Periodico di approfondimento culturale - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010- Prezzo € 5
“...non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini...” Elio Vittorini, 1945
“Scrivere non è descrivere. Dipingere non è rappresentare.” George Braque Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo
VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
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INDICE
TEATRO
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ARCHELOGIA
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ARTE
PAG.
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CINEMA
PAG.
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MISCELLANEA
PAG.
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VESPERTILLA Direttore Responsabile: Serena Petrini Direttore Editoriale facente funzioni: Ilaria Lombardi Vicedirettori: Francesca Martellini, Maria Rosa Patti Segretaria di Direzione: Maria Pia Monteduro Redattore letteratura: Michela Barbieri Redattore cinema: Alessandra Pellegrini Redattore teatro: Ofelia Sisca Hanno collaborato a questo numero: Michela Barbieri, Concita Brunetti, Silvia D’Addazio, Marina Humar, Ilaria Lombardi, Francesca Martellini, Maria Pia Monteduro, Sibilla Panerai, Maria Rosa Patti, Alessandra Pellegrini, Luigi Silvi, Ofelia Sisca. La collaborazione sotto ogni forma è gratuita Impaginazione grafica: Maria Pia Monteduro Editore: Associazione Culturale ANTICAMente-via Sannio 21, 00183 Roma INFO 3476885334 vespertilla@tiscali.it - rivista.vespertilla@live.it Pubblicazione registrata presso il Tribunale Civile di Roma n. 335-05.08.2004 Stampa: Copypoint - via dei Funari 25, Roma
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IN MOTUS PER LA RICERCA DELLO SPAZIO VITALE IOVADOVIA (Antigone) contest#3, Auditorium Parco della Musica Silvia indossa una tuta da ginnastica e corre nel perimetro di un cerchio tracciato col nastro adesivo sul pavimento. Salta, scatta, suda, si affatica, ansima. Il cane bianco e nero è eccitato da tanto movimento e abbaia slanciandosi verso di lei, mentre il pubblico prende posto nella sala densa di tensione. La tenda rossa diventa tana in cui sbirciare attraverso una telecamera, per vedere come Antigone, Polinice e Tiresia si disegnano e si compongono da un paio di guanti in lattice impastati di vernice nera. Silvia Calderoni e Gabriella Rusticali giocano nell’entrare e uscire dalle vesti di quell’Antigone e di quel Tiresia che nella tragedia sofoclea non si incontrano mai, immaginando un dialogo che Judith Malina -storica fondatrice del Living Theatre- ha riscritto appositamente per loro. È Silvia stessa che lo spiega, facendo del suo personaggio classico una veste trasparente attraverso cui parlare di sé e del nostro presente. L’IO del titolo è un richiamo al lavoro d’immersione in prima persona che l’attrice, Silvia, ha compiuto con intelligente riflessione partendo da un testo in cui la compagnia Motus si è immersa per creare eventi performativi che si propongono come confronti/scontri/discussioni/dialoghi (IOVADOVIA, con Let The Sunshine In e Too Late!, conclude il progetto Syrma Antigones, dedicato a uno spazio tragico sospeso che si connette alle violenze contemporanee). La mascherata richiesta di partecipazione imbarazza il pubblico già disorientato da voli pindarici nel tempo e nella storia, testimonianze di una compagnia che inventa e ricerca linguaggi nuovi per allacciare collegamenti e porre domande che spesso rimarranno in sospeso. L’aiuto di video e telecamera è un ampliamento dello spazio per creare un presente che assorbe molteplici dimensioni, dal testo classico alla sua elaborazione da parte di una delle menti rivoluzionarie del teatro del Novecento, dalla riflessione personale di Silvia a quella personale di Antigone, per essere assorbito in un’attualità storica che appartiene all’oggi di tutti noi. “...Ci stanno addestrando a scomparire. Io non voglio scomparire, affrontare i miei fantasmi da sola...”. IOVADOVIA, letto tutto in un respiro, è una riflessione sulla ricerca teatrale, progetto personale che cerca di render partecipi, scossa istantanea dal percorso sfuggente e irregolare ma che -inevitabilmente- coglie lo spettatore con un touché, che non lascia indifferente. Francesca Martellini
BOCCACCIO TRADOTTO GIOCANDO COL PARLATO IL DECAMERON. PESTE E CORNA, SalaUno Teatro Firenze, 1348. La mortifera pestilenza vince l’uomo, si propaga dai vivi ai vivi, dai morti ai sani, dagli oggetti alle persone, mentre incombono e illudono le fiamme che divorano ciò che “...né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna…” riesce a sanare. L’introduzione alla prima giornata boccaccesca risveglia il gruppo di attori addormentati sulla scena, che tra coreografie leggere e animate si passano di bocca in bocca la descrizione di una città devastata dalla malattia. La peste, riccioli scuri e veste nera, si muove felina a passo di danza, osserva nascosta, beffeggia maliziosa ma -va notato- il suo tallone d’Achille è presto vinto da una delle più fini doti umane. Dai canti omerici alle atmosfere de Le mille e una notte l’arte del novellare sembra fermare il tempo della morte, per creare una realtà parallela che si dilata, avvolge, incanta, e muta la sorte. Il gruppo di dieci giovani che si rifugia nella campagna fiorentina, intrattenendosi con una novella al giorno raccontata da ciascuno secondo un tema prescelto, ammalia il personaggio mortale che si lascia ipnotizzare dalle beffe di Bruno e Buffalmacco e dallo sciocco Calandrino, uno dei più noti personaggi delle giornate decameroniane. Roberto Della Casa, regista dello spettacolo, spiega come il lavoro sul testo sia stato compiuto in nome di un incontro tra volgare fiorentino e slang giovanile di oggi, dando vita a un gioco linguistico che rende più vicina a noi la novella garantendone, al contempo, la provenienza da una passata letteratura “musicale” che non possiamo non prendere ad esempio. Gli attori -affermazione banale ma non scontata- sostengono accademicamente le parti, vestendo i panni dei personaggi che risultano comici più per la situazione in sé che per la recitazione poco caratterizzata. Incantevole lo spazio scenico: a una semplice ma precisa coreografia lignea a incastro fanno da sfondo gli archi e i mattoni a vista del teatro, ricavato tredici anni fa dalla navata centrale della cripta della Scala Santa. I sedili ravvicinati, le luci calde, il clima, i colori, i suoni da “piazza fiorentina” sono in grado di amalgamarsi, riportando il pubblico indietro nel tempo. Francesca Martellini
NOIA E NON SOGNO
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE, Globe Theatre C’è poco da sognare in questa notte di fine estate al Globe. Tutto è fisico, concreto, materiale, e tale rimane, poiché una scenografia di piume bianche non è sufficiente per condurre lo spettatore nel fiabesco e ingannevole mondo degli spiriti che popola la commedia shakespeariana. L’incrocio di amori e rifiuti che muove la storia è un susseguirsi di frasi urlate e di smorfie ridicole, che poco connota i personaggi abbandonandoli in una dimensione superficiale che non si arricchisce col procedere degli eventi. Ad Atene due sono le bellezze infelici, che per amore si scontrano tra invidie e rancori nonostante l’infanzia trascorsa insieme: Ermia, senza la benedizione paterna, ama riamata Lisandro, mentre Elena (meritevole di lode la sua presenza, unica a imporsi sulla scena con tonalità vive e fisicità prorompente) insegue invano Demetrio che ha occhi solo per Ermia. La fuga nel bosco fa intersecare i sentimenti degli amanti con le ire e le gelosie di Oberon e Titania, re degli elfi e regina delle fate, che a suon di filtri e polveri magiche generano sequenze di scambi, illusioni e fraintendimenti che solo un loro nuovo intervento consapevole condurrà a un armonioso finale. Tra mondo reale modo onirico si colloca il metateatro, storia nella storia nata dalla mente shakespeariana come inesauribile occasione di frizzi, lazzi, genuina comicità. In occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Teseo, duca della città, un gruppo di artigiani si riunisce nel bosco per allestire la messinscena di Piramo e Tisbe; la regia poco sfrutta le occasioni ridicole e divertenti che ne nascono, generando una successione di “occasioni sprecate” (la scena dell’uccisione di Piramo e Tisbe, con tanto di muro-umano con capitello ionico in testa, dissipa la sua spontanea ingenuità umoristica con una velocità e ridicolezza che irritano). Il palco non si riempie nemmeno con una decina di attori in scena, gli ingredienti umani, scenici e narrativi non si amalgamano e la presenza di ogni elemento si perde tra le assi e le impalcature del palcoscenico, spruzzato da nuvole di fumo che scandiscono le apparizioni degli essere fatati. Musiche e luci omogenee non aiutano: le arie liriche sono fuori luogo e non concorrono a sospendere il tempo del bosco incantato, dove lo spettatore -purtroppo- non sogna ma si annoia. Francesca Martellini
NELLA PALESTRA DEL DOMATORE: LIBERA O SCHIAVA? LA BISBETICA DOMATA, Globe Theatre Se l’inizio è un punto interrogativo il finale è un triplice segno d’esclamazione, raggiunto sulla scia di un’energia magnetica che fa volare le due ore e trenta di spettacolo. A distanza di un anno la Bisbetica domata di Marco Carniti torna sul palco del suggestivo teatro di Villa Borghese, e l’incontro tra spazio della tradizione e trasposizione contemporanea del testo è un divertimento ironico che rende omaggio alla commedia shakespeariana più celebre e rappresentata. “L’amore rende liberi o schiavi?” si chiede il regista riflettendo sul testo, e le due trame incrociate continuamente confutano e confermano i due aggettivi in un’alternanza continua, che ricrea piacevolmente lo spirito ma, lascia lo spettatore nel dubbio. I corteggiatori della dolce e piacente Bianca (Melania Giglio, dalle sorprendenti doti canore), una delle figlie del (Maurizio Donadoni) e Caterina (Sandra mercante padovano Battista Minola (Li- Petruccio Collodel) bero Sansovino), s’ingegnano a trovare un pretendente disposto a sposarne la sorella, maggiore per età e per spirito di cattiva disposizione verso chiunque le si avvicini. Estro e ricerca di una buona dote fanno del veronese Petruccio (Maurizio Donadoni) il candidato ideale, ma il metodo che adopera per piegare l’insolente e dispotica Caterina (Sandra Collodel) è una manipolazione in continuo bilico tra crudeltà e disperazione. Le mortificazioni, le privazioni cui la bisbetica è sottoposta, facendole credere che siano grandi atti d’amore, ne smusseranno il carattere indomabile, ma l’ubbidienza finale dell’innamorata Caterina saranno la sua condanna o la sua liberazione? La piacente Bianca, che con il matrimonio dà sfogo a un caratterino autoritario, ha gettato via la sua maschera? Le scelte registiche sottolineano contraddizioni e illusioni della commedia con una recitazione sempre sopra le righe e una scenografia dinamica, dove attrezzi ginnici, corde e scale diventano metafora della vita come palestra nella quale allenarsi quotidianamente al proprio ruolo. Bravi gli interpreti, eccellenti cantanti e attori con grande presenza scenica, tra cui spicca la forza di un’eccezionale Maurizio Donadoni che dopo una scena iniziale debole non cessa di concedersi al 100%. I dialoghi, divertenti ed enfatizzati, sono scanditi da una musica da ring che sostiene il gioco, ma in mezzo a tanta energia e leggerezza non si perdono le sfumature amare: l’influente Petruccio non è il vincitore e la domata Caterina non è la sconfitta, ogni condizione ha avuto il suo prezzo e niente sembra stabile o definitivamente corretto. Spettacolo che diverte e intrattiene, commedia condotta in modo intelligente per mostrare le facce diverse della medaglia e lasciarle in sospeso. Francesca Martellini
VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Teatro
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VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Teatro SPETTACOLO FREDDO PUR CON IL CALORE DI POPOLIZIO IL MISANTROPO,Teatro Argentina Molière conosceva il mondo, non solo quello del teatro ma anche quello della società civile, e in pochi testi come in questo, in scena in prima nazionale, è evidente a tal punto. Alceste (grande Massimo Popolizio, come sempre d’altronde) non odia l’umanità, come si crede banalmente basandosi sul titolo della commedia: egli odia una specifica società, la società a lui contemporanea, o meglio ancora non odia la società in termini astratti, ma detesta e aborrisce le ipocrisie, le falsità, un’etichetta stereotipa e fine a se stessa, il sorridere davanti all’altro e sparlarne dietro, i convenzionali sotterfugi d’amore, le finte reticenze preordinate. Alceste (Massimo Popolizio) Insomma non sopporta i “Tartufi” che, evidentemente, nel XVII secolo affollavano Parigi e il teatro francese. Oggi ci si domanda: questi personaggi da Alceste detestati, queste situazioni schematicamente false e ipocrite, non sono presenti ancora in massiccia dose? Ecco confermata quindi la grande attualità di Molière, la sua acuta visione profetica del suo oggi che diventa oggi eterno. Alcune invettive di questo infelice misantropo sono ravvisabili due secoli dopo nel Cyrano e il suo spaesmento e quasi disadattamento sono poi in massima misura espletati e analizzati in molto teatro novecentesco. Quindi ben venga l’interessante e quasi incomprensibile ripresa di Molière su molti palcoscenici in questa stagione teatrale (incredibile: non cade nessun anniversario!), perchè l’analisi così precisa e disincantata di questo grande commediografo può insegnarci ancora molto. Massimo Castri, alle prese per la prima volta con Molière (ogni anno il regista umbro affronta per la prima volta qualche autore...) realizza però uno spettacolo freddo, si potrebbe dire quasi senza’anima. Il palcoscenico è ovviamente “scaldato” dalle parole dell’autore, trasmesse in maniera egregia dall’interprete, ma il segno teatrale della messa in scena non è omogeneo e consegna un prodotto spettacolare troppo algido e assolutamente poco coinvolgente, pur se si deve appaludire con il dovuto calore a tutto il cast con, come si diceva, Popolizio in testa. Maria Pia Monteduro
FOLLIA E RAZIONALITÀ IN SCENA
IL BERRETTO A SONAGLI, Teatro Sala Uno
La commedia, scritta nel 1916 in siciliano, per la prima volta in scena al Teatro Nazionale di Roma nel 1917. Oggi come allora, il continuo fluire di caratteri umani incarnati in attori fa rivivere la tematica sempre attuale e conflittuale dell’adulterio. L’amaro umorismo di Pirandello è evidente in questa commedia, il cui titolo è indicativo di una condizione di ostentazione e di vergogna, in relazione alla comunità, al pensare comune. Il berretto a sonagli è il copricapo da buffone, da “becco”, da cornuto. Ed è proprio il peso dell’apparire, del giudizio altrui che viene affrontato con grande crudezza e determinazione dal testo. Salvare l’onore, solo questo conta! Pur avendo scelto un classico, il regista Gino Auriuso lo ha rivisitato in chiave contemporanea, accattivante e tagliente, in cui il conflitto tra regno del perbenismo dominato dalle apparenze sociali da una parte, e sanguignità emotiva insita nell’animo femminile dall’altra, si acuisce tanto da esplodere e ridurre ogni parvenza in carta straccia. La carta stracciata, raccolta, spostata, spezzettata, usata per riempire vuoti, per fare rumore, per dimostrare tesi, per visualizzare emozioni, per incarnare valori, è la chiave di questa messa in scena, che combina aspetti di forte contemporaneirà con altri legati alla linearità classica della rappreCiampa (Tony Allotta) sentazione della commedia di inizio secolo. Pregevole l’intensa prova attoriale del protagonista (Tony Allotta) nei panni di Ciampa che, costretto a difendere il suo prestigio sociale, regola le sue tre corde con compassata arguzia per districarsi fra essere e apparire, fra serietà e pazzia. È proprio la pazzia la via che Ciampa sceglie per mantenere integro il suo onore. La salvezza delle apparenze passa attraverso una casa di cura in cui Beatrice, impersonata da un’energica Irma Ciaramella, dovrà espiare la sua colpa. Ella si è macchiata della più grave delle colpe per una società “civile” e conservatrice: non badare all’apparenza e dare ascolto all’emotività. Concita Brunetti
PETER STEIN E L’ETERNA FORZA MORALE DEI CAPOLAVORI I DEMÒNI, Auditorium Parco della Musica
Si può pensare in un momento socio-culturale in cui molti giovani disertano il mondo dell’impegno e della politica, in cui Moccia è più noto e sicuramente più letto, ad esempio, della Yourcenar e di Garcia Marquez, in una temperie culturale in cui è stata decretata la morte dei Maestri (o almeno l’agonia), in un momento in cui gli intellettuali rischiano di avere la tutela del WWF come razza in estinzione, si può pensare di riesumare Fëdor Michailovic Dostoevskij, uomo prima ancora che scrittore che fece di buona parte della sua vita un esempio di coerenza e di coraggio? Si può pensare in una fase della storia dello spettacolo dove i testi messi in scena sono troppo spesso rivistazioni avvilenti di copioni sciatti e frettolosi, o scialbi adattamenti di capisaldi immmortali della drammaturgia mondiale, o nuovi testi rigorosamente in forma di monologo per voce sola troppo spesso monocorde e noiosa, si può pensare di adattare per il palcoscenico un assodato capolovaro di quasi centotrenta anni fa quali I Demòni del succitato Dostoevskij? Si può pensare in un’epoca mordi-e-fuggi, in un mondo a zapping, in una società che elabora e distrugge a tempo di record simboli, eroi, figure di riferimento, si può pensare in tale contesto di allestire uno spettacolo che tra necessarie pause e doverosi intervalli occupa il pubblico per dodici ore consecutive? Sì, si può pensare Varvara Petrovna Stavrogina (Maddalena Crippa), Stepan Trofimovic Verchovenskij (Elia Schilton) e realizzare tale solo apparente utopia, se il regista è Peter Stein, se il copione è la rilettura quasi integrale dei Demòni appunto, se la compagnia è formata indistintamente da validissismi attori, in testa ai quali si ergono maestose la figure di Maddalena Crippa, Andrea Nicolini ed Elia Scilton, giganti della scena in un contesto di altissimi interpreti. Il risultato, sia consentito l’entusiasmo, è eccelso: mai un attimo di stanchezza nel pubblico, mai un momento di noia, mai una disattenzione che forse avrebbe potuto anche essere giustificata in una kermesse teatrale che di puro spettacolo ammonta a ben nove ore e mezza. Tutto il pubblico, e non solo quello di Roma (lo spettacolo è stato in una trionfale e anomala tournee in Europa e in Italia: ad esempio sei repliche con “tutto esautrio” a Parigi, recitando in italiano…) ha accettato la sfida di Stein, perché di sfida si tratta, e ha trovato la forza di ascoltare, rielaborare, metabolizzare il grande testo russo, che presenta la crisi di un sistema, lo smarrimento dei giovani indecisi se vendersi, divenire rivoluzionari o tragicamete porre fine per propria mano alla propria vita… Stein, che legge (beato lui..) il russo, ha saputo cogliere dal romanzo dostoevskijano la grande attualità, precipua dei capolavori, e farlo diventare uno spettacolo teatrale didascalico, nel senso più alto e nobile del termine. Forse il commento più sintetico, ma più rispondente a verità, è un sincero, si può quasi dire commosso, “grazie”. Grazie a chi ha lavorato per questo spettacolo sul palcoscenico e dietro le quinte, grazie ai teatri che lo accolgono e lo mettono in cartellone. A Roma è stato lo spettacolo di apertura di stagione del Teatro Valle (pur se splendidamente accolto dall’Auditorium). Nota a margine…giustamente l’ETI (Ente Teatrale Italiano, fondato nel 1942), che gestisce il Teatro Valle, è stato soppresso…Grazie: ma questa volta è tristemente ironico! Maria Pia Monteduro
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CLOWN DIALOGA CON SE STESSO L’ULTIMO NASTRO DI KRAPP, Teatro Valle Samuel Beckett, irlandese, amico di James Joyce, partigiano nei maquis francesi, premio Nobel per la letteratura nel 1969, è colui che destruttura il teatro tradizionale, dando al dialogo forma e ritmo da rigore quasi musicale. È del 1958 quesato testo, altamente profetico, erroneamente definito dai recensori attuali monoKrapp (Bob Wilson) logo, ma in realtà dialogo del protagonista con la propria voce registrata. Krapp vive in un seminterrato, che in questa messa in scena Bob Wilson, regista, interprete, scenografo e anche autore del disegno luci, realizza con grande schedario come parete di fondo, che dà l’impressione di grata di una prigione e la finestre alla sommitò delle pareti latearali (unica fonte di luce) sono chiuse da sbarre. Qui, autorecluso, Krapp registra su nastro le impressioni sui fatti della propria vita e regolarmente le riascolta aggiungendo di volta in volta le valutazioni del momento: un eterno presente, mai concluso, con un futuro irraggiungibile la cui conclsione può essere solo la morte. Si è oltre l’alienazione, piuttosto Beckett pone lo spettatore di fronte all’inconcludenza, di una vita che non riesce a costruire rapporti umani e non riesce a incidere sul presente stesso, che quindi non cresce e non si evolve. Beckett, profeta come già detto, prefigura la società liquida in cui l’uomo non riesce ad adeguarsi ai processi di cambiamento troppo veloci per la sua mente e per la sua capacità di adattamento, tanto da giungere a un quasi totale straniamento dalla realtà. Wilson, chiude il cerchio su un piano sempre più alto e ripensa i grandi interrogativi etici in visioni cristalline. Se la caratteristica e il del’900 è porre domande, più che dare risposte, Beckett lo fa a parole e Wilson con le immagini. Wilson torna a recitare dopo dieci anni e dà dignità scenica al testo beckettiano con la parola negata, trasformandosi in un clown-robot che si richiama ai movimenti del teatro giapponese e con la ripetizione estrema di movimenti lenti, riuscendo, come Beckett voleva, a toglierlo dalla temporaneità. Luigi Silvi
WILSON E BEKETT: REIFICAZIONE DELL’ARIDO GIORNI FELICI, Teatro Valle Secondo classico di Bekett nella Monografia di scena, mono-dialogo in cui la regia di un “artista totale” come Robert Wilson affida a personaggi clownistici il vuoto e la miseria della condizione umana. Wilson sceglie Adriana Asti che sin dalla battuta iniziale apre una vena di amarezza indelebile: “...Anche questo sarà un giorno felice…”. La perfetta corrispondenza testuale di Winnie -sulla cinquantina, bionda, grassottella - incontra la scelta registica di immergere la donna in una sfaccettata piramide nera, crepa nell’asfalto che ancor più, rispetto alla montagnola di terra delle indicazioni originali, accentua la vacuità e la reificazione dell’ambiente. Giunta “nel bel mezzo del cammin di nostra vita” per Winnie ogni giorno è un giorno felice, da creare attraverso piccoli oggetti e rituali osservati con occhi nuovi nella loro quotidiana ripetitività; l’ombrello si incenerisce, lo specchio si rompe, le scritte sullo spazzolino sono indecifrabili, ma domani sarà tutto di nuovo lì per aiutare a ingannare un tempo di veglia e di sonno scandito da trilli fuoriscena. Il dono della parola si eleva a condizione esistenziale per sentirsi reali e presenti in un niente nel quale anche la figura di Willie, il marito che vive in una sorta di tana dietro il cumulo di pietra, scompare. Ridotto a essere animalesco dagli istinti elementari e primitivi, sembra neanche Winnie sia sincera nel rivolgergli quelle parole d’affetto che, nell’assenza di una risposta concreta, suonano più come una auto-ricerca di calore. In questa realtà segnata da una condizione terminale dove anche i suoni sono amplificati, elettronici, lontani, ciò che gode di vita è la luce atmosferica umorale che dipinge la scena passando da calde tonalità pastose a sfumature lunari spezzate da lampi di neon. Nel secondo atto la paralisi di Winnie precipita ancora affondando la donna nella terra fino al collo, togliendo quell’animato svolazzare di braccia e mani che riassumeva tutta la vitalità di un giorno felice in cui credere. Gli occhi neri spiccano sulla faccia impastata di biacca che guarda a passato e presente senza sentimenti e senza spessore, serenamente statica, e proprio per questo, tremendamente violenta nello sbattere davanti al pubblico un “testo del niente” sulle rassegnate aspettative della società. Winnie (Adriana Asti) Una veduta di campagna cala alle spalle della donna, lei nemmeno ci fa caso. Ci sono colline e alberi, montagne brulle ma slanciate e un cielo celeste con fiocchi di nuvole: è un trompe-l‘oeil che “inganna l’occhio”, come tutto il vuoto di cui la scena si è fin’adesso riempita. Francesca Martellini
LA VISITA CHE NON TI ASPETTI
LA VISITA, Teatro Cometa Off
Lo spettacolo porta in scena il dramma di Friedrich Dürrenmatt (1956) per la regia di Claudio Boccaccinie e sorprende e stupisce per il riadattamento. La protagonista Claire Zachanassian, interpretata splendidamente da Silvia Brogi, è una donna che fa rientro dopo tanti anni nella sua città natale, Gullen, per ottenere giustizia per un sopruso subito in giovinezza. Gli attori entrano in scena cantando la miseria del paese città decadente afflitta da una grave crisi economica-sociale. Un paese così povero che anche l’ora viene scandita dall’arrivo del treno in stazione. Gli attori in scena sono molti, per rappresentare tutte le figure tipiche di un paese, dal poliziotto sinistro ed eccentrico al parroco timorato di Dio e poi ancora il dottore e il Borgomastro che dice sempre la cosa giusta al momento giusto fino al preside di liceo. Personaggi che prendono forma in questo paese dimenticato da Dio. In questo senso la scenografia gioca un ruolo importante: la scelta di grigi tendenti a toni spenti aiutano a inquadrare uno stato di povertà e di cupidigia che si riflette anche negli animi delle persone; del paesello che per arrivare a fine mese non si permette nessun bene superfluo. Ma ecco che l’arrivo di Claire riaccende la speranza per tutto il paese, perché ella porta con sé la sua fortuna economica accumulata negli anni. L’eccentrica signora, segnata profondamente dalla vita e dal torto subito in gioventù arriva alla stazione insieme al marito interpretato dal camaleontico Andrea Alesio che riveste con maestria il ruolo di tutti i mariti che Claire sposa e subito abbandona. Claire dichiara alla cittadinanza di essere disposta ad aiutare il paese, offrendo un miliardo, in cambio dell’uccisione di Alfredo Ill, uno dei più stimati cittadini in seguito alla grave ingiustizia subita in gioventù. Da qui in poi il meccanismo si realizza automaticamente: all’inizio gli abitanti del paese si schierano sdegnati dalla parte dell’amato bottegaio, poi quando iniziano a usufruire degli agi con leggera naturalezza accettano la necessità dell’atto quasi catartico da parte di Alfredo; il sacrificio di uno per il bene di molti. Un momento così drammatico, reso leggero e divertente dall’uso astuto dell’ironia, nel vedere il poliziotto, interpretato stravagantemente da Matteo Zenini, ormai corrotto e nega spudoratamente, con le sue scarpette bianche, l’indebitamento del paese. Straordinario il finale che si chiude con lo smascheramento di ciò che tutti noi quotidianamente mettiamo in atto nel nostro piccolo: Alfredo Ill muore, paese compresa sua moglie giustificano l’orrore appena compiuto quale atto necessario, in fondo doveva pagare. Spettacolo ben realizzato da tutti i punti di vista, plauso speciale alle musiche di Marco Savatteri: in uno sfondo così grottesco e desolante aiutano a leggere l’opera in chiave ironica. Silvia D’Addazio
AMORE E MORTE
ERODIADE, Teatro Piccolo Eliseo
Erodiade di Giovanni Testori ha avuto una lunga gestazione. La figura di Erodiade, madre di Salomé, balza letteralmente fuori dalla vicenda dell’uccisione di Giovanni Battista, colpendo dritto al cuore di diversi autori, Oscar Wilde prima, Testori poi. È lei a spingere la figlia tra le braccia di Erode e a chiederle la testa di Giovanni, colpevole di aver rifiutato il suo amore. Completamente identificata nella sua passione impossibile, Erodiade sfida l’incrollabile fede di Giovanni, ma ne è sconfitta. Cerca la morte per non subire l’onta dell’allontanamento da parte del suo stesso sangue. Erodiade, personaggio che Testori definì “figura a metà fra il Dio astratto e quello incarnato”, sale sulle assi del palcoscenico indossando il corpo di una straordinaria e intensa Maria Paiato, regia di Pierpaolo Sepe. La scena è scura, preconizza l’orrore che di lì a poco verrà narrato dalla protagonista. Una passerella di vetro e lamiera conduce al trono, sul fondo della scena. Pur essendo simbolo del potere, il trono di Erodiade contiene un sentore di morte, essendo così simile a una sedia elettrica. La freddezza del metallo e delle luci, la musica inquietante: gli elementi che introducono allo spettacolo. Ecco arriva lei, Erodiade. Indossa un provocante abito rosso, come il sangue appena versato del profeta; il suo volto è coperto da un velo. Sulla passerella si dirige con passo incerto verso il suo algido scranno, mentre la sua immagine si rispecchia e si raddoppia nel pavimento di vetro. Raggiunto l’obiettivo, complice la musica, il velo cade scoprendo un volto tragico di ceramica, più simile a una maschera della tragedia attica che a una donna reale. Erodiade è schiava di un destino d’amore e morte. Non può fare a meno d’amare Giovanni contro il suo Dio, che ella considera un verbo astratto, una favola. Lo ama nonostante l’odio sprezzante delle parole rivoltele. È lei a donargli il destino di martire, mentre si perde nell’amore di una carne che si fa verbo a dispetto di ogni rifiuto. Ma la morte è l’unica cosa che attende lei “l’umana bestemmia, la cenere, il niente”. Eppure nel morire ritrova la visione Erodiade (Maria Paiato) di quell’uomo che le ha segnato la strada. Quando col pugnale si trafigge, la luce acceca il palco, la musica sale a ingoiare i suoi ultimi vagiti di vita. Concita Brunetti
VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
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VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Teatro DOMINIO INCONTRASTATO DELLA PAROLA PILADE, Teatro Vascello
Dal sipario ecco apparire appena lo spicchio di un volto di donna, illuminato da una luce lunare: è il viso di Manuela Kustermann, direttore artistico del teatro. Poi lo spiraglio si richiude e la sala ripiomba nel buio totale. Ecco, la tragedia presenta se stessa e inaugura la lugubre atmosfera mortuale al lume della quale la narrazione procederà. Dopo poco, il sipario si riapre definitivamente offrendo allo sguardo degli spettatori curiosi una scena evocativa e scarna, a rappresentare la città di Argo. I segni connotativi della scenografia sono tre: un telo dipinto in stile informale che, a mo’ di fondale, sta a significare i monti che circondano la città regale di Agamennone; la reggia è disegnata da due elementi fortemente evocativi, la scalinata e il trono. La storia che prende corpo su questa scena è una tragedia scritta da Pier Paolo Pasolini che, colpito dall’intensità della Trilogia eschilea sulla saga di Agamennone ed Oreste, decide di aggiungere un ultimo atto a suggello del capolavoro greco: il suo Pilade. Rispetto al testo pasoliniano, questa regia di Bruno Venturi è decisamente più asciutta, sia per quanto concerne i testi che per gli attori. L’intera rappresentazione è affidata a solo quattro personaggi: Antonio Piovanelli è Oreste, tornato ad Argo dopo aver compiuto il matricidio ed esser stato assolto da Atena; la Kustermann veste i panni di Elettra, imprigionata in un ordine atemporale che segue ancora la linea del sangue materno e dunque reale che le scorre dentro; Oreste Braghieri interpreta Pilade, l’amico fidato per eccellenza che Pasolini fa andar via e abbandonare Oreste per salvarsi dalla corruzione della città; infine il giovane Salvatore Porcu, un seguace o forse amante di Pilade. Molte sono le intuitive e semioticamente originali trovate sceniche del regista, come la vacca che giace sospesa a mezz’aria sulle teste degli attori, lì a rappresentare la carne, il corpo, la morte degli ideali e delle persone, l’ideale tragico del disfacimento e il pensiero politico pasoliniano votato ad un certo pessimismo. Splendida la recitazione della Kustermann che, non va dimenticato è stata forgiata da un non comune maestro come Carmelo Bene. Fresco e brillante il giovane Porcu, estremamente plastico col corpo, un po’ meno nell’espressione vocale; sarebbe stato decisamente un degno modello per un dipinto del Caravaggio. Eppure tutto ciò non basta a salvare uno spettacolo complessivamente ben fatto, ma affondato dalla recitazione noiosa e cantilenante dei due protagonisti maschili. Nella drammaturgia del lavoro di Venturi domina incontrastata la parola, e lo vediamo dai lunghi monologhi di Pilade e Oreste, la parola come contenuto, in perfetta aderenza al teatro di Pasolini. Ma l’estenuante monotonia delle voci, rese ancor più sgraziate e stonate dal loro volontario indulgere nel vernacolo, dilata il tempo conducendo allo sbadiglio anche lo spettatore più accorto.
Concita Brunetti
TRA FICTION E FANTASIA
CUORE DI NEVE, Teatro Belli
Rappresentazione di uno dei più interessanti temi della vita: la morte. Argomento affrontato da un cast di bambini, età tra i 7 e 13 anni, dove il mondo cui appartengono è la distinzione tra maschietti e femminucce, fra bello e brutto e una visione più semplice e ingenua della vita. Un tema così tragico la cui semplicità restituisce una visione, o meglio un’impressione, meno triste ma più magica e leggera. Positiva l’interpretazione del protagonista Andrea Amato in Mattia, bimbo costretto a letto per problemi al cuore proprio nel periodo di Natale: mentre tutti corrono e giocano con la neve lui, se ne sta solo in camera a pensare quanto sarebbe bello scendere dalle colline con la slitta. È la storia di un bambino comune malato di cuore che allettato non rinuncia a vivere la quotidianità della casa, degli amici che lo vanno a trovare e della cotta per la sua amica Camilla. I giorni passano e la sua stanza diventa scenario di tutti i momenti e dettagli di vita quotidiana e della sua, e gli riempiono il cuore. Sono molte le riflessioni che un cast d’eccezione ci induce a fare: prima fra tutte l’audacia di fare uno spettacolo composto da un cast così giovane. È stata proprio questa la coraggiosa scelta di Guido Governale e Veruska Rossi, ideatori e autori della piece, che, ispirandosi a un modello d’insegnamento di più ampio respiro come quello americano e inglese, lasciano raccontare i frammenti di una vita solo a bambini. Di solito i piccoli attori recitano a fianco degli adulti, in questo caso sono stati i due genitori che marginalmente hanno recitato al fianco dei bambini. L’impronta però richiama i ritmi e gli stili della fiction: la scena iniziale apre con la lettera che Mattia avrebbe scritto a Babbo Natale e che, a mo’dì pellicola, viene proiettata, narrata e accompagnata da una musica. Ma alla fine è sempre la visione infantile e un po’ fantastica che prevale: una notte a Mattia appare una creatura misteriosa di nome Zenorol (Lorenzo Vigevano), angelo-bambino che sceso dal cielo con altri piccoli angeli, si raccontano l’un l’altro del proprio mondo. Nasce un rapporto speciale, alternando parole sentite e silenzi compresi, così Mattia capisce che in fondo non ha niente da temere, e si lascia condurre da loro su nel cielo. Luci, costumi, musica hanno sottolineato con maggiore o minore intensità i momenti più intensi dell’opera e il passaggio al mondo ultraterreno. Risaltano così due realtà che si incontrano, il cielo e la terra, si osservano, poi si raccontano.
Silvia D’Addazio
RITORNA SCIOSCIAMMOCCA
‘O SCARFALIETTO, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Commedia vivace e divertente napoletana di Eduardo Scarpetta, con Lello Arena nel ruolo di Felice Sciosciammocca e il regista Geppi Gleijeses nei doppi panni di avvocato e di t e s t i m o n e . Amalia Sciosciammocca (Marianella Bargilli), Gaetano Papocchia (Geppi Gleijses), Felice Questo testo Sciosciammocca (Lello Arena) è uno dei meccanismi comici di battaglia del padre del teatro dialettale moderno, appunto Scarpetta, che ha saputo adattarlo da molte pochade francesi, creando situazioni totalmente prive di profondità, assolutamente efficaci, grazie al ritmo e alla sapiente calibratura tra battute ed equivoci, per spingere lo spettatore alla risata. Negli anni molti sono stati gli attori e i registi che hanno portato in scena questo testo, ciò che contraddistingue Geppy Gleijeses è che nella messa in scena tende a non farlo diventare una brutta copia dell’originale: per evitare la macchietta attinge all’astrazione, al distacco, al surreale pur partendo da connotati assolutamente realistici cercando una musicalità e un equilibrio in tutta l’opera. Così la scena si apre con personaggi che escono da un libro impolverato come figurette di un mondo che ormai non esiste più, di un passato cristallizzato e nel quale faranno rientro nel finale. Ma ‘o scarfalietto non rappresenta solo la volontà del regista di rendere omaggio a un pezzo di storia della comicità napoletana, è anche una descrizione tragicomica di una delle peggiori realtà di una Napoli di provincia spogliata dai Savoia e annichilita da una piccola borghesia che tenta di farsi strada arrampicandosi sulla burocrazia, una delle poche risorse che le resta. I cancri e le escrescenze di questa società sono spesso ripresi anche non bonariamente di personaggi: ad esempio Amalia, moglie di Felice Sciosciamocca, bravissima nell’interpretare questo personaggio violentissimo e sempre adirato con il marito (Marinella Bargilli), Dorotea Papocchia (Gina Perna) moglie di Gaetano Papocchia che non affila una parola corretta pur atteggiandosi a signora parigina e poi impresari di quart’ordine o avvocati azzeccagarbugli come Anselmo Ranalli, afflitto da una balbuzie equivoca e ironica. Insomma mix di comicità accompagnato da sapiente lavoro di regia. Silvia D’Addazio
MEDIUM E PUBBLICO
SERATA ECCENTRICA (COSE DELL’ALTRO MONDO), Teatro Tor di Nona La compagnia teatrale La Difference mette in scena spettacolo notizie dall’altro mondo regia di Riccardo Reim. Spettacolo tra macabro e grottesco che vede la bravissima Elisabetta De Palo, resa famosa della soap Vivere, nei panni della nota medium Eusapia Palatino: antico personaggio nata a Murge, in Puglia nel 1854. È una medium analfabeta che divenne popolare per le sue stregonerie a volte vere altre volte solo volgari imitazioni con trucchi stupidi e appariscenti espedienti. La scena si apre con il pubblico a diretto contatto con gli attori: lo spazio scenico ingloba anche gli spettatori. Di lato due tavolini illuminati da candele e un grande tavolo tondo sul palco, attorno due persone sedute sulle sedie giacciono colle braccia riverse sul piano orizzontale. La situazione è bizzarra e surreale, un ciarlatano vestito di nero si agita declamando le virtù della medium, mentre di lato c’è un altro uomo che con fare incredulo è ormai stanco di sentire annunciare la celebratissima medium. Lorenzo D’Amento bravissimo e pieno di enfasi continua durante l’opera la promozione della medium, una donna da un carisma tale da attirare a sé nobili e personaggi di spicco nelle sue serate eccentriche. Intanto in scena arrivano i suoi ospiti, all’apparenza due coppie normali che però celano i desideri e le violenze inconfessati dell’Italietta inizio secolo; di quell’epoca così perbenista e tanto ipocrita. Gli attori cercano spesso un contatto con il pubblico cercando di creare un legame, come se volessero render partecipi della seduta spiritica che stava per iniziare. Lo spettacolo si può apprezzare maggiormente vedendola sotto la chiave interpretativa del burlesquè, necessario per spiegare le violente interpretazioni degli attori che spesso urlano usando un distaccato umorismo; altrimenti non rimarrebbe altro che un’operetta bizzarra e a tratti fastidiosa. La narrazione della storia sulla lucertola solare che diventa cieca verso la fine della sua vita viene proposta dalla voce di Elisabetta De palo recitazione perfetta in tutte le escalation della tragicommedia burlesca. In sottofondo il motivo nuovo del compositore delle musiche di scena, Raffaele Nicolì, che in una cornice tragica e grottesca offre note più soavi. Silvia D’Addazio
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TEATRO RITUALE
CERIMONIA, Teatro Quirino Vittorio Gassman
All’interno dei suoi spazi il Teatro Quirino, baluardo di una certa tradizione scenica, sfida se stesso aprendosi alla notevole rassegna Quirino Revolution-Mad, giunta alla seconda edizione. Lo stesso Lorenzo Gleijeses, responsabile artistico del festival, lo definisce "una maniera di far cortocircuitare universi liminali", in quanto al suo interno convivono spettacoli, performance, installazioni, e attraversamenti scenici, all'insegna della contaminazione dei linguaggi e dei nuovi percorsi. Per dare il via a questa seconda edizione si è scelto di dar vita a un biblico evento che, come nella storia della mitica Babele, mescola nature e linguaggi tanto diversi da portare non già a una muta incomunicabilità, bensì alla nascita di un Esperanto teatrale e rivoluzionario. Cerimonia, questo il titolo dello spettacolo di apertura della rassegna, fa un po' da manifesto fondativo della volontà di decostruzione delle nuove modalità espressive del teatro e della danza. Spettacolo difficilmente narrabile, innanzi tutto perché la regia della serata-spettacolo viene consegnata nelle mani dello spettatore. Lo spettatore, quasi bambino in un negozio di caramelle, viene lasciato libero di vagare per ogni anfratto del teatro alla ricerca della sua storia, del suo percorso iniziatico verso i lumi di un nuovo teatro. Cerimonia è spettacolo con un numero impressionante di attori, artisti visivi, performer di varia estrazione, distribuiti in tutte le strutture del teatro, dal palcoscenico agli sgabuzzini, dagli uffici ai camerini. L'illusione che si vive è quella di un cerimoniale convivio nelle viscere del teatro, un convivio in cui attori, danzatori, musicisti, tecnici e spettatori possono fondersi in un unico piatto fumante. La mia personale cerimonia si apre con la musica di Sigourney Weaver, messa in moto dai corpi seminudi di Biagio Caravano e Daniela Cattivelli. Attraverso i suoni casuali di memoria "cageana" e i singulti dei loop elettronici, mi sono addentrata nell'atmosfera magico-rituale. Per sorprendere e scioccare anche lo spettatore più scaltro, si è giocato con gli opposti. Musiche e rumori elettrici sopraffanno o vengono sopraffatti dalla tradizione del teatro partenopeo più macchiettistico di Gino e Gigi De Luca, sarcofago di un teatro che fù. Un teatro che solo e unico strappa ancora un'amara risata a un pubblico che si culla nell'affezione e nell'immediatezza. Eppure è forte il contrasto con ciò che li circonda, e basta poco a strapparci dalla consolazione di una semplice comprensibilità per scaraventarci nel gioco farsesco di Anna Redi e dei suoi danz-attori, che simulano il gioco del teatro elevato al quadrato, coinvolgendo anche fisicamente lo spettatore disorientato. Dal retropalco si giunge ai camerini per una schiaffeggiante carrelata sui mondi e i modi del teatro. Qui possiamo incontrare dichiarati maestri proiettati sui muri, come il crudele Artaud, oppure celati dietro una porta con occhi vivi, come nel caso dell'ancor più crudele Carmelo Bene. Ma sono gli attori vivi che articolano e disarticolano di porta in porta un discorso critico sul teatro, alternando storie narrate in siciliano dal un provetto attore di meno di dieci anni, Marco De Rose, alla narrazione del corpo della Buto dance di Marie Therese Sitza. Come in un vero rituale, finalmente si giunge a un momento di comunione in cui l'individualità forte dello spettatore-viaggiatore solitario si spezza in favore di una fruizione più globalmente e tradizionalmente intesa. Per un attimo o forse più il sacrilego vagabondaggio attraverso le viscere del teatro lascia spazio alla ritualità più integrale e seduti si assiste alla cerimonia che celebra se stessa e la propria storia. Seduti gli spettatori perdono lo scettro della regia e assistiono alle esibizioni partecipate di un’Anna Redi insolitamente attrice, seguita da un omaggio al princincipe della risata, Totò. Chiudere l’eterogenea serata la comicità patafisica di Antonio Rezza, con un rapido collage di suoi classici. Concita Brunetti
UN CORPO DI CIGNO CHE SATURA UN TEATRO ODETTEODILE INVESTIGATIONS, Teatro Quirino Vittorio Gassman Un pizzico d’immaginazione può servire, aiuta a dosare gli elementi scenici, cogliendoli al di là della loro fisicità in una visione d’insieme che prende corpo nel momento in cui si arretra per meglio mettere a fuoco. Ciò è necessario perché OdetteOdile Investigation non è né danza né teatro, ma corpo animale, forza viva, ambiente spettacolare scrive il regista- “...ispirato al luogo dove si svolge l’Evento..”. La I Variazione su Il Lago dei Cigni di Enzo Cosimi è una visione moderna della fiaba che fa da sfondo a uno dei più noti balletti dell’Ottocento, completamente filtrata attraverso occhi femminili che si moltiplicano per circondare la platea e raccoglierla sotto grandi ali. Odette e Odile, la regina dei cigni e il suo alter ego, sono un bianco e un nero che si alternano e si accompagnano sul palco tra vapori e luci, corpi nudi e magri che nelle moderne movenze nervose rielaborano i passi di danza classica. Odile, dipinta di un nero uniforme, reagisce alle note con gesti sincopati, la figura si contorce su un cubo o serpenteggia solitaria per tornare accanto alla chiara Odette a esibirsi in momenti paralleli, vicine ma senza sfiorarsi. La storia d’amore del principe Siegfried e della regina dei cigni, ostacolati dall’ammaliante fascino della subdola Odile, procede per simboli e immagini che si fanno sineddoche di uno spettacolo compatto e concreto, che fuoriesce dallo spazio scenico per circondare il pubblico tra piume, corse e pendagli lucenti. Ventiquattro bambine dell’Accademia Nazionale di Danza entrano ed escono per occupare i corridoi e il proscenio, la loro delicatezza infantile è uno stormo bianco imprevedibile, un imponente animale che riempie l’evento. La figura maschile sul palco, più che principe infiammato, è coordinatore della scena, e il regista Enzo Cosimi ricopre metateatralmente questo ruolo, trainando le redini dei momenti scenici facendosi all’occorrenza compagno, tecnico, didascalos. La freccia che lo trafigge nel finale è un atto di morte, ma il pubblico applaude a un corpo denso che ha posseduto la vita in ogni suo arto. Francesca Martellini
UN FATTO DI CRONACA DI IERI, OGGI, DOMANI FATTO DI CRONACA, Teatro QuirinoVittorio Gassman La violenza contro la donna, si sa, è vecchia quanto l’uomo, ma stavolta non è colpa sua, ed è lui quello da salvare. Aveva ragione il barbiere, gliel’aveva detta giusta il macellaio su Clara, la figlia dell’accondiscendente Don Giovanni, che ripiega festoni di carta mentre la figlia apre la porta e le braccia al biondo Alfredo e alle sue smancerie da giovanotto dei sobborghi napoletani di inizio secolo. Arturo Sammarino entra in casa proprio nel cuore dei festeggiamenti per l’onomastico del suocero, e la sua presenza svuota la scena. Rimasti soli accusa la moglie Clara che piange, nega, lui fa per alzare una sedia ma lei arretra, precipita dal balcone. Un volo lungo visto al rallentatore, tra le vesti che si scompongono e un ventilatore in scena che sferza la luce scomponendola in raggi intermittenti. La morte della donna è stata un incidente, che solo Scemulillo può provare per scagionare Don Arturo, ma è sufficiente una parola di troppo, un fraintendimento, la soggezione davanti alle forze dell’ordine, e un innocente viene arrestato. La folla scomposta davanti al cadavere miseramente coperto da un lenzuolo bianco, la stessa che finora si è costituita in un coro di alibi e commenti tra arretramenti e alzate di braccia, grida contro l’ingiustizia accusando lo sconvolto garzone, che -povero ragazzo- se viene chiamato Scemulillo un giusto motivo ci sarà. Dal primo atto con la festa terrazza al vicolo popolato da povera gente, arrivando al momento conclusivo ambientato nel piccolo appartamento di una famiglia disperata, le scene si susseguono come uno zoom in restringimento su una realtà segnata dall’omertà e dalla salvaguardia del proprio interesse, dove una parola è troppa ma è lecito abbondare quando altri non sentono, e la verità è un lusso che nasce solo davanti alla minaccia. Il lavoro che Arturo Cirillo compie con la compagnia Punta Corsara si fonda sull’elaborazione di un testo scritto nel 1922 da Raffaele Viviani, multiforme uomo di teatro napoletano, e pur mantenendo un’ambientazione d’inizio secolo non si richiedono grandi sforzi d’immaginazione per accostarne le tematiche al presente. Punta Corsara è un gruppo che nasce e si consolida all’interno di un laboratorio di formazione promosso dalla Fondazione Campania dei Festival, finalizzato all’educazione teatrale giovanile e alla trasformazione in centro culturale del semi-abbandonato Auditorium di Scampia. Affiancando ai giovani attori alcune delle “punte di diamante” della sua storica compagnia (Salvatore Caruso e Rosario Giglio), Arturo Cirillo costruisce uno spettacolo corale, dove la comicità amara nasce dal tragico e dai ritmi serrati, dai sotterfugi e dalle menzogne e -soprattutto- dalla paura dell’altro. Una continua mistione che mette alla prova gli attori, professionisti o meno che sul palco sanno mostrare, con tutta la loro genuina napoletanità, il fatto e le contraddizioni che vi sono dietro. Francesca Martellini
VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Teatro
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VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Teatro
QUANDO LA MORTE METTE SOLO A DISAGIO
AMMAZZANDO IL TEMPO, Teatro Quirino Vittorio Gassman
Lo spettacolo inizia con mezz’ora di ritardo: “Julia ha bisogno di altri 10 minuti”, spiega il ragazzo che si affaccia dalla porta laterale. In sala le maschere gesticolano da una parte all’altra per indicare ai possessori di biglietti non numerati i posti disponibili -a terra e nelle prime due file- perché oltre non è garantita la visibilità. Una ventina di minuti dopo il pubblico si alza per applaudire a una scena vuota, accenna pure un battito di mani più ritmato e esortatorio, ma Julia Valery, storica attrice dell’Odin Teatret, unitasi alla compagnia di Eugenio Barba sin dal 1976, non esce a riceverli. I 17 minuti della vita di Mr. Peanut, come recita il sottotitolo, si srotolano con velocità all’interno di questi momenti extra teatrali “poco distesi”, che alternano nello spettatore un senso di sospensione e di attesa alla percezione di essere quasi elemento di disturbo, un “di più” che richiede di essere arginato e contenuto. Il personaggio-simbolo dell’Odin Teatre entra in scena seguito dalla musica, che con brani eterogenei scandisce i tre momenti dello spettacolo. Mr Peanut, con il corpo impacciato e sproporzionato dalla piccola testa-teschio, è viandante in frac sull’ammaliante e triste tromba di John Coltrane, compie il gesto di seminare, stende biancheria intima su un filo da bucato, si pettina il cranio rasato, spara silenziosamente al pubblico con una minuscola pistola che poi si punterà alla tempia. La lentezza dei gesti si adagia sulle note jazz, finché le luci non si riaccendono su un animato swing, e Mr. Peanut si spoglia per diventare massaia in abito rosso che pulisce a tempo di musica. È un’emozione pungente quando accudisce il bambino che dormiva nella piccola bara, le dita magre dell’attrice trastullano il bambolotto, ma la goffaggine del corpo-scheletro incombe rendendo la scena agghiacciante e fastidiosa. È forse questo il contrasto che colpisce lo spettatore allo stomaco, il momento in cui vive sulla scena “l’homo agens che cambia e si cambia”, come scrisse Barba quando esplorava e spiegava quello che il professor Marco De Marinis, in prima fila, ha indicato come uno dei momenti del “Nuovo Teatro”. Le immagini sono di facile lettura, immediate nella loro antinarratività, si seguono senza la pretesa di leggervi un senso permettendo alle sensazioni individuali di manifestarsi con intensità maggiore o Julia Valery minore. Un gioco di prestigio rende scheletrico il bambolotto, che si adagia scomposto tra le braccia di una sposa-cadavere che china la testa sull’Ave Maria di Schubert, e le note che sfumano lasciano un senso di disagio che avrebbe potuto essere terrore. Francesca Martellini
LA SPERIMENTAZIONE È ANCHE ASSIMILAZIONE E RIELABORAZIONE DI METODI ITALIA–BRASILE 3 A 2, Teatro Quirino Vittorio Gassman
In scena uno degli affermati talenti del teatro di narrazione contemporaneo. Davide Enia, un condensato di tradizione e sperimentalismo; è sul palco con una seggiola, e tanto gli basta per forgiare un racconto, una favola contemporanea; verosimile, amara e dolce di un quotidiano antico, ma che suona note ancora orecchiabili. Quella di Enia è la storia che il pubblico-bimbo brama di sentirsi rivelare. Al centro dell’azione un evento di cronaca che in sé può ben dirsi banale, una partita di calcio, quella che portò la squadra italiana ad aggiudicarsi la vittoria ai mondiali del 1982. Una delle più note imprese calcistiche della tradizione italiana semirecente diventa, in questo spettacolo, uno spaccato di vita familiare, intima, e insieme una storia collettiva di tutta una classe piccolo e medio borghese italiana che, in un pomeriggio d’estate, fece di undici sconosciuti in calzoncini corti la possibilità di riscatto e di realizzazione personale di tutta una vita. La matrice siciliana è ricercata, ma non inseguita, è naturale estrazione, educazione e formazione di uomini. Lo spettatore è cullato da un accento marcato, ma elegante di rotondità e di termini onomatopeici e precisi, affinati dai secoli per leggere e riscrivere con le tinte più giuste le storie di Sud, che profumano di pranzo in tavola di balconi assolati, di case rumorose e premurose, come le mamme che passano le dita affusolate nei riccioli dei figli. Una narrazione tanto immaginifica quella a cui si assiste, eppure fortemente radicata nei movimenti, fisica, cadenzata di respiri costruiti, ritmici; perfettamente complementari con lo scorrere dell’azione. Accompagna il racconto una base strumentale, che si
affianca alla parola completando il quadro armonico dell’esposizione. La narrazione vive di una parte dolcemente fiabesca, fattuale, e di una quasi meccanica, che è costruzione di voce e tempo. Prova lampante che la sperimentazione è anche assimilazione e rielaborazione di metodi che la tradizione stessa tramanda, il lavoro di Davide Enia si muove con un occhio al David Enia e i musicisti Giulio Barocchieri e Fabio Finocchio passato, nella generazione di senso così come sul terreno della costruzione di forma, ma senza scadere mai nel nostalgico. Non si ammorba nel ricordo e non si fregia di tecniche narrative arcaiche pure, ma seleziona e poi centrifuga le esperienze del passato per permettersi di creare dal vecchio il nuovo, e, intelligentemente, ripropone forme contemporanee, con estrema semplicità e pulizia, eppure che non recidono le radici. Ofelia Sisca
STORIE SEDUCENTI CHE TRASUDANO BENE E MALE, CHE ATTRAGGONO E RIPUGNANO IL LIBRO DELLA VITA, Teatro Quirino Vittorio Gassman Ci sono storie seducenti, quelle che catturano l’attenzione, che trasudano bene e male, che insieme attraggono e ripugnano. Quella di Alì, Mimoun El Barouni, è pregna di odori, di immagini disgraziate e congiuntamente di una speranza, forse, in fin dei conti e dopo tante peripezie, neanche del tutto disattesa. Un racconto di vita, di immigrazione, droga, violenza, botte e galera. Una storia che oggi potremmo sentir raccontare, o molto più probabilmente accuratamente nascondere, a ogni angolo di porto. È forse anche questa normalità aberrante, che ignoriamo nella quotidianità, che ci avvicina fatalmente ad Alì, alla sua vicenda, e insieme al narratore attraverso cui percepiamo i fatti e il cuore della storia. Il racconto, infatti, è affidato all’attore detenuto Jamel Bin Salah Soltani, che come un cantore, antico nella sua voce cavernosa e calda, rivive, dolorosamente, un passato non suo, ma che sulle sue personali ferite brucia come il sale. L’attore è greve nell’abito scuro, e fasciato, stretto dal buio, e una lampadina pallida gli rischiara solo il viso. Le parole sono pesanti meticce di stralci di poesia araba, misticamente chiara e commovente, tanto quanto è incomprensibile di senso. Non una smorfia segna il viso di Jamel che si rispecchia in quello di Alì, ogni tanto un ghigno scivola sul volto serio e granitico. Contrito. Le mani serrate in un intreccio stretto, quasi Alì Mimoun El Barouni (Jamel Bin Sakah Soltani) contenitivo, Jamel trattiene a sé e dispensa con parsimonia, e somministra con dolcezza, le pillole amare di una vita sbagliata, di Alì, della sua; una pillola che prova a guarire, fuori dal giustificazionismo e dall’assistenzialismo, dalla paura e dalla mania di giudizio. Un lavoro a quattro mani -e una voce, quella di Soltani- scritto da Alì insieme con Armando Punzo, regista di tutti gli spettacoli della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra. Ancora una volta un lavoro personale e graffiante, che non ha paura di buttare il cuore di chi vive o ha vissuto la condizione carceraria in pasto al pubblico, che risponde, anch’esso, anche questa volta col cuore.
Ofelia Sisca
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NESSUNO LANCERÀ LA PRIMA PIETRA
LE STREGHE, Teatro dei Contrari
Su ogni poltroncina di velluto c’è una pietra, un bel sasso bianco che inevitabilmente ogni spettatore deve spostare per abbassare il sedile. Assale il dubbio (metterlo in borsa? Poggiarlo a terra?) e intanto inizia lo spettacolo con un oggetto di linciaggio che diventa ardente tra le mani. “Le streghe hanno smesso di esistere quando noi abbiamo smesso di bruciarle”, recita un aforisma di Voltaire, ma cinque storie dei nostri giorni illuminano un presente in cui il mito della donna “nera”, sebbene uscito dalla sfera della credenza per depositarsi in quella dell’epiteto, innesca roghi metaforici generanti combustioni che marchiano a fuoco. “Strega” è la professoressa che affetta una verza con quella stessa sapiente crudeltà con la quale chiede agli studenti un esempio di sineddoche, che gode del terrore che genera lo scorrere del suo dito tra i nomi del registro e intanto proprio di questo animo giovanile si nutre, per colmare un vuoto di affetti e di sentimenti che la precoce responsabilità familiare le ha riversato addosso. “Strega” è la mamma smarrita e svuotata che lava un golfino bianco su parole agghiaccianti delle quali ha perso coscienza, è la sindacalista molto fastidiosa che trova l’appellativo sul muro di casa il giorno prima di essere devastata dall’acido, è la suora “praticante non credente” che fa il bagno in una vasca di bolle e sorride sul misticismo affascinante della sua catechista. La femmina accabadora emerge dalle piaghe del tempo, il suo non è lavoro ma destino e il suo sguardo stanco racconta il lato umano di una pratica che oggi scinde la società: l’eutanasia. Ciascuna di queste storie, tra cronaca e storia, è lontana anni luce dalla seduzione e dalla magia e tremendamente vicina alla universale fragilità umana, all’incomprensione, alla solitudine, al pregiudizio. Delicato e pulito è lo spettacolo di Linda Di Pietro, che fa indossare i monologhi di Marco Avarello a bravissime attrici: Tiziana Scrocca, Marta Nuti, Antonella Civale, in grado di riversare il dramma e il disagio nelle parole misurate e nei gesti contenuti che le rendono talmente reali da mettere a disagio. Si lascia la sala dopo aver appogAntonella Civale giato il sasso bianco lì dov’era: davanti all’intimo di cinque donne nelle quali magari ci si è riconosciuti, nemmeno ha sfiorato l’idea di colpevolizzare e ci si è quasi scordati della pietra tra le mani, ma quante volte non si è esitato ad alzare il braccio? Francesca Martellini
LA DIVERSITÀ È PARTE DELLA BENEDIZIONE
ABRAMO, Chiesa di Santo Spirito in Sassia C’è un punto di contatto tra le tre grandi religioni monotesiste che può diventare volano per una convivenza pacifica, serena e reciprocamente rispettosa? Più che un punto, è una figura carismatica, moralmente un gigante, il patriarca per eccellenza: Abramo. La Bibbia racconta con dovizia di particolari la vicenda umana e metastorica del patriarca-profeta, l’uomo che prima di Mosè, prima di Maria di Nazareth dice “sì” al Dio d’Israele, seguendolo anche su strade sconosciute e ignote e offrendogli il più grande sacrificio che una divinità possa chiedere a un fedele: l’uccisione del proprio figlio innocente. Ed è proprio nella paternità obbediente la chiave di lettura del personaggio Abramo: dai suoi due figli, avuti da due donne diverse, deriveranno due mondi assurdamente in conflittto: da Ismaele (nato da Agar) il mondo islamico, da Isacco (nato da Sara) il mondo ebraico/cristiano. Questo dato fondamentale (storico o no che sia, o generato da diverse tradizioni religiose) dovrebbe porre fine a ogni conflitto in Terra Santa: siamo tutti figli dello stesso padre! Lo spettacolo, realizzato in occasione del Sinodo Speciale dei Vescovi sul Medio Oriente, è un progetto pluriannuale, che nato a Roma si sposterà poi proprio
QUANDO LA SATIRA ERA ELEGANTE SORRISO IN UN VECCHIO PALCO DELLA SCALA, Teatro dell’Angelo Per ricordare e giustamente celebrare i 70 anni dell’inizio delle attività del Quartetto Cetra, il gruppo Pandemonium porta da anni in scena un gradevolissimo spettacolo intitolato proprio con uno dei maggiori succesi del celebre quartetto canoro. Il Quartetto Cetra rappresenta una tappa importante nella storia della rivista e ancor più nella storia della radio e della televisione italiana. Attenzione, si parla della televisione italiana delle origini, dove, se pur c’erano lotizzazioni e clientele, c’era anche e soprattutto qualità del prodotto, perchè vigeva anche il rispetto dell’utente e dello spettatore. Quattro persone, quattro voci diverse, un’unico obiettivo: attraverso le canzoni (meglio ancora se dal ritmo swing americano!) raccontare una storia e amorevolmente sottolineare con una garbata satira difetti e difettacci dell’italiano medio. Ogni canzone era una storia, raccontava un piccolo avvenimento, spesso spiritoso, non solo emozioni e abusate rime “amore-cuore”. Virgilio Savona in testa (il “genio” musicale del gruppo), Lucia Mannucci (sua moglie, l’unica ancora viva), Tata Giacobetti e Felice Chiusano fanno poi un passo successivo: mettono in scena un classico della letteratura con lo strumento della parodia musicale nella felicisssima trasmissione del sabato sera “Biblioteca di Studio Uno”: indimenticabili Il Conte di Montecristo, il Fornaretto di Venezia, Il Conte Dracula, l’Odissea, I Promessi Sposi, solo per citare i più noti e i meglio riusciti. Assieme a grandi attori televisivi e teatrali, la formula era gradevole e ben costruita e in un popolo ancora troppo poco alfabetizzato faceva nascere la voglia di leggere, leggere. leggere. I Pandemonium, abbandonata da anni la canzone leggera tradi- I Pandemonium zionale (che pur li vide applauditi interpreti trent’anni fa a San Remo) hanno ripreso con intelligenza e capacità questa formula, accreditandosi come gli eredi del Quartetto, pur se, non me ne vogliano, i Cetra restano doc e inimitabili! Maria Pia Monteduro
in Medio Oriente; spettacolo con stuttura musicale, ideato e diretto da Lorenzo Cognatti, è stato portato egregiamente in scena dal gruppo teatrale Jobel che dalla sua fondazione dieci anni fa nell’anno del Giubileo (jobel è l’antico strumento ebraico con cui si dichiarava l’apertura dell’anno giubilare) è molto interessato a un teatro religioso, dove con tale termine s‘intende l’attento recupero della tradizione teatrale in cui il mito e il rito s’intrecciano: da qui il recupero di molte forme teatrali medioevali e goliardiche. Lo spettacolo coinvolge e commuove, pur se forse in alcuni momenti la regia cerca di ammiccare al pubblico, che infatti risponde con entusiasmo. L’evento è ancora in progress e nella sua lunga tourneè si arricchirà sempre più di suggestioni e diverse scelte. Resta basilare comunque l’ultima battuta, affidata a Abramo, che è la chiave di volta dello spettacolo ed è la cifra intepretativa dell’atteggiamento positivo e propositivo nei confronti di fratelli di altre religioni “La molteplicità è il segno della diversità, quindi la diversità è parte della benedizione“. Speriano che quest’insegnamento non rimanga vox clamans in deserto! Maria Pia Monteduro
PER NON TRADIRE ENDRIGO NEL MIO PERIMETRO DI SOLE, Teatro Due Sergio Endrigo è stato uno dei dei maggiori cantautori italiani, non c’è dubbio. Pur se fu cantante di grande successo,vincitore anche di alcuni Festival di San Remo, egli non tradì mai la sua vena più autentica, riuscendo sempre a realizzare canzoni in cui il testo non era mai banale, anzi. Ecologista ante litteram, quando il problema dello sfruttamento delle risorse Gianni De Feo della Terra era ancora quasi sconosciuto, Endrigo compone canzoni appunto ecologiste e impegnate, traducendo a volte poesie di autori stranieri, spesso in collaborazione con l’amico Sergio Bardotti. Di se stesso amava dire di essere non un cantante, ma più semplicemente un uomo che canta. Ciò premesso è sempre lodevole l’iniziativa di dedicare all’artista istriano un recital, alternando all’intepretazione di molti suoi brani noti la lettura interpretata di alcune poesie, meno note, ma non per questo meno interessanti. Ciò però che non convince assolutamente dello spettacolo messo in scena da Gianni De Feo è l’interpretazione offerta proprio delle canzoni di Endrigo. La libera interpetazione deve sempre essere rispettata, è ovvio, ma ci si domanda che senso abbia il “trascinare” le note e la melodia in un ritmo lento e sicuramente altro da quello che aveva ideato Endrigo. Una nuova intepretazione, a parere della scrivente, sicuramente da rispettare, ma che non rende omaggio all’artista, per chi ha avuto la fortuna di ascoltare la sua musica quand’era in vita, e tale da non attirare nuovi estimatori. La grandezza di Endrigo è sempre più omaggiata, ad esempio, da Franco Battiato che negli ultimi anni riscopre autentici capolavori, intepretandoli naturalmente a proprio modo, ma non tradendo la struttura della melodia endrighiana, valorizzando la forza autentica e la poesia struggente dei testi. Maria Pia Monteduro
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VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Teatro
SE UNA SERA D’AUTUNNO UN DIRETTORE
SCONCERTO, Auditorium Parco della Musica
La campagna abbonamenti alla stagione concertistica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia troneggia nella capitale su autobus e marciapiedi con cartelloni colorati, uno dei quali spicca più simpatico tra gli altri: “BACCHETTA. Se hai pensato solo a Herry Potter, forte è tempo di abbonarsi a Santa Cecilia”. Vien da sorridere nell’accostare lo slogan allo spettacolo che per tre giorni ha saturato la sala Sinopoli dell’Auditorium, perché, sebbene sul palco sia schierata l’Orchestra del Teatro San Carlo di Napoli, la bacchetta che la dirige si addice più a un maghetto che a un direttore in religioso frac nero. Toni Servillo sale sulla pedana tra gli applausi, si inchina al pubblico, alza le braccia agli strumenti e guida le prime note, tanto che per qualche secondo quasi si crede di assistere alla sinfonia d’apertura, a una linearità di movimenti e passaggi che rapiscono le menti trascinandole nel paradisiaco mondo della musica da camera. “...E ora, cosa mi sento dire? Che la volete fare?!? Sicuri, sì? Va bene allora, facciamola, facciamola una bella sinfonia. Ma su cosa la facciamo? Io una proposta ce l’avrei. Facciamola sulla perpetua rapina della vita, che mica è chiaro quando è cominciata, mentre è perfettamente chiaro che mai sarà finita...”. La testa del direttore d’orchestra ribolle, è scossa da agitazioni e turbamenti, e il tentativo di farvi ordine lo rendono ventriloquo della ironica tragica quotidianità che smarrisce chiunque tenti di razionalizzarla. La rigida figura di colui che per antonomasia crea e orIl Direttore d’orchestra (Toni Servillo) dina attraverso il gesto viene ribaltata per divenire soggetto che parla e disorienta, sconcerta, proprio perché si perde in soliloqui e flussi di coscienza che conducono ovunque e in nessun luogo, lanciando sul campo perplessità e punti interrogativi. Un patchwork di amara contemporaneità si compone davanti ai nostri occhi spaziando dai giochi di potere alle riflessioni su ossimori diventati scontati nel nostro parlato (delle morti sul lavoro ci si chiede come sia il suono della loro fine; “...No, professori, non ci siamo, il bianco della morte non si sente…”), indagando poi la natura degli animali, fondendo citazioni di Montaigne con onomatopee palazzeschiane e slogan da rotocalco, mentre ci si rivolge a un dio lontano per ricordargli che l’uomo si è fatto da solo. Una voce si stacca dall’orchestra, inveisce con il dito puntato. Peppe Servillo è la voce e il sentimento del “coro”, popolo allo sbaraglio perso nello smarrimento di chi è costretto a vivere senza pensare. “...Commedianti siamo diventati tutti quanti, un passo al giorno, senza rendercene conto. Sinceramente falsi, falsamente veri: in breve, inautentici e sinceri...”. Tre personalità hanno concertato insieme per generare un “teatro di musica” in cui note, testo e gesto si fondono, si scontrano e talvolta si accompagnano in un cortocircuito di 50 minuti che sembra un’eternità. Franco Marcoaldi, poeta, scrittore e giornalista, si fa accompagnare da Toni Servillo (cui è affidata la regia) e dal compositore Giorgio Battistelli, per generare una partitura che schiaffeggia il pubblico. Talvolta c’è veramente bisogno di riallacciare la connessione con ciò che avviene in scena, perché se la mente del direttore vaga anche quella dello spettatore rischia di distrarsi, di fermarsi a riflettere su uno spunto perdendo i due successivi. Forse perché il tono volutamente accademico dell’attore crea assuefazione ma non ipnotizza, forse perché la musica si accontenta poco di fare da sfondo e cerca di emergere e dialogare con imponenza. Rileggere il testo edito da Bompiani aiuta a rivalutare lo spettacolo, poggiato su una struttura imponente, nato da un’idea ambiziosamente ben riuscita, ma non c’è da stupirsi se qualcuno, tra gli amanti del Servillo goldoniano, resta perplesso e un po’ deluso. Francesca Martellini
PATHOS DIONISIACO DI ANTICHE FILASTROCCHE CI VEDIAMO POCO FA, Teatro Eliseo La Napoli piegata e piagata dalla devastazione dello scandalo de ‘a monnezza, l’amore per una città meravigliosa e dolente, l’istinto forte del popolo partenopeo, l’incomprensione per le forti contraddizioni di questa città: tutto questo, e molto altro ancora, nell’ultimo spettacolo di Beppe Barra, inserito negli eventi organizzati per creare l’atmosfera di attesa per Napoletango (di cui riferisce la collega Ofelia Sisca da queste stesse colonne). Beppe Barra, figlio d’arte, cantante, attore, interprete straordinario, presenta alcuni brani dal suo ultimo CD, inserendoli in un discorso ampio e variegato in cui si tratta della guerra (dove brechtianamente a perdere sono sempre i poveri), dei briganti che forse tanto briganti non sono... ,dando al tutto un’improbabile cornice da Cafè Concerto e da Varietà. La parola pregnante, lo spessore incontaminato e denso del dialetto napoletano, assieme ai brani più classici tratti dal repertorio della canzone italiana per antonomasia, offrono a Barra l’occasione di essere mattatore assoluto, animale da palcoscenico che in un crescendo, avvolgente e coinvolgente, recupera e amplifica tutta la carnalità del mondo partenopeo, il pathos dionisiaco e seducente di antiche filastrocche, la fisicità mai grossolana della migliore napoletanità. Basti per tutti la solare e ammiccante interpretazione del brano La Ballata del uallarino, in cui lo stesso Barra conduce il leit-motiv scandendolo con il suono caldo e
Beppe Barra
mediterraneo delle nacchere: il pubblico aveva difficoltà a trattenersi dal ballare! Maria Pia Monteduro
TUTTO NELLO SPETTACOLO È MUSICA NAPOLETANGO, Teatro Eliseo
Napoletango è una Napolìade: epopea celebrativa di una città che si rispecchia in una famiglia e viceversa. Una famiglia caotica, disordinata, disonorata, disorientata, dalle urla e dal pianto facile, ma piena di vigore e passione, col sangue negli occhi capace di reinventarsi e riuscire in imprese rocambolesche. Il racconto è quello delle vicende di un gruppo di persone al limite dell’umiltà sociale, che convertono le loro personali disperazioni nel disperato, appassionato Tango Argentino. Storia profondamente umana di una realtà al limite della crudezza, del disagio, del surreale che trasborda quasi naturalmente, senza forzature, nello spettacolare. La teatralizzazione è forse l’unica via non di riscrittura della realtà, bensì per riuscire a rileggere la realtà sotto una chiave sopportabile. Il riso è forte come un pianto desolato. Il fatto nasce fuori dalle tavole del palcoscenico, l’azione germoglia fuori non solo dalla sala, ma dalla porta del teatro, in strada, quasi che a dare il là alla vicenda sia proprio quella strada nuda, caotica e cittadina che i personaggi sentono come casa. Con una tarantella quasi arrabbiata gli interpreti trascinano la gente in sala, e il pubblico assiste in prima persona al passaggio fantastico che tramuta la vita in teatro. Gli attori sono uomini e donne che lavorano alla conversione delle proprie identità di singoli in quella di gruppo e di ballerini di tango. Il lavoro che accompagna interpreti e personaggi nel mutamento è percepito bene dal pubblico, che segue l’azione con grande partecipazione, aiutato dal continuo dilagare del gesto teatrale nella platea, che da rumorosa stazione dei treni, arriva a divenire, in un crescendo emozionale, una fumosa balera, in cui pubblico e attori si confondono e si intrecciano di sguardi e di passi prima abbozzati, poi veri balli. Tutto nello spettacolo è musica e i passaggi tra intreccio narrativo e danza sono fluidi, quasi naturalmente attesi. Il caldo è asfissiante e insieme un ballo ritmico, quasi catartico. Il lutto è fatto di passi concitati di addio, paura di solitudini, musica forte, confusa, l’ambizione della riuscita è movimento, l’amore è attrazione e respingimento di corpi danzanti. Magia del teatro, del tango -forse anche di quel animo napoletano bello di contraddizioni- la tragedia pura, che è il fulcro di questo lavoro, si sporca delle più pure risa ed entusiasmi. Il lavoro rimane tuttavia sull’uscio della porta che divide la realtà dal teatro nel senso più autentico, bagna le mani nelle possibilità di sublimazione tra musica, scena, vita, ma più che una reviviscenza regala una piacevole fotografia, pur se viva di tensioni di verità. Ofelia Sisca
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INVITO A TAVOLA. CERAMICHE MEDIEVALI E MODERNE ALLA CRYPTA BALBI, Museo Nazionale Romano, Crypta Balbi
Il sito archeologico della Crypta Balbi documenta le trasformazioni di un quartiere di Roma dalla prima età imperiale, periodo in cui fu eretto il teatro di Lucio Cornelio Balbo, con il suo vasto cortile porticato, all'età moderna. In questo lunghissimo periodo di tempo, attraverso il Medioevo, il Rinascimento e infine gli anni della post unità, si sono succedute diverse fasi, analizzate nel corso di anni di ricerche archeologiche in situ. Gli scavi, soprattutto nell'area dei mondezzai, hanno restituito una grande quantità di ceramica da mensa, lo studio della quale, oltre a fornire dati importanti sulla vita del sito, consentono di avere un'idea sulle abitudini a tavola, sui cambiamenti sociali ed economici, di chi abitava in quella zona nelle varie epoche, campione esemplificativo della società coeva. In mostra circa 200 pezzi, in ordine cronologico dal Medioevo al Settecento. La varietà delle tipologie, delle forme e delle decorazioni sono testimonianza diretta della vita quotidiana: nei secoli XI e XII. Frequente l'uso dell'olla, recipiente per la cottura di minestre e zuppe, cibi di semplice elaborazione; nei secoli successivi la comparsa di prodotti più raffinati, soprattutto nella decorazione, testimonia la presenza di classi più ricche e in generale un miglioramento della qualità della vita urbana. Compaiono anche gli stemmi araldici dell'aristocrazia romana che avevano commissionato gli oggetti. Nel tardo '500 si comincia a produrre servizi da tavola nel senso moderno, cioè forme differenti per diverse pietanze e diversi usi con la medesima decorazione. Nel '600 diviene di gran moda il consumo di caffè e cioccolata, prodotti giunti dal nuovo mondo. La produzione di tazze e tazzine danno indicazione su come queste bevande erano consumate: di particolare interesse la tazza di caffè, di piccole dimensioni, indice che già allora, in Italia, il caffè si consumava "stretto". Il carattere quotidiano degli oggetti illustra particolari della vita sociale, aspetto fin troppo trascurato in passato, ma che ora sta avendo nuovo impulso negli studi e nuovo interesse. Sarebbe auspicabile che questa esposizione da temporanea si trasformasse in sezione stabile del museo, già in parte votato a illustrare il quotidiano. Maria Rosa Patti
TORNA ALLA LUCE UN PUTRIDARIUM A ROMA Durante i lavori di restauro, ancora in corso, nella chiesa di Sant’Andrea delle Fratte nel rione Colonna, è stato rinvenuto, sotto l’altare maggiore, un putridarium, sorta di cimitero. Si tratta di un unicum a Roma: infatti se ne hanno testimonianze solo nel Sud Italia, anche se nel 2000 sono state rinvenute tracce di un putridarium nella cripta di San Primo, nei sotterranei dell’Archivio di Stato a Milano. A questa singolare forma di sepoltura era collegata la pratica dei “seditoi”. I de- Putridarium di Sant’Andrea delle Fratte funti invece di essere seppelliti, venivano posti su seggiole in muratura, con un foro al centro, sotto il quale era sistemato un vaso, lo “scolatoio”. Una volta terminato il processo di decomposizione, le ossa erano raccolte e deposte nell’ossario. Nella chiesa dedicata a Sant’Andrea, si accede al putridarium attraverso una botola sotto l’altare maggiore e per mezzo di una scala si entra in un piccolo ambiente con seggi in muratura disposti lungo le pareti. I sedili sono perfettamente conservati e sono ben visibili il foro centrale e il vano per il vaso. Soffitto a volta con apertura per arieggiare l’ambiente. Nel lato sinistro della cripta un muretto forse divideva il cimitero dall’ossario. Sono visibili anche delle cassette in piombo probabilmente contenenti le ossa dei monaci e una piccola tabella con l’iscrizione “ Hic iacet Rmus P. Genlis Marini provie Bonomiae” che ricorda il reverendissimo Padre Generale della provincia di Bologna, qui sepolto. La chiesa di Sant’Andrea, che fino al 1585 era chiesa nazionale degli Scozzesi, fu infatti affidata, insieme al vicino convento, all’Ordine dei Minimi di San Francesco di Paola. Il Marchese Ottavio Cancellieri del Bufalo, che aveva palazzo vicino alla chiesa, ne curò la ricoSeditoio del Putridarium di Sant’Andrea delle Fratte struzione. I lavori iniziati dal Guerra nel 1604, furono poi commissionati al Borromini, cui si devono l’abside, la singolare cupola rinforzata da contrafforti diagonali e il bizzarro campanile a due ordini con capitelli costituiti da erme di Giano bifronte. Marina Humar
NUOVA VITA ALLA BASILICA EMILIA MEMORIA DI ROMA GLI AEMILII E LA BASILICA NEL FORO, Basilica Aemilia Nell’ambito dei lavori di restauro delle aree archeologiche del Foro Romano, del Colosseo e del Palatino è stata allestita una mostra per dar nuova vita all’unica basilica di età repubblicana Fregio di Tarpea (particolare),Basilica Emilia, II secolo a. C. ancora superstite a Roma. La basilica Emilia fu eretta nel foro dai censori Marco Emilio Lepido e Marco Fulvio Nobiliare nel 179 a.C. come edificio coperto dove svolgere attività economiche e giudiziarie, ma anche come luogo di propaganda politica della famiglia degli Aemilii. Marco Emilio Lepido infatti ne fece ornare la facciata con le imagines clipeatae degli antenati. Gli Aemilii, come tutte le famiglie importanti, vantavano illustri progenitori, tra cui il re Numa Pompilio, la cui statua togata, rinvenuta nella Casa delle Vestali, è esposta per l’occasione nella Curia Iulia. La mostra ricostruisce la storia della gens Aemilia attraverso i rilievi del fregio della basilica, alcune statue e una ricca collezione di monete in cui sono celebrati i grandi personaggi della famiglia. Per la prima volta sono stati riuniti i frammenti dei bassorilievi che decoravano l’interno della basilica: narrano episodi della storia romana che s’intrecciano con le memorie familiari della gens Aemilia. Gli episodi che si possono riconoscere sono Fondazione di Roma, Ratto delle Sabine, Punizione di Tarpea, la fanciulla che aveva aperto ai Sabini le porte del Campidoglio, ma che dagli stessi nemici fu punita per il suo tradimento con la morte. Il fregio in marmo pentelico, secondo Freyberger dell’Istituto archeologico germanico, si può datare all’età augustea. La basilica fu completamente rinnovata, ampliata, articolata su due piani, dopo l’incendio del 14 a.C. con pareti ricoperte di marmo lunense, pavimento decorato con marmi policromi, colonne di marmo africano. La nuova illuminazione della basilica e la scelta della Curia Iulia come sede rendono molto suggestiva l’esposizione. Marina Humar
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Archeologia
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Arte
UN LIBERTY TOSCANO MA INTERNAZIONALE
GALILEO CHINI E LA TOSCANA, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea (Viareggio)
Galileo Chini (Firenze, 1873 - Firenze, 1956), Autoritratto, 1901, olio su tela, cm 100 x 100, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Pistoia
Non poteva mancare di omaggiare un artista toscano di tale portata il nuovo museo di Viareggio che vanta grandi collezioni, tra cui quella di Lorenzo Viani. Galileo Chini, eclettico artista e maggior rappresentante del Liberty e del Déco italiano viene qui investigato nel rapporto con il territorio toscano, sua terra di origine, attraverso visioni ora sognanti ora realistiche di scorci fiorentini, marine e paesaggi versiliesi. Non manca la produzione ceramica dell’Arte della Ceramica e delle Fornaci san Lorenzo, di cui è stato direttore e che costituiscono il fiore all’occhiello della sua attività. Un capitolo è appositamente dedicato al rapporto con l’architettura e ai disegni eseguiti per le decorazioni delle ville della passeggiata di Viareggio, interessantissima sezione insieme a quella sulle scenografie teatrali. Soprattutto opere inedite tra cui tre grandi tele del 1946, progetti urbanistici per risistemare la zona di Levante di Viareggio. Egli è pittore, ceramista, scenografo, grafico, urbanista, architetto e arredatore, fondamentale autore di svariati allesti-
menti per la Biennale di Venezia, instancabile e febbrile nella sua ispirazione. In questo allestimento assumono un significato particolare certe opere minori dove l’artista, nei periodi di vacanza nella sua villa a Lido di Camaiore, si dedicava a studiare l’incidenza della luce e i toni del paesaggio, donandogli accenti di vibrante lirismo interiore. Paola Chini, nipote dell’artista, è l’ideatrice con Alessandra Belluomini Pucci e Glauco Borella di questa mostra, ultima tappa per le celebrazioni del Centenario del Liberty in Italia, promossa anche dal Comune di Viareggio e dalla Provincia di Lucca. Il sogno della nipote è quello di realizzare un museo dedicato a Galileo Chini nella casa a Lido di Camaiore, un progetto che speriamo questa grande mostra possa aiutare a realizzare. La mostra ripercorre l’intero percorso artistico del talento toscano, dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento. Sibilla Panerai
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COSA SIGNIFICA CONTEMPORANEO
VI GIORNATA DEL CONTEMPORANEO, GNAM
In questa occasione il museo romano rende omaggio a due artisti italiani, sicuramente tra i più interessanti della scena nostrana del secondo Novecento. Paolo Canevari (Roma 1963) rappresenta lo sguardo critico di un figlio della società dei consumi, Luca Maria Patella (Roma 1938), invece, è l’emblema dello sperimentatore che dagli inizi della seconda avanguardia ad oggi non ha mai smesso di inseguire la ricerca espressiva. Le opere di Patella presenti alla GNAM risalgono agli anni sessanta quando l’artista costruiva ambienti interattivi ancora prima che questo termine fosse stato coniato. In mostra una delle “due sfere naturali sonore” progettate per la galleria L’Attico nel 1969. A differenza di quarant’anni fa però, quando la sfera di Patella era sospesa a mezz’aria e un proiettore (inventato dall’artista stesso) proiettava appunto le immagini dal basso oggi con la tecnologia contemporanea questo non è possibile e la sfera si presenta poggiata a terra e inclinata. Molte delle immagini proiettate sono le stesse fotografie esposte nell’altra sala dell’esposizione. A testimonianza dello spirito di ricerca di Patella anche queste fotografie sono state eseguite con una tecnica sperimentale che permette l’inserimento del colore in fase di sviluppo. Patella si dedica anche alla cinematografia Terra animata (1967), SKMP2 (1968), Vedo, Vado! (1969). Paolo Canevari ha invece scelto il dialogo con le sale del museo dedicate all’arte dell’Ottocento. Da qualche anno Canevari ha sviluppato una poetica riconoscibile utilizzando come materiale la gomma e in maniera particolare camere d’aria e copertoni delle ruote. In primo luogo Thanks (2009) carri armati di gomma che senza riprodurre un preciso schema militare puntano gli uni contro gli altri, a volte verso un orizzonte indefinito, senza una logica precisa. In questa sala, dove campeggia il calco dela statua Giordano Bruno Ettore Ferrari, dal soffitto pende Little boy (2009) un missile di paillette. La guerra del XXI secolo mostra il suo lato mediatico, la guerra è uno spettacolo e anche quando è ridicola the show must go on. Paolo Canevari, Thanks, 2009, struttura in legno e pneumatici, cm 95x55x55 Ritroviamo ancora la gomma in Mantello (1991) il quale poggia sulla statua Caino di Domenico Trentacoste. La gomma e il marmo mostrano la loro indiscutibile incompatibilità materica, ma questa stessa inconciliabilità si annulla nel disegno complessivo. La rassegna mostra la parte migliore dell’arte contemporanea, quella parte che si confronta con i suoi anni e che è coinvolta in uno scambio reciproco con l’esterno. Ilaria Lombardi
LA FORZA COINVOLGENTE DELLA REALTÁ CHE SA ESSERE ASTRAZIONE TITOLO MOSTRA, Museo di Roma in Trastevere
Franco Fontana inizia a fotografare nei primi anni Sessanta. In quegli anni, mentre alcuni fotografi sono impegnati nella fotografia sociale e nel giornalismo, altri cercano di negare la natura della fotografia di copia della realtà. Fontana parte dalla realtà, ma la trasforma in altro. Una scrittura nuova che trova nel colore il suo mezzo d’elezione. Infatti, le fotografie di Fontana non sono semplicemente a colori, ma il colore è il motore dell’immagine, è il regista dell’opera. Per “disegnare” Fontana non utilizza la matita e quindi le linee, bensì campiture di colore; spazi di medie e grandi dimensioni riempiti con un unico colore in maniera uniforme. L’operazione dell’artista modenese si muove tra formalismo e astrazione. Le campiture isolano ogni singola forma rendendola autonoma. La realtà è condotta ai minimi termini. Superfici bidimensionali in dialogo tra loro attraverso forma e colore, tracciano le linee essenziali della realtà. In Houston (1985) la città non è riconoscibile nella fotografia di Fontana, in alcuni tratti si può individuare il paesaggio urbano statunitense, ma rimane molto poco dell’immagine impressionata sulla pellicola. Houston come la intende e sente l’artista, ma non una Houston espressionista. Visivamente similare alle vedute iperrealiste, ma lontanissima dalla volontà di riproduzione. Il colore è violento e saturo fino al punto massimo del tono. E se negli Stati Uniti Fontana si confronta con la realtà metropolitana, in Italia lo attraggono le campagne e i dolci rilievi collinari, che offrono non solo un bel gioco cromatico, ma costituiscono anche un importante spunto formale. A testimonianza di quanto sia importante questo discorso per quest’artista, in molte delle fotografie italiane un elemento verticale (spesso costituito da un albero) blocca lo sguardo e crea ancora una volta un gioco di linee contrapposte. Altro elemento importante è la figura umana; questa compare esclusivamente nelle immagini di ambientazione urbana. L’uomo è spesso un compendio all’immagine, una forma differente rispetto alle linee nette di strade ed edifici. Anche le ombre giocano un ruolo fondamentale; infatti, Franco Fontana (Modena, 1933), Houston, 1985 così come Fontana vuole le sue architetture, anche le ombre sono prive di particolari e il loro ruolo si limita a quello di macchia di colore. Fontana cattura con l’ambiguità, ammalia con il suo senso del colore, stordisce con l’astrazione.
Ilaria Lombardi
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CINEMATOGRAFIA ITALIANA ARRENDEVOLE ALL’INTRATTENIMENTO
LA PASSIONE, Carlo Mazzacurati
E poi ancora ci si chiede perché al festival di Venezia di quest’anno abbia vinto il film di Sofia Coppola? Guardando l’ultimo film di Mazzacurati, La Passione, viene subito da dire: “Ah va bene, ma allora è tutto chiaro, se questi erano i film in concorso, è ovvio che abbiano fatto vincere il meno peggio”. Ma Carlo Mazzacurati e Silvio Orlando sul set de “La Passione” dispiace. E poi ancora dispiace vedere che in Italia la cinematografia sia così arrendevole nel produrre solo film d’intrattenimento. Eppure gli italiani i film li sapevano fare, avevamo grandi registi, grandi idee, ma dove sono andati a finire? Tutto morto? Io credo che il problema consista nella produzione e nella distribuzione. Si investe solo su ciò che si crede possa “non disturbare”, che garantisca quel minimo indispensabile al botteghino e che faccia ridere quel tanto che basta per non uscire dalla sala con le mani nei capelli. Ma tutto ciò rattrista. Soprattutto perché la responsabilità di questo finto disinteresse non risiede nelle capacità dei registi, che sarebbero in grado di fare molto di più, di proporre film
e idee migliori ma nella ‘volontà’ (a questo punto voglio chiamarla così) di screditare la cinematografia italiana. E tutto questo avviene in un modo sotterraneo, attraverso quelle ‘terre di mezzo’ di cui tutto sommato non si può parlare male, in modo che “tutto rimanga com’è”. La Passione, infatti, risulta tutto meno che un film brutto. È solido, ha una storia che si regge bene, una parte tecnica non disprezzabile e delle musiche adeguate, il cast è divertente. Ottimo dopo “la sagra del vino”, questo film si digerisce bene sul momento, ma poi lascia come un senso di vuoto, come se non si fosse ingerito niente, eppure, ci diciamo, “ero sicuro di aver mangiato e bevuto”. Una nota di gusto invece sul finale che, a differenza di gran parte dei film italiani dei nostri giorni, è piuttosto positivo. Il protagonista, infatti, trova finalmente una traccia di scrittura per un prossimo film. Non c’è quindi la desolante constatazione che tutto sia finito e che niente si possa recuperare, considerazione che tanto attanaglia il cinema nostrano. In una chiave di lettura molto semplicistica, come in fondo vuole avere il film, si vuole certamente intendere che la regia italiana ha ancora speranze. Il punto è: se l’orizzonte il cinema italiano lo vede, ma continua a essere cinema d’intrattenimento e commedia, che senso ha farlo vedere? Forse per pregustare falsamente una speranza che poi vera novità non è?! Domande, ma ancora poche risposte. Alessandra Pellegrini
QUEL “DA QUALCHE PARTE” CHE NON È POI COSÌ LONTANO
SOMEWHERE, Sofia Coppola
Una Ferrari nera corre su un circuito parzialmente visibile. Passa una, due, tre, quattro volte, poi si ferma. Si apre la portiera, un bel quarantenne in stile “trasandato chic” avanza ed esce dall’inquadratura. Buio. La vita di Johnny Marco (Stephen Dorff) è così, una corsa a vuoto e in solitudine tra eccessi che non entusiasmano e donne che addormentano, un disco incantato sulla traccia di una straordinaria monotonia della quale si percepisce solamente il peso e la schiacciante densità. Johnny è un attore all’apice della carriera, la sua casa è uno degli alberghi più rinomati di Los Angeles e la macchina col cavallino rampante definisce uno stile di vita che -nonostante la lontananza dalla quotidianità- è caratterizzato da un annoiante circolo vizioso che sommerge ogni scena in un senso di disarmante apatia. Latente in ogni accondiscendente sorriso del protagonista è la necessità di uno scarto improvviso, ma se non c’è da temere che la presenza più continua e prolungata del solito della figlia Cleo (Elle Fanning) inneschi un’improvvisa e illuminante vocazione paterna, è pur vero che la semplicità di questo nuovo rapporto segna un punto di non ritorno. Niente patetismi o scene languide nello scorgere che la genuinità di una vicinanza umana riscoperta è la spinta centrifuga che sblocca una realtà immobile. Sofia Coppola sceglie di non raccontare una storia ma di giustapporre momenti che -in un climax discendente- diluiscono il malessere iniziale che pervade ogni immagine, e lo fa concentrando l’attenzione sopra i più piccoli aspetti che acquisiscono una ricchezza e una suggestione fine a se stessa: respiri amplificati, zoom a velocità quasi impercettibile, gesti che si ripetono, accenni di storia lanciati e abbandonati (di chi sono i messaggi anonimi sul cellulare? Il Mitsubishi nero li sta veramente seguendo? Aspetteremo veramente 40 minuti prima che si secchi la maschera di silicone?). Lo stile della narrazione sottolinea lo spessore di ogni momento, l’assenza di colonna sonora e le riprese prevalentemente frontali con luci neutre sovraccaricano ogni particolare come a voler forzare un’interpretazione che in realtà non è richiesta, dal momento che si ha semplicemente accostato l’occhio al buco della serratura per catturarne di nascosto la vita che vi scorre dietro. La regia ricorre spesso a un uso anticonvenzionale dei tempi cinematografici, con inquadrature vuote Johnny Marco (Stephen Dorff), Cleo (Elle Fanning) che si protraggono oltre il limite di tolleranza conferendo quel senso di reale imbarazzo che la serratezza del cinema commerciale non osa immaginare. È questo il cinema d’autore, e Sofia Coppola riesce a mostrare la sua poetica narrativa padroneggiando gli strumenti del mestiere. È stato detto che il film, a Venezia, “abbia vinto ma non abbia convinto” il pubblico, probabilmente estraneo a una digestione filmica dai ritmi non immediati che non richiede l’elaborazione e la presa di possesso di una storia lineare, ma piuttosto la ricezione di stimoli e reazioni. Somewhere, “in qualche posto”, “da qualche parte”. Le due accezioni del termine inglese sono l’alfa e l’omega della pellicola, che inizia con uno “stato in luogo” in cui chiunque può scorgere elementi familiari per concludersi con la Ferrari nera che stavolta corre su una strada dritta a perdita d’occhio. Verso dove? “Da qualche parte”, basta andare. Francesca Martellini
DOCUMENTO PER COMPRENDERE VERITÀ TENUTE NASCOSTE 20 SIGARETTE, Aureliano Amodei
Unico civile sopravvissuto alla strage di Nassiriya del 12 novembre 2003 provocata da due kamikaze iracheni, il regista Aureliano Amadei ha raccontato l’evento prima attraverso un libro, poi con il film omonimo 20 Sigarette. Amadei, allora ventottenne, faceva parte della troupe del regista Stefano Rolla, che si trovava in Iraq per girare un film sulla “missione di pace” italiana. La sceneggiatura è un mix tra finzione e documentario, in cui vengono evidenziate le contraddizioni tra la versione dell’accaduto da parte di Amodei e quella ufficiale presentata al pubblico da giornalisti e rappresentanti dello Stato. Vincitore del gran premio di Controcampo Italiano 2010 alla LXVI Mostra del Cinema di Vene-
zia, 20 Sigarette è documento importante per comprendere verità che i media tentano di nascondere, pur se è un film propenso più a porre molte domande che a indugiare nelle risposte; fa ridere, piangere, riflettere. Contrario a ogni missione militare italiana all’estero perché pacifista e anarchico, Amodei ha dichiarato che “il valore della vita umana non può mai essere superato da quello dell’ideologia”. Usa la macchina da presa in modo vibrante e contemporaneo e rende il linguaggio cinematografico dinamico, emozionante. Molto bella la lunghissima soggettiva del protagonista durante l’attentato, che restituisce chiaramente il forte senso di paura e l’angoscia di morire che è stato costretto a vivere. Di grande impatto emotivo la colonna sonora, composta dal direttore d’orchestra Louis Siciliano, noto per le musiche di Due vite per caso (Alessandro Aronadio) e Happy Family (Gabriele Salvatores). Definito dal presidente della Repubblica Napolitano “film di impegno civile e morale” l’opera prima di Amodei ha giustamente riscosso il successo che merita già dalla prima proiezione al festival di Venezia, dove è stato salutato con 14 minuti di applausi e standing ovation del pubblico in lacrime. Ottimo risultato per la cinematografia italiana che troppo spesso fatica a emergere con materiale di qualità. Alessandra Pellegrini
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RICORDANDO CLAUDE CHABROL Un altro pezzo della Nouvelle Vague ci lascia: Claude Chabrol ne fu uno dei fondatori, assieme a Jean Luc Godard, Jacques Rivette, Francois Truffaut ed Eric Rohmer. Fu tra i critici dei Cahiers du Cinéma; pubblicò nel 1957, assieme a Rohmer, un saggio sulla filmografia di Albert Hitchcock. Il suo film d’esordio del 1958 è Le beau Serge (Pardo d’Argento a Locarno), che lo segnalò come autore attento a umori e inquietudini della nuova generazione ed è considerato il primo film della Nouvelle Vague. Nel ‘68 è autore de Les biches sulla liberazione sessuale. Diventerà un coerente analista della borghesia di provincia: Stephane, una moglie infedele (1968), Il tagliagole (1970), L’amico di famiglia (1973), eccetera. Dalla fine degli anni Settanta la sua interprete preferita diviene Isabelle Huppert, con la quale gira Violette Noziére (1978), Un affare di donne (1988), Madame Bovary (1991), Rien ne va plus (1997), Grazie per la cioccolata (200), La commedia del potere (2006). Ispirandosi in particolare ai romanzi di George Simenon, Chabrol permette alla sua vena di giallista e autore di noir di raggiungere le espressioni più alte, inserendo il giallo hitchcockiano nella provincia francese: egli la analizza e smaschera, evidenziando l’apparente perbenismo della piccola borghesia, che è invece copertura per un clima di vizi e di odi, raccontando tragiche storie di follia che si scatenano all’interno di famiglie, all’apparenza “normali”, in un’analisi senza speranza. Come il suo ispiratore Hitchcock appare, maClaude Chabrol gari fugacemente, in tutti i suoi film. La sua ultima opera è Bellamy (2009) con Gerard Depardieu e nello stesso anno riceve il premio alla carriera al Festival di Berlino. Luigi Silvi RICORDANDO ARTHUR PENN Se ne è andato l’uomo che cambiò il cinema americano, non Hollywood. Dal suo Furia selvaggia (Billy the Kid) del 1958, con Paul Newmann nei panni del fuorilegge, si usa far iniziare quella stagione che i critici hanno definito New American Cinema. Successivamente Penn gira lo struggente Anna dei Miracoli (1962) con una straordinaria Ann Bancroft. Con Mickey One (1965) mette a nudo le paure che agitavano l’America maccartista. L’anno successivo La caccia, film caratterizzato da attivismo civile e visione progressista, pietra miliare della controcultura. Nel 1967 dirige il dirompente Gangster Story con Warren Beatty e Faye Dunaway sulla vicenda dei rapinatori Bonnie & Clyde che sconcertò critica e pubblico americani per l’inusitata commistione di comicità, sesso e violenza oltre ogni limite. Nel 1969 realizza Alice’s Restaurant, manifesto della ribellione giovanile postsessantotto contro la cultura capitalista. Del 1970 il film cult Il piccolo grande uomo, epopea picaresca, con un eccellente Dustin Hoffmann che consegna un’interpretazione memorabile; il film analizza le differenze tra la cultura bianca e quella pellerossa: tra le righe, la vincente è questa. Fu un autentico pugno nello stomaco per il pubblico americano, anche perchè nello stesso anno uscì Soldato Blu di Ralph Nelson. Il film di Penn è il resoconto disincantato dello spietato massacro dei nativi americani a opera del Generale Custer a Little Big Horn, uno dei primi western revisionisti. Nel 1977 è dietro la macchina da presa per Missouri, antiwestern con Marlon Brando e Jack Nicholson. Nel 1981 narra con cinica lucidità il crollo del mito americano ne Gli amici di Georgia, ultimo grande film del New Cinema. Ha diretto i più Arthur Penn grandi attori suoi contemporanei: Warren Beatty, Marlon Brando, Gene Hackman, Jack Nicholson, Paul Newmann, Robert Redford, Dustin Hoffmann, Faye Dunaway, Ann Bancroft, Jane Fonda, Angie Dickinson, Melanie Griffith. Penn è stato un autore scomodo, lontano dai canoni stereotipi di Hollywood, legato a quell’America, amara e inquieta, popolata da outsiders. La sua è una visione pessimistica; nel mondo descritto da Penn l’uomo giusto è costretto a battersi da solo contro una società brutale e razzista. Racconta con ritmo convulso una generazione che ha perso la capacità di comunicare, il disagio giovanile e la crisi dell’uomo americano. La sua opera, emancipatasi dalle strettoie e dai condizionamenti hollywoodiani, riavvicinò la generazione europea del ‘68 al cinema americano, anche per il suo dichiarato interesse per la Nouvelle Vague. Non a torto la gran parte degli storici del cinema sostiene che senza di lui non ci sarebbero stati film come Easy Rider, Il laureato e Il Padrino. Chiude la carriera nel ‘95 con il cortometraggio Lumière et compagnie. Nel 2002 è stato insignito del Gattopardo d’oro-Premio Luchino Visconti per la carriera, e nel 2007, sempre alla carriera, dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino Luigi Silvi RICORDANDO TONY CURTIS
Antonino (Tony Curtis), Spartacus (Kirk Douglas)
Zucchero Kowalczyk (Marilyn Monroe), Josephine (Tony Curtis)
Attore che con garbata levità ha raggiunto le simpatie del pubblico dei generi più diversi. Lo si ricorda in ruoli leggeri quali Il principe ladro (1951), Il figlio di Alì Baba (1952), Il Mago Houdini (1953), o in ruoli drammatici in Furia e passione (1952) di Joseph Pevney, in cui interpreta un pugile sordomiuto, e Piombo rovente (1957) di Alexander Mackendrick nella parte di un portaborse del mondo corrotto del giornalismo americano, e in Gli ultimi fuochi (1976) di Elia Kazan. Interpreta commedie in coppia con Cary Grant in Operazione sottovoste (1959) di Blake Edwards, con Jerry Lewis in Boeing Boeing (1965); ma raggiunge il trionfo nel ruolo triplo di suonatore di sassofono, magnate del petrolio e nel ruolo femminile di Josephine in A qualcuno piace caldo (1959) di Billy Wilde, in coppia con Jack Lemmon e Marilyn Monroe. È in coppia con Kirk Douglas ne I Vichinghi (1958) di Richard Fleischer e nell’indimenticabile Spartacus (1960) di Stanley Kubrik. Ancora diretto da Fleischer è protagonista de Lo strangolatore di Boston (1968). Ma una delle interpretazioni che lo rese più amato fu quella in coppia con Roger Moore nella serie televisiva Attenti a quei due (1971-1972), dove il suo spirito burlesco e spaccone raggiunge l’apice. La sua carriera si chiude nel 2008 con Davide & Fatima di Alain Zaloum. È stato un serio professionista poliedrico che ha segnato la carrriera tra dramma e commedia, con eleganza che gli guadagnarono il rispetto di tutti. Luigi Silvi
VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Cinema
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VESPERTILLA - Anno VII n° 4 settembre/ottobre 2010
Miscellanea A VARGAS LLOSA IL NOBEL PER LA LETTERATURA 2010 Con il Nobel per la letteratura 2010 a Mario Vargas Llosa il prestigioso riconoscimento torna dopo 28 anni a un autore sudamericano, confermando una tendenza degli accademici di Svezia a stabilire una sorta di rotazione a beneficio delle varie aree linguistiche di riferimento, sebbene in misura non sempre comparabile. È questo il primo Nobel a un autore peruviano. Vargas Llosa è nato ad Arequipa nel 1936 e al suo paese natale è sempre rimasto legato (anche nel momento del “ripudio”), pur avendo trascorso buona parte della sua esistenza all’estero. Tanto legato da trasformare il suo impegno politico, evolutosi ideologicamente nel tempo, in una candidatura alle presidenziali del 1990 in una coalizione di centrodestra contro Alberto Fujimori, poi vincitore. E tanto amareggiato dalla sconfitta e dall’indirizzo preso dalla politica e dalla società della sua terra da accettare, nel 1993, la cittadinanza spagnola. E in effetti, dentro e fuori la letteratura, la visione politica della realtà di Vargas Llosa ha avuto un ruolo rilevante. Come sottolineato anche dalla motivazione che accompagna l’attribuzione del Nobel: per “la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua acuta immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”. Data al 1959 il suo esordio come narratore con I capi. Ma è con La città e i cani (1963), ambientato a Lima in una scuola militare, che Vargas Llosa si impone all’attenzione dei lettori. Seguono La casa verde (1966), I cuccioli (1968) e l’anno successivo Conversazione nella cattedrale, spietata riflessione sulla vita politica e sociale in Perù. È del ’73 il romanzo satirico Pantaleón e le visitatrici e del ’77 La zia Julia e lo scribacchino. Tra le sue opere si ricordano poi La guerra della fine del mondo (1981) e, in tre anni successivi a partire dal 1986, Chi ha ucciso Palomino Molero?, Il narratore ambulante, Elogio della matrigna. Del 1993 sono Il pesce nell’acqua, che dà conto del suo approccio alla politica attiva, e il giallo Il Caporale Lituma sulle Ande. Tra le opere più recenti I quaderni di don Rigoberto (1997), La festa del caprone (2000), cui seguono dopo un triennio Il paradiso è altrove e le Avventure della ragazza cattiva (2006). È anche autore di un saggio su Garcìa Marquez (1971) e si è dedicato negli anni al teatro, con una produzione che vede nel 2008 la sua ultima fatica, Appuntamento a Londra. Autore prolifico e, a differenza di quanto accaduto di recente con altri prescelti da Stoccolma, conosciuto anche al grande pubblico, Vargas Llosa appartiene sia pur tra evidenti differenze, distinguo e contrapposizioni a quella generazione di scrittori che è stata definita del Boom sudamericano. Si rimprovera, a questo proposito, all’Accademia di aver premiato uno scrittore che appartiene “al passato”, a una schiera di autori ormai sorpassati dagli anni e dalla storia, senza tener conto del contributo della contemporanea narrativa sud e centroamericana. Ma, senza cadere nella retorica, il valore di un’opera letteraria non può essere confinato all’attualità della sua cronaca o all’anagrafe dei suoi artefici. Cosa ne sarebbe, se così fosse, di quanto continua ad appassionarci nei secoli come lettori e come esseri umani, l’eco di un verso sempre risonante, la vicenda degli uomini che non possono fare a meno di raccontarsi a se stessi? Sono le parole vuote che cedono al tempo. Partendo dal presupposto che la consacrazione del Nobel non equivale sempre e comunque alla designazione di uno scrittore di valore assoluto, e tanto meno del più grande autore vivente, l’auspicio è che siano i nuovi lettori convogliati sull’opera di Vargas Llosa dalla potente luce che i riflettori del Nobel sono in grado di accendere, insieme al rinnovato impegno della critica, ad approfondire nel tempo il senso e lo spessore di un’esperienza letteraria. Michela Barbieri
Mario Vargas LLosa
COPPI-BARTALI: COMPETIZIONE E PARI OPPORTUNITÀ FAUSTO COPPI. IL CAMPIONISSIMO, Complesso del Vittoriano Una mostra fotografica ricorda il Campionissimo a cinquant’anni dalla morte. Coppi, assieme all’eterno amico e rivale Gino Bartali, fu uno dei simboli della rinascita italiana dopo gli orrori della guerra e del fascismo. Le foto e gli altri documenti esposti ripercorrono la vita e la gloriosa carriera agonistica del campione di Castellania: in coppia con l’amatissimo fratello Serse, tragicamente perito dopo un incidente in gara; l’ingresso nella Legnano con Bartali e la prima vittoria al Giro nel 1940; le Tre Valli Varesine del ‘41; la conquista del record dell’ora al Vigorelli di Milano nel ‘42; la passione per la caccia che gli fu fatale; la Tour de France 1952, Coppi e Bartali in fuga: Coppi ha finito l’acqua, Bartali gli passa la sua borraccia. CAMPIONI! prima vittoria alla MilanoSan Remo nel ’46; sempre nel ‘46 il giro di Lombardia; sui grandi passi alpini Pordoi, Stelvio, Tourmallè; i gravi incidenti che ne segnarono la carriera; campione del mondo nel ‘48; la vittoria al Tour de France nel ‘49; nel 1950 le vittorie alla ParigiRoubaix e la Freccia Vallone; Giro e Tour nel ‘52. L’immagine simbolo di un’epoca, di un modo di fare sport e di essere nella vita: su una salita del Tour de France Bartali e Coppi in fuga, il Campionissimo rimane senza acqua e il toscano gli passa la sua borraccia. Questa è competizione, essere sempre alla pari e poi...vinca il migliore! Lezione per l’Italia di oggi, dove si reclamano diritti senza combattere per conquistarli, e senza accettarne i conseguenti doveri, dove si vuol vincere senza rispettare le regole o addirittura con regole a proprio uso e consumo, calpestando ogni parità. Le foto evidenziano come erano sport e ciclismo un tempo: strade sterrate, biciclette pesanti, gli atleti sporchi, distrutti, sotto la neve, sotto la pioggia e con il vento, niente tecnologia, solo allenamento, muscoli guidati dal cervello, forza di volontà, cuore, spirito di sacrificio. Emblematico il commento del cronista Mario Ferretti alla terzultimna tappa sulle Alpi del Giro d’Italia del 1940: “ Un uomo solo è al comando; la sua maglia è biancoceleste; il suo nome è Fausto Coppi”. Luigi Silvi
I CAMMINI D’EUROPA PER RECUPERARE L’EUROPA Da molti anni, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, il Parlamento Europeo ha compreso che studio e valorizzazione, degli antichi cammini, percorsi nei secoli con i mezzi più diversi e svariati da pellegrini, mercanti, viaggiatori tout court, aiuta ad aumentare e a metabolizzare nella mentalità degli Europei il concetto forte dell’Europa stessa, intesa sì come entità politica, ma anche, e soprattutto, come unione di popoli con un obiettivo comune. Tra le tante iniziative Monteriggioni (Siena), cinta muraria, XIII secolo in tal senso (convegni, pubblicazioni, seminari, eccetera) sicuramente da ricordare quella voluta da Silvia Costa del Gruppo Parlamentare del S&D: percorrere cioè un tratto della via Francigena propriamente a piedi, una due-giorni di ottobre, dove alla grande suggestione emotiva di calcare proprio lo stesso percorso dei pellegrini, pur se solo in un breve tratto di 8 km, si è unita la visita a luoghi di grande testimonianza artistico-storica: la città fortezza di Monteriggioni, incantevoli abbazie disseminate come sentinelle dello spirito in Val d’Elsa (splendida, tra tutte, l’Abbazia romanica di Santa Maria Assunta a Coneo), la città di Siena non solo come la città del Palio, ma come città distesa lungo un tratto della Francigena. Inoltre la straordinaria opportunità di condividere esperienze e dialogare, fuori dai ritmi stressanti perchè contingentati, dei tradizionali convegni, con di Santa Maria Assunta a Coneo, Colle Val d’Elsa persone e personalità diverse: lo Abbazia (Siena), XI secolo, facciata principale studioso, il ricercatore, l’attore, il giornalista, il parlamentare, l’amministratore locale, tutti accumunati da un identico obiettivo: l’Europa più si riappropria della sua storia e delle sue tradizioni, più può divenire volano per i suoi stessi stati membri di una crescita economica, spirituale, civile. Maria Pia Monteduro