Apitalia 6/2018

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PANE D ’API: ORO PURO

Apitalia - Corso Vittorio Emanuele II, 101- 00186 - Roma - ITALY - UE - ISSN: 0391 - 5522 - ANNO XXXXIII • n. 6 • Giugno 2018 •- 687 - Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/03 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) Art. 1 Comma 1 – Roma Aut. C/RM/18/2016





Editoriale

Un’Ape biodiversamente abile ella Giornata Mondiale dell’Ape, celebrata la prima volta il 20 maggio 2018, ci siamo accorti che il nostro lavoro, ormai tradotto in enorme sacrificio, è comunque considerato da tutti con grande ammirazione. Ciò che colpisce è che questa impennata di interesse per l’ape non si è tradotta in una manifestazione di entusiasmo da parte del mondo apistico. Ed è comprensibile: l’ONU ha scelto la parte sbagliata del calendario, lì dove insomma piaceva agli sloveni e forse un po’ meno a chi, a maggio, deve correre ancora più delle api. E quindi a celebrare l’evento ci hanno pensato le Organizzazioni più sensibili e doverosamente impegnate sul fronte istituzionale. È andata così in Slovenia, dove si sono ritrovate 21 delegazioni, altrettanti ministri dell’Agricoltura o loro ambasciatori. È qui che anche Apimondia, la Federazione internazionale, si è profusa in una storica celebrazione: è stato scoperto un monumento alle api, si sono fatte utili riflessioni su come esse siano fondamentali per un Pianeta in affanno. L’Italia non poteva essere da meno: abbiamo preso parte così, di buon grado, alla sola occasione istituzionale offerta dal piccolo ma grazioso comprensorio di Comuni - Migliarino e Fiscaglia - alle porte di Ferrara, gioielli della nostra Bella Italia. Qui una collaudata Fiera dei Fiori è stata gemellata con il Miele e le Api, fino a fare della giornata del 20 maggio un momento di unità popolare, d’integrazione tra agricoltura e apicoltura, di partecipazione attiva della società civile che ha scelto di dare al nostro lavoro ogni evidenza e riconoscenza. Abbiamo scoperto persone speciali, che hanno condiviso sinceramente con noi la consapevolezza di quale grande e delicato patrimonio siamo chiamati a custodire, e di come esso vada preservato e trasferito integro alle future generazioni. L’abbiamo celebrata così la Giornata Mondiale, raccontando la nostra passione a chi di api non parla tutti i giorni, ma tutti i giorni è disposto a sentir parlare noi apicoltori.

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Un tassello della biodiversità che va tutelato ogni giorno: così celebriamo davvero l’inestimabile valore di Apis mellifera Ligustica Spinola (1806)

Raffaele Cirone

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Sommario n. 687 gli Articoli 5 EDITORIALE Un’Ape biodiversamente abile 8 PRIMO PIANO 20 maggio 2018 Giornata mondiale dell’Ape 10 VITA DA API Ecco il mondo visto dall’ape: creatura delicata e sensibile! Nicola Palmieri

24 AGENDA LAVORI. SUD Vietato piangersi addosso Santo Panzera 26 AGENDA LAVORI. SUD E ISOLE È tutta questione di clima Vincenzo Stampa 42 CHEF AL MIELE L’ape gourmet

Luisa Mosello

44 EMERGENZA XYLELLA È allarme in Puglia, si temono danni per l’Apicoltura Silvestro Pinto

15 AGENDA LAVORI. NORD-OVEST Ci sarebbe anche questo Alberto Guernier 18 AGENDA LAVORI. NORD-EST Pensiamo alla stagione che verrà! Giacomo Perretta 21 AGENDA LAVORI. CENTRO Bilancio di mezza stagione Angelo Lombardi

48 L’OPINIONE La varroa è un problema? Maurizio Ghezzi 52 LEGISLAZIONE Il veterinario aziendale: nessun obbligo per gli apicoltori Daniele Mezzogori 55 FLOROVIVAISMO Fiori di Manuka in Italia una varietà adatta al nostro clima Alessandro Duranti 56 FLORA APISTICA I pollini di emergenza per le api e gli altri apoidei nell’Italia centrale Giancarlo Ricciardelli D’Albore

Una bottinatrice totalmente immersa nel polline. È di questo particolare aspetto che parliamo in questo numero di Apitalia: tra mutamenti climatici, difficoltà produttive e nuove tecniche di conduzione. Con uno Speciale tutto dedicato al pane d’api

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gli Speciali di Apitalia

Pane d’api: un prodotto dell’alveare poco conosciuto, ma prezioso alimento Giulio Loglio

Hanno collaborato a questo numero Nicola Palmieri, Alberto Guernier, Giacomo Perretta, Zanconato (pag. 23), Angelo Lombardi, Santo Panzera, Vincenzo Stampa, Francesco Oliverio (foto pag. 18, 29 destra), Giulio Loglio, Luisa Mosello, Niko Sinisgalli (foto pag. 42-43), Silvestro Pinto, www.piazzasalento.it (foto pag. 46), Maurizio Ghezzi, Daniele Mezzogori, Alessandro Duranti, Giancarlo Ricciardelli D’Albore, Fabrizio Piacentini, Patrizia Milione, Alessandro Patierno.

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6/2018 I nostri valori

Casa Apitalia

Lo stemma circolare dell’ape regina al centro della scritta che recita “Il mio non sol, ma l’altrui ben procuro” accompagna da sempre le pubblicazioni curate dalle firme storiche dell’editoria apistica italiana da cui Apitalia trae origine

RECAPITI Corso Vittorio Emanuele II, 101 - 00186 Roma 06. 6852556

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La moneta di Efeso, con l’ape come simbolo riconosciuto a livello internazionale già 500 anni prima di Cristo.

ESTERO Si applicano le stesse tariffe di abbonamento per lʼItalia a cui va aggiunto il prezzo delle spese di spedizione per lʼEstero (chiedere alla Segreteria un preventivo che varierà a seconda dellʼarea geografica di destinazione)

Marcatura dell’ape regina Secondo un codice standardizzato, le regine sono marcate con un colore (tabella a lato) per permettere all’apicoltore di riconoscerne l’anno di nascita

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(ultimo numero dell’anno di allevamento)

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PRIMO PIANO

20 MAGGIO 2018 GIORNATA MONDIALE DELL’APE DALLA SLOVENIA ALLE NAZIONI UNITE, PASSANDO PER L’ITALIA

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azione durata anni, di silenzioso e continuo lavorio sui fronti apistico e diplomatico, per far sì che l’idea della Federazione Slovena degli Apicoltori trovasse ampio e convinto supporto anche da parte dell’Italia che ha sostenuto l’iniziativa attraverso la FAI-Federazione Apicoltori Italiani e l’Apimondia-Federazione Internazionale di Apicoltura, il cui Segretariato Generale ha sede a Roma. È così che si è arrivati al pronunciamento nell’Assemblea Generale dell’Onu, il 20 dicembre 2017, di quella che è stata e sarà celebrata ogni 20 Maggio come la Giornata Mondiale dell’Ape. A sottolinearlo la FAI-Federazione Apicoltori Italiani, che con visibile soddisfazione raccoglie oggi i frutti di una storica e costruttiva amicizia tra l’Italia e la Slovenia delle Api: due comunità i cui rappresentanti e protagonisti hanno sempre collaborato nelle sedi internazionali, facendo squadra fin dai giorni della caduta della ex Jugoslavia e della conseguente proclamazione della Repubblica di Slovenia.

SALVARE LE API DUE PAESI AMICI LO HANNO FATTO COSÌ !

Sabina Mucchi, Sindaco di Fiscaglia (Fe)

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Il taglio del nastro della tradizionale Fiera del Fiore di Migliarino (Fe), che da quest’anno si abbina alla Fiera del Miele

AutoritĂ e Relatori al Convegno di Migliarino (Fe)

Philip Mc Cabe, Presidente Apimondia, durante i festeggiamenti in Slovenia

Le AutoritĂ slovene e le delgazioni internazionali presenti alla manifestazione

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Fiori&Api: un paese, Migliarino (Fe), addobbato a festa

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Vita da api

Ecco il mondo visto dall’ape: creatura delicata e sensibile!

di Nicola Palmieri

La percezione delle api e di ciò che le circonda non può essere immaginata dall’uomo con grande semplicità; le dimensioni, l’olfatto, la vista, i colori, i suoni, il modo di spostarsi volando ed, infine, il tempo che scorre: la vita di un’ape è così breve che quasi ogni mese si perdono intere “generazioni”. Ma il superorganismo non muore mai ssere un’ape, vivere una vita da ape, sentire, percepire, “desiderare” e sopravvivere da ape è un concetto distante anni luce dal nostro mondo e che non sfiora facilmente la nostra immaginazione. Per capire o tentare di capire come aiutare o agevolare le api, in questo momento estremamente drammatico anche per gli Apoidei in genere, potrebbe essere utile mettersi nei loro panni, “infilarsi” 3 paia di zampe, 2 paia di ali ed osservare il mondo con “occhi diversi”. I primi “20 giorni” di vita vengono

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passati nel piacevole tepore di una casa al buio totale o quasi, in un mondo fatto di odori, ronzii e contatti fisici continui. Un ruolo cruciale è svolto dalle antenne che si trovano al centro del capo e hanno dei peli molto sensibili. Queste permettono all’ape di riconoscere anche al buio le cose, le sorelle o sorellastre, i fuchi e la Regina. Tra i peli delle antenne sono presenti numerose cavità che formano l’organo dell’odorato, che conferisce all’ape un acuto senso dell’olfatto. Le comunicazioni sono di tipo semiochimico (mediante ormoni) e meccaniche, attraverso

antennamenti e vibrazioni prodotte dall’addome ma anche dal “motore” delle ali. Nelle antenne è presente anche l’organo di Johnston, che è in grado di rilevare i suoni che pervadono il mondo che circostante. Le api sono anche capaci di utilizzare le zampette per percepire piccole vibrazioni prodotte da un’ape perlustratrice (Tautz, 2009), intenta a convincere un numero cospicuo di bottinatrici a seguirla, sopra ai margini di un favo “sganciato” alla base dall’asticella di legno. Questo permette di comunicare l’ubicazione di un pascolo ad un maggior numero

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di operaie rispetto ad un favo saldato alla cornice (Tautz, 2009), che quindi non va eliminato ma visto con estrema soddisfazione. Il mondo dentro l’alveare - per chi nasce, cresce ed impara alcuni mestieri fondamentali alla loro esistenza - è ordinato, rumoroso, vibrante, climatizzato con umidità e temperatura controllate ed è ventilato “a circolazione forzata”! L’inizio di questa avventura è probabilmente molto confortante: nessuna ape si sente mai sola, c’è chi pulisce, chi disinfetta, chi prepara le celle per la ovideposizione, chi si preoccupa di nutrire la covata e le api appena nate e chi le massaggia appena sfarfallate. Ma, come in tutte le famiglie non regna sempre la tranquillità e così ci troviamo difronte al primo grande problema: il cibo. Le api, come noi, vorrebbero cibo sano e biologico (senza veleni), con il giusto quantitativo di proteine, lipidi e zuccheri e, perché no, a chilometro zero. Tutto questo oggi è possibile? Gli alveari, c’è da chiedersi ad esempio, si trovano sempre vicini a fonti trofiche disponibili per tutto l’anno? Oppure, nei pressi dell’alveare sono presenti fonti di acqua fresca e ossigenata? Nel caso questi alveari si trovassero vicini a campi coltivati, come accade spesso per migliorare il rendimento delle produzioni agricole, noi uomini terremmo in considerazione le esigenze dell’apiario, classificandole come prioritarie? Cercheremo di dare una risposta con alcuni esempi. Il girasole è una pianta molto 6/2018

coltivata e le sue sementi rappresentano un vero e proprio affare commerciale. Le multinazionali dell’agricoltura, come sappiamo, non sono a partecipazione statale e hanno dunque bisogno di monetizzare i loro investimenti; quindi nella selezione delle piante di girasole le caratteristiche che vengono migliorate sono quelle che interessano e rendono appetibili le cultivar per gli operatori del mondo agricolo: la grandezza del seme, la grandezza del capolino, la lunghezza e robustezza del caule, la resistenza alla siccità, la resistenza a erbicidi e diserbanti. Ma qualcuno si è mai preoccupato della quantità del nettare prodotto da queste nuove sementi? È stata mai controllata la qualità del polline generato da queste cultivar? Viene misurato il valore proteico dei granuli pollinici? La risposta purtroppo è scontata, ma la cosa importante sarebbe già quella di preoccuparsi di questi aspetti e ciò significherebbe cominciare a ragionare negli interessi di tutti, api comprese! Quindi la sostenibilità di un brevetto non dovrebbe avere solo un ritorno economico ma dovrebbe essere un vantaggio per tutti. Infatti se

si monetizzasse il valore, solo in agricoltura, del servizio di impollinazione svolto gratuitamente dalle api (in salute e ben nutrite) questo è quantificato in oltre 150 miliardi di euro ogni singolo anno, nel mondo. Questi numeri dovrebbero risultare sufficienti a mettere in primo piano la salvaguardia delle api, che significherebbe garantire anche la conservazione dell’ambiente. Pensate ad un altro esempio: un’ape appena nata sente un trambusto incredibile e vede arrivare di continuo api adulte che spruzzano con decisione acqua, vaporizzandola, e flotte di sorelle e sorellastre che ventilano, energicamente e rumorosamente, eliminando il calore intrappolato nel vapore così generato. Cosa è successo? Perché tutta questa agitazione? Un semplice errore umano? Il solito apiario tutto il giorno in pieno sole o un nuovo record dei mutamenti climatici? La responsabilità in ogni caso è del genere umano, che dimostra di essere sempre meno sapiens. Un grande regalo per le api sarebbe quello di ubicare gli apiari solo sotto alberature di specie caducifoglie, per ottenere ombra in estate e luce e calore in inver11


Vita da api

no. Una grosso impegno per gli apicoltori ma in definitiva uno stress in meno per le nostre alleate api ed un minore consumo di energia per l’intera colonia. Ma in cosa si tradurrebbe questo vantaggio? Semplicemente, le api non sarebbero costrette a raccogliere una decina litri di acqua al giorno ma potrebbero dedicarsi al loro super organismo, all’ottimizzazione delle scorte, alla pulizia, alla difesa della famiglia, alla costruzione e riparazione di parti dell’alveare, all’approvvigionamento di nettare, di polline e di propoli. La percezione delle api e di ciò che le circonda, quindi, non può essere immaginata da noi sapiens con grande semplicità; le dimensioni, l’olfatto, la vista, i colori, i suoni, il modo di spostarsi volando ed infine il tempo che scorre: la vita di un’ape è così breve che quasi ogni mese perdiamo intere “generazioni”. Ma infiliamoci nuovamente per un attimo in quell’esoscheletro poco più lungo di un centimetro ed immaginiamo di svolgere un volo di bottinamento. La durata di questo viaggio mediamente sarà di 20 minuti circa: 6 per arrivare, 6 per tornare; mentre, per bottinare 150 fiorellini (a 4 secondi cadauno, che fanno 600 secondi totali) saranno necessari altri 10 minuti. Paragonando la durata della nostra vita con la loro, il viaggio che compie un’ape laboriosa 10 volte al giorno è un’avventura di 11 giorni di filato, 3 giorni di volo per arrivare, 5 per visitare le 12

piante e 3 ancora di volo continuo per tornare. Uno sforzo notevole per raccogliere le provviste necessarie alla colonia e per compiere quell’atto di impollinazione che cambiò la faccia della terra forse circa 50 milioni di anni fa! Infatti, prima del loro avvento, è ipotizzabile ci fossero solo, sulla Terra, alcune migliaia di piante diverse, prevalentemente Gimnosperme e Pteridofite. Piante non bisognose, cioè, di insetti impollinatori. Durante il volo le api non percepiscono le immagini da lontano, non vedono panorami nel dettaglio, ma è come se la luce del sole le prendesse per mano e le accompagnasse lungo la strada che le condurrà al pascolo. Le api in volo non vedono i colori e percepiscono un profilo composto di pixel (come fosse lo schermo di un televisore o di un computer visto da vicino) (foto sopra). Date le dimensioni del mondo che perlustrano, le bottinatrici cominciano a mettere a fuoco ad una distanza di pochi centimetri dal fiore. I colori vengono percepiti nella lunghezza d’onda dell’ultravioletto, di conseguenza l’ape vede motivi a noi umani invisibili e colori poco sgargianti, differenti

dai nostri. E lo scorrere del tempo permette loro di vedere tutto al rallentatore. Raggiunto il pascolo dovrebbero essere pervase piacevolmente dall’odore della fioritura, il loro olfatto è stellare, quasi un “terzo occhio” anche se di occhi ne hanno davvero tanti. Ma pensate che avventura. In ogni fiore un incontro con un cugino o un parente alla lontana, un’ape solitaria, un bombo, una eucera, una mosca. All’improvviso l’agguato di un ragno, che pensa al suo di tornaconto o un rettile o una cugina assassina con prole carnivora, senza pietà. Ma l’ape aveva “subodorato” qualcosa di strano e la scampa. Durante la visita a 150 fiorellini diversi, ecco il conforto di altre sorelle che la incitano a sbrigarsi ed a tornare perché improvvisamente il melario è nuovamente vuoto!... E via un nuovo viaggio di ritorno a 30 km/h. Ma questa volta durante il suo “cammino” una strana sostanza pervade l’aria, perde l’orientamento, cerca di ricordasi ma la testa non risponde più. Era ancora una volta il “sapiens” con la sua miope visione del mondo! Nicola Palmieri 6/2018




Agenda lavori. Nord-Ovest

Ci sarebbe anche questo

di Alberto Guernier

Un numero doppio di bottinatrici non porta semplicemente al raddoppio della produzione in miele di un alveare: c’è anche un effetto sinergico e benefico sulla salute delle api. Sulla base di questo principio torniamo a descrivere, il metodo della “doppia arnia”, molto in voga negli anni ‘80. Ecco come si applica ai nostri alveari, migliorando il raccolto e limitando anche lo sviluppo di alcune patologie he strano titolo per un articolo di Apitalia; un metodo per la gestione degli alveari. Ne parlo un po’ “in sordina”, quasi con timore, timore di essere attaccato, forse, da chi non è troppo, o forse abbastanza, di larghe vedute; ma insomma, con tutto quel che si vede oggi, cosa vogliamo che sia, presentare un “vecchio metodo”? Se è vecchio allora si potrebbe pensare che lo conoscano già tutti.

Foto Alberto Guernier

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No, è un vecchio “metodo”, che non ha avuto molti proseliti, quasi nessuno che io sappia. Venne presentato con un libro più di cinquanta anni or sono, da un signore francese, tale Emile Loubet De L’Hoste, non saprei dire se questo libro abbia avuto ristampe recenti e sia ancora rintracciabile; parlava della “biruche”, ossia della doppia arnia. Io lo lessi una quindicina di anni fa, grazie ad un amico che ne custodisce gelosamente una copia.

Più che un manuale pratico di tecnica apistica, è un elogio incondizionato al metodo della doppia arnia. Il dottor Loubet “pagò a caro prezzo” simile elogio che era destinato a deludere chiunque vi provasse, non ottenendo i risultati vantati nella sua opera. Venne tradotto in italiano da Alfonso Crivelli, il quale, ancor più preso dall’impeto, progettò arnie con all’interno un numero eclatante di favi, addirittura dovette far costruire delle “cerniere in officina”, per sostenere e spostare il melario da arnie provviste di cotanti favi! Capite bene, che il tutto prese una direzione, contrastante rispetto ad un’apicoltura più “normalmente possibile”. Adesso capite perché, nonostante io abbia una discreta esperienza in merito, ad una conduzione più ”normale” di un metodo che prevede l’utilizzo di due regine (due famiglie) in una cassa, sia ancora poco convinto di esporlo ad altri. Quando, anni fa, presentai quello che era molto semplicemente il mio metodo, durante un incontro di apicoltura nella cornice di 15


Agenda lavori. Nord-Ovest

“Villa Piazzo” a Pettinengo, mi resi conto immediatamente che il dottor Loubet aveva “colpito ancora”. Infatti la domanda di molti fu “quanto miele fai con queste casse miracolose?”. Lo vorrei ribadire qui: avere una notevole quantità di api, data dal normale sviluppo di due colonie che convivono, (senza aggiunte esterne, in perfetto equilibrio) porta vantaggi intrinsechi legati alla condizione di vita del nido, calore, pulizia, presenza di feromone reale, che vanno ben oltre alla produzione di miele. Senza questa premessa, non avrei potuto consigliarvi di provare un metodo che ha enormi vantaggi

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per le api, sopratutto in periodi particolarmente “disgraziati”, dove Ascosphaera apis e nosema stanno dilagando e rischiano di azzerare le produzioni. Mettere due famigliole in difficoltà nella ripresa primaverile, andando a riempire così completamente l’arnia, può aiutarle molto a rimettersi al passo. Mettere due bei nuclei in pieno sviluppo, allo stesso modo può essere considerato uno spreco. Occorrerebbero molte pagine per descrivere un’esperienza di anni legata a questo metodo, che a dispetto del dottor Loubet, può essere eseguito con normali arnie, da dieci come da dodici, portando

sicuramente vantaggi sulle singole produzioni, dovute alla gestione del nido, che risulta ovviamente di tipo ristretto. Quella che in questo articolo è la mia reale intenzione è quella di “mettervi la pulce nell’orecchio”, di farvi dire: “perché no?”. Sopratutto vi inciterei a provare con poche arnie, e a non scoraggiarvi se da subito non avrete i risultati sperati: occorre perseverare un pochino e non attendersi miracoli. Il procedimento, in sintesi, consiste innanzitutto nell’evitare derive. È necessario avere due nuclei vicini, non si può improvvisare facendo spostamenti all’interno

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dell’apiario all’ultimo minuto! Poi occorre dividere verticalmente l’arnia esattamente in mezzo (va benissimo un divisore in lamiera da sei decimi, esso deve dividere totalmente le due parti, per fare questo bisogna praticare una scanalatura sulle pareti della cassetta). Una volta che l’arnia risulterà così divisa, dal coprifavo al fondo, potremo alloggiare un nucleo per parte, nella posizione in cui stavano prima (normale travaso). D’ora in avanti, le due famiglie condivideranno la cassetta così realizzata, la nostra “biruche”andrà provvista sempre di escludiregina, anche in assenza di melario, nel caso in cui il foro del nutritore del coprifavo, andasse malauguratamente a coincidere con la lamiera di divisione. Ovviamente all’interno di queste arnie modificate, compatibilmente con il tipo genetico di api allevate, potremo arrivare ad avere dieci dodici favi covati a seconda del tipo di arnia, con il conseguente esiguo accumulo di miele nel nido. Per quella che è stata fino ad oggi la mia esperienza, questo tipo di conduzione non risulta particolarmente vantaggiosa in inverno, il suo utilizzo finisce con la fine delle produzioni; visto e considerato che la vera intimità fra le due colonie, avviene con la posa del melario. Buona sperimentazione! Alberto Guernier 6/2018

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Agenda lavori. Nord-Est

Pensiamo alla stagione che verrà!

di Giacomo Perretta

Concentriamoci sulla suddivisione delle famiglie di api. Farlo in questo momento garantirà la presenza abbondante di fuchi maturi per la fecondazione delle regine vergini; migliorerà al tempo stesso la possibilità di eseguire un primo trattamento antivarroa in assenza di covata uesto è un periodo molto complesso, sono molti gli argomenti di cui scrivere: Continuare sulla sciamatura, la lotta alla varroa, un metodo per incrementare la produzione un’altro per sviluppare uno sciame, ma infine ho deciso di scrivere come aumentare il numero degli alveari del nostro apiario e dare un accenno alla smielatura. Nel nostro territorio il Nord-Est della pianura Padana l’apicoltura si sviluppa su tre piani, quello marino, montano e ovviamente quello di pianura, a questo possiamo aggiungere anche una apicoltura legata al lago di Garda che, sebbene le

Foto Francesco Oliverio

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condizioni ambientali differiscano poco dal resto della pianura, la differenza durante il periodo invernale è piuttosto rilevante. A fine maggio in pianura si chiude la raccolta con la fioritura del tiglio, nelle zone montane con il castagno, più avanti avremo in montagna il rododendro e anche quello di barena al mare, mieli speciali che non entrano nelle quantità per un mercato generalizzato; anche in pianura possiamo avere, ancora dopo giugno, mieli particolari come la melata: questa tipologia ha ripreso ad essere prodotto da qualche anno… ma della smielatura parleremo più in là.

Descriviamo, ora, una delle tecniche per aumentare il numero dei propri alveari al termine del raccolto di Giugno. RADDOPPIAMO IL NOSTRO APIARIO Ogni alveare può essere raddoppiato o, per quelli più attenti, triplicato; non sono necessarie nozioni importanti, solo volontà e l’attenzione che dobbiamo a questo lavoro. È necessario fare delle raccomandazioni che valgono per tutte le operazioni che si fanno all’interno dell’alveare: occorre prestare particolare attenzione alla salute della famiglia, alla presenza e alle condizioni della covata, alla presenza della regina. Va da sé che la famiglia debba essere forte e ben popolata. Fatta questa premessa, entriamo nel vivo della tecnica. Prendiamo un cassettino di polistirolo o un’altra arnia e cominciamo a dividere il primo alveare. Ci sono diversi modi per “dividere”, in quest’articolo vi propongo un mio personale metodo che mi permette di raddoppiare l’apiario invernale, per poi in primavera dell’anno successivo di ricompattarlo, ma di questo ne parleremo in un’altra occasione. In genere io lavoro su nove telaini 6/2018


e un diaframma per comodità di lavoro, ma questo non cambia il metodo: • prendere il portasciami (così si chiamava una volta, oggi: cassettino di polistirolo), e collocarlo vicino all’alveare da dividere; • prelevare dall’alveare da dividere tutti i telaini con covata e tutte le api che sono su di esso e spostarli nel cassettino di polistirolo; • lasciare nell’alveare solo i telaini senza covata e la regina; • verificare che vi sia miele nei telaini laterali e metterne uno nel cassettino di polistirolo dove avete travasato i telaini con la covata; • nella porticina di volo del cassettino lasciare uno spazio sufficiente a far passare un paio di api;

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• chiudere anche l’alveare dal quale sano circa una ventina di giorni, è stata tolta la covata, lasciando nel frattempo tutte le api sono un’apertura di 2-3 cm; nate ed è possibile in assenza • Portare il cassettino di polistirolo di covata effettuare un trattaalmeno a qualche decina di mento con Apibioxal gocciolato. metri dall’alveare-madre; solo È anche possibile lasciare che si le api che sono già uscite ritorfacciano la loro regina e dopo neranno all’alveare d’origine, che sarà stata fecondata e avrà mentre quelle che non sono mai iniziato la deposizione, fare il uscite dall’alveare rimarranno a trattamento. Questa regina dovrà curare la covata; essere poi sostituita con una sele• inserire alimentazione (liquida zionata acquistata da allevatori di 50%) anche se pensate non ne api regine certificati. abbiano bisogno, all’alveare • Nell’alveare madre, dove è stata mancano le bottinatrici e la prelevata tutta la covata, due covata necessita anche di acqua; o tre giorni dopo, è necessario • il giorno dopo inserire una regina; effettuare un trattamento con è anche possibile inserire una ApiBioxal gocciolato che, per cella reale: quando la regina effetto della mancanza di covata, nasce e inizia la deposizione pasavrà la massima efficacia (la var-

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Agenda lavori. Nord-Est

roa si introduce nella celletta al più presto il sesto-settimo giorno, anche se studi accurati collocano il loro rifugiarsi nelle cellette poco prima che queste vengano opercolate). Questo è solo uno dei tanti metodi ma dà la possibilità di aumentare il numero degli alveari, e se ben gestiti, avere per l’anno successivo un aumento del nostro apiario. LA SMIELATURA Ho già parlato, ad inizio articolo, delle colture specifiche del nostro NE, accennando alle fioriture e specificatamente al loro termine. Ma che cosa hanno in comune queste fioriture per l’apicoltore? La smielatura. Qualunque sia la qualità o la specialità del vostro miele l’operazione comune sarà proprio la smielatura. Prestiamo, ora, attenzione a quegli apicoltori che praticano l’apicoltura in modo amatoriale e che smielano in casa con il loro

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piccolo smielatore centrifugo a manovella. Perché? Chi vende miele è obbligato a delle prassi igieniche sanitarie vincolate alla propria ULSS, mentre chi è in autoconsumo pur non dovendo sottostare a questo vincolo, non può certo esimersi dall’obbligo di smielare in ambiente pulito e igienizzato. L’igiene e la salubrità del luogo dove si svolgono le operazioni di smielatura - spesso la cucina - è vincolata al buon senso e alla certezza che la vostra salute sia altrettanto importante. È necessario lavare bene l’ambiente che andremo ad utilizzare, lavarsi spesso le mani, asciugandole con carta usa-e-getta (il classico canovaccio potrebbe incorporare agenti patogeni). Non si devono impilare melari sporchi e, soprattutto, non si debbono immagazzinare materiali nello stesso locale della smielatura. Invasettare il miele in modo corretto anche se per vostro consumo;

indossare indumenti puliti e cuffie, chiudete le zanzariere alle finestre… potrei continuare con un lungo elenco ma suppongo che già abbiate compreso a cosa mi riferisco quando parlo di igiene. Da non dimenticare una particolare attenzione allo smielatore che, essendo una macchina rotante può diventare pericolosa se mal gestita. Inoltre una attenzione all’umidità del miele per il quale consiglio che non superi il 18%, per questo vi sarà utile un rifrattometro. Le api prima di deporre il miele nelle cellette, le puliscono e le igienizzano; loro sanno che una cattiva gestione renderebbe il miele inutilizzabile, portandole a morte certa. E voi? Sicuramente non morirete di fame, però neppure potrete utilizzare quel miele, frutto del vostro lavoro e soprattutto quello delle api, alle quali va il nostro rispetto. Giacomo Perretta

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Agenda lavori. Centro

Bilancio di mezza stagione

di Angelo Lombardi

Se ci dovessimo attenere esclusivamente ai numeri ne deriverebbe il quadro, ancora una volta, di una stagione produttiva povera di soddisfazioni e ricca, tanto ricca, di complicazioni. Ora è il tempo, però, di predisporre le famiglie ad affrontare le fioriture estive: è la cura del dettaglio, in questi casi, che fa la differenza in meglio nche quest’anno non appena si sono aperte le prime gemme della fioritura regina, l’acacia, soprattutto nelle aree più miti, quelle immediatamente a ridosso delle fasce costiere, le temperature medie sono precipitate, pioggia e vento

Foto Angelo Lombardi

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non si sono fatti aspettare e non sono mancate nemmeno le grandinate. Dunque, si sono presentate quasi tutte le condizioni ideali per ostacolare l’attività di raccolta delle nostre api. A questa situazione, già di per sé difficile, si è aggiunto lo strano comportamento della fioritura che si è manifestata per un periodo decisamente più breve del solito. Risultato: una media di 5/6 kg di miele ad alveare, nei casi più fortunati. Numeri evidentemente non soddisfacenti, anche perché le fioriture precedenti, come il biancospino, il tarassaco, l’albicocco, la borragine, il ciliegio, erano state utilizzate dalle api esclusivamente per ripristinare le scorte nel nido, che a seguito dei

consumi invernali decisamente superiori all’ordinario, erano totalmente assenti negli alveari all’uscita dall’inverno. D’altra parte, era possibile percepire le difficoltà che le api incontravano nell’attività di raccolto osservando la porticina di volo (pratica troppo spesso sottovalutata); era possibile constatare le ore di volo, decisamente limitate rispetto al necessario (a solo titolo esemplificativo, si ricorda che le api per raccogliere 300 mg di polline devono effettuare circa 20 voli della durata di circa 15 minuti l’uno); nel mese di maggio, abbiamo avuto tante giornate nelle quali le api hanno incominciato le attività lavorative esterne - raccolto - dopo le 08:00 del mattino e verso le 16:00 avevano già quasi azzerato i voli; normalmente è possibile osservare api sui fiori già alle 06:00/06.30 del mattino fino alle 19:30/20:00. In questo contesto, chi ha potuto, ha frettolosamente spostato gli alveari in zone collinari/montane nel tentativo di intercettare le fioriture scalari, che si sono presentate da metà maggio in avanti. Chi lo ha fatto ne ha tratto risultati migliori, arrivando a riempire, 21


Agenda lavori. Centro

nella media, il melario. Gli apicoltori che hanno ancora i melari, in questo periodo hanno incombenze in apiario molto limitate; le famiglie dovrebbero essere strutturalmente pronte con i melari inseriti, la febbre sciamatoria dovrebbe essere un lontano ricordo; gli adempimenti si possono limitare all’osservazione del lavoro delle api, sperando nella clemenza delle condizioni meteo. Gli apicoltori che, invece, hanno scelto altro indirizzo produttivo (stanziale) o subìto impedimenti organizzativi, non hanno potuto trasferire gli alveari; questa fase di transizione della stagione produttiva, in attesa delle fioriture estive (tiglio, castagno, medica), potrà dunque essere dedicata alla sistemazione degli alveari che hanno

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affrontato a fatica la prima parte della stagione. In particolare, ad esempio, si possono dedicare al controllo delle famiglie sciamate. Una verifica della deposizione, qualitativa e quantitativa delle nuove regine per valutare se è necessario o meno sostituirle; la riorganizzazione del nido, spostando i favi colmi di scorte dalla posizione centrale ad una posizione più periferica, ripristinando, all’interno dell’alveare, gli indispensabili spazi per deporre le uova e garantire, dunque, un congruo ricambio di api all’interno della famiglia, sono alcune delle operazioni utili a preparare le famiglie di api al nuovo raccolto estivo. Memori di quanto successo la scorsa stagione, quando i nostri apiari sono stati letteralmente

aggrediti da numeri incontrastabili di calabroni, che hanno decisamente contribuito a ridurre le potenzialità produttive degli alveari (si tratta di due specie diverse, Vespa crabro e Vespa orientalis, entrambe identificate con il nome comune di calabrone ed entrambe ugualmente pericolose per le api). Conoscendo la biologia di questi vespidi, che nel periodo primaverile (quest’anno si è registrato un significativo ritardo nel risveglio primaverile, negativamente condizionato dall’andamento climatico) incominciano lo sviluppo delle “società annuali”, dovremo impostare un’azione preventiva dell’infestazione territoriale, installando delle trappole per tentare la cattura delle vespe regine. Sul mercato sono facilmente reperibili

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Foto Zanconato

trappole di diversa dimensione e forma, adeguatamente selettive che impediscono l’ingresso delle api, alle quali possiamo aggiungere esche di varia natura (dai pezzi di favo con covata e miele alla carne macinata, anche se la birra a bassa gradazione alcolica con aggiunta di aceto di mele sembra dare risultati molto interessanti). Ovviamente va da sé che l’ideale sarebbe individuare e distruggere i nidi definitivi che generalmente si localizzano nelle cavità degli alberi (scelta elettiva) non troppo lontano dagli apiari, che vengono considerati veri e propri territori di caccia, dove le prede - le nostre api - certamente non mancano. Altro accorgimento che può tornare molto utile nei nostri apiari, in questo periodo è assicurare la disponibilità di acqua. È vero che le api riescono a percepire variazioni 6/2018

ancora, un punto dove rilasciare costantemente delle goccioline d’acqua cadenti su cumuli di pietre: qui l’umidità prodotta contribuirà alla formazione di un ambiente misto che arricchisce l’acqua di sali minerali preferiti dalle api molto più dell’acqua corrente. Lasciamoci dunque alle spalle la prima parte della stagione, impegnamoci a predisporre le famiglie e gli apiari nelle migliori condizioni possibili per affrontare le fioriture estive, non sottovalutiamo nessuno degli aspetti in grado di incidere sulle capacità produttive delle api, nella consapevolezza che è proprio la cura del dettaglio che molto spesso demarca il confine tra un risultato soddisfacente ed un risultato deludente; vale in molti casi, vale soprattutto in apicoltura. Chiudiamo queste note con la solita raccomandazione di partecipare alle attività di aggiornamento professionale che vengono promosse un po’ in tutta Italia; certo, in questo periodo il lavoro in apiario ci tiene costantemente impegnati lasciandoci pochissimo tempo disponibile, ma non ci dimentichiamo che a breve saremo chiamati ad effettuare gli interventi di contrasto alla Varroa e conoscere le novità e le esperienze fatte da altri colleghi può arricchire il nostro bagaglio e contribuire a facilitarci nell’adozione delle scelte più adatte alle nostre realtà aziendali.

dell’umidità relativa dell’ordine del 5%, pertanto riescono a trovare le fonti idriche con estrema facilità. Ma è altrettanto vero che negli ultimi anni le stagioni estive si sono caratterizzate per periodi siccitosi anche molto prolungati che hanno determinato carenze idriche anche in zone dove normalmente il problema non si è mai manifestato nel passato. Non dobbiamo sottovalutare che l’acqua per le api è molto importante, sia perché rientra nel ciclo alimentare di tutti i componenti della famiglia - durante tutto l’anno - ma anche perché viene utilizzata per la termoregolazione dell’alveare - soprattutto nel periodo estivo; in una famiglia di api è possibile valutare in oltre 200 litri di acqua il fabbisogno annuale. Inseriamo, dunque, nei pressi dell’a- Buona apicoltura a tutti. piario degli abbeveratoi appositaAngelo Lombardi mente studiati per le api o, meglio 23


Agenda lavori. Sud

Vietato piangersi addosso

di Santo Panzera

Gli scarni o mancati raccolti di questa Primavera 2018, non giustificano alcuna lamentela a danno dell’apicoltore. Essi infatti, di certo, non sono imputabili al nostro operato in apiario. È chiaro che stiamo tutti scontando le conseguenze del cambiamento climatico. Ecco perché dobbiamo predisporci ai prossimi raccolti con perizia, fiducia ed ottimismo isulta particolarmente difficile lasciarsi rapidamente alle spalle i magri raccolti di questa primavera che rischiano di ingenerare un perdurante clima di delusione ed amarezza nel non vedere premiate da raccolti soddisfacenti le nostre fatiche apistiche; si è portati “a caldo” a valutare se sia conveniente continuare ad investire tempo e denaro in una attività che, seppure appassionante e coinvolgente come l’apicoltura, sta diventando di anno in anno

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sempre più difficile ed avara di soddisfazioni. Tra le principali cause degli scarsi raccolti le anomalie metereologiche che si sono manifestate con grandi escursioni termiche tra notte e giorno e con prolungata carenza di pioggia (deficit idrico > al 50%). Sul versante jonico calabrese le caratteristiche f iumare erano ridotte per tutto l’inverno a rigagnoli d’acqua serpeggianti negli ampi letti ghiaiosi. Le frequenti ondate di calore, con temperature massime che a Gennaio,

sono state di 3,3 gradi superiori alla media storica hanno fatto la loro parte. Gli effetti nefasti di questo capriccioso meteo ballerino si sono evidenziati in una anticipata ed “esplosiva” fioritura, senza la normale scalarità delle annate precedenti, con l’eccezionale accavallarsi di sulla e cardo, con fioritura di brevissima durata e scarsamente nettarifera. E non solo il versante jonico ha subito detti fenomeni, infatti segnalazioni simili ci sono pervenute da tutte le zone marine e non della Calabria. Fuggire da questi fenomeni con i tentativi di nomadismo è risultato vano. Cosa fare dopo tale situazione? Non deprimersi, certo, e proiettarsi con spirito ottimistico verso i necessari lavori di Giugno. Uniformare le forze delle famiglie predisponendole al prossimo, sperato, raccolto sul castagno (foto a lato) e, in caso di nomadismo (trasferire gli alveari in prossimità dei castaneti), ricordarsi di alleggerire gli alveari dal miele del nido e prepararsi a conservare i favi pieni di polline, frequenti su questo tipo di fioritura. Portare gli alveari in previsione di un raccolto e trasportarli pie6/2018


ni di miele è un controsenso ed è più faticoso (il miele pesa tanto!). Questi favi con miele, tolti, saranno utilissimi per integrare le scorte invernali. Così come saranno utili i favi con polline prelevati durante o subito dopo il raccolto di miele di castagno. L’utilità dei favi di polline si evidenzia o a fine inverno, per favorire le ripresa della covata o se si intende effettuare il raccolto di miele di eucalipto; questo in particolare nel periodo Giugno/Luglio, essendo il polline di questa pianta di scarso valore nutrizionale per la covata, lo si può sostituire con quello di castagno di maggior valore proteico. Gli alveari che non verranno destinati ai prossimi raccolti, andranno risistemati. A quelli orfani andrà data una nuova cella reale o una nuova regina feconda - possibilmente proveniente da allevamenti siti in ambienti simili a quelli in cui si opera; anche agli sciami naturali raccolti ed inarniati ed alle famiglie sciamate, andranno dotate delle stesse celle o regine feconde selezionate.

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Ricordarsi che l’inserimento di celle reali da allevamento in nuclei o sciami deve avvenire non prima di 24 ore dalla loro orfanizzazione. Mentre per l’inserimento delle regine feconde può essere effettuata contemporaneamente alla loro orfanizzazione; la gabbietta di introduzione - inventata dall’Avv. Vincenzo Asprea (1874-1930) di Gallina (Reggio Calabria) è congegnata in modo tale da permettere l’uscita della nuova regina non prima di 24/48 ore e solo dopo che le api hanno consumato il candito. Nel caso di introduzione di una nuova regina che sostituisce la vecchia o non valida regina, per avere maggiore probabilità di accettazione, si rimuove la vecchia regina. Controllare il buon esito dell’operazione non prima di 8 giorni per dare tempo alla nuova regina di iniziare la deposizione delle uova e la loro schiusa. La presenza di covata fresca (aperta) è garanzia della riuscita sostituzione e non è necessario vedere fisicamente la regina. Nella gabbietta di “introduzione”

della nuova regina, normalmente, vengono inserite 10/12 api operaie per nutrizione ed accudimento durante il trasporto. Se si volessero allontanare queste api accompagnatrici, per avere maggiore successo nella sostituzione, consigliamo questa tecnica: • procurarsi un contenitore con dell’acqua pulita; • immergere completamente la gabbietta contenente la regina e le api; • aprire la gabbietta quando è sul fondo del contenitore d’acqua; • svuotare da tutte le api la gabbietta, regina compresa; • prelevare solo la regina tra le api che sono risalite in superficie; • mettere nella gabbietta solo la regina avendo cura di afferrarla dal torace e non dall’addome. Dopo il controllo generale degli apiari e dopo aver deciso la giusta direzione da prendere, non resta altro che fare un pieno non solo di gasolio ma anche di speranza e preparare così gli alveari in vista del prossimo raccolto. Santo Panzera

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Agenda lavori. Isole

È tutta questione di clima

di Vincenzo Stampa

Il nostro lavoro è programmazione e si basa sulla conoscenza del territorio e delle sue fioriture; torniamo quindi all’apicoltore, alla sua memoria storica e alla capacità di interpretare i fenomeni naturali. Stando così le cose, mirando al risultato economico positivo, è indispensabile avere un carta di riserva magari sperimentando nuovi pascoli e produzioni alternative a quelle derivanti dalle attività tradizionali nverno del 5 maggio 2018: una data che tutti conosciamo per eventi storici e che rischia di essere anche emblematica, in negativo, per l’apicoltura. Nella Foto 1 la campagna attorno a Trapani, nello sfondo Erice (immaginatevelo), dietro nuvole che iniziano da quota 100 metri. Pioggia battente, temperature basse si accaniscono sugli alveari che già fanno fatica a bottinare la sulla, nelle belle giornate, iniziando nel pomeriggio a causa

Foto Vincenzo Stampa

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delle basse temperature notturne. Nella Foto 2 che qui vi proponiamo, ripresa purtroppo tardivamente rispetto alla fioritura, vi è una florida pianta di acacia (Robinia pseudoacacia) di notevoli dimensioni, altezza circa 10 metri e circonferenza del tronco ad un metro da terra di 152 cm, che cresce nei pressi dell’abitazione di campagna di chi vi scrive. Osservandola da circa trent’anni, puntualmente, all’incirca alla metà di aprile, si ricopre di una splendida fioritura

Foto 1 -La campagna attorno a Trapani mese di maggio.

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prima di emettere le foglie, il che rende la cosa più evidente. Ebbene questa pianta, insieme alle sue simili che adornano alcune vie della città di Trapani, non ha mai profumato durante la fioritura e non è stata frequentata dalle api; di conseguenza non produrrà semi. Si suppone che questo comportamento sia dovuto alle particolari condizioni climatiche infatti, contrariamente alle dette, le robinie che crescono sui monti Nebrodi, in un clima quasi continentale, sono nettarifere. Durante una visita all’Orto botanico sperimentale di Toscolano Maderno (BS), dove si coltivano piante medicinali provenienti da tutto il mondo, il botanico che ci accompagnava ha voluto precisare che le specie trapiantate da altri Continenti o territori climatici non sempre mantengono intatte le loro proprietà. Cosa c’entra questo con il periodo in cui si stanno leggendo queste righe? Apparentemente nulla ma, non è così! Ci sono, in tempi passati (fin dal 2003) si sarebbe detto dei segnali, ora possiamo dire dei fatti molto gravi che possono mettere in discussione il futuro dell’apicoltura 6/2018


da reddito. Dobbiamo riferirci, alla fioritura degli aranceti. Da alcuni anni si è osservato un andamento altalenante sulla produzione del miele di arancio (alcuni dicono di zagara) che si è sempre più discostata dallo standard conosciuto di grande abbondanza, per non parlare della qualità. Quest’anno il fatto si è appalesato nella sua gravità, in tutti negli areali dedicati a questa coltura, a fronte di una splendida fioritura, non c’è stata produzione di miele in quanto le api non l’hanno frequentata. Dappertutto un particolare è risultato evidente, le fioriture si sono evolute senza l’inebriante profumo di zagara e senza nettare, il che giustifica il comportamento del-

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Foto 2 -Robinia pseudoacacia; fiorisce senza profumo non è visitata dalle api

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Agenda lavori. Isole le api, che noi conosciamo come grandi opportuniste; è facile fare una similitudine con il comportamento delle robinie di cui sopra. Ora, mentre per le robinie è lecito pensare che siano state introdotte in un ambiente non consono, gli aranceti non si sono spostati da secoli, ma è molto probabile che il clima si sia lentamente modificato tanto quanto basta da essere diventato, per loro, non idoneo: e questo non è un problema, è addirittura un disastro. Continuano a restringersi le opportunità di pascolo, è chiaro che ci dobbiamo organizzare per cambiare le strategie produttive riguardo i tempi e i pascoli e forse anche le modalità. Il territorio della provincia di Trapani, punta estrema della Sicilia occidentale, si è dimostrato, negli ultimi quindici anni, un’avanguardia negativa, rispetto ai cambiamenti climatici che influenzano il comportamento delle piante e quindi la loro produttività in nettare. Una delle cose più evidenti è la modifica della circolazione atmosferica; è cambiata la direzione dei venti dominanti, con prevalenza di quelli dei quadranti settentrionali (maestrale e grecale) su quelli dei quadranti meridionali (libeccio e scirocco) in tutte le stagioni. Situazione particolarmente grave in primavera e in estate quando le fioriture tipiche del periodo, agrumi, sulla, cardo, timo, richiedono temperature più alte di quelle attuali e basse escursioni termiche tra giorno e notte, esattamente tutto il contrario di quello che accade. Infatti gli agrumi non hanno dato 28

Foto 3 - Altopiano della provincia di Trapani: fioritura di sulla nel mese di maggio, i campi gialli sono di grano.

nulla, la sulla nello stesso periodo è stata bottinata soltanto dal mezzogiorno in poi, il cardo non sarà nettarifero con temperature al di sotto dei 24 °C per non parlare del timo, pianta che fiorisce in giugno, la quale con venti settentrionali, ottimi per il turismo, fa una splendida fioritura ma non è nettarifero come si è visto in anni passati. Abbiamo una controprova? Magari limitata, ma l’abbiamo! Da alcuni anni osserviamo che le fioriture che si realizzano in versanti collinari rivolti a sud o più tardivamente a quote maggiori o in aree interne rispetto alla pianura e alle zone costiere, sono più produttive. Se prendiamo a riferimento la sulla, in aprile, periodo tipico della sua fioritura in fascia costiera, ha prodotto pochissimo mentre sta producendo normalmente in areali più interni dove la fioritura è iniziata un mese dopo (Foto 3); questo si ritiene in conseguenza dell’innalzamento della temperatura media giornaliera e della diminuzione dell’escursione termica giorno/notte. Abbiamo un suggerimento? L’apicoltore registra il risultato finale, conseguente a tutta una

serie di fenomeni incontrollabili e per giunta in evoluzione; dare un suggerimento non è semplice, volendo fare tesoro dell’esperienza maturata, sembrerebbe logico puntare sulle fioriture tradizionali ma che si realizzano tardivamente oppure su fioriture tipicamente estive in areali poco esposti ai venti settentrionali, occorre provare. Come sappiamo, l’apicoltura è programmazione che si basa tutta sulla conoscenza del territorio e della progressione delle fioriture; torniamo quindi all’apicoltore, alla sua memoria storica e alla capacità di interpretare i fenomeni naturali. Stando così le cose e mirando al risultato economico positivo, è indispensabile avere una carta di riserva magari sperimentando nuovi pascoli e produzioni alternative alle attività tradizionali. Alle doti dell’apicoltore dobbiamo aggiungere dunque un sano strabismo, che guardi contemporaneamente al rendimento economico e alle nuove tendenze del mercato, sempre più orientato verso la novità e la qualità in un clima sostanzialmente mutato. Vincenzo Stampa 6/2018


gli Speciali di Apitalia

Pane d’api: un prodotto dell’alveare poco conosciuto, ma prezioso alimento

di Giulio Loglio

Il “raccogli pane d’api” è lo strumento pratico necessario al prelievo di campioni destinati all’uso alimentare o a particolari esami di laboratorio. La messa a punto di un originale prototipo, pronto per la commercializzazione, ci offre l’occasione per descrivere dettagliatamente le caratteristiche di un prodotto delle api di cui poco si parla: il pane delle api, appunto, che diversamente dal polline può essere così asportato direttamente all’interno dei favi e consumato pane d’api è un ottimo prodotto alimentare ottenuto dalla fermentazione del polline fresco nelle celle dei favi. Non è mai stato valorizzato dagli apicoltori per autoconsumo per la mancanza di un attrezzo che ne permettesse un’agevole raccolta. L’autore di questo lavoro ha ideato “il raccogli pane d’api”, strumento che è stato brevettato, semplice e poco costoso che permette di estrarre dai favi il pane d’api sotto forma di pellet un prodotto che può essere utilizzato come alimento sia dall’a-

Il

Foto Giulio Loglio

Foto Francesco Oliverio Foto 1 - Nelle tiepide giornate di sole di gennaio le api raccolgono polline sugli amenti maschili del nocciolo (Corylus avellana), classica pianta anemogama e in primavera sul pesco, tipica pianta entomogama.

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picoltore che dal consumatore locale. Per l’alto valore nutritivo il pane d’api può essere utilizzato come alimento nei Paesi in via di sviluppo insegnando alle popolazioni locali ad allevare razze di api selezionate specializzate nella raccolta del polline. Dal momento che l’attrezzo non rovina le celle dei favi, può essere impiegato anche da veterinari, ricercatori e tecnici apistici per campionare in apiario un pane d’api, perfettamente pulito, da utilizzare per rilevare la presenza di pollini epatotossici e per ricercare pesticidi, agrofarmaci, contaminanti ambientali e i microrganismi responsabili delle malattie delle api. COSÌ LE API RACCOLGONO E FORMANO IL POLLINE Il polline è l’unica fonte proteica introdotta nell’alveare da api bottinatrici “specializzate” nella sua raccolta da piante anemogame (impollinazione operata dal vento) ed entomogame (impollinazione operata da insetti) (Foto 1). Una caratteristica comportamentale di queste api è la “fedeltà” alla specie visitata: raccolgono polline esclusivamente dai fiori della stessa essenza vegetale, sino a quando questa non ha portato a termine la fioritura, favorendo in questo modo l’impollinazione incrociata. Basta osservare attentamente un’ape che si posa sul predellino dell’alveare per constata29


gli Speciali di Apitalia

re come il polline contenuto nelle sue cestelle abbia sempre lo stesso identico colore: mai si potranno notare pallottoline con colori diversi, situazione che starebbe ad indicare che, nel corso dello stesso viaggio, la bottinatrice ha raccolto polline su differenti essenze vegetali (Foto 2). La bottinatrice imbratta il suo corpo con i granuli pollinici facendoli aderire alla miriade di peli che lo rivestono. Poi, mentre vola di fiore in fiore, con movimenti rapidissimi, provvede alla sua raccolta utilizzando le spazzole dei tarsi delle sue 6 zampe. All’inizio raccoglie il polline dalla testa con il primo paio di zampe. Lo compatta inumidendolo con il nettare raccolto sul fiore o con il contenuto della borsa melaria: forma una microscopica pallottola “umida”. ORGANI SUPEREFFICIENTI E BOTTINATRICI SPECIALIZZATE Con le spazzole del tarso del secondo paia di zampe, raccoglie il polline adeso alla peluria del torace e lo amalgama con la pallottola “umida” ricevuta dal primo paio di zampe. Alla fine con il terzo paio di zampe raccoglie il polline presente sull’addome e lo impasta con la pallottola “umida” ricevuta dal secondo paio zampe. Strofinando fra loro le zampe posteriori, l’ape trasfe-

Foto 2 - Al rientro nell’alveare le api trasportano nelle cestella pallottoline di polline, dello stesso identico colore, del peso di circa 7,5 mg ciascuna.

risce il polline dalla spazzola tarsale di una zampa al pettine dell’altra e successivamente in una concavità (auricola) che si trova nella parte posteriore del tarso. Poi, flettendo l’articolazione tibio-tarsale o pinza del polline, spinge la pallottolina nella cestelle del polline. In 5-15 minuti, a seconda dell’essenza vegetale visitata, una bottinatrice riesce a raccoglie due pallottoline di polline del peso di circa 7,5 mg ciascuna. Dopo averle

Foto 3A e 3B - Favo contenente pane d’api e una sezione del favo con pane d’api.

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gli Speciali di Apitalia

trasportate nell’alveare, le toglie dalle cestella utilizzando una spina situata nel secondo paio di zampe e le deposita in un cella del favo, di solito in prossimità della covata. A questo punto intervengono le operaie di casa che con il capo comprimono le pallottoline sul fondo della cella aggiungendo enzimi e miele.

cazione quali-quantitativa che permette di ottenere un prodotto alimentare proteico molto digeribile in grado di conservarsi naturalmente a lungo perché la germinazione del polline è completamente inibita. Rispetto al pane d’api, il polline fresco è ricco di acqua (20-30%): sottratto alle api al rientro nell’alveare, utilizzando diversi tipi di trappole, può essere L’ALTO VALORE PROTEICO conservato solo se l’apicoltore lo sottopone ad essicazione, disidratazione o congelamento in modo da DEL CONGLOMERATO DI PALLOTTOLINE Di solito in una celletta vengono stoccate una quin- impedirne sia la germinazione che la degradazione dicina di pallottoline di polline dai differenti colori da parte di lieviti e muffe. Interventi conservativi che che nel volgere di alcuni mesi, a seguito di processi purtroppo incidono negativamente su alcune profermentativi, si amalgamano fra di loro trasformando- prietà nutritive del polline fresco. si un piccolo cilindro compatto dal colore omogeneo. Le celle contenenti pane d’api non vengono mai riLa progressiva fermentazione operata dai batteri e empite completamente e non vengono mai opercoladai lieviti, favorita dal microclima dell’alveare, tra- te. Dal momento che in una giornata una bottinatrice sforma il polline grezzo in pane d’api: una modifi- riesce a compiere circa 20 viaggi, trasportando nell’al-

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gli Speciali di Apitalia

prodotto che ha un valore proteico “medio”, di buona qualità, in grado di evitare quelle carenze proteiche che sono responsabili della nascita di api “sottopeso” con un ridotto “corpo grasso”. La composizione media del polline fresco e del pane d’api è condizionata dai pollini bottinati e può subire notevoli fluttuazioni. Le api tendono a prediligere il polline ricco di sostanze azotate ma a volte, a causa di particolari situazioni ambientali (ad esempio siccità, gelate, interventi agronomici, ecc.) si possono trovare costrette a bottinare per parecchio tempo essenze vegetali che forniscono pollini di qualità scadente. Sia il polline che il pane d’api contengono 20 dei 22 amminoaFoto 3C e 3D - Una celletta isolata contenente pane d’api e la stessa celletta sezionata dove si intravedono i residui delle cidi presenti nei prodotti edibili. È stato calcolato che esuvie. 100 g di polline contengono tanti amminoacidi quanto 500 g di carne bovina o 7 uova di gallina. Sono suffiveare 300 mg di polline, si stima che in un anno un cienti 30 g di polline per coprire il fabbisogno proteico colonia di medie dimensioni sia in grado di raccoglie- giornaliero di un uomo adulto. Mentre il polline grezzo re quasi 50 kg di polline (Foto 3A-3B-3C-3D). viene raccolto fuori dell’alveare utilizzando particolari trappole, il pane d’api viene estratto dai favi. L’ENERGIA DEL POLLINE CHE SI TRASFORMA IN PAPPA REALE Il consumo del polline permette alle api nutrici (età compresa fra i 5 e i 15 giorni di vita) di elaborare e secernere con le ghiandole ipofaringee e mandibolari la pappa reale: questo alimento serve per nutrire le larve di ape operaia e di fuco nei primi tre giorni di vita e le larve delle future regine e le regine adulte per tutta la vita. Il polline, impastato con miele, viene utilizzato, sempre dalle api nutrici, per alimentare le larve dal quarto giorno dalla loro schiusa sino a quando le celle vengono opercolate. Perché una larva si possa trasformare in un’ape adulta che pesi circa 110 mg deve consumare dai 130 mg ai 180 mg di polline: il quantitativo di quest’ultimo è in funzione del suo valore biologico. È LA RICCHEZZA PROTEICA CHE FA PIÙ RESISTENTI LE API Nella stessa cella vengono stoccate pallottoline di polline di differenti essenze vegetali: questo rimescolamento permette di ottenere un pane d’api che ha una concentrazione proteica abbastanza costante (circa il 22-30%). In questo modo le api nutrici possono disporre per l’alimentazione delle larve di un 32

Foto 4 - Forma acuta di avvelenamento causata da agrofarmaci.

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TUBICINO RIGIDO

CORPO DELLA SIRINGA

STANTUFFO MOLLA

Foto 5A (sopra) I componenti del raccogli pane d’api.

COME SI ESTRAE IL PANE D’API Una tecnica prevede la sua estrazione manuale. Dopo aver rotto il favo, a temperatura ambiente o dopo averlo congelato, con setaccio a maglie larghe si raccolgono i cilindretti di pane d’api cercando di separarli dalla cera. Purtroppo è un’operazione molto laboriosa. Sono state studiate alcune apparecchiature che permettono di velocizzare il processo di raccolta: i favi congelati vengono frullati e un forte getto d’aria separa la cera permettendo la raccolta di un pane d’api abbastanza pulito. Si tratta tutavia di macchinari costosi non fruibili dagli apicoltori che hanno un ridotto numero di alveari. Dal punto di vista alimentare l’uomo tollera meglio il pane d’api rispetto al polline fresco tanto che se ne consiglia l’utilizzo, rispetto a quello grezzo, ai soggetti allergici ai pollini. Per la sua acidità è facilmente assimilabile dall’intestino essendo ricco di zuccheri semplici, enzimi, fibre ed amminoacidi. 6/2018

BARRETTA CILINDRICA

Foto 5B (sotto) Il raccogli pane d’api con il corpo della siringa sezionato.

Per quanto riguarda il valore biologico esiste una differenza sostanziale fra polline fresco e pane d’api. Una parte del polline fresco, assunto come alimento dall’uomo, transita nel lume intestinale senza essere digerito perché i succhi gastrici non riescono a sciogliere l’esina, la parete cellulare del polline. Nel pane d’api, invece, i vari processi fermentativi che avvengono nelle celle ad opera degli enzimi e del miele aggiunti dalle api portano alla produzione di acido lattico che, in circa 3 mesi, degrada l’esina rendendo più digeribile il contenuto pollinico ed assimilabili i vari elementi nutritivi. INQUINAMENTO DIRETTO O INDIRETTO: L’INSIDIA È SEMPRE IN AGGUATO Il polline grezzo raccolto con le trappole è un prodotto di origine vegetale che sempre più spesso risulta contaminato dagli agrofarmaci impiegati nella lotta alle patologie fungine, batteriche e parassitarie di varie essenze vegetali. Se il polline fresco è con33


gli Speciali di Apitalia

Foto 6 - Il funzionamento non cambia anche se vengono utilizzati diversi modelli di siringa.

taminato lo sarà di conseguenza anche il pane d’api prodotto con questo polline. Non sono da sottovalutare le forme croniche dovute ai residui presenti nel pane d’api che nel corso dell’anno esplicano il loro effetto tossico in modo subdolo soprattutto a carico delle larve e delle pupe. Recentemente le analisi di laboratorio eseguite su 554 campioni di polline fresco, campionato per 3 anni consecutivi in apiari italiani, hanno fatto riscontrare la presenza di pesticidi agricoli nel 62% dei prelievi. L’indagine ha rilevato che il 38% dei

campioni conteneva contemporaneamente da 2 a 7 pesticidi: una situazione che espone il consumatore a seri pericoli in quanto la tossicità di ogni singolo pesticida viene aumentata per l’effetto sinergico. Nel pane d’api è possibile rinvenire non solo i contaminanti del polline grezzo ma anche gli acaricidi di sintesi impiegati per la lotta alla varroa o ad altre patologie dell’alveare. In particolare i residui di quei prodotti impiegati illegalmente da alcuni apicoltori (Klartan®, Supona®, Birlane®, Taktic®) per evitare di sostenere i costi dei farmaci veterinari regolarmente autorizzati. Inoltre, l’ape può essere utilizzata come bio-indicatore: la miriade di peli che rivestono il suo corpo è in grado di catturare non solo i granuli pollinici ma anche le sostanze polverulenti presenti nell’atmosfera. Sostanze che, spazzolate e raccolte dall’ape assieme al polline, diventano una componente del pane d’api all’interno del quale possono essere ricercate. Ne consegue che per ottenere prodotti alimentari non contaminati (polline grezzo e pane d’api) è importante che gli alveari siano collocati in zone poco inquinate dove l’agricoltura viene praticata in modo non intensivo e l’ambiente non risulti inquinato da fattori antropici. Inoltre è fondamentale che l’api-

Foto 7 e 8 - È importante inserire il raccogli pane d’api verticalmente.

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Foto 9 - Come si nota nella fotografia le celle sono rimaste integre dopo l’estrazione del pane d’api. Il pellet di pane d’api di solito rimane attaccato all’estremità della barretta che sporge dal tubicino rigido.

nell’atmosfera e ricadono al suolo; coltore esegua i trattamenti acaricidi al termine della stagione produttiva, rispettando i tempi di sospen- • escludere la presenza di sostanze pericolose in un prodotto destinato ad essere commercializzato sione ed utilizzando solo farmaci veterinari autorizcome alimento; zati per il settore apistico. • valutare la composizione quali-quantitativa del pane d’api. In particolari situazioni ambientali e cliL’UTILITÀ DEI CAMPIONI matiche le api sono costrette a raccogliere, da parDI PANE D’API PER LA RICERCA ticolari essenze vegetali, polline con un contenuto Spesso i ricercatori hanno la necessità di disporre di campioni di pane d’api per: proteico (amminoacidi) dallo scarso valore biologico • rilevare residui di agrofarmaci che possono essere che, somministrato alle larve in fase di sviluppo, sarà responsabili di danni di tipo “cronico” a carico delresponsabile della nascita di api con un corpo grasso ridotto e quindi con un’aspettativa di vita limitata; la covata impedendo uno sviluppo armonico della • ricercare pollini epatotossici; famiglia; • evidenziare la presenza di metalli pesanti, in parti- • rilevare la presenza e la carica infettante dei princolare di piombo; cipali patogeni delle api (peste americana, peste • individuare sostanze inquinanti che vengono disperse europea, nosemiasi).

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FIORITURE TOSSICHE PER L’ALIMENTAZIONE UMANA È opportuno ricordare che in Italia, da alcune specie vegetali, le api possono raccogliere pollini che, contenendo alcaloidi epatotossici, possono risultare dannosi per il fegato dell’uomo: Echium vulgare (Viperina azzurra, Erba viperina comune), Echium plantagineum (Viperina piantaginea, Viperina piantagginea), Senecio jacobaea (Senecio di San Giorgio), Senecio ovatus (Senecione di Fuchs, Senecio di Fuchs, Senecio silvano, Eupatorium cannabinum (canapa acquatica). La tossicità, tuttavia, non si manifesta se il polline fresco o il pane d’api contengono solo tracce dei pollini di queste piante. In caso di fondato sospetto, per evitare danni al consumatore, l’apicoltore, prima di iniziare la sua estrazione, ha la possibilità di eseguire un campione conoscitivo, prelevando pane d’api in diversi punti dei favi, da sottoporre all’analisi palinologica. Per un principio di precauzione la stessa attenzione la dovrebbe adottare anche chi commercia polline fresco. È importante ricordare che, dopo un’improvvisa moria di api dovuta ad agrofarmaci, non ci si deve meravigliare se il pane d’api non risulta contaminato (Foto 4). Questo perché le api che raccolgono polline spesso bottinano su essenze vegetali differenti da quelle visitate dalle api della stessa colonia deputate a raccogliere nettare, melata ed acqua. Un esempio. Le api che suggono le guttazioni dalle piante di mais

Foto 10 - La barretta deve debordare dal tubicino rigido quando lo stantuffo viene premuto a fondo in modo da spingere all’esterno il pane d’api e permettere il distacco del piccolo pellet. In base alla composizione e consistenza del pane d’api l’operatore può campionare anche 2 o 3 celle prima di azionare lo stantuffo. In questo caso il pellet avrà una lunghezza maggiore.

Foto 11 - Modelli diversi di raccogli pane d’api.

nate da semi conciati con neonicotinoidi muoiono in poco tempo mentre le api della stessa colonia che bottinano il tarassaco in terreni distanti da quelli seminati a mais non manifesteranno alcun disturbo. IL RACCOGLI PANE D’API È UN BREVETTO ITALIANO Scopo di questo lavoro è quello di illustrare nei dettagli il “raccogli pane d’api”, un attrezzo molto semplice e dai costi molto contenuti ideato per permet-

Foto 12 e 13 - Il pane d’api dopo essere stato raccolto deve essere posto in un contenitore idoneo.

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Foto 14 - È importante campionare il quantitativo corretto di pane d’api da inviare al laboratorio per non inficiare l’esecuzione delle analisi.

tere una facile estrazione del pane d’api dalle celle dei favi da utilizzare per uso alimentare (autoconsumo) o per esami di laboratorio. Questo attrezzo non è destinato alle ditte che provvedono in modo industriale all’estrazione ed alla commercializzazione di pane d’api in quanto queste dispongono di costosi e sofisticati macchinari molto efficienti. Componenti costitutivi il cogli pan d’api (Foto 5A5B-6): • il corpo di una siringa alla quale l’ago è stato sostituito da un tubicino rigido (lungo 2-3 cm e con un diametro di 5 mm); • lo stantuffo della siringa con incollata una barretta

Foto 15 - Ultimati i prelievi è bene lavare con acqua calda il cogli pan d’api pulendo con un piccolo scovolo l’interno del tubicino rigido.

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cilindrica che ha un diametro leggermente inferiore al lume interno del tubicino rigido all’interno del quale deve scorrere; • una piccola molla lunga 2-3 cm. Il tubicino rigido deve avere il diametro di 5 mm perché è lo stesso diametro di una cella d’api. Può essere formato da materiale vario (alluminio, vetro, plastica rigida) ma deve soddisfare due caratteristiche importanti: 1) essere costruito con materiale che può venire a contatto con alimenti; 2) avere pareti molto sottili che siano nello stesso tempo resistenti e non deformabili. La barretta cilindrica (in metallo o in plastica per uso alimentare) deve avere una lunghezza tale da debordare dal tubicino rigido per 1-2 mm quando lo stantuffo della siringa viene premuto a fondo. All’interno della siringa, attorno alla barretta cilindrica, viene inserita una molla che ha il compito di mantenere in posizione arretrata lo stantuffo quando questo non viene premuto. COME SI USA IL RACCOGLI PANE D’API Per estrarre il pane d’api è sufficiente afferrare la siringa come fosse una penna da scrivere ed inserirla verticalmente in una celletta contenente il pane d’api esercitando contemporaneamente sia una leggera pressione che dei movimenti rotatori in modo da permettere al tubicino rigido di raggiungere il fondo della celletta (Foto 7 e 8). Così facendo la parte ester-

Foto 16 - Attualmente non esistono strumenti efficienti per estrarre il pane d’api da utilizzare per gli esami di laboratorio. Gli attrezzi normalmente in uso tendono a sbriciolare il pane d’api, permettono di raccoglierne solo una piccola quantità da ogni cella, rompono le pareti delle celle adiacenti contribuendo a inquinare il campione con cera ed esuvie.

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na del tubicino, scorrendo a contatto con le pareti interne della cella, stacca il pane d’api dalle pareti della cella e lo convoglia nella parte centrale del tubicino, che al momento del prelievo deve avere sempre il lume libero e non contenere la barretta cilindrica. Per raccogliere il pan d’api è sufficiente premere lo stantuffo: la barretta cilindrica scorrendo nel tubicino spinge all’esterno il pan d’api che viene depositato, sotto forma di un piccolo pellet (Foto 9). UNO STRUMENTO UTILIE PER I CAMPIONAMENTI ANALITICI Per facilitare le operazioni di campionamento è utile inserire all’interno della siringa una piccola molla che subisce uno schiacciamento solo quando l’operatore preme lo stantuffo. La sua funzione è quella di mantenere arretrata la barretta cilindrica in modo che il lume interno del tubicino rigido sia sempre libero e pronto ad accogliere altro pan d’api (Foto 10). Acquisita la necessaria manualità un operatore è in grado di campionare da 3 cellette di circa 0,07-0,1 g di pane d’api sotto forma di un piccolo pellet. Per raccogliere il 10 g di pane d’api è necessario inserire il cogli pan d’api in circa 400 celle. Dal momento che in 10 dm2 ci sono in media 415-425 celle significa che da queste è possibile estrarre circa 10-12 g di pane d’api che corrispondono alla dose giornaliera raccomandata per uso alimentare (Foto 12-13).

Foto 17 - Pellet di pane d’api campionato in apiario pronto per essere inviato al laboratorio per la ricerca di agrofarmaci: notevole soddisfazione è stata manifestata dall’apicoltore che questa volta non si è visto ritagliare dei pezzi di favo.

te alla pulizia interna del tubicino rigido (Foto 15). In casi particolari, in base alla ricerca da effettuare, potrebbe essere necessario sostituire il cogli pane d’api per ogni alveare, alla stregua di una siringa monouso, per evitare contaminazione incrociata. Volendo è possibile rendere molto più efficiente il “raccogli pane d’api” collegando direttamente il tubicino rigido ad una pompa del vuoto in modo che il pane d’api, dopo essere stato aspirato dalla celletta, si depositi in un contenitore ermetico posizionato prima della pompa del vuoto. Il contenitore ermetico può IL PANE D’API COME MATRICE diventare parte integrante del “raccogli pane d’api”. PER LE PROVE DI LABORATORIO Un piccolo motore elettrico agevola l’operatore faPer le analisi di laboratorio, in base al numero ed al cendo ruotare il tubicino rigido che, inserito nella tipo di sostanze da ricercare, di solito vengono ri- celletta contenente il pane d’api, agisce come una chiesti 10 g di pane d’api. Per ogni analisi normal- piccola carotatrice o una piccola fresa. In questo mente i laboratori d’analisi utilizzano da 0,5 g a 1 caso il pane d’api raccolto si presenta sbriciolato e g di pane d’api. Tuttavia è necessario inviare al la- non in forma di pellet. È una migliorìa fattibile e boratorio un quantitativo superiore perché, nei casi molto efficace che tuttavia comporta un aumento dubbi, le analisi devono essere ripetute. Pertanto è dei costi. opportuno contattare preventivamente il laboratorio per chiedere quanto pane d’api deve essere campio- UN’INNOVAZIONE VALIDA nato per il tipo di analisi richiesta (Foto 14). PER CHI PRODUCE E PER CHI RICERCA Al termine delle operazioni è indispensabile provve- L’obiettivo di chi ha ideato il cogli pane d’api era dere alla pulizia del cogli pan d’api con acqua calda. quello di mettere a disposizione di apicoltori, conUno scovolino per l’igiene orale si presta egregiamen- sumatori, ricercatori, veterinari e tecnici apistici uno 38

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strumento pratico e dai costi molto contenuti in grado di estrarre dalle celle dei favi il pane d’api sotto forma di pellet. Inoltre, la sua realizzazione in serie potrebbe permettere, in fase di fusione, di apportare ulteriori migliorie. Una di queste potrebbe riguardare la “rigatura” della parte interna del tubicino rigido con dei piccolissimi profili a spirale in grado di “avvitarsi” sulla pallottolina di pan d’api mentre, con movimenti rotatori, il tubicino avanza nella cella. Nel corso dell’anno spesso le api raccolgono più polline del loro fabbisogno e per istinto lo stoccano nei favi impedendo alla regina una corretta deposizione. Pertanto l’apicoltore toglie questi favi dall’alveare e li sostituisce con favi già costruiti o con fogli cerei. Con il cogli pane d’api questi favi possono essere valorizzati dal punto di vista alimentare destinandoli all’autoconsumo o diventare un’ulteriore fonte di reddito attraverso la cessione diretta al consumatore locale.

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IL VALORE ALIMENTARE E GLI IMPIEGHI DEL PANE D’API Il pane d’api è un ottimo alimento. La dose quotidiana raccomandata è di circa 10 g. La sua assunzione subito dopo l’estrazione dalle cellette del favo permette al consumatore di ingerire un alimento naturale integro, ricco di tutte quelle sostanze alimentari (carboidrati, glucidi, proteine, lipidi, micro e macroelementi, vitamine) che vengono parzialmente distrutte e disattivate dai vari processi ai quali viene sottoposto il pane d’api industriale per garantirne una corretta conservazione e commercializzazione. Inoltre, il pane d’api contenuto in un favo, se conservato in un ambiente fresco ed asciutto, mantiene inalterate le sue qualità nutritive per parecchio tempo. Un apicoltore intraprendente può destinare durante l’anno una parte dei suoi alveari alla produzione di pane d’api utilizzando ceppi di api geneticamente selezionate per la raccolta del polline: come si fa con il miele in favo, potrà cedere al consumatore piccoli

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favi colmi di pane d’api dopo averli inseriti in conte- stituire all’apicoltore come si fa per un “vuoto a rendere” perché venga reinserito nell’alveare in quanto nitori per alimenti. non esistono rischi sanitari. Per permetterne il consumo l’apicoltore non si dovrà dimenticare di fornire AUTOCONSUMO E NUOVE FORME contestualmente anche un cogli pan d’api. DI COMMERCIALIZZAZIONE Con il cogli pan d’api l’apicoltore potrà utilizzare per Innegabili sono i vantaggi per ricercatori, veterinari autoconsumo il quantitativo di pane d’api necessario e tecnici apistici che possono utilizzare il pane d’api al suo fabbisogno e a quello dei suoi familiari. Non per svolgere indagini per la ricerca di pesticidi ed insolo. Potrà decidere di iniziare anche la cessione di quinanti, in qualsiasi periodo dell’anno, anche quan“polline in favo” ai consumatori della zona come già do le api hanno cessato da tempo di bottinare il polline. Il tutto con immensa gioia degli apicoltori che si fa con il “miele in favo”. Un modo nuovo per valorizzare a chilometro zero non dovranno più subire il taglio di porzioni di favo. un prodotto dell’alveare dalle indiscusse qualità ali- Morie, spopolamenti e le sempre più frequenti conmentari scarsamente o per nulla utilizzato per la dif- taminazioni del polline con agrofarmaci, acaricidi, ficoltà di estrazione in loco. Se il consumatore della metalli pesanti, comporteranno con sempre maggior zona è un amico e una persona fidata l’apicoltore gli frequenza l’esecuzione di campionamenti presso gli potrà fornire un favo da nido intero. Dal momento apiari per poter monitorare la situazione ambientale. che le celle del favo restano integre il consumatore, Il cogli pane d’api permette di operare in modo prouna volta utilizzato il contenuto di tutte le cellette e fessionale e di raccogliere materiale perfettamente aver conservato il favo in modo corretto, lo potrà re- pulito senza arrecare danni ai favi dell’apicoltore. 40

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pane d’api dai favi e poterlo sottoporre agli esami di laboratorio normalmente utilizzano piccole spatole che tendono a sbriciolarlo permettendone solo un’estrazione parziale. Spatole di metallo o di plastica che spesso asportano, oltre al pane d’api, anche piccole porzioni di cera e di esuvie. Non avendo altri strumenti a disposizione alcuni ricercatori e tecnici apistici hanno trovato nel cappuccio di una penna a sfera un pratico strumento di lavoro (Foto 16). Come normalmente capita, non sarà più necessario rovinare i favi ritagliando porzioni da inviare al laboratorio. Pezzi di favo che, messi in sacchetti di polietilene, durante il trasporto spesso si schiacciano e si deformano rendendo ancora più impegnativo il lavoro del tecnico di laboratorio che deve comunque estrarre il pane d’api dalle cellette per poterlo analizzare. Con il cogli pane d’api, impiegato direttamente in apiario, è possibile prelevare ed inviare al laboratorio un campione perfettamente pulito, senza residui di esuvie e cera, che può essere immediatamente processato senza ulteriori perdite di tempo (Foto 17). Una volta raccolto il quantitativo necessario per le analisi di laboratorio, visto che lo strumento non rovina i favi, è possibile restituire il favo all’alveare in modo che le api lo ripuliscano per utilizzarlo in base DAI VECCHI SISTEMI INVASIVI alle loro necessità. ALLA PRECISIONE CHIRURGICA DEL PRELIEVO Giulio Loglio Attualmente i ricercatori e i tecnici per estrarre il ATS Bergamo

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CHEF AL MIELE

L’APE GOURMET

LO CHEF NIKO SINISGALLI E LE SUE RICETTE FRA CREATIVITÀ E TRADIZIONE di Luisa Mosello

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na cucina di sapori veri conditi di creatività a tutto gusto quella di Niko Sinisgalli. Un ventaglio di proposte per palati sopraffini in cui non poteva mancare un ingrediente tanto prezioso e ricercato come il miele. Un regalo della natura che ha del magico e che da sempre affascina l’executive chef del ristorante Tazio dedicato al mitico fotografo degli anni 60. Lo spazio gourmet si trova all’interno di Palazzo Naiadi (ex Boscolo Exedra) hotel a 5 stelle affacciato su piazza della Repubblica a Roma. È qui che Sinisgalli propone nel suo menù un piatto che rappresenta la punta di diamante anzi “di alveare” del suo vassoio di creazioni top: il petto di piccione laccato al miele su agretti, con confettura di nespole e ristretto di aglianico. Il miele usato, che dà un sapore unico alla ricetta, è agli agrumi e proviene dalla costa ionica lucana. Un omaggio alla sua terra d’origine a cui lo chef è legatissimo. È proprio in Basilicata che nasce la sua passione per la cucina. Figlio e nipote d’arte, o meglio

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di fornelli, fin da bambino è affascinato dalla maestria gastronomica della nonna Maria Antonietta dalla quale ha imparato a integrare tradizione e genialità. È stata lei a trasmettergli l’amore per il tesoro prodotto dalle api. “Ricordo quando da piccolo mi preparava le uova sbattute con il miele, soprattutto il millefiori” racconta. “Anche oggi la sera si rilassa con una tazza di latte e miele” gli fa eco la moglie Maria Rosito che è un vero alter ego di Niko, lo supporta e gli fa da musa ispi-

IL MIELE DI AGRUMI USATO IN QUESTO PIATTO DONA UN SAPORE UNICO ALLA RICETTA

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ratrice nelle sue sperimentazioni creative. Insieme i due formano una coppia inossidabile legata dalla passione per le cose buone e belle, e naturalmente per i loro amatissimi figli.

La famiglia insomma è sempre stata al centro della “ricetta” di vita di Sinisgalli che cita ancora la nonna quando parla di un’altra sua specialità la piccola pasticceria. “Non posso dimenticare come

lei faceva le ciambelle usando il miele. Anch’io oggi lo utilizzo nei biscotti, nelle crostate con ricotta e frutta fresca” spiega lo chef approdato nella Capitale dopo una pratica “stellata” sulla costiera amalfitana da Don Alfonso. Ai suoi tavoli romani hanno pranzato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la famiglia reale di Olanda, il Dalai Lama, Sofia Loren, Richard Gere, Francesco Totti, Silvio Berlusconi, e tanti altri personaggi. Tutti hanno apprezzato i suoi piccoli grandi capolavori da gustare riuniti nel libro “Fornelli creativi” che, dopo il successo della prima edizione, è stato appena ristampato. Luisa Mosello

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Emergenza Xylella

È allarme in Puglia, si temono danni per l’Apicoltura

di Silvestro Pinto

L’entrata in vigore del Decreto ministeriale con il quale si intende contrastare lo sviluppo della Xylella, il batterio che sta distruggendo i secolari ulivi pugliesi, ha sollevato preoccupate reazioni da parte degli agricoltori e degli apicoltori. Si teme, in particolare, che l’utilizzo degli insetticidi necessari a combattere il parassita possa creare consistenti mortalità di alveari apicoltura pugliese, in questi ultimi mesi, rischia di diventare una attività impraticabile per chiunque voglia intraprenderla e per chi, ormai, la esercita da decine di anni. C’è infatti il legittimo timore che un’ecatombe si abbatta sulle api e sugli alveari di mezza Puglia. Tutto ciò a causa della entrata in vigore del cosiddetto “Decreto Martina”, provvedimento che l’ex

L’

ministro dell’Agricoltura ha varato contro la diffusione della Xylella fastidiosa. Decreto che si propone di combattere il batterio che porta alla morte gli ulivi pugliesi attraverso trattamenti insetticidi obbligatori, nonostante alcuni di essi siano stati nel frattempo banditi dall’Unione Europea. La cosa peggiore, ormai drammatica, è che lo stesso decreto - per essere più precisi l’allegato

L’INTERVENTO DELLA FAI A TUTELA DEL PATRIMONIO APISTICO PUGLIESE E DELL’APE ITALIANA Non compete agli Apicoltori definire modalità di controllo del batterio Xylella fastidiosa, che sta danneggiando gli uliveti pugliesi. È doveroso, tuttavia, ricordare alle Autorità competenti che l’Ape italiana è patrimonio della biodiversità e che va tutelata e salvaguardata ai sensi della Legge n. 313/2004 per la Disciplina dell’Apicoltura: attività, questa, riconosciuta di interesse nazionale utile per la conservazione dell’ambiente naturale, dell’ecosistema e dell’agricoltura in generale. Questa la posizione espressa dalla FAI-Federazione Apicoltori Italiani, che nel rispetto della norma vigente ha chiesto che non si proceda con l’utilizzo indiscriminato e generalizzato di insetticidi, in particolare quelli appartenenti alla classe dei neonicotinoidi, vista la loro pericolosità per tutti gli insetti impollinatori. Si rafforzi piuttosto, a qualunque livello, ogni azione coordinata tra Istituzioni, Agricoltori e Apicoltori - ricorda ancora la FAI - affinché si diffondano buone pratiche sostenibili. Quale che sia il piano di contrasto alla Xylella degli ulivi, esso non si traduca dunque in una inutile e ingiustificabile ecatombe del patrimonio apistico pugliese che da sempre concorre alla produttività dell’intero comparto agricolo. Ecco perché la FAI-Federazione Apicoltori Italiani ha chiesto, sull’argomento, un urgente ed esplicito pronunciamento del Ministero delle Politiche Agricole e la contestuale convocazione del tavolo tecnico “Apicoltura-Agricoltura”.

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contenente “L’elenco dei vegetali noti per essere sensibili agli isolati europei e non europei dell’organismo specifico (piante specificate)” - chiarisce che le piante classificate come “ospiti del batterio della Xylella fastidiosa sub. Pauca” sono ben 227, in pratica buona parte del sistema arboreo e delle piante spontanee della Puglia. Dopo il 13 febbraio 2018, data di emanazione del decreto Martina, il batterio, si sta ancora diffondendo e si ritrova praticamente nell’intera gamma della flora pugliese! Ecco alcune delle piante a rischio contenute nell’elenco: mandorlo, ciliegio, quercia, prugno, alloro, mirto, edera, mora, asparago, lattuga, origano, malva, salvia mellifera, rosa canina, portulaca. Si prevede, dunque, che i trattamenti debbano essere effettuati anche sulla flora spontanea di interesse apistico, tra cui il cisto, il rosmarino, il timo e molte altre piante della macchia mediterranea. Lo stesso decreto dispone interventi sulla flora spontanea con mezzi meccanici o chimici (la Regione Puglia ha autorizzato solo 6/2018


l’utilizzo di mezzi meccanici), in modo da colpire le forme giovanili della Philaenus spumarius (sputacchina), vettore del batterio Xylella fastidiosa; tra maggio ed agosto, inoltre, sono disposti trattamenti obbligatori con insetticidi capaci di contrastare il killer degli ulivi. C’è dunque la legittima preoccupazione che le api sopravvissute alla mancanza di fonti pollinifere e nettarifere, non abbiano scampo a seguito di tali interventi. Le aree maggiormente interessate sono il basso e medio Salento (da Santa Maria di Leuca) e le zone cuscinetto (Tarantino, parte del Brindisino, Valle d’Itria fino a Fasano, Monopoli, Locorotondo e Alberobello). Insomma, un’area di

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oltre 700 mila ettari, ovvero l’intero territorio agricolo compreso tra l’Adriatico e lo Ionio. Secondo l’Efsa (l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) l’uso combinato di aratura, erbicidi ed insetticidi provocherebbe un danno incalcolabile, con conseguenze non prevedibili, in quanto oltre a decimare gli insetti impollinatori causerebbe il crollo della produzione di frutti, legumi, ortaggi allogami e provocherebbe l’estinzione delle piante spontanee fonte di biodiversità. Secondo alcuni entomologi, con il Decreto Martina, che in gran parte riprende alcune misure che l’Unione europea ha previsto per contrastare la diffusione della

Xylella fastidiosa, è stato introdotto l’uso specifico degli insetticidi. Pratica non prevista nella visione europea e addirittura in disaccordo con alcune recenti norme della stessa Ue, che mettono al bando alcuni principi attivi. In Puglia si contano circa 500 apicoltori per un numero complessivo di circa 16.000 alveari censiti, a cui si aggiungono i circa 35.000 alveari nomadi, provenienti da altre regioni come l’Abruzzo (25.000), Campania, Basilicata, Marche, Trentino ed Emilia Romagna per garantirsi, tra i tanti monoflora, i tipici mieli di agrumi, ciliegio, timo e rosmarino , soprattutto dopo la minacciosa presenza di Aethina tumida in Calabria.

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Emergenza Xylella

Foto www.piazzasalento.it

Le aree a maggiore vocazione nettarifera sono le province di Bari e Taranto (70%) e Foggia con il (20%), con una capacità produttiva di 500 tonnellate/annue, pari al 22% della produzione italiana. Anche l’Osservatorio Nazionale del Miele dichiara che in provincia di Taranto e Brindisi, nella fascia di contenimento della Xylella, oltre al danno del mancato raccolto su flora spontanea si temono gravi danni ad api ed insetti pronubi per l’utilizzo obbligatorio dei trattamenti insetticidi imposti dal decreto e confermati dal Consiglio Regionale della Puglia (22/5/2018). Si stima il coinvolgimento di oltre 1.500 alveari locali, esclusi i nomadisti provenienti da altre regioni. Negli ultimi anni l’apicoltura pugliese, nonostante circa i 3 milioni di fatturato annuo, non viene considerata dalle istituzioni come un vero e proprio comparto economico agro/zootecnico, ed è sistematicamente esclusa dai tavoli tecnici che riguardano il settore

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PUGLIA: AIUTI ALL’APICOLTURA DAL 1990 AL 2018 ORA C’È IL RISCHIO CHE TUTTO VADA PERDUTO È dal 1990, con l’approvazione del “Piano specifico d’intervento per il settore apistico”, che Governo e Regione Puglia prevedono interventi a favore del nostro comparto. Interventi che proseguirono con il Progetto Ama del 1997, con i Reg. (CE) 1221/97-797/2004, 1234/2007 - 1308/2013 in favore dell’apicoltura, con il Progetto Apenet sullo spopolamento degli alveari ed infine con il Progetto Beenet del 2011. Senza trascurare i vari decreti ministeriali, che dal 2008 si indirizzano verso la sospensione dell’uso dei neonicotinoidi fino al recente bando del 27 aprile scorso. Il “Piano di Azione Nazionale”, inoltre, con cui Ministero della Salute, Enea, Mipaaf, Cnr, Mise, Ispra, Ministro dell’Ambiente e Regioni si impegnano a garantire strategie fitosanitarie. La Legge Regionale n. 45 del 14 Novembre 2014, infine, che recepisce la Legge n. 313/2004 per la Disciplina dell’apicoltura, e le esigue risorse (77.454,56 Euro) che lo Stato e la UE (Fondi Feaga) erogano alla Regione Puglia tramite il Reg (CE) 1308/2013. Azioni e risorse che di fatto rischiano ora di essere vanificate con il Piano di eradicazione della Xylella.

agricolo. E di fronte al rischio di danni così ingenti di tutte le aziende apistiche della zona interessata all’emergenza, la Regione Puglia non ha previsto alcun indennizzo per gli apicoltori, nonostante le sollecitazioni avanzate dalle loro Associazioni regionali. La Regione Puglia, che può vantare una legge sulla tutela degli ulivi monumentali e un’altra sulla salvaguardia del patrimonio apistico regionale, è sembrata - almeno fino ad oggi - incapace di tenere saldi i principi sanciti in due norme importantissime e ha assecondato un processo che si orienta verso due esiti nefasti: la scomparsa delle api e la morte degli ulivi plurisecolari. Definire la modalità di controllo

del batterio Xylella fastidiosa non è compito degli apicoltori pugliesi, ma difendere le proprie aziende e le proprie api dai pesticidi è un obbligo verso se stessi e verso l’ambiente. Dinanzi a tutto ciò, in Puglia gli apicoltori si uniranno in difesa dei propri sacrifici ed in difesa della vita, demandando la tutela dei propri diritti e delle proprie attività alle principali Associazioni apistiche pugliesi, come l’Apa (in rappresentanza della Fai), l’Arap (in rappresentanza dell’Unaapi) e Pugliaapi, le quali stanno partecipando al deposito di un ricorso al Tar contro l’uso dei pesticidi previsto dal Decreto Martina, ed affiancando altri ricorsi tra cui quelli dell’Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica) e di varie Associazioni ambientaliste. Il 20 maggio si è svolta la prima la prima Giornata mondiale delle api. Una ricorrenza che dovrebbe invitarci tutti a riflettere sull’utilità, in Puglia come nel resto d’Italia e del Mondo, delle api per il mantenimento della biodiversità. Tutt’altro che un “de profundis” come quello cui potremmo assistere con lo spargimento sconsiderato di insetticidi. Silvestro Pinto 6/2018



L’opinione

La varroa è un problema?

di Maurizio Ghezzi

Può una “semplice” acariosi compromettere un alveare? E se la soluzione del problema fosse a portata di mano? Francesco Mussi, ad esempio, sostiene che, allargando lo spazio tra i favi, le condizioni di vita dell’alveare migliorerebbero. In sostanza, sostiene l’autore, più ci si allontana da una gestione ecologica dei nostri alveari più complicata e dispendiosa diventerà la nostra attività di apicoltori, a discapito di un prodotto di qualità agionando da medico, con pochi capelli sulla testa e per giunta bianchi, mi vien da pensare: “una semplice acariosi potrebbe mai rappresentare un problema per un mio paziente”? Se lo dovesse essere, con tutta probabilità, la colpa di ciò sarebbe solo mia in quanto medico non in grado di curare adeguatamente una patologia “semplice” per la quale la scienza farmaceutica mette a disposizioni

fendersi dalle avversità della vita e che ancora oggi vivono, allo stato libero, sani, forti, vigorosi, dentro le cavità degli alberi, appesi ai rami, all’interno di rifugi i più disparati ed impensabili, guarda caso, senza aver assolutamente bisogno del nostro “scellerato” aiuto. Eh già ma noi siamo gli umani, esseri superiori, ed allora ci siamo inventati l’apicoltura “razionale”, razionale forse per noi! Escogitiamo fantasiose tecniche api-

Foto Maurizio Ghezzi

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le migliori armi utili a sconfiggerla. Sempre ragionando da medico, che ormai da diversi anni si dedica all’apicoltura, mi pongo quest’altra domanda: “la varroa potrà mai rappresentare veramente un problema per i nostri alveari? Se invece fossimo noi il vero problema per le api”? Abbiamo a che fare con animaletti che per milioni di anni, prima ancora che comparissimo noi umani sulla terra, sono stati perfettamente in grado di di-

Foto 1 - Si può vedere come già dopo la prima metà di marzo la famiglia sia molto ben sviluppata mese.

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Foto 2 - A fine maggio, contenuta la sciamatura, le famiglie sono talmente forti che, a volte, ampliano il loro alveare costruendo favi all’esterno dell’arnia.

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stiche con le quali sconvolgiamo la normale omeostasi fisiologica dell’alveare al grido di “abbattiamo l’infestazione da varroa”; proponiamo loro cocktail di farmaci indebolendo così le più che eccellenti capacità di difesa del superorganismo alveare che in questo modo diventa sempre più dipendente dalle “droghe” farmacologiche. Ci impegniamo a studiare con frenesia nuovi protocolli per la somministrazione di medicinali dando di tutto e di più alle nostre amichette: ottimo affare questo, forse per alcuni, ma non certo per noi apicoltori, per le nostre api e per i consumatori dei prodotti dell’alveare che si ritrovano a “degustare”, loro malgrado, prodotti contaminati dalle più svariate sostanze che la chimica è in grado di offrirci. Selezioniamo regine attraverso “improbabili” incroci genetici, arrivando addirittura a crescerle in incubatrice per fecondarle in laboratorio togliendo così al povero fuco anche l’ultimo piacere della sua “pacifica” esistenza: quello di poter morire felice dopo un appassionante accoppiamento. Tutto questo per l’arrogante pre-

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Foto 3 - Questa famiglia era talmente vigorosa che ha deciso di ampliare l’alveare all’esterno dell’arnia, costruendo favi accessori. Dalla foto si può osservare come la naturale distanza interfavo, determinata direttamente dalle api, corrisponda perfettamente allo SpazioMussi.

sunzione di creare la “superape”, docile, laboriosa, operosa e, perché no, anche resistente alle malattie, salvo poi disinteressarci completamente di garantirle un adeguato benessere con le nostre pratiche di allevamento perché ciò che ci interessa unicamente è che possa produrci un buon reddito! In tutti questi anni di amorevole dedizione all’apicoltura però “mi sono fatto persuaso” che madre natura sia molto più ingegnosa e provvida rispetto a noi ed è per questo che ho deciso di far creare le regine direttamente alle mie api lasciando che, una volta nate, si facciano “corteggiare” e fecondare da fuchi autoctoni riuscendo, in que-

sto modo, a far riprodurre attraverso una selezione del tutto naturale delle api più forti (solo i fuchi più forti riescono a raggiungere la regina in volo trasmettendole il proprio patrimonio genetico), più robuste e più resistenti alle malattie, api “tolleranti” la varroa e che non necessitano di un costante ed esagerato supporto farmacologico per poter crescere vigorosamente. Certo qualcuno potrà obiettare che queste api incrociate con fuchi provenienti anche da famiglie “selvatiche” che vivono in libertà sono tendenzialmente più aggressive, questo è probabilmente vero, ma è anche vero che se le api non pungessero tutti farebbero gli apicoltori.

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L’opinione

Con questa scelta ho iniziato a compiere un primo ed importante passo lasciando che le mie api si incrocino con fuchi di famiglie “non domestiche” e autoctone ho selezionato delle api in grado di vivere in perfetta simbiosi con l’ambiente in cui le allevo e di resistere in modo del tutto autonomo alle avversità ed alle insidie a cui lo stesso potrebbe esporle. Il secondo passo che mi sono permesso di fare l’ho mosso nella direzione di voler creare un ambiente più salubre nel quale far crescere la famiglia di api, un ambiente più salubre vuol dire miglior qualità di vita, miglior qualità di vita vuol dire maggior benessere, maggior benessere

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uguale maggior forza e quindi miglior resistenza alla malattia. Non è una filastrocca che ho voluto recitare, ma è un concetto fondamentale che sta alla base della prevenzione, un soggetto tenuto in precarie condizioni igieniche sviluppa un indebolimento organico che lo espone ad un maggior rischio di contrarre malattie. Come può un’arnia Dadant con uno spazio interfavo di 37,5 millimetri consentire all’ape di assumere un corretto comportamento igienico? Come può esserci una soddisfacente circolazione dell’aria utile a mantenere una giusta ventilazione tale da impedire il formarsi di un alto tasso di umidità con conseguente insorgenza

di muffe e sovrainfezioni batteriche in uno spazio così ristretto? Ed ecco allora che il mio secondo passo si orienta nella direzione utile a contrastare questi due imprescindibili concetti e mi porta ad adottare all’interno di tutte le mie arnie lo SpazioMussi che non è un’invenzione bizzarra o naif, ma è il frutto di un illuminato e sapiente calcolo che il nostro amico Francesco ha saputo sviluppare in modo semplice e molto saggio e che sintetizzo brevemente: nello spazio interfavo si impegnano due emi favi con cellette dello spessore di 12 mm, ai quali dobbiamo aggiungere 1 mm di spessore dell’opercolo e 7 mm di spessore di un ape. Som-

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mando questi numeri e moltiplicandoli per due (essendo speculare la superficie dei due mezzi favi affrontati) si ottiene un impegno pari a 40 mm, va da se che sia necessario avere uno spazio interfavo di almeno di 40 mm per garantire una migliore condizione di vita alle api che alleviamo. Sempre ragionando in quest’ottica mi sono reso conto che all’arnia Dadant manca una parete, non ve ne siete mai accorti? Il fondo a griglia benché dotato di cassettino rappresenta un’ampia voragine attraverso la quale correnti d’aria fredda nelle giornate ventose e vortici d’aria umida, che si levano dal suolo nelle giornate piovose, entrano nell’alveare senza nemmeno chiedere permesso alterando così l’omeostasi termica ed igroscopica che le nostre api cercano di conservare stabile attraverso un operoso lavoro e grandi fatiche. A questo proposito ho sostituito il normale fondo a griglia antivarroa dell’arnia Dadant con un fondo happykeeper, un sistema a tubi in poliuretano che funziona con il medesimo concetto di uno scambiatore d’aria. Esso consente la formazione di due flussi laminari d’aria che provvedono rispettivamente uno, all’espulsione dell’aria “viziata” dall’interno all’esterno

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dell’alveare (satura di tutto quanto ci possa essere di “inquinante” dentro allo stesso), l’altro invece provvede alla contemporanea immissione d’aria nuova dall’esterno verso l’interno del nido. Questo efficiente sistema permette altresì a far che l’aria “viziata” espulsa all’esterno e quella nuova immessa all’interno non vengono mai a contatto fra loro. Il terzo passo l’ho voluto compiere dirigendomi nella direzione di colui che intende usare la “chimica” il meno possibile riducendo i trattamenti ad un “minimo sindacale” (che è già forse troppo) per permettere alle difese del superorganismo alveare di poter esprimere tutta la loro potenzialità in assenza di sostanze “dopanti”. Da anni ormai non pratico più il blocco di covata e mi limito ad un ossalico gocciolato alla metà di luglio che ripeto ad ottobre/novembre quando la famiglia è in assenza di covata aggiungendo poi due strisce di Apitraz/Apivar che rimuovo a febbraio. Al test dello zucchero a velo non ho mai contato più di una varroa caduta e lo stato di salute e di benessere delle mie famiglie credo lo si possa giudicare senza riserve dalle foto in calce all’articolo. Un quarto ed ultimo passo mi piacerebbe lo compissimo tutti

insieme noi che pratichiamo l’apicoltura. È ormai molto evidente che dobbiamo ripensare il percorso che abbiamo intrapreso nella gestione dei nostri alveari smettendola di somministrare miscele di svariati prodotti “sintetici” per trattare le nostre api; prodotti che, quando va bene, contaminano il miele e ne aumentano il costo di produzione, quando va male, inducono farmaco resistenza nei parassiti, indeboliscono le difese naturali del superorganismo rendendolo più vulnerabile a sovrainfezioni da parte di altri microrganismi patogeni che vivono normalmente come saprofiti all’interno dell’alveare. In conclusione penso che più ci allontaniamo da una gestione naturale, ecologica e organica dei nostri alveari, più complicata, difficile e dispendiosa diventerà la nostra attività di apicoltori, impedendoci di raggiungere una meta che per noi dovrebbe essere essenziale; ossia quella di riuscire a produrre un prodotto di qualità a prezzi contenuti, privo di contaminanti e, se possibile, che possieda quel valore aggiunto che oggi è sempre più richiesto dai consumatori e che invece è sempre più difficile da reperire in commercio. Maurizio Ghezzi

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Legislazione

Il veterinario aziendale: nessun obbligo per gli apicoltori

di Daniele Mezzogori

L’entrata in vigore del Decreto ministeriale 7 dicembre 2017, che attiva il sistema di sorveglianza delle malattie nel comparto zootecnico e definisce compiti e requisiti professionali del medico veterinario, viene da alcuni erroneamente interpretato come nuovo adempimento a carico degli allevatori egli ultimi mesi si sta ponendo una particolare attenzione al tema del “veterinario aziendale”, figura libero professionale che lavora a stretto contatto con le imprese zootecniche del nostro Paese, visto il recente Decreto ministeriale che ne ha definito meglio ruoli e compiti nel rapporto con le imprese agricole e con il servizio sanitario nazionale. Per comprendere meglio quale potrebbe essere l’impatto sulle scelte imprenditoriali e sulle responsabilità degli operatori è doveroso chiarire alcuni aspetti.

N

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Innanzi tutto, il decreto non riguarda esclusivamente il veterinario aziendale, ma è un decreto inerente il sistema di epidemio-sorveglianza, come riportato anche nello stesso titolo del provvedimento: Sistema di reti di epidemio-sorveglianza, compiti, responsabilità e requisiti professionali del veterinario aziendale (DM 7 dicembre 2017). Il Ministero della Salute ha previsto con tale decreto, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 5 febbraio 2018 e, quindi, già in vigore, di implementare un sistema di epidemio-sorveglianza (controllo del diffondersi

di patologie che attaccano le varie specie zootecniche, NdR) informatizzato; tramite l’inserimento, cioè, di dati relativi principalmente alla natura e origine degli alimenti somministrati agli animali, ai medicinali veterinari impiegati ed altre cure somministrate, così come pure alle patologie infettive e non riscontrate in allevamento. Lo scopo è quello di poter categorizzare le aziende in base ad un’analisi del rischio sanitario e, quindi, permettere al sistema sanitario nazionale di avere un più rapido e completo riscontro sulla situazione sanitaria delle aziende del territorio di competenza e poter incentrare le risorse a disposizione per effettuare controlli più mirati laddove si rilevi un maggior stato di rischio sanitario. Da chiarire, a tal proposito, che la figura che potrà essere autorizzata a fare l’inserimento di tali dati sarà esclusivamente il “veterinario aziendale” e che l’adesione all’implementazione di tale sistema non è affatto obbligatoria per gli operatori. Quindi, l’operatore sceglie volontariamente se indicare, tramite una scheda di designazione da 6/2018


inviare alla ASL (Azienda Sanitaria Locale, NdR) competente e all’ordine dei Medici Veterinari, il proprio “veterinario aziendale” che tra i vari compiti sarà tenuto a implementare la anche la banca dati e a tenere le registrazioni dei mangimi e dei farmaci veterinari. Quindi, cosa cambia se l’operatore decide di non indicare alla ASL il nominativo del proprio “veterinario aziendale”? Tale scelta, di fatto, non determina conseguenze per gli operatori che continueranno ad operare ed a tenere rapporti con il veterinario libero professionista e con quelli ufficiali della ASL, come hanno fatto fino ad oggi. Diversamente, se si dovesse invece

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scegliere di indicare il veterinario aziendale alla ASL, lo stesso avrà il compito di tenere il registro dei mangimi e dei farmaci e più in particolare di occuparsi dei seguenti adempimenti: a. fornire all’operatore informazioni ed assistenza affinché siano adottate misure e iniziative volte a garantire la qualifica sanitaria dell’azienda, anche sulla base di programmi disposti dai Servizi Veterinari ufficiali o concordati con gli stessi e le buone condizioni igieniche e di biosicurezza dell’allevamento, il benessere animale e la salubrità dei mangimi; b. assicurare il rispetto delle disposizioni riguardanti la notifica

obbligatoria delle malattie infettive degli animali e la comunicazione di qualsiasi altro fattore di rischio per la salute e il benessere degli animali e per la salute umana fatti salvi gli obblighi previsti a carico dell’operatore; c. offrire assistenza nei rapporti con i Servizi Veterinari ufficiali; d. fornire assistenza e supporto per la redazione di piani aziendali volontari per il controllo delle malattie ad impatto zoo-economico; e. offrire supporto nella gestione dell’identificazione e della registrazione degli animali; f. assicurare, per quanto possibile ed in collaborazione con i Servizi Veterinari ufficiali e l’Istituto

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Legislazione

Zooprofilattico Sperimentale competenti per territorio, l’accertamento della causa di morte degli animali e fornire assistenza e supporto per il corretto smaltimento delle spoglie animali; g. fornire supporto all’operatore per il rispetto delle disposizioni in materia di impiego dei medicinali veterinari e per assicurare fornire assistenza ed il supporto per buone pratiche a garanzia di un uso prudente e responsabile degli stessi anche ai fini del controllo dello sviluppo dell’antimicrobico-resistenza. Quindi, per quanto sia stata prevista la volontarietà di indicare un “veterinario aziendale”, si impone all’operatore che tale figura si occupi obbligatoriamente della tenuta dei registri e dell’inserimento delle informazioni relative all’epidemio-sorveglianza. Ciò appare in contrasto con le libere scelte imprenditoriali e con la possibilità che l’operatore autonomamente o tramite altra figura professionale possa gestire la compilazione di tali registrazioni, di cui ha la piena responsabilità, come previsto, del resto, dalla

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normativa comunitaria e nazionale. Quanto detto ha sollevato forti perplessità da parte delle Organizzazioni agricole di rappresentanza che hanno più volte esposto al Ministero la necessità di non inserire con tale norma nuovi oneri per gli operatori del settore, né obblighi che vadano oltre quanto già previsto dalla vigente norma comunitaria, ma piuttosto prevedere un sistema che potesse facilitare e semplificare il rispetto delle attuali norme e l’operato degli allevatori, bilanciando adeguati vantaggi ad eventuali nuove incombenze. Alla luce di queste motivazioni ritieniamo utile evidenziare le criticità agli operatori per renderli consapevoli dell’eventuale scelta di indicare al servizio sanitario il “veterinario aziendale”. Si ritiene, infatti, che tale nuova disposizione porterà un inutile aggravio della spesa veterinaria per via delle nuove funzioni “burocratiche” che tali veterinari dovranno svolgere senza un concreto beneficio per le aziende che sceglieranno di avvalersi di tale figura. Dal punto di vista del comparto

apistico, d’altra parte, né la dimensione aziendale tipica di questo mondo, né le particolari incombenze da delegare, giustificherebbero la nomina di un veterinario aziendale e i relativi insostenibili costi. In ultima analisi, pertanto, non si tratta di un obbligo a carico di chi alleva api, neppure se ricompreso nella dimensione dell’imprenditore apistico, dell’apicoltore professionista e con produzioni destinate alla commercializzazione. Auspicabile, pertanto, che le Istituzioni prevedano una modifica a tale decreto ministeriale e proprio su questa importante figura professionale, vista l’ottica di aiutare le imprese ad implementare, migliorare e garantire la sicurezza sanitaria dei propri allevamenti e dei prodotti in essi ottenuti; ma vista anche la continua evoluzione delle patologie che, nel contesto dei cambiamenti climatici, richiedono agli allevatori di operare in aziende sempre più competitive e sostenibili per affrontare il libero mercato in un Mondo inesorabilmente globalizzato. Daniele Mezzogori Medico Veterinario

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Florovivaismo

Fiori di Manuka in Italia una varietà adatta al nostro clima

di Alessandro Duranti

Com’è noto il miele di Manuka, pianta originaria di Australia e Nuova Zelanda, viene commercializzato anche nei mercati europei. Le quotazioni trovano giustificazione, a detta dei produttori, nelle ricche proprietà vantate da questo miele. Di questa specie vegetale esiste una varietà che potrebbe essere diffusa con successo anche nel nostro Paese alcuni anni, anche in Europa, è cresciuto l’interesse verso un miele proveniente dalla Nuova Zelanda, denominato Manuka Honey, per le sue particolari proprietà, dovute al contenuto di MetilGliossale (Mgo) in concentrazioni variabili, che si trova in questo miele, ottenuto dalla pianta indigena, Leptospermum scoparium, chiamata dai nativi, appunto, Manuka. Trattandosi di una pianta che da tempo viene coltivata a scopo ornamentale anche in Italia, viene da chiedersi se il miele di Manuka possa essere prodotto realizzando, nel nostro Paese, piantagioni di questo arbusto. Teoricamente la cosa sarebbe possibile, ma purtroppo questa pianta si rivela nel tempo poco affidabile in coltivazione, perché non sopporta certe variazioni, anche accentuate, di temperatura e umidità, che caratterizzano, invece, il nostro clima. Per cui si tratta di un investimento rischioso, per quanto possa essere remunerativo il prezzo del miele da essa ottenuto. Una soluzione potrebbe essere quella di utilizzare una varietà ibrida di Leptospermum scoparium, denominata Leptospermum “Mesmer Eyes” (vedi foto), ottenuta diversi anni fa da un vivaio australiano, che ha incrociato la Manuka con altre due specie native dell’ Australia, ottenendo una pianta con fiori caratteristici ma molto più resistente al freddo e alla siccità. Questa varietà è risultata molto affidabile in coltivazione, ha le stesse esigenze del Mirto comune, quindi è in grado di crescere bene negli areali dell’olivo e dall’arancio. Il periodo di fioritura va da marzo a maggio, anticipando nelle zone più calde. Una fioritura che dura mediamente quattro settimane.

Da

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Per saperne di più www.floraustralis.com/leptospermum-mesmer-eyes/ progetto-manuka/

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Flora apistica. Scheda n. 3

I pollini di emergenza per le api e gli altri apoidei nell’Italia centrale

di Giancarlo Ricciardelli D’Albore

Anche un neofita che si avvicina alla pratica dell’apicoltura dovrebbe avere un minimo di conoscenza della flora in prossimità dei suoi alveari, pena mancati raccolti o sciamature non previste. Prosegue con questo numero di Apitalia la carrellata alla scoperta dei pollini di piante spontanee che costituiscono una vera e propria ancora di salvataggio in periodi dell’anno critici per lo sviluppo delle colonie POLLINI DI FINE INVERNO - Calendula arvensis L. (Compositae) (Fiorrancio)

DESCRIZIONE GENERICA

TEMPO DI FIORITURA POLLINE

Fiorisce alla fine dell’inverno e oltre. Le pallottoline di polline sono di colore arancione.

IMPORTANZA PER LE API

Le api raccolgono i primi pollini su questi fiori.

IMPORTANZA ALTRI PRONUBI

Anche altri pronubi selvatici visitano la specie.

VALORE APISTICO

Da 1 a 4: 2.

VALORE PER ALTRI PRONUBI

Da 1 a 4: 4.

ALTRI USI

BIBLIOGRAFIA

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Perennante erbacea spesso invasiva, alta fino a 30 cm, distribuita sui terreni poveri, pendii, macerie, ecc.

I fiori sono spesso usati per tingere sciroppi, burro, formaggi e per sofisticare lo zafferano. I capolini sono digestivi, colagoghi, espettoranti, sudoriferi, antispasmodici. Per uso esterno gli impacchi curano le piaghe e le scottature. Schoenfelder I. & P., 2012. Guida alle piante medicinali. Ed. Ricca, 314. Tosco U. 1989. Piante aromatiche e medicinali. Ed. Paoline, 195.

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POLLINI DI FINE INVERNO - Calicotome spinosa L. (Leguminosae) (Sparzio spinoso)

DESCRIZIONE GENERICA

TEMPO DI FIORITURA POLLINE

IMPORTANZA PER LE API IMPORTANZA ALTRI PRONUBI

Perenne arbustiva molto spinosa. Alta fino a 3 m, distribuita specialmente nella gariga vicino al mare. Fiorisce a febbraio. Le pallottoline di polline sono color giallo chiaro. Ecco un altro polline, avidamente bottinato dalle api in zona dove si attivano molto precocemente nell’anno. Polline dunque di emergenza. Notate molte regine di bombi sui fiori.

VALORE APISTICO

Da 1 a 4: 4.

VALORE PER ALTRI PRONUBI

Da 1 a 4: 3.

ALTRI USI (PER L’UOMO)

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In Nord Africa la pianta è tradizionalmente usata per curare gastriti ed emorroidi

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ELENCO INSERZIONISTI

CHEMICALS LAIF Prodotti per la cura e nutrizione delle api info@chemicalslaif.it 3BEE Bilancie per alveari info@3bee.it AL NATURALE Laboratorio erboristico info@alnaturale.com

pag. 2

pag. 13

pag. 19, 39

ONETTI ERBORISTERIA APISTICA Prodotti per l’apicoltura store@apistore.it

pag. 20

CIVAN Prodotti per l’apicoltura www.civan.com.tr

pag. 25

DOMENICI Prodotti di apicoltura di erboristeria info@domenici.it

pag. 27

COMARO Prodotti per l’apicoltura info@comaro.it

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OTTOLINA Caramelle di qualità apicolturaottolina@gmail.com

pag. 41

CMA DI PITARRESI MICHELE Prodotti per l’apicoltura commerciale@pitarresiitalia-cma.it

pag. 45

BEEVITAL Prodotti anti varroa info@beevital.it

pag. 47

COMPA Prodotti per l’apicoltura info@apicolturacompa.com

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LA MIELERIA Miele italiano convenzionale e biologico lamieleria.srl@gmail.com

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MELYOS APICOLTURA Api regine selezionate melyosapicoltura@gmail.com

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APICOLTURA.COM Prodotti per l’apicoltura

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OMER APICOLTURA Regine carniche delle Dolomiti Bellunesi omer.apicoltura@libero.it

pag. 57

LEGA Prodotti per l’apicoltura info@legaitaly.com

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Registro Stampa Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 15447 del 01.04.1974 ISSN: 0391-5522 - Iscrizione R.O.C.: 26230 Editore FAI Apicoltura S.r.l. Corso Vittorio Emanuele II, 101 - 00186 Roma - Italia - UE Telefono +39. 06. 6852556 - Fax +39. 06. 6852287 Email info@faiapicoltura.biz Direttore Responsabile Raffaele Cirone direzione@apitalia.net Redazione e Segreteria Corso Vittorio Emanuele II, 101 00186 Roma - Italia - UE Telefono +39. 06. 6852280 - Fax +39. 06. 6852287 Email redazione@apitalia.net - segreteria@apitalia.net Grafica e Impaginazione Alberto Nardi alberto.nardi@apitalia.net Comunicazione e Social Media socialmedia@apitalia.net Esperto Apistico Fabrizio Piacentini fabrizio.piacentini@apitalia.net Promozioni e Pubblicità Patrizia Milione commerciale@apitalia.net Stampa Tipografica EuroInterstampa Via della Magliana 295 - 00146 Roma

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