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22 maggio 1992: l’arrivo dei profughi

PERSONE, LUOGHI E MESTIERI 22 maggio 1992, trent’anni fa alla caserma “Psaro-Gnutti” l’arrivo dei profughi provenienti dalla Bosnia ed Erzegovina.

Il doppio ricordo di chi accoglieva e di chi arrivava: Ljubiča Kosič Morandini ed Edis Livnjak

La partenza e l’arrivo

Edis: “Ricordo molto bene tutto il viaggio. Il 18 maggio mia sorella ed io uscimmo da Sarajevo su un convoglio, con le zie e con i nostri cugini piccoli. I miei genitori erano rimasti a Sarajevo. Ricordo che la prima notte ci ospitarono a Travnik, dove la guerra non aveva ancora preso piede. Ricordo queste facce incredule delle persone che ci ospitavano. Loro ancora non sapevano cosa aspettarsi, mentre noi la guerra la stavamo già vivendo. Ricordo che il giorno dopo partimmo per Spalato, lì c’era una marea di gente già ospitata dentro i palazzetti dello sport, ricordo caos e disperazione. Ricordo molti scarafaggi. Nessuno sapeva dove andare, perciò quella notte ci ospitarono in un appartamento. Dormimmo per terra e poi la mattina ci dissero che c’era un traghetto per Fiume. Quella notte la passammo in nave e fu il momento in cui mi sentii più disperato: in mezzo al mare, senza una meta, senza genitori. Ricordo di aver pensato che se fossimo annegati tutti, saremmo stati solo una goccia nel mare, totalmente insignificanti. I miei genitori non sapevano nean-

Edis con famiglia, 2022 Ljubiča Kosič

che dove fossimo.” Ljubiča: “La notte tra il 21 e il 22 maggio 1992 ero a Prati, nella caserma Psaro-Gnutti, in attesa di accogliere da un momento all’altro i profughi che erano in viaggio. Avevo risposto a un appello della Protezione Civile ed ero lì insieme a un ragazzo croato per aiutare Vinka, l’interprete di serbo-croato che da Bolzano era andata a prendere i rifugiati a Fiume.” Edis: “A Fiume, al porto ci diedero da mangiare e potemmo telefonare ai nostri genitori. Le linee telefoniche in quel momento fortunatamente funzionavano. Poi arrivarono dei pullman e ci dissero che erano organizzati per portarci in Italia. C’erano tante persone che non avevano nemmeno considerato di andare all’estero, volevano semplicemente scappare dalla guerra ma speravano di rimanere nel territorio della ex-Jugoslavia. Per qualche motivo tutti pensavano che la guerra si sarebbe fermata in poche settimane e molti erano indecisi se partire. Noi decidemmo di partire e sono felice di essere salito su uno dei pullman per Vipiteno.”

Ljubiča Kosič nasce a Lubiana nel 1946. Suo padre è sloveno, sua madre croata. Nel 1948 la famiglia di Ljubiča decide di lasciare la Slovenia e di trasferirsi in una casa di proprietà a Gorizia, dove Ljubiča frequenta le scuole e la comunità slovene. Ljubiča conosce suo marito Giuseppe Morandini nel 1961, arrivato da Brennero per lavorare come militare della Guardia di Finanza al valico di Gorizia. Si sposano molto presto e vanno a vivere a Brennero, finché a metà degli anni’70 si trasferiscono a Vipiteno con i tre figli. Edis Livnjak Edis Livnjak nasce a Sarajevo, nel 1979. Arriva a Prati di Vizze il 22 maggio 1992 insieme a sua sorella, due zie e due cugini. Si laurea a pieni voti in Conservazione dei Beni culturali all’Università di Bologna e per dieci anni a Ravenna lavora come attore con un’importante compagnia teatrale. Per un periodo torna a Sarajevo, dove cambia completamente il suo orizzonte professionale, specializzandosi in informatica. Oggi è un network architect di successo, vive a Brno, nella Repubblica Ceca, con la moglie Sada e le due figlie Edna ed Emma, di 9 e 6 anni.

Ljubiča:“Vedere arrivare tutti quei bambini con le loro mamme mi fece una tenerezza incredibile. Tutti gli uomini erano rimasti a combattere. Mi faceva molta impressione che scappassero da una guerra e dai bombardamenti alle soglie del 2000...” Edis: “Era mattina, ricordo le nuvole basse quando arrivammo a Vipiteno, dopo una notte intera in viaggio. Ricordo di aver pensato che solo qualche giorno prima ero a casa mia a Sarajevo. Ci accolsero nella caserma Psaro-Gnutti, dove c’erano la polizia, i carabinieri, i militari. Tutti cercavano di aiutare a sistemare la gente. C’erano tante vecchiette che non parlavano nessuna lingua che potesse essere compresa, allora cercai di dare una mano. Feci un po’ da interprete. All’epoca non parlavo italiano, parlavo solo inglese, ma aiutai i poliziotti a registrare le persone e mi ricordo che quel pomeriggio per ringraziarmi mi portarono fuori a fare un giro in macchina con loro. Fu un’esperienza breve, ma molto diversa dall’incubo di quei giorni. Mi ricordo anche i giovani militari di leva che cercavano di spiegare alle persone accolte cosa fare e come comportarsi. Mi è rimasto impresso un militare che distribuiva gli spazzolini e che stava facendo vedere come si lavano i denti ad una giovane donna. Pensai: ‘Ma chi credono che siamo?!’” Ljubiča: “Quando alla mattina scesero dai pullman, tutte quelle signore con i bambini e gli anziani erano molto spaesati perché non sapevano che sarebbero arrivati fino a qui. Noi interpreti eravamo con la Protezione Civile, insieme ai carabinieri e ai militari, perciò all’inizio erano anche quasi spaventati: nessuno gli aveva detto che sarebbero venuti in Italia e, arrivando in una caserma, molti all’inizio erano piuttosto perplessi.” erano organizzati bene, non gli mancava niente, avevano i cuochi e anche un’insegnante di italiano. Inoltre i cittadini di Vipiteno e di Prati si erano attivati in modo molto generoso: avevano raccolto vestiti, pannolini per i bambini, articoli da bagno e tutto il necessario. L’accoglienza era stata organizzata al dettaglio. Poi in autunno i ragazzi hanno cominciato a frequentare la scuola e pian piano hanno imparato anche italiano e tedesco. Dopo un po’ di mesi alcune delle ragazze hanno potuto cominciare a fare qualche lavoro in paese. Le ho sempre ammirate molto: erano qui senza i mariti e si sono adattate a fare una vita completamente diversa da quella che avevano a casa loro. Per un anno sono andata quasi tutti giorni a Prati a fare l’interprete volontaria per il dottor Seppi oppure per accompagnare i rifugiati a fare le visite specialistiche. Si era instaurato un rapporto di affetto con gli ospiti della caserma, perciò andavamo insieme anche a fare le gite, oppure mi commissionavano ingredienti particolari per fare i piatti tipici. I bambini mi si erano molto affezionati e io a loro. Nonostante la situazione penso che tutto sommato stessero bene.” Edis: “Quando uno attraversa periodi traumatici, negli anni, i ricordi più immediati e vivi tendono a essere quelli negativi, ma l’importanza dei momenti positivi, di quelle flebili luci nell’oscurità che si attraversa, l’importanza dell’aiuto e dell’affetto ricevuto è indescrivibile. Quel poco di speranza, di stabilità e di sostegno hanno fatto la differenza tra una vita di disagio e una di rinascita. Dopo trent’anni, tantissimi ex ospiti di quella caserma sono ora cittadini impegnati, integrati e pronti ad aiutare, portano con sé la ricchezza della loro esperienza e la gratitudine.” Ljubiča: “Io sono arrivata in Italia con la mia famiglia quando avevo diciotto mesi. Eravamo profughi anche noi e siamo stati apolidi fino al 1955, forse per questo mi sentivo e mi sento ancora particolarmente coinvolta. Noi eravamo fortunati perché a Gorizia avevamo la casa di mia nonna, ma per sette anni mio padre si era dovuto adattare a fare solo lavori saltuari, senza il diritto a un lavoro stabile. Mi ricordo benissimo la nostra situazione di quando ero piccola, ho provato sulla mia pelle cosa significa essere profuga. Se ripenso al 1992, il ricordo di quei primi giorni mi fa ancora commuovere.” Edis: “All’epoca, quel soldato che pensava di doverci insegnare a usare lo spazzolino da denti mi aveva fatto rabbia, ora lo capisco meglio: era semplicemente un giovane militare ingenuo, per lui noi eravamo dei profughi che venivano da un paese che non conosceva. È vero, c’erano vecchiette provenienti dalle zone rurali, ma c’erano anche i cittadini di Sarajevo o di qualche altra città bosniaca, città moderne. Gente come lui, insomma, ma con qualche trauma in più. Quella fu la parte più tosta per me: lo shock nello scoprire che dovevi dimostrare di essere una persona normale, una persona come chiunque altro, proprio come chi ci stava ospitando. Prima di arrivare a Vipiteno ero un bambino felice e spensierato che cantava nei vari festival per i ragazzi nella Ex-Jugoslavia, ero anche abbastanza conosciuto ed ero spesso in TV. Poi è arrivata la guerra. All’improvviso sono diventato un bambino profugo che non aveva più niente.”

ICaterina Fantoni

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