinità di spiriti. L’intervista vira ben presto sul tema del rapporto tra finzione e realtà, con la proclamazione del dogma, da parte dello scrittore, che l’arte tanto più è tale quanto più è altro dalla vita. Salvo scoprire poi, man mano che l’incontro diventa scontro, che la vita entra nell’arte molto più di quanto il suo stesso artefice sia disposto a credere. Ecco allora, con l’inizio delle ostilità, inevitabili tra due personalità tanto diverse, un susseguirsi di duelli verbali, prima puramente teorici, poi sempre più personali. Fino a portare allo scoperto verità taciute: all’interlocutore, al mondo e a se stessi. Un’inarrestabile intromissione della vita che si rivela però attraverso un gioco di specchi deformanti, di rimandi continui a rivelazioni sempre più sconvolgenti. Verità prima presentate sotto una particolare luce, e come tali sviscerate nelle pieghe più nascoste. Poi improvvisamente ribaltate, in una escalation incessante di confessioni estorte o elargite. Verità enigmatiche, appunto, che continuamente prendono la forma del reale e continuamente si rivelano illusorie, sempre sfuggenti a una definizione conclusiva. Proprio come la melodia celata tra le linee sonore delle Enigma Variations, la composizione musicale di Edward Elgar che dà il nome alla pièce, a più riprese ascoltata dai due. Fino a quando il completo svelamento reciproco dei due protagonisti porterà ad un nuovo inizio della loro vicenda umana. La messa in scena è circoscritta nella misura di un naturalismo consapevole, a tratti divertito, sopra le righe, a tratti più intimo e meditativo. Non è facile per gli interpreti, bisogna ammetterlo, stare dietro in modo credibile ai reiterati colpi di scena del testo, che sovvertono le convinzioni acquisite e il senso della narrazione. Se la pièce svaria abilmente tra registri e generi, toccando contemporaneamente, come è costume ampiamente consolidato nel teatro contemporaneo, i territori del comico e del tragico, il gioco degli equivoci, la dissertazione esistenziale e il dramma psicologico, dando spazio alla trovata brillante come allo scandaglio interiore, si insinua oltre un certo limite la sensazione che il continuo rovesciamento di orizzonti abbia un po’ preso la mano all’autore. Che l’invenzione iniziale abbia ceduto ad un certo compiacimento che ne mina, in parte, la validità. Decisamente a suo agio Saverio Marconi, anima della Compagnia della Rancia, che per l’occasione torna alle scene in veste di attore affidandosi alla regia di Gabriela Eleonori, con la quale collabora anche per la traduzione: arrogante e vanesio quanto basta ad un sommo scrittore, rude e provocatorio, fragile e disperato. Meno duttile Gian Paolo Valentini che, se convince come timido inquisitore e tipo umano votato al sacrificio, mantiene poi un’intonazione un po’ monocorde. Ma c’è qualcosa di più, qualcosa che non torna. Va bene la scelta registica di un ritmo sostenuto, l’antiretorica di un’enunciazione che lascia pochissimo spazio al patetico. Ma a volte basterebbe un’esitazione, un’incrinatura appena percettibile dalla quale far scaturire, dolorosamente, la verità. Una lacerazione che incida il derma ed esponga la carne viva, senza difese, allo sguardo altrui. Rimanere in superficie, sollevando a ripetizione il velo sull’ennesima verità, trasforma la sofferenza della scoperta in prova di abilità, col rischio di compromettere il necessario spessore drammatico. Questo certo non giustifica le risate spesso fuori luogo del pubblico, istintivamente portato a cogliere il coup de théâtre e a metterci di suo l’abitudine al doppio senso, anche quando non c’è (una replica sfortunata?). Indotto in errore, però, anche da una certa tendenza a tirare via che finisce per mortificare alcune intenzioni della scrittura, aggravandone i caratteri più controversi. Rimane qualcosa di irrisolto: avrebbe forse giovato la ricerca di una dimensione più autentica, ponderata o - al contrario - beffarda, per rendere credibile l’improbabile, per dare sostanza al paradosso dei sentimenti umani. Michela Barbieri
Abel Znorko (Saverio Marconi).
Erik Larsen (Gian Paolo Valentini).
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
20
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
NELLA TESTA DI UNO SCRITTORE
IL PARADOSSO DEL POLIZIOTTO e TEX WILLER, Teatro Piccolo Eliseo Patroni Griffi In principio erano due racconti: Il paradosso del poliziotto e Intervista impossibile a Tex Willer, dell’autore di gran fama nazionale, Gianrico Carofiglio, romanziere oltre che politico e magistrato. Teresa Ludovico ne ha tratto un adattamento teatrale firmando la regia de Il paradosso del poliziotto e Tex Willer che la compagnia pugliese Kismet Teatro Opera ha presentato alla rassegna Puglia in scena. Uno scrittore grassottello e rubicondo (Augusto Masiello), in vestaglia e pantofole, è alle prese con una macchina da scrivere e un’ispirazione che non arriva. Dietro di lui, un separé attraversa la lunghezza del palco, è aperto a fisarmonica e nasconde un uomo di cui vediamo solo l’ombra. Lo scrittore digita parole su parole, le sottopone all’ombra: severa nella postura, col cappello inclinato sulla fronte e il sigaro in bocca, l’ombra scuote la testa. Tutto da stracciare. Per fortuna l’immaginazione del nostro scrittore produce anche personaggi, non solo ombre monitrici. Che l’ispirazione stia arrivando? Appare un poliziotto (Michele Cipriani) e inizia un dialogo-intervista. Se potesse, cosa chiederebbe un autore ai suoi personaggi? Qual è il processo che porta alla creazione dei protagonisti delle storie che ci appassionano? Il nostro scrittore fa poche domande, il poliziotto della sua fantasia si lancia nel racconto della propria vita regalandogli preziose perle di saggezza: snocciola aneddoti, segreti professionali. Illumina sulle attitudini psico-pedagogiche più atte a strappare confessioni ai criminali. Fa citazioni pseudo colte, che forse non ci aspetteremmo da un poliziotto, ma da un insegnante delle medie qualunque sì. Eppure, nonostante questo, il poliziotto di Carofiglio resta incastrato nel cliché. Rimane una figurina bidimensionale in uno spettacolo dalla messa in scena pulita, le scenografie semplici, ma troppo esteriore, leggero. La recitazione caricata di Michele Cipriani (che interpreta anche Tex Willer) da doppiatore di un western di serie b, non aiuta a ispessire i personaggi. Anche lo scrittore è stereotipato e la recitazione di Augusto Masiello forzata. Lo stesso stile di quei cattivi attori (o attori diretti male) di alcuni spettacoli di teatro-ragazzi: una recitazione tra il clownesco e il naturalista, qualcosa che non è né carne e né pesce e che, alla fine, sembra solo superficiale. Ma, forse, il problema più grosso dello spettacolo è che manca un conflitto drammatico, sulla scena non accade nulla. Senza conflitto non c’è dramma e l’intervista come forma comunicativa (scenica o non) non ha di per sé nulla di attrattivo. Solo la presenza scenica degli intervenenti, o i contenuti della discussione, possono renderla appassionante per chi la segue. Nel caso de Il paradosso del poliziotto e Tex Willer, né gli attori né il testo spiccano per brillantezza. Le idee che Carofiglio presta ai suoi personaggi sono da filosofia da salotto. Tante le citazioni e i giochini letterari, ma nulla che non sia stato già detto e meglio. Alla fine dello spettacolo viene da porsi solo una domanda: perché Teresa Ludovico ha deciso di trasformare in teatro un testo che nulla ha a che vedere con il teatro? Bruna Monaco Tex Willer (Michele Cipriani).
Vignetta di Tex Willer, Sergio Bonelli Editor.
21
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Tex Willer (Michele Cipriani).
Il poliziotto (Augusto Masiello).
22
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
RISPETTATE DUMAS!
I TRE MOSCHETTIERI, Teatro Ghione
Pino Ammendola.
Alexandre Dumas pére fu, al di fuori di ogni possibile dubbio, un autore popolare: i sui romanzi, come è noto, uscivano a puntate sul giornale quotidiano Le Siécle, tenendo con il fiato sospeso i lettori fino all’uscita succesiva. Forse l’autore di Soissons, quindi, non avrebbe disdegnato una commedia intitolata come il suo più celebre romanzo, pur se delle quattro guardie di Luigi XIII ben poco rimane in questa pièce goliardica di Pino Ammendola. Forse Dumas non avrebbe disdegnato, noi sì… Una comicità, per così dire, televisiva, con battute che fanno anche sorridere, ma che hanno poco costrutto. La storia di una ditta di derattizzazione con un operaio del Nord, uno romano e uno del Sud ha di frusto, stantio e di nazionalpopolare; l’ambientazione in un teatro dove il vecchio attore non vuole uscire dal suo ruolo più applaudito, quello di D’Artagnan, è artificio assai poco originale. Uno spettacolo che ricerca, e ottiene, la risata facile. Peccato perché l’idea poteva anche reggere: la continuità nel tempo di alcune figure archetipiche e quindi eterne, tali da restare nelle corde interpretative di un attore in maniera indelebile e affascinare da sempre e per sempre il pubblico. La commedia si divide tra comicità naïf e comicità surreale, tra luoghi comuni tipici della farsa (lo stracapire le parole, il prendere fischi per fiaschi e così via). Il cast è affiatato e lo spettacolo ha ritmo dignitoso, pur se non impeccabile. Ma è tutto molto fragile, troppo basato sulla battuta ad effetto. Interessante è stato analizzare le reazioni del pubblico che ha elargito agli attori risate scroscianti e fragorose, che sulla scrivente avevano un effetto quasi imbarazzante. I tre moschettieri sono, oltre all'autore Pino Ammendola, Massimo Corvo e Andrea Manzalini. Poca cappa e spada insomma, solo battute, battute, battute e ancora... battute. Il popolare Dumas forse avrebbe anche riso, forse… Ma si potrebbe richiedere un po’ di rispetto in più per un gigante della letteratura mondiale! Maria Pia Monteduro
23
TUTTO QUELLO CHE RIMANE
IL DIARIO DI MARIA PIA, Teatro Sala Uno Fausto Paravidino, classe 1976, prima di essere tra i giovani capofila della drammaturgia italiana è soprattutto il figlio di una madre che “... sta poco bene ...”, che lentamente si spenge in una manciata di settimane nel reparto oncologico dell’ospedale civile di Ovada. Una donna che non vorrebbe morire, ma che non potendo fare altrimenti cerca di farlo meglio che può, recita il comunicato stampa presentando con disarmante semplicità una storia che è quella di molti. Materiale per un dramma ce ne sarebbe a sufficienza nei diari che la donna detta al figlio durante la consapevole agonia, ma siamo lontani da un contesto struggente o straziante. Non è la tragedia che tocca lo spettatore, affettuosa elaborazione di chi ha partecipato ad un percorso conclusosi con la perdita umana. Quello che rimane, e che fa piangere, e ridere, è la storia di un accompagnamento verso la morte con la consapevolezza che la vita continua anche quando sta per finire, e che anche di questa fase si può fermare nel tempo un ricordo naturale e rassicurante. A questo sembra alludere, in chiave comica, il siparietto iniziale tratto da Tutto è bene quel che finisce bene, poche comiche battute in dialetto genovese che definiscono la chiave di lettura di un circoscritto episodio, nel quale la vita si mostra nelle sue contraddizioni e complessità. Come spesso accade, il primo a guardare in faccia la realtà è proprio chi ne avverte il peso dentro, Maria Pia - nome anagrafico della madre portata in scena dall’intensa Monica Samassa - è un medico al quale non si può negare quello che lei stessa, dopotutto, non nasconde: “… Io mi sa che tra un po’ non ci sono più...”. Paravidino ha ancora il naso rosso da clown mentre con questo epilogo inizia il racconto della infermità di sua madre, ma non c’è pietismo né crollo mentre si toglie i costumi della commedia per vestire quelli della vita, che altro non è che un grande spettacolo tragicomico. Con questa consapevolezza si assiste al declinare della malattia e all’evolversi della vita familiare attorno a questa, confrontando il dolore con la vitalità di una donna intelligente che dal nulla che sente dentro fa emergere gli appigli per chi, dopo di lei, resterà. Fausto Paravidino, sulla scena se stesso insieme alla importante compagna Iris Fusetti, trasforma la stanza dell’ospedale in una scena nella scena, popolandola di vita in tutte le sue forme: basta un accessorio allusivo per portare nuovi personaggi (i medici, Marta, sorella di Fausto, lo zio Cesarino) che concorrono a creare i tanti siparietti che - come le tessere di un mosaico - compongono quei giorni d’agonia. Il ricordo affidato alla carta conferisce spessore a quei momenti. Il diario di Maria Pia è la nuova percezione del passato e del presente che la donna detta al figlio, il mare di ovatta con il quale la spossatezza della malattia livella ogni reazione si dirada per fare emergere momenti - via via sempre meno lucidi - che rassicurano come i sogni. Contro la malattia non si lotta più, ma la si accetta. La consapevolezza di essere niente annulla gli sforzi di una vita affannata, la cultura, l’intelligenza, il tanto citato manierismo e la letteratura sono orpelli che spariscono sotto al rullo compressore di quella lucida passività, che si racconta senza essere negativa; è proprio da questo reale annullarsi di bisogni che viene filtrato quello che realmente è stato importante. Consegnare ai figli e alle persone vicine la propria essenza, mentre questa abbandona la forma, è bellissimo. Superata la paura, il non-esserci comincia a apparire come un naufragare dolce di leopardiana memoria. La penna stilografica piumata, che il fregio rosso della locandina di scena imprime sullo sfondo bianco, è l’improvviso tradimento della vita percepito come un colpo alle spalle. Paravidino ha abituato al vigore del suo linguaggio fresco in realtà oppresse e in disfacimento, il suo ultimo lavoro - La malattia della famiglia M., messo in scena anche per La Com?die Française - è la parabola di una famiglia e di una realtà che dal malessere vengono trascinati giù fino alla persa rassegnazione; ne Il diario di Maria Pia, invece, tutto è più veloce, il dolore è circoscritto e tagliente, e chi lo ha vissuto lo porta in scena insieme alle proprie emozioni. Il testo e la regia di Paravidino affrontano la morte oltre la tensione del drammatico e la superficialità di chi non la vuole accettare, i 100 minuti di spettacolo si percepiscono tutti nel valore affettivo e rielaborativo di un dolore che, sulla scena come specchio della realtà, fa sentire tutti della stessa specie. Francesca Martellini
Fausto Paradivino.
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
24
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro UN MURO E UNA BORSA PER IL MONDO DI UN BAMBINO BUONE VACANZE, Teatro Belli
Maurizio Zacchigna.
C’è un muro in scena e su questo muro si può scrivere, disegnare, oppure lo si può vivere come limite, come confine, ma anche come protezione, con senso di accoglienza e sostegno. Maurizio Zacchigna inchioda gli spettatori per 100 minuti parlando, parlando, parlando. La storia c’è e non c’è: è il rapporto di una figlio con la madre, è la storia di un bambino che commette un crimine probabilmente senza rendersene pienamente conto; è la vicenda di un bambino che non vuole parlare perché non vuole comunicare il proprio dolore e dell’affetto quasi paterno che un infermiere ha per lui. Ma tutto solo con la fisicità in scena di Zacchigna, che sposta sedie, ride, lusinga, racconta, affabula. Il testo dell’autore friulano Carlo Tolazzi, prodotto dalla Contrada, Teatro Stabile di Trieste, è un banco di prova per un attore, perché la parola è importante, ma in questo caso ancora di più il tratto con cui è offerta al pubblico. Un modo convincente, colloquiale, a volte aspro, a volte gentile, mai banale. E oltre al muro, c’è sempre in scena una borsa: una sorta di mondo alla Mary Poppins,
Maurizio Zacchigna.
dove in una borsa c’è tutto ciò che serve, ma offre anche la possibilità di contenere, nascondere, portare via. In definitiva è uno spettacolo un po’ criptico, dove sembra di spiare la conversazione di qualcuno con qualcun altro e dai brani di questa conversazione bisogna ricostruire un perché e un per come, chi ha torto e chi ha ragione. La regia di Marcela Serli sfrutta al meglio la comunicatività di Zacchigna e gli fa riempire lo spazio scenico in maniera del tutto naturale. L’attore sembra ignorare chi sta intorno a lui, sembra a volte parlare con se stesso, un colloquio intimistico e personale. Ottima la scelta della musiche fuori campo: canzoni indimenticabili di Doemico Modugno, Lucio Battisti e Bruno Lauzi. Spettacolo difficile da catalogare: teatro di narrazione quasi involontaria, verrebbe da dire quasi rubata, come spiata da uno spiraglio aperto in un muro. Ma la marcia in più la dà l’interpretazione. E il pubblico, immeritatamente non numeroso, lo sente e si lascia trasportare oltre il muro… Maria Pia Monteduro
25
PAESE SENZA SCUOLA PAESE SENZA DOMANI
IL LIBRO CUORE E ALTRE STORIE, Teatro della Cometa La scuola è il polmone della società. Luogo di formazione culturale, ma anche civile e civica, ha il compito, che dovrebbe essere ambito, di costruire il futuro di una nazione, preparando i giovani ad affrontare la vita con un bagaglio di cultura, di potenziale professionalità, di positiva competitività meritocratica, non lobbistica o di casta. Dovrebbe essere così, ma forse in Italia non lo è mai stato. All’inizio dell’Unità d’Italia, i docenti erano poco liberi nella realizzazione dei programmi e perciò non avevano spazio d’azione e di pensiero. Oggi gli insegnanti, pur consci del loro ruolo determinante nel “costruire” l’uomo, il cittadino di domani, vivono la propria professione con pesante frustrazione e senso opprimente di inadeguatezza. Se all’inizio della storia nazionale della penisola la scuola era ancora troppo elitaria e appannaggio dei ceti più abbienti, nel corso dei decenni si è sicuramente democraticizzata, ma decisamente impoverita, dal punto di vista culturale e addirittura da quello puramente nozionistico. L’analisi che di queste problematiche svolge Lucia Poli è condotta, come nel suo stile, con arguta ironia ed elegante garbo, ma non per questo risulta meno incisiva, anzi. La prima parte dello spettacolo ha come struttura portante il deamicisiano Cuore, con tutta la sua struggente mielosità, dove i buoni e i cattivi erano divisi in maniera un po’ troppo manichea. Ma per gli autori dello spettacolo (Angelo Savelli e la stessa Lucia Poli) nel libro Cuore -e nella società che lo aveva prodotto e reso credibile- c’era sotteso un amore per l’insegnamento da parte del corpo docente (indimenticabile la maestrina dalla penna rossa!), una voglia di costruire una nuova società con giovani motivati e (almeno nell’ideologia di de Amicis) tutti uguali davanti al docente e all’insegnamento, e poi alla società. La seconda parte dello spettacolo presenta la scuola d’oggi: caotica, confusa, estremamente burocraticizzata, con docenti e presidi tesi quasi esclusivamente “a far cassa” per quadrare gli sgangherati bilanci di ogni singolo istituto, dove ciò che urge è aumentare il numero di iscrizioni, non quanto, come e cosa si insegna. Ecco quindi la presentazione frenetica da parte degli insegnanti (e l’approvazione irresponsabile da parte del preside) di progetti, di cui non si valuta l’effettiva realizzabilità e l’impatto didattico, ma si esamina cinicamente solo l’appeal che tali progetti possano avere su genitori in atto di iscrivere il proprio figlio in quell’istituto invece che in un altro. Siparietti un po’ prevedibili, forse, ma si avverte tangibile una reale preoccupazione da parte della Poli e del coautore della seconda parte (Stefano Benni) per le sorti della scuola d’oggi e conseguentemente dell’Italia di domani: senza idee, senza cultura e perfino senza la benché minima nozione di nulla… Lucia Poli però, a conclusione, recita uno struggente collage di pagine pasoliniane, indirizzate ai giovani, assemblate a mo’ di lettera, dove l’analisi del profeta friulano, pur nel suo crudo realismo, apre la porta alla speranza e all’incoraggiamento ai giovani di amare la scuola e di non sentirla ostica, ma ausilio imprescindibile per la propria crescita e conseguentemente per quella della società tutta. Costumi, scenografie, musiche sempre molto attenti e in una ricostruzione quasi filologica, tanto è precisa. Su tutto e tutti campeggia, ovviamente, Lucia Poli: sorniona, ammiccante, instancabile, garbata quando serve, pungente quando serve. Spettacolo gradevole, che fa sorridere, ma non ridere e, soprattutto, grazie anche alle parole conclusive di Pasolini, fa riflettere e aiuta a svolgere un’analisi sull’oggi. Di questi tempi, superficiali e frettolosi, non è certo cosa da poco! Se è ormai assodato che la scuola è lo specchio della società, perché è quella che direttamente o indirettamente ne forma i cittadini, se si analizza con occhio attento e critico la scuola di oggi nel nostro paese, il risultato è profondamente disarmente e demoralizzante: sconcertante l’ignoranza della gran parte degli scolari e degli studenti, indegna la condizione in cui sono costretti a svolgere il proprio compito gli insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado e anche dell’Università. Dove stanno le responsabilità? Risiedono nel consesso politico-parlamentare e governativo. Qual è l’Italia del futuro che stanno progettando i governanti, ammesso che ci sia un progetto e non un’incosciente incuria? Sicuramente un’Italietta ignorante e insulsa in cui emergeranno soltano i protetti, gli arrivisti, gli spietati, senza ricerca, senza progresso, senza coesione sociale. Una domanda drammatica ci si pone: questa classe dirigente si rende conto, o meno, del delitto che sta perpetrando? Perché, in ogni caso, è bene ricordarlo, di delitto e di colpevolezza si tratta! Maria Pia Monteduro
La maestrina dalla penna rossa (Lucia Poli).
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
26
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
CENT’ANNI DI READING NAPOLETANO
TONI SERVILLO LEGGE NAPOLI, Teatro Argentina La Napoli raccontata da Toni Servillo si mostra in uno spettacolo che ha la forza di un concerto jazz, un susseguirsi di assolo potenti -originali e inimitabili, inaspettati- sullo schema di un tema che il “musicista” stravolge e riprende, dimostrando una totale padronanza dello strumento (la voce, il corpo) e dell’armonia (una lingua viva nel tempo, espressiva e musicale). L’attore casertano aveva già vestito i panni “concertistici” con il direttore d’orchestra di (S)concerto (2010), sinfonia sulla perpetua rapina della vita che costringe il maestro a divagare dalle note per smarrirsi nell’ironica tragica quotidianità; se per il testo di Franco Marcoldi non bastava l’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli a coinvolgere il trasognante direttore, la selezione di testi che Servillo presenta per raccontare più di un secolo di colori e costumi partenopei fanno di lui un intelligente compositore che ammalia il pubblico. Limitativo, nel suo minimalismo didascalico, il titolo dello spettacolo, perché Toni Servillo non legge Napoli, ma rivive Napoli, come se la città intera fosse dentro di lui e volesse presentarsi attraverso l’arte di un attore incredibile che mette a disposizione una vastissima cultura letteraria, nonché umana, e 360 gradi di sfumature istrioniche. Un comodo completo nero lontano dai formalismi, un leggio sminuito nella sua funzione (la parola scritta diventa così fisica che la pagina serve solo a ricordare la presenza dello “spartito”, mentre l’esecuzione va oltre), una sedia che verrà occupata da fogli volanti, come a voler ricordare che protagonisti della serata sono i versi di quegli autori attraverso i quali ricercare l’anima e il corpo di una città bellissima e tremenda. Inaugura la serata il Paradiso napoletano secondo Salvatore di Giacomo, che tra Ottocento e Novecento descrisse la povertà della città con un umorismo amaro che uccide il sorriso sulle labbra; mentre nel poemetto Lassamme fa’ a Dio si passa da San Pietro che si gode un caffè in Piazza del Plebiscito alla fuga di Nanninella ‘a pezzente dal Paradiso, per allattare il figlio, siamo già nel vortice di una narrazione-interpretazione che sceglie come linea guida il triangolo tematico caratteristico di un’ampia letteratura napoletana, che unisce la città con la morte è l’aldilà, l’Inferno e il Paradiso, portando in teatro figure metaforiche e concrete che sembrano scritte per la scena. Superba l’interpretazione anche per il Paradiso più borghese dell’immancabile Eduardo De Filippo, il suo De Pretore Vincenzo «..industrializza la disonestà..» e libera personaggi che si materializzano nella loro caratterizzazione vocale e gestuale, smuovendo intere
Toni Servillo
sfere celesti prima di tornare sulla terra dove il mariuolo “... nun ‘o ffà pe murì, ma pe’campà...’’. Ancora paradisiaci son lo scherzo de E’sfogliatelle e la tenerezza di A Madonna d’ ‘e mandarine, schizzi di Ferdinando Russo, ma è tutta terrena la bellissima poesia Fravecature di Raffaele Viviani, drammatico testo corale dedicato alla morte sul lavoro di un muratore. Servillo si fa piccolo mentre legge, quasi scompare dietro al leggio, l’Inferno terrestre lo contrae nel corpo e nella voce e tutto il calore napoletano scompare in un’unica immagine che commuove. Viviani compose la poesia nel 1930, è da chiedersi se sia cambiato molto da allora. Si dà voce alla drammaturgia contemporanea con lo sguardo dal mare di Litoranea, di Enzo Moscato, e con le reti da strascico -A sciaveca- del pluripremiato Mimmo Borrelli, che a titolo della sua tragedia in versi flegrei pone uno strumento di lavoro legato alla sopravvivenza e al riaffioro, in superficie, della fanghiglia del fondale marino (tristi erano le reti de Il Postino di Troisi, un serpente colla coda quelle dei Malavoglia). La variazione sulla bestemmia di Borrelli stordisce e affascina nel suo flusso senza respiro, non c’è pietà per chi non riesce a cogliere il significato di una lingua che Toni Servillo, da vero campano, introduce ma mai traduce, lasciando al pubblico più livelli di comprensione -musicale e testuale- che ciascuno gode secondo le proprie predisposizioni: una barzelletta spiegata perde la sua ironia, un musicista non riprende certo a voce i suoi passaggi. Le atmosfere visionarie di O vecchio sott’o ponte di Maurizio De Giovanni e del Sogno Napoletano di Giuseppe Montesano permettono passaggi dalla riviera incantata a evocazioni apocalittiche, la litania di Napule di Borrelli offre un ritratto fotografico della città che conclude degnamente questo reading napoletano tra cielo, terra e inferi. L’ultima parola spetta a A livella di Totò, indimenticabile sdrammatizzazione della morte attraverso la vita che sospende il teatro nella leggerezza del quieto vivere: “... .Perciò, stamme a ssenti ...nun fa’ ‘o restivo,/suppuorteme vicino-che te ‘mporta?/Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:/nuje simmo serie... appartenimmo à morte!’’. Salutando il pubblico Servillo accenna più volte alla sedia e ai fogli sul leggio, per 70 minuti Napoli ha riempito il palco attraverso un corpo straordinario che ha filtrato passione, tragedia e comicità come uno spettacolo corale probabilmente non avrebbe saputo fare. Francesca Martellini
27
LA MONTAGNA INCANTATA SECONDO PIRROTTA
DICERIA DELL’UNTORE, Teatro Eliseo
Orfeo (Luigi Lo Cascio), Gran Mago (Vincenzo Pirrotta).
La scena aperta prima del calare delle luci di sala fa acquisire familiarità con il mondo “altro” dello spettacolo, quasi a voler abituare lo spettatore. Si estende il senso di oppressione che il sanatorio della Rocca, sulle alture di Palermo, emana ancor prima di qualificarsi come luogo scenico e narrativo: su una piattaforma inclinata rialzata camminano figure fasciate che si guardano intorno con aria sicura ma sospesa -più furtiva che risoluta- quasi a presagire che a un incipit da magia shakespeariana seguirà più un naufragio da Tempesta che una favola degna del Sogno di mezza estate. In questa atmosfera malarica e stagnante entra un io narrante che strascica i piedi, perché Luigi Lo Cascio, nell’adattamento teatrale di Vincenzo Pirrotta dell’omonimo romanzo di Gesualdo Bufalino, è l’Orfeo che non ha salvato la sua Arianna, colui che filtra per l’ascoltatore il proprio passato attraverso lo sguardo della tragedia. Le sue parole hanno la musicalità leggera di un cantastorie malinconico che descrive la morte e la malattia come se componesse lettere d’amore, il suo è il racconto di una tormentosa malattia che inevitabilmente trascina nel vortice della patologia tutto ciò che potrebbe offrire riscatto tra le mura di un sanatorio che è già sepolcro. Nella Sicilia del 1946 il protagonista, un giovanissimo reduce che incarna il Bufalino, scrittore nella sua esperienza in una casa di cura palermitana, narra dei mesi in compagnia “... del re forestiero che mi viene ad abitare sotto le costole...””... , la tubercolosi, ritratto costante della morte che impedisce ogni reazione vitale in un ambiente in cui domina la rassegnazione. Anima di questo purgatorio dannato è il mefistofelico primario chiamato Il Gran Magro (Vincenzo Pirrotta), Joker in bianco con cilindro e bastone che appare con passettini leziosi tra un macabro balletto di cenciose tuniche, allusione costante al marchio d’infamia della malattia e alla partita che questa gioca da sola contro il malato, impugnando le pedine immacolate su una scacchiera tortuosa. Il medico, avvicinatosi al protagonista più per un bicchiere in compagnia che per sincero spirito d’amicizia, distrae i pazienti con intrattenimenti in cui son coinvolti i loro residuali barlumi vitali, e lo sguardo febbricitante della diafana Marta
(Lucia Cammalleri) riaccende lo spirito dell’io narrante con un sentimento inaspettato e intenso. La ragazza è “... due volte intoccabile...’’, ex-ballerina ebrea amante di un ufficiale tedesco, la sua storia prende consistenza attraverso caotiche fotografie del passato e spietate radiografie del presente, che ne scandiscono i giorni e le forze all’incalzante procedere della malattia. Il legame del narratore con la ragazza è un’esperienza straziante e impossibile, si intuisce la gelosia del medico e la confusione allucinata di menti che attendono la morte senza poter reagire alla passione, che, quasi per spregio naturale, torna sottoforma d’istinto a ricordare un passato che fa male. Il protagonista cerca di assorbire tutto il possibile da un amore nato al tempo della morte, ma ogni piccolezza affettiva è faticosa e funerea: non una fotografia ma una lastra ricorda il volto della ragazza, la compagnia reciproca è occasione in cui ”... tossire insieme...”, i baci sono passaggi di fiato, ”... afa e odore...” che scendono nel mantice guasto dei polmoni. Amare una donna che muore un pezzetto per volta è come tentare di abbracciare un fantasma, soprattutto se all’affievolirsi della sue forze corrisponde una tirannica ripresa dell’organismo del narratore, costretto a tornare “vivo tra i vivi” macchiato dal senso di colpa e di diserzione. Durante l’ultima visita il Gran Magro, cirrotico, contando gli ultimi giorni per sé e per Marta, marchia con parole nere la vita di chi vivrà: ’’... In ogni trinità c’è una coppia di martiri e uno sciacallo... ’’ Durante la fuga verso il mare Marta muore in un albergo del litorale, il suo epilogo si scrive nell’ultima emottisi che ne reifica ogni traccia di rassegnata delicatezza. Riesce pienamente la regia di Vincenzo Pirrotta, che ambienta un luogo e un tempo insieme concreto e incantato, come la montagna di Thomas Mann (romanzo che non dissimilmente riflette l’esperienza dello scrittore con la malattia polmonare della moglie), un racconto forte che le scene e i costumi di Giuseppina Maurizi sospendono come visioni febbricitanti. Le musiche, spesso dal vivo, straniano la parola, ma in tanto fluttuare l’unico epicentro è la ferma interpretazione di Lo Cascio dietro al quale, tutto il resto, è sfondo. Francesca Martellini
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
28
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
GIOVANE COMICITÀ VECCHIO STILE
GLI OBLIVION SHOW 2.0. IL SUSSIDIARIO, Teatro Quirinetta
La parodia elevata a forma di spettacolo interessante e coinvolgente, quasi ricerca filologica linguistico-espressiva. Questo si può dire dello spettacolo di questo straordinario gruppo di artisti (due donne e tre uomini): attori, cantanti, ballerini, fantasisti, che, provenendo da diverse esperienze artistiche (chi ha studiato canto e musica medioevali, chi ha studiato recitazione eccetera) realizzano degli show dove il divertimento intelligente è garantito. L’origine del nome del gruppo è incerta: si sente la radice di oblio –per alcuni analisti, perché una loro esibizione è difficilmente dimenticabile; per la scrivente invece più per l’idea che gli stessi Oblivion non vogliono far cadere propriamente nell’oblio alcune esperienze musical-teatrali passate, in testa quella del Quartetto Cetra. L’omaggio continuo e riverente al Quartetto non è una pedissequa imitazione, ma un doveroso riconoscimento per le pagine indimenticabili che appunto il Quartetto scrisse nella storia del varietà e della TV italiana, certo non quella generalista… Nello spettacolo degli Oblivion c’è un po’ tutto dal repertorio del varietà, con-
dito e presentato con garbo e ironia, ottimi risultati canori e un’innegabile capacità di dialogare e coinvolgere il pubblico. Le idee sono tante e originali: valga per tutte l’interpretazione di una tra le canzoni fondamentali della storia della musica leggera italiana (Volare), cantata dalle due validissime vocalist del gruppo a due voci: una canta le vocali, una le consonanti. Risultato: un gioiello raro! Il bis, richiesto con affetto dal pubblico, non poteva non essere la loro vulcanica e irresistibile riduzione in “10-minuti-10” (con tanto di maxi-cronometro su schermo nel fondo palco) dei Promessi Sposi, a dir poco esilarante, e che utilizza una giovane “comicità vecchio stile”. Proprio con questa perfomance, gli Oblivion hanno raggiunto una solida notorietà, poiché è stata visitata da un pubblico sempre in aumento su internet, specificatamente you tube. Se continueranno con la tenacia, l’impegno e lo studio che fin ora li ha contraddistinti, sicuramente gli Oblivion segneranno una pagina di spessore nella storia del varietà italiano d’inizio millennio. Maria Pia Monteduro
29
CRIPPA È GABER: FORSE IL PENSIERO NON BASTA E PENSARE CHE C’ERA IL PENSIERO, Teatro Quirinetta Politica, politica pura. E riflessione sociale, moralità, amore, potere, ideologia, libertà. Non c’è pretesa di paragonarsi all’inimitabile Giorgio Gaber, e questo Maddalena Crippa -portando in scena uno spettacolo amato da più generazioni, E pensare che c’era il pensiero- sembra dichiararlo apertamente mentre corre sul palco con la grinta di una rock-star, impugnando il microfono al grido di Mi fa male il mondo. Lo spettacolo, nato dalla lucida inventiva di Giorgio Gaber e Sandro Luporini, debuttò nel 1994, affiancando brani di successo a monologhi e testi originali che tracciano un’analisi a tutto tondo della società italiana di fine secolo: Destra-Sinistra, Il dilemma, La presa del potere. Sono veramente pochi i versi da cambiare e le situazioni da attualizzare, oggi, per chi porta questo spettacolo in scena a distanza di quasi vent’anni dal suo bebutto. L’attacco all’immobilismo della politica italiana segna il terreno senza aver bisogno delle luci di sala, il monologo La sedia da spostare -recitato in penombra da una voce fuori campo che si sdoppia in un dialogo- scomoda indagini sociologiche, costituzione, referendum ed elezioni anticipate (’’... No, le elezioni oggi no. Sarebbe troppo grave per il Paese. Forse domani ...’’) per una decisione “banalmente irrisolvibile” che proprio non scalfisce la maestosa semplicità della sedia che troneggia nella penombra del palco. Non c’è soluzione, lo scomodo accessorio deve rimanere lì. E allora, concludono le voci, parliamone: ’’... Mi fa male più che altro credere/che sia un destino oppure una condanna/che non esista il segno di un rimedio in un solo/individuo/che sia uomo o donna ...’’. La scelta di una coppia è Il dilemma per il quale Maddalena Crippa si raccoglie sul proscenio quasi a voler guardare ogni spettatore negli occhi, attraverso la storia di una crisi, i testi di Gaber vanno ben oltre il concetto di “amore” e “suicidio” per imprimersi nell’ascoltatore sottoforma di reazione a una ’’... nuova sorte ...’’, che forse accomuna più di quanto si pensi. Recuperare e trasmettere i significati altri, superiori, dei testi di Gaber, è un’arte che trapassa la delicatezza delle parole per liberare il senso nascosto del brano, e in un’interprete che canta sfidando gli ascoltatori si legge l’intento morale del quale si è investita nel momento in cui ha scelto, prima donna, di interpretare uno spettacolo del genere. La realtà si riduce in passione tra le note e le riflessioni parlate di La realtà è un uccello, dove il quotidiano di ieri e di oggi si riduce a un non sense di fatti da rincorrere, chiacchiericci inutili, giochi di potere che poco hanno a che fare con la Vita: ’’.. .Forse quella che noi oggi consideriamo realtà è soltanto una grande confusione deviante dove ogni soggetto, ogni cultura, ogni aggregazione, ormai non riesce più a vedere, né a parlare, né a pensare se non col linguaggio di quella confusione deviante che non ci permetterà mai di vedere il vero valore delle cose ...’’. Riprende il ritornello scanzonato con le eccezionali coriste che tornano in scena, ma la pesan-
Maddalena Crippa.
tezza delle parole non si scaccia con un paio di maracas. Il climax di Qualcuno era comunista fa sorridere e fa tornare seri, dal luogo comune si arriva a parlare di idealismo d’argilla, di slanci mai decollati, di senso di appartenenza a una razza che voleva cambiare il mondo, mentre oggi -quando ormai il sogno si è rattrappito- rimane la personale fatica quotidiana scortata da una realtà senza desideri di cambiamento, appesantita dalla rassegnazione. Con Io come persona è nuovamente il soggetto che si perde in un tempo tanto ostile e indaffarato da farlo gridare ’’... io ci sono /io ci sono...’’ mentre difende dal vuoto la sua rabbia e i suoi sentimenti, sgomento e naufrago sulla zattera in balia del mare come il protagonista del monologo Il sogno, che nell’onirica immaterialità sperimenta la duplice posizione del cieco individualismo e della disperazione. Destra-sinistra è una ventata di genuina freschezza per ironizzare su una politica che si riduce al bipolarismo, gli arrangiamenti musicali di Massimiliano Gagliardi, al piano, e l’eccezionale talento delle tre coriste (Chiara Calderale, Miriam Longo e Valeria Svizzeri) danno il massimo per un momento di altissima perizia su un testo che è diventato un classico dell’ironia. Un saluto che rincuora dopo tanta realtà amara è Quando sarò capace di amare, dove l’attesa di un amore senza imperativi, senza smanie, che gode delle piccole cose, riscalda anche gli animi più restii e suona come augurio di benessere in una sfera -quella delle relazioni affettive- che dal caos e dalla sopraffazione quotidiana deve essere protetta. Più di un bis richiama il gruppo sul palco, tutti in ginocchio sul proscenio per un midley gaberiano che è uno spettacolo nello spettacolo tra torpedo blu, shampoo in brutte giornate, barbera e champagne e l’indimenticabile Cerutti Gino, momenti che il pubblico accoglie divertito dalle inattese versioni a cappella che fanno schioccare le dita e battere le mani. C’è sempre tanto bisogno del pensiero di Gaber sulla scena italiana, del suo sorriso mesto che si ritrova dietro ai tanti nomi -Bisio, Marcorè, Rossi, per ricordarne alcuni- che gli rendono omaggio facendo rivivere le sue canzoni, e Maddalena Crippa collabora degnamente alla diffusione di una sapienza scenica che -si vede- il pubblico non ha dimenticato. Gaber sobrio sulla scena, spesso in giacca scura e cravatta, la Crippa in vestitino nero e anfibi senza calze; lui molleggiato rigorosamente dietro all’asta del microfono, lei una scheggia impazzita per il palco; lui imponeva la sua presenza sulla scena, lei si costruisce lo spazio con operoso lavoro. Maddalena Crippa si conquista la scena con un’interpretazione dietro alla quale è palese un grandissimo lavoro e un notevole impiego di energie. Resta da chiedersi se in tutta la serata si è mai provata quella scossa che per Gaber, ancora oggi, è sufficiente un solo verso per generare, quando dice: ’’... Io non mi sento italiano ...’’. Francesca Martellini
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
30
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
La signora (Dorotea Askanidis)
La sorvegliante (Michela Martini).
31
TESTIMONIANZE EPURATE DA EMOTIVITÀ E SOGGETIVITÀ ERINNERUNG, Teatro Sala due La drammaturgia sobria ed efficace di Gianni Guardigli e l’interpretazione di spessore di Michela Martini e Dorotea Aslanidis per ricordare, senza sentimentalismi, l’immane tragedia della Shoah. Affrontare il tema della Shoah senza cadere nella retorica non è facile. Un rischio che il testo di Gianni Guardigli, messo in scena al Teatro Due, riesce a evitare grazie a una drammaturgia asciutta e all’interpretazione convincente di due brave attrici -Michela Martini e Dorotea Aslanidis- che, senza inutili compiacimenti, danno voce al complesso e tormentato mondo interiore dei loro personaggi. Perché, se sul piano storiografico si sostengono le ragioni di chi afferma la necessità di depurare le testimonianze dalle scorie di una eccessiva emotività e soggettività, si ritiene invece che esse siano preziose per l’ispirazione artistica. Come faceva già notare Primo Levi in I sommersi e i salvati, la testimonianza e la memoria individuale non sono sufficienti alla comprensione storica; ma in scena è proprio questo materiale incandescente, fatto di ricordi, emozioni, passioni, che anima i monologhi delle due protagoniste. Nel primo, intitolato La sorvegliante, una donna prende ferro e asse da stiro dal cassetto di un grande armadio che campeggia al centro della scena e comincia meticolosamente a stirare. La ripetitività dei gesti accompagna le sue parole, a tratti ossessive, spezzate, frammentarie come i suoi ricordi. Si apprende che da ragazza è stata sorvegliante in un campo di concentramento e che, a distanza di anni, non è ancora riuscita a liberarsi dall’orrore che le attanagliava l’animo davanti ai prigionieri; si sveglia ancora in preda agli incubi, vede ancora i loro occhi, sente ancora le grida dei soldati. Un orrore che non era pietà, ma il terrifico sgomento di fronte all’evidenza che quei prigionieri magri e lerci non rappresentavano il limite tra la vita e la morte, ma - come ha rilevato Giorgio Agamben “la soglia tra l’uomo e il non uomo”. Si può provare compassione per un essere che, al massimo della degradazione, si avventa famelico su di una farfalla in volo? La repulsione è, dunque, giustificabile anche se si sa che, spesso, chi prova ribrezzo si è in qualche modo riconosciuto nell’oggetto della propria repulsione, e teme di esserne riconosciuto a sua volta. Di questo meccanismo sembra essere consapevole anche l’autore del testo, che porta fuori del campo per mettere di fronte al vissuto di povertà e di privazione affettiva, che ha portato questa donna ad accettare l’odioso lavoro di sorvegliante. Nonostante la sua apparente freddezza -spiega il regista- è proprio la “necessità inconsapevole dell’espiazione a dare il tono e il colore al viaggio” di questo personaggio, le cui scelte testimoniano il declino morale di un’epoca incapace di opporsi al Male, ma anche l’esistenza di quella indistinta “zona grigia”, di cui parla tanta letteratura sulla Shoah, in cui si annullano i confini tra vittime e carnefici. Il passato s’impone materialmente in scena quando, spalancate le ante dell’armadio, la luce che si propaga dal suo interno illumina i numerosi oggetti che contiene: fotografie, una radio, giocattoli, una Menorah luccicante. É questo l’ambiente che fa da sfondo alla seconda storia, intitolata Il compleanno. La vecchia tedesca cristiana passa così il testimone alla vecchia tedesca ebrea e s’intuisce che la prima è a servizio della seconda come governante. Seduta in poltrona, Miriam, questo il suo nome, immagina di dirigere con evidente piacere il Bolero di Ravel, brano che, per la sua dirompente vitalità, crea un toccante contrasto con la tragica storia della scomparsa del marito e dei figli, rastrellati anni prima proprio il giorno del suo compleanno. Un contrasto, quello tra la vita e la morte che costituisce il leit-motiv di questo secondo monologo; ogni anno Miriam, oppone a quel dolore insanabile una ostinata volontà di vita, continuando a festeggiare il suo compleanno che organizza fin nei più piccoli dettagli. E si comprendono, allora, i cibi raffinati, la cura per la casa, la parrucchiera, la scelta del profumo più adatto. Abitudini e decoro da salvaguardare per puntellare un’esistenza minata dalla privazione degli affetti più cari; ma quando il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non è stato, la ribellione all’inspiegabile violenza subita, i dolori diventano insopportabili, il dolore affiora alle labbra come urlo muto che deforma il viso e irrigidisce in uno spasimo ogni fibra del corpo. Perché il dolore è un fatto privato, è qualcosa di cui avere pudore, ma allo stesso tempo, come si capisce dal fatto che le due donne non si parlino mai, nonostante il legame espresso dalla familiarità dei gesti, il dolore è “indicibile” come l’orrore dei campi. Anche se, come ricordano le celebrazioni del giorno della memoria, affinché il ricordo individuale diventi memoria condivisa, è necessario “tenere fisso lo sguardo nell’inenarrabile”, anche a costo, ancora Agamben “di scoprire che ciò che il male sa di sé, lo troviamo facilmente anche in noi”. Mariella Demichele
Michela Martini, Dorotea Aslanidis
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
32
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro NIENTE RISCHIO SMARRIMENTO SE L’IMPERATIVO È DISONORE SERATA DEL DISONORE, Teatro Vittoria
Paolo Rossi.
SE NON SAI DOVE ANDARE NON TI PERDERAI MAI. Allo striscione da stadio che fa da didascalia alla scenografia si accosta la risposta dell’accompagnatrice di sala alla domanda sulla durata dello spettacolo, raggiungendo così già l’essenza della serata: ’’Non posso dirlo con precisione. Paolo Rossi si sa quando inizia ma non quando finisce. Va a improvvisazione... fa come gli pare...’’. Ovviamente non c’è da preoccuparsi perché Paolo Rossi non si perde mai, anzi, chi rischia giramenti di testa tra un vortice di parole e contrappunti di note è proprio il pubblico, ma anche a questo c’è rimedio: se lo spettatore volesse mantenersi allenato -avverte l’attore- può tornare il giorno dopo con la garanzia che lo spettacolo sarà certamente diverso. Paolo Rossi torna in teatro dopo la sua lunga e apprezzata rilettura di Mistero Buffo di Dario Fo, e per chi ha l’occhio e la mente pratica al panorama culturale romano non sarà sfuggito che il titolo dello spettacolo in cartellone al Teatro Vittoria, in realtà, avrebbe dovuto essere un altro, Povera gente, con il quale l’attore milanese (d’adozione) affiancato dalla Compagnia del Teatro Popolare avrebbe inaugurato una tournée nazionale. Una scelta forzata da condizioni economiche contingenti, spiega un Paolo Rossi in jeans e maglietta cheghuevariana che sosterrà la compagnia con i proventi di uno spettacolo più pratico e “economico”, un one man show un po’ rincorso e un po’ accompagnato da due musicisti (Emanuele Dell’Aquila e Francesco Arcuri) che ben conoscono il loro soggetto. Oltre il personaggio ecco un comico-ironico, dunque, e la situazione generale del mondo culturale si mostra ancora una volta senza misteri, nel momento in cui di buffo ha ben poco. Queste le premesse di un gioco imprevedibile in cui non mancano comunque le regole, due punti fermi -un inizio e una fine dichiaratamente stabiliti dallo schetch d’esordio e da quello più recente dell’attorequasi a voler arginare con due solidi cavalli di battaglia una centrifuga di risate alle quali il pubblico è ormai preparato. La signora in prima fila tenga il tempo, per favore, alzi un braccio dopo i primi 50 minuti così facciamo un intervallo. Gli spettatori sono entrati in sala con le luci accese di un sipario disordinato, sul quale assistere a un primo assaggio dell’intento di Paolo Rossi di volersi mettere a nudo davanti allo spettatore, gettandoglisi in pasto nella sua più spontanea e estemporanea comicità: in una felice performance di body art un signore con l’impressione di essere capitato lì per caso (che poi gli chiederà di scattare insieme una foto, confermando l’accidentalità) gli schiuma il viso con il pennello da barba, per poi esibirsi in una perfetta rasatura che l’attore mostra di apprezzare. La barzelletta dei topi all’happy hour funziona da test per definire la bassezza ironica della serata, definitivamente decollata con il momento autobiografico in cui un poliziotto (con tutto il rispetto per la categoria, premette, perché se c’è qualche poliziotto in sala che non la capisce poi gliela rispiega) gli chiede se per caso non sia il fratello del Paolo Rossi calciatore, mito degli anni ’90 in cui il nostro omonimo girava l’Italia in macchina per fare serate (’’... ma se uno ha più figli li chiama tutti Paolo?!... ’’. Con la prontezza e la capacità di chi non ha bisogno di sforzi per intrattenere (’’... Io sono una cooperativa, dentro di me ho quindici personalità ...’’) si incrociano Satana con la erre moscia e divinità al black jack, note brechtiane di chitarra e sega sfiorata con nonchalance da un archetto per violino che tra le mani di Francesco Arcuri stupisce, dialoghi con il pubblico e monologhi quasi nostalgici, il tutto condito da quella comicità della follia che ottiene risate da chi racconta e da chi ascolta. L’attore satirico emerge quel tanto che basta per ricordare che siamo a teatro e non in tv, dove, a logica, si respira un’aria più ossigenata che permette sentenze importanti della serie ’’... In Italia aiuta essere bassi per fare i comici ...’’, svelando che Berlusconi in persona, dopo le dimissioni, gli ha chiesto di diventare il suo personal trainer. Il tempo vola, o così sembra, o -meglio ancora- così vorresti che fosse sembrato quando in realtà guardi l’orologio e pensi che la ballata Ho visto un re in chiave western, momento conclusivo, poteva lasciar spazio a qualche pindarico momento comico in più (anche se dopo l’intervallo si avvertiva dal palco un leggero senso di stanchezza). Ma niente di grave, per carità, Il senso della comicità e della barzelletta, o il mestiere del comico è il degno sottotitolo di uno spettacolo che chiede di essere guardato nella sua unicità disonorata, dove il richiamo alle “serate d’onore” -momenti alti dello spettacolo d’inizio secolo in cui uno show man presentava con orgoglio i propri cavalli di battaglia- è pretesto per mettere alla prova se stesso e il pubblico spogliandosi da ogni orpello recitativo. Paolo Rossi funziona, e convince, guarda il pubblico come il gatto fa col topo, ma finiscono allegramente a braccetto senza essersi troppo resi conto di quello che è passato. Francesca Martellini
33
CE N’EST QU’UN DÉBUT
LE BELLE NOTTI, Teatro Ghione
Uno spettacolo fatto sui giovani, coi giovani, ma di sicuro non per i giovani. Molta nostalgia in questo Le Belle Notti che evidentemente già dal titolo la dice lunga sull’assetto e le sensazioni che va a stuzzicare. Un spaccato romano degli anni della contestazione, un’occupazione liceale, storie di ginnasiali e di ripetenti, situazioni senza tempo, e insieme inserti di cronaca, il derby Roma-Lazio, e le formazioni urlate calciatore per calciatore. E la strage di Piazza Fontana, lo scompenso della consapevolezza di quanto la piccola storia venga impotentemente spazzata e schiacciata dall’enorme piede della grande Storia. E proprio la tragedia della Storia taglia la storia (l’azione) in due, trasportando la seconda tranche ai giorni nostri, con i figli dei sessontottini nello stesso liceo, tra gli stessi banchi, con tutti i clichè (tutti) che ne possono derivare. E ancora una volta viene a galla il vero punto focale su cui la messa in scena indugia (forse consapevolmente, forse no): non sono infatti quei personaggi che si vedono in scena, i veri protagonisti, ma quelle ombre che aleggiano dietro di loro, che sono i loro genitori, che sono stati e continuano a essere i protagonisti della pièce e che, evidentemente, chiamano in causa quella platea di uomini e donne che si sono ritrovati e riconosciuti nei personaggi, nelle canzoni e negli avvenimenti rappresentati sulle tavole del palcoscenico e che hanno sorriso nel primo atto. Forse cambiati (“certo un po’diversi” direbbe Venditti, che
in questo caso ci starebbe tutto, nella nazionalpopolarità della rappresentazione), molti del tutto spersonalizzati, piegati, dalle cose, dalle pressioni sociali, dai soldi, dalla noia, dalla vita. Pochi, solo i più coraggiosi, spezzati. Argomento non certo nuovissimo, ma, come in altre occasioni si è potuto apprezzare che Gianni Clementi ha la capacità di trasformare una potenziale banalità in un delicato neorelismo; in questo caso, tuttavia, non coglie nel segno. Nella scelta di dare spazio a tutti i giovani attori in scena (la Compagnia dei Giovani del Teatro Ghione), lo spettacolo finisce per essere più un susseguirsi di battute e di pezzi individuali, piuttosto che un’azione fluida e corale. I ragazzi, infatti, si esibiscono con una certa sicureza e padronanza, (pur nella semplicità delle posizioni in cui sono teatralmente posti, complice anche lo stesso regista Claudio Boccassini), ma quello a cui sembra di assistere è più una recita scolastica che non un vero e proprio spettacolo da proporre nel cartellone di un teatro. Non ci si stupisce del fatto che una messa in scena interpretata nella sua totalità da una compagnia composta esclusivamente da giovani sia anche (a volte solo) una vetrina per attori che stanno crescendo; ma forse si rimane delusi quando si vede un buon autore lavorare così semplicisticamente sulle parole che, una regia del tutto mirata agli attori, fa ulteriormente a brandelli. Ofelia Sisca
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
34
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
DURA LEX (SUB)URBANA
L’ALBERGO ROSSO, Teatro Cometa
Federico (Ninetto Davoli)
L’Albergo Rosso non è la casetta delle fiabe, come verrebbe da pensare. Affollati camerini popolari sostituiscono le atmosfere orientali, la dura lex de hommini hommini lupo (come ricorda la camicia nera interpretata da Fabrizio Giannini) contraddice lo spirito suggerito dal colore rivoluzionario della titolazione dell’albergo, lo squallore della disillusione conferma la natura terrena, senza alcun C’era una volta. I progetti dei dormitori suburbani della borgata romana di Garbatella furono iniziati dall’architetto Innicenzo Sabbatini a partire dal 1926 – edifici mirati alla sistemazione temporanea degli sfollati del diradamento edilizio del cento storico – e due anni più tardi vennero presentati alla I Esposizione di Architettura Razionalista che si tenne nella capitale, esempi di uno stile funzionale rielaborato in un formalismo espressionista. Tralasciate le libere associazioni fiabesche per i fatti storici, è da notare che in una penna come quella di Carlo Levi tutto questo metodico razionalismo non traspare, e nel romanzo-saggio L’orologio (Torino, Einaudi, 1950), difficile cronaca dell’Italia postbellica, lo scrittore descrive gli alberghi suburbani – una volta esaurita l’originale funzione – come tristi costruzioni “…che sorgono assurde in mezzo alla campagna deserta, tra le sterpaglie, i mucchi di detriti e i fossarelli asciutti, [...] mostruose e sudicie; anacronistiche e tristi come la camicia da sera dal petto immacolato che un selvaggio ubriaco infili sul nero corpo dipinto...”. L’orologio richiamato nel titolo del romanzo, che scandisce il tempo nella Roma di Levi, è legato a momenti importanti – regali, ricordi, affetti – si rivestono della solennità che segna le fasi di crescita e di passaggio, nelle quali a mutare non è solo il presente, ma la necessità di un nuovo tempo personale. La commedia di Pier Paolo Palladino sembra proprio uscire da queste pagine di cronaca popolare, anche se, cronologicamente, i suoi fatti le anticipano di un decennio: lo scorrere del tempo si fa professione per la famiglia dell’orologiaio Federico (Ninetto Davoli) che si prepara a lasciare casa e bottega per sfollare nell’Albergo Rosso di Garbatella, dove le rigide norme delle suore Cappellane irritano ma ancora fanno sorridere, al pensiero di un’utopia di speranza e miglioramento che ciascuno tira a sé per magra consolazione, come se fosse una calda coperta troppo piccola sotto la quale vorrebbero tutti trovare riparo. I pensieri e le preoccupazioni sono molti, ma il Duce ha già dato il primo colpo di “piccone risanatore”, e per la Spina di Borgo, in quei giorni del 1936, le ore sono contate: non c’è
tempo per commuoversi su una vita selezionata e stipata in bauli di legno, e anche la notizia di un nipotino va taciuta in un momento di tale disagio. Davanti all’ultimo religioso piatto di pasta tra le mura domestiche è genuino l’affetto che unisce la famiglia nel cambiamento, non c’è retorica nelle battute dolorose che fanno leva sulla solidarietà reciproca e sulla paura di ricominciare una vita nuova: «..Poera Spina de Borgo, che fine gli fanno fare. E tutto per una strada..». Accompagnato da Parlami d’amore Mariù il sipario si abbassa e si rialza, l’evocativa scenografia di Alessia Sambrini sceglie un rosso cupo e impalcature di ferro per l’ambientazione del II atto nei locali di Garbatella, dove la famiglia lotta moralmente e fisicamente per difendersi dalla sopraffazione diffusa in quello che – più che un albergo – ricorda un girone infernale. La nuova bottega d’orologiaio è ancora un’attesa lontana, ma la scadenza dei debiti da saldare si avvicina. Il figlio Bruno (Roberto Capitani) cerca invano lavoro nei cantieri e ai mercati generali; quando all’ennesimo rifiuto maledice le sue mani inadatte ai lavori pesanti, commuovendo il padre che lo ricorda bambino in bottega, desideroso d’imparare l’arte, si avverte in tale disperazione il consapevole orgoglio della sapienza artigiana, la forza della dedizione che fa del mestiere un collante familiare. Spontaneo e affiatato l’intero gruppo di attori, una vera famiglia in scena che sdrammatizza la quotidianità senza sminuire l’esodo civile che ognuno dimentica (o ignora) godendo oggi alla vista della Basilica di San Pietro, trionfante in fondo all’ariosa Via della Conciliazione. Ninetto Davoli, entrando in scena con una canottiera bianca a coste, rappresenta una ventata di neorealismo che si legge in scena persino nei cannelloni fumanti serviti in tavola. La recitazione sciolta – nella battuta pronta e nello sconforto – delle “donne di casa” (Valentina Marziali, la figlia; Francesca Romana Di Santo, la giovane nuora; Gabriella Silvestri, umanissima madre) scandisce il tempo della discesa ma anche lo sguardo malizioso della risalita, in un finale ambiguo (ma nemmeno molto) che fa abbassare lo sguardo. Niente fiaba, dunque, in questa realtà italiana di ieri, e se i dialoghi ci intrattengono e gli eventi ci fanno ricordare, è probabile che i richiami alla legge del più forte la faranno sentire ancora più attuale. Strappa il sorriso quel maccheronico Hommini hommini lupi, ma poi si capisce che in teatro, ogni battuta, non è mai casuale. Francesca Martellini
35
CIVICA PORTA IN SCENA IL TEATRO E IL NON-TEATRO ATTRAVERSO IL FURORE, Teatro India Tre attori seduti a un lungo tavolo disadorno. Valentina Curatoli e Diego Sepe, fronte al pubblico, occupano un’estremità, Marcello Sambati, a capo tavola con gli occhi su un leggio in legno antico, l’altra. Sul leggio, un libro dalle pagine spesse riporta a grandi caratteri le parole di Meister Eckhart, mistico e teologo domenicano coevo di Dante Alighieri. Autore di sermoni che tentano di conciliare fede e ragione, mondo naturale e soprannaturale, fu uno dei punti di riferimento del protestantesimo. Ma cosa ha a che fare Eckhart con il teatro? Niente, ed è per questo che Massimiliano Civica, giovane regista reatino (a oggi uno dei più talentuosi della scena nazionale) ha voluto mettere in scena le sue parole attraverso la voce di Marcello Sambati. “Non riesco a pensare a nulla di più distante dal teatro del linguaggio di Meister Eckhart” dice nelle sue note di regia. Ma da solo, un testo così anti-teatrale non avrebbe forse retto la scena. O forse, semplicemente, non avrebbe saputo tenere viva a lungo l’attenzione di un pubblico contemporaneo. Perché anche se i sermoni, della famiglia di prediche e omelie, nascono proprio per essere ascoltati, destinatario è un pubblico di fedeli che deve essere persuaso, non uno di spettatori che dal teatro si attende domande, conflitti. No, i sermoni da soli non avrebbero retto la scena, anche perché Marcello Sambati non li declama a mo’ di orazione, li legge. Attraverso il furore ci informa del pensiero di Meister Eckhart, ma non lo predica davvero, e in qualche modo già lo modifica. Quello di Marcello Sambati è un low profile, in senso stretto: testa bassa sul leggio, guancia sinistra al pubblico. A questo punto entra in gioco Armando Pirozzi, a inframmezzare i sermoni di Eckhart con tre piccole storie. Tre mini-dialoghi contemporanei e teatrali vagamente ispirati ai sermoni che, giustapposti alle parole antiche e antiteatrali del mistico tedesco, avrebbero dovuto farsi specchio l’un l’altro, illuminarsi l’un l’altro. Intento ambizioso. Eppure piuttosto riuscito. I testi di Armando Pirozzi sono asciutti, profondi. Fanno sorridere e a volte anche ridere, nonostante trattino (sfiorino, accennino) temi amari. Protagonisti sono sempre un uomo e una donna calati in una situazione quotidiana da cui Pirozzi ritaglia il brevissimo e intenso momento cruciale: il colpo di fulmine tra un internato e un’assistente sociale in carriera, la separazione di una coppia che non può separarsi, una moglie e un marito alle prese con una altrimenti innominata “cosa migliore da fare insieme”. Valentina Curatoli e Diego Sepe sono encomiabili, ipnotizzano il pubblico che li fissa come in un incontro di tennis, i loro sguardi invece non si incrociano mai: come in un mach di tennis, al finale di un colpo corrisponde la preparazione dell’altro, le loro teste si evitano. Un disegno coreografico di non sguardi controbilanciato dagli occhi fissi di Sambati lettore-predicatore in ascolto e, sembra, in attesa di redarguire la coppia con un sermone. Uno spettacolo giusto, penetrante che, nonostante la giustapposizione delle parti risulta ben amalgamato grazie alla regia intelligente di Massimiliano Civica, ciDiego Sepe. liegina su una torta-spettacolo deliziosa. Bruna Monaco
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
36
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
TRAGEDIA ALL’ITALIANA... MA NON TROPPO
SEQUESTRO ALL’ITALIANA, Teatro Piccolo EliseoPatroni Griffi
Ottavio (Vittorio Continelli).
Di Teatro Minimo in Italia ce n’è due, ai due estremi della penisola: bergamaschi i primi, vincitori del bando Teatri del sacro 2011. I secondi invece sono di Andria: sono loro ad aver messo in scena quel Sequestro all’italiana che gira da più di due anni nelle migliori piazze teatrali del nostro paese. Pugliesi sono gli attori (Vittorio Continelli e Michele Sinisi), pugliese il regista (lo stesso Sinisi), pugliese anche il drammaturgo. È Michele Santeramo vincitore di vari premi di scrittura drammaturgica, fra cui il Premio Riccione 2011, con il suo ultimo testo: Il guaritore. Quando Sequestro all’italiana inizia, Ottavio e Adriano, i due protagonisti, hanno appena segregato una classe di bambini della materna. Non sono criminali professionisti, ma due poveracci che vogliono parlare col sindaco. Da tempo implorano un incontro, ma niente. La scenografia quasi non esiste, eppure è di grande efficacia: il pavimento è una pedana inclinata che impedisce agli attori di muoversi con disinvoltura e fa capire quanto i due personaggi stiano scomodi in quella situazione. Una finestra pende dal soffitto e rimane sospesa sul lato sinistro del proscenio. Sul fondo, dal lato opposto si leva una porta. Non ci sono muri, sono la porta e la finestra a farci vedere la stanza. Porta e finestra, le due aperture che mettono in comunicazione gli ambienti, qui delimitano, chiudono lo spazio. E forse è per questo che, benché la situazione rappresentata sia asfissiante, nessun sentimento di claustrofobia turba la visione: la scenografia arieggia la storia. Mette aria anche fra i dialoghi, serrati, disperati. Disperati come Ottavio e Adriano che li pronunciano. Di questi due uomini non sappiamo nulla, ma l’empatia è immediata, perché nella loro disèerazine riconosciamo la nostra. Quella che, forse, oggi accomuna tutti gli italiani che non siano stati baciati dalla ric-
chezza: una disperazione che è un misto di disgusto, rabbia e impotenza. Una disperazione a cui o non si dà sfogo, o lo si fa con faciloneria, all’italiana. Perché è chiaro che sequestrare una classe di bambini è più una pagliacciata che una soluzione. Eppure, nonostante la pagliacciata sia patente e l’antinaturalismo trasudi da scene, costumi e recitazione, la verità di quanto accade sul palco, nessuno la metterebbe in discussione. Perché, in fondo, l’Italia è tragicomica. Oltre la porta ci sono i bambini che giocano, ignari di tutto, sorvegliati dalla maestra. Oltre la finestra polizia, carabinieri, giornalisti. Il cellulare di Adriano squilla di continuo e le conversazioni sono gag sugli stereotipi italiani: la vecchia madre rompiscatole, il cugino che raccomanda il figlio capitato nella classe dei sequestrati. Ottavio e Adriano sono chiaramente due che non farebbero male a una mosca. Poi l’intoppo: un bambino ha un’epistassi, l’emorragia non si arresta, tanto da rischiare di morire dissanguato. Tenerlo rinchiuso e rischiare che muoia o liberarlo e perdere ogni credibilità agli occhi della polizia? Proprio sul più bello, quando la tragedia incombe e con essa la catarsi, il drammaturgo decide che “all’italiana” non vuol dire tragicomico, ma per scherzo... La polizia apre il fuoco, dalla finestra entra un proiettile che colpisce uno dei sequestratori, che, anziché morire, si alza e dà una pacca al compagno. Tra una spazzata a terra e una spolverata alla finestra discettano sull’improvvisazione. Quella a cui abbiamo assistito era la prova di uno spettacolo o il gioco di due bidelli ultraintellettuali? Per essere leggero, il finale depotenzia un po’ lo spettacolo. Ma la penna di Michele Santeramo, soprattutto quando prova a raccontarci la realtà in cui viviamo, è tra le migliori in Italia. Bruna Monaco
37
AVALLONE-GARINEI COPPIA VINCENTE
IL PRESTANOME, Teatro dell’Angelo Scritto da Walter Bernstein, sceneggiatore americano degli anni ‘40, Il prestanome mette in scena la visione dell’industria dell’intrattenimento negli Stati Uniti negli anni del Maccartismo, dove si intrecciano storia e cultura e la paura del comunismo diventa fobia popolare. La storia, resa famosa dal celebre film diretto da Martin Ritt e interpretato da Woody Allen nel 1976, rievoca il vergognoso periodo della caccia alle streghe, quando l’FBI elencava i nomi dei comunisti o dei simpatizzanti del comunismo in elenchi appunto passati alla storia come le blacklist. La scena si apre con la proiezione in calce al palcoscenico di una sequenza d’immagini, tratte dalle notizie in bianco e nero dei documentari, per ricordare le situazioni e le figure principali che caratterizzarono il periodo del Maccartismo in America. La lente d’ingrandimento di tutto questo gigantesco periodo è puntata sull’industria cinematografica dove, anche in questo ambito, per poter lavorare bisognava essere lontano sia con i pensieri sia con i fatti dall’impronunciabile parola “comunismo”. Uno squattrinato cassiere di un bar accetta di fare da prestanome a un amico sceneggiatore caduto in disgrazia e si trova coinvolto nelle vicende delle liste nere del maccartismo. In questa trasposizione teatrale, Antonello Avallone calza perfettamente il personaggio dell’allibratore, Howard Prince, che diventa prestanome per aiutare il suo amico Alfred Miller, scrittore che non riesce più a vendere le sue sceneggiature a una stazione televisiva. Howard diventa così ricco e famoso in breve tempo pur se senza alcun merito, ma il contatto quotidiano con persone di grande cultura e livello morale scuote la sua coscienza. Finisce anch’egli sotto inchiesta, costretto a presentarsi di fronte al comitato dei “Freedom Information Services” e nonostante le torture psicologiche inflittegli, riesce a non farsi sopraffare dalla paura e dichiara apertamente le sue idee, pur sapendo di andare incontro alla prigione. Parallelamente si svolge la tragica fine di Hecky Brown, interpretato splendidamente da Enzo Garinei, un attore affermato che, una volta finito nelle blacklist, si trova senza lavoro e tentato dal suicidio. Le scene hanno grande ritmo, la scenografia è strutturata in modo tale da permettere la dinamicità degli attori, le scene si svolgono su quattro piani diversi, illuminati di volta in volta dall’occhio di bue che sottolinea il segmento del palcoscenico in cui sio svoltge l’azione. Ogni scena è accompagnata da musica swing degli anni ‘50 che insieme al testo creano dei momenti di assoluta ilarità. Simpatico e creativo il personaggio di Florence, interpretato da Patrizia Ciabatta che, attraverso l’opera sembra vedere la metamorfosi del cambiamento che vive. Dapprima diligente e risoluta, lavora per l’azienda televisiva, poi molto più sicura e matura porta avanti le proprie idee pur rischiando la carriera in nome dei suoi principi e alla fine risveglierà la coscienza assopita del protagonista Howard Prince che lo porterà a un’esplosione interiore. Silvia D’Addazio
Enzo Garinei.
Howard Price (WoodyAllen) in “Il prestanome” di Martin Ritt (1976).
Antonello Avallone.
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
38
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
COME LEONI IN GABBIA
MURI-PRIMA E DOPO BASAGLIA, Teatro India
Giulia Lazzarini.
Il 3 maggio 1978 viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 180, detta anche legge Basaglia, che non solo introduce un cambiamento notevole in campo medico sanitario, ma dà altresì inizio a una vera rivoluzione culturale e di costume. Per chi oggi ha trent’anni (o giù di lì) le parole elettroshock, lobotomia frontale, letto di contenzione e camicia di forza vengono usate in quanto bagaglio culturale, qualcosa del quale si è sentito parlare, ma veramente in pochi, ringraziando il cielo, sanno concretamente in cosa consistono esattamente. Sono però presenti nel linguaggio comune perché in tempi ancora assai vicini la lobotomia o l’elettroshock erano praticati quotidianamente. I nonni ne parlano con un misto di timore e vergogna, perché avere disturbi mentali era considerata proprio una vergogna e perché, se si era malati, bisognava subire queste terribili pratiche. Da sempre la nostra società e molte altre hanno considerato la malattia mentale uno stadio terminale della persona e quindi, una condizione irreversibile. Questo era il clima che si respirava non solo all’esterno degli ospedali psichiatrici (vulgo manicomi), ma anche al loro interno. Un’infermiera dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste (meravigliosamente interpretata da Giulia Lazzarini) racconta la propria trentennale esperienza e attraverso lei si riviviono il pre- e il post-Basaglia. L’infermiera racconta che, quando lei era stata appena assunta all’ospedale si viveva in un clima quasi militaresco. Nessuna confidenza con i pazienti, che anzi si dovevano maltrattare quasi per dovere e svolgere le proprie mansioni e i propri compiti per chiudersi poi derfinitivamente la porta dietro le spalle assieme a tutte le problematiche relative ai malati all’ora della fine del proprio turno di servizio. I pazienti erano abbandonati a loro stessi, in alcune sale la puzza era insopportabile. La medicina ufficiale li trattava come fossero detenuti di un campo di prigionia e per la società erano degli appestati. I malati non avevano speranza di guarire, i comportamenti violenti venivano sedati con l’elettroshock e le persone si trasformavano in cadaveri che camminano. Giulia Lazzarini racconta quanto quelle orribili pratiche e quell’approccio disumano al paziente fossero considerati l’unica soluzione possibile. Lei, infermiera, non aveva mai detto buongiorno a un paziente e mai era accaduto che avesse raccolto una penna o qualsiasi altra cosa caduta a uno o una di loro. L’approccio basagliano è completamente diverso. Infatti il medico veneziano sosteneva la possibilità, nonché l’obbligo morale e deontologico di cercare di curare i malati mentali e non di metterli nelle condizioni di attendere la propria fine ponendoli nelle condizioni di arrecare il minor fastidio possibile ai cosiddetti normali. La prima vera rivoluzione è l’ambiente in cui i malati devono vivere: non più un clima ostile e di terrore, ma di parità e comprensione. É incredibile infatti quanto il contesto influisca profondamente sulla psiche. L’infermiera racconta ancora che a poco a poco il percorso psicoterapeutico infondeva tranquillità nel paziente e di conseguenza, seppur ai malati fosse concessa maggior libertà, diminuivano fortemente i casi e gli episodi di violenza. D’altronde è risaputo che in natura gli animali attaccano solo per necessità (fame e legittima difesa), mentre se vengono chiusi in gabbia la rabbia monta fino a esplodere per piccolezze e in maniera eccessiva. I manicomi diventano organi e strutture della società, i pazienti possono passeggiare e tentare di ricordarsi come si vive nella vita normale. Molti di loro sono perfettamente guariti. Si è visto che la pazzia era spesso confusa con forti astenie o esaurimenti o con la depressione dovuta a pesanti batoste e frustrazioni. Perché spesso matti non si nasce, ma lo si diventa! Molto interessante è la storia personale dell’infermiera che si svolge parallela a quella dell’ospedale. Infatti Franco Basaglia, prima che ai matti, ha insegnato a una nazione intera un modo nuovo di ragionare. E tutte le convenzioni e convinzioni di una donna degli anni settanta si sono sgretolate trascinandosi appresso anche la struttura stessa della famiglia. Il divario tra lei e il marito, che non viveva le sue stesse esperienze e che non respirava le sue stesse idee, diventava insormontabile. I due rappresentano il nuovo e il vecchio, il pre- e il post- Basaglia, attraverso la medicina, ha dimostrato come la società tutta possa evolversi uscendo dagli schemi superati per raggiungere una visione più generale, perché il manicomio è uno stato mentale! Il merito maggiore dello psichiatra veneziano è aver ridato dignità ai malati mentali e di aver creato le condizioni perché essi possano essere curati e guariti. Ilaria Lombardi
39
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
Costruzione di Marco Cavallo in uno padiglione dell’ex-Ospedale Psichiatrico di Trieste.
Il direttore dell’Ospedale Psichiatrco di Trieste Franco Basaglia, dietro il Presidente della Provincia di Trieste Michele Zanetti.
40
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
UN BURBERO CONTRO LA MEDIOCRITÀ
IN MEMORIA DI MARIO MARANZANA Se n’é andato un po’ in sordina, con discrezione, Mario Maranzana, attore di teatro, cinema, televisione. Fu questo medium a imporlo all’attenzione del grande pubblico quando, poco più che trentenne (era nato nel 1930), interpretò nello sceneggiato televisivo Le inchieste del Commissario Maigret il ruolo dell’ispettore Lucas. Non era facile lavorare accanto a un mostro sacro come Gino Cervi, che offrì, a detta dello stesso Simenon, la miglior interpretazione del commissario parigino: si disse che era entrato nel personaggio “con scarpe e calzini”! Ma Maranzana riuscì a ritagliarsi con intelligenza un personaggio molto caratteristico: funzionario solerte, obbediente, oppresso un po’ dalla figura del Grande Capo, cui però lo lega, ricambiato, affetto e una grande stima professionale. Il suo Lucas rimane nella memoria collettiva accanto ovviamente a Maigret e alla toccante sigla finale di Tenco Un giorno dopo l’altro. Un aneddoto, che lo stesso attore raccontava volentieri, riferisce che Simenon riscrisse nei gialli successivi il personaggio di Lucas, toccato dall’interpretazione così umana di Maranzanza, che aveva delineato un Lucas alter ego, in formato ridotto, di Maigret! Maranzana si era trasferito dalla natia Trieste a Roma nel 1953 per studiare recitazione, ma poi si era recato a Milano, in quegli anni capitale del teatro e della neonata prosa televisiva. Il suo primo contratto teatrale lo vede a fianco di Vittorio Gassman in Amleto; lavorerà intensamente con attori quali Sergio Tofano, Sarah Ferrati, Memo Benassi, Cesco Baseggio, Evi Maltagliati, Salvo Randone, Lilla Brignone, Wanda Capodaglio, Gino Cervi, Andreina Pagnani, e con registi del livello di Orazio Costa, Giorgio Strehler, Luchino Visconti, Giorgio De Lullo, Mario Missiroli. Anche il cinema lo impiega bene, mai in ruoli di protagonista, ma dandogli sempre modo di realizzare delle caratterizzazioni molto precise e convincenti. Ha spaziato in tutti i generi, dallo spaghetti western all’avventura, all’azione, al thriller, alla spy-story, alla commedia italiana minore e alla commedia erotica ialiana. Ha interpretato il capostipite del giallo archeologico italiano L’etrusco uccide ancora; ha lavorato con grandi registi Herbert Ross (Goodbye Mr. Chips - 1969), Nanni Loy (Rosolino Paternò soldato, 1976), Walerian Borowczyk (Interno di un convento, 1978), Alberto Lattuada (La cicala 1980), Mauro Bolognini (La vera storia della signora delle camelie, 1981), Luigi Comencini (La Bohème, 1988). Pupi Avati (La via degli angeli, 1989). Si ricorda volentieri di lui uno spettacolo teatrale sui Canti orfici di Dino Campana, dove Maranzana ha potuto mettere generosamente a frutto il suo amore per le lettere e la sua passione per la ricerca, lo studio e l’approfondimento. Maranzana appariva a volte come una persona brusca, dai modi spicciativi, con quella “scontrosa grazia” che gli veniva dalla sua terra giuliana (che poi è anche quella della scrivente...). Invece negli ultimi anni aveva dato sfogo a malinconiche polemiche nel sentirsi trascurato, perché, come ha affermato in alcune interviste, in una società di mediocri non c’è spazio per chi ha ingegno e voglia di lavorare seriamente. Gli si può dare torto? Maria Pia Monteduro
Mario Maranzana
Ispettore Lucas (Mario Maranzana), Jules Maigret (Gino Cervi).
41
DOPO LA TRAGEDIA
CORPO TEATRO, JEAN-LUC NACY, Edizioni Cronopio, 2011, € 9, pp. 68. La casa editrice Cronopio di Napoli edita un saggio breve del filosofo Jean-Luc Nancy, nato a Bordeaux nel 1940, professore emerito di filosofia presso l’Università di Strasburgo. Nancy è pensatore di ampi interessi: i suoi numerosi scritti affrontano tematiche propriamente filosofiche (la sua ricerca parte con la tesi di laurea su Immanuel Kant), ma anche temi più precisamente politici e sociali. Molto interessante, perché abbastanza irrituale, anche una sua produzione autobiografica sulla condizione di una persona che ha subito un trapianto di cuore. Nancy è considerato, assieme a Jacques Derrida, il maggior esponente della corrente filosofica del decostruzionismo. Tale corrente di pensiero, ben conscia che la ricerca filosofica non potrà mai prescindere dalla metafisica, si muove in un ambito collocato ai margini della metafisica stessa, sfiorandola e cercando di non interagire con essa. Il decostruzionismo è introdotto nella cultura contemporanea dal filosofo franco-algerino Jacques Derrida, che afferma che la decostruzione (questo è il termine più corretto, anche se decostruzionismo è ormai invalso) intacca ogni ambito della cultura, non solo testi metafisici, ma anche e soprattutto sistemi storici e concettuali, in primis quello che riguarda la società intera, cioè la democrazia. In Corpo teatro, Nancy analizza cio che teatro non è, cioè la realtà. Secondo il filosofo francese, la condizione umana non si esaurisce, non si conclude nel mero atteggiamento contemplativo, nello stare a guardare, ma viceversa nell’essere attori di se stessi. “La mia pelle diventa anch’essa un teatro” afferma Mohammed Kahir-Eddine, forse il maggior scrittore marocchino di lingua francese del XX secolo, e Nancy fa sua questa affermazione: qualunque atteggiamento, o movimento di ogni uomo, il suo muoversi in un modo invece che in un altro, la propria mimica facciale, la postura del proprio corpo, tutto insomma viene continuamente rappresentato sul palcoscenico teatrale come sul palco della vita. Attento studioso di Antonin Artaud e del teatro inteso come doppio, il filosofo di Bordeaux afferma che il teatro è il Doppio di quella realtà che non è quella quotidiana, passiva, ma è quella più pericolosa, si potrebbe dire “inumana”. A suffragare tale tesi, Nancy porta a sostegno il pensiero filosofico di Heidegger e di Hegel, e, per quanto concerne più propriamente l’estetica e la poetica letteraria, di autori anche molti diversi tra loro, come Proust, Claudel, Müller, Brecht. La seconda e ultima parte del saggio, il testo cioè di una conferenza tenuta da Nancy, affronta invece una tematica più “teatrale”: la tragedia. Il senso comune vedrebbe in questa forma drammatica un qualsivoglia sinonimo di disgrazia, di catastrofe, ma l’autore cerca di andare oltre: la tragedia è una struttura di pensiero. Questa, come sottolinea Nancy, è nata assolutamente prima come culto e poi è diventata dramma (nel senso tecnico di azione teatrale): la parola proferita non è più rivolta agli dei, le Presenze cui si rivolge l’uomo nel culto, non è più un’invocazione all’Assoluto, è diventata invece una parola scambiata fra uomini. Il termine “tragedia”, osserva Nancy, è stato del tutto depauperato, quasi alterato, diventando senza alcun problema sinonimo indifferentemente di “dramma”, “sciagura” eccetera: non si considera invece che nel modo greco tutto avviene “dopo la tragedia” e di questa tragedia l’uomo contemporaneo può riprodurre e comprendere nella sua interezza e profondità forse solo il pathos, non più l’ethos che l’ha prodotta. Lo stesso Aristotele, che codifica e stigmatizza il concetto di “tragedia”, scrive “dopo la tragedia”. Il testo di Nancy, piuttosto involuto nella prima parte, acquista fascino e interesse nella seconda, quella appunto che ruota intorno al “mistero” della tragedia. Nancy, come spesso accade ai filosofi, esprime teorie che non sempre dimostra linearmente. Invece risulta convincente e più comprensibile quando si cala in un concetto, che è presente, pur se confusamente e spesso contraddittoriamente, in ogni persona che veda e riconosca nel mondo greco il punto di riferimento fondante e fondamentale della formazione propria e della società tutta occidentale: la tragedia appunto. Maria Pia Monteduro Jean-Luc Nancy
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro
42
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro danza
TEATRO-DANZA-TV
PARKIN’SON, Auditorium Parco della Musica Equilibrio non è soltanto un festival internazionale di danza contemporanea. Esiste anche un Premio Equilibrio, un concorso aperto alle giovani compagnie italiane che presentano a una giuria, quella sì internazionale e composta da persone autorevoli del mondo della danza, la bozza di uno spettacolo in fieri. In palio quindicimila euro per la produzione dello spettacolo e una data già fissata per l’anno successivo all’interno dello stesso festival. Quest’anno la giuria composta da Myriam De Clopper (responsabile Performing Arts De Singel-Belgio), Karthika Nair (autrice e producer-Francia), Rachid Ouramdane (coreografoFrancia), Laurie Uprichard (Dancespace Project-USA), Claire Verlet (vicedirettore Danza Théâtre de la Ville-Francia) e presieduta da Sidi Larbi Cherkaoui, direttore artistico di Equilibrio, non se l’è sentita di attribuire il premio. In compenso l’anno scorso i vincitori furono due: Giulio D’Anna e La Ragione-Buldrini. Si è seguito Parkin’son del giovane marchigiano D’Anna. La scenografia è leggera: tappetini bianchi che sembrano dischetti struccanti, sono disposti in disordine sul palco. Dal centro del soffitto uno schermo quadrato scende obliquo rispetto al pavimento. Un uomo sulla sessantina entra in scena. Il corpo non è quello di un danzatore, la sua mano destra trema. Fermo immobile su uno dei dischetti guarda il pubblico mentre una voce off (la sua, registrata) racconta random alcuni momenti significativi del suo passato: data, luogo, avvenimento. Seconda data, altro luogo, nuovo avvenimento. E così via. Entra in scena un ragazzo, gli si accosta, stesso gioco: faccia al pubblico, voce off (la sua, registrata). Data luogo avvenimento. Un’altra data, un altro luogo un altro avvenimento... quelli di fronte sono un padre e un figlio: Stefano e Giulio D’Anna che
Stefano D’Anna, Giulio D’Anna
interpretano il ruolo di loro stessi. Non ci sono personaggi quindi: due persone raccontano la propria vita intima, come in televisione. Poi dal racconto passano ai fatti. Uno di fronte all’altro si guardano, si studiano, si scambiano schiaffi e tirate d’orecchie. Giocano a farsi male, come probabilmente hanno fatto per tutta la vita. Un diario segreto post-adolescenziale in forma scenica che non lascia spazio all’immaginazione dello spettatore, né contiene segreti clamorosi che suscitino curiosità, o almeno voyerismo. E tutto è eseguito con una lentezza esasperante, come a marcare un presunto valore simbolico di scene e gesti. Dopo il breve excursus sul passato è al presente dell’ultimo anno che si dedica il racconto: lo spettacolo inizia a parlare di sé con la voce off di chi quello spettacolo lo ha ideato, sempre Giulio. Della genesi di Parkin’son: dalla proposta al padre Stefano (non-attore/danzatore) di partecipare al progetto, alla presentazione della bozza al Premio Equilibrio 2011, alle prove, alle domande del padre al figlio su questioni di linguaggio della danza. Parkin’son è il backstage di Parkin’son. Pura autoreferenzialità che raggiunge il suo apice quando nel finale, lo schermo quadrato legato al soffitto si fa perpendicolare al suolo e diventa un televisore vero e proprio che trasmette le foto di Stefano da giovane e Giulio da bambino. Forse questo Parkin’son non riesce ad andare oltre la cronaca perché tenta di raccontare la realtà con parole e immagini troppo didascaliche, da diventare come parole. Quando il teatro (o teatro-danza che sia) racconta la realtà in questo modo e non per gangli emotivi sembra davvero la televisione. Qualcosa che non va molto oltre l’esibizione. Bruna Monaco
43
QUEL TENERO BORDELLO DI DAVE ST-PIERRE
UN PEU DE TENDRESSE... BORDEL DE MERDE, Auditorium Parco della Musica
Enrica Boucher.
Gli attori/danzatori diretti da Dave St-Pierre, “enfant terrible” della danza contemporanea del Quebec, sono all’opera già prima che arrivi il pubblico. E non è nel loro habitat che si muovono, non in scena, ma fra le poltroncine degli spalti, nei corridoi. Si fingono maschere per accompagnare gli spettatori ai posti assegnati, bivaccano sulle poltrone libere senza curarsi di finire con le gambe su quelle di qualche astante. Scavalcano le file a piedi nudi, usando le spalle dei malcapitati come perno. Sono molesti, ma con simpatia. Anche sul palco qualcosa si muove: la mano di un uomo completamente nudo che saluta come una barbie e dice: “Hallo” guardando in sala, ammiccando e aggiustandosi con civetteria la parrucca bionda. È seduto su una delle sedie in fila, fronte al pubblico, addossate al fondo scena, unico elemento scenografico dello spettacolo. Poi l’ordine è ristabilito: i danzatori vanno in scena, dalle loro sedie guardano verso il pubblico che a sua volta li guarda con gli occhi ben aperti dalla curiosità. Un uomo e una donna si alzano e al centro del palco iniziano un duetto di non danza in cui lei si dibatte scalmanata contro di lui, che resta immobile. Altra coppia, stesso gioco. Enrica Boucher, simpaticissima e bravissima presentatrice/attrice/danzatrice di questo folle show ci informa che nei prossimi minuti si parlerà di tenerezza. E si complimenta con il pubblico, per il suo coraggio: un tema forte la tenerezza, non tutti amano sentirne parlare. Un peu de tendresse... bordel de merde è ironico, scoppiettante, intelligente. Perché Dave St-Pierre pretende di mettere in scena la tenerezza, ma è solo il bordel, che si vede. Tutti i danzatori si sono svestiti: nudi in parrucca bionda corrono lungo il palco come un branco di barbie. Mimano le parole insulse e inglesi di Enrica Boucher in una coreografia che non è tale, perché caotica e disgregata. Sempre armati della propria nudità, tornano fra il pubblico, scavalcano le poltrone, mettono in imbarazzo gli spettatori che si ritrovano i peni ballonzolanti quasi in faccia. Ci si chiede dove vogliano andare a parare le provocazioni al pubblico. In un contesto, quello odierno, in cui la nudità non fa più scandalo, sbandierare i membri addosso al pubblico è una violenza senza ragione e scopo. O almeno di cui è complicato riuscire a vedere lo scopo. Le donne intanto, ancora vestite di tutto punto, hanno raggiunto i compagni danzatori sugli spalti e se le danno di santa ragione: calci, capelli tirati, schiaffi. È il momento di massimo bordel. Eppure uno dei momenti migliori dello spettacolo, perché l’eccesso si supera ed è emozionante davvero. Nonostante e forse anche, gra-
zie alle contraddizioni Da questo momento in poi, tante belle immagini si alternano ad altrettanti déjà vu. I danzatori si spoglieranno e si rivestiranno di contino. La masturbazione sarà simulata in varie forme. Di nuovo le barbie/uomo nude/i assaliranno gli spettatori. Finché, sul finale, sarà davvero giunto il momento di abbandonarsi alla tenerezza. Una tenerezza che prende per sfinimento, che non si può provare davvero se non dopo aver patito per amore. Dopo essersi umiliati, resi ridicoli, picchiati. Un peu de tendresse... bordel de merde è uno spettacolo rispetto a cui è difficile posizionarsi. I sentimenti si alternano e contrappongono durante la visione, ma sicuramente val la pena seguirlo. Bruna Monaco
Equipe dello spettacolo.
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro danza
44
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro danza
IL BELLO DELLA DIFFERENZA
WOMEN, Auditorium Parco della Musica
Le danzatrici di Women.
Louise Chardon, Marie De Corte, Ida De Vos, Miryam Garcia Mariblanca, Sayaka Kaiwa, Kayoko Minami, Natascha Pire e Karin Vyncke sono le otto danzatrici tra i trenta e i cinquant’anni che riempiono dei loro corpi la scena altrimenti vuota di Women. Vestono abiti neri, comodi. Qualcuno è lungo, altri sono corti, a mezzo ginocchio, con o senza maniche: ogni costume somiglia a quello delle altre ma ancor più al corpo di ognuna di loro. E sono corpi per taglia e presenza estremamente diversi tra loro. Non ci sono musiche in questo spettacolo. Sono i respiri delle danzatrici, profondi, marcati e ben sincronizzati, benché anch’essi diversi per timbro e qualità, insieme al rumore dei passi sul palco, a scandire e ritmare i loro movimenti. Una colonna sonora sui generis, un concerto di musica contemporanea per sole voci: respiri, sospiri, risate, gridolini. Emissioni vocali di varia natura che paiono spontanee e invece sono sapientemente orchestrate. Sembra di essere dietro il vetro di una palestra e di assistere di nascosto a delle prove, tanto è intima la situazione che l’assenza di musica riesce a creare. Anche in una sala grande come la Sala Petrassi dell’Auditorium, e se altra gente fra gli spalti condivide quell’intimità. All’inizio sembra proprio una sessione di riscaldamento, con tanto di muscoli che si stirano e colli che si sciolgono. Poi cambia il registro, sembrano prove tecniche di uno spettacolo con giravolte, salti, camminate. L’aria delle danzatrici è sempre divertita e ironica. Ugo Dehaes, giovane coreografo belga, classe 1977, che ha creato Women lo scorso anno, non vuole sollevare riflessioni che vadano al di là di quello che si vede in scena: non è uno spettacolo
che parla di donne, come si potrebbe pensare. È interpretato da donne, ma della danza e di corpi in danza indaga le potenzialità e i limiti dei corpi, le armonie che si possono instaurare lavorando con le differenze e sulle differenze fisiche delle persone. Corpi diversi sono portatori di energie diverse costrette dentro una partitura coreografica uguale per tutte, ma sempre attenta a far emergere dal gruppo l’individuo, a non schiacciarlo. Le danzatrici non si muovono mai da sole, sempre in gruppo: si spostano da un’ala all’altra del palco (è stato allargato ed è e aggettante sugli spalti) come potrebbe fare uno stormo di uccelli migratori o un gregge di animali al pascolo. Eppure l’occhio dello spettatore non è mai disperso nel mucchio, ma sempre attratto ora da uno ora da un altro movimento. Ora da una ora da un’altra danzatrice. Eppure, nonostante l’intelligenza dei segmenti coreografici, Women, troppo presto risulta monotono e ripetitivo. Esteticamente composto equilibrato e pulito, ma troppo lungo. Se sulle prime, l’assenza della musica aveva agevolato la concentrazione degli spettatori sulle immagini della danza, dopo un po’, quando gli intenti sono chiari e chiaro è che non ci sarà alcuna evoluzione drammaturgico-coreografica, se ne sente la mancanza. Qualcuno in sala si alza a metà spettacolo, rumorosamente per sottolineare il proprio disappunto rispetto alla performance. Qualcun altro, alla fine, altrettanto rumorosamente applaude, entusiasta. Uno spettacolo che divide, sicuramente sottile, acuto e delicato che forse pretende un po’ troppo dall’attenzione degli spettatori. Bruna Monaco
45
CUBA DANZA A ROMA
DEMO-N/CRAZY, CASI, MAMBO 3XXI, Auditorium Parco della Musica Due serate tutte dedicate a Cuba. Danza Contemporánea de Cuba è il nome della compagnia nazionale nata nel 1956 e definita “la madre nutricia de la danza en la isla”. Carattere dominante del gruppo (che al suo interno ha anche una scuola) è la spinta all’eclettismo e alla varietà stilistica. Un repertorio sterminato di coreografie classiche, altre assolutamente esplosive, altre contemplative, per una quindicina di coreografi (alcuni stabili, altri invitati a collaborazioni occasionali) cubani o provenienti da diversi paesi e scuole di danza. Per dare una prova di questo eclettismo hanno portato a Roma non uno, ma tre spettacoli, per una durata complessiva di più di tre ore e trenta: DemoN/Crazy, Casi, Mambo 3XXI. Questi i titoli delle pièce interpretate da un folto organico di giovanissimi e bravissimi danzatori. Il primo, Demo-N/Crazy del coreografo catalano Rafael Bonachela, appartiene senza dubbio alla categoria “coreografie esplosive”: uno spettacolo futurista, verrebbe da dire, in cui la velocità domina la scena e gli interpreti sono al suo servizio, prestandole la propria energica agilità e un rigore impressionante. In Demo-N/Crazy l’impatto visivo è tutto. Il montaggio delle sequenze è così serrato che travolge il pubblico suo malgrado e impedisce qualsiasi riflessione. Quali che siano i temi che Rafael Bonachela ha voluto toccare in questo spettacolo, gli spettatori non hanno il tempo di comprenderlo, presi come sono nell’ammirazione di quei giovani corpi che trasudano quella che si potrebbe definire un’autentica “joie de danser”. Casi, secondo spettacolo di questa trilogia sui generis, è tutto l’opposto: lentezza, meditazione, canti in scena. La coreografia è firmata dal basco Juan Kruz Diaz de Garaio che la definisce “... un viaggio attraverso i desideri, le aspirazioni, i sogni, le sconfitte, i vuoti e le delusioni ...”. Fin dalla prima scena Casi infonde nello spettatore un inestirpabile senso di nostalgia. Ma una nostalgia indefinita che a volte sconfina nell’angoscia. Le sequenze sono lunghe, troppo, e lente. Uno choc per lo spettatore che fino a pochi minuti prima aveva assistito all’elogio della velocità. Uno choc che però è solo sensoriale, non davvero emotivo, perché Casi, in fin dei conti, non riesce a raccontare null’altro che questa vaga nostalgia. E si prende un po’ troppo tempo per farlo. I danzatori sono sempre bravissimi, ottimi mestieranti che sanno ben adattarsi alle richieste e alle esigenze coreografiche, ma sembrano prendere tempo sul palco più che viverlo. Tutt’altra cosa Mambo 3XXI di George Céspedes, con cui si conclude la serata cubana. Una coreografia quasi da musical: pulita, energica, allegra. Rigorosamente di fronte al pubblico, un po’ televisiva. Lo stile di danza è suggestivo e tanto i movimenti quanto i segmenti coreografici di gran impatto: un mix di danza popolare cubana, contact, floor-work, aflying low, street dance... Anche la musica di Beny Moré, Nacional Electrónica è una fusione di generi trip hop, elettronica e techno, per uno spettacolo breve, ed energico. Puro piacere e godimento estetico.Tre spettacoli, in verità, godibili, eseguiti magistralmente ma che purtroppo non lasciano il segno. Bruna Monaco
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Teatro danza
46
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia DAI PALAZZI DELLA MESOPOTAMIA ALLE MENSE DEL POPOLO VETRI A ROMA, Curia Iulia al Foro Romano
Insegna imperiale dalle pendici del Palatino, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Roma.
Protagonista l’arte del vetro di cui, attraverso l’esposizione degli oltre 300 reperti visibili all’interno di quello che è stato da sempre considerato il cuore politico dell’Urbe, si traccia la storia millenaria. I reperti, ascrivibili a un periodo molto ampio che va dal VII sec. a.C. al V d.C., sono sistemati nel percorso espositivo secondo ordine cronologico. La nascita del vetro si fa risalire a numerosi secoli fa. Le prime fonti certe, infatti, si datano al 1400/1200 a.C. nell’area compresa tra il Tigri e l’Eufrate. Si è di fronte a una storia davvero lunga che dalla Mesopotamia e dalla Siria settentrionale, attraverso la mediazione delle popolazioni del Medio Oriente, giunge a interessare tutto il bacino del Mediterraneo, l’Egitto, la Grecia e Roma. Secondo gli studiosi, la produzione dei primi oggetti in vetro era destinata a una committenza di alto livello: la presenza di questo materiale, infatti, è attestata nei contesti archeologici religiosi e palaziali dell’area mesopotamica. La colorazione di alcuni vetri, simile a quella delle pietre dure, ha fatto ipotizzare la sua realizzazione a imitazione di queste ultime. Non a caso in antico il vetro veniva definito “lapislazzuli di fornace” per distinguerlo dalle pietre dure, “lapislazzuli di montagna”. La vasta gamma di colori possibile, il fascino della trasparenza, la duttilità e la versatilità del vetro hanno permesso l’uso di tale materiale in vari campi. Nella fase iniziale è legato alla produzione di unguentari (gli studiosi concordano nel ritenere che la diffusione di questi piccoli contenitori si ebbe in coincidenza delle aree geografiche dove si produceva e commerciava profumo). Con il tempo si realizzarono in vetro anche altre forme vascolari di dimensioni maggiori, insieme a suppellettile varia e gioielli. Largamente diffuso, soprattutto in età romana, è l’impiego del vetro in ambito architettonico. Plinio nella Naturalis Historia riporta che “i pavimenti a mosaico, cacciati dal suolo, si estesero fin sulle volte e furono fatti di vetro”. Questa manifestazione è l’ostentazione del lusso sfrenato nelle case dei ricchi romani. Il fasto decorativo, infatti, connotava lo status sociale del ceto abbiente. Numerosi mosaici di età romana, conservatisi fino a oggi, sono realizzati con le paste vitree, che arricchiscono, tra l’atro, gli affreschi delle case più belle, come le domus volute da Nerone nella parte centrale dell’Urbe. L’invenzione della soffiatura inaugura la nascita dell’industria del vetro: la nuova tecnica ne semplifica e velocizza la realizzazione ne favorisce la diffusione anche presso le classi sociali meno elevate. Di conseguenza, se prima l’uso di tali oggetti era appannaggio delle classi più alte, adesso entra nella vita quotidiana di tutti. La produzione di oggetti raffinati e di notevole livello resta destinata alle élite: ne sono esempio i preziosi oggetti facenti parte del nucleo, il più consistente alla Curia Iulia, databile a età imperiale. Di notevole interesse tra i materiali esposti, gli scettri decorati con sfere vitree recuperati durante le recenti attività di scavo alle pendici nord-orientali del Palatino. Facevano parte del contenuto di una cassetta di pioppo ed erano avvolti nel lino e nella seta degli stendardi insieme a quattro portastendardi e tre lance da parata. La datazione al IV sec. d.C. ha fatto pensare alle insegne di Massenzio, ossia all’inconfutabile simbolo del potere imperiale. Secondo la tradizione esse furono nascoste dai fedeli dell’imperatore prima della celebre battaglia di Ponte Milvio: si temeva che potessero cadere nelle mani del nemico ed essere utilizzate come trofeo di guerra. Nella mostra alla Curia Iulia lo splendore degli antichi vetri dai molteplici colori e dalle più svariate forme rimanda i visitatori a un passato molto lontano. Con la sensazione, tuttavia, che l’evento non sia alla portata di tutti: l’esiguo numero di pannelli illustrativi e un catalogo dove le citazioni in latino restano per lo più non tradotte, lasciano pensare che si tratti, di una mostra rivolta agli specialisti del settore. Serena Epifani
47
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Coppa di Licurgo, provenienza sconosciuta, The British Museum, Londra.
48
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Coppa in vetro mosaico "millefiori" con motivo a spirali, da Montefiascone, vetro mosaico modellato a matrice, sezioni di canne con motivo a spirale e orlo formato da una canna "a reticelli" ø cm 13,2, I secolo a.C.,Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Roma.
49
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Coppa in vetro mosaico color vinaccia, con vasca a profilo parabolico, da Todi, via Orvietana, tomba 6, vetro a stampo. ø II secolo a.C., Museo Archeologico Nazionale, Perugia.
Kantharos in vetro blu, Musei Civici del Castello Visconteo, Pavia.
cm
18,5, h cm 8,5. Fine III - inizi
Vaso configurato a testa di Medusa bifronte, da Vigorovea, scavi 1954, vetro soffiato in matrice, h cm 8; larghezza 4,6, I secolo d.C., Museo Civico Archeologico, Padova.
50
VESPERTILLA - Anno IX n掳 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Mosaico con scena nilotica, da Roma, Quirinale, via Nazionale, tessere in marmo e vetro policromo, h cm 50, larghezza 50, I secolo d.C. Antiquarium Comunale, Roma.
Ask贸s con decorazione "a spruzzo", da Pompei (IX, 7, 6) Vetro soffiato, frammenti di vetro applicati prima di completare la soffiatura, ansa applicata, h cm 12, I secolo d.C., Museo Archeologico Nazionale, Napoli.
Colomba Da Rondissone Vetro soffiato Lunghezza 8,5 I secolo d.C. Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo alle Terme, Roma
51
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Bustino femminile, dono di Benedetto XIV Lambertini, vetro modellato a matrice, color rosa per il volto, nero per la chioma, occhi intarsiati d'argento, montato su bustino moderno di alabastro, basetta iscritta di marmo bianco, fine I-II secolo d.C., h totale cm 28,5; h parte antica cm 12,2, Musei Capitolini, Roma.
52
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Coppa a mosaico a nastri, Museo Archeologico Nazionale, Adria, dalla necropoli del Canal Bianco, tomba 16
Balsamario a mosaico a bande d'oro, Museo di Storia Naturale e Archeologia, Montebelluna, dalla necropoli di Posmon, tomba 100
Oinochoe, IV secolo a.C., Museo Archeologico Nazionale, Adria
53
Balsamario configurato ad animale dal corpo allungato, II-III secolo d.C., vetro soffiato, filamenti applicati, h cm 3,3; lezione Ritter, Museo Archeologico Nazionale, Aquileia.
Coppa diatreta Trivulzio. Museo Civico Archeologico, Milano
ø orlo 1,5; lunghezza 11,8 , dalla col-
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
54
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
DALL’ANTIQUARIA ALL’ARCHEOLOGIA
COLLI ALBANI. PROTAGONISTI
Dionisio da Frascati.
Rodolfo Lanciani.
E LUOGHI DELLA RICERCA ARCHEOLOGICA ,
Complesso del Vittoriano La mostra proietta il visitatore nella storia dell’archeologia italiana della seconda metà dell’Ottocento. Organizzata su due piani, celebra in primo luogo gli uomini -i pionieri della ricerca archeologica come oggi la intendiamo-, quindi i luoghi oggetto delle indagini avutesi in quella fase storica. Le attività di scavo nell’area dei Colli Albani erano limitate, fino a tutto il XVIII secolo, all’individuazione dei siti. Il fine ultimo di tali attività era ancora il reperimento di oggetti d’arte che confluivano nel mercato dell’antiquariato. Se da un lato tale aspetto contribuì alla formazione delle antiche collezioni, dall’altro penalizzò la ricostruzione storica e l’indagine dei luoghi di provenienza dei materiali. Senza considerare la capillare dispersione di ingenti quantitativi di reperti. Il XI secolo segna un momento di cesura tra l’antiquaria e l’archeologia moderna, che vede nella topografia un importante strumento di indagine utilizzato per la conoscenza approfondita del territorio. L’archeologia moderna volge la sua attenzione in primis al contesto archeologico, ossia al luogo che conserva e quindi restituisce i manufatti attraverso lo scavo. Se l’oggetto fornisce informazioni sul passato, il contesto arricchisce il quadro degli elementi utili a comprendere meglio la storia dei luoghi e delle civiltà che si vanno di volta in volta indagando. L’Ottocento vede affinarsi le tecniche di rilevazione di cui anche l’archeologia inizierà a fare uso, per produrre documentazione più puntuale e carte topografiche più dettagliate. In questa maniera i luoghi amati dai ceti dominanti della Roma papalina per la villeggiatura, gli stessi che si possono ammirare nella documentazione grafica e fotografica prodotta dai protagonisti del Gran Tour, vengono scandagliati, indagati, interrogati da insigni studiosi che tra le altre cose hanno avuto il merito di restituirci l’immagine di numerosi monumenti oggi andati perduti a causa dell’incuria e dell’indifferenza generale. Così, Luigi Biondi indaga il sito di Tusculum; Antonio Nibby, facendo riferimento alle fonti antiche, lavora per cinque anni a una minuziosa Carta del mondo antico, frutto di lunghe ricognizioni anche nelle zone più impervie; Luigi Canina offre gli spunti per potere parlare per la prima volta nella storia archeologica italiana di musealizzazione del contesto; Gian Pietro Campana lavora per la realizzazione di un museo universale; Pietro Rosa realizza la Carta archeologica del Lazio; Giovan Battista De Rossi fonda l’archeologia cristiana quale branca della moderna ricerca archeologica impegnandosi per il recupero degli antichi cimiteri romani; Rodolfo Lanciani è il primo in assoluto ad avviare, con successo, un’affannosa ricerca dei luoghi di provenienza dei preziosi oggetti che alimentavano il mercato antiquario; Domenico Marchetti, coinvolto nel restauro dei monumenti antichi, ne ricostruisce graficamente tantissimi, lasciando ai posteri queste preziose parole: “Il restauro è un omaggio che gli uomini moderni rendono al genio dei secoli lontani”; Hermann Dessau contribuisce allo studio delle iscrizioni latine attestate in questi luoghi ameni nei dintorni di Roma. Con la loro attenzione verso il territorio dei Colli Albani detti studiosi contribuirono alla conoscenza approfondita di siti fino allora rimasti sconosciuti (si pensi all’individuazione di Bovillae sull’Appia, citata dalle fonti come città cara alla famiglia Giulia e mai ritrovata). La mostra offre senza dubbio l’occasione per ricordare queste importanti figure di uomini che, trasportati dalla passione per l’archeologia e dall’amore per il territorio, studiarono minuziosamente la realtà antica della Campagna Romana, lasciando in eredità una mole di dati importanti per chi successivamente si è apprestato alla ricerca scientifica. Accanto alle stampe ottocentesche e alle carte sistemate nella prima sezione, di notevole interesse è uno dei quaderni, il Tomo Primo, appartenuto al Nibby e contenente i suoi dettagliati appunti redatti durante i sopralluoghi nella Campagna Romana. Si tratta di informazioni per lo più inedite, attestanti il metodo di lavoro di uno studioso meticoloso, che non scriveva soltanto, ma schizzava tutto ciò che dal punto di vista archeologico e topografico potesse risultare interessante. La seconda sezione della mostra, quella che documenta i luoghi attraverso pannelli illustrativi, mostra i reperti che da quei territori giungono e che non verranno ricordati certo per la straordinarietà. Serena Epifani
55
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Gmelin, monumento sepolcrale, Palazzuolo, 1811.
Il taccuino di Antonio Nibby.
56
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia I PORTI DI CLAUDIO E DI TRAIANO AREA ARCHEOLOGICA DELLA VIA PORTUENSE
Colonnacce (I sec. d.C.) (foto Marina Humar).
Nel I secolo d.C. il porto fluviale di Ostia non era più in grado di soddisfare le esigenze di rifornimento di Roma. Le grandi navi da trasporto non potevano risalire il Tevere, pertanto il carico doveva essere trasbordato su piccole imbarcazioni oppure si dovevano utilizzare le infrastrutture del porto di Pozzuoli. L’imperatore Claudio nel 42 d.C. decise la costruzione di un nuovo porto a circa 3 Km da Ostia con un grande bacino esterno di 150 are, chiuso da due moli tra i quali sorgeva un isolotto su cui fu costruito il faro. Quando la nuova struttura fu inaugurata, nel 64 d.C., la sua capacità era già insufficiente, anche per il progressivo insabbiamento del bacino, e verso il 100 d.C. l’imperatore Traiano fece riprogettare l’intero sistema. Ad est del porto di Claudio fu creato un grande bacino esagonale con lati di 358 m ciascuno circondato da magazzini per le merci, e un nuovo canale, detto Fossa Traianea, lungo uno dei lati del porto, per facilitare le operazioni di trasbordo delle merci sulle imbarcazioni che risalivano il Tevere fino a Roma. Nel X secolo il bacino, ridotto a palude, fu abbandonato, ma fino all’inizio del ‘900 erano visibili gli ormeggi con anelli di travertino e rocchi di colonne numerati posti lungo le banchine. Oggi, dopo la bonifica, è inserito nel circuito del parco naturalistico dell’Oasi di Porto. Pochi sono i resti ancora visibili del Porto di Claudio, adiacente all’aereoporto di Fiumicino. Gli scavi degli anni ’50-’60 hanno messo in luce solo parte del molo destro, mentre il faro e il molo sinistro sono stati inglobati in una pista dell’aereoporto e da infrastrutture moderne. Più leggibili le vestigia del porto di Traiano, visitabili solo con guide della Soprintendenza. Porto, deposito annonario della città di Roma, nel IV secolo d.C. fu difeso da una cerchia di mura, di cui sono ancora visibili alcuni tratti. Il tracciato di tale cinta era irregolare e non includeva le strutture del porto di Claudio o altri magazzini isolati, perché troppo distanti. L’area è di facile lettura: sono identificabili i resti di un portico monumentale con colonne in travertino, costituite da più rocchi lasciati sbozzati e non rifiniti. La struttura con pianta a T, che definiva il fronte occidentale del porto di Claudio, fu ristrutturata nel III secolo d.C. e inglobata in un grande magazzino in opera laterizia. Uno dei bracci del portico, le cosiddette “Colonnacce” fu chiuso ai due lati per trasformarlo in atrio monumentale per i depositi annonari. L’area dei magazzini traianei occupava un’estensione di circa 75.000 mq e il fronte mare misurava 260 m. Per assicurare la conservazione del grano i pavimenti dei magazzini erano sopraelevati mediante intercapedini di suspensure. Corridoi e cortili interni facilitavano la distribuzione delle merci e un sistema di rampe consentiva il trasporto dei carichi ai piani superiori. I magazzini comunicavano con le banchine di attracco tramite aperture sulla facciata, sono ancora in situ le scalette per accedere alle imbarcazioni e le bitte di ormeggio. Articolati su due livelli oltre il piano terra, erano i magazzini severiani, in realtà di impianto adrianeo-antonino. Grazie a un sistema di rampe, si potevano eseguire contemporaneamente operazioni di scarico, smistamento e stivaggio delle merci. Alcuni impianti di tipo mercantile e annonario furono riconvertiti nel corso del IV secolo in aree residenziali. Nell’area da questi occupata sorgeva una basilica paleocristiana fatta costruire dal senatore Pammachio per i pellegrini che sbarcavano a Porto per recarsi a Roma sulle tombe degli apostoli Pietro e Paolo. Tale edificio sacro absidato, a tre navate e preceduto da portico, fu modificato tra il VI e l’VIII secolo con l’aggiunta di un fonte battesimale ottagonale, ancora visibile. L’edificio noto come ’’Palazzo delle cento colonne’’ aveva un doppio affaccio sui due porti, il quartiere di rappresentanza e di accoglienza per i visitatori di rango e forse per le soste della corte imperiale; lungo il lato occidentale del Palazzo sorgeva un colonnato monumentale detto “Terrazza di Traiano”, l’edificio si innalzava in origine su tre piani, oggi conserva solo il piano terra, reticolo di ambienti voltati e di corridoi. Marina Humar
Portico di Claudio (I sec. d.C.) (foto Marina Humar). VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
57
Archeologia
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
58
Archeologia
Magazzini severiani (II sec. d.C.) (foto Marina Humar). VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
59 59
Archeologia
60
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia NECROPOLI DEL PORTO DI ROMA SULLA VIA FLAVIA-SEVERIANA
Decorazione di un sepolcro (foto Marina Humar).
L’Isola Sacra, detta in età classica Insula Portus o Insula Portuensis, assume questa denominazione nel Medio Evo per la presenza della basilica paleocristiana di Sant’Ippolito e di molti monumenti cristiani della cosiddetta area martyrum, situata alla foce del Tevere. È un’isola artificiale, delimitata a sud e a est dal fiume, a ovest dal mare, a nord della Fossa Traianea, canale di comunicazione largo 45 m che collega il fiume con il porto imperiale, fatto scavare da Traiano, in occasione della costruzione dello stesso, sfruttando canalizzazioni precedenti risalenti all’età di Claudio. Oggi è detta Canale di Fiumicino; nel Medio Evo era chiamata fiumicino, per distinguerla dal corso del Tevere, detto Fiumara Grande. La Fossa era attraversata da un ponte fatto costruire da Adriano. L’isola si è formata artificialmente con l’ammassarsi di materiali alluvionali trasportati e depositati dal Tevere attraverso la Fossa Traianea. Fertile nell’antichità, divenne zona malarica nel Medio Evo, fu bonificata nella prima metà del XX secolo. La parte orientale è occupata per due terzi dall’abitato moderno e la zona orientale dalla Necropoli di Porto. Vi sorgevano la statio marmorum (deposito di marmi), un magazzino granario, altre infrastrutture e un insediamento di lavoratori. La necropoli presenta un insieme di tombe molto ben conservato. Costituisce un esempio, tra i più noti del mondo romano, di sepolcreti sopra terra: composta da centocinquanta tombe, è attraversata da una strada che congiunge Ostia e Porto, costruita nell’età flavia, larga circa 11 m, in parte basolata e in parte glareata (ghiaia pressata mista a sabbia e calce), fiancheggiata da marciapiedi in blocchi di tufo, costruita unitariamente sempre senza rifacimenti, sopralevata per evitare l’insabbiamento, larga m 10,50, unica nel suo genere, divisa in due sezioni, selciata per i carri, battuta per i pedoni. Le crepidini (marciapiedi) sono in blocchi di opus quadratum di tufo poggianti su muri di contenimento in opus reticulatum con contrafforti. I monumenti si dispongono in quattro filari, i più antichi traianei e adrianei, e il più recente severiano; sotto questi, risalenti al III secolo, vi è un fronte più antico della fine del I secolo. Le costruzioni funerarie sono addossate a schiera senza ordine, fino a formare fronti divisi al proprio interno in gruppi e separati da sentieri e aree libere. Dal III secolo scarseggia lo spazio per le sepolture e viene rioccupato il filare più antico che si affaccia sul fronte strada con nuove tombe costruite a livello più alto, che furono le ultime sepolture erette. Dopo il definitivo esaurimento dello spazio; fino al IV-V secolo vi sono solo rioccupazioni e modifiche di tombe già esistenti. Nel tempo prevalse il rito dell’inumazione, le tombe del III secolo lungo la strada presentano esclusivamente arcosoli e le ricostruzioni del IV secolo prevedono unicamente inumazioni. Non si sa quando la necropoli fu abbandonata, ma sicuramente quando il traffico nel Porto di Traiano diminuì (fine IV secolo) anche la necropoli cessò la sua espansione. Nel periodo centrale di occupazione (II-III secolo d.C.) prevale la tomba familiare a pianta quadrata. Le sepolture più antiche furono inglobate da altri edifici di età severiana, così accanto ai sepolcri monumentali si trovano semplici sepolture a terra. Le sepolture più antiche sono disposte senza un ordine prestabilito e si trovano a un livello molto basso, era in uso sia il rito di inumazione che quello di incinerazione. Nelle nicchie sopra gli arcosoli con i sarcofagi per inumati si trovano ancora in situ olle cinerarie con i coperchi per la raccolta delle ceneri dei cremati. Spesso vicino ai sepolcri vi sono dei banchi in muratura e dei forni usati dai parenti dei defunti per i banchetti funebri o delle anfore e dei condotti infissi nel terreno per le libagioni sacre. Gli edifici sepolcrali potevano ospitare singoli defunti, intere famiglie o un collegium funeratricium, come documentato da una tomba con più di centocinquanta sepolture. Nell’area Nord della necropoli si trovano le sepolture più semplici, del tipo a terra, a cappuccina (coperte da tegole a spiovente), a dado, in olle di terracotta o in cassoni semicilindrici in muratura, o in sarcofagi di terracotta, o in fosse. Era il “campo dei poveri” dove sono state scavate circa 600 sepolture, alcune segnalate solo da pietre o frammenti di anfore, tutte non monumentali. Nel periodo centrale di occupazione prevale il tipo della tomba familiare a camera quadrata, spesso a due piani, che può essere dotato di un recinto antistante la
Tomba 78 detta della mietitura di Tiberius Clusdius Eutychus, età traianea-adrianea (98-140) (foto Marina Humar). VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
61
Archeologia
62
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Tomba 100, Parto, terracotta.
Tomba 100, Operazione a una gamba, terracotta.
63
cella. Il recinto può essere costruito insieme alla cella o in seguito per reperire nuovo spazio per i seppellimenti. La facciata in cortina ha un timpano triangolare, piccole finestre e porte con architravi in travertino ed è movimentata da plinti, lesene, colonne e capitelli. In alcuni casi ai lati della porta sono strati costruiti biclinia in muratura per banchetti funebri (utilizzabili anche come tombe); agli stessi banchetti servivano i pozzi e i forni presenti in alcuni cortili. La tecnica costruttiva prevalente è laterizio in opus spicatum normalmente utilizzato per i pavimenti, le facciate del II secolo sono eseguite in accurate cortine rosse, più tardi gialle, talvolta ornate da lesene, con elaborate cornici in cotto inquadranti l’iscrizione funeraria e con timpani triangolari mascheranti la copertura a botte. Nei fianchi e nel retro è utilizzato l’opus reticulatum. Queste parti sono intonacate e dipinte in rosso, le facciate sono sempre a vista. Negli interni è prevalente il rito miste con nicchie per incinerazioni nella parte alta delle pareti, arcosoli per inumazioni nella parte bassa; tipica la disposizione nella quale le nicchie centrali delle pareti laterali e di fondo hanno maggior risalto sia per le dimensioni sia perché ornate da pilastrini e timpani in stucco a imitazione di edicole, i pavimenti a mosaico coprono inumazioni in formae con spallette in muratura, impiantate le une sulle altre in più strati, già previste in fase progettuale. Su un mosaico: in pa(vi)mento sarcofaga N IIII. Spesso sopra la porta tabella incorniciata con iscrizione funebre riporta nome del proprietario, dimensioni della tomba, disposizioni testamentarie. Ai lati dell’iscrizione talvolta vi sono rilievi in terracotta che rappresentano i mestieri dei defunti. Le iscrizioni, ma soprattutto i rilievi in terracotta sulle facciate, indicanti il mestiere del defunto, danno il quadro di un tipico ceto medio di artigiani, bottegai, commercianti, professionisti. Non si segnalano presenze di personaggi di alto rango e schiavi e liberti sono una minoranza. La piccola borghesia era in grado di abbellire le proprie tombe con pitture e stucchi di grande finezza, il cui carattere è più decorativo e di prestigio che simbolico. Un ceto più povero è rappresentato da altri tipi di tombe: a cassone, a cuspide, a edicola, a cappuccina o entro le due metà di un’anfora. L’ingresso al sepolcreto si apre sulla strada. Tomba 16: mosaico nilotico di età antonina. Tomba 19: decorazione pittorica di età antonina: cavalli marini e foglie d’acqua, maschere teatrali, fiori a calice rossi e azzurri sorgenti da corolle. Tomba 29: facciata del recinto, aggiunto abbellita da lesene con capitelli laterizi elaborati; due rilievi fittili: bottega di ferramenta con l’artigiano che costruisce (sotto) e vende (sopra) i suoi strumenti; sulla facciata della tomba: arrotino. Dal recinto si sale al solarium (terrazza) con mosaico riproducente attrezzi da arrotino. Tomba 43: età severiana, davanti alla soglia mosaico raffigurante il Faro di Porto cui si dirigono due navi con epigrafe greca Ode Pausilyppos: “Qui è la cessazione di ogni dolore” con il duplice significato di attracco nel porto e di raggiungimento del porto sicuro dell’aldilà; mosaico pavimentale: due navi entranti nel porto con al centro faro, identificato con quello di Porto. Tomba 78 detta della mietitura: due rilievi riproducenti uno barca con tre rematori che trasporta grano, l’altro macina da grano azionata da cavallo bendato frustrato da servo, proprietario titolare di panificio o di mulino; mosaico pavimentale: raffigurante mito di Admeto e di Alcesti. Tomba 87 (140 d.C.): colombario adibito solo a incinerazioni. Tomba 93: solo incinerazione, l’architettura interna ricorda le fronti dei ninfei e le scenae teatrali. Tomba 97: età traianea, portichetto d’accesso ad arcate su pilastri, al centro della cella pilastro isolato sorreggente altare funerario con nome della defunta Julia Apollonia. Tomba 100: appartenente a Scribonia Attica e a Marco Ulpio Merimno che, dai due rilevi, parto e operazione a una gamba, risultano lei ostetrica, lui medico. Le tombe assolvono alla funzione che assumono all’epoca, cioè esplicitare la posizione e il livello sociale della famiglia: per questo motivo le costruzioni offrono il fronte alla strada e hanno un programma decorativo pittorico e musivo, ricco e complesso e di buon livello esecutivo. “Campo dei poveri”: numerose torri a cassone semicilindrico che trovano confronti in Africa e Spagna con cui Ostia e Porto intrattenevano intensi commerci. Le anfore, infisse verticalmente nel terreno, sono segnacolo dell’inumazione sottostante e servivano per le libagioni. Marina Humar
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Mosaico policromo dalla tomba di Antonia Achaice (160-170 d.C.).
64
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Interno dipinto di tomba.
Tomba 43: Due navi entranti nel porto, mosaico pavimentale, tessere bianche e nere, etĂ severiana.
Interno di tomba dipinto VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
65
Archeologia
66
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
IL SEPOLCRO DEGLI SCIPIONI
Veduta generale esterna dell’area archeologica del Sepolcro degli Scipioni, III secolo a.C.
67
Gli Scipioni erano un ramo della gens Cornelia cui appartenevano, tra gli altri, Scipione Africano, vincitore di Annibale, e Scipione Emiliano (membro della gens Aemilia ma adottato da un figlio dell’Africano), distruttore di Cartagine (146 a.C.) e di Numanzia (133 a.C.). Il Sepolcro degli Scipioni risale alla media età repubblicana; fu scoperto nel 1616 con il ritrovamento casuale dei sarcofagi di Lucio Cornelio Scipione, questore nel 167 a.C., e di Lucio Cornelio Scipione figlio di Barbato, console nel 254 a.C. Nel 1780 i fratelli sacerdoti Sassi, proprietari della vigna nel cui sottoterra sorgeva l’ipogeo, allargando la cantina di casa, s’imbatterono in uno degli ingressi del sepolcro. I lavori di sterro furono diretti dall’Abate Visconti, allora Commissario alle Antichità di Roma. Tutto quello che era scritto o figurato, come allora prassi consolidata, venne portato ai Musei Vaticani; il sepolcro divenne meta abituale di studiosi e dei viaggiatori del Grand Tour. Nel 1880 il terreno venne acquisito del Comune su insistenza di Rodolfo Lanciani. Tra il 1926 e il 1929 il Governatorato di Roma fece eseguire lavori di restauro: completato lo scavo per riportare alla luce l’intero complesso, demolite le murature non pertinenti (erano state costruite durante il XVIII secolo per evitare il crollo delle volte), eseguite e sistemate copie delle iscrizioni (gli originali sono conservati nei Musei Vaticani), posizionate in connessione coi sarcofagi dai quali le lastre originali erano state asportate. Durante i lavori furono Decorazione pittorica fitomorfa del colombario presso il Sepolcro degli Scipioni, I secolo a.C. scoperti una serie di edifici: un grande colombario risalente del I secolo a.C., formato da ambiente rettangolare con soffitto sostenuto da due pilastri cilindrici, uno dei quali conservato quasi integralmente, dell’altro restano poche tracce. Nei pilastri e nelle pareti sono ricavate cinque file sovrapposte di nicchie semicircolari, inquadrate da cornici di stucco, ancora conservate; in ognuna erano due olle di terracotta per le ceneri dei sepolti; sotto ogni nicchia pannelli dipinti a colori vivaci (azzurro, rosso, giallo) destinati alle iscrizioni funerarie, che non furono mai tracciate. Il colombario è ornato da affreschi raffiguranti tralci di fiori, maschere, piccole erme. Ospitava 470 defunti. Insula risalente al III secolo d.C., le cui fondamenta hanno in parte danneggiato il sepolcro, essendo essa costruita in parte sopra un settore del sepolcreto sul lato più vicino all’Appia. L’insula consisteva di tre piani, le murature sono in laterizio; nel XVII secolo viene ampliata e riutilizzata come casale. Piccola catacomba di epoca tarda, cui si accede attraverso un edificio sepolcrale limitrofo all’Ipogeo degli Scipioni. La catacomba è scavata nel tufo con file di sepolcri sovrapposti. Il grande sepolcro, voluto da Lucio Cormelio Scipione Barbato, capostipite della famiglia, si affaccia verso quello che era un diverticolo tra la via Latina e la via Appia, in prossimità di questa, a poche centinaia di metri dalla Porta Appia, oggi Porta San Sebastiano, in una zona a carattere eminentemente funerario; la posizione corrisponde a quella riferita dalle fonti antiche che la localizzano fuori Porta Capena, la porta della cinta serviana da cui si dipartivano la via Appia e la via Latina. La decisione da parte degli Scipioni di costruire il sepolcro di famiglia in prossimità dell’Appia non è casuale, ma indica una precisa scelta politica. L’Appia fu costruita nel 312 a.C., per seguire e per favorire l’espansione del dominio di Roma verso l’Italia meridionale. Pilastro del colombario presso il Sepolcro degli Scipioni con nicchie alternate per una e Il suo costruttore, il censore Appio Claudio due olle cinerarie, I secolo a.C.
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeolgia
68
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Rampa d’accesso all’ingresso settecentesco del Sepolcro degli Scipioni.
Cieco, era grande sostenitore della politica imperialista romana e anche il primo importante esponente della vita pubblica romana che dimostrava una netta inclinazione verso la cultura greca. Quindi non è affatto casuale la decisione della gens degli Scipioni, una delle più aperte alla cultura ellenizzante, di costruire il proprio monumento funerario vicino alla nuova strada consolare, simbolo dell’idea politica di espansione verso il mondo magno-greco, fatta propria da una fazione della nobiltà allora al potere. Da segnalare anche la scelta dell’inumazione in un periodo in cui era prevalente l’incinerazione. Il monumento è costituito da due corpi distinti: il principale è scavato direttamente in un banco naturale di cappellaccio alla maniera etrusca e una galleria con ingresso indipendente di epoca più tarda costruita in mattoni. A fianco dell’attuale ingresso dell’ipogeo rimane un piccolo tratto dell’antica facciata, sulla destra, dove è anche l’ingresso all’ipogeo minore laterale: una cornice sagomata in peperino, su cui resta una base di colonna. La facciata, rivolta a Nord-Est, era costituita in origine probabilmente come una grande scena teatrale, con un alto prospetto tripartito da sei semicolonne di tufo con base attica, di cui una sola sopravvive in situ. Tra le semicolonne erano tre nicchie monumentali contenenti statue di personaggi della famiglia (secondo fonti antiche, Scipione Africano, Scipione Asiageno e il poeta Ennio, che era stato sepolto nella tomba della famiglia per aver esaltato negli ultimi anni dei suoi Annales le imprese dei grandi romani, quelle degli Scipioni in particolare): di tali statue alcune sono oggi conservate a Musei Vaticani altre disperse. Sul sottostante alto basamento continuo, tagliato nella roccia, si aprono tre ingressi simmetrici con archi in conci di tufo dell’Aniene. Quello centrale appartenente al sepolcro originario, quello di destra relativo al nuovo ipogeo e quello di sinistra aperto per simmetria
con il precedente era cieco e aveva funzione puramente ornamentale o forse era prevista una seconda camera su questo lato. Oggi rimane solo una grande cavità circolare, forse appartenente a una calcara che qui era sta insediata nel Medio Evo, provocando la distruzione di un angolo della tomba. Il basamento, alto più di due metri era sormontato da cornice sagomata a cuscino in peperino, interamente ricoperto di affreschi per tutta la sua lunghezza. Alcune di queste pitture appartengono alla prima fase della tomba, le successive furono realizzate tra la seconda metà del II secolo a.C. (epoca in cui fu costruita la facciata monumentale del sepolcro) e l’inizio del I secolo a.C. quando cessarono le deposizioni. Sono stati riconosciuti sette strati di affreschi sovrapposti con figurazioni di genere storico e di argomento militare rappresentanti Trionfi e Sottomissioni di popolazioni vinte. Le figure sono dipinte sopra un zoccolo rosso, tra fasci figurati e zoccolo stesso appare un motivo a onde stilizzate ricorrenti di colore rosso. Si è pensato che a ogni deposizione di personaggio importante tali pitture venissero rifatte per onorare la memoria del defunto rappresentandone imprese e vittorie militari. L’ingresso originario del monumento si trovava sul retro rispetto alla facciata attuale e prevedeva l’accesso al complesso tramite un lungo corridoio. L’edificio presenta una pianta quadrangolare con quattro grandi pilastri sorreggenti le volte che dividono l’ambiente in sei gallerie: quattro fiancheggianti i quattro lati, due intersecantesi perpendicolarmente al centro in senso normale alla facciata. I sarcofagi in tufo sono di due tipi: monolitici i più antichi (quelli di Scipione Barbato e del figlio Lucio Cornelio Scipione), o a lastroni (tutti gli altri), incassati in apposite cavità o addossati lungo le pareti della gallerie e intorno ai pilastri. Quelli nell’ipogeo minore laterale sono notevolmente più grandi. Dei circa trenta sarcofagi che dove-
69
vano occupare il sepolcro secondo le ricostruzioni proposte, restano i frammenti di sedici, di cui sette con relative iscrizioni. La tomba fu occupata dall’inizio del III secolo a.C. fino a circa metà del II secolo a.C.: intorno al 150 a.C. il sepolcro, completamente riempito da sarcofagi, venne ampliato con una nuova galleria aperta sul lato verso l’Appia con orientamento alquanto diverso rispetto alle precedenti. Il nuovo ipogeo non comunicava con il sepolcro primitivo; l’ingresso indipendente è costituito da un arco a conci di tufo dell’Aniene. Nel contempo venne sistemata la facciata monumentale, secondo moduli ellenistici e il sepolcro venne monumentalizzato con le statue dei membri più celebri della famiglia, trasformandolo in un museo della famiglia stessa, sorta di pantheon delle glorie della gens. Tali lavori furono voluti da Scipione Emiliano. Nella nuova galleria vi è spazio per sei sepolture, sono stati rinvenuti i frammenti di tre sarcofagi. Durante il periodo imperiale claudio-neroniano, furono sistemate tombe a incinerazione dei Corneli Lentuli, gens che aveva ereditato la tomba dopo l’estinzione degli Scipioni all’inizio dell’età imperiale; alla base di questa scelta, motivazioni propagandistiche politiche di ricollegarsi idealmente alla grande famiglia degli Scipioni. La deposizione più antica è nella parete di fondo della galleria centrale: sarcofago in peperino (originale conservato ai Musei Vaticani), decorato elegantemente, a differenza degli altri, con modanature alla base e ornato alla sommità da fregio dorico composto di triglifi e metope con rosoni rilevati; ospita la salma del console del 298 a.C. il capostipite della famiglia il cui patronimico è dipinto sul coperchio. Le successive sepolture occupano il lato EST del sepolcro, sulla sinistra della galleria centrale, dove venne esposto il sarcofago di Lucio Cornelio Scipione, figlio di Barbato console nel 259, censore, edile. Conquistò la Corsica e la città di Aleria, dedicò un tempio alle Tempeste. Fu padre di Gneo Cornelio Scipione Calvo, console nel 222, da cui discendono i rami degli Scipioni Ispallo, Scipioni Nasica e di Publio Cornelio Scipione. Console nel 218 ucciso in Spagna nel 211 durante la seconda guerra punica. Da lui nacquero il vincitore di Annibale Scipione l’Africano e Scipione Asiageno, vincitore di Antioco re di Siria a Magnesia nel 180 a.C. Publio Cornelio Scipione, uno dei due figli dell’Africano, fu sepolto nella tomba di famiglia. Scipione Emiliano distruttore di Numanzia e di Cartagine. Scipioni Africano è sepolto nella villa di famiglia a Literno. Dopo una pluridecennale chiusura per faraonici lavori di restauro, il Sepolcro degli Scipioni
Insula, III secolo d.C.
riapre al pubblico in maniera per lo meno strana: si può accedere al sito solo in gruppi e per prenotazione. Il luogo, appuntamento importante del Grand Tour, non è normalmente visitabile, quando si telefona al call center informativo di Roma Capitale per prenotare una visita, la prima risposta è un diniego, tanto da far sospettare la troppo comune inaugurazione esclusivamente per immagine: alla fine, dopo pressanti insistenze, si riesce a ottenere il permesso di visita. Quanto ha prodotto il lungo periodo di chiusura è certo deludente: gli scavi non sono ultimati, non sono accessibili catacomba e insula, non ci sono pannelli didattici, l’impressione è quella di un restauro faraonico altamente inutile e dispendioso, che fa assomigliare il sito a un luna park, sarà forse a causa della sconfitta della giunta capitolina sul Luneur; grandi e invasive strutture di sostegno metalliche, spesso colorate, a sottolineare uno sforzo titanico per la messa in sicurezza del monumento, luci più da set cinematografico, da “sandalone” di serie B, anzichè un’illuminazione scientifica, che sottolinei i dettagli di maggior interesse; il casale ancora abitato e non utilizzato come antiquarium e per favorire la fruizione delle strutture inerenti la domus, da questo occupate; l’unico pannello, oltre alla restituzione del prospetto, propone una pianta priva di spiegazioni e di legenda, la foto di una statua di Scipione non pertinente e il quadro di Sir Alma Tadema La lettura dell’Odissea e un altro raffigurante La battaglia di Zama, ma il trionfatore di Zama non è sepolto qui; assenza di un repertorio d’immagini esaustivo, segno che non è stata effettuata una campagna fotografica scientificamente corretta; del tutto assente anche la segnaletica stradale... Per giunta lo stato del sito sembra di abbandono e di non finito: sarcofagi senza didascalie appoggiati al terreno su zeppe di legno, altri coperti da slitte di legno o altri resti di cantiere, pezzi di sarcofago o iscrizioni appoggiati alla rinfusa lungo le murature antiche, la guardiola abbandonata e sulle stesse murature antiche: giornali, chiavi, cellulari e altro. L’impressione che si ricava è che il restauro sia volto a glorificare se stesso, anziché a conservare e a mettere in luce scientificamente e didatticamente l’intero complesso e le sue singole componenti. Ancora risorse pubbliche sprecate senza raggiungere gli obiettivi: scavo, conservazione, studio, pubblicazione, diffusione, apertura regolare al pubblico doverosamente pubblicizzata: le solite “semplificazioni” di un’Italia ormai in completo disarmo. e declino. Luigi Silvi
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
70
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Resti di affreschi sul prospetto del Sepolcro degli Scipioni, tra seconda metà del II secolo a.C. e inizio I secolo a.C., foto Marina Humar.
Resti di affreschi sul prospetto del Sepolcro degli Scipioni, tra seconda metà del II secolo a.C. e inizio I secolo a.C., foto Marina Humar.
71
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia
Restituzione del prospetto del Sepolcro degli Scipioni.
Catacomba cristiana, foto Marina Humar.
72
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Archeologia FIORI PER CELEBRARE L’AVVIO DI UNA NUOVA ERA NON IL SUO CONSOLIDAMENTO
Ara Pacis, altare, I secolo d.C.
Nell’antica Roma la politica si faceva con le immagini. Ottaviano Augusto, figlio adottivo e successore di Giulio Cesare, usò più di ogni altro l’iconografia come strumento di propaganda. Da subito consapevole del degrado politico e sociale in cui versava Roma, si fece portatore degli antichi ideali, promettendo ai romani un ritorno all’età dell’oro. Il suo principale obiettivo fu quello di porre fine alle sanguinose guerre civili che avevano dilaniato l’Urbe, soprattutto nell’ultima fase della repubblica. Nelle Res Gestae, il suo testamento politico, è senza dubbio manifesta la volontà di comunicare al popolo tutto il suo operato finalizzato a ridare lustro alla città sul Tevere. Gli stessi intenti si ritrovano puntualmente nel programma iconografico del Foro che porta il suo nome, inaugurato nel 2 a.C., dove si individuano i contenuti di quell’articolato pensiero: la celebrazione dei Lari e della Gens Iulia; l’esaltazione dei Summi Viri, ossia gli uomini che resero grande Roma nella fase della repubblica; l’esaltazione delle origini della città e di Romolo, suo mitico fondatore. Tra gli obiettivi di Augusto quello di far diventare l’area forense il luogo ideale dove istruire le nuove generazioni. Le pubblicazioni scientifiche su tali argomenti sono copiose. Più rari, invece, i riferimenti, in ambito iconografico e iconologico, alle decorazioni fitomorfiche dei monumenti, che pure sono attestate in maniera diffusa nell’architettura dell’epoca. Nel volume Il codice botanico di Augusto. Parlare al popolo attraverso le immagini della natura, Giulia Caneva, biologa, affronta il tema fornendo una serie di argomenti plausibili circa l’uso degli elementi vegetali come veicolo di messaggi propagandistici. Già altri studiosi, pochi invero, si sono soffermati sul probabile significato simbolico dei grandi girali di acanto e dei tralci di vite individuabili nel registro inferiore dell’Ara Pacis. La Caneva va oltre. L’autrice sottolinea in prima battuta il forte legame che intercorreva tra gli uomini e la natura nell’antichità -tanto da potere concepire la metamorfizzazione di esseri umani in piante e viceversa- un rapporto, si diceva, oggi dimenticato. La modernità, infatti, ha proiettato l’uomo in una dimensione tutta artificiale, lontanissima dal contatto diretto con l’ambientein cui vive. “L’osservazione
acuta della natura si rileva non solo dalla fedele osservazione di singoli elementi morfologici, ma anche dalla rappresentazione delle varie specie in particolari momenti del loro ciclo biologico”, sostiene la Caneva. Sfruttando quindi le sue competenze scientifiche analizza in maniera certosina le piante più rappresentate, tutte riconoscibili nella flora mediterranea, ma anche quelle più “nascoste”, con risultati sorprendenti dal punto di vista del loro significato simbolico e allegorico. La studiosa indaga la logica dell’alfabeto botanico: accanto al luppolo, la cui valenza iconografica sottende il concetto di metamorfosi e trasformazione, sono attestati l’aglio, il ciclamino e lo zafferano, elementi scaramantici e augurali di prosperità e fecondità. Se zucche, edera e vite alludono alla forza vegetativa di Dioniso, aglio orosino, aglio selvatico, giacinto, narciso e asfodelo giallo richiamano la rinascita della terra. Non mancano alcune specie di piante di chiara valenza medicinale riconducibili ad Apollo-Asclepio come alcea, erba stella, fiordaliso, finocchio selvatico e ibisco, né quelle legate alle divinità solari di derivazione orientale come ninfea, fior di loto e palma da datteri. Nell’insieme della raffigurazione fitomorfica si possono riscontrare i messaggi di Augusto, in un progetto iconografico complesso e articolato, che non è pertanto solo figurativo. La presentazione ti talune piante e non di altre sottolinea, in sintonia con l’intero monumento, l’inizio della nuova era, l’Aurea Aetas augustea. Del resto l’elemento vegetale è quello che meglio esprime il senso di rinascita dopo una pausa invernale o dopo la siccità. Aspetto che rimanda alle Res Gestae, dove si legge un messaggio molto forte: lo scopo finale di Augusto era quello di inaugurare una nuova era, reintroducendo nella società gli antichi valori. Nell’ottica della celebrazione di un impero di cui si volgia glorificare l’inizio, non un fase consolidata dunque, la Caneva giustiifca le presenze dei fiori più che dei frutti. L’augurio di un’era felice, infatti, si poteva esprime meglio con un elemento recante in sé il significato di un processo di risveglio della natura, come appunto il fiore, piuttosto che con i frutti, per cui la maturità è già un aspetto in divenire. Serena Epifani
Ara Pacis, I secolo d.C., visione frontale. VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
73
Archeologia
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
74
Archeologia
Ara Pacis,I secolo d.C., girali d’acanto.
Ara Pacis,I secolo d.C.: Saturnia Tellus, personificazione della pace e della prosperità .. VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
75
Archeologia
76
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
SPOSTAMENTI TEMERARI
TINTORETTO, Scuderie del Quirinale Tintoretto è il primo artista veneziano che si discosti da Tiziano Vecellio, quello che maggiormente fa i conti con la “grande maniera” inserendo e armonizzando gli assunti estetici tosco-romani ed emiliani nella tradizione del colorismo veneto, e a cui, stranamente, non è stata mai dedicata una retrospettiva scientifica ed esaustiva. Sarà, come giustamente recita il depliant della mostra, per la difficoltà, se non addirittura impossibilità, di spostamento e di trasporto dei giganteschi teleri delle Scuole Grandi veneziane e dei vasti soffitti e controsoffitti dei palazzi pubblici e privati della Laguna, e delle raffigurazioni de L’Ultima Cena delle Scuole devozionali del Santissimo Sacramento sempre in Laguna. Neanche la presente rassegna alle Scuderie del Quirinale va in questo senso, pur nella sua grandiosità, straordinarietà e strepitosità, accompagnata da temerarietà per il coraggioso, ma rischioso, trasporto appunto di alcuni di questi teleri monumentali, che la rendono sontuosa e spettacolare, a volte magniloquente, di sicuro richiamo per il grande pubblico. Di attenta, scrupolosa e scientifica retrospettiva non si può parlare neanche stavolta, tratttandosi di solo quaranta opere riferite a una carriera straordinariamente lunga e intensa, con una produzione ampiamente vasta, anche per la sprezzante, nei confronti dei colleghi, rapidità d’esecuzione che permetteva all’autore di far fronte contemporaneamente a molteplici committenze, soddisfacendo anche coi veloci tempi di realizzazione e quindi di consegna, rispetto alla concorrenza, un’esigenza importante dei suoi stessi committenti. Neanche il catalogo sovviene in questo senso, a iniziare dal titolo della mostra, concisamente e semplicemente Tintoretto, quasi a prefigurare l’agognata e invano attesa retrospettiva generale che poi, di fatto, per la detta esiguità del numero di opere, non c’è. I curatori non chiariscono nei rispettivi saggi le motivazioni che sottendono alla scelta delle opere esposte, e neanche vogliono dimostrare né esplicitare una loro precisa e dichiarata tesi sull’opera di Jacopo Robusti. Alla fine il catalogo si presenta come un guazzabuglio di opere, sia presenti che assenti in mostra, e ogni singolo saggio corre per proprie vie autonome una dall’altra, senza un reale progetto a monte e senza un obiettivo comune. Percorrendo sale e corridoi delle Scuderie papali, si è rapiti dalla grandiosità, dalla spudoratezza e dalla geniale inventiva dell’artista lagunare, in particolare dai teleri della Scuola Grande di San Rocco e della Scuola Grande di San Marco; detti teleri, per altro, staccati dal loro contesto originale per il quale l’autore li aveva appositamente pensati e realizzati, perdono la loro valenza intrinseca e colpiscono principalmente e quasi esclusivamente solo per l’inusitata ampiezza e vastità delle dimensioni. Ma un fremito coglie l’osservatore: il rischio tremendo e inaudito cui queste opere sono state esposte con il trasferimento nella sede espositiva che ospita la presente rassegna: spostate più che per essere studiate, per essere esibite e spettacolarizzate e fare immagine e “botteghino”. Certo, chi non ha avuto la fortuna e l’opportunità di visitare i grandi musei europei e italiani, i palazzi, le chiese, le sacrestie, i monasteri, gli oratori e le Scuole della Serenissima, ha un’occasione probabilmente unica – almeno si spera a fine della tutela e della conservazione
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), Santa Maria Egiziaca, 15821587, olio su tela, cm 425 x 211, Scuola Grande dell’Arciconfraternita di San Rocco, Venezia.
77
delle opere – di vedere una pur minima parte dei giganti, da tutti i punti di vista, del pittore lagunare. L’esposizione è divisa in più sezioni: le grandi opere, Tintoretto sacro e religioso, Tintoretto civile, profano e mitologico, la ritrattistica, e una con gli autori a lui assimilabili o con i quali egli si è confrontato o che su di lui hanno esercitato la propria influenza. Le prime tre sono nettamente insufficienti a cogliere la valenza e l’evoluzione dell’avventura artistica tintorettianama: sono semplicemente alcuni scintillii, alcuni barbagli, meri esempi di quanto la genialità di Jacopo Robusti con il suo segno nervoso, con le sottili e intricate luminescenze, con l’invenzione di scorci e di atteggiamenti, fino ad allora inusitati e imprevedibili, abbia rappresentato una svolta nodale nella pittura veneziana, sorta di esplosione dionisiaca rispetto alla pittura apollinea e olimpica di Paolo Veronese. È invece profondamente indicativa la sezione dedicata alla ritrattistica con una corretta ed esaustiva scelta tra le centinaia di personaggi effigiati dall’artista. Nella sezione dedicata agli autori a lui contemporanei, mancano completamente riferimenti a Michelangelo, a Raffaello, a Vasari e quelli fondamentali a Jacopo Sansovino, di cui lo stesso autore sosteneva di essere intimo, e a Giulio Romano nella sua vasta impresa mantovana, di cui Tintoretto fu attento osservatore. Mancano anche Francesco e Giuseppe Salviati, per non dire delle radici della pittura veneta: Giovanni e Gentile Bellini, Palma il Vecchio, il Pordenone e Paris Bordon. Se la mostra consente all’osservatore di cogliere l’impianto teatrale della composizione, l’esasperazione e l’arditezza degli scorci, la gestualità delle figure, l’utilizzazione consapevole di invenzioni spettacolari, la strutturazione dello spazio d’azione a palcoscenico, la concitazione dei moti e dei gesti, la stesura pittorica rapida, discontinua, in perenne tensione, la rappresentazione fulminea e altamente drammatica, la tessitura luministica, le ambientazioni suggestive e fantastiche, gli sconvolgenti turbinii, le immagini grandiose con accenti visionari, lo fa in termini parziali, senza cioè coglierne le radici, i confronti, i rimandi, l’ambiente e la cultura che ne sono alle origini; nemmeno riesce a cogliere le schegge, le tracce, le intuizioni, i sentieri lasciati ai posteri. Sembrano opere asettiche, nate casualmente e isolate una dalle altre, avulse da un contesto generale ampio, sembrano lì per caso e per la mera funzione di stupire. Si definisce Tintoretto regista, perché compone i personaggi come su una scena, ma questa rimane scena appunto ipotetica, perchè i personaggi non sono destinati a interagire drammatirgicamente Si vuol sostenere che gli scorci arditi di Tintoretto, e pur in termini diversi di Veronese e di Tiepolo, del “sottoinsù” della pittura veneta, e in particolare l’alternanza dei campi lunghi con quelli ravvicinati di Tintoretto stesso, corrispondano ad ardite inquadrature cinematografiche, all’avvicendamento con la macchina da presa di campi e controcampi, e di inquadrature lunghe e brevi, quasi a voler proporre, non certo correttamente, Tintoretto quale precursore della settima arte. In realtà è stata questa a cogliere abilmente la lezione degli artisti veneti. Insomma: Tintoretto attende ancora la sua mostra! Luigi Silvi
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), Santa Maria Maddalena, 15821587, olio su tela, cm 425 x 209, Scuola Grande dell’Arciconfraternita di San Rocco, Venezia.
78
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), San Marco libera lo schiavo dal supplizio della tortura (detto anche Miracolo dello schiavo), 1547-1548, olio su tela, cm 415x541, Gallerie dell'Accademia, Venezia.
79
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), Susanna e i vecchioni, 1555-1556, olio su tela, cm 146x194, Kunsthistorisches Museum, Vienna.
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), L'Ultima Cena, 1574-1575, olio su tela, cm 28x535, Chiesa di San Polo, Venezia, Curia Patriarcale di Venezia
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
80
Arte
81
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), L'Ultima Cena, 1561-1562, olio su tela, cm 221x413m, Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio detta Chiesa di San Trovaso, Venezia, Curia Patriarcale di Venezia
82
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594), Il trafugamento del corpo di San Marco, 1562-1566, olio su tela, cm 398x315, Gallerie dell'Accademia, Venezia
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Jacopo Robusti o Canal detto Tintoretto (Venezia 1518 - Venezia 1594),Vulcano soprende Venere e Marte, 1550-1555, olio su tela, cm 134x198, Bayerische Staatsgem채ldesammlungen - Alte Pinakothek, Muenchen
83
Arte
84
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
SERIETÀ SOBRIETÀ DISCREZIONE
GUERCINO. CAPOLAVORI DA CENTO E DA ROMA, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini
Giovanni Francesco Barbieri detto Guercino (Cento 1591, Bologna 1666), Et in Arcadia ego, olio su tela, cm 82 x 91, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Roma.
La mostra documenta l’opera di Giovanni Francesco Barbieri, detto Guercino, nella natia Cento, durante gli anni della formazione e quella degli anni romani, che diedero caratteri definitivi e precisi al suo fare artistico. Si è cercato di ricostruire scientificamente la cronologia delle opere, per leggerne l’evoluzione e trarne rimandi e confronti, fino al rientro nella città d’origine da cui Guercino non si allontana, se non per il fortunato soggiorno romano. L’analisi dei documenti e lo studio delle opere permettono di ricostruire passo passo il suo percorso artistico. La scelta per gli anni di inizio della sua attività è caduta su quelli tra il 1613 e il 1614, con opere quali Lo sposalizio mistico di Santa Caterina, proprietà della Cassa di Risparmio di Cento, assieme alle pale d’altare della Parrocchiale di Renazzo, e al San Carlo Borromeo in orazione, oggi nella parrocchiale di San Biagio. Da queste opere si evince come, pur se in giovane età, Guercino aveva già maturato un proprio stile distintivo, che conteneva il potenziale pittorico che si svilupperà nei lavori successivi. Per le opere precedenti si è potuto risalire ai lavori effettuati, spesso in collaborazione con altri, in chiese e in dimore centesi, e sulle facciate di edifici pubblici della stessa città. Questi ultimi sono tutti irrimediabilmente perduti, altri sono ancora conservati nella case Pannini, Provenzali e Menotti. Questo periodo è documentato in mostra da tre affreschi provenienti da due chiese di Cento, realizzati tra il 1612 e il 1613: Due angeli reggenti il sudario di Santa Veronica con l’immagine di Cristo, ancora nella Chiesa di Santa Maria Addolorata dei Servi, per la quale venne realizzato, con evidenti influssi della pittura ferrarese nell’ambiente dello Scarsellino; l’Annunciazione e l’Eterno Padre, oggi nella Pi-
nacoteca Civica di Cento, provenienti dalla Chiesa centese dello Spirito Santo. In essi si notano le doti di un pittore in evoluzione, alla ricerca dell’armonizzazione del senso della forma plastica dei Carracci e quello tonale e cromatico della scuola ferrarese. Si fa risalire all’età di otto anni l’affresco sulla facciata della sua abitazione Madonna di Reggio, oggi in collezione privata. In catalogo si percorrono anche sistematicamente le frequenze a bottega di diversi pittori centesi e ferraresi. Di questo periodo la Santa Cecilia che suona l’organo mentre sfoglia la partitura musicale dove si coniugano intuizioni personali dell’artista con gli esiti della pittura ferrarese del tempo. Stessa lettura può essere data del piccolo rame tondo con San Francesco inginocchiato che riceve le stimmate in collezione privata, gemello del più evoluto San Francesco che parla agli uccelli nella collezione romana Patrizi. Nel 1616 esegue Madonna con Bambino, Santi e un fanciullo donatore per la Chiesa di Sant’Agostino di Cento, ora a Bruxelles, opera che segna la prima maturità dell’artista. Dopo il 1616 realizza Apollo che scortica Marsia a Palazzo Pitti, la Sibilla della collezione Mahon e San Sebastiano soccorso da Irene nella Pinacoteca Nazionale di Bologna. Del 1617 il San Sebastiano soccorso da due angeli; nel 1618 La Cattedra di San Pietro per la Cattedrale della sua città; in questo momento propizio realizza anche le due versioni di Erminia ritrova Tancredi ferito, il misterioso Et in Arcadia ego oggi alla galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, e le due versioni del San Girolamo che sigilla una lettera. Sempre al 1618 va ascritto un gruppo di pale, oggi alla Pinacoteca Civica di Cento: San Bernardino da Siena davanti alla Madonna di Loreto, San Pie-
85
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Giovanni Francesco Barbieri detto Guercino (Cento 1591, Bologna 1666), Seppellimento di Santa Petronilla (bozzetto), olio su tela, cm 56,5 x 33,5, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Roma.
86
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Giovanni Francesco Barbieri detto Guercino (Cento 1591, Bologna 1666), Sibilla Persica, 1647 , olio su tela, cm 117 x 96, Musei Capitolini - Pinacoteca Capitolina, Roma.
87
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Giovanni Francesco Barbieri detto Guercino (Cento 1591, Bologna 1666), Saul contro David (particolare), olio su tela, cm 147 x 220, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Roma.
tro penitente con San Carlo Borromeo, un angelo e il donatore che pregano la Madonna di Reggio e Madonna del Carmine che offre lo scapolare a Sant’Alberto, oltre alla Fiera sul Reno vecchio, oggi alla Pinacoteca Vaticana. Del 1620 San Giovanni Battista visitato in prigione da Salomè e l’Eterno con putto; del 1621 L’incredulità di San Tommaso, più tardo di due anni il Ritratto di Alessandro Ludovisi papa Gregorio XV. Dal 1621 al 1623 il fruttuoso soggiorno romano dell’artista: è del 1621 l’impresa al Casino Ludovisi, in collaborazione con Agostino Tassi, l’altra di Rinaldo rapito da Armida a Palazzo Costaguti Mattei, già Patrizi, sempre in collaborazione con il Tassi; e una terza impresa, sempre con il Tassi, Virtù e un gruppo di amorini a Palazzo Lancellotti. Nel 1622 per la Chiesa di San Crisogono in Trastevere San Crisogono in Gloria, oggi a Londra in Lancaster House; nello stesso anno la Maddalena con due angeli, oggi alla Pinacoteca Vaticana per la Chiesa di Santa Maria Maddalena, e il Ritratto di Gregorio XV Ludovisi, oggi al Paul Getty Museum di Malibu. In quegli anni l’artista esegue quello che è da considerarsi il suo capolavoro del periodo romano, la pala enorme e monumentale Santa Petronilla sepolta e accolta in cielo, prima in Vaticano, sostituita poi da un micromosaico. e oggi
alla Pinacoteca Capitolina; di questi anni anche l’Assunta per la Chiesa del Rosario di Cento, iniziata a Cento e ultimata a Roma, la Madonna con Bambino oggi a Francoforte, il Cristo incoronato oggi a Budapest, la Liberazione di San Pietro prebarocca, oggi al Prado, il San Matteo e l’Angelo alla Pinacoteca Capitolina. Della metà del secondo decennio Sansone porta un favo di miele ai genitori, della Galleria Borghese, del primo anno del terzo decennio invece il Ritratto del cardinale Bernardino Spada della Galleria Spada. Dopo il ritorno a Cento Guercino dipinge alcune opere oggi conservate a Roma, riconducibili al periodo di transizione tra il 1623 e il 1624: Il ritorno del figliol prodigo alla Galleria Borghese, proveniente da Palazzo Lancellotti. Esempio illuminante di mostra che si pone l’obiettivo, e lo raggiunge, di documentare e chiarire l’opera di un artista senza enfatizzazioni e magniloquenze, ma con la serietà, la sobrietà e la discrezione dello studioso e del ricercatore che rifugge da esibizionismi eclatanti e di pura ricerca dell’immagine. Interessante anche il catalogo, oltre che per l’analisi dell’opera di Guercino, per il puntuale saggio sul grottesco e sul senso della morte nella pittura del XVII secolo.
Luigi Silvi
88
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
iovanni Francesco Barbieri detto Guercino (Cento 1591, Bologna 1666), Saan Girolamo in atto di sigillare una lettera, 1617-1618, olio su tela, cm 137 x 147, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Roma.
89
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Giovanni Francesco Barbieri detto Guercino (Cento 1591, Bologna 1666), San Luca, olio su tela, cm 141 x 111, Galleria Nazionale d’Arte Antica in Palazzo Barberini, Roma.
90
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
GENIO FRAINTESO E MISCONOSCIUTO
WILDT. L’ANIMA E
LE FORME TRA
MICHELANGELO
E
KLIMT, Musei San Domenico (Forlì)
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Arturo Toscanini, 1923, marmo, cm 80,5 x 111 x 50, Galleria nazinale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, dono Arturo Toscanini.
Adolfo Wildt, una delle figure più rappresentative dell’arte italiana del secolo scorso e tra i massimi scultori del Novecento europeo, non era stato affrontato in termini esaustivi dalla critica recente per una serie di problemi: la sua dirompente originalità, e l’essere stato sempre, in vita, al centro di un infuocato dibattito tra conservatori, favorevoli alla scultura tradizionale, e la critica democratica più aperta, tra cui Ugo Ojetti; i primi gli contestavano contenuti simbolisti, richiami formali nordici (gotici ed espressionisti), che giudicavano estranei alla tradizione mediterranea e all’arte di regime, la sua incredibile eccellenza tecnica e lo straordinario eclettismo; gli altri, la fedeltà alla figura, la vocazione monumentale, il dialogo con i grandi del passato, la concezione della scultura quale esaltazione della tecnica e l’impiego del marmo, materiale tradizionalmente nobile e privilegiato. Era condivisoa soltanto il confronto, un po’ nazionalista e un po’ campanilista, con i maestri campionesi e comacini. Nello schieramento di destra solo Margherita Sarfatti lo sostenne. Di questa diatriba sono prova le lunghissime vicissitudini iniziate nel 1970 e felicemente concluse solo nel 1996 con l’approdo a Ca’ Pesaro della donazione, da parte della famiglia, dei gessi risparmiati dal bombardamento del suo studio nel luglio 1943, e sono di fatto indicative delle ostilità e dei pregiudizi duri a morire nei suoi confronti. La causa principale del mancato riconoscimento di Wildt non è però la realizzazione del ritratto di Mussolini come inquietante idolo moderno, o l’interpretazione controversa della sua scultura, ma l’essere egli spirito libero e indipendente, il non aver mai scelto dal punto di vista artistico di stare da una parte o dall’altra, estraneo alle avanguardie e contemporaneamente anticonformista, in lui decadenza e modernità si incontravano, ma di aver seguito solo ed esclusivamente il proprio istinto e di aver sempre condotto una ricerca tutta personale, autonoma, solitaria. Fu genio introverso e angosciato, spesso frainteso. Gotico e barocco, titanico e macabro, inquieto e angosciante, portatore di un’estetica schizofrenica e di una scultura estrema, concilia purezza e integrità plastica con un sentimento drammatico esasperato, quasi parossistico, seduce e turba, stupisce e spaventa; sofisticato e colto, classico e anticlassico, eclettico, grottesco. ieratico, lavorava il marmo contale raffinatezza da farlo assomigliare a porcellana o avorio. I temi privilegiati del mito e della maschera lo misero in dialogo con la musica (Wagner); con la letteratura, D’Annunzio fu suo collezionista, e in due occasioni, avrebbe voluto affidargli incarichi a Fiume e al Vittoriale degli Italiani, che però non si concretizzarono; e con ilteatro, Pirandello era interessato alla realizzazione da parte di Wildt delle maschere per i Sei personaggi in cerca d’autore; collaborò anche con Massimo Bontempelli. La sua originalissima idea di cultura non escludeva la ricerca polimaterica e un’erosione della forma anche dall’interno, alla conquista di nuovi effetti volumetrici e spaziali. La sua eredità si incon-
tra nelle opere degli allievi prediletti: Lucio Fontana e Fausto Melotti, destinati a diventare protagonisti di una nuova concezione della forma. I tagli e le occhiaie scavate dei volti di Wildt anticipano sorprendentemente i “tagli” di Fontana; i profili dorati e gli inserti di altri metalli sono l’ascendente naturale delle sculture aeree di Melotti. Dagli inizi, legati al Romanticismo tardo ottocentesco, si volse alla Secession, all’Art Noveau e al Liberty, dal gusto gotico, al Decò, fino all’adesione a Novecento. La presente rassegna è un’analisi puntuale e articolata dell’opera dell’autore milanese: i suoi personaggi dolorosi e tormentati, la sua ricerca dello spirituale e del trascendente, e la disamina del suo rapporto con la materia. L’idea che governa questa rassegna è il non essere esposizione monografica, ma percorso, come quello già collaudato sempre a Forlì nella recente mostra su Canova, che mette in rapporto le opere di Wildt con quelle di scultori e pittori del passato, con cui egli si è intensamente e originalmente confrontato, attraversando ambiti diversi dell’arte dello scorso secolo (Liberty, Simbolismo, Decò, Novecento, Eclettismo) tra richiami al Quattrocento, al Manierismo, al Barocco, al realismo magico: Fidia, Egizi Etruschi, Tino da Camaino, Laurana, Mino da Fiesole, Donatello, Cosmè Tura, Crivelli, Antonello da Messina, Dürer, Grünewald, Pisanello, Bramante, Michelangelo, Bramantino, Tanzio da Varallo, Bronzino, Bambaia, Cellini, Bernini, Canova, Previati, Dudreville, Rodin, Klinger, Bourdelle, Mestrovic, Klimt, Medardo Rosso, Brancusi, De Chirico, Casorati, Martini, Messina, Fontana, Meloti. Le sue opere sono tormentate: scarnifica il marmo con indiscutibile e impareggiabile capacità tecnica, ha un fare doloroso, che riporta nella materia il tormento e la ricerca di assoluto. Ebba una carriera di altissimo livello: fu anche Accademico d’Italia, assieme a Pirandello e Marinetti, insegnò a Brera (chiamato per chiara fama, non per concorso): tra i suoi allievi prediletti Lucio Fontana e Fausto Melotti, che lo riconobbero sempre come maestro. Fu esaltato e osannato, offeso e vilipeso, fino al definitivo oblio, da cui è stato riesumato, in maniera non definitiva, solo da alcuni decenni. La disponibilità dei documenti e delle fotografie d’epoca dell’Archivio Scheiwiller (l’editore milanese che per via familiare ha ereditato molto opere e tutti i materiuali di Wildt) consentono una ricostruzione dettagliasta della biografia, delle relazioni, delle committenze europee. In catalogo, il chiarificatore ed esaustivo saggio di Paola Mola e quello puntiglioso e illuminante sulle vicende critiche di Fernando Mazzocca, oltre a importanti approfondimenti sulle figure di Alessandro Mazzucotelli suo collaboratore per gli nserti metallici, alle cui opere è eriservata una parte dell’esposizione, di Ranieri Paulucci de’ Calboli, suo mecenate forlivese che ha donato alla città la propria collezione, e un altro sul palazzo abitazione del mecenate e sulle e sulle decorazioni di questo. Luigi Silvi
91
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), L’orecchio, 1918-1919, marmo, cm 25,5 x 17 x 19,3 su lastra in bronzo cm 33 x 25x 2, courtesy Galleria Daniela Balzaretti.
92
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), La Concezione, 1921, marmo con dorature, h cm 58, courtesy Galleria Gomiero, Milano-Padova.
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Maschera dell’idiota, 1918 circa, marmo, cm 28 x 22 x 15 su lastra di bronzo cm 31 x 31, Fondazione Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera.
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Vir temporis acti (Uomo antico), 1913, marmo, cm 98 x 73 x78, Collezione Franco Maria Ricci
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Maschera di Mussolini, 1924, marmo di Carrara. cm 60 x 49 x 22 su lastra di marmo verde cm 55 x 48, Galleria d’Arte Moderna, Milano.
93
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Carattere fiero-anima gentile, 1912, marmo con dorature cm 38 x 57x 33, iscrizioni lungo la base CARATTERE FIERO-ANIMA GENTILE, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, Venezia, dono eredi Wildt-Scheiwiller 1990
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Mussolini, 1923, bronzo, cm 80 x 150 x 45, Collezione privata, le fratture sono dovute ai colpi di piccone dell’ira popolare il giorno della caduta del fascismo.
94
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Pio XI, 1926, marmo con dorature, h cm 113, Musei Vaticani, CittĂ del Vaticano, dono Ambrogio Caiani, 1967.
95
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Maschera del dolore (Autoritratto), 1909, cm 37 x 31 x 17, marmo su fondo di marmo dorato cm 38,5 x 32 x 3, Musei Civici, Forlì, dono Raniero Paulucci de’ Calboli.
96
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), La Madre (testa della Concezione), 1921, marmo cm 35 x 35 x 16 (senza cornice cm 27 x 27 x 16), Collezioni d’Arte e Storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Bologna.
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Cesare Sarfatti, 1927, marmo, cm 48 x 34 x 18 su lastar di bronzo cm 47 x 38 x 4, Collezione privata.
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Margherita Sarfatti, 1930, marmo, h cm 47, su basamanto inbrinzo h cm 7, Collezione privata.
97
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Vittore Gubricy de Dragon, 1921, marmo cm 93 x 52 x 50, su basamento in legno h totale cm 240 circa, Collezione privata.
98
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Santa Lucia, 1926-1927, marmo con doratura, cm 47 x 36 x 20, piano di fondo cm 54,8, x 45 x 4,5, Musei Civici, Forlì, dono Raniero Paulucci de’ Calboli, 1931.
99
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), La vittoria, 1918-1919, marmo con dorature e bronzo, Palazzo Berri-Meregalli, Milano.
100
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Il prigione, 1915, marmo, cm 67 x 60 x 27 su base in bronzo h cm 2, Collezine privata.
101
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Adolfo Wildt (Milano 1868, Milano 1931), Monumento funebre ad Aroldo Bonzagni, marmo, h cm 203, Galleria d’Arte Moderna Aroldo Bonzagni, Cento.
102
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
ARTE POVERA
ARTE POVERA alla GNAM, Galleria Nazionale d’Arte Moderna Tutto il Paese rende omaggio all’arte povera, con la mostra-evento Arte povera 2011, curata da Germano Celant, che si articola in nove rassegne ospitate dai maggiori musei e istituzioni culturali d’Italia dedicati all’arte contemporanea: a Bari, Bergamo, Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino. Roma ha ricordato l’arte povera in due occasioni: una al Maxxi, di cui si è già parlato dalle colonne di questa rivista, e la presente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Nell’arcipelago di mostre concepito da Celant, quella della Gnam propone un approfondimento su Pino Pascali (Bari 1935-Roma 1968), con un nucleo di venti opere, donate alla Galleria dalla famiglia nel 1972. Completano l’esposizione lavori di Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Per ricordare Pino Pascali e la succitata donazione da parte degli eredi, è stato riproposto l’allestimento ideato dall’allora direttrice della Galleria, Palma Bucarelli. Artista perfettamente inquadrabile all’interno dell’arte povera, Pascali non ha mai abbandonato la figurazione; sviluppa un’attenzione per l’arte ambientale e per invenzioni scultoree povere, costituite da assemblaggi di materiali di recupero che coniugano ironia giocosa del pop con sperimentalismo neodada. Al ciclo Frammenti di donna, pezzi anatomici femminili, appartiene Primo piano labbra, dove Pop e Surrealismo si mischiano. Il ciclo degli Animali propone gli storici dinosauri con Ricostruzione del dinosauro (1966), che con la loro leggerezza tradiscono la tradizionale massa scultorea; i Bachi da setola (1968), grandi bruchi in setole sintetiche; la Vedova blu (1968) enorme ragno di legno e pelo acrilico. Come tutti gli artisti dell’arte povera, anche Pascali risente fortemente del fascino delle culture pre-industriali e la natura diviene la principale fonte d’ispirazione dei suoi lavori e il suo luogo natio, la Puglia, si presta particolarmente a ricordare quel passato. Molte le opere in paglia e fieno, come Cornice di fieno (1967), e successivamente lana d’acciaio e ferro, Liane (1968) appunto in lana d’acciaio intrecciata. Il mare Adriatico è simulato con tela bianca su centine di legno e bacili d’acqua colorata: Botole e Pozzanghere, veri e propri tombini scoperchiabili, la cui acqua evapora in tempi differenti dettati dalle diverse condizioni ambientali e fisiche dei luoghi in cui sono esposti. L’omaggio che il museo rende all’arte povera vede protagonisti, come detto, tutti i maggiori esponenti del movimento. Di Boetti, autore di sperimentazioni su materiali comuni – cemento, cartone, carta, legno, tubi, eternit – è esposto Mimetico (1966) in cui si ironizza sull’arte astratta sostituendo la tela con tessuto disegnato con la fantasia tipica delle tute mimetiche militari. Paolini indaga i rapporti dell’opera con lo spazio: suo Ennesima (1975-88). Fabro presenta lavori in vetro e specchianti, come Buco (1963-’66) dove si gioca con specchi montati come una tela. Parlando di specchi, il più noto è fuor di dubbio Pistoletto, i cui Visitatori (1968) si interrogano sul rapporto tra spettatore e opera, con l’accentuazione del ruolo dello spettatore stesso come parte integrante dell’opera. Kounellis esordisce negli anni ’60 con la serie Alfabeti, costituita da lavori con lettere, numeri, frecce e altri simboli, dipinti a tempera nera sui tela bianca; successivamente nella riflessione sul rapporto arte/natura utilizza animali vivi, come espressione di energia vitale: Pappagallo sul trespolo (1967) e i mitici Cavalli esposti nel 1969 alla galleria romana “L’attico”. Penone incentra la ricerca sui processi di crescita naturale e su come l’artista possa visualizzarli e modificarli. L’opera di Zorio è segnata dall’interesse per l’energia potenziale dei materiali e per la loro modificazione. Per questo gruppo di artisti Germano Celant ha coniato il termine “arte povera”. La loro ricerca utilizza una strategia linguistica in cui è abolita ogni gerarchia espressiva e materica, caratterizzata da un muoversi aperto non lineare, ma sferico. Il linguaggio dell’arte povera consiste nell’uso filosofico e concreto di materiali eterogenei, dalla storia dell’arte alla rappresentazione simbolica, dall’estetica del terrestre alla dinamica del celeste, da un’estetica del grezzo a una preoccupazione naturale. L’atteggiamento dell’arte povera è iconoclasta e de-costruttivo, alla luce dei problemi dell’esistenza e in relazione stretta con la molteplicità delle situazioni temporali e spaziali. Un pluralismo linguistico ne caratterizza la poetica e il magma culturale in cui operano artisti profondamente diversi tra loro. Il movimento dell’arte povera, per il suo contributo originale e innovativo dovuto a singole individualità, ha acquisito un’importanza paragonabile a quella del futurismo nell’ambito dell’arte internazionale. Gilberto Zorio (Andorno Micca 1944), Senza titolo, 1967, tubo di eternit e caIlaria Lombardi mere d'aria, h. 260 cm, ø 30 cm, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma.
103
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Pino Pascali (Bari 1935, Roma 1968), Ricostruzione del dinosauro, 1966, tela grezza trattata con vinavil e caolino tesa, su centine di legno, sedici elementi, cm 100 x 680 Ă— 66 circa, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma.
Jannis Kounellis (Pireo 1936), Z-44, 1960 circa, smalto su tela, cm 100 x 200, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma
104
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Pino Pascali (Bari 1935, Roma 1968), Botole ovvero lavori in corso, 1967, fibrocemento, legno, acqua e sabbia, cinque, pannelli, cm 180 × 180 × 8 ciascuno, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma
105
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Pino Pascali (Bari 1935, Roma 1968), Fiume con foce tripla, 1968, ferro e acqua, nove bacinelle rettangolari, cm 6,5 x 337 x 37 ciascuna, Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma.
106
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
CRINALE COME SINTESI
MELOTTI, Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina (Napoli) Fausto Melotti è riconosciuto, assieme ad Alexander Calder, Alberto Giacometti, Louise Borgeoise, Lucio Fontana, quale protagonista nell’ambito della scultura contemporanea, Si è contraddistinto perché dagli inizi della sua carriera, negli anni ’30, è stato tra i più significativi interpreti del rinnovamento e dello sviluppo del linguaggio plastico e materico, coniugando la tradizione classica con l’interesse per le avanguardie. Realizza con Luciano Baldessari, Figini e Pollini e Marcello Nizzoli il Bar Craja in piazza Ferrari a Milano concependo una fontana in ferro nichelato. Il Bar Craja è considerato il primo manifesto italiano dell’architettura razionale e diviene punto di ritrovo di artisti e intellettuali dell’avanguardia milanese. Tra i frequentatori Alfonso Gatto, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Atanasio Soldati, Lucio Fontana, Arturo Martini, Carlo Carrà, Gino Pollini, Gianni Banfi, Ernesto Rogers, Aurel Peressutti, Lodo Belgioso, Mario Radice, Manlio Rho, Agnoldomenico Pica, Edoardo Persico, i fratelli Peppino e Gino Ghiringhelli, titolari della galleria del Milione. Dopo essersi laureato in ingegneria elettrotecnica e diplomato in pianoforte e composizione musicale, si dedica alla scultura e studia all’Accademia di Brera, avendo come insegnante Adolfo Wildt. Nel 1930 partecipa alla IV Triennale Monzese di Arti Decorative, dove nella “Casa Elettrica”, progettata da Luigi Figini e Gino Pollini, espone un bassorilievo nella stanza di soggiorno e una Madonna nelal camera del figlio. Negli anni ’30 aderisce al movimento astrattista assieme a Gino Ghiringhelli, Mauro Reggiani, Luigi Veronesi, Lucio Fontana e Atanasio Soldati; in quegli anni, tramite Gio Ponti, collabora con la Richard Ginori. Nel ’35 aderisce ad “Abstraction-Création”, fondato a Parigi da Auguste Herbin, Georges Vantongerloo, Theo Van Doesburg, Jean Hellion, Hans Arp, Naum Gabo, Albert Gleizes, Ben Nicholson, Enrico Prampolini, František Kupka per promuovere e diffondere le tendenze astrattiste, in particolare geometriche, in pittura, scultura e decorazione, considerate le uniche moderne e fautrici di reale progresso estetico. Collabora con gli architetti Figini e Pollini, Giuseppe Terragni, Luciano Baldessari e Gio Ponti. Dal ’41 al ’43 è a Roma, dove partecipa al progetto degli architetti Figini-Pollini per il Palazzo delle Forze Armate per l’E 42. Nel 1944 pubblica il suo primo libro di poesie Il triste Minotauro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si rifugia nelle piccole cose, in terracotta e ceramica, spostando l’attenzione dal mondo classica su una nuova oggettività, legata a una concezione naturalistica. Muore il 22 giugno 1986: il giorno successivo, data dell’inaugurazione della Biennale di Venezia, una targa commemorativa in suo onore viene apposta all’ingresso della sala dove sono esposte le sue opere, e la giuria gli assegna all’unanimità il Leone d’Oro alla memoria. Partito da una figurazione novecentesca, si richiama poi all’astrattismo, basato su una ricerca di rapporti armonici cui non erano estranee le conoscenze musicali. Seguono sculture con garze, ottone, vetro, tessuto, ceramica e terracotta. Tra queste si distinguono i Teatrini: cornice-casa aperta o chiusa sul retro, all’interno dislocati su diversi piani, oggetti e figure evocanti racconti fantastici, successivamente sculture in inox. Negli anni ’60 realizza I Sette Savi, in cui la figura umana è resa come manichino astratto. La sua produzione è sempre animata da una doppia, ma non contraddittoria, tensione: da una parte la forma allusiva e simbolica, dall’altra un’invenzione ritmica e strutturale, in tutta la sua esperienza, Melotti si pone sul crinale tra visto e non visto, lineare e curvilineo, pieno e vuoto, chiaro e scuro, dentro e fuori, giorno e notte, realtà e finzione, intensità massima e minima, innovazione e tradizione, corporeo e incorporeo, salvezza e dannazione, permanenza e instabilità, passa dalla staticità alla dinamicità delle figure, opera sulla fusione degli opposti per assimilarli gli uni agli altri; non esistono definito e netto, trasforma consistenza in inconsistenza e materiale in immateriale; non vuole accettare gli stereotipi tradizionali né lasciarsi lusingare dagli estremismi delle avanguardie contemporanee per vivere il conflitto tra i due mondi, per mettere in discussione la fissità, ricorre al caos gestito; evita la scultura roboante e celebrativa per insiemi vertiginosi che si dissolvono allo sguardo; e si pone su questo crinale muovendosi sul tratto/frontiera, proponendo le sue personali mediazioni e sintesi. È forte in Melotti la matrice futurista, dove ai fattori disgregativi della materia egli preferisce la costruttività, che lo avvicina alla ricostruzione futurista dell’universo di Balla e Depero. Una scultura tra il materiale e il mentale, tra memoria e ricerca, attraverso i quali l’autore attua spostamenti linguistici continui. La sua scultura conserva il fascino del precario e dell’immateriale, sempre basato sul nulla: il nulla di Melotti nella scultura è paragonabile al silenzio di John Cage in musica. Fausto Melotti (Rovereto 1901, Milano 1986), Kore, 1955 circa, ceramica Luigi Silvi smaltata, cm 103 x 24 x 20, Collezione privata
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Fausto Melotti (Rovereto 1901, Milano 1986), La sposa di rlecchino, 1979, ottone, gesso, tessuto, carta, cm 63 x 153 x 55, Collezione privata
107
Arte
108
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Fausto Melotti (Rovereto 1901, Milano 1986), Teatrino, 1950 circa, ceramica smaltata, terracotta dipinta, cm 46 x 30 x 9, Collezione privata
Fausto Melotti (Rovereto 1901, Milano 1986), Teatrino, 1950, terracotta dipinta, cm 44,5 x 26,8 x 11, Collezione privata.
Scultura n. 14, 1935, Ferro nichelato, cm 100 x 35 x 28, Collezione privata
109
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Fausto Melotti (Rovereto 1901, Milano 1986),scultura n. 12, 1934, gesso, cm 55 x 55 x 15,5, Collezione privata
110
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
IL RICHIAMO DELLA NATURA
GIANFRANCO BARUCHELLO. CERTE IDEE, Galleria Nazionale d’Arte Moderna
Jungle survival kit, 1968, Scatola di cartone, legumi secchi, cm 9X12X2, Fondazione Baruchello, Roma, progetto realizzato per la Galleria Schwarz, Milano, in più esemplari da donare al pubblico durante il capodanno del 1968. L'oggetto, costituito da una piccola scatola di cartone con su scritto Jungle survival kit, era pensato come una piccola riserva di sopravvivenza: il contenuto allusivo consisteva di diversi tipi di legumi secchi (lenticchie, fagioli, ceci, erba secca e cartine per sigarette, etc.)
Gianfranco Baruchello (Livorno 1924) è tra i nomi meno noti della seconda avanguardia italiana, ma sicuramente uno degli artisti che più hanno sperimentato tecniche e linguaggi nella seconda metà del XX secolo. Già in giovane età Baruchello si immerge nel mondo dell’arte, nonostante la laurea in economia, e la sua formazione è fortemente influenzata dall’ambiente francese, Deleuze e Lyotard in primis. Ma, senza alcun dubbio, la figura che maggiormente ha influenzato l’artista toscano è stata quella di Marcel Duchamp conosciuto nel 1962. Di Duchamp nell’opera di Baruchello si ritrova specialmente l’approccio concettuale all’arte. Nel 1967 fonda Artiflext una società fittizia che scambia merci e titoli; una chiara parodia del mondo contemporaneo. Ma dall’ironia, dalle riduzioni di colore e forma (da ricordare anche gli achrome) Baruchello continua la sua sperimentazione attraverso un’estrema varietà di tematiche e tecniche artistiche: installazioni, collages, assemblages, sculture, video, fotografie, immagine elettronica. In movimento e il movimento attraverso la performance e il cinema. Proprio con la pellicola si cimenta in una delle sue opere più degne di nota: Verifica Incerta (1964), dove l’autore rimonta le scene di un vecchio film statunitense, ritagliando i vari
frame e reincollandoli con nastro adesivo. È il momento poi di fondere arte e ambiente, etica e politica e nel 1979 crea Azione Agricola Cornelia SPA. Un terreno coltivato con il quale dimostrare la possibilità dell’autosostentamento contro gli sprechi e il ritmo dell’industria. Oggi in quello spazio, dopo qualche modifica rispetto alla situazione originaria, sorge la Fondazione Baruchello. Nelle opere dell’artista toscano si respira, anche se non sempre esplicitata, la forte ideologia che sottostà a ogni opera. È chiara la sua posizione anche nelle opere più concettuali, è chiaro cioè l’intento di voler fondere vita e arte fino a che l’una sia esperienza per l’altra in un simbiotico respiro. Baruchello non realizza scenari narrativi compiuti, ma sentieri più volte interrotti, frammenti assemblati nel caos, schegge impazzite. La sua è un’attenta analisi della perdita di qualità, attraverso linguaggi multiformi e l’utilizzo di media ed estetiche radicali. L’esauriente retrospettiva sui sei decenni di attività artistica di Baruchello è corredata da un catalogo-testo con saggi di Achille Bonito Oliva, curatore della mostra, e di Carla Subrizi, presidente della Fondazione Baruchello, con foto di Claudio Abate. Ilaria Lombardi
111
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
NĂŠcessaire per l'oltretomba, 1962, assemblaggio in valigia di fibra (oggetti, smalti industriali, vinavil), cm 35X34X31, Fondazione Baruchello, Roma
112
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
SPAZIO DI LIBERTÀ SOGGETTIVA
QUADRATO NOMADE, Palazzo delle Esposizioni
Gabriele Basilico (Milano 1944), Rio 2011, 2011, pure pigment print.
Quadrato nomade è un progetto collezione/esposizione di opere d’arte in movimento, realizzzate in o su scatole di cartone bianco. In ogni scatola è conservato il gesto creativo associato all’idea del dono, che al momento dell’ostensione è fonte di sorpresa e di stupore. È un museo itinerante, che va a esporsi a mostrarsi, che si muove, operazione di facile realizzazione per la semplicità di movimentazione e per la dimensione contenuta delle opere. Tali opere sono originate dall’incontro tra lo spazio di una scatola e l’intervento artistico. Per realizzare l’iniziativa sono state recapitate duecento scatole ad artisti del panorama nazionale e internazionale. La scatola di cartone, inizialmente vuota e bianca di dimensioni cm 30 x 30 x 5, richiama l’idea del quadrato, figura geometrica considerata nel linguaggio dei simboli espressione di bellezza e perfezione. Il colore è
volutamente bianco, perché rappresenta il silenzio assoluto. Contenitore neutro che diviene rappresentazione di limite spaziale e spazio di libertà soggettiva, quasi museo in miniatura; è simbolo del femminile, raffigurazione del corpo materno che racchiude e protegge, oppure vaso di Pandora che contiene e sprigiona tutti i mali, raccoglitore di idee e vuoto incolmabile; la scatola è associata all’idea del dono, dello stupore, della meraviglia, svela all’interno il potere illusorio e visionario dell’arte ed è pretesto spaziale, ambito e confine allo stesso tempo. Dall’intervento artistico nascosto all’interno nasce nasce un’opera inquieta estranea a luoghi prestabiliti o esclusivilibera di muoversi destinata per vocazione a viaggiare. Alla mostra partecipano duecento autori. Non è noto il criterio con cui sono stati selezionati gli artisti da invitare, né se qualcuno abbia rifiutato. Considerata l’estrema
113
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Alfredo Pirri (Cosenza 1957), Senza titolo, 2010, acrilico su carta e cartone
Ugo Nespolo (Mosso 1941), Ma dove diavolo sei?, 2011, tecnica mista
varietà di tecniche (pittura, scultura, disegno, installazione, assemblag, fotografia, collage, ready made) e i più diversi stili e le differenti valenze degli artisti presenti, è impossibile esprimere un giudizio generale e globale. Ci si limiterà pertanto a ricordare i più noti e affermati tra i partecipanti, per valutare, attraverso questi, l’impatto dell’operazione: Claudio Abate, Getulio Alviani, Stefano Arienti, Gianfranco Baruchello, Gabriele Basilico, Bruno Ceccobelli, Gioseta Fioroni, Omar Galliani, Renato Mambor, Elio Marchigiani, Maurizio Moschetti, Ugo Nespolo, Romano Notari, Cesare Pietroiusti, Alfredo Pirri, Andrea Trisciuzzi. La rassegna, concepita nella libertà espressiva, ma all’interno di uno schema comune prefissato, permette di cogliere le diverse reazioni degli autori a quanto loro unitariamente proposto. E la sua costruzione in termini di museo permanente e di tra-
sportabilità, la rende importante momento di dialogo, scambio, conoscenza. Esaminando le scatole, il quadrato non si dimostra affatto limitante, piuttosto flessibile e adattabile alle esigenze di ogni singolo artista; in alcuni casi l’opera è nascosta dal coperchio, in altri sconfina e invade lo spazio esterno. Si possono classificare diversi tipi di scatole: scatole sonore, scatole video, scatole cinesi, scatole teatro, scatole campo di forze, scatole macchine di illusioni ottico-luministico-spaziali, scatole cornici, scatole organiche, scatole archivio, scatole materia, scatole puzzle, scatole textures, metascatole, scatole ritratto, scatole segno, scatole traccia, scatole schermo, scatole oggetto, scatole narrative, scatole memoria, scatole omaggio, scatole performance, scatole dialettica fondo/coperchio. Luigi Silvi
114
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte L’ARTE CAMBIA NON NECESSARIAMENTE VERSO IL MEGLIO SI FA CON TUTTO. IL LINGUAGGIO DELL’ARTE
CONTEMPORANEA ,
Angela Vettese insegna alla Facoltà di Design e Arti dell’Università IUAV di Venezia e all’Università Bocconi di Milano. È presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. L’autrice chiarisce, in questo testo, come le radici dell’arte contemporanea stiano nelle avanguardie storiche e come lungo tutto il secolo XX l’espressione artistica muti in funzione dei cambiamenti della società di cui è espressione. Dato primario: l’arte si fa con tutto, il suo linguaggio ingloba ogni mezzo. Le nuove tecniche non sono né astruse né campate in aria, ma sono i naturali riflessi del modo in cui si vive, si produce, si consuma, si scambiano le informazioni. Il ‘900 ha creato il bagaglio di una nuova tradizione. Nessuno ha mai inteso deridere l’arte, anche l’avanguardia più iconoclasta, il dadaismo, non si scagliò contro l’opera in generale, ma contro una sua specifica forma: ripetitiva e da salotto, facile da comprare e da vendere. Nei poemi dadaisti nulla può essere considerato di basso valore. L’arte contemporanea è un bricolage, e consiste nel mettere insieme immagini e miti precedenti per raccontare un mito nuovo; per bricolage s’intende con-porre un repertorio di materiali, di idee, di immagini, di riferimenti che non hanno la caratteristica necessaria di essere nati per l’arte. Il ‘900 è il secolo della transizione permanente, sia dal punto di vista conoscitivo, che da quello dello scambio tra culture. Quando non si cercavano prove sperimentali per le proprie convinzioni, si era liberi di creare grandi visioni metafisiche. L’idea di storia che ne derivava era unitaria e si poneva un fine preciso. Oggi ogni concezione teleologica della storia risulta esausta. Il nostro sapere, pur se più so-
ANGELA VETTESE, Editori Laterza, pag. 180, € 12
lido e comprovato di quanto lo sia mai stato, è legato a teorie parziali, sembra di vivere tra frammenti, poche le cose conosciute, e tante quelle ancora da scoprire. Sia il mondo esterno, che quello interno, si presentano con una composizione di eventi non dominata da un volere unitario; e di questo l’opera d’arte è interprete, mettendo insieme pezzi di mondo, brandelli di novità e rifiuti riportati a seconda vita. Eterogeneità di razza, di storia, di provenienza geografica, di credo religioso, di tradizioni e convinzioni, che si ritrovano in un gioco combinatorio. I nuovi modi dell’arte visiva accolgono ed esibiscono la distanza tra quello che siamo stati per millenni e quello che stiamo diventando. L’arte visiva è cambiata, pur restando se stessa, come la nave degli Argonauti, che nel viaggio ha perduto e mutato ogni sua componente, divenendo mondo di suoni, di sensazioni tattili, di eventi, di materiali che non resistono al tempo. Le definizioni di pittura e scultura sono rimaste utili, ma non più sufficienti. Si sono dovuti indicare nuovi sistemi operativi: performance, installazione, video, arte ambientale, rapporti con l’architettura. Non è più possibile stabilire una scala di valori dell’opera dal tipo di esecuzione, come quando pratiche marginali, quali ricamo, tessitura, cucina, disegno di abiti erano considerati arti minori. L’abilità manuale è stata riabilitata, ma non è più necessaria, né sufficiente al compimento dell’opera, Checché se ne dica, l’arte contemporanea non è connotata dalla contrazione delle sue tecniche, ma all’opposto da una loro dilatazione. A partire dal 1913 Marcel Duchamp presenta come opere oggetti comuni: all’estetica della rappresentazione, accostò quella della presentazione. Alla base del suo operare è il concetto che non sia necessario copiare un oggetto, perché questo s’incarni come opera: per cambiarne i connotati è sufficiente uno spostamento del contesto, entro il quale esso assume un nuovo significato. Risulta chiaro infatti che una porcellana del ‘700 ha un’aura diversa se usata per contenere senape, o se guardata sotto la teca di un museo. Per osservare i cambiamenti e comprenderne la portata, si pensi al telefono: fino agli anni ’50 del XX secolo in molti paesi vi era un unico posto da cui telefonare; fino agli anni ’90 si sapeva sempre dov’era la persona all’altro capo del filo, oggi si può anche vederla, senza sapere in che continente si trovi. Il linguaggio dell’arte non poteva non registrare tutto questo: l’arte è stata nelle grotte, nelle case nobiliari, nelle chiese, quando la forma più appropriata era l’affresco; l’arte borghese è stata – olio su tela – perché si può traslocare, e l’opera segue il proprietario. C’è stata un’arte di colore puro o di materia bruta, oggi si è condizionati da quelle che sono definite infoestetiche. Nel XIX secolo l’industrializzazione ha provocato più risposte creative, quali ad esempio Art Nouveau e Arts and Crafts. La I Guerra Mondiale ha portato al costruttivismo, alla scuola di montaggio russo nel cinema e nel fotomontaggio, al surrealismo e alle avanguardie in genere. Oggi l’informazione preme perché s’inventino nuove vie per interagire con essa. Il modo più corretto d’intendere le infoestetiche è di percepirle come pratiche culturali, che si possono meglio comprendere come risposte alle nuove priorità della società dell’informazione. Questo non significa che l’arte, come la storia, cambi mutando verso il meglio: scorre e basta. Il cambiamento del linguaggio dell’arte è un fatto, accade perché deve accadere, è inevitabile e non si può fare marcia indietro. Non è né meglio né peggio di quello che era diffuso in passato, semplicemente descrive il presente e forse aiuta a intravedere il futuro. Luigi Silvi
115
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Marcel Duchamp (Blainville 1887, Paris 1968), La mariée mise à nu par ses célibataires, meme (Il Grande Vetro), 1915-1923, olio, vernice, piombo, polvere tra due lastre di vetro, cm 277, 5 x 175,9, Philadelphia Museum of Art, Philadelphia.
116
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Rebecca Horn, Arm extensions, 1968, tessuto, lana, metallo cm 60 x 123 x 51, Tate Modern, Londra
117
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Arte
Yayoi Kusama, Dot obsession, 2000, pallone in vinile, installazione.
118
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Architettura
SCUOLE VILLINI PONTI
VINCENZO FASOLO DALLA DALMAZIA A ROMA. VITA E
OPERE DELL’ ARCHITETTO SPALATINO ,
Casina delle Civette
Vincenzo Fasolo (Zara 1885, Roma 1969), progetto per villino, disegno acquarellato, mm 374 x 263.
Vincenzo Fasolo nasce a Zara nel 1885, successivamente si trasferì a Roma e divenne cittadino italiano nel 1905. Si laureò in ingegneria civile nel 1909; nel 1911 si diplomò professore di disegno architettonico all’Accademia di Belle Arti di Roma; nel 1912 acquisì anche il diploma di decorazione architettonica al Museo Artistico Industriale della stessa città. Dal 1912 al 1936 fu s capo dell’Ufficio Progetti del Comune e dal 1930 al 1936 membro della Commissione Edilizia e del Comitato Urbanistico e dei Vecchi Rioni del Governatorato dell’Urbe. Nel 1922 ottenne la libera docenza in Architettura Generale; dal 1925 al 1961 fu professore ordinario di Storia e Stili dell’Architettura presso la Scuola Superiore, poi facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma, dove fu anche preside dal 1954 al 1960. Dal 1948 al 1969 fu architetto della Fabbrica di San Pietro. Fu membro dell’Accademia dei Virtuosi del Pantheon, dell’Accademia Clementina e dell’Accademia Nazionale di San Luca, di cui fu presidente dal 1957 al 1959. Restaura la Capanna Svizzera di Giuseppe Jappelli a Villa Torlonia, oggi Casina delle Civette. L’elemento qualificante del suo intervento è la fusione totale tra architettura e decorazione, sia per la profusione di dettagli che va dal riuso del frammento antico all’utilizzo di inserti moderni, sia per il gioco cromatico di materiali architettonici che accosta con estrema disinvoltura il rosso del mattone, il bianco del travertino e del marmo, il grigio del peperino e il colore caldo del tufo. L’esplosione della decorazione è nelle maioliche e nelle vetrate policrome, su disegno dei maggiori artisti dell’epoca: Duilio Cambellotti, Paolo Paschetto, Vittorio Grassi e Umberto Bottazzi. La mostra ha il pregio di far conoscere al pubblico il cosiddetto “abaco dei villini”, termine che in architettura designa una raccolta tipologica su un argomento preciso che finge da guida e da esempio per la realizzazione delle opere. . Sorta di taccuino di disegni, in fogli sciolti, delle idee progettuali dei villini, repertorio di prototipi. Egli fu il cosiddetto “architetto integrale”, in grado di controllare tutti i passaggi d’intervento, dal disegno dell’infisso fino al piano regolatore. Il suo è un linguaggio nazionale, basato per un verso sulla conoscenza degli stili del
passato e dall’altro sulla rielaborazione delle architetture regionali che utilizzano componenti costruttive e linguistiche legate alla tradizione dei luoghi. Fasolo ricerca un lessico nazionale fondato non solo sull’antichità e sul Rinascimento, ma anche sul Barocco. Per sovvenire alla richiesta dei committenti di distinguersi in quello che diviene una sorta di status symbol, si fa ricorso a una pluralità di stili: neoromanico, neogotico, neorinascimentale, neobarocco, moresco, con una ricca decorazione realizzata con stucchi, mosaici, affreschi, maioliche, vetrate e ferri battuti, e con logge, altane, terrazze, balconi e torri che movimentano la struttura esterna. Sicuramente l’architetto spalatino era a conoscenza degli edifici progettati da Pietro Fenoglio a Torino, da Ernesto Basile a Palermo e anche del repertorio floreale del primo Raimondo d’Aronco e, ovviamente, del quartiere Coppedè di Roma. La mostra documenta i rapporto professionali di Fasolo con la terra natale: il Palazzo degli Italiani a Spalato (1925) e il Palazzo del Comune con la sistemazione della piazza dei Signori a Zara (1935-37). La gran parte dei suoi progetti sono inerenti edifici pubblici o di pubblica utilità: le scuole Mamiani (1924) e Cadlolo (1925), il Palazzetto del Governatorato a Ostia (1926), la Caserma dei Vigili del Fuoco in via Mormorata (1926-1928), la Colonia Marina Vittorio Emanuele III a Ostia (1932), il Ponte Duca d’Aosta (1936); tra i villini quello Parisini (1920) nel Quartiere Nomentano, il villino Girelli sempre nel Nomentano, quello Cidonio (1937), e quelli della Città Giardino: Sartorelli, Paolo Adragna, Dobelli, Adolfo Balboni, Patrizia Casanelli, Giorgio Foà, Alfredo Malacotta e Umberto Vento; la Casa dei dipendenti comunali a via Napoleone III, una palazzina in via Adda, l’arredo del Ferro China Baliva in via Nazionale, l’altana di Palazzo Manfredi in via Labicana. È autore del restauro della Casa dei Crescenzi. La mostra ha un altro pregio: quello di proporre all’attenzione dei visitatori i disegni artistici di ballerine e quelli, sorta di diari di viaggio, con scorci di Roma e Venezia. Ricco di materiali e di immagini il catalogo, necessario compendio dell’esposizione. Luigi Silvi
119
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Architettura
Vincenzo Fasolo (Zara 1885, Roma 1969), Progetto per villino, disegno acquarellato mm 437 x 560.
Vincenzo Fasolo (Zara 1885, Roma 1969), disegno progettuale per i restauri della Casina delle Civette, 1917-1918.
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
120
Architettura
121
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Architettura
Vincnzo (Fasolo (Zara 1885, Roma 1969), disegno per il monuimento a Gabriele D’Annuinzio da erigersi a Romchi dei Legionari.
122
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
PASSANNANTE VENDETTA DI STATO
PASSANNANTE, SERGIO CALABONA
Giovanni Passannante (Fabio Troiano) condotto al carcere di Torre della Linguella a Portoferraio sull’Isola d’Elba
Giovanni Passannante nasce nel 1849 a Salvia di Lucania, oggi Savoia di Lucania; abbandona la casa paterna in cerca di lavoro prima per Vietri, poi per Salerno, quindi per Napoli. Anarchico repubblicano, mazziniano, cresciuto tra Bibbia, Garibaldi e Mazzini, crede nella Repubblica universale, considera traditi gli ideali risorgimentali dall’avvento del regno savoiardo. Saputo della visita a Napoli del re, cambia la giacca con un coltellino, che al processo viene definito “utile solo per sbucciare mele”. Il suo obiettivo infatti non è uccidere Umberto I, ma ferirlo per ottenere, come previsto dallo Statuto Albertino, il processo in Parlamento, dove è sua intenzione trasformarlo in accusa ai Savoia per le condizioni di degrado in cui hanno ridotto la Lucania, povera e analfabeta, strangolata dal nuovo regime. Il re ne esce solo con un graffio, Passannante viene colpito alla testa da un fendente di sciabola, non è medicato all’ospedale, ma grondante di sangue è portato in caserma, dove subisce ulteriori sevizie. Il suo è il primo attentato della storia contro un Savoia, come dirà immediatamente la regina Margherita: “Si è rotto l’incantesimo di Casa Savoia”. Infatti questo è uno spartiacque: da allora per i regnanti ha inizio un lungo ma inesorabile declino. In tutta Italia si organizzano manifestazioni pro e contro Savoia. A Firenze e Pisa bombe contro cortei monarchici, gli attentatori vengono incarcerati senza prove; viene assaltata una caserma a Pesaro, scoppiano sommosse in tutto il Paese, in particolare a Genova, Bologna, Palermo: la risposta del re è la repressione. Si viene arrestati se si denigrano i Savoia o si elogia l’attentatore. Giovanni Pascoli, autore di un’Ode a Passannante, è arrestato; al processo contro i sostenitori dell’anarchico grida: “Se questi sono malfattori, viva i malfattori!”. Le sommosse si trasformano in protesta contro la monarchia, simbolo di disuguaglianza sociale. Garibaldi reputa responsabili del tentato regicidio i pessimi governi e definisce Passannante “precursore dell’avvenire”. All’attentatore non è concesso il diritto al processo in Parlamento, che invece è celebrato in tribunale; l’avvocato difensore si limita a chiedere la clemenza reale. Subisce la condanna alla pena capitale, che lo Statuto Albertino prevedeva esclusivamente per il regicidio, non per il tentato regicidio, tramutata in carcere a vita per grazia regia. Casa Savoia costringe il Consiglio Comunale del paese natale a cambiare il proprio nome in “Savoia di Lucania”, per deferenza alla dinastia regnante e quale indennizzo morale alla persona del monarca. Dopo la condanna in tutta Italia ancora manifestazioni pro Passannante. Viene trasferito al carcere Torre della Linguella, o Torre del Martello, detta poi Torre di Passannante, a Portoferraio sull’Isola d’Elba, in una cella umida, alta 1,40 m, in cui si sente continuo il rumore del mare, dove non entra la luce, costretto a vivere tra i propri escrementi e a cibarsene, legato con una catena di 18 kg; non può scrivere, ricevere lettere e visite, non può parlare con nessuno. Si ammala di scorbuto e di tenia, diventa cieco e demente. Tutta la sua famiglia viene internata in manicomio. Il fascicolo della detenzione, oggi in archivio, non è ancora consultabile. Per interessamento e denuncia delle sue condizioni da parte di alcuni parlamentari e giornalisti, è trasferito al manicomio criminale di
Montelupo Fiorentino, dove muore di broncopolmonite nel 1910. Non gli sono concessi funerali né sepoltura, viene decapitato e il suo cervello, dopo l’autopsia, inviato a Cesare Lombroso per i suoi studi. Del corpo non ci sono notizie. Successivamente il teschio e il cervello – conservato in cloruro di zinco all’interno di una teca – sono trasferiti ed esposti al Museo Criminologico di Roma, l’ostensione è continuata fino al 2007. La didascalia recitava: “Passannante criminale abituale”. Il film, con alternanza di passato e presente, e immagini di repertorio accomuna i problemi dell’Italia post-risorgimentale con quelli della decadenza contemporanea. È meritorio per l’informazione civile di cui è portatore e per la sana indignazione morale. Troppo netti i passaggi tra contemporaneo e flashback. La retorica risorgimentale fa i conti con pagine vergognose di burocrazia disumana; non è orazione civile, non ne ha la potenza, ma ribellione verace e contagiosa. I temi principali sono: abuso di potere, vendetta di stato, ferocia del potere, trattamento dei detenuti, dignità di sepoltura. Denuncia l’attuale sistema di ingiustizie attingendo dal passato. Carico di pietà, ironia, sarcasmo, è ambizioso, discontinuo, insolito. Docufilm di memoria, dà voce alla rabbia di chi vuole sfidare l’ignoranza. Il Risorgimento viene rivisitato in ottica revisionistica e anti-savoiarda. La pellicola racconta del trattamento disumano, della prigionia spietata di Passannante sepolto vivo con la complicità di funzionari consapevoli e indifferenti; la vicenda è per il regista Sergio Calabona, alla sua prima prova, un’ignominia, e la detenzione in condizioni disumane una vendetta di Stato. È stato girato in Lucania, a Matera e a Rivello, scelta in alternativa a Salvia per motivi tecnici e registici. La colonna sonora è dei Tete de Bois. Il film è stato segnalato dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali per “alto valore educativo” e l’Agis Scuola per “il valore pedagogico” intende programmarlo nelle scuole. La critica di destra si limita ad accoglierlo con sufficienza. I Savoia e i loro sostenitori si scatenano. Emanuele Filiberto lo definisce “diseducativo per i giovani”. Alberto Casirati, presidente dell’Istituto della Reale Casa di Savoia, sostiene “aberrante” definire idealista o eroe un aspirante assassino, perché nessun ideale giustifica un tentativo di omicidio, ogni idea che ammette l’omicidio è criminale. Ricorda ancora che Umberto I abolì la pena di morte, lasciandola solo per il reato di regicidio. E ancora sostiene che il re chiese la grazia per Passannante: sembra strano che un esperto di monarchia come lui non sappia che è il re a concedere la grazia sua sponte. È da chiedere al signor Casirati perché Guglielmo Oberdan, aspirante assassino quanto Passannante, abbia avuto tutt’altro giudizio da Casa Savoia, come pure Orsini, anch’egli aspirante assassino; e ancora dimentica che uno zio di Umbarto prima fece aprire il fuoco sui cittadini che chiedevano la Costituzione. Sarebbe da chiedere ai Savoia cosa pensano di se stessi per le responsabilità che pesano sulle loro coscienze per due conflitti mondiali, le cui dichiarazioni di guerra portano le loro firme, e per quelle in Etiopia e in Libia, dove, al momento della conquista l’esercito sabaudo impiccò sulle pubbliche piazze i capi dei due paesi sconfitti e invasi. Sergio Boschiero, segretario dell’Unione Monarchica Italiana, difende i reali e sostiene che il film può risvegliare un odio antico, e sostiene di essere uno dei primi non anarchici ad aver visto il film; egli dimentica che i Savoia sono una monarchia, a sua detta, costituzionale, tralasciando che era ereditaria e che la costituzione era stata scritta da un esponente di detta Casa e da egli benevolmente concessa, non certo votata da tutto il popolo italiano come quella repubblicana attualmente vigente; e secondo la sua completa incapacità di leggere e comprendere le architetture costituzionali e di individuarne funzioni e responsabilità, sostiene che sarebbe come darne la colpa al Presidente Napolitano. Per i Savoia e i loro ormai esigui sostenitori è meglio il silenzio, piuttosto che il Paese faccia i conti con la propria storia. Regista e cast hanno sottoscritto la proposta di sloggiare dal Pantheon i re, indegni di stare vicino a Raffaello, Carracci e Peruzzi. Per interessamento del giornalista dell’Espresso Alessandro De Feo, il teatrante Ulderico Pesce e il cantante Andrea Satta dei Tete de Bois i resti di Passannante sono stato sepolti al suo paese dopo dieci anni di scontro con ottusità burocratiche e difficoltà con tre ministri della Giustizia: Diliberto, Castelli, Mastella. In occasione della tumulazione, cui il sindaco del paese era contrario, avrebbe dovuto esser celebrata una messa in chiesa e un rito civile al cimitero, ma entrambi sono stati furono proibiti perché i servizi segreti sostenevano il rischio di torbidi. Successivamente la messa in suffragio di Passannante fu celebrata e Boschiero la definì “atto di riabilitazione di un mancato assassino”. Luigi Silvi
123
TORINO E LA CRISI “COME STARE DENTRO UN FILM” L’INDUSTRIALE, GIULIANO MONTALDO Nel film di Giuliano Montaldo, durante le riprese, realtà e finzione si sono mischiate in maniera inquietante: quando la crisi tocca da vicino tutti, è grande la responsabilità di chi decide di parlarne in un film. Pierfrancesco Favino interpreta Nicola, proprietario di una fabbrica ereditata dal padre, ma che ora si trova sull’orlo del fallimento, strangolata dai debiti e dalle banche. Carolina Crescentini è Laura, sua moglie, anche il loro matrimonio sta per fallire, gli affetti sembrano essere precari come il lavoro. Nicola reagisce e affronta le sue difficoltà nel modo più sbagliato, tirando fuori il peggio di sé anche quando le cose sembrano andare meglio. La sconfitta in entrambi i casi è inaccettabile per lui, troppo orgoglioso e caparbio per chiedere aiuto. Sullo sfondo una elegante Torino, austera e rigida, che con la fotografia di Arnaldo Catinari appare ancora più bella. Anche qui si respira la crisi economica che attraversa tutto il paese, qua e là si incrociano operai in sciopero e studenti che manifestano. Il film è talmente inserito nella realtà da diventare a tratti inquietante, Giuliano Montaldo ha raccontato un episodio accaduto durante le riprese che è piuttosto significativo: “Abbiamo inserito una scena ambientata in una fabbrica, scegliendo di effettuare le riprese in un opificio normalmente in attività e che lo scenografo Francesco Frigeri ha adattato perché risultasse nella finzione un’azienda occupata. L’effetto è stato così realistico che in un attimo si è sparsa la voce che ci fosse davvero una fabbrica in lotta, e in poco tempo sono arrivati operai da altre fabbriche pronti a portare la loro solidarietà, è scattato un vero e proprio al-
Nicola (Pierfrancesco Favino)
larme. È arrivata tanta gente impaurita dall’idea di una nuova azienda in crisi”. Così, gente vera, disoccupati e precari, ha partecipato al film come figuranti e una scena pianificata in sceneggiatura ha avuto l’effetto di una sequenza rubata alla realtà quotidiana. Capita nel cinema italiano, e se ha un merito questa pellicola è quello di fare una fotografia fedele di un momento storico del nostro paese. Con sua moglie Vera Pescarolo Montaldo, Giuliano ha scritto la sceneggiatura leggendo le storie di cronache di tanti operai del sud, che negli anni del boom economico hanno costruito piccole aziende al nord, per poi vederle fallire inesorabilmente, strette dalla morsa di banche e speculatori. Storie anche molto tragiche di uomini che non hanno saputo sopportare l’umiliazione della sconfitta dopo tanti sacrifici e che hanno finito anche per suicidarsi. Anche il padre di Nicola era un operaio pugliese emigrato al nord, uomo che si era costruito da solo grazie al suo lavoro e che morendo ha passato il testimone al figlio, ed è per lui che Nicola non vuole mollare. La sceneggiatura è decisamente più debole quando si sposta nella sfera personale dei protagonisti, le loro crisi matrimoniali sono spesso scontate, così come è banale la gelosia di Nicola e l’idea del tradimento di Laura, in quelle scene il film scade, forse si voleva allentare la tensione, ma si rischia di addormentare il pubblico. Ma come si sa la passione amorosa rende una pellicola più appetibile e probabilmente sarebbe stato un errore commerciale non sfruttare la coppia Favino – Crescentini. Palmira Di Marco
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
124
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema EMANCIPAZIONE INDIVIDUALE PARADIGMA DI UN’EPOCA IL PRIMO INCARICO, GIORGIA CECERE Giorgia Cecere, già assitente di Amelio e di Winspeare, esordisce dietro la macchina da presa con un piccolo gioiello Il primo incarico, ambientano nel suo Salento, non nella meta turistica italiana più visitata degli anni 2000, ma quello degli inizi degli anni ’50. La storia, semplice, intimista, ma non pascoliana, racconta di una giovane donna del Sud che lascia le sue certezze (principalmente il fidanzato) per svolgere la professione di maestra a 150 km da casa, sede appunto del suo primo incarico. La maestrina è molto impaurita per questo distacco: oggi forse può far sorridere, in tempi di Erasmus, frontiere aperte, eccetera, ma quasi sessant’anni fa l’Italia, soprattutto il Sud, e la condizione delle donna erano molto diverse. Così Nena (una calibratissima e straordinariamente in parte Isabella Ragonese, letteralmente acqua e sapone) arriva in un piccolo paesino del sud Salento dove trova una situazione ben più ardua di quanto immaginasse: diffidenza, ignoranza diffusissima, realtà quasi arcaica, e una classe di soli sette bambini. Eppure in questa situazione quasi disperata Nena trova se stessa, raggiunge un
Nena (Isabella Ragonese)
equilibrio tra ciò che vorrebbe essere e ciò che potrà diventare, tra amore piccolo borghese e passione totale. E capisce fondamentalmente che vuole fare la maestra, anzi vuole essere una maestra e in questa dimensione scava dentro di sé e ricava la sua nuova, ma definitiva personalità. Film in cui l’ambiente è importante, sia quello sociale che quello fisico, con la solitaria bellezza del tacco d’Italia, ancora selvaggio e incontaminato. Dedicato ai propri genitori che, per stessa ammissione della regista hanno vissuto una storia analoga, il film della Cecere, che si accosta alla regia non giovanissima, fa ben sperare per il cinema italiano. Questa semplice storia di emancipazione femminile individuale, ma che diventa paradigma di un’emancipazione più ampia, ha come coprotagonista la Natura, aspra, a volte selvaggia, ma di una straordinaria bellezza primitiva e coinvolgente. Fotografia intensa e meritevole di una segnalazione quella di Gianni Trailo. Film interessante, ovviamente con bassissima distribuzione. Maria Pia Monteduro
125
FEDE PROFONDA DIVERSA DA INTEGRALISMO
IL SENTIERO, JASMILA ZBANIC Luna, hostess e Amar, controllore di volo, vivono a Sarajevo, sono musulmani non osservanti. Lui viene sorpreso con alcolici in servizio e sospeso dal lavoro. Un amico integralista, ex-commilitone, gli offre un’occupazione in una comunità musulmana Wahabita conservatrice, che vive, isolata lontana dalla città, secondo i precetti rigorosi di una concezione arcaica della religione; non ammette influenze del mondo moderno, fino all’imposizione del velo alle donne. Questa scelta segna l’approdo a un punto di non ritorno e qui i percorsi dei due si dividono. L’opera è una drammatica messa in guardia contro l’integralismo islamico e focalizza l’attenzione sulle dinamiche di relazione uomo/donna. Entrambi hanno un passato devastante dovuto alla guerra etnica; l’equilibrio di coppia non regge al bisogno di sicurezza che lei trova in se stessa e lui nel gruppo fondamentalista che risponde a ogni sua richiesta e necessità alla luce di un’interpretazione parziale del Corano. A Luna viene detto che l’Occidente vuole donne che lavorano e quindi fanno meno figli: “Vuole toglierci la nostra femminilità”. Le facili semplificazioni però producono discriminazione e sono segno di profonda ignoranza. L’universo islamico è profondamente variegato e differenziato nelle modalità di manifestazione della fede: quella profonda è diversa dall’integralismo. Alla base del conflitto in Bosnia vi è un massacro religioso; il tema dell’ortodossia è legato al ricordo scottante della guerra e all’assassinio dei genitori musulmani della protagonista, che vive a Sarajevo dopo essere stata cacciata da casa. Amar è un ex-combattente, ha perso un fratello in guerra e arriva a sostenere che il genocidio è stato causato dall’empietà, insomma meritato. Una donna della comunità religiosa afferma: “Dobbiamo ripopolare la Bosnia di musulmani”, accettando così che il marito prenda una seconda moglie minorenne. Amar trova nella religione la propria ragione di vita e su questo sacrifica anche l’amore per Luna. Allah per l’uomo è un rifugio, per Luna il ricordo delle azioni nefaste del tempo di guerra. Ma l’impurità in cosa consiste? Nel fare l’amore fuori dal matrimonio? Nell’andare in discoteca? Nel cancellare l’amore per il proprio credo? L’autrice accumula temi e contrasti con estrema lucidità e capacità analitica. Attraverso le vicende dei due protagonisti, la regista presenta un paese che cerca di risorgere dalle ceneri della guerra e i rischi che si corrono nel tentativo di trovare il proprio equilibrio, abbandonandosi a strutture forti e rassicuranti, che nascondono tutte le ambiguità e le storture dei fondamentalismo. Quella di Amar è un’involuzione personale e sociale. Il tentativo di ritrovare un equilibrio in formule che mirano all’isolamento, al ritorno al conflitto, alla negazione di una spinta propulsiva positiva verso il futuro, ancorandosi alla codifica più radicale del passato. Il fondamentalismo è visto, nel film, come ostacolo invalicabile per la costruzione di un futuro sereno, pacifico, tollerante, comune e condiviso. Il film presenta le giovani generazioni bosniache aperte con una mentalità europea: Luna musulmana coniuga il vecchio mondo bosniaco con quello nuovo che guarda all’Europa. La colonna sonora è composta da splendidi canti islamici. Luigi Silvi
Luna (Zrinka Cvitesic)
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
126
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
FARSA ANTIEROICA E ANTIMILITARISTA
MISSIONE DI PACE, FRANCESCO LAGI
Il cinema bellico italiano è caratterizzato da sempre da un’atmosfera antieroica e antimilitarista, che sconfina spesso nella commedia: La grande guerra di Mario Monicelli, Mediterraneo di Gabriele Salvatores, oppure nella farsa come i due film di Salvatore Samperi ispirati al fumetto di Bonvi Sturmtruppen, o quelli della saga del Colonnello Buttiglione, ma anche e soprattutto L’armata Brancaleone, Brancaleone alle Crociate, I soliti ignoti e L’audace colpo dei soliti ignoti (altro gruppo di pasticcioni) entrambi di Monicelli e I due nemici di Guy Hamilton, sempre con un occhio al mitico MASH. Anche in Missione di pace predomina un clima farsesco. Il film è ambientato nei Balcani al termine del conflitto nell’ex-Jugoslavia, popolato da personaggi limitati, retorici, ridicoli, allo sbando, che si agitano incapaci di prendere una direzione precisa, continuamente sorpresi dagli eventi e da ciò che accade intorno. Il capitano Vinciguerra (Silvio Orlando) veterano di missioni di pace, è assolutamente non in grado di sostenere un confronto con il figlio Giacomo; lo è anche quest’ultimo: pacifista d’accatto che si esprime per frasi fatte, distrugge quanto suo padre costruisce, ostacola la sua carriera, fa crollare la sua autorità. Vinciguerra e la sua squadra sono incaricati di catturare un criminale di guerra latitante da anni nei boschi di un territorio inesplorato nel Kossovo, che ammazza orsi e ne mangia il cuore. L’arrivo di Giacomo innesca l’implacabile conflitto con il padre. Alla fine ridicolo, confuso e stanco, del tutto innocuo, è anche Radovan Pavlevic,
l’uomo ricercato. Più che un temibile criminale di guerra Radovan sembra talmente stanco e deluso, che non vede l’ora di arrendersi. Missione di pace non è un film denuncia su orrori ed errori della guerra nei Balcani, uno dei conflitti più cruenti e feroci che hanno insanguinato il continente. Non ci sono tracce di stermini e pulizia etnica, il clima è giocoso: la missione è sostanzialmente una scampagnata di ingenui e impreparati boy-scout (Vinciguerra monta la tenda sul letto di un fiume e finisce sottacqua). Il film è ironico nelle dissacrazione di militari poco guerrafondai, che hanno ricostruito pietra su pietra una chiesa ortodossa. Lagi racconta in chiave ironica una realtà drammatica. Il film ha un tono stralunato e straniante: in questo senso va l’idea del gioco. Ping-pong e Risiko tra militari e monaci ortodossi: sembra quasi che i membri di questo gruppo strampalato giochino a fare i soldati! Il film non ha preoccupazioni di verosimiglianza, racconta un mondo completamente immaginario, per questo un colonnello ha i capelli lunghi, per sottolineare l’arroganza del potere e della leadership. Il film è una commedia sospesa a tratti grottesca sull’italianità militare. Cinema d’immaginazione e provocazione, surrealista, fresco e dinamico. Siparietti comici e provocazioni esplicite e sferzanti. L’autore mette alla berlina militarismo, ma anche pacifismo becero. Soldati pasticcioni, pacifisti confusi e velleitari. Il film è stato girato in Friuli, nelle Valli del Natisone, lungo l’Isonzo e parte in Slovenia. Luigi Silvi
127
POTERE POTERE POTERE
J. EDGAR, CLINT EASTWOOD La sceneggiatura dell’ultimo film di Clint Eastwood sfata alcuni luoghi comuni. Innanzitutto l’acme della lotta contro i comunisti negli States non coincide con il cosiddetto periodo del maccartismo, ma è di gran lunga precedente: risale infatti agli inizi degli anni Venti. E poi l’uomo più potente del mondo, come si suole dire, non è il Presidente americano, ma, almeno dal 1919 al 1972, è stato J. Edgar Hoover, colui che rafforzò, ampliò e portò l’FBI a livelli straordinari di efficienza e di potere appunto. Il film narra le vicende di questo inizialmente oscuro Monsieur Travet della polizia federale, che con caparbietà, intelligenza e totale abnegazione, ponendo la carriera sempre ed esclusivamente al di sopra di tutto, riesce a costruire un impero di informazioni controllate, di schedatura di ogni politico (in primis i Presidenti), tale da far diventare l’FBI ciò che è, ma soprattutto ciò che è stata. Edgar è ambizioso, succube di una madre autoritaria che stravede per lui, e sceglie di porre la sua vita al servizio del proprio paese, per proteggerlo da tutti i tipi di “nemici” (per lo meno coloro che egli riteneva tali), costi quel che costi. Efficienza, capacità lavorativa quasi disumana, intelligenza vivace, grande autorevolezza: Edgar miscela queste doti innegabili per dare alla propria madre adorata (Judi Dench, perfetta nella sua opprimente ossessione) il figlio che lei ha sempre desiderato: un uomo sicuro di sé, temuto da tutti, forte, praticamente invincibile. Poco importa se questo continuo lavorio che Edgar fa su se stesso fa vacillare la sua sessualità, impedendogli di vivere una vita sentimentale appagante, negando a se stesso la propria omosessualità che trapela solo a tratti nel suo rapporto con l’amico, collaboratore e consigliere Clyde Tolson (un persuasivo Armie Hammer), ma che non viene mai vissuta totalmente, a parte il non sposarsi mai per non deludere l’amico. Molti gli episodi storici narrati nel film: il più noto rapimento d’oltre Oceano, il piccolo Lindbergh, finito tragicamente, come noto, ma che permetterà a Edgar di costruire una straordinaria “macchina da guerra” costosissima ma molto efficiente, pur non raggiungendo in questo caso il ri-
J. Edgar Hoover (Leonardo Di Caprio), Clyde Tolson (Armie Hammer
sultato finale. Spietata la lotta al gangsterismo, che tocca l’apice con la cattura di John Dillinger, così da far digerire all’intero paese l’aumento di spese richiesto e ottenuto dall’FBI per una maggior efficienza investigativa e operativa. Inoltre, di straordinaria attualità, l’uso prepotente e capillare delle intercettazioni, delle microspie, utilizzate dall’FBI in termini massici e non risparmiando nessuno, nemmeno i Presidenti degli Stati Uniti. Edgar “regnerà” sotto ben otto Presidenti e di tutti conoscerà luci e ombre, peccatucci e colpe gravi. Instancabile catalogatore e archivista di tutte le notizie utili, finirà con l’essere inevitabilmente odiato da ogni presidente, non ultimo Richard Nixon che, prima di dare alla nazione la notizia della morte di Edgar, cercherà freneticamente per mari e monti l’archivio personale del capo dell’FBI il quale però, astutamente, lo aveva fatto immediatamente sparire, aiutato dalla fedelissima segretaria che aveva ricevuto l’ordine di distruggere tutti i documenti riservati non appena fosse stata avvisata dal medico della morte di Edgar stesso. La vicenda, come ormai troppo spesso avviene, è narrata dall’anziano Edgar con l’ausilio dei flashback, che partono dal primo incarico fino ad arrivare poi oltre alla narrazione, cioè alla morte di Edgar stesso. Punto di forza del film è sicuramente l’interpretazione di Leonardo Di Caprio per il protagonista: egli delinea egregiamente, a metà strada tra James Cagney e Edward G. Robinson, un certo tipo di “eroe americano”: non l’uomo mite, che ama il suo paese e realizza un certo sogno americano appunto, ma quello che volentieri potremmo definire “amerikano”. Di Caprio fa invecchiare Edgar con molto realismo e il suo rafforzare alcune scelte da conservatore reazionario è tratteggiato con grande maestria. La regia di Eastwood è scattante, tesa, con un buon ritmo e il regista riesce a far convivere il genere biografico con quello gangster, mantenendoli in un interessante equilibrio. “L’informazione è potere. Ci ha protetti dai comunisti nel 1919 e da allora la nostra FBI ha continuato sapientemente a raccoglierla, organizzarla e custodirla. Maria Pia Monteduro
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
128
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
DRAMMATURGIA TRAGICA E COMPLESSA
LA DONNA CHE CANTA, DENIS VILLENEUVE
Nawal, donna libanese emigrata in Canada, al momento della morte fa consegnare ai figli, fratello e sorella gemelli, due lettere, una che chiede sia consegnata al padre che non hanno mai conosciuto e che credevano morto, l’altra da recapitare al fratello, di cui ignoravano l’esistenza. Jeanne decide di raggiungere il Libano per scoprire le proprie radici, Simon la raggiungerà in un secondo momento. La ricercacatarsi, viaggio senza protezione e senza compromessi attraverso le atrocità del Libano in guerra civile tra cristiani e musulmani. Divisione religiosa e familiare di una terra e di un mondo, epopea di due gemelli canadesi in Medio Oriente alla ricerca della verità sulle proprie origini, tra falangisti cristiani e arabi musulmani l’un contro l’altro armati. Due percorsi paralleli, anche se non sincroni, che raccontano la stessa storia e pervengono alla stessa tragica e sconvolgente verità. Drammaturgia tragica e complessa, sorta di tragedia classica: si è sempre sulle sponde del Mediterraneo. Di essa la forza travolgente delle passioni umane e l’ineluttabilità della nemesi fatale. Nawal, cristiana, ama un non cristiano, è disprezzata dalla famiglia; il suo compagno viene assassinato e il figlio che attende da
lui le viene strappato subito dopo il parto e lei viene allontanata da casa dalla sua stessa famiglia. Nawal per perseguire la propria vendetta sceglie di darsi alla causa palestinese. Essendo cristiana riesce a conquistare la fiducia di un capo politico cristiano appunto a farsi accogliere nella sua casa e ad assassinarlo. Arrestata e incarcerata per il delitto sconta una pena di quindici anni. In prigione subisce inenarrabili torture, sevizie e violenze. In carcere Nawal dà alla luce due figli, il padre è il violentatore. Jeanne e Simon vengono aiutati dai palestinesi. Scoprono che il fratello strappato alla madre fu catturato dai palestinesi in un attacco all’orfanotrofio cui era stato affidato e che era poi diventato il torturatore della madre in prigione. Ora vive in Canada, i due fratelli ritrovano il padre-fratello e gli recapitano le due lettere. Nawal, che era al corrente di tutta la vicenda, scrive una lettera di odio irrefrenabile per il torturatore e una di grande amore per il figlio. La sceneggiatura del film è tratta da una pièce dello scrittore Wajdi Mouawad, che si ispira a una vicenda tratta dalla biografia di Souha Bechara. Luigi Silvi
129
SE “KARLA” SFIDA LA REGINA D’INGHILTERRA
LA TALPA, TOMAS ALFREDSON Nella spy story claustrofobica tratta dal best seller di John le Carrè, “Karla” è il nome in codice del capo dello spionaggio russo, inquietante crocevia di trame dalla fine ignota. Nessuno può fidarsi di nessuno perché il tuo migliore amico potrebbe tradirti domani stesso. Questo è il concetto sotteso a Tinker, Taylor, Soldier, Spy (sono i personaggi di una famosa filastrocca inglese, in italiano il titolo è diventato La Talpa), versione cinematografica dell’omonimo best seller e classico della narrativa di spionaggio di John le Carré. Diretto da Tomas Alfredson (il regista di Lasciami entrare e ambientato nel 1973, ai tempi della Guerra Fredda, narra di un’indagine interna el Secret Intelligence Service inglese (nome in codice Circus) nata dal sospetto che le attività siano state compromesse da una “talpa” al servizio dei sovietici, che mette a rischio la sicurezza nazionale britannica. A condurre l’indagine viene richiamato l’agente in pensione George Smiley (Gary Oldman), aiutato dall’agente più giovane Peter Guillam (Benedict Cumberbatch), che passa al setaccio le attività del Circus passate e presenti. Cercando di snidare e smascherare Tinker, Taylor, Soldier e Spy, Smiley è tormentato dal ricordo dei rapporti dei decenni passati con l’ombroso capo dello spionaggio russo Karla. Si tratta dell’ambizioso Percy Alleline (Toby Jones), cui aveva dato il nome in codice Tinker (lo stagnaio); Bill Haydon (Colin Firth), raffinato e sicuro di sé, soprannominato Tailor (il sarto); il vigoroso Roy Bland (Ciarán Hinds), chiamato Soldier (il soldato); lo zelante Toby Esterhase (David Dencik), ribattezzato Poor Man (il povero); e Smiley stesso. L’incrocio di sospetti fa rimbalzare il testimone di talpa dall’uno all’altro, prima che la verità venga svelata. Tomas Alfredson spiega la figura di Smiley: “È la spia perfetta. Una persona che si dimentica immediatamente se la si incontra per strada. Non esprime nulla, non tradisce i suoi pensieri. Pone domande e riceve risposte. Si potrebbe pensare che non sia un personaggio per il grande schermo – invece lo è eccome!”. E il produttore Tim Bevan aggiunge, sottolineando la giusta scelta di Oldman per questo ruolo: “Gary Oldman si pulisce gli occhiali e provoca più adrenalina degli altri quando prendono a pugni qualcuno”. I personaggi creati da le Carrè sono ben interpretati dall’intero cast di attori, con un “under statement” recitativo caratteristico dello stile anglosassone. Il film procede scosse dall’inizio alla fine, come una partita a scacchi giocata sul filo dell’intelligenza, aspettando che l’avversario faccia la mossa sbagliata. Londra sullo sfondo è una presenza discreta, il Circus è veramente un mondo a parte, un mondo che nasce e finisce per gli altri con la porta di un garage. E la vita quotidiana, così poco richiamata nel film, quando compare in alcuni momenti (la nuova vita nel college del professor Jim Prideaux, la vita privata di Smiley o quella del suo giovane assistente, i bagni nelle piscine all’aperto ecc.) non sempre si sovrappone bene alla trama principale. Unica eccezione a questa difficile “convivenza”, la scena dell’assurda festa organizzata con le famiglie degli agenti dal Circus stesso, fra fiumi di vodka, uomini mascherati da Lenin e Stalin e canti popolari sovietici dagli agenti stessi. Una scena che dà bene il senso della commistione straniante che il lavoro di spia in quegli anni doveva provocare in chi aveva il compito di interfacciarsi fingendo con le due sponde opposte. Andrea Festuccia
Bill Haydon (Colin Firth)
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
130
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
LA RESPONSABILITÀ DELLE PROPRIE COLPE
LA CHIAVE DI SARA, GILLES PAQUET-BRENNER.
Julia Jarmond (Kristin Scott Thomas)
16 luglio1942. Il governo francese si macchia di un crimine odioso: il rastrellamento di ben 13.152 ebrei (tra cui 4051 bambini) raccolti al Velodromo d’inverno di Parigi. Tale operazione, ricordata come Rafle du Vel’ d’hiv’, fu svolta, con particolare solerzia, da oltre quattromila gendarmi francesi, e i prigionieri furono deportati verso i campi di sterminio: ne tornarono soltanto ottocento. Di tale odiosa operazione restano pochissime tracce, finché, con grande coraggio e lealtà il presidente Chirac nel 1995, a cinquant’anni dalla fine della guerra, in un discorso alla nazione teletrasmesso riconosce la responsabilità dello Stato francese (non di singoli cittadini, pochi o molti che fossero stati!) nella tragedia della Shoah. Forse è questo il dato più importante e che fa sì che il film meriti di essere visto: l’assunzione di responsabilità da parte di un governo, di un paese, di un popolo, davanti ai propri errori. Tutto il film gira intorno al concetto fondamentale per la vita dei singoli, di una coppia, di una famiglia, di una nazione, di cercare la verità per poterla affrontare, pur se scomoda, e farne tesoro per il futuro senza reticenze o facili auto-assoluzioni. Trasferito il tema all’Italia di oggi, addolora e preoccupa il non ritrovare la stessa sensibilità a livello governativo, ma anche individuale. Ne sia esempio una variazione lessicale (che solo lessicale evidentemente non è…!) che sta sostituendo sempre più il termine nazi-fascista, riferito alle troppe stragi perpetrate in Italia principalmente tra il 1943-1945, con il termine più generico nazista, quasi a voler ignorare la forte correità dello Stato italiano prima, della Repubblica Sociale di Salò dopo, nelle orribili stragi perpetrate su italiani molto spesso da italiani. L’anelito che la protagonista del film ha nel ricostruire la storia di Sara e di capire quanto la famiglia del marito abbia convissuto, più o meno consciamente, con la tragedia di una famiglia di ebrei vittima della deportazione del 1943, è toccante e dà ritmo e velocità alla prima
parte del film. In questa prima sezione sono inserite, con la ormai troppo sfruttata tecnica del flash-back, alcune scene di grande effetto del rastrellamento e del Velodromo: crude, impietose, di grande efficacia. Purtroppo poi il film, tratto dall’omonimo libro di Tatiana de Rosnay (che ha venduto cinque milioni di copie), in un certo qual modo si perde. La ricerca, quasi spasmodica, che la giornalista Julia Jarmond (Kristin Scott Thomas, realisticamente coinvolta) svolge sul passato e sulla vicenda della piccola Sara Starzynski (una bravissima Mélusine Mayance, appena dodicenne), dal giorno del rastrellamento fino al triste suicidio, è un po’ romanzesca: a distanza di anni ritrova tutto e tutti, e ricostruisce ogni mossa! Perciò il film, partito con un input da ricostruzione storica interessante, diventa quasi un poliziesco e alla fine scivola nella commedia happy end stile Hollywood: il figlio di Sara, che non accettava la verità sulla madre, capisce che il passato va affrontato; Julia, pur separandosi dal marito che non è stato all’altezza di sopportare gli errori o per lo meno le omissioni dei propri genitori, porta avanti la gravidanza e sarà madre di una bellissima bambina che (chi lo avrebbe mai detto?) chiamerà Sara… Un po’ troppo, forse! Ciononostante il film va assolto per la ricostruzione storica della prima parte e per aver voluto rimarcare la necessità morale e civile per ognuno di assumersi inderogabilmente le responsabilità delle proprie azioni, anche se azioni colpevoli. Si arriverà mai in Italia a negare per legge l’estraneità degli italiani dal coinvolgimento nelle stragi naziste? A tale proposito è stato depositato in Parlamento un progetto di legge. Si auspica che i parlamentari trovino su questa proposta civile l’unanimità, ottenuta finora quasi esclusivamente per elevare le proprie indennità di mandato. Ogni nota polemica è puramente e dichiaratamente voluta… Maria Pia Monteduro
131
MIGRAZIONE CONDIZIONE ESISTENZIALE
LE SETTE OPERE DI MISERICORDIA, GIANLUCA E MASSIMILIANO DE SERIO Il film è una dolente parabola umana, opera della speranza, per un alcun genere di sentimento. Nel film si identificano dallo stile sobrio ed essenziale; utilizza piani frontali e sim- esistere e sopravvivere: in questa atmosfera di desolazione e metrici, e la panoramica, normalmente descrittiva, diventa il di solitudine s’intrecciano le vicende dei protagonisti, la cui proprio contrario: il tentativo di dissimulazione. La colonna lotta per la sopravvivenza si scatena in sopraffazione recisonora è il rumore della città, che diviene musica concreta. proca, che lacera nel profondo i loro animi. Può esserci umaLa periferia torinese lungo il fiume Stura è raccontata come nità e comprensione in una società di abiezione? Luminita scenario di metropoli fredda, impersonale e inospitale, mise- (Olimpia Melinte, esordio promettente), giovane immigrata ria di una grande città popolata dagli ultimi, in lotta giornal- clandestina in fuga, costretta a vivere nell’abitacolo di una mente con la sfida più difficile: sopravvivere. Immigrati macchina, sopravvive con borseggi e furtarelli di cui deve clandestini vivono di espedienti, borseggi e piccoli furti; ita- consegnare i frutti ai suoi aguzzini, che la tengono in schialiani spietati e privi di scrupoli intrecciano trame sordide per vitù e parlano la sua stessa lingua. Marginale e reietta, ha la ottenere guadagni facili. La migrazione è condizione umana ferinità di un animale, la cui gabbia è una città estranea. Ha ed esistenziale, l’immigrato clandestino è colui al quale non un piano per sfuggire al controllo dei suoi carcerieri, per viene riconosciuta un’identità e per questo diviene catalizza- uscire dal vicolo cieco cui si trova condannata e per procutore di tutte le problematiche identitarie. La pellicola è una rarsi documenti falsi. Per portarlo a termine incappa in Antoprofonda allegoria a strati sull’esistenza e sull’identità. Il nio (Roberto Herlitzka, eccezionale, recita anche con lo lungometraggio denuncia anche la totale assenza dei servizi sbattere delle ciglia e con i movimenti dell’addome), ansociali e dello Stato. Film rigoroso, concettuale, austero, in- ziano, malato, silente, enigmatico, che trascorre apaticamente timista, sussurrato, doloroso, ma costellato di dignità, diviso le giornate, in cui il buco che ha in gola sembra assorbire, tra realismo e metafora, osmotico, partecipativo, autoriale. come un’idrovora, qualsiasi possibilità di bellezza. Luminita Cinema radicale, poco incline a compromessi commerciali, si insedia con la forza nell’appartamento di Antonio per utianticonsolatorio, di gesti e di sguardi, di silenzi più che di lizzarlo quale rifugio e nascondiglio per custodire un neoparole. Mette a nudo la crisi profonda della nostra società ed nato rapito dal campo profughi. La giovane, fredda e priva evoca la durezza dei fratelli Dardenne e lo sguardo acuto e di scrupoli, è un’inattesa dark lady; Antonio, a sua volta è impietoso di Daniele Gaglianone. La regia è di Gianluca e invischiato in loschi affari, ed è trafficante di merci. InconMassimiliano De Serio, gemelli torinesi di trentun’anni al tro/scontro tra due aride solitudini alla ricerca di un senso primo lungometraggio, dopo un’importante esperienza nel vi- dell’esistere; Luminita e Antonio, due facce della stessa umasivo, sono autori di video-art, installazioni, corti e documen- nità sofferta, perché si può non essere malvagi, e comunque tari. A tratti l’inesperienza dei due cineasti non trasforma le vendere un neonato e fare soldi al prezzo della vita altrui. idee in immagini, che mescolate a situazioni e dialoghi, sem- Alla fine troveranno la forza di aiutarsi. Le sette opere di miplifichino la narrazione. Il film evoca le periferie industriali sericordia del titolo non sono un richiamo teologico o catee alienanti di Michelangelo Antonioni e quelle fuori dalla chetico, ma una umanissima Via Crucis laica, con un chiaro storia, dove non c’è né speranza né possibilità di redenzione, riferimento all’opera dallo stesso titolo del Caravaggio di Pier Paolo Pasolini. Nel deserto della vita dei protagonisti (1606-1607), conservata al Pio Monte della Misericordia di di Sette opere di misericordia, come in quella dei personaggi Napoli. Luigi Silvi della trilogia romana di Pasolini sembra, non vi sia spazio
Lumenita (Olimpia Melinte), Antonio (Roberto Herlitzka)
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
132
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
COMMEDIA DRAMMA MUSICAL
E ORA DOVE ANDIAMO? NADINE LOBAKI
Donne eseguono una danza funebre
La regista libanese Nadine Lobaki, dopo l’opera prima Caramel, sposta la macchina da presa dalla capitale Beirut sulle montagne, in un paesino isolato, perché circondato da campi di mine inesplose e perché un ponte è stato bombardato. Nel paese si è instaurata una rispettosa convivenza tra esseri umani che professano religioni diverse: una comunità musulmana e una cristiana. Il film è un elogio all’eterna saggezza delle donne, che la regista non presenta manicheisticamente come superiori o migliori. Le donne trovano quella ragionevolezza che gli uomini sono sempre pronti a perdere, cedendo a provocazioni anche futili, banali se non addirittura infantili. La pellicola affronta il tema scottante di un’intolleranza non più tollerabile, per cui le donne, custodi per natura della pacifica convivenza, diventano l’unico collante in un microcosmo pieno di fratture, in un equilibrio tremante e instabile, perennemente scosso da conflitti imminenti. La componente femminile del paese è costretta a mettere in atto i piani più disparati, e talvolta esilaranti, per allentare la tensione inter-religiosa. Fanno arrivare al paese il primo televisore e organizzano una visione pubblica nell’unico punto del villaggio raggiunto dal segnale. Affittano quattro ballerine ucraine per distrarre con la loro presenza gli uomini da altre problematiche e da venti di guerra. Sono guidate dalla volitiva Amale, vedova cristiana innamorata di un musulmano, proprietaria dell’unico bar del paese, interpretata dalla regista; con l’appoggio del prete e del mullah e della moglie del
sindaco cristiano dichiarano agli uomini delle proprie famiglie, suscitando in essi profondo stupore, di aver cambiato religione, pertanto qualora volessero colpire gli altri colpirebbero di fatto anche loro stesse. Non esitano neanche di gridare al miracolo, dopo aver fatto sanguinare, con uno stratagemma, una statua della Madonna, venerata, anche se in modo diverso, da entrambe le religioni. Quando, per una banale diatriba al bar, la tensione inizia a salire, organizzano una festa, in cui fanno bere gli uomini e le ballerine ucraine, e offrono loro pasticcini cucinati con tanto hascisch. I funerali del paese si svolgono dalla piazza, dove stanno vicine chiesa e moschea, lungo una strada costeggiata dai due cimiteri, dove le donne, vestite di nero, inscenano antiche danze funebri. Nel funerale che chiude la pellicola (un altro la apriva) dopo che le donne hanno fatto credere agli uomini di aver cambiato religione, quelli che portano il feretro, confusi, chiedono “E ora dove andiamo?”. Nadine Lobaki riesce a coniugare nel lungometraggio, con il giusto ritmo e il necessario equilibrio, commedia, dramma e musical. Per la regista libanese ironia e umorismo sembrano gli unici strumenti disponibili per raccontare un mondo, nel quale una censura pesante e ottusa, può addirittura cambiare la vita di una persona. Per una realtà, troppo cupa e dura da essere raccontata in maniera realistica, ecco la favola e la trasfigurazione fantastica.
Luigi Silvi
133
IN GUERRA E IN COMUNICAZIONE TUTTO È PERMESSO LE IDI DI MARZO, GEORGE CLOONEY Le strategie dei ghost-writer e degli uffici stampa americani in tempi di campagna elettorale. Clooney mostra le tecniche da guerra fredda della contesa politica. Che fra le parole dette da alcuni e la loro condotta etica non vi sia spesso sintonia non è certo una novità, né tantomeno si tratta di una peculiarità del sistema americano. Ma Le Idi di Marzo di George Clooney (regista, attore e sceneggiatore del film), tratto dal lavoro teatrale di Beau Willimon, che racconta delle ipotetiche primarie del Partito democratico a stelle e strisce ambientate ai nostri giorni, sembra parlarci più della grande “industria della politica”, una macchina dove gli uomini sono solo degli ingranaggi, e dove senza pelo sullo stomaco è difficile lavorare. Protagonista, oltre allo stesso Clooney, quel Ryan Gosling che sembra contendere a Fassbender il titolo di nuova stella del firmamento hollywoodiano, e che, anche in questo film, dà un’ottima prova interpretativa. Ne Le idi di marzo Gosling è Stephen Meyers, giovane guru della comunicazione, del senatore democratico Mike Morris (Clooney) impegnato appunto nelle primarie per la candidatura alla Presidenza degli Stati Uniti. Il suo “senior” è il navigato Paul Zara (Philip Seymour Hoffman). La sfida a colpi di discorsi elettorali e comunicati stampa è con Tom Duffy (Paul Giamatti), capo della comunicazione del candidato antagonista. Meyers scoprirà con grande amarezza che il suo idealismo e la fiducia nel suo candidato devono passare in secondo piano rispetto agli accordi dietro le quinte e ai giochi di potere. Nella trama il background teatrale si sente parecchio, i personaggi sono molto ben costruiti, le loro evoluzioni (o meglio “involuzioni”) non sono “telefonate”, e gli attori sono tutti in parte. Anche la campagna elettorale viene raccontata in modo credibile: dalla messa a punto dei discorsi in base a calcoli millesimali sulle percentuali di consenso e sulla gestione degli effetti, alla solitudine delle sere nella provincia americana attraversata dal “carrozzone” del candidato, fino al mondo sommerso degli stagisti, vero e proprio motore silenzioso dell’intera squadra. Si riesce a intravedere (e questo è fondamentale) anche il prima e il dopo della campagna, anche se non viene raccontato: quel mondo fatto di professionisti della comunicazione usciti dalle grandi università americane prima, svezzati nelle più importanti società di comunicazione, o nei grandi studi legali, che passano da uno schieramento all’altro mettendo la loro tecnica al servizio di idee lontane anni luce tra loro. E le fobie, le ansie, le paranoie che li circondano. Così come la fredda quotidianità del benessere dato loro dal lavoro, fatta di alberghi a cinque stelle, cene di gala, abiti perfetti, parole messe sempre al posto giusto, fino ad abituarsi a una vita senza grandi punti di riferimento affettivi. Nel gran bazar della comunicazione non poteva mancare la parte dei media: una brava Marisa Tomei interpreta una giornalista senza scrupoli per la quale un’amicizia vale quanto uno scoop, degno contraltare al mondo dei press-manager senza ideali. Come si addice a una vera storia politica americana, il film non fa mancare lo scandalo sessuale, vera e propria “mina vagante” nella contesa politica anglosassone, capace di distruggere in una notte ciò che non possono fare anni di presunte irregolarità o comportamenti poco corretti dei politici in ambito economico o amministrativo. Un film ben costruito e interpretato, senza sbavature. Andrea Festuccia
Stephen Meyers (Ryan Gosling)
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
134
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
DONNE UNITE CONTRO IL RAZZISMO THE HELP, TATE TAYLOR
La domestica di colore che alleva figli di famiglie bianche benestanti o fa la governante sempre per bianchi ricchi è un classico. La monumentale Mammy di Via col vento di Victor Fleming ne è uno tra gli esempi più classici nel cinema, assieme ad Annie in Lo specchio della vita di Douglas Sirk, pur se più drammatico; ma è un topos che resiste anche in altri media come ad esempio la figura della cuoca-tuttofare Emily nel fumetto Julia di Giancarlo Berardi della Sergio Bonelli Editore. Il film del regista statunitense Tate Taylor, alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, si muove su questa scia, con una certa leggerezza, non superficialità. Tratto dall’omonimo romanzo di Kathryn Stockett, la storia e lo sviluppo di essa sono affidati alla sensibilità e all’interpretazione del reale delle donne: gli uomini sono soggetti marginali in questa storia, dove si racconta di amicizie femminili che travalicano gli steccati assurdi, perché innaturali, del colore della pelle. La vicenda è ambientata negli anni ’60 del XX secolo, quando negli Stati Uniti d’America la discriminazione razziale è ancora forte e radicata. Quindi la protagonista, bianca, raccogliendo le confidenze e gli aneddoti di tante tate di colore della middle class, la sua stessa domestica in primis, cercando di capire sentimenti e affetti di queste donne che allevano figli di altre, lasciando a casa i propri, crea scandalo da una parte, ma dall’altra instaura rapporti veri e saldi di amicizia e solidarietà. Il film scivola lieve e gradevole: la grande Storia è pre-
sente (un accenno all’assassinio del Presidente Kennedy a Dallas) ma come fondale di un palcoscenico, in cui gli attori vivono il proprio presente “femminile” e “a due colori”. La grande marcia di Martin Luther King non si è ancora svolta, ma la protagonista Eugenia “Skeeter” Phelan (Emma Stone, molto convincente) compie, forse inconsapevolmente e animata soltanto da tanto buonsenso, una sua personale marcia che la porrà in contrasto con il suo ambiente e con il suo stesso fidanzato. Le interviste che Eugenia raccoglie hanno lo scopo di farle fare esercizio per diventare giornalista, ma invece, in ultima analisi, diventano per lei un viatico per una sincera convivenza fuori dal razzismo. La ricostruzione d’ambiente è molto curata e la colonna sonora, in cui sono inseriti capolavori dell’epoca, tra gli altri di Ray Charles e Johnny Cash, rende altamente convincente l’atmosfera. La pellicola ha riscosso grande successo di pubblico e critica, e ha raccolto diverse nomination per molti premi internazionali e l’Oscar per la miglior attrice non protagonista a Octavia Spencer (Minny, la governante afro-americana). Forse oggi che alla Casa Bianca siede un afro-americano potrebbe sembrare un film datato. Ma all’ascesa di Barack Obama, senza dubbio, sono serviti anche piccoli episodi come quelli narrati nel film, che hanno aiutato a far maturare una coscienza civile di solidarietà e di odio per il razzismo. Maria Pia Monteduro
135
IDEA PRIVA DI ORIGINALITÀ
POLISSE, MAIWEEN (LE BESCO)
Reati da contrastare, violenze da evitare, per tutelare e per dare nuove speranze ai più fragili. Questa l’importante attività delle francesi Unità di protezione dell’infanzia. Non è facile per gli uomini di tali unità di protezione avere a che fare quotidianamente con casi diversi, ma sempre segnati da impietosa crudeltà e violenza inaudita. Che si tratti di orfani, di vittime di abusi o di piccoli ladri, o di giovani dalla sessualità fuori controllo, la squadra cerca sempre di trovare la soluzione più indolore per regalare comunque un futuro alle vittime innocenti. La regista scava dentro la società, offrendo lo spaccato di una Parigi problematica e multietnica. La pedofilia diviene elemento costante all’interno della narrazione, l’incubo che accompagna l’infanzia dei protagonisti. Stroncare il traffico di bambini dei romeni, soccorrere adolescenti violentate, ascoltare segreti inconfessabili di famiglia, favorire l’ingresso di bambini extracomunitari abbandonati in case-famiglia, contrastare le vigliaccherie di alcuni ufficiali nel trattare accusati influenti, e quant’altro possa essere utile a prevenire reati contro i minori. Il tutto accompagnato e mischiato con le vicende personali e private dei componenti la squadra e dai problemi con l’indifferenza di dirigenti e alte sfere e con la cronica mancanza di uomini, mezzi, equipaggiamenti, strutture e risorse. Incapaci di affrontare il lavoro come una routine, non possono sottrarsi ai contrasti che in ogni team di lavoro finiscono inevitabilmente per crearsi. Melissa, fotografa (la regista Maiween) incaricata dal Ministero di documentare l’attività della squadra è l’elemento che col suo innesto nel gruppo aggiunge al sistema dinamiche nuove e impreviste. Docufiction poco armonizzata e slegata, mostra gli orrori dovuti agli abusi sessuali: nonni, parenti, padri, con madri coinvolte, abusano dei bambini e durante gli interrogatori si dimostrano completamente distaccati dal problema e a volte addirittura infastiditi. L’idea è decisamente priva di originalità, gli episodi non sono assolutamente collegati fra loro, tanto che sembra di assistere a un’infilata di puntate di seguito di quelle serie televisive dedicate a squadre di polizia, che tanto successo di pubblico riscuotono in tutta Europa. La sgrammaticatura del tiolo “polisse” non è ovviamente un refuso di stampa o un errore del correttore di bozze o del proto, ma la forma infantile della pronuncia del termine corretto “police”. Luigi Silvi
La fotografa della squadra (Maiween Le Besco).
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
136
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema RICERCA OSSESSIVA DEL PIACERE COPRE VUOTI ESISTENZIALI SHAME, STEVE MCQUEEN
Brandon Sullivan (Michael Fassbender)
Brandon Sullivan (Michael Fassbender), trentenne di successo, abituato a vivere nel lusso, soffre di un problema di dipendenza dal sesso, che gli impedisce di condurre una relazione sentimentale sana e lo imprigiona in una spirale di altre dipendenze. Nulla però traspare all’esterno: egli possiede un appartamento elegante, ha un buon lavoro ed è un uomo di fascino che piace alle donne. Questa situazione diventa trappola mortale incatenante e umiliante, favorita dalla possibilità di potersi comprare tutto e subito. Può tutto, paga tutto, usa il denaro per ottenere ciò che vuole, sesso, prostitute, incontri occasionali, masturbazioni continue, pratiche omosessuali, fa sesso con più donne assieme, frequenta locali hard, colleziona film e giornali pornografici, pratica sesso senza libertà e senza sentimenti, in più fa sesso virtuale con prostitute: per lui diventa un’ossessione e ne è patologicamente dipendente. La sua è una ricerca edonistica e ossessiva del piacere, per mascherare vuoti e dolori esistenziali. Quello di Brandon è un sesso oggettivizzato senza erotismo, egli è “sesso dipendente” e i suoi orgasmi si tramutano in profondo dolore e tormento. La sua devastazione è provocata dal rifiuto delle emozioni, dal ferreo autocontrollo di corpo e mente, per cui non può concedersi emozioni, pratica un divieto di sé. La sua casa design è senza colori e senza forme rotonde, l’ufficio è asettico in vetro e acciaio. La compagna d’ufficio riesce a spezzare questa spirale, ma scatena il conflitto che lo porta come conseguenza all’impotenza. La sorella Sissi (Carey Mulligan), bella e sexy, passa da una dipendenza affettiva all’altra, ma diventa l’elemento disturbante del sistema chiuso di Brandon, che pertanto la allontana, anche se entrambi avrebbero bisogno l’uno dell’altro, considerato il loro ambiguo rapporto ai limiti dell’incestuoso. Il trasformarsi di una dipendenza in patologia e perversione, non è una novità, vedi Bret Easton Ellis, e McQueen non ne coglie lati nascosti e neanche ombre periferiche, non ne dà cioè una lettura particolare. Sullo sfondo una New York elegante e disperata, scintillante e degradata. La poetica di McQueen consiste nell’accostamento di bellezza e brutalità: è questo il suo obiettivo, di questo le storie, gli eventi e i contorni sono gli strumenti. Il regista racconta dell’assenza di libertà, della prigione che l’uomo si costruisce, frutto di quell’eccesso che dà la falsa illusione di non avere catene. Luigi Silvi
137
NO ALLA GUERRA ANCHE DAI CAVALLI
WAR HORSE, STEVEN SPIELBERG
Ancora un film sulla guerra da parte di Steven Spielberg, principalmente dopo Schindler’s List (1993) e Salvate il soldato Ryan (1998), ma questa volta lo scenario è la Grande Guerra e, particolarità caratterizzante della pellicola, l’interprete è un cavallo inglese, Joey, di cui vengono narrate le traversie che lo portano a percorrere buona parte dell’Europa continentale falcidiata dalla guerra, sempre caparbiamente inseguito dal suo amato primo padrone Albert (il giovane e promettente Jeremy Irvine). Tratto dall’omonimo romanzo scritto da Michael Morpurgo nel 1982 (basato anche sulle testimonianze di alcuni veterani inglesi) e dall’omonimo conseguente adattamento teatrale del romanzo stesso (2007) ad opera di Nick Stafford, la pellicola ha ricevuto sei candidature ai premi Oscar 2012, senza vincere però alcuna statuetta. La storia narrata ha la base nella grande amicizia tra un giovane adolescente e il suo cavallo, destinata a superare anche le avversità e le brutture della guerra. Come ha sottolineato il regista: “Per la prima volta al cinema l’eroe non è sopra una sella ma sotto. E la storia è raccontata come la vede lui”. Molti sono i trasferimenti di padrone che il cavallo subirà e molte le persone a lui care che periranno, ma alla fine – non si dimentichi che Morpurgo è autore di libri per ragazzi, oltre cento! – l’happy end stile Hollywood ricompensa il cavallo (e il pubblico) delle tante avversità incontrate nel corso delle sue avventure. Può essere interessante concentrarsi sulla motivazione che ha spinto Morpurgo a scrivere il romanzo ispiratore del film. Lo scrittore inglese ha dedicato molti anni alle ricerche scrupolose sulla sorte dei milioni di cavalli impiegati durante il primo conflitto mondiale – in definitiva da considerare allo stesso tempo l’ultima guerra antica e la prima moderna – in battaglia, ma so-
prattutto come animali da traino e da carico: ben un milione è morto tra le fila degli inglesi, oltre dieci, secondo le proiezioni di Morpurgo, globalmente. Joey perciò è il suo personalissimo rispettoso omaggio al loro martirio, omaggio condiviso evidentemente anche da Spielberg, che può così affrontare per la prima volta uno scenario che lo ha interessato per molti anni, una guerra spaventosa e romantica insieme; il regista americano, come sua positiva abitudine, gestisce la vicenda intera con un immenso impegno tecnico e uno straordinario coinvolgimento emotivo. Elemento davvero fuori dal comune di questa produzione, la gestione dei protagonisti a quattro zampe. Va sottolineato che forse, ad oggi, soltanto un regista come Steven Spielberg possiede risorse economiche, ma anche genialità e attaccamento per un lavoro così poderoso, realizzato tutto e interamente in azione dal vivo. Nel film sono stati impiegati tre diversi trainer e la pellicola utilizza ben quattordici Joey. Purtroppo alla precisione tecnica non corrisponde un’altrettanto interessante e precisa sceneggiatura, dove sono risolte in termini spesso ingenui e semplicistici numerose svolte narrative, con il risultato che il peregrinare del povero Joey e addirittura il suo stesso personaggio cinematografico sono troppo spesso in assoluto poco credibili. War horse è pertanto una pellicola decisamente spettacolare, girata nei maestosi paesaggi del Devon (dove abita lo stesso Morpurgo), che senza dubbio affascina lo spettatore, coinvolgendolo a livello puramente emotivo, anche se il lungometraggio, come spesso accade nella filmografia di Spielberg, è una ferma condanna alla guerra, alla sue brutalità e disumanità.
Maria Pia Monteduro
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
138
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema COSTRETTE A DIVENTARE UOMINI PER SOPRAVVIVERE ALBERT NOBBS, Rodrigo Garcia
Albert Nobbs (Glenn Gloose)
La sceneggiatura è tratta dal racconto tardo ottocentesco per il teatro La strana vita di Albert Nobbs dell’irlandese George Moore. Glenn Close interpretò la riduzione teatrale in una produzione Off Broadway nel 1982: lo spettacolo le decretò un grande successo di critica. L’attrice ha tentato per anni di portare Nobbs sul grande schermo. Oggi ne è coproduttrice e sceneggiatrice, oltre che interprete. Irlanda del XIX secolo: Albert Nobbs è tra i migliori camerieri del Morrinson’s Hotel di Dublino. Egli si dedica esclusivamente alla propria professione e mette da parte tutti i guadagni per aprire in futuro una propria attività commerciale. Nobbs, figura controversa e drammatica, è una donna, costretta a fingersi uomo per sopravvivere. Abbandonata dai genitori, ha subito uno stupro di gruppo, è vissuta di stenti nella miseria, finché un giorno si traveste da uomo per lavorare nel servizio di una festa. La cosa funziona e lei continua. È la storia di una ragazza costretta a diventare uomo per non subire la violenza di un’epoca che considerava le donne, specialmente se sole, prede, di cui poter liberamente abusare senza restrizioni fisiche o pregiudizi morali di sorta. Dramma dell’identità sessuale, questione di fughe, schermi protettivi, rappresentazioni di meccanismi psicologici filtrati da altri schermi, dove il doppio è fondamento, il riprodotto l’effetto. Albert Nobbs segna delicatamente la questione di identità celate, riproponendola in chiave malinconica e allegorica. Alte le prove attoriali: da segnalare le guaches delicate della titolare dell’albergo e del vecchio cameriere. Glenn Close si piega al personaggio per riduzione, smorzando i toni, calandosi sommessamente nei panni del maggiordomo, costruendo un’interpretazione di gran lunga superiore alla media, quanto meno memorabile. La ricostruzione storica è precisa, la messa in scena elegante, accompagnata da momenti di fine umorismo. Il film funziona, fino a quando Nobbs comincia a costruire i piani per il proprio futuro: da lì il meccanismo s’inceppa, la sceneggiatura non risolve alcuni snodi chiave e si presentano problemi non marginali di messa a fuoco. La vicenda si attorciglia su se stessa, le storie dei singoli personaggi si intasano e non si risolvono con esiti credibili. Il finale è assolutamente evanescente, frettoloso e deludente, perché poco realistico ed eccesivamente alla ricerca di un’improbabile lieto fine. Luigi Silvi
139
RISCHIO DI APOLOGIA
A.C.A.B., STEFANO SOLLIMA Tre poliziotti ultraquarantenni militano in un reparto speciale mobile, che opera contro ultras, black bloc, No Tav. Il termine A.C.A.B. è l’acronimo di All Cops Are Bastards (tetti i poliziotti sono bastardi): il motto è nato tra gli skinheads inglesi negli anni ’60 ed è diventato richiamo universale alla guerriglia nelle città, nelle strade e negli stadi. Il film racconta la storia di manifestazioni e di eventi pubblici da un punto di osservazione inusitato e diverso: il casco e la visiera di un poliziotto. Tratto dal libro-inchiesta A.C.A.B. di Carlo Bovini, giornalista di La Repubblica, è un film duro e sporco, ben girato e ben interpretato, dalla sceneggiatura solida. Propone il disagio della violenza, non soltanto fisica, ma sociale, politica, etica. Si accolla la responsabilità di poter essere letto come inno apologetico, a tratti spettacolarmente compiaciuto, della violenza, del razzismo, del fascismo che vorrebbe condannare. Racconta, dal di dentro, la vita, il pensiero e le manganellate dei celerini. Violenza su cui ancora grava lo spettro del G8 di Genova, della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, e dei poliziotti uccisi allo stadio, o di quelli che sparano ai tifosi in autostrada, in un paese di donne violentate e uccise impunemente e di ultras che scatenano rivolte metropolitane. L’Italia viene sintetizzata nel territorio compresso e complesso di Roma: Italia inesistente, sepolta dalla rabbia, dall’ignoranza, dal disorientamento e dalla miseria, assolutamente non in grado di dare risposte concrete e realizzabili e speranze credibili. Italia che risponde alla propria assenza
con razzismo e violenza, aggrappandosi a ideologie vacue, che si delinea in una lotta intestina tra povertà, ignoranza, fascismi. Questo è il problema che pone Sollima, oltre al ritratto da dietro la visiera del casco di persone che fanno un lavoro sporco e difficile, ma purtroppo necessario. Dal punto di vista esclusivamente cinematografico, la pellicola è di alto valore e il ritratto di una società, ridotta ai livelli più infimi, è forte e significativo. Il rischio apologetico nasce da una contraddizione di fondo: l’adesione necessaria a personaggi anche negativi e mantra filofascisti e razzisti incessantemente pronunciati, che diventano implicite giustificazioni per i protagonisti del film e anche per i loro antagonisti. La situazione di estremo degrado sociale in cui i poliziotti sono costretti a operare, rischia di far leggere tutti gli eccessi e le deviazioni dalle norme come legittimi e inevitabili. A.C.A.B. porta in sé il rischio di essere frainteso in apologia della violenza, del razzismo e del fascismo, che in realtà vorrebbe condannare. I poliziotti hanno imparato a essere bersaglio, perché vivono nella violenza, specchio deformato di una società esausta, esasperata, conscia dell’inevitabile declino, e di un mondo governato da odio e sopraffazione, che ha perso le regole e che loro vogliono far rispettare anche usando la violenza. Il film latita perché riduce semplicisticamente i termini del problema a un mero scontro tra destre: quella di lotta (hooligans e skinheads) e quella di governo (celere). Luigi Silvi
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
140
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
SUPERARE L’HANDICAP METTENDOSI IN GIOCO
QUASI AMICI-INTOUCHABLES, OLIVIER NAKACHE e ERIC TOLEDANO
Driss (Omar Sy), Philippe (Francois Cluzet)
Un film in cui tutto è doppio e opposto. Ispirato a una storia vera, i due registi Olivier Nakache e Eric Toledano, al quarto lungometraggio girato assieme, raccontano di due persone che più diverse non potrebbero essere: Philippe (Francois Cluzet) è un colto aristocratico parigino che in seguito a un incidente con il parapendio rimane paralizzato dal collo in giù. Grazie alla sua forte disponibilità economica, intorno a lui domestici e fisioterapisti in abbondanza lo accudiscono nel palazzetto parigino ricolmo di opere d’arte di cui è proprietario. Alla selezione per il nuovo assistente si presenta Driss (Omar Sy), di origine magrebina, una famiglia alle spalle piuttosto numerosa e ancor più disagiata, vive in una banlieu, ha anche dei piccoli precedenti e un solo obiettivo: ottenere il rinnovo del sussidio. Ma per la legge dei doppi e opposti i due, incredibilmente si attraggono e si “scelgono” diventano più dei “quasi amici” del titolo italiano ma semplicemente intoccabili. Il ricco e aristocratico Philippe rinasce sotto la guida “verace” pur se brusca, a dir poco informale di Driss che, a sua volta, a mo’ di spugna assorbe la cultura che si respira in quelle stanze. Originale storia di amicizia, ove sicuramente si tratta anche di handicap. Ma è soprattutto una storia sull’umanità che si scopre andando oltre le apparenze. Tanto è ricco e
pieno di sé, in teoria, Philippe, tanto è alla mano e giocoso Driss. Ma, in realtà, perché un rapporto di coppia funzioni (amicizia, amore, soci d’affari), devono esserci questa opposte personalità che si attirano. Sta di fatto che il film sta bruciando ogni record d’incassi ed è diventato il secondo film francese più visto di tutti i tempi! Si parla già di remake italiano e americano per questo film dalla formula eterna di successo: far ridere e piangere insieme, senza tralasciare un omaggio ai buoni sentimenti. Molto è dovuto alla straordinaria bravura dei protagonisti, molto alla voglia del pubblico di immedesimarsi in storie dove ci sia sì l’happy end, ma non banale e scontato. Non c’è divario sociale, culturale, di colore della pelle che tenga, ci dicono gli autori, quando due persone intelligenti decidono di mettersi in gioco e reciprocamente fidarsi senza remore. Olivier Nakache e Eric Toledano raccontano che, terminato il film, hanno voluto che il vero Philippe fosse il primo a vederlo. Il ricco aristocratico, che da anni vive in Maroco, ha apprezzato la pellicola, perché ha saputo, con intelligenza e umorismo, trasmettere la speranza per ognuno di poter superare il proprio handicap, fisico o sociale che sia. E con tutto ciò il botteghino ringrazia... Maria Pia Monteduro
141
SUPERFICIALE QUALUNQUISTA
THE IRON LADY, PHYLLIDA LLOYD
Film biografico sulla Lady di ferro, come i russi avevano soprannominato la prima donna a risiedere al numero 10 di Downing Street. Apologetico, superficiale, conservatore, odioso, disonesto, parziale e partigiano, senza interpretazione e approfondimento politico. Margareth Thatcher, con spirito da suffragetta conservatrice, massacra la Gran Bretagna con una politica ferocemente liberista di tagli alla spesa pubblica, che provoca disoccupazione e recessione, fa l’elenco delle imposte come fosse la lista della spesa e impone tasse non perequative, cioè ogni cittadino, indipendentemente da quale fosse il suo reddito era costretto a pagare lo stesso importo. Dice no per principio a ogni tipo di compromesso, manda a morire la propria gente alle Falkland, mette in ginocchio il proprio paese. L’episodio delle Malvinas (Falkland) viene proposto in termini fortemente patriottici e nazionalistici e l’ottica sul problema dell’Ulster è esclusivamente filobritannica. Immola se stessa e la propria vita privata sull’altare della carriera politica. Il film gioca sull’alternanza tra passato e presente, sulla Thatcher ai momenti del massimo della gloria e oggi ammalata e priva di potere. Il punto di vista della pellicola è tutto interno alla protagonista, per sospendere ogni giudizio di tipo politico e storico: la Lady sembra lavata con dosi industriali di ammorbidente! Ne risulta un lavoro senza il necessario distacco cronachistico, che si trasforma in apologia e propone una visione e un giudizio esclusivamente unilaterale. Grande l’interpretazione di Meryl Streep, che continua a superare se stessa e si aggiudica l’ennesima statuetta. Dispiace che sia avvenuto per questo film, di cui lei è l’unico e il solo fattore positivo. È inutile dilungarsi più a lungo su questo episodio così basso, squallido e qualunquista, indegno del cinema inglese. Luigi Silvi
Margaret Thatcher (Meryl Streep)
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
142
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
ISTERIA DIAGNOSI-COPERTURA
HYSTERIA, TANYA WEXTER
Charlotte (Maggie Gyllenhaal)
A dispetto del tema provocatorio, trattasi di commedia romantica, che occhieggia alla satira, mantenendo una leggerezza che fa sorridere. Fine del XIX secolo, agli albori dell’elettricità. Il metodo scientifico deve ancora svilupparsi, si cura ancora con purghe e salassi, i medici non si lavano le mani, non cambiano le bende sporche per evitare il proliferare di germi che provocano infezioni; si sviluppa la diagnosi di isteria per definire un’eterogeneità di sintomi femminili: frigidità, ninfomania, ansia e melancolia e, nei casi più gravi si prescrive l’ignobile isterectomia che sarà abolita solo molti decenni dopo. Il giovane medico Mortimer Granville lavora nella Londra vittoriana, pudica e puritana, presso lo studio di uno specialista nel trattamento dei casi di isteria, convinto che la causa di tale malanno sia la repressione sessuale imperante in quell’epoca: cura “le isteriche” con una terapia scandalosamente efficace: il massaggio manuale nelle parti intime. Nel suo studio c’è sempre la fila. Un amico di Granville, appassionato di eletricità inventa un piumino elettrico per spolverare e Mortimer, in quel momento in grosse difficoltà perché, a causa di un fastidio al tendine della mano, non riesce a eseguire al meglio i massaggi; intravvede nell’oggetto realizzato dall’amico un’altra possibilità di applicazione: usarlo per curare l’isteria. Mortimer non si rende conto che il vibratore da lui inventato diverrà il più diffuso sex toy del secolo successivo. L’invenzione non fa scandalo perché all’epoca si credeva che la donna non potesse raggiungere l’orgasmo in assenza della penetrazione maschile. Granville riceve la percentuale sui diritti delle vendite del vibratore, che gli danno grande agiatezza e decide di finanziare l’Istituto per la riabiltazione dei poveri di Charlotte, figlia del vecchio medico, giovane ribelle e intransigente, intrisa di ideali sui diritti della donna, allora rigettati come pericolosi, e sceglie di collaborare con lei. Il film ironicamente si chiude con la notizia che anche la Regina Vittoria ha acquistato un vibratore. La regista torna dietro la macchina da presa dopo dieci anni di pausa, in cui ha avuto quattro figli, continuando a trattare temi atipici e originali. Definisce il plot del film una storia bizzarra, che mostra l’ignoranza degli uomini riguardo il corpo delle donne. Trattasi di film femminista, che ha come protagonista un uomo il quale trova se stesso grazie alle donne, non è un film di donne contro uomini, ma piuttosto sul progresso. Si analizza un periodo in cui le donne, private della loro libertà, venivano definite “isteriche”, mentre la soluzione era molto più semplice: come si dice nel film: bisogna divertirsi, l’isteria è un mito, è una diagnosi-copertura per mogli e casalinghe annoiate e insoddisfatte, bisognose di gratificazione, con le quali i mariti non fanno sesso, o, se lo fanno, non lo fanno abbastanza. Luigi Silvi
143
DISAGIO PER L’IDENTITÀ ROM
ADISA, OVVERO I MILLE ANNI DEL POPOLO ROM, MASSIMO D’ORZI
Viaggio tra le comunità Rom della Bosnia-Erzegovina per il primo lungometraggio del documentarista Massimo D’Orzi. Partito da Roma con la troupe e una guida-interprete Rom per documentare la vita dei Rom kaloperi di Bosnia, alla fine costruisce un film sulla storia di questo popolo. I Rom locali raccontano i propri costumi, le proprie tradizioni, la propria storia, i propri problemi. Nelle regioni montuose della Bosnia centrale vivono comunità Rom stanziali, che abitano in una casa, che guardano con diffidenza gli zingari dediti al nomadismo e non amano parlare la lingua romani. Tono soffuso, luci basse, ritmi lenti, musica ipnotica. Adisa, bambina Rom, racconta della sua vita e della sua visione del mondo. Interessante il confronto generazionale con la nonna. I Rom raramente hanno avuto l’occasione di raccontarsi in prima persona, se si esclude Woody
Allen con Io e la mia famiglia Rom. L’ultima parte del film è senza parole, solo sguardi e musica di fisarmonica. Gioco sottile di primi piani e chiaroscuri, mentre Adisa restituisce storia, cultura, bellezza di un popolo, in un rapporto immediato, spontaneo e diretto per un viaggio nello spazio e nel tempo, un trittico con tre favole, due laterali e una centrale. Ombre, luci, colori, ritratti caravaggeschi per narrare una storia. Storia differente dalle idee e dai luoghi comuni: disagio per l’identità del popolo Rom e per i sottogruppi dediti al nomadismo e al brigantaggio. Le famiglie kaloperi raccontano delle loro posizioni favorevoli alla pace e sostengono di essere antitradizionali. Di grande interesse, il film di D’Orzi che fa luce e diffonde notizie non note ai più sul popolo dei Rom. Luigi Silvi
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
144
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema VITTORIO DE SETA. DIARI DI UN MAESTRO DI CINEMA
Roma ha ricordato con una bellissima rassegna il regista siciliano recentemente scomparso Vittorio De Seta. Una manifestazione che ha visto le varie proiezioni dei lavori più importanti di questo straordinario autore coinvolgere l’intera città. I diversi appuntamenti infatti si sono tenuti in varie sale cinematografiche, sale d’essai, cineclub, aule universitarie e scolastiche tra centro e periferia per raggiungere un pubblico il più possibile vasto ed eterogeneo, per far conoscere, seppur in netto ritardo, un uomo che ha dato tanto alla storia del documentario italiano, un genere fin troppo trascurato nel nostro paese e spesso, assolutamente a torto, considerato inferiore rispetto al cinema di fiction. Per capire il contesto in cui nascono le opere di De Seta, si deve risalire al documentario etnografico che utilizza il mezzo cinematografico come strumento di indagine. A partire dagli anni Cinquanta infatti, l’antropologo Ernesto De Martino produrrà una serie di documenti filmati volti a verificare quanto teorizzato nei suoi scritti. Alcuni di questi furono girati per conto della RAI allo scopo di raccogliere e registrare canti popolari insieme al musicologo Diego Carpitella. De Martino voleva realizzare una vera e propria “enciclopedia cinematografica” di cui il documentario Lamento funebre di Michel Gandin doveva essere la prima voce. Tutta la produzione successiva sarà inevitabilmente influenzata da queste spedizioni scientifiche ma anche dal Neorealismo e più in particolare da Cesare Zavattini e la sua “tecnica del pedinamento”. Quindi una ricerca del realismo nella sua forma più estrema, ma mentre il cinema di fiction tende di più a descrivere la vita nelle città e nelle periferie e a raccontare il dopoguerra in questi luoghi, il documentario, soprattutto sulla scia degli studi antropologici, si sposta di più verso le campagne dove non arriva il boom economico e i contadini vivono in condizioni di forti ristrettezze economiche. Gli autori più interessanti da questo punto di vista sono sicuramente Luigi Di Gianni che nel 1958 gira Magia Lucana, Lino Del Fra, e Gianfranco Mingozzi noto soprattutto per La taranta del 1961. Ma anche Carlo Lizzani ad esempio con 1949 Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1949), verrà culturalmente influenzato da Sud e magia di Ernesto De Martino e dalle prime inchieste sociologiche, questo suo lavoro si inserirà nel filone documentario che esplora in profondità le aree più sconosciute e depresse dell’Italia, così come i lavori de Il mondo perduto di Vittorio De Seta del 1954-55. La retrospettiva-omaggio romana si è aperta con quattro documentari di questi anni: Isole di fuoco
“Contadini del mare”, 1955
(1954), ambientato nelle Eolie e premiato come miglior documentario al Festival di Cannes del 1955, Contadini del mare e Lu tempo de li pisci spada (1955), Pastori a Orgosolo (1958), quest’ultimo vincitore del premio quale migliore opera prima alla XXII Mostra del cinema di Venezia nel 1961. Sono questi sicuramente a rivelare subito la straordinarietà dell’autore e la poesia che avvolge la sua descrizione della realtà. Il suono in presa diretta e la mancanza di uno speaker onnisciente e onnipresente a volte denota un rispetto quasi sacro per la vita che si svolge, ne Lu tempo de li pisci spada ad esempio la didascalia di apertura sottolinea che “i canti, le voci, gli effetti sonori sono stati registrati interamente sul luogo e dal vero”, e De Seta è sicuramente un precursore. Il film descrive appunto la pesca al pesce spada che va a deporre le sue uova nello stretto di Messina ed è qui che i pescatori lo aspettano; un uomo di vedetta sulla barca segnala l’arrivo della preda con fare concitato e tutti gli altri pescatori ne seguono le direttive. La sera al villaggio si festeggia con canti e balli. Il regista palermitano ha dato sicuramente il meglio di sé con le tematiche che riguardano la sua terra di origine: anche in Contadini del mare infatti la descrizione della tonnara di Granitola in Sicilia con il mare che si tinge di rosso, precedendo quello del tramonto, quando le barche dei pescatori si allontanano è di una bellezza quasi aulica pur nella crudeltà dell’azione. Ma De Seta dimostra di aver capito le potenzialità che offriva la televisione pubblica. Girerà infatti nel 1973 il film a cui si ispira il titolo alla rassegna Diario di un maestro, che racconta il duro e paziente lavoro di un maestro di scuola elementare arrivato dal sud per prendere servizio in una scuola della periferia romana di Pietralata. La storia di un maestro entusiasta che non si limita a svolgere il proprio ruolo di funzionario pubblico all’interno delle mura di un istituto scolastico fatiscente dal quale i suoi colleghi non vedono l’ora di scappare. Lo si vede inoltrarsi in quartieri degradati per andare a recuperare ragazzi difficili andandoli a pescare nelle baracche, nei mercati, nelle carrozzerie cercando di convincere loro e i loro genitori dell’importanza di una istruzione, seppure minima. Il film venne mandato in onda in quattro puntate ed ebbe un grosso successo di pubblico, tanto che se ne fece anche una versione ridotta per il cinema. Chissà cosa direbbe il Maestro, sapendo che in quegli stessi luoghi, nel 2012, la dispersione scolastica è ancora altissima! Palmira Di Marco
“Lu tempo de li pisci spada”, 1955 VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
145
Cinema
146
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
UN VOLTO DURO CON UN GRANDE SORRISO
IN MEMORIA DI BEN GAZZARA
Ben Gazzara e Anna Magnani in “Risate di gioia” di Mario Monicelli (1960)
Lutto nel mondo del cinema: si è spento a 81 anni, per un cancro al pancreas, Ben Gazzara, l’attore newyorkese, di chiare origini italiane (i genitori provenivano entrambi dalla provincia di Agrigento). Nato in un quartiere “difficile” della Grande Mela, Ben Gazzara (Biagio Anthony Gazzara) trova, fin da ragazzo, un valido punto di riferimento per la sua crescita personale in una delle tante scuole di teatro attive nella città e così sceglie di fare l’attore. Dal 1951 frequenta l’Actors’ Studio e da lì ha inizio la sua carriera. Dapprima a teatro, a Broadway, dove recita anche nell’edizione storica di La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams diretto da Elia Kazan. Passa poi al grande schermo nel 1957 con Un uomo sbagliato di Jack Garfein, cui segue uno tra i suoi lavori più impegnativi Anatomia di un omicidio (1959) di Otto Preminger. La carriera di Gazzara sarà costellata da collaborazioni preferenziali con alcuni registi: in primis John Cassavetes – che lo dirige in Mariti (1970), L’assassinio di un allibratore cinese (1976) e La sera della prima (1977) – e da Peter Bogdanovich che lo volle in Saint Jack (1979), e in …e tutti risero (1981). Gazzara ha lavorato intensamente anche in Italia negli anni ’80, con i registi Marco Ferreri (Storie di ordinaria follia, 1981), Pasquale festa Campanile (La ragazza di Trieste, 1982 e Uno scandalo perbene, 1984), Valentino Orsini (Figlio mio, infinitamente caro, 1985), Alberto Bevilacqua (La donna delle meraviglie, 1985), Giuseppe Tornatore (Il camorrista, 1985), Giuliano Montaldo (Il giorno prima, 1987); ma nel Bel Paese aveva già recitato parecchi anni prima, diretto da Mario Mo-
nicelli, in Risate di gioia (1960) con le due icone Anna Magnani e Totò. Rientrato negli States, trovò una certa difficoltà a ottenere ruoli intelligenti e adatti alla sua espressione da duro, capace però di illuminare la scena con un sorriso timido ma comunicativo. Altrimenti non sarebbe stato possibile immaginarlo come efficacissimo interprete del Don Bosco di Leandro Castellani (1988), che rimane una delle più incisive interpretazioni della figura del Santo dei ragazzi. Nel 1990 Gazzara si cimenta ditetro la macchina da presa, dirigendo in Italia il film Oltre l’oceano. Ricordiamo due grandi ruoli: in Il camorrista di Tornatore, dove interpreta egregiamente Raffaele Cutolo e in Il grande Lebowski (1998) dove i fratelli Ethan e Joel Coen riescono a ritagliargli un interessante cameo con il personaggio di Jackie Treehorn. Gli ultimi anni della sua lunga carriera sono proprio tempestati da interpretazioni non da protagonista, ma da caratterista profondo e preciso: Buffalo ‘66 (1998) di Vincent Gallo, Illuminata (1998) di John Turturro, Dogville (2003) di Lars von Trier. L’attore ha lavorato fino alla fine, non solo con apparizioni in pellicole di livello, come è evidente dalla sua lunghissima filmografia, ma partecipando anche a produzioni televisive, sia americane che straniere. Ben Gazzara sarà ricordato per la sua capacità di immedesimazione totale nel personaggio, frutto della sua formazione attoriale, ma anche per il suo sorriso che illuminava con il sole del Mediterraneo un volto, scuro e sinistro, da duro di New York. Maria Pia Monteduro
147
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
Ben Gazzara in “L’assassino di un allibratore cinese” di John Cassavetes (1976)
Ben Gazzara in “La sera della prima” di John Cassavetes (1977)
148
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
ANGELOPULOS AEDO MODERNO IN MEMORIA DI THEODOROS ANGELOPULOS Theodoros Angelopulos, nato ad Atene il 17 aprile 1935, studia giurisprudenza nella capitale greca e dopo il servizio militare si trasferìsce a Parigi per studiare letteratura alla Sorbonne, successivamente si iscrive ai corsi di cinema dell’IDHEC (Institut des Hautes Études Cinématographiques). Rientrato in patria, lavora come critico cinematografico. Dopo il colpo di stato militare del 1967 il giornale con cui collabora è costretto a chiudere e Angelopulos rimane senza lavoro. Nel 1968 lascia il paese schiacciato dalla dittatura ed esula a Parigi Theodoros Angelopulos dove realizza il cortometraggio La trasmissione e due anni dopo dirige il suo primo lungo il thriller Ricostruzione di un delitto, quasi una trasposizione del mito degli Atridi nel regime fascista greco decrive la violenza sociale, retroterra e innesco dell’esplosione della violenza individuale. Nel 1972 gira I giorni del ’36, descrive le avvisaglie della dittatura e la nascita del fascismo come risultato di silenzi, favorita dalla corruzione della classe dirigente e dall’involuzione reazionaria della democrazia borghese, primo capitolo della trilogia sulla storia greca dal 1930 al 1970, cui seguiranno La recita (1975), manifesto politico del cinema greco ed europeo, film decisamente storico, inteso come interpretazione e restituzione critica dei fatti, dei meccanismi politici e delle aberrazioni ideologiche e di quelle del potere; come nell’Orestea, la ybris, la violenza e la tracotanza degli uomini offendono e calpestano le sacre leggi civili e umane; film atemporale, perché il punto di vista non è quello della narrazione, ma quello della memoria collettiva, che non distingue nettamente le collocazioni cronolo-
“La recita” (1975)
giche. Segue I cacciatori (1977) che ottiene l’Orso d’Oro a Berlino: film dal coraggioso impegno politico per la denuncia delle avvisaglie della dittatura militare e fascista in Grecia e degli abusi compiuti dai vari governi avvicendatisi nel suo paese. Dopo la caduta di Alessandro il Grande (1980) rientra in patria. I film successivi segnano lo spostamento verso una tematica più esistenziale e l’accentuarsi della metaforicità del racconto. Nel 1984 gira il documentario Viaggio a Cyteria, poi Il volo (1986) con Marcello Mastroianni; realizza Paesaggio nella nebbia (1988) che si aggiudica a Venezia il Leone d’Argento. La collaborazione con Tonino Guerra, co-sceneggiatore di Il volo e Paesaggio nella nebbia, continua con Il passo sospeso della cicogna (1991) e Lo sguardo di Ulisse (1995). Angelopulos sigla il suo capolavoro con Il passo sospeso della cicogna, con Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni, che interpreta un poeta esule. Ne Lo sguardo di Ulisse, sulla guerra nell’ex-Jugoslavia, il regista impiega citazioni da Griffith, Dottor Mabuse, Persona di Ingmar Bergman, Falstaff di Orson Welles, Metropolis di Fritz Lang e i poster della Garbo (La regina Cristina) e della Monroe (Niagara). Nel 1998 la giuria di Cannes gli assegna la Palma d’oro per L’eternità e un giorno con Bruno Ganz. La sorgente del fiume è l’incipit di un nuovo percorso nella storia del proprio paese, anche questo organizzato in trilogia. Il primo racconta l’entrata dell’Armata Rossa a Odessa nel 1921 e la guerra civile del 1940. Angelopulos è grande nella concezione e nell’esecuzione; il suo cinema appartiene a quell’ordine di grandezza che comprende compiutezza formale e spessore culturale, vale a dire il bello e il vero. I suoi film sono complessi e semplici al contempo e, assieme a quelli di Alexis Damianos, di Michael Cacoyannis e dei fratelli Manakis, sono tra i più rappresentativi della condizione del popolo greco dall’inizio del XX secolo fino ai suoi giorni. Angelopulos ricostruisce l’esplosione della violenza sullo sfondo di una provincia greca avvilita e degradata; rivisita il mito degli Atridi, rendendo possibili riferimenti polemici all’attualità. Muore al Pireo nel gennaio del 2012, investito da una motocicletta. Luigi Silvi
149
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
Isabelle Renauld in “L’eternità e un giorno” (1998)
“La sorgente del fiume” (2004)
150
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
UN’ITALIA GRIGIA DA ABBANDONARE
ATLANTE DEL CINEMA ITALIANO. CORPI, PAESAGGI, FIGURE DEL CONTEMPORANEO. A cura di Gianni Canova e Luisella Farinotti. Garzanti, pag. 396, € 28 Il presente saggio, puntuale e circostanziato, analizza le città e i territori, location di cinema nel decennio testé trascorso. Si evince da questo che, a far la parte del leone, sono le due grandi metropoli: Roma prima, Milano poi, seguite da alcune grandi città – Bologna, Bari, Napoli, Venezia – e da alcuni capoluoghi di provincia, in particolare Genova, Padova, Trieste, Palermo e poche altre: a queste si aggiungono alcuni territori precisi: il Nord Est, il Sud Est e la Toscana. Sporadiche le apparizioni di Abruzzo e Marche, quasi completamente assenti le alte regioni, se si esclude il Lazio per la vicinanza a Roma, unico grande centro di produzione in Italia. Nella gran parte delle opere, il rapporto con il territorio è asettico. Gli esterni delle grandi città hanno due funzioni: sipari tra un interno e un altro, o trasferimento tra una periferia e l’altra lungo le sempre più a-umane tangenziali intasate, oppure quella di cartolina, spesso oleografica e scontata delle immagini più tradizionali del turismo di massa, per ricambiare le film commission locali dei servizi a basso costo. Per le città e paesi minori essi esterni assumono solo funzione esclusivamente di sosta logistica e/o turistica nei trasferimenti. Nei casi in cui l’autore riesce a instaurare un rapporto e un dialogo con il territorio, l’ambiente e il paesaggio, ne esce una situazione devastante e di generale degrado, segno di un’Italia abbattuta e senza speranza, su una via di inesorabile declino, in una serie di andirivieni insoddisfatti per un generale senso dell’allontanamento e del rifiuto, oltre che dell’inaccettabilità e del rifiuto della cittadinanza. Si fugge dalla provincia asfittica o collusa, quanto meno per inerzia e apatia, con la malavita nel sud, o per l’invivibilità delle metropoli. Ma si fugge anche dall’ipocrisia che cela mali orribili e inconfessabili della provincia. I paesi di montagna e di campagna diventano l’acritico luogo del ritorno alla natura, alle origini, alle radici, dove questo è ancora possibile, dove il malaffare e la smania di guadagni facili e illeciti non abbiano ormai distrutto il territorio, sia dal punto vista ambientale che da quello antropologico. La penisola insomma è pervasa da un grande e generale grigiore, da un’insoddisfazione ormai perenne, da una mancanza identitaria, e da un profondo ribollire esistenziale che ha due sole risposte: la fuga quando possibile, o l’apatia fatalista e l’abbandono al nulla e alla noia. La crisi dell’uomo moderno ha raggiunto il suo apice e il suo punto di non ritorno. Luigi Silvi
Basilicata coast to coast
151
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
Cinema
Gomorra
Mi piace lavorare - Mobbing
Signorinaeffe
152
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
DARWINISMO SOCIALE NAZISTA
“IN MEMORIAM” AKTION T4-LO
Sonnenstein.
Castello di Hartheim.
STERMINIO NAZISTA DI PERSONE CON DISABILITÀ ,
Casa della Memoria e della Storia
Si è parlato di olocausto, dello sterminio degli oppositori, di quello dei rom e dei sinti e di altre etnie, di quello di omo- e transessuali. Solo da qualche anno, grazie alle ricerche d’archivio e al generoso interessamento del professor Michael von Cranach, emerge ancora una volta la ferocia e la barbarie dei nazisti nella distruzione di qualunque presenza da loro ritenuta “diversa”. Lo studioso ha organizzato una grande mostra per pannelli e l’ha donata a un’Onlus per far conoscere anche questa orribile pagina della barbarie e dell’inciviltà dei nazisti. Tale mostra affronta le pratiche di uccisione scientifica di massa delle persone affette da qualunque tipo di disabilità. Dal 1939 al 1945 viene organizzata la soppressione scientifica di tutti i più deboli, quelli che non rientravano nei parametri di perfezione e di produttività elaborati da scienziati ed economisti nazisti. Il dibattito sull’eutanasia era da tempo diffuso in Germania: porre fine deliberatamente con una morte non dolorosa alla vita di un paziente per evitare nel caso di malattie incurabili sofferenze prolungate nel tempo e lunghe agonie. Si può ottenere con la sospensione del trattamento medico che mantiene ufficialmente in vita il paziente (eutanasia passiva), o con la somministrazione di farmaci atti ad affrettare e procurare la morte (eutanasia attiva); è volontaria se richiesta e autorizzata dal paziente. Durante la Prima Guerra Mondiale negli istituti di cura tedeschi vi fu un impressionante aumento di decessi di malati cronici. Probabilmente la scarsità di cibo dovuta alle vicende belliche spinse i medici ad affrettare la morte delle “bocche inutili”. Si creò così indifferenza verso la morte degli inguaribili. E si sviluppò la teoria dell’eutanasia di Stato. Nel 1920 fu pubblicato il saggio “scientifico” L’autorizzazione all’eliminazione delle vite non più degne di essere vissute. Nel testo in questione si sviluppa il concetto di eutanasia sociale: l’incurabile era considerato portatore di sofferenze personali, ma anche sociali, quelle dei parenti, ed economiche, sottraendo risorse più utili alle persone sane. La motivazione economica da sola si rivela insufficiente per la soppressione delle “vite indegne di essere vissute”. Il nazionalsocialismo completa le teorie economiche con il progetto razziale. Hitler teorizzava la necessità di proteggere la razza ariana germanica da tutti i fattori di “corruzione”, che avrebbero potuto indebolirla. I nazisti prevedevano un progetto di eugenetica per il miglioramento della razza germanica, coltivando i caratteri ereditari favorevoli “eugenici” e impedendo lo sviluppo di quelli sfavorevoli “disgenici”. In questo progetto eugenetico non c’era spazio per malati incurabili e disabili fisici e mentali, che costituivano una minaccia per l’economia tedesca e un rischio di degenerazione per la razza. Per evitare tali rischi, l’unica soluzione era l’esclusione di queste persone dal processo riproduttivo. Il primo passo è la Legge sulla Prevenzione delle nascite di persone affette da malattie ereditarie (25 luglio 1933), cui nel 1935 fa seguito una seconda legge per “la salvaguardia della salute ereditaria del popolo tedesco”, che autorizzava l’aborto nel caso uno dei genitori fosse affetto da malattia ereditaria. La legge del 1933 autorizzava la sterilizzazione forzata delle persone ritenute portatrici di malattie ereditarie o supposte tali: schizofrenia, epilessia, cecità, sordità, deficienza mentale e prevedeva anche la sterilizzazione degli alcoolisti cronici. La legge fu applicata da Tribunali per la sanità ereditaria, che esaminavano i pazienti nelle case di cura, negli istituti psichiatrici, nelle prigioni, nella scuole per disabili, al fine di stabilire chi doveva essere sterilizzato. I responsabili degli istituti, medici, direttori, insegnanti, avevano l’obbligo di riferire ai funzionari dei tribunali i nomi di chi rientrava nella categorie da sottoporre a sterilizzazione. Vennero sterilizzate anche le prostitute e Martin Bormann firmò una
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
153
Miscellanea
154
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
Magazzino di urne cinerarie nella clinica di eliminazione di Meseritz-Obrawalde.
Il villino di Tiergartenstrasse 4.
direttiva che comprendeva tra le diagnosi di debolezza mentale anche il comportamento politico-morale del soggetto, invitando a soprassedere nel caso di appartenenti al partito nazionalsocialista. Il fine era palesemente quello di colpire gli oppositori. Hitler istituì il Comitato del Reich per il Rilevamento Scientifico di malattie ereditarie e congenite gravi, Il Ministero degli Interni ordinò che medici e ostetriche riferissero di tutti i bambini nati con malformazioni per procedere all’eutanasia. In particolare quelli affetti da idiozia, sindrome di Down, cecità, sordità, macrocefalia, idrocefalia, malformazioni agli arti, alla testa e alla colonna vertebrale e da condizioni spastiche. Successivamente il programma fu ampliato ai border line, ai delinquenti giovanili, ai bambini ebrei e a quelli di sangue misto ebraico-iraniano. Dal 1939 il programma fu esteso anche alla popolazione adulta con la creazione del Registro Nazionale di tutte le persone affette da malattie mentali e disabilità fisiche. Presso gli ospedali e le case di cura furono istituiti ventidue reparti infantili, ufficialmente per cure specialistiche, ma che avevano invece la funzione di eliminare tutti i bambini sotto i tre anni affetti da malattie ereditarie incurabìli. Venne creata la Direzione Sanitaria del Reich, subordinata al Ministero degli Interni. Ogni provincia venne dotata di un “Ufficio del Partito per la Politica Razziale”. La Direzione Sanitaria del Reich costituì cinquecento Centri di Consulenza per la protezione del patrimonio genetico della razza. Dal 1933 i fondi destinati agli istituti psichiatrici vennero drasticamente ridotti. La storia di T4 è la storia anche del punto di vista burocratico della prova generale dell’Olocausto. Lo sterminio di quelle che la fredda scientificità nazista, al servizio del capitale definiva “vite indegne di essere vissute” inizia il suo tragico percorso nell’agosto del 1939 con la lettera del Führer che autorizza la concessione di una morte pietosa ai pazienti considerati incurabili. Il programma “eutanasia” fu realizzato con la solita determinazione industriale, con procedure meticolose e controllate e la costruzione di apparecchiature di tecnologia innovativa. Il programma nazista di eutanasia eugenetica e di igiene razziale, noto come Aktion T4 (dove T4 è l’abbreviazione di Tiergartenstrasse, nell’elegante quartiere residenziale di Charlottenburg a Berlino dove aveva sede l’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale, in un villino confiscato a un ebreo. La designazione Aktion T4 non è nei documenti del tempo. I nazisti utilizzavano il nome in codice eu-Aktion o e-Aktion, dove eu ed e stanno per eutanasia. Programma di Eutanasia fu il nome usato al processo di Norimberga. Il programma mirava a diminuire le spese statali derivanti da cure e mantenimento nelle strutture ospedaliere dei pazienti affetti da disabilità. Quando gli istituti medici e psichiatrici si trovarono in difficoltà per il taglio degli stanziamenti, si verificarono situazioni di sovraffollamento e di degrado nel trattamento dei pazienti. A questo punto si fece strada l’eugenetica quale darwinismo sociale. Hitler aveva una violenta repulsione per l’handicap mentale e la deformità fisica, definiva i disabili “coloro che si insudiciano di continuo” e che “mettono i loro stessi escrementi in bocca”. Per Hitler e per gli altri gerarchi nazisti la necessità di ”ripulire” la razza tedesca dai subumani era fondamentale. Sempre Hitler sosteneva: “chi non è sano e degno di corpo e di spirito, non ha diritto di perpetuare le sue sofferenze nel corpo del suo bambino”. Aktion T4 è un’operazione segreta pianificata dal ’39 nei particolari più minimi: i pazienti portatori di patologie e menomazioni fisiche, mentali e sensoriali, considerati non produttivi venivano censiti negli ospedali e successivamente concentrati in edifici appartati: ex-penitenziari, cliniche, ospedali psichiatrici, riconvertiti per essere uccisi. Gli ingegneri e tecnici del Reich allestirono qui le prime camere a gas con il monossido di carbonio e predisposero i crematori. I soggetti da eliminare venivano trasferiti in queste sedi senza l’autorizzazione dei familiari, che ricevevano un certificato di
155
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
Cimitero della clinica di eliminazione Hademar.
Pulmann della Società di Pubblica Utilità per trasporto ammalati, che trasferiva i malati incurabili nelle cliniche di eliminazione.
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
156
Miscellanea
157
morte per cause naturali, assieme alla comunicazione che la cremazione del cadavere era già stata effettuata onde evitare epidemie. Durante la prima fase dell’Aktion T4, un anno e mezzo, furono sterminate 70.274 persone, per proseguire poi come “eutanasia selvaggia”. Medici e infermieri uccidevano i disabili con preparati letali o lasciandoli morire d’inedia per poi gettarne i corpi in fosse comuni. Il bilancio definitivo è di 250.000 persone uccise, tra cui 5.000 bambini. La Direzione Sanitaria del Reich iniziò l’eliminazione dei bambini fisicamente o psichicamente disabili; venne creata la Commissione per le Malattie Genetiche Ereditarie, organizzata in Centro di Consulenza per la Protezione del Patrimonio Genetico della Razza; tali centri sono stati denominati “consultori della morte”. I medici di questi centri dovevano essere obbligatoriamente informati da ospedali e ostetriche della nascita di bambini deformi o affetti da malattie fisiche o psichiche gravi. Le salme di bambini uccisi venivano sezionate a scopo scientifico; venivano uccisi anche i bambini ebrei, sani o malati che fossero, e anche quelli tedeschi disadattati. A dare inizio all’eutanasia fu un ordine scritto di Hitler il 1° settembre 1939 “estendere le competenze dei medici autorizzandoli a concedere la morte per grazia ai malati considerati incurabili”. La definizione “malati incurabili” è estremamente larga e dava, di fatto, carta bianca ai medici. Hitler sosteneva che era giusto “porre fine all’inutile esistenza di tali creature e che questa soluzione avrebbe consentito di realizzare un risparmio di spesa per ospedali, medici, personale”. La chiesa sia cattolica che protestante si oppose alla pratica dell’eutanasia: in particolare l’Arcivescovo di Münster Clemens August von Galen pronunciò il 3 agosto 1941 una durissima omelia, con una pesante condanna dell’eutanasia dal punto di vista teorico e denunciò lo Stato come autore delle uccisioni. A questo punto T4 fu sospesa e sostituita da “eutanasia selvaggia”, in codice Aktion 14F13. Fu istituita una commissione che ispezionava i campi di concentramento e selezionava i non adatti al lavoro che dovevano essere inviati nelle cliniche di eliminazione per essere gasati. Il programma di eutanasia nei confronti dei bambini disabili venne attuato utilizzando iniezioni di scopolamina, morfina e barbiturici. L’enorme quantità di questi medicinali veniva acquistata segretamente e fornita ai centri dalle SS. Dall’eutanasia degli adulti nacquero le tecniche dello sterminio di massa: le camere a gas e i forni crematori, sperimentati per la prima volta nel 1940. Sempre da quella volta le camere a gas furono camuffate da docce. L’Aktion T4 e l’Aktion 14F13 furono la palestra in cui si formarono e allenarono i carnefici che avrebbero poi realizzato il massacro nei campi. Si è di fronte a un’ideologia malata, negatrice dell’uomo, freddamente al servizio del capitale, della produzione e del profitto: quanto esulava da questo, esseri umani inclusi, doveva tassativamente essere eliminato sull’altare di Mammona. Nessuna pietà in particolare per i deboli, per gli indifesi, per i diversi di ogni genere e per chi non era disposto a utilizzare gli stessi metodi degli aguzzini per difendersi o che addirittura a essi si opponeva. La storia, il mondo, la comunità internazionale hanno condannato tutto questo, ma attenzione! non bisogna mai smettere di vigilare: la bestia non è morta, dorme, il monito di Bertolt Brecht. Lo sfruttamento dei più deboli ai fini della produzione e dell’arricchimento di pochi è ancora diffusissimo nelle forme più subdole e più crudeli. Anche il civilissimo occidente cede parzialmente a tentazioni in questo senso sull’altare della competitività. Non bisogna dimenticare, non bisogna accettare nessun cedimento. La vita umana è sopra ogni cosa e tutto dev’essere esclusivamente in funzione dell’uomo non di profitto, ideologia o quant’altro. Il resto è solo prodromo di un nuovo nazismo. Ogni piccolo cedimento, all’apparenza non grave, apre sempre le porte al peggio e agli esiti finali più tragici. Luigi Silvi
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
Arcivescovo di Münster Clemens August von Galen.
Emmi giovane internata in una clinica di eliminazione.
158
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
COME DIVIDEVANO L’EREDITA I BENESTANTI
TESTAMENTI DI GRANDI ITALIANI. IO
QUI SOTTOSCRITTO ,
La mostra, organizzata dal Consiglio Nazionale del Notariato, propone all’attenzione del pubblico i testamenti di grandi italiani dopo l’unità. Tra essi letterati, cantanti lirici, musicisti, scienziati, uomini di teatro -autori e attori-, industriali, pontefici, generali, politici. Stranamente su venticinque solo quattro politici, considerabili tra l’altro super partes e padri della patria, solo due donne e un solo scienziato, chissà perché non c’è Enrico Fermi; mancano completamente attori e registi cinematografici, attori teatrali propriamente detti, Ettore Petrolini è un cabarettista, e nessun pittore o scultore e non è che in queste arti l’Italia in questi 150 anni non abbia espresso eccellenze: si pensi a Federico Fellini, a Giorgio Strehler o a Lucio Fontana e tra i direttori d’orchestra, altri grandi assenti, ad Arturo Toscanini e a Victor de Sabata. D’altra parte, assai stranamente, i curatori nei saggi in catalogo non spiegano le motivazioni e i criteri che hanno portato alle scelte. Risulta strana e tremendamente asettica questa selezione, ma tant’è. Si propongono i testamenti come uno degli strumenti di lettura della storia, ma, pur leggendoli con attenzione, se si escludono i pochi che contengono anche il cosiddetto politico o civile, e le disposizioni per i riti funebri, si ricavano notizie meramente biografiche spesso marginali. Alessandro Manzoni ripartisce dettagliatamente e minuziosamente i suoi averi ai singoli eredi. Giuseppe Gioacchino Belli impartisce disposizioni sui suoi funerali che devono essere assolutamente senza pompa e nella forma riservata ai poveri. Anche Giuseppe Garibaldi distribuisce minuziosamente i suoi averi e impartisce disposizioni dettagliate sulla sua sepoltura; nel testamento politico traccia le linee e le ragioni fondamentali del suo impegno per una vita intera. Camillo Benso Conte di Cavour dispone come altri minuziosamente la divisione dei propri beni. Altrettanto fa Giuseppe Verdi, aggiungendo disposizioni per un funerale meno eclatante e meno pubblico possibile. Il testamento di Giuseppe Zanardelli, come la maggior parte di quelli presenti in mostra, elenca minuziosamente i destinatari della sua eredità. Anche Giovanni Verga distribuisce con meticolosità agli eredi i propri averi. Anche Antonio Fogazzaro divide l’eredità tra figli e nipoti. Altrettanto fa Edoardo Scarpetta. Giovanni Pascoli lascia tutti suoi averi alla sorella. Gabriele D’Annunzio scrive che tutto quello che lo riguarda, compresi diritti d’autoe e scritti inediti, rimanga all’interno e in funzione del Vittoriale degli italiani. Giovanni Agnelli senior divide puntigliosamente l’eredità anche per quello che concerne donazioni e fondazioni. Luigi Pirandello chiede anch’egli funerali di massima semplicità e con la minor pubblicità possibile. Guglielmo Marconi, divide il proprio patrimonio tra gli eredi più stretti. Enrico De Nicola chiede di non essere mai commemorato in nessun luogo e in nessuna occasione. Alcide De Gasperi lascia, in pochissime righe, tutti i suoi averi alla moglie Francesca. Di alto interesse e levatura morale il testamento spirituale di Giovanni XXIII, per altro universalmente noto e più volte pubblicato, Ettore Petrolini lascia tutto ai figli. Di alta tensione cristiana il testamento spirituale di Paolo VI, anch’esso già noto. Enzo Ferrari in una riga di testamento lascia suo erede universale il figlio, Giorgio Ambrosoli lascia alla moglie uno splendido testamento spirituale in cui riassume il suo impegno per la correttezza, l’onesta e la deontologia professionale a qualunque costo, per lui la vita. Lina Cavalieri chiede di essere sepolta vicno ai genitori, e Grazia Deledda divide equamente tra i figli i propri beni, lasciandone una piccola parte a una nipote. Enrico Caruso lascia alla moglie quanto le spetta in termini legali, e divide il resto tra il fratello e i due figli. L’interesse della mostra consiste esclusivamente per leggere il metodo di divisione delle eredità in ambienti benestanti nelle diverse epoche. Luigi Silvi
Archivio Storico Capitolino
Luigi Pirandello
Gabriele D’Annunzio
159 VESPERTILLA - Anno VII n째 1 gennaio/febbraio 2010
Miscellanea ???????
Alcide De Gasperi
Paolo VI
Enrico De Nciola
Giorgio Ambrosoli
160
Miscellanea
Anonimo, Panorama Italiano, Milano, 1861, Cromolitografia, mm 1220x880.
161
NEGAZIONE DELLA COLLOCAZIONE CENTRO-MEDITERRANEA DELL’ITALIA ANTICA CARTOGRAFIAD’ITALIA, Complesso del Vittoriano Titolo pomposo e magniloquente per una mostra che di antico ben poco presenta, se si escludono le prime carte tolemaiche, la nota Tabula Peutingeriana del IV secolo e alcune interessanti rappresentazioni moderne del XVI e XVII secolo. Il grosso del materiale esposto è costituito da carte napoleoniche e risorgimentali. Una premessa fondamentale: ogni carta ha alla base un progetto culturale, ideologico, filosofico, militare, mercantile, e politico. La carta forse di maggior interesse presentata è quella del 1861, L’Italia vista dall’Alpi che all’osservatore appare a rovescio. Ma non è così: è l’Italia vista dall’Europa da chi, venendo da Oltralpe guarda verso giù; è quella vista da Annibale, dai barbari, dagli eserciti imperiali che vi scendevano dalla Germania e da Bonaparte. Da questa prospettiva si capisce l’importanza del mare, che è la naturale dimensione di sviluppo, da sempre, dell’Italia. Vi si leggono la vicinanza fisica alla Grecia, alla Penisola Balcanica e alla Tunisia. La carta d’Italia che siamo abituati a vedere rappresenta la penisola che scende diritta dalle Alpi al Mediterraneo, con la Sicilia a sinistra. Questa carta, quella scolastica per antonomasia, dal punto di vista fisico-geografico presenta delle alterazioni o meglio dei nascondimenti: la penisola sembra correre lungo un asse nord-sud anziché su quello reale nord ovest- sud est: Napoli è più a Sud di Bari, ma guardando questa carta sembra il contrario. Trieste, che sembra all’estremo est è in realtà più a ovest di Ancona; la Puglia è in stretto rapporto con l’area orientale della Grecia e della penisola balcanica. Da questa carta non traspaiono la vicinanza della Sardegna con le Baleari e l’Algeria, la Sicilia esattamente al centro del Mediterraneo; essa fa sparire la dimensione mediterranea, nasconde la sua propensione verso est. Dalla fine dell’Ottocento le problematiche relative alla rappresentazione geografica dell’Italia e alla trasmissione di Harvey William, Italia, 1869. cromolitografia, mm 270x230. un sapere geografico nazionale vengono poste al centro della riflessione e del dibattito di politici e scienziati italiani. È indicativa in questo senso la carte definita Panorama italiano fatta stampare per festeggiare la proclamazione dell’Unità d’Italia il giorno in cui Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d’Italia. Questa mappa è circondata da quarantasei ritratti di italiani illustri: poeti, scrittoi, artisti e politici; da quindici vedute di monumenti di città italiane che fanno parte dell’immaginario collettivo; da settantotto stemmi delle maggiori città e da una serie di costumi, da quelli antichi a quelli usati dai quindici popoli che abitavano l’Italia pre-unitaria. La cartografia risorgimentale ripercorre le tappe dell’articolato e complesso processo di elaborazione del difficile sforzo di delineare ex-novo uno stato per la nazione Italia: un insieme di simboli, immagini, miti, figure, valori, dalla grande capacità evocativa, dando inizio così a una costruzione retorica che si rivelerà vincente nel tempo. La cartografia fu utilizzata anche per ancorarvi una tradizione risorgimentale che non riusciva a definirsi. Da quelle napoleoniche in poi, le carte introducono un nuovo vocabolario, che contribuisce in maniera sostanziale all’unificazione lessicale del territorio e della lingua. Anche dopo la Restaurazione le carte, pur rispondendo ad esigenze economiche, mercantili, militari dei diversi stati che componevano l’Italia, fissano criteri raffigurativi e lessicografici uniformi discendenti proprio dalle carte giacobine. L’attenzione si sposta al passato remoto illustrando vicende storiche o mitiche che diventano icone unificanti dei valori etico-politici della nazione. La cartografia risorgimentale si rivela quindi opera tutt’altro che marginale di costruzione ideologica, al pari di letteratura e memorialistica. Segnatamente interessanti le rappresentazioni umoristiche e satiriche dell’Europa di fine Ottocento, dove la Russia è raffigurata come una piovra tentacolare e l’Italia, pensosa e in abiti militari è già coperta di debiti. La mostra dà un contributo importante per comprendere come la cartografia sia stata uno degli strumenti principali per motivare e concretizzare l’unità italiana. Luigi Silvi Anonimo, da L'Asino, Roma 21 maggio 1911, Cromolitografia.
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
162
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
Pinot & Segaire, Unità Italiana - Carta d'Italia, Parigi ca. 1861, cromolitografia, mm 270x210
Heinrich Scherer, Italia in Atlas Marianus, Augusta 1699,iIncisione su lastra di rame all'acquaforte, mm 354x235. VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
163
Miscellanea
164
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanesa
EFFICIENZA AL SERVIZIO DEL PROFITTO
I GHETTI NAZISTI, Complesso del Vittoriano Immediatamente dopo l’inizio del conflitto, i nazisti separano dal resto della popolazione tutti gli ebrei che vivono nelle zone occupate e ne organizzano la concentrazione in aree chiuse ermeticamente, sia nelle grandi città che nelle più piccole, nell’attesa di decidere quale doveva essere la loro sorte finale. Di tali strutture ne sorgono, nei primi tre anni di guerra, più di 1100. Secondo i calcoli più dettagliati, due terzi delle vittime della Shoah sono vissuti per un periodo all’interno di queste strutture chiamate “ghetti” dai luoghi in cui nell’Europa moderna gli ebrei erano confinati. All’interno di questi stessi ghetti, prima della deportazione finale, trovano la morte non meno di 600.000 persone. I ghetti vengono istituiti in tutti i territori occupati: Ucraina, Paesi Baltici, Bielorussia, Ungheria, Grecia, Romania; in Boemia e Moravia c’è un ghetto “speciale” Theresienstadt. Più della metà dei ghetti sorgono in Polonia, con una caratteristica che li accomuna: tutti gli ebrei ivi rinchiusi subiranno la stessa sorte già stabilita: la deportazione nei campi di sterminio. La concentrazione di questi quartieri separati e blindati viene nella gran parte dei casi preceduta da grandi eccidi di massa, resi possibili dalla convinta collaborazione della popolazione locale. La permanenza nei ghetti ha una durata assai breve e la soluzione finale si attua con le fucilazioni di massa. Vengono ghettizzati esclusivamente gli ebrei assieme a chi ha discendenza ebraica anche se convertito al cristianesimo: solo a Varsavia 1700. Stessa sorte di reclusione e deportazione subiscono anche sinti e rom, seppure in scala ridotta. I rastrellamenti di ebrei, per essere condotti nei ghetti, hanno duplice funzione: quella della soluzione finale legata alla purezza della razza, e quella altrettanto, se non più importante, di tipo economico. Gli ebrei erano costretti ad abbandonare le case, con tutto il mobilio, le suppellettili, il vestiario, gli oggetti di valore e d’uso. Nei giorni precedenti al rastrellamento, i loro conti in banca venivano bloccati e il denaro di fatto incamerato dallo Stato. Non potevano uscire dai
Morire per strada nel ghetto di Varsavia.
ghetti, se non i pochi con speciale permesso, per lavoro. Le condizioni igieniche erano indegne: non c’erano fogne, non c’erano servizi igienici, non c’era acqua corrente, non c’era riscaldamento, il cibo era scarsissimo, il che favorì il mercato nero gestito a prezzi proibitivi dalla popolazione locale e fu causa di malattie e decessi legati alla denutrizione. Nel ghetto di Varsavia si ebbero punte altissime di dissenteria. I negozi e le imprese di proprietà di ebrei venivano contrassegnati con la stella di David per essere prima saccheggiati e poi confiscati. La spoliazione degli ebrei non si fermava qui: quando venivano portati nei campi di sterminio, dovevano denudarsi e consegnare tutto. Ai vivi e ai morti venivano rasati i capelli, ai morti venivano tolti i denti d’oro. Tutto, capelli compresi, veniva meticolosamente schedato, archiviato, immagazzinato e poi immesso sul mercato. Un’inumana macchina tritatutto perfettamente e meticolosamente efficiente, fredda e asettica, determinata e spietata al servizio del capitale e del profitto. Gli ebrei erano costretti a girare con una stella di David gialla cucita sui vestiti. Chi veniva trovato fuori dal ghetto senza regolare permesso veniva ucciso sul posto; i ghetti subivano saccheggi, devastazioni e uccisioni di massa, Tutti gli ebrei del Reich e dei territori occupati furono rinchiusi nei ghetti, tanto che la densità di popolazione all’interno di questi era di circa 1200 persone per kmq. Spesso le sinagoghe venivano incendiate con dentro gli ebrei che venivano bruciati vivi. La macchina persecutoria era composta da centinaia di migliaia di tedeschi, austriaci e collaboratori: SS, Polizia di sicurezza detta Polizia d’ordine, amministrazione civile, Reichsbahn (Ferrovie dello Stato), unità speciali. Sono coinvolti in tutte le fasi della persecuzione: dall’emanazione delle norme restrittive alla liquidazione dei ghetti e dei suoi abitanti. Compongono i plotoni di fucilazione le squadre che operano razzie nei ghetti, accompagnano i treni, uccidono e occultano i cadaveri di decine di miglia di ebrei al giorno nei campi di sterminio. Tutti sono as-
165
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Miscellanea
Nazisti dlieggiano ebrei osservanti.
solutamente coscienti che gli ebrei rastrellati e deportati saranno eliminati. Due sezioni della mostra sono dedicate ad argomenti finora poco studiati e di fatto poco noti al grande pubblico: l’organizzazione della vita sociale all’interno dei ghetti nonostante le restrizioni, anche tramite le associazioni di mutui soccorso, e la resistenza armata degli ebrei ai loro carnefici. Essi non avevano un riferimento diretto con gli Alleati, non erano in grado di relazionare con un governo. Anche se in esilio, non avevano rapporti con la resistenza dei paesi in cui erano costretti, che tra l’altro spesso era antisemita. Essi scelsero quindi di organizzare le rivolte nei ghetti, tutte soffocate nel sangue e nel combattere nei boschi contro i nazisti. Se la scelta dei partigiani era combattere per avere salva la vita, la loro era scegliere tra subire la morte e una morte dignitosa. Il merito principale di questa mostra è, come sostiene il Ministro per i Beni e le Artività Culturali Lorenzo Ornaghi “… contribuire a combattere qualsiasi farneticazione negazionista intorno a simili drammatiche vicende… contro coloro che pretendono di contestare o ridimensionare l’entità dell’eccidio …” I ghetti del Novecento non sono un fatto solo nazista: in tutti i paesi occupati, i nazisti ebbero alleate le autorità locali -e in alcuni casi anche la popolazione- nei ghetti, nei rastrellamenti, nelle deportazioni. Nella gran parte dei paesi europei, in anni successivi alla Shoah, i governanti democratici ammisero le responsabilità collaborazioniste del proprio paese. Solo in Italia, da una decina di anni si vuole far silenzio alterando la storia, delle gravissime collaborazioni fasciste e si nega, nonostante prove e testimonianze inappellabili e inoppugnabili, la regolare presenza delle autorità fasciste a fianco di quelle naziste in tutti gli eccidi di civili e in tutte le operazioni riguardanti la Shoah. Ma l’Italia non fa i conti con la propria storia e, parafrasando Brecht, la bestia si sta risvegliando e i suoi rappresentanti, camuffati da falsi democratici, sono ai vertici delle istituzioni dello Stato o lo sono stati fino a poco tempo fa. D’altra parte il capitale, o quello che oggi corrisponde a questa definizione forse obsoleta, quando non riesce a raggiungere i propri obiettivi all’interno delle istituzioni democratiche si serve di tutto quello che in senso lato è definibile come fasci-
smo. È indicativa in questo senso la scelta di questa mostra: parlare dei ghetti tedeschi, polacchi, ucraini, e non di quelli austriaci, jugoslavi, cecoslovacchi, francesi e italiani in particolare, dove grandi comunità ebraiche, come quella romana, triestina, ferrarese, milanese, veneziana sono state quasi completamente distrutte e deportate quando l’Italia di Mussolini e dei Savoia era ancora uno stato ufficialmente libero e indipendente. Italia dove, tra l’altro, fu operativo anche un campo di sterminio, la Risiera di San Sabba di Trieste, e non solo campi di raccolta come oggi tanti falsificatori della storia e della verità tendono a dire. La gestione stessa della mostra, sola e abbandonata al Vittoriano: sulla facciata dell’ingresso all’ala del Vittoriano adibitaa grandi mostre, l’esposizine è segnalata da uno stendardo relativamente piccolo con solo scritte su fondo bianco, relegato nell’angolo meno visibile da via dei Fori Imperiali e “ammazzato” da un grande stendardo a colori quasi interamente occupato da un’immagine di Salvador Dalì a pubblicizzare una mostra dedicata all’artista spagnolo che sarà inaugurata appena nel mese di marzo; alla reception un operatore svogliato e distratto imbusta gli inviti per un’altra mostra, al punto vendita dei cataloghi non c’è nessuno; dopo lunga attesa si è costretti a cercare l’operatore che non ha neanche una custodia per il catalogo stesso. Tali pubblicazioni sono lì, abbandonate a se stesse e alla mercé di qualunque malintenzionato. Le sale non sono controllate, solo all’ingresso una persona. Nel bel mezzo dell’orario di visita un gruppo di operai, loquaci e rumorosi, sostituiscono la copertura in plexiglas di un bacheca, lasciando a terra indecorosa carta straccia. Dalla mostra traspare inoltre che l’unica parte avuta dall’Italia in questa vicenda sia aver accolto sopravissuti dei lager in campi profughi prima della loro partenza per Israele. Ma in quegli anni l’Italia era stata già liberata e Mussolini e i suoi gerarchi, che avevano approvato le vergognose leggi razziali e avevano collaborato con i nazisti nei rastrellamenti e trasferimento di ebrei nei campi di sterminio e agli eccidi di civili italiani perpetrati dalle SS, erano già morti e sepolti e con loro il fascismo storico. Luigi Silvi
Ebrei depoirtati dal ghetto di Varsavia, 1941.
VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
166
Miscellanea
Bambini moribondi sul marciapiede nel ghetto di Varsavia. VESPERTILLA - Anno IX n째 1 gennaio-febbraio 2012
167
Miscellanea
168
VESPERTILLA - Anno IX n° 1 gennaio-febbraio 2012
Letteratura
“... La vera terra dei barbari non è quella che non ha mai conosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori, non sa né apprezzarli né conservarli...” (Marcel Proust)
ROMANZI IN POESIA PER NON INGANNARE IL PUBBLICO IN MEMORIA DI VINCENZO CONSOLO Lutto per la letteratura italiana. Dopo lunga malattia è scomparso a Milano, dove viveva da anni, lo scrittore siciliano Vincenzo Consolo. Animo schivo, personaggio ombroso, era nato a Sant’Agata Milietello nel 1933; dopo aver frequentato la Facoltà di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica a Milano, conseguì la laurea presso la facoltà di Messina. Romanziere che non scriveva romanzi, perché riteneva che i romanzi stessi ingannassero il pubblico, preferiva narrare orientandosi verso la poesia. Eppure fu proprio un romanzo Vincenzo Consolo a imporlo all’attenzione di pubblico e critica: nel 1976 diede alle stampe Il sorriso dell’ignoto marinaio, originale ricostruzione di vicende storico-sociali avvenute nel nord della Sicilia al momento del passaggio dal regime borbonico a quello unitario e culminati nella sanguinosa rivolta contadina di Alcara Li Fusi del maggio 1860. Dopo aver insegnato nelle scuole agrarie in Sicilia, si trasferì a Milano, perché aveva vinto un concorso RAI; a seguito del successo de Il sorriso dell’ignoto marinaio diventerà anche consulente per le Edizioni Einaudi, lavorando con Natalia Ginzburg e Italo Calvino. Ma forse l’amicizia e la collaborazione intellettuale più importante per Consolo fu quella con Leonardo Sciascia, con il quale condivideva un certo rigore civile ed etico. Diversi furono i romanzi pubblicati, nei quali
l’autore coniugava sempre la forte passione per la ricerca storica con un grande interesse per la ricerca linguistica, con un riferimento nemmeno troppo nascosto alla poetica linguistica gaddiana, ma con meno poliedricità, mantenendo un’impronta filosofica illuministica. Come ebbe a dire egli stesso: “Fin dal mio primo libro ho cominciato a non scrivere in italiano. Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. È l’immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l’innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati. Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia”. Personaggio importante nella letteratura italiana, pur non conquistando mai la notorietà di altri autori ben meno validi, Consolo nella sua carriera collezionò molti premi letterari: nel 1985 il Premio Pirandello con Lunaria (opera teatrale), nel 1988 il Premio Grinzane Cavour con Retablo, nel 1992 il Premio Strega con Nottetempo, casa per casa, nel 1994 il Premio Internazionale Unione Latina, con L’olivo e l’olivastro, nel 1999, il Premio Brancati, con Lo spasimo di Palermo, nel 1999 il Premio Flaiano e nel 2000 il Premio Feronia, con Di qua dal faro. Le sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, spagnolo, portoghese, olandese, rumeno, catalano. Va ricordato lo strano rapporto che lo legò a due illustri corregionali: Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino. Consolo manteneva un’amicizia storica, come detto, con Sciascia. Quando poi Sciascia conobbe Bufalino i rapporti con Consolo cambiarono molto. Sebbene i tre abbiano pubblicato assieme Trittico, con racconti dei tre autori, e sebbene esistano immagini che li mostrano riuniti a casa Sciascia, i rapporti presero una strana piega. Non è noto cosa sia successo realmente, ma Bufalino parlando di Consolo ebbe a dire: “Questo l’ho cancellato anche dalla lista dei miei nemici”. Genio e sregolatezza si diceva un tempo... Maria Pia Monteduro
Vincenzo Consolo, Leonardo Sciascia,. Gesualdo Bufalino nella casa di Leonardo Sciascia.