Argo XII / Laborinto

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Rivista d’esplorazione Rivista d'esplorazione argo n. 12 - marzo 2007, ₏ 3,00

viaggio nel labirinto del lavoro entrata

ms / nieva

laborinto



Argonauti riuniti : argo@argonline.it

Diario di bordo ms / nieva

Non temete, venite con noi, seguiteci nell’intricato e oscuro labirinto del lavoro: un labirinto dai mille sentieri e cunicoli, un labirinto antichissimo, di continuo rimodernato, popolato di rottami di macchine e scheletri, di vecchi e nuovi schiavi, di vecchi e nuovi padroni. Un labirinto irto di molte trappole, di pochi tesori, di porte spalancate su inferni terreni e di finestre aperte sull’avvenire. Alcuni mesi fa ci siamo guardati in faccia e abbiamo deciso che era giunto il momento di inoltrarci nel dedalo, di sfidare la Bestia che lo abita e riportare indietro l’Umanità perduta. Siamo partiti dal VAG61, l’Officina dei media indipendenti di Bologna, un porto franco che ci ha accolto fra i suoi ospiti. Volevamo andare oltre la selva del precariato e il finto paradiso degli “arrivati”, oltre i ristretti confini che ingabbiano l’orizzonte delle possibilità. Volevamo spingerci lontano per tracciare una mappa che comprendesse tutto il multiforme territorio del lavoro. Il viaggio in cui vi accompagneremo sarà come sempre un attraversamento. Ma questa volta avrà un’entrata ed un’uscita, questa volta andrà da un polo all’altro.

Dal lavoro al non lavoro. Ma nel mezzo? Nel mezzo potreste anche perdervi, abbacinati da proposte utopiche, mestieri ideali o elitari, confusi dalle nuove strategie sindacali. Insomma, il labirinto in cui vi condurremo a tratti sarà una palude, la stessa che Sanguineti tentò di attraversare nella sua prima opera in versi, Laborintus (1956), da cui abbiamo preso ispirazione per il nostro titolo. In Laborintus Sanguineti voleva resuscitare il nostro partimonio linguistico, ormai museificato. Noi, indegnissimi nipoti del Vate, stanchi di essere stanchi di procacciarci il pane, vogliamo resuscitare la dimensione gioiosa del lavoro. E per farlo, dobbiamo guardare in faccia tutte le ambiguità e le ingiustizie che si annidano al suo interno. Nudi, spogliandoci dei nostri consueti abiti, come ha fatto per noi Sanguineti, incontrato al Teatro della Corte di Genova. Alla prima fermata del nostro Laborinto incontrerete Juliette Lewis, attrice e cantante, e il teatrante Matteo Belli, che ci racconteranno l’antica favola dell’artista fortunato, capace di guadagnare con le proprie creazioni. E poi scenderete in un tunnel,

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dove troverete, come in una caverna, i resti del passato, della classicità: sarà l’antichista Oscar Fuà ad accompagnarvi e vi ricorderà come Virgilio, per volere dell’imperatore Augusto, nobilitò il lavoro, che per gli antichi era indegno degli uomini liberi, quindi riservato agli schiavi. Nel tunnel troverete però anche le immagini dei manga giapponesi, commentate da Michele Filippi, che grazie a loro vi illustrerà la concezione giapponese del lavoro, assai diversa dalla nostra. Proseguendo, vi troverete di fronte alle immagini del Novecento, il secolo della classe operaia, filmata dal regista Ken Loach; il secolo dell’emancipazione della donna, cantata da Elio Pagliarani ne La ragazza Carla; il secolo delle grandi rivolte, narrate da Nanni Balestrini e Paolo Volponi; il secolo delle ideologie spesso mostruosamente applicate e delle macchine che avvinghiano Charlot, in Tempi moderni commentato da Roy Menarini. Il Novecento: il secolo in cui il lavoratore è stato esaltato nelle canzoni, come vi ricorderanno Nico, Chiara Paganini e Michele Pedrazzi, e nelle immagini, di cui vi parlerà Dondero, che ha immortalato con le sue foto contadini, minatori e operai. Finito il tunnel, in cui Daniel Agami vi avrà anche mostrato di sfuggita un emissario della Bestia nel suo [lav]oro nero2, tornerete in superficie, con in mano l’ultima immagine che ci ha lasciato il passato: la stretta di mano tra Reagan e Gorbaciov, la fine del regime sovietico, il trionfo del capitalismo. Guarderete di fronte a voi e vedrete, grazie a Natalia Paci, i diritti dei lavoratori minacciati, sentirete predicare la filosofia

del lavoretto, del diritto al lavoro amputato, l’ipocrisia delle Pari Opportunità denudata da Michela Murgia, e altre ipocrisie svelate da Angelo Ferracuti. E il sindacato? Con Paola Campanella vi interrogherete sulle sue origini e prospettive. E poi ecco a voi l’ospite d’onore del grande ballo in maschera, niente popò di meno che il timoniere cinese dell’aprile girotondino 2002 ed ora bersagliatissimo sindaco della grassa e dotta Bologna, sua podestà Sergio Cofferati, che, evocato in una seduta spiritica, farà memoria della sua esperienza sindacale ne L’Europa delle città contro le derive del lavoro. Siete arrivati nel cuore del Laborinto, laddove è disegnato un mappamondo e sono raccontate le storie dei nuovi emigranti, italiani e non, spintisi lontano in cerca di lavoro. La terra gira e agli antipodi Argo diventa Ogra; anche questa volta attraverserete lo specchio con noi. Inizia la risalita, la rivolta ludica. È il momento de L’arte del Sabotaggio. E intanto Aldo Nove ironizza sul desiderio che abbiamo di toglierci catene che fatichiamo a metterci. Siamo nel tempo del carnevale quando sul carro salgono i nuovi santi pagani del Precariato, quando a parlare è la poesia. E giunti alla fine del Laborinto ecco esplodere la rabbia dei Punk che cantano la gioia perversa del non-lavoro e del vivere d’arte grazie ai sussidi di disoccupazione. Qui, l’uscita dal labirinto ci riporta alla sua entrata, nel gioco dell’eterno ritorno: eccoci di nuovo tra le braccia di Juliette Lewis, accarezzati dalle sue parole – con il sogno di un lavoro a regola d’arte siamo entrati e con esso usciremo.


Valerio Cuccaroni e Annabella Losco

Il mestiere della star controcorrente Intervista a Juliette Lewis, attrice protagonista di film cult come Natural Born Killers e Strange days, oggi voce del gruppo rock Juliette & The Licks

Bologna – Mentre l’aspettiamo fuori dall’Estragon per intervistarla, Juliette gioca a calcio con la sua band e parla al cellulare. Poi sparisce e riappare con una fascia attorno alla testa, stile Jimi Hendrix, accompagnata da Todd Morse, uno dei due chitarristi della band. Si siedono, entrambi sorridenti e disponibili, e cominciamo a parlare del nuovo lavoro di Juliette, passata dai set cinematografici ai club musicali. Qual è l’approccio di una donna al mondo del rock? Ecco, io provo a essere… ehm… avete quest’espressione in Italia: Underdog? È la persona che durante un match di boxe si trova against all odds – ha tutti contro. Per lei tutto è sfavorevole, ma alla fine riesce a uscirne vincente. Col gruppo abbiamo scritto una canzone che si chiama Get Up, ed è la storia dei Licks, è la storia di un sogno – un sogno in un mondo dominato dagli uomi-

ni. Io il mio gioco lo gioco all’interno dei Licks, e i ragazzi sono come miei fratelli, Equality (uguaglianza) è la nostra parola d’ordine: il nostro è un rapporto di uguaglianza, di parità e reciproco rispetto. Perciò… A parte questo, nel rock’n’roll arrivi a un punto in cui trascendi dal sesso che ti appartiene, non importa che tu sia femmina o maschio, diventi semplicemente un elemento, terra, tempesta, e così via… Ed è per questo che c’è tanta androginia nel rock. Ma non è questo che mi interessa, io voglio rappresentare una femminilità forte, complessa... ricca. Probabilmente perché è quello che sono, perché è un’immagine che mi appartiene. E perché ci sono tante altre donne come me nel campo dell’arte, del mainstream. E possiamo essere un esempio, dare la giusta “carica” alle giovani donne. Anche se poi i Licks radunano tanti tipi di personalità: dalla ragazzina al tipo tosto, al signore cinquantenne; tutta gente che ama il feeling good del rock’n’roll. Però è strano, perché molti dei film che ho


fatto sono zeppi di uomini, e hanno delle tematiche davvero toste, ecco perché mi sento così a mio agio in questa situazione, in questa band di maschiacci, sono già “temprata”… Dal canto mio incoraggio tutti loro a comunicare tra di noi, ad abbracciarci, siamo molto “tattili”, ricerchiamo sempre un contatto fisico. Com’è il lavoro del musicista? Risponde Todd – In un mondo in cui la vita entra a tal punto nel tuo lavoro che non hai abbastanza tempo per creare, fare questo mestiere per noi è un dono, un privilegio.

Riesci a conciliare la tua vena artistica con le esigenze dello spettacolo e del business? Guarda, noi abbiamo un’etichetta indipendente molto piccola, che ci promuove e che si occupa di tutto. I proventi del mio lavoro di attrice mi hanno permesso di investire molto in questa band, all’inizio per farla nascere e ora per andare in giro e fare concerti e vendere le t-shirt – l’unico modo per sopravvivere, per sostentare la band sono i proventi della vendita delle magliette! (ride) no, è vero!!! Solo al secondo posto c’è la vendita dei dischi, ma ora va bene, piano piano stiamo iniziando a crescere, e questo è emozionante per noi,

Risponde Juliette – Fondamentalmente si tratta della volontà di spaccarti il culo (you have to be willing to work your ass off!) e non semplicemente di aspettare che sia il mondo a venirti incontro, si tratta di divenire una star e di diventarlo pure in tempi rapidi, e non pensare che basti schioccare le dita. Ciò che è strepitoso della musica è che hai questa connessione stretta, questo contatto diretto con il tuo pubblico, e il mio primo obiettivo con la band, con i Licks, è appunto di conoscere chi sono quelli che vengono ai miei concerti… Alcuni mi conoscono per i film in cui ho recitato, e va benissimo, però dal momento che sei entrato nella sala dove si tiene il nostro concerto il nostro compito dev’essere quello di farti muovere! E di incontrare i tuoi amici, e questo è alla base dell’andare in giro, di andare in tournée per tutto l’anno. E poi di registrare un altro disco! Todd – Invece il mio obiettivo è suonare per altri vent’anni, e non prendere un soldo. Annabella (incredula) – eh??? Todd – Sono vent’anni che suono… e non sono ancora diventato ricco! (ride)

perché questo disco (Four on the floor) è forte più che mai, più del disco e mezzo che abbiamo realizzato precedentemente (un album intero, You’re speaking my language, e uno di 5 tracce, ...Like a bolt of lightning, N.d.R.); perciò ci emoziona molto portare in giro e suonare questa nuova opera. La cosa buona è che 15 anni di lavoro nel cinema, sul set cinematografico, mi hanno aiutato a comprendere che significa lavorare per ore e ore consecutive… in condizioni assurde. C’è un rapporto molto interessante tra l’arte e il commercio, il profitto, fare soldi con il frutto di un processo creativo. Io cerco di mettere la purezza alla base nel mio modo di lavorare. Posso suonare con i miei chitarristi, e poi presentarmi a un pubblico in un locale, il sabato sera, oppure suonare nello scantinato, in garage con i miei amici, e mettere la mia musica in internet, dove la fruizione è libera (su MySpace, ad esempio: www.myspace.com/julietteandthelicks il sito della band, N.d.R.). Ciò che mi piace della nostra etichetta indipen-


dente è che mi lasciano autonomia, ti parlo della mia etichetta in Gran Bretagna (non abbiamo un’etichetta in America che ci produce, siamo dei freelance!) perché voglio preservare l’integrità di quel che faccio. Tanta gente nel business, quando si tratta di affari, vuole andare sul sicuro e vendere ciò che ha già venduto un milione di volte prima, quello che si sa che si venderà, e benché il rock sia un tipo di musica molto accessibile da fare e da ascoltare, il nostro rock non è ciò che si sente in radio. Alla radio è più facile che passino cose tipo Wolfmother, Jet, o Eagles of death metal, che suonano un po’ retrò, vecchia scuola rock. La ten-

colui che comanda ma conduce, che tiene le fila… N.d.R.) all’interno della mia band, a comprendere ognuno di loro, le loro esigenze, il loro talento, anche i loro gusti e le loro preferenze. E mettere tutte queste istanze insieme, la gente non si può rendere conto quanto tengo sempre d’occhio la direzione che prendiamo, tengo sempre d’occhio la nostra strada, il nostro cammino. Ecco quello che faccio. Insieme formiamo proprio una bella squadra! Comunque, io credo che molti di quelli che si fanno chiamare artisti in realtà sono pigri. E si aspettano che basta scrivere qualcosina, la prima cosa che scrivono, e la reazione sarà ‘uaoooo, sei massimo volponi

denza delle grandi etichette discografiche è darti i soldi se vendi, ma hanno anche il potere di sbatterti fuori e sbarazzarsi di te, se non fai quello che ti dicono, se non stai ai loro dettami. Perciò è solo una questione di lavorare tanto, di impegnarsi a fondo, che è esattamente quello che stiamo facendo, stiamo andando in giro (on the road), e questo ci fa paura ma ci dà molta carica, è allo stesso tempo spaventoso e stimolante. C’è un’espressione particolarmente adatta alla situazione: Go for broke, when you gamble (rischia tutto, quando scommetti) – o vinci o perdi, non hai scampo. Ma non lo sai finché non ti butti e rischi: e questo è esattamente quello che stiamo facendo. Quindi la libertà d’espressione è il valore più importante nel tuo lavoro? Esatto, il momento più importante è quello in cui metti le tue idee e comunichi con la band… ecco, negli scorsi tre anni ho imparato che significa essere un leader (non ‘capo’, ma ‘leader’: cioè non

davvero incredibile!’. Quando ho iniziato la mia esperienza nella musica mi aspettavo che tutti sarebbero stati scettici, che mi avrebbero giudicata, guardata con occhio giudice, ma non mi interessa, perché io so bene cosa mi piace, musicalmente parlando, e chi ci ascolta sente questa passione. Il movie business è un mercato davvero duro, e io stessa non sono mai stata famosissima, mai diventata veramente famosa, voglio dire, sono rispettata, il mio lavoro è rispettato, ma non ci ho guadagnato in popolarità. Massimo Volponi (il regista della nostra troupe) – Perché sei sperimentale! Juliette – Sì, più alternativa…. E in Italia, forse, questo può avere un senso ma solo perché ci sono state donne come Giulietta Masina, la moglie di Fellini, molto complessa, ricca, sfaccettata, buffa, divertente, non è perfetta, non è la classica bellezza canonica, o Anna Magnani, anche lei, strepitosa. Perciò mi sento più vicina al gusto europeo che americano.


www.59rivoli.org

Artisti squatteur al lavoro nel cuore di Parigi Interni ed esterni di Electron Libre, 59 rue de Rivoli, attualmente in ristrutturazione

natalia paci


natalia paci


Marco De Marco : m.pixasso@gmail.com

Come vivere di solo teatro Intervista all’attore Matteo Belli Matteo Belli lavora in teatro dal 1989 come mimo-fantasista ed attore. Ha realizzato spettacoli sia come autore che come interprete. Per diversi anni ha partecipato al Festival Un puente, dos culturas, svoltosi in Argentina ed Uruguay, di cui è stato anche codirettore artistico.

scene, soprattutto in Italia, dove manca una cultura teatrale forte, mentre in paesi come la Germania o l’Inghilterra la vita sociale teatrale ha mantenuto una propria autonomia assieme ad una ricerca intrinseca.

Come vivere di sola arte ed in particolare di solo teatro oggi? Il mestiere dell’attore, a mio avviso, è un mestiere da reincarnato. Il difficile infatti sta nel capire se sia un dovere più che un volere: si deve essere pronti ad affrontarlo come un’avventura pericolosa, trovando allo stesso tempo un accordo con se stessi, perché esso si fonda sull’artigianato. Attraverso l’oggetto di ricerca, l’attore deve cercare di esprimere il mondo in modo che contenga un senso di trasformazione e di rivelazione, e il tutto attraverso la propria interpretazione, perché ognuno di noi è sacro e insostituibile. È quindi necessario mettere insieme tecnica e invenzione, passione e intelligenza, lucidità e follia: questo è il dovere dell’artigiano-artista. Secondo te, è giusto vivere di solo teatro, ovvero vivere di un certo appagamento morale rinunciando quindi ad un guadagno dignitoso? In questo momento storico, un attore o va per la città dolente, e quindi per l’eterno dolore, oppure diventa una star. Il successo consiste nel potersi esprimere, avendo la possibilità di far circolare un proprio spettacolo affinché diventi utile alla società. In un mondo che non rispetta l’artigianato artistico, si muovono dinamiche che non privilegiano il riconoscimento qualitativo, quanto quello prettamente commerciale. Occorrerebbe una politica di vaglio, che non permetta più di commettere l’errore che un partecipante del Grande Fratello si ritrovi a fare teatro immeritatamente. E il teatro sperimentale? Il teatro sperimentale ci ha offerto molte cose interessanti tra gli anni ’70 e i ’90, all’interno delle quali hanno lavorato personalità di spicco. Questa sperimentazione è poi diventata fine a sé stessa. Essa ha avuto poco a che fare con la funzione comunicativa del teatro, e ciò ha contribuito ad allontanare il pubblico dalle

Che ruolo svolge il teatro nella società occidentale? In paesi con problemi economici, ad esempio l’Argentina, il teatro assume un ruolo molto diverso dal nostro, ed ha fortuna, perché viene attribuito un ruolo di scambio e di incontro a quest’arte. Il teatro dovrebbe essere uno dei motori spirituali di una società che aspira a crescere e a maturare. Carmelo Bene sosteneva che per salvare il teatro bisogna cominciare a disinteressarsene, vorrei una tua opinione a riguardo. Io sarei d’accordo, a patto che incominciamo tutti a ‘disinteressarci’, pensando ad altro. Ad esempio, facciamo ‘sanità’? Pensiamo ad altro e non alle lobby di potere all’interno degli ospedali o delle case farmaceutiche. Pensiamo ad altro, rispetto a ciò che non funziona! Questo mi sembra fortemente rivoluzionario ed innovativo nella nostra società. Non vogliamo pensare di risolvere i problemi del teatro all’interno della politica teatrale? Facciamo altro! Portiamo il teatro al di fuori dei luoghi e delle convenzioni.


Oscar Fuà

Esaltare la fatica. O no? La concezione del lavoro nelle Georgiche di Virgilio Labor omnia vicit/ improbus («Su tutto ha la meglio la fatica ostinata») Virgilio, Georgiche 1, 145 sg

Se gli ultimi decenni della nostra età hanno assistito a contrastanti visioni del lavoro, da quella marxista-socialista a quella cristiano-sociale per giungere alla attuale, liberale-capitalista, che ritiene il lavoro solo mercanzia e il lavoratore ridotto alla figura di produttore-consumatore, colpisce la sostanziale unitarietà del pensiero greco-romano che vede il lavoro degno per lo più di schiavi e servi. E, ancora una volta, piace trovare in pagine di grande letteratura molteplici spunti di riflessione su un tema dai risvolti anche economici e ideologici: Virgilio nelle Georgiche espone con la sua abituale humanitas, nonché con concretezza d’accenti, l’ampio e meraviglioso spettacolo della vita, che si rivela tale anche grazie agli umili – e spesso ingrati – lavori agricoli, giudicati dal poeta quasi lotte di gagliardi guerrieri e descritti con linguaggio di estrema eleganza, fitto di numerosi echi e risonanze. L’elaborazione delle Georgiche, la celebre opera sul lavoro dei campi, che ha come destinatario dichiarato l’agricoltore, ma si rivolge in realtà al pubblico colto cittadino, è piuttosto lunga, almeno

dal 37 al 30 a.C. Non dimentichiamo che fra II e I sec. a. C. si era avuto un vero e proprio dissanguamento dei ceti agricoli, piccoli e medi, che avevano fornito il contributo più sostanzioso alle guerre romane di conquista; da ciò la caduta in rovina e la vendita dei possedimenti da parte dei piccoli agricoltori, impossibilitati a prendersi cura dei loro interessi e sfidare la concorrenza di proprietari terrieri ben più robusti economicamente. È chiaro dunque che Mecenate1, nella cui cerchia Virgilio entra verso il 38 a.C., abbia sollecitato il nostro poeta a scrivere un’opera, le Georgiche, in grado di far rinascere negli uomini del proprio tempo ideali e valori di età più antiche2, mediante un impegno costante nel lavoro, teso a facilitare lo sviluppo civile e favorire i legami sociali. Di certo la pressione di Mecenate non dovette durare troppo a lungo, dal momento che il progetto di un poema sulla vita dei campi dopo la composizione delle idealizzate Bucoliche sarà stato naturale, quasi inderogabile, per il poeta mantovano, assai interessato alle problematiche della terra, a quelli che erano contenuti tipici dell’ideologia

Gaio Cilnio Mecenate, nato ad Arezzo da un’antica famiglia etrusca intorno al 70 e morto nell’8 a.C., fu influente consigliere di Ottaviano Augusto e importante intermediario fra il potere e gli uomini di cultura. Alcune considerazioni sul rapporto dell’intellettuale con il potere sono esposte nel mio Seneca e l’età di Nerone: una scelta difficile fra otium e negotium, «Argo» IV, 9, 2004, pp. 37-40 (l’intero n. 9 della rivista è dedicato al rapporto fra Arti e Potere).

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Naturalmente solo questo poteva essere il compito virgiliano; ovvio, quindi, che il vero destinatario del poema sia un pubblico urbano, al quale meglio si adatta il contenuto etico generale. Vedere, invece, nel poema una sorta di manuale pratico per gli addetti ai lavori agricoli è cosa poco credibile: si legga, ad es., quanto dice in proposito Antonio La Penna, Virgilio e la crisi del mondo antico, in Virgilio: tutte le opere, Firenze, Sansoni editore, 1966, p. X XIX.

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Merita di essere citato, fra tutti, Cicerone che in De Officiis 1,150151, dopo un’attenta disamina delle varie artes, afferma: omnium autem rerum, ex quibus aliquid adquiritur, nihil est agri cultura melius, nihil uberius, nihil dulcius, nihil homine, nihil libero dignius («ma di tutte le attività, dalle quali si trae qualche profitto, nessuna è migliore, più redditizia, più piacevole o più degna di un uomo, di un uomo libero, dell’agricoltura»). 3

Un vero e proprio vagheggiamento di questa età, ad es., è presente nella meritatamente famosa, e problematica, ecloga quarta virgiliana. Il rifiuto di tale vagheggiamento, con il conseguente peso maggiore assunto dalla realtà anche nella sua durezza, segna uno dei più tangibili distacchi fra il mondo pastorale bucolico e quello del lavoro georgico.

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del principato e all’idea di collocarsi nella scia dell’antica tradizione del poema didascalico. Nel mondo antico, in particolare nel periodo augusteo, l’agricoltura è il lavoro socialmente privilegiato, rispetto alle altre attività economiche, come ricordano numerosi autori3. Al tempo stesso, il lavoro in genere non poteva certo avere quel valore che acquisterà dopo duemila anni di cristianesimo e in seguito alla nascita del movimento operaio (l’otium cum dignitate, ad es., espressione di un ideale di vita tanto ambìto a Roma sin dalla fine dell’età repubblicana, che esalta la possibilità per i cives di avere tempo libero per coltivare gli studi e adempiere i doveri

civici, sottintende facilmente quanto il lavoro costituisca un fastidioso ostacolo a tale ideale e, quindi, una sorta di degradazione). Diffusa, perciò, anticamente è l’idea di una mitica era felice – spesso chiamata dai poeti ‘età dell’oro’ 4 – in cui l’uomo trova già pronto il necessario per il suo sostentamento, alla quale subentra un tempo in cui egli a fatica e a prezzo di affanni deve procacciarsi da vivere: tale parabola di vita era ugualmente presente nel mondo giudaico-cristiano più antico (si veda in Genesi) come in quello greco, a partire da Esiodo (lavoro umano quale punizione dell’inganno di Prometeo). Nella letteratura latina Lucrezio, sulle

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La fatica nell’antica Grecia Esiodo, vissuto ad Ascra, in Beozia, nell’VIII sec. a.C., era un contadino e pastore che salì un giorno il monte Elicona, dove incontrò le Muse e divenne poeta. Compose la Teogonia, poema degli dèi e delle loro stirpi, e le Opere, poema degli uomini e delle loro fatiche, in cui espose quella che divenne la concezione del lavoro tipica del mondo greco ed ellenico. Tale concezione emerge chiaramente nel ritornello che il poeta rivolge al fratello Perse nelle Opere: evita l’agorà (lo spazio della discussione politica nella Grecia antica, N.d.R.), non lasciarti attrarre da mezzi di guadagno che non siano ponos, «fatica», e, per antonomasia, lavoro della terra. È questa un’ideologia durevole, che ritroviamo in un altro grande autore greco, Senofonte, e che ritroveremo poi in Virgilio. È bene ricordare che nella cultura dell’antica Grecia il «lavoro» era una concetto astratto, per il quale non esisteva in greco un termine adeguato, al di là del generico ponos. L’uso esclusivo del termine ponos è da attribuirsi di certo a sano realismo, è ovvio – lo stesso che si legge nei verbi travailler e trabajar, con cui in Francia e Spagna si indica tuttora il lavoro, verbi, lo ricordiamo, che hanno la stessa radice dell’italiano ‘travaglio’, che significa innanzitutto ‘pena’, ‘sofferenza fisica’. Ma nell’uso esclusivo del termine ponos si può leggere anche l’assenza, in Grecia, di una produzione economica sufficientemente allargata e articolata, tale da tramutare l’astrazione ‘lavoro’ in un’astrazione, tecnicamente, determinata, come avvenne secoli più tardi.


orme di Epicuro, interpreta, nel senso più laico, il passaggio dallo stato ferino a quello civile, enfatizzando le capacità dell’ingegno umano e anticipando non poche teorie moderne5. Virgilio, invece, cerca di giustificare il lavoro in una concezione provvidenzialistica6, non priva di qualche contraddizione, nel I libro delle Georgiche (vv. 121-159), dove Giove in persona, volendo che gli uomini non intorpidiscano nell’ozio, li stimola ad inventare le arti sotto la spinta del bisogno: Pater ipse colendi/ haud facilem esse viam voluit, primusque per artem/ movit agros, curis acuens mortalia corda/ nec torpere gravi passus sua regna veterno (vv. 121-124, «il Padre in persona volle che

gia stoica, di Posidonio in particolare, secondo la quale l’uomo deve impegnare il suo intelletto per uniformarsi ai disegni provvidenziali che conducono allo sviluppo della civiltà7. Ne discende una valutazione positiva – dal forte contenuto etico – dell’impegno tenace con cui l’uomo escogita nuovi accorgimenti sfruttando le risorse dell’intelligenza: tutto quello, cioè, che mancava in un’età dell’oro pigramente affidata alla facilità del vivere8. Il passo continua elencando numerose iniziative di Giove: fornire veleno ai serpenti, fare agitare il mare, nascondere il fuoco, ed altro, «in modo che il bisogno, poco a poco, a forza di ricerche forgiasse le diverse arti» (vv. 133 sg.).

Il noto brano del V libro del De rerum natura di Lucrezio traccia un’appassionata storia dell’umanità sin dai primordi e mostra come, degli iniziali esseri mostruosi, sopravvissero solo quelli più idonei a dare origine alle attuali specie viventi; ebbene, tutto questo anticipa sorprendentemente il pensiero di Darwin sulla selezione naturale.

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Considerazioni sul problema sono in Antimo Negri, ‘Teodicea del lavoro’, ‘etica del dolore’ e filosofia della cultura in Virgilio, «Giornale italiano di filologia» XXX, 1, 1978, pp. 4756.

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Versi che esaltano le qualità dell’uomo e il suo conseguente cammino in direzione del progresso sono numerosi, specie nella letteratura greca: si pensi solo al Prometeo eschileo (vv. 442 sgg.) e al primo stasimo dell’Antigone sofoclea (vv. 332 sgg.). Virgilio, dal canto suo, pone maggiormente l’accento sulla

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non fosse facile la via del coltivare e per primo fece smuovere i campi con arte, aguzzando i cuori mortali con le preoccupazioni, né sopportò che il suo regno intorpidisse in pesante letargo»). Dunque, non una punizione da parte del padre degli dèi per colpe commesse, bensì una decisione netta di affinare l’animo umano con gli affanni (curis acuens mortalia corda) perché possa nascerne una spinta verso l’ingegnosità e il progresso dell’umanità: preoccupazione primaria di Giove è contrapporre la sua età alla precedente, quella di Saturno, evitando che gli uomini restino addormentati per una pesante inerzia (torpere gravi... veterno). Non è difficile avvertire qui una consonanza del poeta con quella che è l’antropolo-

Seguono, quindi, dieci versi (136-145), che mostrano l’alacre operosità degli uomini, fino all’arrivo delle varie tecniche (tum variae venere artes, v. 145). A questo punto s’incontra una sentenza, molto incisiva, destinata a divenire paradigmatica nel tempo: Labor omnia vicit/ improbus et duris urgens in rebus egestas (vv. 145-146, «su tutto ha la meglio la fatica ostinata e il bisogno che incalza nelle difficoltà»). È bene soffermarsi sull’impiego del verbo vinco («avere la meglio», «vincere»): si tratta di una chiara metafora tratta dal linguaggio bellico9, quasi alluda ad un bellum tra uomo e natura, lontano dal clima idillico dell’età di Saturno, mentre l’espressiva posizione di improbus in enjambement accentua la valenza

necessità del lavoro e sugli ostacoli da superare con il duro labor: fra le tante pagine dedicate a questo aspetto ricordiamo quelle di Adelmo Barigazzi, La Provvidenza divina e l’incivilimento umano nelle Georgiche di Virgilio, «Prometheus» VIII, 2, 1982, pp. 97-116. 8 Ma si tenga presente che la visione virgiliana dell’età dell’oro, anche all’interno delle Georgiche, è oscillante e non esente da dubbi: così, ad es., in 2,458 sgg. si coglie una sorta di rimpianto di quell’età (cfr. infra). 9 L’impiego del linguaggio tecnico militare è frequente in questa parte delle Georgiche: così, al v. 99 le metafore exercet...tellurem e imperat arvis rendono bene l’immagine della fatica; ai vv. 104-105 la semina fa pensare ad un vero duello; al v. 160 con arma si designano gli strumenti adoperati dai tenaci agricoltori (duris agrestibus).


10 Questi due aspetti sono espressi efficacemente, nella lingua greca, da un’unica parola : cfr. quanto scrive con lucidità Cicerone, Tuscolanæ disputationes 2, 15, 35. 11 Nota è la polisemia del termine: ancor più che il lavoro in generale (meglio espresso in latino da opus o da opera), esso indica con maggior frequenza la fatica, il travaglio, la sofferenza, l’impresa rischiosa, ecc. Basti ricordare che nell’Eneide sono definite labores le sofferenze di Enea e dei Troiani, così come le fatiche di Ercole; ma il termine labor mostra l’accezione più ampia e ricca sul finire del poema epico, allorché Enea, prima del duello decisivo con Turno, così si rivolge al figlio Ascanio: Disce, puer, virtutem ex me verumque laborem,/ fortunam ex aliis (Æneis 12, 435-436, «apprendi, fanciullo, il carattere da me e il vero impegno faticoso, la fortuna da altri»). Labor, collegato a virtus e accompagnato dall’aggettivo verus, sta qui a significare la forza della costanza, l’impegno faticoso nella vita, che il figlio riceverà come autentica eredità paterna.

Virgilio, Georgiche, a cura di A.B., introduzione di Gian Biagio Conte, Milano, Oscar Mondadori, 1989, pp. 163-164.

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jg / nieva

12 Si veda, ad es., Lucrezio, De rerum natura 5, 196-199: ausim/ confirmare…/ nequaquam nobis divinitus esse paratam/ naturam rerum: tanta stat praedita culpa, «ardirei dire...che per niente la natura è stata a noi generata da una volontà divina: a tal punto è segnata da difetti».

negativa dell’aggettivo, che in coppia con labor esprime un’idea di sofferenza e penosità10. I vv. 147-149 continuano a presentare il lavoro come obbligo ingrato, accentuando il senso di laboriosa fatica: non a caso al v. 150 ricompare il termine labor11, a proposito dell’impegno continuo che la coltivazione del frumento costa all’uomo per le varie difficoltà (ruggine, piante parassite, malattie in genere) che sorgono di continuo, come a voler stimolare l’operosità umana. Si coglie facilmente in tali affermazioni l’eco di luoghi lucreziani (e puntualmente lo hanno rilevato gli studiosi) nei quali, però, l’accento è in prevalenza posto sulle difficoltà dovute alla natura matrigna12. Come si è accennato, nel finale del II libro (vv. 458 sgg.) si affaccia in qualche modo un vagheggiamento nostalgico dell’età dell’oro, con la vita dell’agricola contrapposta a quella del cittadino: semplice, pura di costumi, isolata dal mondo, la prima; inquieta, tormentata, immersa nelle lusinghe della politica e della guerra, quella del civis. È un quadro della vita dei campi – questo del II libro – intesa come fusione di

mito e di religiosità gioiosa e serena, ricca di tratti utopici e, pertanto, poco conciliabile con la teodicea del lavoro tracciata in 1, 121 sgg., dove l’impegno dell’agricola veniva sentito nella sua durezza e si scontrava con enormi difficoltà. Bisogna quindi non volere rintracciare a tutti i costi un’ideologia unitaria, sempre coerente, delle Georgiche e, in particolare, dell’idea del lavoro che in esse si coglie. È nel giusto, perciò, Alessandro Barchiesi, quando afferma che «Virgilio si fa specchio delle contraddizioni che animano il mondo romano contemporaneo e, pur cercando di proporre alla società un modello tutto ideologico di salvezza e di risanamento morale, non dimentica di rivelarcene la crisi profonda»13. Così, una tale varietà di posizioni, peraltro all’interno della stessa opera, deve suggerire cautela nel volere individuare un eccessivo, continuo contributo alle direttive del principato da parte del poeta: Virgilio non può essere un semplice, meccanico esecutore di disposizioni altrui; egli è, prima di tutto, uomo di profonda humanitas e, ancora di più, autentico, sincero poeta.


clio


Francesco Filippi : www.studiomistral.com

Anime all’opera

Nei cartoon occidentali è difficile trovare rappresentazioni del lavoro, inteso come sacrificio, responsabilità e, perché no?, anche passione. Se da noi la professione più gettonata è forse il detective, nei cartoon giapponesi il lavoro trova un’ampia gamma di rappresentazioni, dall’amministratore condominiale al pilota di robot, dal postino fino al lavoro minorile. Il lavoro e la fatica sono insomma oggetto di discorso; ma andiamo con ordine. Precarietà italiche a parte, in Europa abbiamo una cultura sindacale, le 35 ore di lavoro (per molti), il weekend libero e una mesata di ferie; a scuola, poi, pomeriggi liberi e mesi di vacanze. In Giappone invece uno studente, tra lezioni e club, torna a casa all’ora di cena e restano i compiti da fare. Un impiegato si alza all’alba, viaggia per un’ora e mezza, resta in ufficio 10 ore, rincasa alle undici di sera, sabato compreso; 15 giorni di vacanza all’anno, mentre per fare più di una settimana di ferie di fila, occorre spesso licenziarsi. Persino autori che hanno fatto una fortuna con i propri manga di successo, come Akira Toriyama (Dragon Ball), lamentano di non aver tempo per spendere i soldi che guadagnano! Anche se oggi la società giapponese sta cambiando, resta forte la tradizionale fedeltà all’azienda, come quella del samurai per il proprio padrone. Con brutale sintesi, se a Roma si lavora per vivere, a Tokyo si vive per lavorare. Gli anime, come si chiamano i cartoon giapponesi, rispecchiano da sempre la società che li genera, compresi quindi il lavoro e la sua etica. Ecco quindi che il Maestro Hayao Miyazaki ci racconta in Kiki’s Delivery Service le fatiche e gioie di una streghetta tredicenne che deve arrangiarsi a vivere da sola in un’altra città inventandosi una professione. Oppure, ne La città incantata, la viziata Chihiro (dieci anni circa) deve assolutamente trovare un lavoro per salvare i propri genitori: e così, tra fuliggine e melme schifose, diventa responsabile. C’è spazio per tutto nei cartoon giapponesi: il pugile

caccadura

L’olio di gomito nei cartoon giapponesi

ribelle Rocky Joe deve imparare, anche attraverso i lavori forzati al riformatorio, ad allenarsi con metodo e costanza per divenire un atleta professionista. Non meno dura, nella Francia di metà Ottocento, la vita di Remì, che per sopravvivere deve crescere come artista di strada, conquistandosi il pane giorno per giorno. Il senso del dovere di soldato, in insanabile contrasto con la voce del cuore, permea inoltre tutta la vita e la moralità di Lady Oscar. Tutta la saga di Patlabor, poi, se ci racconta la quotidianità di un distretto di polizia, ci mette anche in guardia dai rischi di eccessiva robotizzazione del lavoro nella nostra società. Ancora, in Golden Boy la formazione universitaria viene fortemente criticata a favore dell’apprendimento sul campo e nemmeno mancano cartoon sui disegnatori degli anime, come il divertente Animation Runner Kuromi. Non ultimi, quattordicenni come Shinji (Evangelion) possono essere costretti a pilota-


re robot giganti per salvare l’umanità; e cosi via. Le differenze di immaginario tra Occidente e Oriente hanno insomma radici culturali e sociali: ad esempio, in Giappone i bambini, che vengono molto più responsabilizzati che protetti, fanno a turno le pulizie a scuola; da noi ci si scandalizzarebbe per sfrutta-

mento di lavoro minorile… E così negli anime (spesso sfogo per chi è oppresso da una società alienante) viene chiesto ai giovani di dare fondo ad ogni energia per realizzare i propri sogni, con dedizione e onestà. Un tema, questo, che è da sempre l’anima segreta dei cartoon giapponesi.

Filippo Brunamonti

Ken Loach: collasso del lavoro e distruzione dell’identità

giulia ferrandi

Con lui il mondo del lavoro è più visibile. È l’interesse di Ken Loach per la classe operaia a ispirare il suo cinema e a trascinare il nostro sguardo al di là di tutto. Al di là del tempo. Delle problematiche sociali. E, forse, è tutta colpa di Chaplin e del suo Tempi moderni se il mondo del lavoro resta uno dei più inafferrabili rimossi della storia del cinema. Dicono. Il modello irraggiungibile di Charlot operaio alienato sembra avere scoraggiato l’accostamento del cinema al mondo del lavoro, alle sue perenni incertezze, ai suoi non-luoghi, alle strategie dell’on stage. Un critico di cinema ha scritto: «Il cinema ha spesso filmato i lavoratori nel momento in cui smettevano di lavorare, dalla sortie dalle fabbriche di Parigi (Lumière) fino all’uscita dei cantieri di Oporto (De Oliveira). Ma di questi tempi filmare l’uscita dal lavoro assume tutt’altro significato. O almeno così appare in alcuni film di Ken Loach che raccontano crisi e problemi del mondo del lavoro contemporaneo. Film che tornano a interrogarsi su quale sguardo adottare nei confronti di una realtà così problematica. E che fanno emergere domande di non facile soluzione del tipo: possono ancora i registi autodeterminarsi nelle scelte e affiancare i lavoratori nella difesa dai pericoli del ‘pensiero unico’? Denunciano la dittatura del capitale che mercifica e subordina la vita degli esseri umani alla privatizzata ‘democrazia’ dei potenti? E il cinema, come strumento autonomo di conoscenza, ha la maturità necessaria per esprimere e tradurre in concrete proposte politiche una nuova coscienza morale che si oppone alla cultura dominante?». Qualche risposta (non definitiva) può essere rintracciata nelle opere, caustiche ma dal sapore


burocrazia del welfare inglese. Le ragioni del cinema politico di Loach sono descritte dallo stesso regista con queste parole: «Il cinema deve restituire la vita nella sua totalità. La politica è legata all’umano. Noi vogliamo parlare ai nostri simili con un linguaggio chiaro, e cercare con loro di prendere coscienza dei problemi del nostro tempo. Non si fa la rivoluzione con un film. Ma un film può essere la leva per sollevare l’inerzia delle cose o delle persone». La bellezza di film come Terra e libertà (1995) e My name is Joe (1997), naturalmente, non risiede solo nel dramma e nella gioia di facce proletarie, affaticate.

mario dondero

genuino, di Loach. Il regista affronta le problematiche del mondo del lavoro attraverso il linguaggio dell’arte che non è scambiabile, anche se a volte può risultare accessorio, con quello dell’esperto di sociologia o del politologo. È per questo che dalle pellicole non emergono tesi prestabilite, ma storie, filamenti, intrecci di riflessioni che si fanno immagini, ‘Yumemikobo’ dedicati a chi non (o)sa più sognare. Con Ken Loach si delinea un’altra ‘storia del cinema’, una storia da rinvenire a singhiozzi, da raccogliere col cucchiaino, che è cospetto minoritario, ma che nondimeno permette di ricostruire frammenti

d’identità, di rivendicazioni e di conquiste del movimento operaio, e più in generale la dimensione alienante e la necessità del lavoro. Nato nel 1936 a Nuneaton (Gran Bretagna), dopo aver mosso i primi passi nella BBC, Loach, il più radicale dei registi britannici (a Cannes ha annunciato di non aver rinnovato la tessera del Partito Laburista, che sosteneva dal 1964, come protesta «per la politica destrosa di Tony Blair»), documenta la vita degli abitanti di un sobborgo fra i più poveri a Londra, dove degrado sociale, disoccupazione, alcolismo fanno apparire opaca la visione della ‘swinging London’. Nel 1967 esordisce alla regia con Poor Cow, ma è con Family Life (1971) che il regista si impone all’attenzione della critica internazionale. Family Life Family Life è film duro, asciutto, che narra l’alienazione e la nevrosi di una ragazza, cresciuta in una famiglia piccolo borghese. In Riff Raff (1991) Loach conduce una dura requisitoria contro il thatcherismo; seguono Piovono Pietre (1993) e Ladybird, Ladybird (1994) un film-accusa sulla

Loach, così rigido quando affronta il piano della politica, è, per altri versi, un innamorato del mondo, sa usare l’ironia, le piccole sfumature. Concertazione flessibilità esubero scivolo. Nei film di Loach piovono parole, come pietre. Quando si tocca un tema, ad esempio quello della privatizzazione dell’economia britannica, tutto suona come una bestemmia, e ci piace che suoni così. Per avere un’idea, si presti attenzione ai dialoghi degli operai delle ferrovie sullo Yorkshire: in Paul, Mick e gli altri (2002), i protagonisti sono corpi inglesi avventizi di un piccolo scalo ferroviario, testimoni con le loro facce smarrite della fase di transizione psico-sociale subita durante il passaggio alla privatizzazione. Nove vite e zero sogni nel cassetto. Si è scritto che per Loach la strategia condotta con successo dal capitale contro le garanzie assicurate un tempo dallo statuto dei lavoratori ha condotto verso condizioni di precarietà, di sfaldatura del sentimento di coesione e di atomizzazione. L’obiettivo principale è stato quello di svalutare gli operai in ‘risorse umane’, di costringerli


a essere in competizione tra loro e a rinunciare ai propri diritti per dimostrarsi convenienti e occupabili. È soltanto attraverso la ricostruzione del bene comune come concetto non negoziabile e il rifiuto dell’economia come unica regola per il progresso che sarà possibile ostacolare il tramonto del mito del posto fisso, la flessibilità e il lavoro interinale, i subappalti, gli stipendi a prestazione e i sussidi, gli incidenti sul lavoro e le morti bianche, le ferie e l’assistenza sanitaria non retribuite. Ken Loach si nasconde dietro la macchina da presa lasciando la regia alle (non) regole del nuovo Questo articolo è una riflessione e un ensemblement di questi critici e testi: - My name is Joe (Ciak, Piera Detassis, gennaio 1999) - Bread and Roses (Duel, Carlo Chatrian, p. 15, dicembre 2000)

capitalismo, lo stesso descritto e criticato dal sociologo Richard Sennett: «Sostituendo alla stabilità l’incertezza, alla durata una perenne innovazione, alla fedeltà dell’azienda l’avvicendarsi frenetico del personale, il nuovo capitalismo mina alle radici il senso di continuità dell’esistenza, erode l’integrità dell’io, indebolisce i legami di fiducia e i riferimenti che per le precedenti generazioni erano essenziali alla formazione della personalità» (Richard Sennett, L’uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano, 1999). - Paul, Mick e gli altri (Duel, Giovanni Robertini, p. 15-16, ottobre 2001) - Tempi postmoderni (Duellanti, Franco Marineo, p. 16, marzo 2004) - Wikipedia - Ken Loach

mario dondero

«Dopo tanti tentativi, sono prossimo allo Zero» Perturbazione

Daniel Agami : altrove@argonline.it presenta

[lav](oro nero)² – scritto il 18/2/2007 – (da una narrazione del 2006) Eiacula e produci Eiacula e produci Eiacula e produci Eiacula e riproduciti, eiacula e uccidi, ammazza fino all’osso, spolpa l’anima di sangue fino a che l’anima langue, eiacula e decerebella, eiacula e consuma, eiacula e consuma, eiacula e consumati.

Qui nella caverna del mondo tutto è regolare, tutto è regolato, la produzione raggiunge livelli di perfezione ferale, la produzione raggiunge livelli di perfezione anormale, ormonale, la produzione raggiunge livelli di produzione mortale (la produzione ringrazia e raggiunge livelli di perfezione letale, totale, la produzione produce e raggiunge livelli di perfezione fetale, vitale…).


Qui sotto ci si ciba di prurito, è macrobiotico, scondito, un piatto sano, prelibato, saporito, ci si ciba di prurito e si produce: ho supervisionato la produzione per lustri e mostri. Qui si lavora per lavorare, si lavora per non bestemmiare, si lavora per non sragionare, perché chi sragiona è perduto, chi si ferma è perduto, e il caporeparto ti dà il benservito, gli basta un saluto e sei fuori da qui. E fuori, si muore. Fuori è peggio. Fuori, piove. Qui nevica e rasserena, illumina e tempesta, acquerugiola che sembra una festa, si lavora coi temporali in tasca qua. Mentre fuori, fuori piove. Piove morte dappertutto. Si sente il caldo e l’odore del sole, e si muore.

della verginità e il cancro sono io, l’odio, la lebbra, la peste setticemica e la morte endemica io pure, la crudeltà, la fame nel mondo sempre io, la Guerra dei Sessant’anni e lo scont®o di civiltà li ho inventati io, la cattiveria e l’angoscia, sono (d’) io, i maremoti e i nubifragi, c’est moi, le tempeste e i terremoti li provoco io, e Cosa Nostra è Cosa Mia, Caino e Esaù sono miei dipendenti, la malattia mentale ed il Dolore miei esperimenti, gli scheletri e la cenere miei alimenti, gli elettrodi ai testicoli miei elementi, le allucinazioni ed i deserti miei unguenti, la decapitazione e il turismo sessuale asiatico miei eventi, e gli sterminati campi di sterminii miei avvertimenti, e il buio e l’Apocalisse

Qui sotto nella (ca)t(ac)omba del mondo si lavora e si sfrenano i freni, vergognosi indugi dell’infima forma di codardia, qui sotto si lavora fino al sangue, il cuore è un avanzo di vecchia cardiologia, e i ginocchi un ricordo di anatomie oramai perdute, di antiche e remote fisiologie. Come Lei sa bene, non c’è mutua né previdenza sociale qui sotto, come Lei sa bene non ci sono tasse né visita medica domiciliare, non c’è mutuo, né contributi da pagare. Non ci sono rimborsi spese, non ci sono sorprese, è un lavoro in cui bisogna essere concentrati, esagerati, non si può esser mai licenziati, è un lavoro in cui bisogna essere perennemente (sovra)eccitati. Ed io lo sono, levigando mani e articolazioni, e gomito (e gemito), produco quintali ed ettolitri di olio di gomito che servono a lubrificare e ungere ombre e luci di questa nostra momentanea e definitiva occupazione, e sudore, decalitri e miriagrammi di sudore. Le tenebre dell’Occidente le produco io, l’Orco ed il Lupo Cattivo li produco io, il babau e la morte suicida li produco io, l’assassinio e la tortura, io, la perdita

miei avventi, e poi l’eroina, la diossina, la coca(ina) alla spina, l’infibulazione, le zanzare-tigre e la fila alle poste, le lacrime delle aragoste uccise e sterminate nelle spiagge italiane, il Termine e la Fine, The & is my beginning: questo sono Io. Mi dedico tutta l’anima al mio lavoro, risparmio le ore di sonno da 25(0?) anni sognando e pensando sempre e solo Lei, producendola, piano piano, pieno, pieno, di energia, di afasia, e di qualche altra strana e oscura malinconia, di qualche altra singolare e cupa malattia. Di lavoro faccio il Foriero di Luce, porto la Luce al mondo e lo farò bruciare della sua stessa luce con cui illumina le radio e i telegrafi, le teleferiche e i transistors, le funicolari e le macchine da scrivere elettriche. Ho ammazzato ogni speranza, rabbuiato ogni lume, oscurato ogni luce, spento ogni sol, ho eliminato ogni pensiero, davvero, ho setacciato terreni, cercato ovunque e per dovunque Oro e Oro nero, ho devastato foreste, ho inondato foresterie, e ho spacciato droga per le restanti vie. Non ho mai chiesto un permesso, mai un giorno di


pausa, mai una pausa da questo sporco e (ig)nobile lavoro, mai mi assentai, ho dimenticato tutti gli amici per non avere rimorsi e remore, forse ebbi dei familiari, ma non me lo ricordo più ormai, ho buttato via i denti per non avere più fame e poi li ho usati per mordere ogni tipo di animale incontrato, qui sotto nella caverna del Mondo, nel sottoscala del Paradiso, nella catacomba del Purgatorio, nello scantinato dell’Inferno e dell’Inverno, mi sono evirato per non pisciare più controvento, per lavorare meglio, per non lasciarmi travolgere dall’Amore e da altre malattie, o lasciarmi ingannare da altre falsità, vedo solo Lei, e, in Lei, la sola unica e possibile verità ma ora che l’ho prodotta

finalmente, dopo lustri di lavoro, questa bomba di atomo e zolfo, ora, Signor Principale, vedo un futuro monossido e monotono di grigio e idrogeno, e nel futuro non ci sarà niente, l’Amore sarà niente, i figli saranno di nessuno e niente, le lacrime saranno niente, il pane sarà niente, la guerra sarà nulla, la Terra sarà niente, il Sole sarà niente, la Luna sarà nessuna, ci saranno colpi di stato e nuovi muri, fame e ancora Dolore e Dolore e Dolore, perversione e tanta comunicazione nel mondo, e dunque, visto che l’obiettivo è stato completamente raggiunto, Signor Principale, le chiedo, possibilmente, di farmi andare, e lasciarmi finalmente morire.

Rossella Renzi : rossella.renzi@argonline.it

La vera scuola della vita L’educazione sentimentale, le asprezze della vita, i ritmi di una città e di un corpo sono alcuni dei temi de La ragazza Carla, tutti ineluttabilmente dominati dal lavoro

Una ragazza di diciassette anni e una città in pieno sviluppo industriale sono le protagoniste del poemetto La ragazza Carla, di Elio Pagliarani, pubblicato nel 1960, durante il boom economico nell’Italia del dopoguerra. Carla Dondi viene assunta al suo primo impiego come stenodattilografa, presso la Transocean Limited Import Export Company, all’ombra del Duomo di Milano. È impreparata, ingenua e sensibile, ha le idee poco chiare e appare disarmata, quasi schiacciata dalla durezza delle regole che le vengono imposte il suo primo giorno di lavoro.

Scrive Pagliarani: Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro sia svelta, sorrida e impari le lingue le lingue qui dentro le lingue oggigiorno capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED qui tutto il mondo… Ma queste sono le regole della vita, vanno rispettate come le ordina la madre: se anche qualcosa non dovesse andarle bene, Carla non lascerà l’impiego


finché non ne troverà un altro. La stessa madre la persuade a mangiare di più, perché ora che lavora, ne ha diritto, molto di più. Diritti e doveri, dunque, durezza e bellezza: il lavoro è vissuto nei suoi aspetti di costrizione e alienazione, insieme alle possibilità di emancipazione che offre. L’impegno quotidiano è pesante, le leggi dell’ufficio sono dure e inflessibili, ma Carla ne resta completamente coinvolta e forse affascinata, al punto che una voce fuori campo, quella del narratore, attraverso lo sguardo assorto del personaggio, sussurra: Sono momenti belli: c’è silenzio e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli quella gente che marcia al suo lavoro dritta interessata necessaria che ha tanto fiato caldo nella bocca

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E poi c’è Milano, che nel testo risulta fatta «veramente di parole, cioè di un tessuto sintattico studiato sul vero», come afferma Franco Fortini nella preziosa introduzione alla raccolta delle poesie di Pagliarani, curata da Andrea Cortellessa. La città è avversa e imponente, con i suoi casermoni e le targhe d’ottone ai portoni, col suo «cielo colore di lamiera / sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa», con la gente in piazza Duomo a tutte le ore, con il fermento nei

capannoni Pirelli, alla Montecatini, alla Banca Commerciale… È una creatura concitata e vivace, fatta apposta per stordire e confondere chi è fragile e confuso; per questo è l’antagonista di Carla. Il lavoro scandisce il ritmo della città e la vita della ragazza: il luogo in cui esso si svolge diventa per Carla luogo della sua educazione sentimentale, dove impara a diventare donna: «negli uffici s’imparan molte cose / ecco la vera scuola della vita». Qui la giovane deve affrontare le tentazioni, gli equivoci, gli inganni, come gli occhi acquosi di Praték, il capoufficio, che le si avvicina sudato con le mani pelose. Il suo impiego sembra determinare persino il ritmo del suo corpo, così «a fine mese sangue / maculato tra le gambe pallide / la fa tremare sempre, e Praték quando / la chiama nel suo ufficio per dettare». Carla è talmente integrata in quel meccanismo, che l’assenza del lavoro, ad esempio di domenica, la fa sprofondare in un abisso. Così, in esergo al poemetto, scrive Pagliariani: Un amico psichiatra mi riferisce di una giovane impiegata tanto poco allenata alle domeniche cittadine che, spesso, il sabato, si prende un sonnifero, opportunamente dosato, che la faccia dormire fino al lunedì. Ha senso dedicare a quella ragazza questa “ragazza Carla”?

Valerio Cuccaroni : valerio.cuccaroni@argonline.it

La grande rivolta I diritti dei lavoratori sono la conquista di una lunga stagione di lotte, oggi messa ferocemente in discussione. Chiediamoci il perché con i visionari Volponi e Balestrini Arrivarono dal mezzogiorno d’Italia, dal caldo, a migliaia, a lavorare nelle fabbriche del settentrione, al freddo. A partire dagli anni cinquanta del Novecento, con la ricostruzione e la completa industrializzazione della penisola. «Mentre prima era tutto il contrario. Prima, i braccianti dovevano restarsene contadini si doveva tenerli tutti legati alla terra. I lavoratori del sud dovevano essere tenuti legati al sud», scrive Nanni Balestrini nel romanzo sperimentale Vogliamo tutto, pubblicato da Feltrinelli nel 1971 (i romanzi di Nanni Balestrini sono consultabili sul sito www.nannibalestrini.it/libri.htm). Perché, allora, ad un certo punto li hanno chiamati al nord? Perché negli anni cinquanta, «nel nord Italia e nell’Europa le fabbriche erano pronte […] per ricevere


Roy Menarini : roy.menarini@fastwebnet.it

Tempi Moderni (tit. or. Modern Times, USA, 1946) di Charlie Chaplin Non si è parlato abbastanza del titolo, Tempi moderni. Già, ma quali? Prima lettura: quelli che Charlot attacca, disgustato dalla orrida macina fordista dei lavoratori e della tecnica. Seconda lettura: il cinema sonoro, altrettanto detestato da Chaplin che pure riuscì a farne uso in maniera originale e mirabile. Terza lettura: è Chaplin a incarnare i tempi moderni, dichiarazione di assoluta, ancorché ampiamente condivisibile, superiorità. Non è dunque un caso che la sequenza centrale del film, ovvero quella più citata e ammirata, riguardi la macchina del cibo. Come dar da mangiare agli operai senza che perdano tempo? Ecco la tecnica che soccorre la tecnica. Se già l’uomo è asservito alla macchina – e il comico di Chaplin, seguendo Bergson (cfr. Le rire, 1901, trad. it. Il riso N.d.R.), rovescia il senso della macchina, assomigliandole – allora bisogna che anche la manutenzione dell’uomo avvenga accettandone la trasformazione in oggetto. Nessuno al cinema aveva mai dato una enunciazione così concreta al pensiero marxista. Chaplin sapeva che non si sarebbe data necessità di costruzioni testuali particolari o di discorsi plateali. La modernità è comica di per sé: tragica in quanto sfrutta l’uomo ma comica a guardarla funzionare. Una risata macchinica li seppellirà. La funzione del comico in questo caso non è dunque ribaltare il segno del serio, trasformandolo in faceto. È far emergere il ridicolo del senso moderno. Il vero moderno è Chaplin, amato dai surrealisti e dai comunisti europei. La modernità della fabbrica è il volto pittato del grottesco che si finge unico mondo possibile. Mangiare, dunque, mangiare con calma per non diventare esseri artificiali. Come si mangia è più importante del cosa si mangia. Come si ride è più importante di che cosa viene considerato degno di una risata.

tutta quella massa di gente. Gli servivano tutti adesso per le catene di montaggio alla Fiat e alla Volkswagen». I treni, oltre ai pezzi per assemblare le carrozze, i binari, le auto, gli elettrodomestici, cominciarono così a trasportare anche gli aspiranti assemblatori, gli uomini destinati a ricomporre quei pezzi in alienanti catene di montaggio. Ma questo è un fenomeno che ha radici lontane, risale all’unità d’Italia. È stato Paolo Volponi a restituirci una delle visioni più agghiaccianti dell’esodo degli italiani del sud. Ne Il sipario ducale, romanzo pubblicato da Garzanti nel 1975, il protagonista, Gaspare Subissoni, un vecchio anarchico rifugiatosi a Urbino, si scaglia a più riprese contro l’Unità d’Italia, che secondo lui «ha spappolato e smidollato il Sud con cent’anni di razzia di schiavi peggio che non abbiano fatto in mille anni i saracini» (Paolo Volponi, Il sipario ducale in Id., Romanzi e prose, vol. II, Torino, Einaudi, 2002, p. 187). La migrazione assume però dimensioni colossali, paragonabile a quelle di un’orda di formiche fameliche, solo negli anni cinquanta, con il proliferare di nuove industrie e l’industrializzazione della campagna. I partiti politici, racconta Balestrini in Vogliamo tutto, la Dc come il Pci, dicevano che «per il progresso del mezzogiorno bisognava lavorare», che «per una nuo-

va dignità umana bisognava produrre», che «ci voleva un nuovo sud lo sviluppo pane per tutti lavoro per tutti eccetera», mentre invece quello fu «il via all’emigrazione il segnale che tutti dovevano partire su per le fabbriche del nord». Ecco come è nata l’Italia contemporanea, come si è sviluppato il lavoro, come hanno potuto le macchine invadere le città dell’uomo, accelerare i trasporti e i consumi. Ma oltre a quintali di carne i treni italiani hanno trasferito al nord anche spiriti, memorie, intelligenze. E proprio a uno di questi spiriti, uno dei più ribelli, uno dei più rivoltosi, dà voce Balestrini in Vogliamo tutto. L’eroe di questo romanzo epico si trasferisce dal sud, da Salerno, al nord, prima Brescia poi Torino, per lavorare, ma già al momento di partire si accorge che «Per le assunzioni in fabbrica ci voleva la raccomandazione. Questi campagnoli portavano il prosciutto al deputato. Portavano olio vino e tutta questa roba qua e così andavano a lavorare. Riuscivano a trovare il posto solo in questo modo qua. […] Anch’io riuscii a trovare il posto perché c’avevo uno zio». Inizia così una serie di peripezie, che portano l’eroe a prendere consapevolezza della propria condizione di operaio e ad esercitare la memoria, a conoscere la storia, «queste cose qua che erano successe», che


l’unità e il collegamento degli operai fra loro», basta sostituire la parola «operai» con telefoniste, magazzinieri, aspiranti giornalisti, o meglio con l’onnicomprensiva lavoratori e si capirà perché i responsabili dei call center non consentono alle telefoniste di andare in pausa in gruppi nutriti, perché ai magazzinieri cambiano continuamente i turni, perché sottopongono gli aspiranti giornalisti a un turn over massacrante, perché ai lavoratori non vengono più rinnovati i contratti: se potessero socializzare, incontrandosi, restando nello stesso luogo di lavoro a lungo, si collegherebbero, troverebbero l’unità a partire dal proprio comune disagio. E, forse, scatterebbe la grande rivolta. Ma a guardare le cose da un altro punto di vista, quello di Bruto Sarracini, il «dirigente di seconda fascia della Direzione Generale del personale», il riformista protagonista de Le mosche del capitale, romanzo pubblicato da Paolo Volponi nel 1989 per la Einaudi, a guardare il mondo con gli occhi di Sarracini potrebbe

petra raffaelli

prima non sapeva, «imparate poi nelle discussioni coi compagni». Dopo i grandi scioperi che nel 1968 scossero la Fiat Mirafiori, dove nel frattempo si era trasferito, il nostro eroe decide di «piantarla lì per sempre col lavoro». È la fine della sua epopea, annunciata sin dalla prima pagina del libro. Dopo aver lottato per avere un posto di lavoro, per essere pagato, il nostro eroe può affermare con sicurezza: quando la gente «non ne può più» di «tutte queste storie del lavoro su o giù che c’è o che non c’è e è sempre una fregatura», «si comincia a capire che l’unica è bruciare tutto». E profetizza: «succederà dappertutto tra un po’ quando saremo pronti. Che poi cambieremo tutto qua finalmente. Li manderemo a fa ’n culo tutti quanti loro e il loro lavoro di merda». È una scelta estrema maturata dopo aver riflettuto, fra l’altro, su che cos’è il salario: «il padrone divide il salario che dà all’operaio […]. La prima parte che è la paga base corrisponde alle ore di lavoro che ha fatto nella fabbrica. Questa che dovrebbe essere l’unico salario è invece sempre molto bassa cioè non basta mai al minimo vitale dell’operaio. Così poi c’è l’altra parte del salario che è la così detta parte variabile. Nella parte variabile ci possono essere diverse voci premio di produzione premio di assiduità cottimo indennità varie eccetera. Tutte queste voci servono solo per legare il salario dell’operaio alla produzione del padrone. Cioè il cottimo per esempio è la paga per il numero di pezzi che l’operaio produce. Perciò l’operaio deve stare sempre zelante e obbediente agli occhi dei capi. Perché loro stabiliscono questa parte variabile del salario che gli è assolutamente indispensabile per vivere». Il nostro eroe, che ormai abbiamo capito essere il prodotto di una fusione fra il colto e razionale autore (Nanni Balestrini) e una figura selvaggia e sanguigna della sua fantasia, si oppone a questa logica, scoprendo che «il lavoro è l’unico nemico è l’unica malattia», provando «odio […] per questo lavoro e per i padroni che ci obbligavano a farlo». Ma il lavoro di cui parla Balestrini è il lavoro operaio, che le lotte dei lavoratori sono riuscite a rendere meno disumano: che cosa può dire ancora un libro che parla di eroici operai alle telefoniste, ai magazzinieri, a chi lavora a progetto negli uffici? Non molto a leggerlo così, di primo acchito. Si prova addirittura un certo fastidio. Ma poi, quando si rilegge, quando si riflette, proprio come fanno l’autore e l’eroe di Vogliamo tutto, si scopre che in una riga come questa «l’arma più potente per rendere inefficace la repressione è proprio


nascere il dubbio che la rivolta non basti. Quando «la grande città industriale che si estende per tutta la pianura […] riempie la notte», quando «quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol», sedati, «e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi» (Paolo Volponi, Le mosche del capitale in Id., Romanzi e prose, vol. III, Torino, Einaudi, 2003, p. 7), immagine perfetta dei giorni nostri smemoratissimi e perduti dietro ai lavoretti, la rivolta, ormai dimenticata, non può neanche nascere. E allora, bisogna svegliarsi. Bisogna ritornare all’inizio. Bisogna prendere coscienza. Guardare in faccia chi ci comanda, chi ci governa, come ne Le mosche del capitale Bruto Sarracini guarda il presidente dell’impresa per cui lavora, Nasàpeti, «capace di comprendere assorbire e far sparire qualsiasi cosa, vere e proprie enormità catastrofi destini imprese» (p. 13). Bisogna innanzitutto fissare lo sguardo, farlo penetra-

re sin dentro le stanze dei bottoni, sin dentro il letto di morte dei potenti e osservare cosa succede subito dopo il decesso: Sommersi Cocchi, nominato dal presidente amministratore delegato, «cominciò, tremando a chiudere e a radunare ogni cosa significativa e segreta, da togliere e nascondere» (p. 338). Questi segreti che Cocchi si affretta a far sparire, però, sono conosciuti da Sarracini. E Sarracini altri non è che un alter ego di Paolo Volponi, dirigente responsabile del personale alla Olivetti negli anni sessanta, poi, dal 1972 al 1975, consulente della Fiat. Svelando ne Le mosche del capitale i segreti che Cocchi si affretta inutilmente a nascondere alla fine del romanzo, Volponi ci ha narrato dal suo punto di vista come negli anni settanta l’industria italiana si sia venduta alla finanza e alla politica, come sia iniziato il nuovo ciclo di produzione, il cosiddetto tardo capitalismo, fondato sullo smembramento delle grandi industrie e la soppressione dei diritti dei lavoratori.

Strebenstrasse (Nico)

Il lavoro nobilita chi non ce l’ha Cominciamo pure dalla fine: Op 1 juni 1980 gaat de fabriek dicht. June 1, 1980 the factory closet down. La fabbrica in questione è – o meglio era – la Van Gelder, cartiera situata a Wormer, piccola cittadina alle porte di Amsterdam. Nata come un laboratorio, chiamato De Eendracht (‘l’Unione’), nel XVIII secolo, divenne nel corso di quello successivo un impianto industriale capace di dar lavoro a quasi la metà degli impiegati nel secondo settore in città. Impresa in espansione, fino a diventare una delle più grandi cartiere olandesi, con numerose filiali. Durante la seconda guerra mondiale venne difesa dagli operai che rischiarono la vita, sabotando i macchinari, salvando così la ‘loro’ fabbrica dai Tedeschi intenzionati a smantellarla e trasferirla in Germania. Finita la guerra l’attività riprese a pieno regime e lo stabilimento arrivò ad avere impiegate più di 700 persone. Nel 1963 cominciò pure la lavorazione dell’amianto, dapprima in piccolo, ma a partire dal 1970 su vasta scala e la produzione di fibrocemento (meglio cono-

sciuto col nome commerciale di eternit) come termoisolante divenne in breve tempo la maggior fonte di profitto. L’anno decisivo per le sorti della Van Gelder di Wormer fu il 1972 quando il 51% del pacchetto azionario finì nelle mani della multinazionale americana CrownZellerbach. Di lì a poco risultò chiaro come sarebbe andata a finire: nessun investimento se non a parole (l’ultimo macchinario istallato risaliva al 1957 e in funzione ce n’era persino uno del 1911), niente ricerca su nuovi materiali, utili prodotti dallo stabilimento ripartiti tra gli altri controllati dalla Crown-Zellerbach in Olanda e negli U.S.A., nessuna informazione sui pericoli dovuti all’amianto. Non servirono a nulla interruzioni del lavoro, petizioni, scioperi, l’interessamento di tutta la comunità di Wormer (dai negozianti ai partiti, dalla chiesa al comune, dalla provincia alla camera di commercio). La decisione era stata presa. Il primo giugno la fabbrica chiuse. Così, laconicamente, si chiude il libretto di Dignity of


cartiera, che in otto pezzi, chiamati tutti sucked out chucked out e distinti da un numero progressivo da 1 a 8, ne ripercorre gli “ultimi momenti”: l’entrata in gioco della Crown-Zellerbach (an american wolf in paper-clothes) con le sue promesse (management? / know-how?), le sue bugie (time for a board announcement / time for the next lies), le sue raccomandazioni (but please do not strike / it give our factory / a real

sergio frassanito

labour, album dei The Ex, uscito nel 1983. Nati nel 1979 come band anarcho-punk in seno agli squat di Amsterdam, i The Ex approdano negli anni a una personalissima miscela di noise, folk, musica etnica e jazz, basata su intrecci di chitarre dissonanti e fortemente ritmiche, una batteria vicina ai ritmi africani e il cantato di G. W. Sok. Ventisette anni di carriera caratterizzati da due elementi principali: l’au-

toproduzione e l’estrema apertura del gruppo. Fin dagli esordi, infatti, i loro dischi risultano un significativo esempio per i circuiti musicali alternativi per il modo in cui le registrazioni vengono realizzate, prodotte e distribuite dal gruppo stesso, aggiungendovi preziosi booklet (su tutti quello di 1936 – The spanish revolution, creato col supporto del sindacato anarchico CNT) e poster. L’altro carattere peculiare dei The Ex si manifesta da un lato in cambiamenti di line-up frequenti ma mai traumatici e dall’altro da una serie pressoché infinita di collaborazioni (per citarne solo alcune: il violoncellista Tom Cora, Sonic Youth, il sassofonista etiope Getatchew Mekuria, Shellac, Fugazi, il cantante etiope Mohammed Jimmy Mohammed, Tortoise) e di progetti collaterali: su tutti meritano una menzione i Kletka Red. Ventisette anni altresì improntati ad un continuo impegno di denuncia sociale e azione politica come ben dimostrano il tour del 1984 a favore dei minatori inglesi che scioperavano contro le liberalizzazioni imposte dal governo Thatcher e, appunto, Dignity of labour, concept sulla chiusura dello stabilimento industriale di Wormer. Album, registrato presso le rovine dell’ex-

bad name), l’amianto (oh, by the way, it causes cancer / it causes cancer but never mind), lo scoramento degli operai (I remember me / saying once: // it’s not only the money / it’s the work / creating something / you’re attached to / […] and now / staring at the ruins), la dolorosa inutilità delle lotte contro la chiusura dello stabilimento (despite their devotion to the cause / they were just paper tigers all of them / they were about ten years too late / all these protests.), la rabbia impotente (what’s left of their responsability? // where are they now? / gone with the profits / it was all / a matter of marketing), le regole del mercato (this is the other side of the industrial revolution). Testi diretti si accompagnano ad una musica cupa fatta di secche linee di basso, un cantato al solito non-melodico, chita®®e come un marchio di fabbrica, batterie che si sdoppiano e, unico caso finora nella loro discografia, non-strumenti quali un motore di bus, un battipalo e una pressa per stampa, come da lezione industrial. Una musica in tutto crudele, senza mezze misure, senza ammiccamenti, che non può che essere ancora punk (in stretta relazione e in risposta all’amato-odiato no future) per raccontare la storia di un fallimento.


Chiara Paganini feat. Michele Pedrazzi : alicewhatstheweather@yahoo.it

Scurdammoce ’o passato Derive e approdi del canto sociale italiano

silvio berlusconi ai suoi esordi come chansonnier

«Compagni, avanti, il gran partito noi siamo dei lavoratori», come a dire: c’era una volta l’inno, c’erano una volta i lavoratori. Agli inizi del secolo scorso i braccianti nei campi si presentavano cantando («la falange noi siamo dei mietitori»), e cantando le tessitrici illustravano l’inizio della loro giornata lavorativa («presto compagne andiamo / il fischio già ci chiama»). C’era un noi-cantante («noi siamo i poveri, noi siamo i pezzenti», La Marsigliese del Lavoro) che si costituiva come soggetto a tutto tondo. Si cantava così perché si conosceva bene il proprio lavoro, per averlo vissuto e patito, e se per caso c’erano dei dubbi, lo stesso inno era lì apposta per fugarli («a mezzanotte in punto / si sente una tromba suonar: / sono gli scariolanti / che vanno a lavorar»). L’inno delimitava e rafforzava l’identità della categoria, creava senso di appartenenza e di autocoscienza. I lavoratori avevano creato l’inno, ma era poi l’inno a creare i lavoratori. Pratica strutturata e strutturante, l’inno di categoria era un piccolo condensato enciclopedico, che segnava l’estensione del gruppo («falciamo le messi a lor signori») e lo istruiva sulle questioni principali. E per la strada, inno degli scioperanti dei moti di inizio secolo, dello sciopero sintetizzava utilità

e insidie («e contro i scioperanti disarmati / s’avanzan sguainando gli spadoni»), mentre lo stesso inno degli scariolanti, in successive evoluzioni, si modifica e accoglie tra i versi vere e proprie istruzioni operative: «noi andremo a Roma / davanti al papa e al re / noi grideremo ai potenti / che la miseria c’è». Il soggetto dell’inno del lavoratore è delineato e agguerrito, è soggetto compatto anche in virtù di quel circolo retroattivo in cui il gruppo fonda la canzone e la canzone fonda il gruppo. Naturale che tale meccanismo si ritrovi poi alla base del canto militante durante le guerre. Il primo grande conflitto, poi il periodo del totalitarismo e la seconda guerra mondiale ridispongono violentemente i soggetti in gioco: il Noi ora è innanzitutto opposto all’avversario bellico. E dopo gli orrori della guerra, lo sguardo si vuole volgere altrove, soprattutto al futuro. Allora ritorna la canzonetta, e lo Scurdammoce o’ passato degli anni cinquanta incarna il desiderio di ripulire il ricordo doloroso, per fare spazio alla ricostruzione. È quindi solo negli anni ’60, col cambio generazionale, che riaffiora una coscienza politico-musicale simile a quella delle antiche leghe dei lavoratori. In Per i morti di Reggio Emilia (1960) Fausto Amodei


vuole rievocare e denunciare, e lo fa senza troppe metafore («A diciannove anni è morto Ovidio Franchi / per quelli che son stanchi, o sono ancora incerti»). Ma la tendenza è davvero trasversale, abbraccia anche il pop di Gianni Morandi (C’era un ragazzo) e l’Adriano Celentano del Mondo in mi settima: con gli anni ‘60 la canzone sembra davvero cercare una nuova presa sulla realtà. In O cara moglie (1969) Ivan Della Mea sceneggia il licenziamento nell’epoca dei colletti bianchi («proprio stamane là sul lavoro / con il sorriso del caposezione / m’è arrivata la liquidazione / m’han licenziato senza pietà»), mentre in Come potete voi giudicar dei Nomadi rappare l’esigenza di auto-definirsi («come potete voi giudicar / per i capelli che portiam?»). C’è di nuovo un Noi-cantante, che però sempre più spesso è

decade, quello di Forza Italia. Scritto da Anonimo Italiano e musicato da un musicista professionista dello spettacolo (Renato Serio), l’esperimento innografico di Berlusconi è coerente con l’intera strategia pubblicitaria del partito. Inno-jingle-suoneria, coro pop televisivo, esso è innanzitutto un inno assolutamente proiettato al futuro, al punto di dispiegare un’ideologia davvero scarna: libertà e crescita, da fare tutti assieme, non molto di più. Non c’è ‘lavoro’, non c’è ‘stato’, non c’è ‘rivoluzione’. C’è lo sprone verso un non meglio definito progresso, del cui processo di attuazione non si dà notizia. E attraverso frasi come «il futuro è aperto entriamoci», l’inno stesso diviene innanzitutto contenitore assolutamente disponibile ad essere riempito – a partire dal posto vuoto del soggetto enunciante. Il

un Io aedico. Entra in scena un raccontatore professionista, un artista organico che è sinceramente coinvolto dalla realtà, si fa voce di un malcontento generale. A gridare «compagni dai campi e dalle officine / prendete la falce e portate il martello» è ora un singolo osservatore (Paolo Pietrangeli in Contessa del 1966), che regala al gruppo il nuovo inno identitario. C’era una volta l’inno, abbiamo detto all’inizio, perché negli anni 2000 il canto sociale è in una nuova fase stagnante. Nel 2002, con Canto di rifondazione, Pietrangeli provava a ridare energia al genere, ma senza troppo successo. «Che l’uomo si liberi è il primo bisogno / ci sveglia la vita ci strappa dal sogno / e il profitto s’inventa lo schiavo globale / perciò è comunista l’impegno reale»: le immagini di Pietrangeli sono nette, i nuovi problemi sono ignorati, nel buon rispetto della tradizione del canto sociale. Che cosa allora non fa presa? Forse proprio la volontà di avere ancora ‘una certa presa’? «Forza alziamoci / il futuro è aperto entriamoci / e le tue mani unite alle mie / energie per sentirci più grandi». Andiamo allora a leggere il ‘grande’ inno dell’ultima

coro che canta, in fondo, è davvero un coro di Anonimi Italiani, che rimangono tali, assolutamente non identificati dal loro incontestabile desiderio di «essere liberi». L’Azzurra Libertà cantata nell’inno dei Giovani di Forza Italia è letteralmente poco più di un colore: «Dammi la mano, dai / e canta insieme a me / il cielo è dentro noi / azzurro più che mai». Il testo questa volta è ufficialmente di Silvio Berlusconi, che si permette di accennare maliziosamente a «campanili e giù / fino all’estremo sud» (ma dire “campanile” non è come dire “democrazia cristiana”), su cui il canto fiabescamente «vola», come in un sogno. Il nuovo fronte compatto è il fronte dell’‘inno onirico’. Il Pietrangeli che parla di ‘capitale’, di ‘profitto’, di ‘Internazionale’ non potrebbe essere più distante. L’inno degli anni 2000 non identifica più – lo stesso soggettocantante non riesce, non vuole più essere identificato. Potrebbe esistere oggi l’inno del co.co.pro, l’inno dell’impiegato del call-center? Come sposare l’idealismo del canto sociale con queste realtà? In quale gruppo agguerrito si dovrebbe riconoscere un web designer? Risulta allora emblematico che un inno come quello


di Forza Italia, un inno-contenitore pronto ad accogliere e a promettere libertà e progresso praticamente a chiunque, abbia avuto un tale successo, abbia avuto la ‘sottile’ capacità di fare sognare molte persone. D’altro canto (e letteralmente) risulta altrettanto significativo come un inno di vecchio stampo, che porta su di sé la lunga tradizione del canto di lavoro e del canto politico, non abbia avuto riscontro, non abbia trovato le ‘corde giuste’ per parlare al popolo italiano di oggi. Il Canto di Rifondazione appare anacronistico, incapace di riflettere la complessità del Paese all’interno del quale ci troviamo a vivere. Ci prova, l’inno, a dire che forse il cosiddetto ‘popolo italiano’ odierno è quanto mai sfaccettato e multicolore. Ci prova, a dire che fra i tanti lavoratori italiani ci sono molti lavoratori arrivati

presa. Il sentimento di appartenenza, l’adesione e la fede in un credo unitario, la possibilità di identificarsi (in una sfera ideologica come nel lavoro che si compie tutti i giorni) sono sentimenti e concetti in continua ridefinizione, che fanno parte di un processo di trasformazione esperito ad una velocità che sarebbe stata indecifrabile per quei lavoratori di inizio novecento che legavano il loro lavoro al tempo ciclico delle stagioni. La musica può essere parte di un ‘costoso’ (in termini di energie, di sforzo intellettivo ed emotivo) processo di auto-consapevolezza, di un complesso meccanismo retroattivo per leggere le complessità del reale e da questa lettura trovare e dare strumenti per un cambiamento ‘sentito’ e di possibile condivisione. Ma può farlo solamente attraversando e lasciandosi attraversare clio

da altri paesi. Parla di profitto e, non a caso, dei nuovi «schiavi» globali. Ma non basta. La contemporaneità delle nostre vite in Italia non può più fare riferimento a configurazioni identitarie nette, a ideali all’unanimità, a ragioni e sentimenti collettivi condivisi e dispiegati come solo patrimonio di un popolo. Del popolo che vive all’interno dei confini nazionali. Nell’Italia di adesso, nell’adesso, c’è tutto il mondo. Molte persone che hanno la lucidità per poter leggere il presente ci parlano di fluidità, di dromocrazia (democrazia basata sulla velocità, N.d.R.), di indifferenza, di sradicamento, dell’estrema difficoltà del ridonare configurazione e senso a delle esistenze che hanno perso la stessa capacità di fare esperienza, di fare comunità. Comporre un inno che delinei un orizzonte di significato, un percorso culturale, se non una griglia di suggerimenti per un cambiamento politico ben definito, risulta nell’adesso un’operazione alquanto complicata, proprio perché si dovrebbe andare a lavorare su un sentimento di appartenenza ad un ruolo sociale (ad una categoria lavorativa, ad esempio) di difficile definizione, che sfugge a qualsiasi tipo di

da questa stessa complessità. E dove non è ancora possibile suono e dove non c’è parola, saper rispettare il silenzio. Arrancano i cantori, e tacciono i lavoratori. Ma forse è inutile affannarsi a cercarli avendo in mente un quadro di Pellizza da Volpedo. Il musicista capace di farsi tramite e di far risuonare alle nostre menti e alle nostre orecchie la complessità del reale c’è ancora, solo non chiamiamolo per forza ‘organico’. Allora per il momento scurdammoce o’ passato, se passato vuol dire avere per forza il ‘grande inno’: per essere tale l’inno oggi rischia l’anacronismo o, peggio, la deriva onirica. Non c’è una sola canzone, ce ne sono tante, e mentre le ascoltiamo, le cantiamo e le creiamo, possiamo provare ad allenare sensi e cervello a stare svegli, possiamo divenire capaci di scovare la ricchezza in questa complessità, imparare a custodirla, condividerla, trasfigurarla. Lavorare sul vuoto, partire dal silenzio, incontrare delle proposizioni nette sentite come necessarie. Ancora una volta provare a condividerle. Trasformare le molteplici linee di fronte in multiformi linee di orizzonte.


Lorenzo Franceschini : france.lorenzo@argonline.it

Il gesto che racconta una vita Intervista al fotografo Mario Dondero

mario dondero

Gli autobus sono in sciopero. Arrivo all’appuntamento un po’ in ritardo. L’uomo che devo intervistare è già lì: apro la porta e, appena entro, mi saluta – la voce calma, i gesti pacati – uno dei grandi Maestri del nostro tempo. Fotoreporter, inviato di guerra, e sodale di intellettuali e artisti di diverse parti del mondo, Mario Dondero, cordialmente, mi invita a seguirlo. «Dammi del tu», mi dice, «fa ridere che io ti dia del tu, e tu del lei!». Ci sediamo. E iniziamo a parlare. È sorprendente constatare la mole di cose che hai fatto, i paesi che hai visitato, le grandi perso-

nalità che hai frequentato… Beh, però ho vissuto anche tantissimo, eh! È un itinerario molto lungo, e poi ho cominciato presto. Sono andato in montagna dai partigiani che avevo sedici anni, lo sai?, sono entrato subito nella vita pratica, diciamo. Il giornalismo per esempio l’ho iniziato intorno agli anni cinquanta, ero cronista di «Milano Sera» nel ’51 e poi sono passato a «Le Ore». Ho imparato a far le foto come si impara la stenografia, come si impara l’inglese: come perfezionamento nella professione del giornalista. Poi invece ho scoperto che fare il fotografo era un’esperienza ricca e interessante, e che poi ti permetteva un’autonomia molto grande, cosa che invece per un cronista è impossibile.


Diciamo che ho sempre fatto il reportage… non sono specialista di niente, per intenderci. Adesso in questo mestiere si usa specializzarsi in una cosa, io trovo che invece nell’attività del fotografo è interessante occuparsi di tutto, di molto, perché la vita degli uomini è interessante, e poi fotografare è un’esperienza

con un punto di vista critico, insomma. Critico soprattutto delle condizioni di pericolo i cui vivono i lavoratori. Il filosofo Giorgio Agamben parla di te nei suoi scritti (Profanazioni, Nottetempo 2005; si veda

mario dondero

sempre intensa e ricca; e invece, quando tu sei specializzato, spesso ti inaridisci, perché il tuo lavoro diventa retorico. E insomma, in fin dei conti ho sempre fatto il reportage in modo antropologico, ecco. Hai fatto molte foto sul lavoro. Cosa ti ha spinto verso questa tematica? Beh, ovviamente il lavoro è un momento capitale dell’esistenza degli uomini. Il lavoro mi ha sempre interessato; tra l’altro fotografare il lavoro non è una cosa di tutto riposo perché bisogna essere il meno retorici possibile, raccontare le cose come stanno, cioè, magari rilevare quello che dovrebbe essere corretto… io mi sono sempre interessato al lavoro

anche il saggio L’Io, l’occhio, la voce, in La potenza del pensiero, Neri Pozza 2005). Ho avuto una conversazione con lui al museo d’arte moderna di Parigi. Mi attribuisce una qualità di immagine che racconta le cose. Mi lusinga molto quello che dice. Nelle foto che dedichi al lavoro, immortali le azioni che i contadini, gli operai, i minatori compiono quotidianamente. Questi gesti racchiudono intero il senso di una vita, hanno una “natura escatologica”, direbbe Agamben. In teoria, quando si fotografa è importante il contatto con la situazione che incontri. Se tu fotografi molto


e passi la vita a fotografare, hai una gran rapidità di esecuzione, cioè una capacità di captare un momento preciso e significativo anche nella gestualità delle persone, che magari altri non possiedono. Comunque, quello che mi interessa è essenzialmente l’interiorità delle persone, il loro significato come esseri umani, insomma, ritengo che il contenuto delle fotografie sia capitale, che le fotografie raccontino in profondità quello che accade: chi sono le persone che vivono, cosa fanno. Il ruolo del fotografo è raccontare con grande lealtà e verità, che è già difficile. Forse una piccola qualità che posso rivendicare è una non sofisticazione delle fotografie, il non manipolare le cose per condurle verso obiettivi precisi, raccontare la verità, ecco. L’elemento ‘verità’ mi sembra l’elemento primordiale del reportage.

mario dondero

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In questo numero di “Argo” parliamo molto di precariato. Se tu dovessi raccontare il precariato con una foto, come faresti? Tradurre in una foto il precariato sicuramente è possibile… lo si può fare anche con il soccorso della parola… ecco, adesso che qualcuno sia impiegato ad interim o sia impiegato fisso non è che si veda facilmente in una foto. I lavori precari oggi sono tantissimi. Oltretutto non si sa assolutamente qual è la forma ideale di lavoro, perché ci sono dei lavori fissi che sono talmente mal pagati che sono quasi repellenti. I francesi piuttosto che “precario” usano il termine “intermittente”, che indica una forma di attività amata da persone, per esempio, che non hanno voglia di essere legate vita natural durante ad una professione. È una cosa che si avvicina al modello americano.


Il mondo americano è fatto appunto di gente molto provvisoria che vuole guadagnare rapidamente per poter scegliersi il lavoro e cambiarlo per non cadere nella monotonia della continuità. Comunque con la fotografia c’entra fino a un certo punto. Il fotografo fotografa tutto quello che gli sembra interessante, in modo autonomo. Magari fotografa e in seguito medita su quello che ha fotografato, perché non è detto che tutte le foto siano ben riuscite e abbiano un grande significato. Su certi temi complessi la didascalia può stravolgere il significato, le parole che accompagnano le foto sono importanti. Ho notato che i lavori che hai fotografato sono perlopiù legati al mondo rurale o alla fabbrica, o alla miniera, anche… ma mai a un lavoro d’uffi-

cio, per esempio. Mmm… beh, uno quando pensa alle foto di lavoro pensa ad Eisenstein, pensa al grande cinema sovietico, pensa ai film francesi, pensa a tutte queste cosa dove c’è un’affascinante retorica del lavoro, insomma, e naturalmente i marinai, come gli scaricatori di porto, come i minatori, sono un campo operativo per un fotografo sicuramente più affascinante che il grigiore di un ufficio. Comunque ci sono sempre le facce degli uomini, che sono importanti per raccontare la vita, anche degli impiegati, per dire. Ogni foto tende a documentare, a raccontare una situazione. Sarebbe assurdo che categorie immense di lavoratori non venissero raccontate perché il loro lavoro non è così suggestivo come quello di altre categorie.

Joshua Ferris

E poi siamo arrivati alla fine

(tit. or. Then We Came to the End), Milano, Neri Pozza, 2006 Il settore creatività di un’agenzia pubblicitaria di Chicago vive giornate agitate. Il mercato ha una flessione e si profila una serie di ‘voli della spagnola’, ovvero licenziamenti: chi non fa centro con il concept rischia grosso. La bolla speculativa della New Economy è al collasso e anche sul Magnificent Mile, sulle sponde del lago Michigan, la congiuntura negativa inizia a fare vittime tra i lavoratori. Questo è il rumore di fondo in cui è immerso un gruppo di lavoro, il Noi narrante di questo romanzo; in primo piano, storie su storie, e pettegolezzi di colleghi che non possono non osservarsi continuamente creando un’intrigante selva di comunicazione. Una commedia umana in cui ogni evento si rivela solamente tra le pareti dei cubicoli, tra uffici e riunioni, stampanti, scrivanie e pause caffè, nelle mail e nel reboante circo delle voci di corridoio. I due piani del grattacielo che ospitano l’agenzia sono il palcoscenico della vita del gruppo. Il ritmo della pagina è quello della giornata lavorativa: ore di vuoto a cercare un’idea per lo slogan subito spazzate via da Marcia Dwyer che passa per il corridoio con una storia da raccontare. L’ambiente lavorativo ha sostituito la casa e impone un collettivismo forzato in cui si incrociano esistenze, sogni, meschinità, manie e insofferenze. Il ritmo dell’esistenza diviene incerto e sospeso come un posto di lavoro quando il lavoro scarseggia. Basta infatti scendere di un piano e andare al 59° per trovare “una città fantasma” di cubicoli vuoti e uffici abbandonati da persone non più utili alla causa. Ma è sufficiente risalire per incontrare il logorroico Jim, o Larry che prepara la campagna sull’herpes o per rituffarsi in Photoshop o Quark-Xpress, ignorando il fantasma di Ralph Waldo Emerson che sussurra: «Non è la disgrazia peggiore del mondo non essere un elemento a sé», oppure «Lasciate che un uomo sappia ciò che vale e tenga i piedi per terra». In questa divertente carrellata di caratteri c’è sempre chi viene a conoscenza per ultimo delle cose, chi movimenta la vita dell’ufficio con scherzi idioti, chi vive l’angoscia del licenziamento. Ma c’è una cosa che tutti sospettano, di cui tutti parlano ma che nessuno sa con certezza. Il capo sta male? Alcuni sostengono che Lynn Mason abbia un brutto male, che Tom Mota (vedi Bukowski, Post Office) stia preparando una vendetta per il suo licenziamento, squilibrato com’è. Ma soprattutto: «Dov’è finito Joe Pope?». Felice romanzo d’esordio di Joshua Ferris, giovane autore statunitense, E poi siamo arrivati alla fine è la prima uscita della collana Bloom (Neri Pozza). Libro gradevole, contemporaneo, di buona pasta.

Tommaso Gragnato


Michela Murgia : michelamurgia@interfree.it

Pari Opportunità

già consapevoli che uno di voi due non potrà essere assunto alla ThinkOpen, nonostante abbiate entrambi dei curriculum molto interessanti per la mansione che cerchiamo..».. Il cristallo del ripiano della scrivania crea la surreale impressione che la signora sia immersa in un acquario dalla vita in giù. Mentre Sara cerca di darsi un’aria consapevole, l’uomo sembra invece pienamenjg / nieva

Sara accavalla le gambe lasciando salire di due dita la gonna azzurra sul ginocchio, velato da una Philippe Matignon da occasioni speciali. L’uomo davanti a lei non dà cenno di essersene accorto, gli occhi e le dita fissi sul portatile che tiene in equilibrio sul bracciolo della poltroncina. La sala d’aspetto è in tipico lounge style con carta da parati grigio minimale, ficus benjamin e riviste ancora cellofanate nel portagiornali. Lei frena la tentazione di estrarre il cellulare per distrarsi dalla tensione. Non ha altro diversivo che l’uomo dinanzi, la sua camicia rosa pallido, la linea precisa di una mascella ben rasata. L’uomo alza gli occhi dallo schermo, scoccandole una muta domanda fredda. Colta in fallo, Sara abbassa lo sguardo sul pavimento di marmo lucido. Fine del diversivo. La porta si schiude all’improvviso. L’uomo ripone il portatile con composta rapidità, mentre Sara si alza obbedendo a un automatismo infantile: porta-che-si-apre = bambini-in-piedi. La gonna torna al suo posto, lasciandole la sensazione che alla fine lo facciano tutte le cose, basta fare il movimento giusto. «Perdonate se vi ho fatto attendere, signori..».. Chi li accoglie è una donna, una bella mora di una quarantina d’anni, il viso elegante e particolare di chi non ha ancora ceduto alle lusinghe del botox. Fa loro strada nell’ampio ufficio, aprendo meglio la porta a rivelare una scrivania con il piano di cristallo molato, con poche carte e nessun telefono. Sara si accomoda subito sulla sedia di destra, mentre l’uomo si impossessa dell’altra, senza però sedersi. «Mi chiamo Daniela Ingrani e sono il responsabile del reparto che offre il posto per cui vi siete presentati. Spero non sia un problema per voi sostenere il colloquio insieme. Devo farvi solo un paio di domande». L’esaminatrice si siede con grazia e solo quando si è accomodata si siede anche l’uomo. Lei sembra apprezzare la galanteria sorridendogli, mentre lui ricambia sornione. Sara coglie lo scambio in un nervoso silenzio. Allora li ha i denti, il bastardo. «Naturalmente sapete che il posto è uno, quindi siete

te a suo agio. «Signorina Demartis, perché ha lasciato il suo impiego precedente?».Sara se lo aspettava, non ci sono molti ottimi motivi per perdere un lavoro da 2500 euro al mese. «Volevo degli stimoli, non avevo prospettive di crescita. Lo stipendio è relativo, non mi aspetto necessariamente la medesima retribuzione». Tende la gonna con la mano, archiviando dietro quella verità alternativa i pizzicotti sul sedere, le palpatine furtive contro lo schedario, i pranzi di lavoro senza lavoro, il respiro denso di nicotina dietro la schiena, con la scusa di vedere un progetto sul suo schermo. Gli occhi della signora Ingrani si spostano sul suo nemico. «Signor Flavi, lei ha specificato nel curriculum che ha cambiato lavoro perché ha cambiato città. È un trasloco stabile?». Flavi non si scompone minimamente. «Sì, signora. Ero stanco della piccola provincia. Potete contare sulla mia serietà, so farmi ...apprezzare». Sorride guardando l’esaminatrice dritto negli occhi, mentre si distende sullo schienale della sedia con la mossa fluida di un felino sazio. Incurante di Sara, l’altro ci sta palesemente provando. La signora Ingrani sorride, squadrando le forme maschili segnate dal com-


pleto gessato. «Non stento a crederlo, signor Flavi. Ho sentito dire meraviglie sul suo conto..». Si volta verso Sara, perdendo quell’aria canzonatoria e complice. «Signorina Demartis, se trovasse un portafoglio con dentro mille euro e i documenti della persona che li ha persi, che cosa ne farebbe?». La domanda a bruciapelo lascia Sara spiazzata. Qualche istante le basta per formulare la risposta più consona. «Mi rivolgerei alla polizia consegnando l’intera somma e il portafoglio». «E lei, signor Flavi?». Lui sorride. Incredibile quanti sorrisi sfoggi da quando è entrato. «Dipende da chi lo ha perso. Se è una signora, cercherei di rintracciare lei direttamente... in questi casi di solito c’è una ricomjg / nieva

pensa». La Ingrani sorride di nuovo, evidentemente compiaciuta. «Ottima replica, una buona azione non necessariamente implica il sacrificio del proprio interesse». Sara nasconde lo sconcerto dietro una maschera di sereno disinteresse, mentre la sagoma dell’impiego va assottigliandosi man mano che il colloquio procede. Il feeling dell’esaminatrice con Flavi è palese. Ridono. «Signorina Demartis, se il suo datore di lavoro le fa un appunto brusco, lei come reagisce?». Insidiosa, dato che sta parlando di se stessa. «Porto a termine il lavoro e alla fine della giornata chiedo di poter chiarire». Gli occhi della Ingrani tornano volentieri a posarsi su Flavi, che commenta. «Non mi è mai capitato di subire rimproveri, nè giusti nè ingiusti. Dipenderà dal fatto che ho avuto sempre capi donne..». Sorride, allusivo. «Le signore hanno altri sistemi per farti notare le cose». Aleggia nell’aria il sottinteso evidente. Sara chiude gli occhi, rendendosi conto solo allora di avere le mani sudate per la tensione. È palese che non ci sia più confronto. «Bene, signori. Non credo che sia il caso di farvi perdere altro tempo. Per me il colloquio è soddisfacente

per stabilire il candidato ideale». Si alza, Sara e Flavi fanno lo stesso, lui elastico, lei come un automa. «Signor Flavi, con le sue competenze innegabili e la capacità di farsi benvolere che sembra una sua innata dote, sono certa che non faticherà a trovare facilmente altrove un impiego consono alle sue aspettative». Flavi resta interdetto. Lo stupore si disegna sul viso abbronzato, nemmeno si cura di controllarlo. Dura un istante quella nudità, prima che l’espressione sfrontata di poco prima sia nuovamente maschera efficace. «La ringrazio io, signora. Avrei voluto che mi desse l’opportunità di dimostrarle fattivamente quello che so fare, ma non metto in discussione la sua capacità di giudizio». Incassa con stile. «Complimenti, signorina Demartis». Si congeda rapido, prima di sparire in un giro di cardini. Sara non ci bada, ancora troppo sorpresa. Quando restano sole, la ragazza riprende consapevolezza piena, immobile e in piedi di fronte alla scrivania di cristallo. La signora Ingrani le sorride. «Può cominciare da lunedì, se per lei non è un problema». Naturalmente non lo è. «Signora, posso chiederle perché ha scelto me? Avevo avuto l’impressione che..». Il suo nuovo capo si avvicina. Non aveva notato che avesse quel profumo così dolciastro. «Il signor Flavi non era esattamente il genere di collaboratore che cercavo, perché avrebbe dovuto stare a contatto con me molto spesso e io non mi trovo mai bene con i maschi, sono così... invadenti. Non trova?». Le si fa più accosta, sorridendole. «Con le donne mi trovo molto più a mio agio, è una questione di indole. Anche chi l’ha preceduta era una ragazza, sa?». Imprevedibilmente, allunga una mano a sfiorarle la spalla della giacca, facendo il gesto di levarle un invisibile filo sospeso. Sara non si ritrae, gli occhi solo appena un po’ più duri. «Signora, se non sono indiscreta perché l’altra è andata via?» La signora Ingrani si allontana di qualche passo verso la porta, sottraendo lo sguardo alla sua vista. La sagoma snella e curata sosta sullo stipite, aprendola in chiaro invito. «Credo che... come ha detto lei?... credo che volesse degli stimoli nuovi e ritenesse di non avere molte prospettive di crescita. Opinioni». Sorride di nuovo stringendosi nelle spalle, prima di porgerle lo sguardo per l’ultimo evidente congedo. «L’aspetto lunedì alle 8, allora». «Ah... Sara. Mi chiami pure Daniela».


Lorenzo Franceschini

Uno sguardo ad altezza d’uomo Intervista allo scrittore Angelo Ferracuti

ms / nieva

Angelo Ferracuti (Fermo 1960) raggiunge nei suoi racconti una rara limpidezza d’espressione, che con forza e dolcezza sa rendere la misura di un’umanità che sempre ci sfugge, sfalsata dai miraggi di una “società dello spettacolo” che ben poco concede, tra i suoi afasici pigolii, alle poche voci ancora in grado di dire qualcosa. Dal suo ultimo libro, Le risorse umane (libro-reportage sul lavoro in Italia, edito da Feltrinelli nel 2006), prendiamo spunto per una discussione su lavoro e attualità. Ho amato molto il tuo ultimo libro, Le risorse umane (2006): mostra la condizione italiana in modo veritiero. Per esempio, gli operai che descrivi tu sono molto lontani da come me li immaginavo, più veri, appunto. È bello che un giovane come te riconosca un valore nel libro scritto da uno che è vicino ai cinquanta. Questo mi dà qualche speranza. Tra l’altro la vostra rivista

è molto bella, ricca, circolano dentro i suoi nervi scoperti tante illuminazioni. Io non sono un sociologo del lavoro, non c’è niente di specialistico in quello che ho scritto, mi considero solo un tramite tra le storie orali raccolte e un contesto di riferimento, poi ci ho messo qualche memoria di lettore, niente di più. Sono solo uno scrittore, un raccontatore di storie dal vero. Secondo me, quella che una volta pensavamo classicamente essere la classe operaia non solo non è scomparsa, anche se si è assottigliata numericamente (e qui penso alla forza lavoro delle industrie), ma si è trasformata nel suo corpo complesso: oggi è fatta di molti più lavoratori stranieri, che hanno una cultura diversa dalla nostra, stentano a trovare una rappresentanza, non sappiamo come si impattano con il mondo della politica come vivono le nostre città, cosa pensano di noi. Il problema è che questa nuova classe degli sfruttati – una specie di quarto stato multietnico stratificatissimo, pieno di giovani neo-laureati – è stata cancellata dai media sempre più blindati che


ne occultano la storia e le storie artatamente. Quindi è una cattiva prassi giornalistica la causa di questo oblio? Il lavoro è molto celebrato giornalisticamente, ma poco raccontato qui e ora, al presente nelle sue distrofie, anche perché è motore sensibile del conflitto sociale, che si tende sempre a spegnere in tutte le sue forme. C’è proprio un lessico che sembra impronunciabile fatto di pochi bastardi vocaboli: sfruttamento, neoliberismo, capitalismo selvaggio, precarietà, frustrazione sociale. «Tutto ciò di cui non si parla non è mai esistito» scriveva Oscar Wilde. Resta il fatto che dove la classe operaia c’è stata, ed era forte, radicata culturalmente, c’è ancora una memoria nel corpo sociale che determina nell’insieme una maggiore democrazia generale. C’è un rapporto sensibile tra lotta di classe e democrazia. La classe operaia italiana ha una grande storia politica e sindacale che ancora oggi è capace di agire sul pensiero politico, si pensi ai metalmeccanici della Fiom Cgil, o a quelli della Fim Cisl, che sono ancora avanguardia proprio nella qualità delle contrattazioni, nell’individuazione dei diritti, nelle lotte, in tutta la parte che riguarda le normative e le leggi. Sono i lavoratori che sentono sempre qual è veramente la posta in gioco e fanno lo sciopero spontaneo, qualcosa di rivoluzionario in tempi come i nostri dove c’è un forte immobilismo di pensiero e di azione politica, di stagnazione, e soprattutto di cultura individualista e neoliberista che per vent’anni ha agito sul corpo sociale. Da una parte la classe operaia, e dall’altra… A fronte di questo, c’è una classe imprenditoriale cialtrona, incapace di progettare lo sviluppo e di capire fino in fondo le trasformazioni. Incolta, arruffona, fatta solo di belle cravatte e di piagnistei sulla riduzione del costo del lavoro, delocalizzatrice e cinica. Ma quanto costa a noi cittadini italiani il Capitale? Quanto gli imprenditori investono davvero in azioni sociali? Quanto credono nel Codice etico, altra operazione di marketing, oppure nella Comunità? Pochi pezzi di capitalismo italiano detengono quantitativamente pezzi significativi di media, di squadre di calcio, di giornali, televisioni, banche, supermercati; tutto questo crea un consenso che si nutre di disinformazione, di sciocchezze. Perché in televisione l’approfondimento serio, il punto, dura dieci minuti e il programma d’intrattenimento o i reality ore intere? Quelle puttanate tipo L’isola dei famosi. Perché i palinsesti fanno così schifo? Tutto questo attiene a una idea di dominio. Nel piccolo schermo non c’è spazio per la verità, se non per riserve indiane come Report. Ripensare la televisione sarebbe il minimo necessario in un paese

civile. E su questo gli intellettuali dovrebbero spendersi, ma pochi lo fanno perché anche loro sono venditori di un prodotto, quello letterario, che senza l’alleanza con i media risulterebbe invisibile. C’è un vergognoso marketing anche degli scrittori, questo mi pare palese. Paradossalmente sono anche quelli che di più appagano i palati piccolo borghesi del popolo della sinistra. E più sono narcisi e spettacolari e più piacciono. Sempre parlando degli operai, nel tuo libro pensi al rapporto che intercorre tra lavoro e autodistruzione, «alienazione che produce alienazione». Mi pare una riflessione molto interessante, potresti parlarmene più approfonditamente? Qualsiasi lavoro è usurante ma anche straordinariamente capace di arricchire le persone di esperienza e di umanità. Noi siamo anche il lavoro che facciamo. È qualcosa che assorbe gran parte del nostro tempo. Certo i lavori più degradati e degradanti, non solo da un punto di vista fisico, ma anche morale-intellettuale, determinano non solo una miseria dal punto di visto economico ma anche da quello umano. C’è una perdita di dignità del lavoro perché il lavoro in sé, il luogo dove si compie, le condizioni, le regole che lo determinano sono disumane e avvilenti, impoveriscono da tutti i punti di vista. Questa cosa mi è apparsa visibile a Monfalcone, dove gli operai bengalesi non sanno nulla delle nocività con le quali hanno a che fare. Anzi, sono persino felici di stare in questo “eden” dove la precarizzazione li porta a cambiare sei, sette proprietà per un salario da fame, che per loro è già un passo avanti rispetto alla condizione da cui sono partiti. Credi sia un discorso che possa valere anche per altre realtà lavorative? Mi viene in mente l’edilizia, forse il settore più selvaggio, dove avvengono il maggior numero di incidenti e morti per una sorta di miscela esplosiva che ha a che fare col sommerso ma anche con la criminalità organizzata, e con la riduzione dei costi d’impresa, le esternalizzazioni, gli appalti degli appalti, una catena di passaggi di mano esplosiva, appunto. Salvare la pelle di chi lavora costa. In questo deteniamo primati mondiali, 1300 morti l’anno, quattro al giorno. Non ho mai sentito Luca Cordero di Montezemolo, per esempio, quel signore che brinda quando vince la Ferrari con sborate di champagne, parlare di queste cose. Quel narciso che si tocca sempre i capelli come fosse un eterno principe azzurro incoronato dalla ricchezza che possiede. I confindustriali mostrano un cinismo che fa un certo orrore e che offende la gente e la


dignità di chi lavora. La disumanità di queste persone dovrebbe essere un vero argomento di discussione, non trovi? L’ostentazione della ricchezza di quella che una volta si definiva “la razza padrona”, quella che in Sardegna non vuole pagare la tassa di proprietà delle superville, certi lordi individui come Briatore. Questa brutta finzione che li rende come delle macchiette, dai Lapo Elkann a tutta la famiglia Agnelli, dal Tronchetti Provera, fino all’imbarazzante famiglia Berlusconi, collusa con tutti i poteri più schifosi del letamaio italiano, dal fascismo di «Libero» e delle sue fogne feltriane e mussoliniane, al servilismo di un giornalismo padronale alla Belpietro, per non parlare di Ferrara, la disonestà intellettuale fatta persona e pensiero, il cinismo escrementizio. Solo la televisione, che è l’immondezzaio dell’Epoca, riesce a salvarli perché ne sono i padroni e i protagonisti. In realtà

rappresentano al meglio lo sterco vero di questo povero Paese. Provo nei confronti di questi “giornalisti” un ribrezzo infinito. Il numero 11 di «Argo» era dedicato alla follia. Questo al lavoro. Forse c’è una relazione non

premeditata tra queste due tematiche: il nostro obiettivo è fare di «Argo» un lavoro, e sono sei anni che lavoriamo a questa rivista senza essere pagati, con passione inesausta, ma ancora niente. Ti pare una cosa folle? [sorrisino un po’ insano dell’intervistatore] Il lavoro intellettuale nel nostro paese non è un valore sociale. Se pensi alla vertenza dei giornalisti che continuano a scioperare contro gli editori per rivendicare la dignità professionale e la libertà d’informazione, contro l’assoggettamento e la precarietà diffusa, capisci davvero cosa sta avvenendo non solo in Italia nel mondo dell’informazione globale. Gli editori vogliono e cercano solo recensori di merci, lavorano per l’inserzionista. Il mondo del giornalismo e della cultura è pieno di servi coscienti, pagati oro per le loro luride paginette. Più follia di questa? C’è il quotidiano che leggo, «il manifesto», dove sia il centralinista che il direttore percepiscono lo stesso misero salario militante. È scandaloso? Credo proprio di no. Ognuno di noi sa che la libertà ha un prezzo, ma che la libertà, quella vera, non ha prezzi. Mantenere uno sguardo ad altezza d’uomo e un’indipendenza ha dei costi umani altissimi che si scontano in tutta una vita. Non ci sono troppe scelte. Si può diventare servi, si può scegliere l’autocensura, e il mondo del giornalismo e della cultura di questo paese sono pieni di questi personaggi che viaggiano in businnes class, ma a quel punto si perde l’innocenza, il pudore, in definitiva la libertà e il potere bellissimo di esercitarla. Quindi scrivere – anche per «Argo» – è una scelta assoluta di libertà, e poter dire quello che si vuole senza freni. Io lo faccio per il «Diario», e mi ripaga di tutti gli sforzi. I guadagni saranno pure modesti, ma la mia anima è salva. Nessuno si è mai permesso di toccare una riga di quello che ho scritto. «Diario» è un settimanale libero dove chi scrive può esercitare la scrittura, distenderla in uno spazio anche lungo, capace di approfondire. È importante. Chiudere in poche battute un argomento importante è frustante, se non sei una firma rischi veramente di semplificare banalmente ogni cosa. Diventi uno che riempie un magazine solo perché l’inserzionista ha bisogno di associazioni di senso tra cronaca e pubblicità, e non ti permette mai una posizione eretica. Oggi un Pasolini o un Moravia, un grande reporter come Parise, non troverebbero uno spazio importante da nessuna parte. Le terze pagine sono scomparse, i recensori lavorano per la casa editrice di riferimento della proprietà. Gli argomenti non sono mai quelli dettati da una necessità sociale, ma organizzati proprio per aggirarne il portato di senso.


In quarta di copertina è riportata una tua frase, in cui dici che il lavoro «è il tema più rimosso di questi anni». Poi, durante il 2006, sono usciti numerosi libri sull’argomento. Cosa ne pensi di questa produzione? Credi possa servire a migliorare le cose? Ti sentiresti di darne un giudizio di carattere estetico? Sono usciti tanti libri che trattano il tema del lavoro, e questo è positivo. Tra i più belli i libri di Desiati, Vita precaria e amore eterno, un romanzo, e il racconto lungo Cordiali saluti di Andrea Bajani, per non parlare del caso letterario dell’anno di Roberto Saviano, che con Gomorra ha ridato dignità alla letteratura d’impegno, e direi anche alla letteratura tout court. Circolano le idee, gli immaginari, a questo serve il nostro

Cose trasparenti Lavorare in una fabbrica d’armi Cose trasparenti è un’opera di video arte che documenta la produzione d’armi in Italia. Commissionata dalla Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Trento, l’opera è stata esposta nell’estate 2006 all’interno delle rassegne Festival dell’economia e Cinema infinito. L’idea è nata da due ragazze del collettivo artistico Suzie Wong che hanno coinvolto il compositore di musica elettronica Wang Inc. (www.wanginc.it) e il video artista Yuri Ancarani (www.yuriancarani.it). Le riprese e il montaggio sono di Ancarani e hanno come soggetto la fabbrica d’armi vera e propria, le fabbriche dell’indotto che si occupano di fornire servizi quali bruniture, incisioni, produzione di proiettili e il banco di prova nazionale. Le fabbriche sono situate in Val Trompia, provincia di Brescia, capitale italiana della produzione di armi leggere, una tradizione manifatturiera che risale al XV secolo e che ricevette impulso dalla Repubblica di Venezia. Non è stato facile ottenere i permessi per

andrea marcellino

Andrea Marcellino: svincolato@email.it

lavoro. La mia impressione è che a fronte di questa produzione non si riescano a trovare veri interlocutori. Abbiamo votato il centrosinistra per superare la Legge 30, ma nonostante le manifestazioni in pubblico, anche dei sindacati confederali, è sempre ancora un tabù. Anzi, una certa stampa, nel trattare questi libri, e la cosa è stata massiccia, tende a neutralizzarne la portata riducendoli a fenomeno editoriale oggettivato, senza entrare mai nel merito delle denunce. Come a dire, qualcuno a livello di opinione se ne sta occupando, il problema è sentito, la società italiana ha degli anticorpi intellettuali, ma poi non c’è legislazione capace di invertire la rotta. La politica non ha ancora fatto scelte convincenti perché è difficile trovare una sintesi.

entrare, sopratutto per Yuri che ha dovuto lavorare il giorno del primo maggio per dimostrare di non essere comunista. Wang Inc. ha registrato i suoni prodotti dai macchinari adibiti alla produzione delle armi con i quali ha composto una colonna sonora fortemente ritmica, musica tecno, industriale nel vero senso della parola. Ne risulta un’opera documentaristica obiettiva che lascia spazio alla riflessione personale, le immagini e le musiche possono essere accolte in modo opposto, in una gamma di sentimenti che passa dall’esaltazione all’angoscia. Le interviste ai lavoratori impiegati nella produzione delle armi mettono in risalto il conflitto morale attraverso l’uso delle inquadrature. Un mezzobusto su sfondo nero per l’intervistato, sfondo che fa apparire in dissolvenza macchinari ripresi nell’atto di dare alla luce proiettili e componenti di armi da fuoco, frutto della più avanzata tecnologia metalmeccanica.


Natalia Paci : natpax@yahoo.it

Amarcord del diritto del lavoro Breve storia del diritto del lavoro, dagli inizi del secolo scorso, attraverso le tutele conquistate negli anni ’70, fino alla terziarizzazione degli anni ’80, le nuove co.co. co. e l’attuale fenomeno dei precari. «L’Italia è una Repubblica affondata sul lavoro» Art. 1 Cost. anno 2048

Il diritto del lavoro è un diritto in via d’estinzione, come il posto fisso e l’orso polare. Prima che scompaia del tutto lanciamo un SOS, raccogliamo testimonianze e foto, affinché continui a vivere non solo nei ricordi. Nascita e famiglia - Mamma Diritto privato, papà Stato e fratello Sindacato

La prima foto risale ai primi del Novecento, è in bianco e nero, rappresenta degli operai in tuta blu, in piedi in fila uno accanto all’altro a distanza ravvicinata, ognuno davanti alla propria macchina, ognuno indispensabile ingranaggio della catena di montaggio, della produzione in serie. Il contratto di lavoro era disciplinato in origine dal diritto comune dei contratti, cioè il diritto civile o privato, basato sul principio dell’uguaglianza delle parti, sul presupposto della loro uguale forza contrattuale e, quindi, sull’autonomia dei privati e l’astensionismo dello Stato liberista. Con l’industrializzazione, la nascita dell’impresa fordista e della produzione in serie, ci si è resi ben presto conto che il diritto privato era un diritto inutile per la nuova massa di lavoratori dipendenti, salariati, subordinati. Nel contratto di lavoro dell’operaio, infatti, le due parti del contratto non erano più sullo stesso piano e la loro uguaglianza giuridica formale si scontrava con un’ingiustizia sostanziale: il lavoratore, contraente debole allora come oggi, non ha forza contrattuale perché dal lavoro deriva il principale mezzo di sostentamento per sé e la sua famiglia; se perde il lavoro, in altri termini, avrà difficoltà a ritrovarlo e rimarrà per un periodo sempre troppo lungo senza salario. Al contrario, l’imprenditore datore di lavoro non ha difficoltà

a sostituire un dipendente e il suo venire meno non incide sui suoi profitti, ma comporta solo il ‘fastidio’ della sostituzione, almeno finché sarà così squilibrato il rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Da qui la necessità di introdurre un diritto nuovo, ad hoc, un diritto che fosse in grado di riportare il lavoratore-contraente debole ad un livello di parità. Il diritto del lavoro nasce, quindi, come un diritto diseguale, volto a proteggere non entrambe le parti del contratto ma solo quella bisognosa di tutela: il lavoratore subordinato, per il quale sono previste tutele minime imposte per legge, non derogabili dalle parti nel contratto individuale.


Lo sviluppo - Le contestazioni e le conquiste degli anni ’70 La seconda fotografia mostra una piazza gremita di operai e di giovani studenti con capelli lunghi che gridano qualcosa, parlano al megafono, sorreggono cartelli con varie scritte: meno capitale più lavoro!, viva l’unità operaia, ecc. Nel corso del Novecento lo Stato supera la sua iniziale posizione astensionistica e inizia ad intervenire a protezione del lavoratore. Nasce così la legislazione sociale in materia di orario di lavoro e di parità del

e disciplinare del datore (artt.1-7), il dovere di garantire la sicurezza sul luogo di lavoro anche attraverso rappresentanti sindacali (art. 9, ma compiutamente disciplinato solo nel 1994, con il decreto legislativo 626), ecc. Anche se lo Statuto dei lavoratori resta a tutt’oggi il testo fondamentale del diritto del lavoro, dagli anni ’70 in poi sono stati molti gli interventi volti ad adeguarne il contenuto alle esigenze del mercato del lavoro, sistema dinamico che cambia velocemente e che necessita aggiornamenti continui dello stesso diritto. Il mondo del lavoro, in effetti, è notevolmente cambiato e, soprattutto in seguito alla sua terziarizzazione,

lavoro delle donne e dei fanciulli, poi la disciplina previdenziale in materia di infortuni sul lavoro e di disoccupazione. Ma il diritto del lavoro resta in gran parte inattuato: tutele garantite sulla carta e non in concreto perché il lavoratore è lasciato in gran parte solo, il sindacato stenta ad imporsi e fatica ad entrare oltre i cancelli delle fabbriche, costretto spesso a cedere a tutele meramente risarcitorie. La svolta si ha con gli scioperi e le rivendicazioni dell’‘autunno caldo’ che hanno portato al riconoscimento dell’attività sindacale in azienda e delle principali garanzie del lavoratore sul luogo di lavoro, con il testo fondamentale del diritto del lavoro: lo Statuto dei lavoratori (Legge n. 300 del 1970). Siamo negli anni ’70 e con lo Statuto dei lavoratori e altre importanti leggi successive vengono poste le basi del diritto del lavoro: la giustificazione del licenziamento e la reintegrazione in caso di licenziamento illegittimo (art. 18), l’attività sindacale in azienda e la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro (art. 28), la limitazione del potere di controllo

sono nate e si sono diffuse nuove figure di lavoratori, ben presto definiti para-subordinati. La maturità – Dallo Statuto dei lavoratori allo Statuto dei lavori La terza fotografia trasmette la freddezza della geometria: da lontano assomiglia a un nido d’api, invece avvicinandosi e mettendo a fuoco si capisce che rappresenta la stanza open space di un ufficio, illuminato al neon, con una moltitudine di giovani lavoratori davanti alla loro postazione individuale costituita da un monitor e un telefono. Ecco la generazione dei call center. A partire dagli anni ’80 nasce il fenomeno dei lavoratori parasubordinati, anche detti co.co.co. (collaborazioni coordinate e continuative) e, di recente, ribattezzati co.co.pro., cioè collaborazioni a progetto: si tratta di lavoratori formalmente autonomi ma sostanzialmente subordinati, per la loro posizione subalter-


lo duro di tutele minime da garantire a tutti i lavoratori, autonomi, subordinati o parasubordinati che siano. Secondo tale progetto si sarebbe realizzato un continuum di protezione: da quella più intensa (e meno estesa) applicabile al lavoro subordinato, a quella meno intensa (e più estesa) applicabile alle tipologie di lavoro parasubordinato, fino ad arrivare a quelle di lavoro autonomo. Demenza senile - La flessibilità selvaggia e le liberalizzazioni: l’ipermercato delle forme contrattuali, il 3X2 dei diritti

giulia ferrandi

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na da un punto di vista soprattutto economico (per questo vengono definiti anche ‘lavoratori economicamente dipendenti’). Tali forme contrattuali sono state sempre più usate dagli imprenditori per aggirare le leggi protettive, per loro ben più costose, conquistate negli anni dai lavoratori dipendenti: la ‘parasubordinazione’ è stata una vera e propria alternativa per i datori di lavoro, ai quali ha permesso una facile, sebbene illegittima, fuga dal lavoro subordinato e un comodo ritorno al diritto civile. Usati quindi in forma impropria, tali contratti co.co. co. nascondevano, dietro un contratto formalmente di lavoro autonomo e quindi privo di tutele, lavoratori di fatto subordinati: ai due lati opposti di una stessa scrivania, di fronte due pc posti uno accanto all’altro di un call center, alle due casse di uno stesso supermercato abbiamo iniziato a vedere sempre più spesso lavoratori che svolgevano le stesse mansioni, con lo stesso orario di lavoro, con la stessa soggezione al datore di lavoro, ma con diritti completamente diversi. Uno, il lavoratore subordinato assunto a tempo pieno e indeterminato, con una tutela contro il licenziamento illegittimo, l’altro (co.co.co.) licenziabile in qualsiasi momento e senza motivo; uno con diritto alla conservazione del posto e della retribuzione in caso di malattia, infortunio, gravidanza e alla disoccupazione in caso di perdita del posto, l’altro senza nessuno di tali diritti; uno con il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e comunque sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), l’altro senza poter rivendicare nessuna retribuzione minima e neanche tredicesima e ferie pagate; uno con il diritto a svolgere attività sindacale in azienda, partecipare ad assemblee, a permessi retribuiti, a scioperi senza il rischio di essere licenziato, l’altro a niente di tutto ciò; e così si potrebbe continuare per tutti gli altri istituti del diritto del lavoro che, come visto all’inizio, è nato e si è sviluppato solo per il lavoratore subordinato e non tocca il lavoratore che subordinato non è. Di fronte al dilagare di queste figure professionali non tutelate, negli anni ’90, si è acceso un intenso dibattito tra gli studiosi volto a trovare forme di estensione delle tutele previste per i lavoratori subordinati, o di una parte di esse, anche ai lavoratori parasubordinati. In particolare, Treu e Biagi elaborano la «Proposta per uno Statuto dei lavori» che prevedeva uno zocco-

La quarta non è una fotografia, le foto iniziano a scarseggiare e, in un periodo storico in cui è la satira a fare informazione e contestazione politica, il suo posto è stato occupato da una vignetta che rappresenta un lavoratore piegato a metà con i pantaloni calati. Sotto c’è scritto: lavoratore flessibile. Al posto dello Statuto dei Lavori, invece, è stata emanata la c.d. Riforma Biagi (Legge n. 30/2003 ed il principale decreto legislativo di attuazione, il D.Lgs. n. 276/2003) che ha accelerato il percorso di smantellamento del diritto del lavoro e di progressiva scomparsa del lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infatti, per quanto riguarda la questione dei co.co.co., la Riforma Biagi ha previsto la loro trasformazione nel ‘lavoro a progetto’, nuovo contratto che lascia il lavo-


ratore in regime di autonomia e, quindi, senza estensione delle tutele previste per i lavoratori subordinati, salvo novità di poco conto. Qual è la novità, allora? la riforma non vuole estendere le tutele dei lavoratori subordinati ai lavoratori parasubordinati, ma punta ad evitare l’utilizzo fraudolento di tali forme contrattuali: in altri termini, assicura (o, meglio, vorrebbe assicurare), attraverso l’obbligo di realizzare un progetto, che i contratti co.co.pro. siano realmente tali e non nascondano, invece, lavoratori subordinati. Ovviamente, tale buona intenzione è nata sin dall’inizio con poche possibilità di successo, vista l’immediata

senza titolo, daniele pario perra 2006

corsa a correggerne il tiro attraverso l’ammissione di un significato sempre più labile e aperto di ‘progetto o programma di lavoro o fase di esso’. Mentre solo da un’interpretazione rigida e limitata di ciò che può essere realisticamente considerato come ‘progetto’ deriva la garanzia di ammettere solo contratti di lavoro a progetto genuini e non anche forme surretizie di sfruttamento. Ma gli aspetti problematici della riforma Biagi sono anche altri: la definitiva liberalizzazione del lavoro interinale, di cui è stato cambiato anche il nome nel più umiliante ‘Somministrazione di lavoro’, la flessibilizzazione estrema del part time (con l’introduzione di clausole elastiche e flessibili), fino all’invenzione di nuove formule contrattuali originali e a dir poco fantasiose. In quello che è stato definito il nuovo iper-

mercato delle forme contrattuali, oggi c’è l’imbarazzo della scelta: il Job sharing o lavoro ripartito, una sorta di frappé di due lavoratori, che si dividono lo stesso posto di lavoro a tutto vantaggio del datore di lavoro che non rischia assenze per malattia (con l’inconveniente, di non poco conto per i lavoratori, che se uno dei due si dimette o viene licenziato perde il posto anche l’altro). Oppure, il Job on call, cioè il lavoro a chiamata, secondo il quale un lavoratore si tiene a disposizione, in attesa di essere chiamato dal datore di lavoro in caso di bisogno. Ma non solo, è stato inventato anche il ‘lavoro occasionale accessorio’, cioè il lavoro a ore che si comprerà a carnet, magari dal tabaccaio insieme ai biglietti dell’autobus. E così si potrebbe continuare… La questione più preoccupante, infine, non è tanto o solo quella della moltiplicazione delle forme contrattuali, quanto piuttosto delle conseguenze che da essa derivano: l’aumento dell’occupazione precaria, la definitiva fuga dal lavoro sicuro, infatti, favoriscono la frammentazione dell’impresa e con essa della forza dei lavoratori, con sempre minori possibilità di aggregarsi per rivendicare i propri diritti e per ottenere un contratto collettivo adeguato, determinando l’isolamento, l’indebolimento e l’individualizzazione dei lavoratori, come dei loro contratti. Morte o ri(n)surrezione? L’ultima foto manca, dev’essere ancora scelta. C’è forse la foto di una manifestazione di piazza con giovani vestiti da fantasmi in fila come per una processione di un nuovo Santo, San Precario, protettore dei lavoratori precari. Alla fine del secolo scorso, crollati tutti i muri di Berlino, finita la contrapposizione delle forze antagoniste al capitalismo, ha potuto procedere indisturbato l’abbattimento progressivo dello Stato sociale e il rafforzamento della strada di un altro muro il Wall Street. Ecco perché all’inizio del nuovo secolo e millennio, si vive un ritorno alla postazione di partenza, all’autonomia privata, al diritto civile e alla logica liberista, e ci si chiede se sarà la fine della breve vita del diritto del lavoro o la base per una nuova fase di rivendicazioni e rinascite.


Sergio Cofferati

L’Europa delle città contro le derive del lavoro Evocata da «Argo» parla l’anima del sindacalista che nel 2002 guidò la protesta di tre milioni di lavoratori: Sergio Cofferati, ora discusso sindaco di Bologna, esplora il mondo del lavoro contemporaneo

Alcuni fenomeni caratteristici dei nuovi agglomerati urbani sono molto complessi, compresi quelli che si riferiscono al mondo del lavoro, ed è molto difficile giudicarli secondo le categorie tradizionali. Quello di un sindaco, in ogni caso, è un osservatorio molto particolare che offre talvolta occasioni non banali che aiutano a descrivere lo scenario e a costruire un punto di vista. C’è un problema che si evidenzia negli agglomerati urbani e che produce difficoltà crescenti soprattutto a chi è chiamato ad azioni amministrative: è la sovrapposizione dei tempi del cambiamento e la loro esplicita difformità. Oggi i processi di trasformazione delle attività economiche sono velocissimi. La crisi e lo sviluppo, non semplicemente degli agglomerati o dei grandi aggregati, ma anche delle singole filiere delle attività produttive di beni o di servizi, sono molto più rapidi di quelli soltanto di qualche decennio fa, in ragione delle nuove tecnologie, dell’introduzione dei nuovi linguaggi, delle procedure che oggettivamente il mercato determina. Sono tempi che sovrastano tutti gli altri modelli di trasformazione, sia nelle grandi dimensioni che nelle piccole. I cambiamenti sociali sono ugualmente veloci, ma sempre meno di quelli economici. Storicamente il mutamento economico, della produzione e del consumo, determinava anche gli inevitabili e conseguenti cambiamenti nella struttura sociale. Modificava il mercato del lavoro, cambiava le condizioni di vita e di lavoro di tante persone con un effetto di trascinamento abbastanza ravvicinato. Oggi non c’è più questa vicinanza. Infine, c’è la trasformazione delle istituzioni, che a loro volta hanno tempi ancora più lenti, dovuti non soltanto alla sistematica incertezza del legislatore, ma anche al prezzo della democrazia. La democrazia ha bisogno di consenso, di regole condivise, che hanno, oggettivamente, una scansione – la costruzione del progetto, la sua condivisione, la sua realizzazione – molto più lenta di tutti gli altri processi che ho appena indicato. Il lavoro dipendente è oggi profondamente diverso da quello di vent’anni fa, e non semplicemente per le tipologie e le modalità di relazione tra la singola per-

sona e il luogo della produzione, ma anche perché le tecnologie che hanno cambiato il sistema economico hanno portato a un mutamento dei profili delle persone che lavorano, della loro professionalità, della loro conoscenza, della loro capacità di interloquire positivamente con il sistema economico dal quale traggono ricchezza. La frantumazione del mercato del lavoro è un fenomeno successivo ed è il segno della difficoltà di uniformare il mercato del lavoro alle trasformazioni e ai cambiamenti in atto. Come ha risolto il legislatore questa difficoltà? Ha imboccato la strada illusoria del rendere più breve e molto meno vincolante rispetto a un tempo il rapporto tradizionale. Quella che oggi viene chiamata ‘flessibilità’ altro non è che un adattamento temporaneo del mercato del lavoro, che non sa rispondere adeguatamente ai tempi del cambiamento del sistema economico. Si apre tra l’altro, in questo caso, una contraddizione vistosa tra un bisogno di conoscenza che determina qualità e invece una disponibilità di condizioni elementari di attività che portano spesso ad una perdita di qualità. La persona coinvolta nel processo di cambiamento dell’attività economica, se non ha contemporanea-


mente un forte radicamento sociale e un riconoscimento dei tradizionali livelli di protezione che una società coesa offre, è una persona che entra in sofferenza, vive una fase difficile della sua vita. Vale per tanti lavoratori dipendenti, per gli stessi imprenditori quando attraversano le fasi cicliche di difficoltà della loro attività, e vale ancor di più per tutta la nuova cittadinanza che in un sistema mobile, che ancora non ha raggiunto il punto di attestazione dei suoi cambia-

menti e delle sue trasformazioni, finisce con l’essere oggettivamente il soggetto più debole, quello che soffre maggiormente di tutte le contraddizioni che si incontrano nel percorso. Nella nostra città, come nel Paese, noi oggi ci misuriamo, ad esempio, con il lavoro ‘povero’. Nella nostra cultura la povertà è sempre stata accomunata alla mancanza di lavoro: il povero era la persona priva di reddito perché priva di un’occasione di lavoro. Oggi c’è una platea piccola, ma che potrebbe crescere, di persone che lavorano e hanno un reddito, che però non è sufficiente a superare la soglia della povertà. Le statistiche, impietosamente, dicono che sono in prevalenza donne, con poca formazione e con poca scolarità. Altrettanto pericoloso è il seguente fenomeno: senza una rottura legata a processi formativi robusti, chi ha un lavoro ‘povero’ può aspirare soltanto, quando lo perde, ad attivarne un altro con esattamente le stesse caratteristiche. Dunque c’è una condizione materiale che ritorna con divisioni che si possono considerare come parte della suddivisione classica della sociologia e dell’economia tradizionale, ma in verità hanno elementi pericolosi di novità,

se non percepiti al loro interno. C’è una perdita del valore sociale del lavoro che è data dalle caratteristiche delle occasioni che vengono offerte soprattutto ai giovani. Va da sé che il lavoro è fondamentale perché genera reddito per la possibilità di vivere, ma non si può ridurre l’idea di lavoro semplicemente ad una percezione di reddito per avere condizioni materiali. L’idea della realizzazione della persona attraverso un lavoro che gratifica e che permette di sviluppare conoscenza e professionalità, non può essere abbandonata. Occorre registrare che una quota crescente di lavoro, invece, tende ad assumere semplicemente il profilo e la caratteristica del riconoscimento remunerativo di un’attività prestata e si sottrae l’elemento della gratificazione, che è fondamentale soprattutto quando si è giovani. Si può vivere senza gratificazioni particolari quando si ha alle spalle un percorso che ha garantito la possibilità di avere una costruzione della propria personalità anche con il contributo che viene dal lavoro. Quando si hanno vent’anni è un po’ più rischioso e socialmente si è più esposti, se manca questa condizione. Ho di fronte un’area vasta di lavoro strutturato che ha riconoscimenti sanciti dalla prassi, dai contratti e dalle leggi: riguarda la maggioranza delle persone che oggi hanno un rapporto di lavoro dipendente. Ma c’è un’area crescente di giovani che non gode di questi diritti perché nel lavoro tradizionale e strutturato sono state introdotte modalità di mercato, di relazione, che fanno salvo l’aspetto, la condizione materiale. Si può discutere a lungo se congrua o no, ma a quella condizione materiale non si accompagnano protezioni o diritti uniformi. L’universalità, anche nel lavoro strutturato, oggi non c’è più. Aggiungete a questa platea, che è di gran lunga quella predominante, la platea del lavoro sommerso. È un lavoro che non riguarda soltanto le nostre aree meridionali, riguarda anche Bologna. Lo studente che fa lo sguattero in un albergo per avere qualche soldo che accompagni la sua vita di cittadino bolognese temporaneo, presta la sua attività in una condizione classica del sommerso. L’imprenditore che lo impiega ha condizioni normali e dunque una realtà economica assoggettata a tutte le regole, a tutti i diritti e i doveri riconosciuti. Quello, invece, è un ragazzo ‘a diritti limitati’. Ha tutti i diritti di cittadinanza, vota e ha tutti i riconoscimenti, compresa l’assistenza e le protezioni che la comunità gli destina, ma è privato del diritto fondamentale del lavoro, del riconoscimento del contratto e della legge. Questa dimensione è ancora per fortuna sufficientemente contenuta. Ce n’è un’altra che si sta diffondendo e che noi erroneamente continuiamo a chiamare lavoro ‘nero’, ma in veri-


tà è lavoro ‘clandestino’. Oramai sono tante le realtà che impiegano esclusivamente persone nate altrove e arrivate qui in una condizione di illegalità. Queste persone sono private contemporaneamente dei diritti nel lavoro, anche se prestano un’attività, e dei diritti di cittadinanza. A questo proposito c’è un’altra novità da non sottovalutare. Pensando a persone che vengono da altri luoghi, infatti, bisogna mettere in conto, a differenza di qualche decennio fa, che le persone che arrivano, se ne vanno. Prima non era così, prima tendevano a diventare stanziali: migravano e, raggiunto il luogo nel quale potevano soddisfare i loro bisogni fondamentali, si fermavano. Oggi c’è invece un uso temporaneo e difforme del territorio, dovuto anche alla mobilità sociale negata, più forte se parliamo di lavoro sommerso o clandestino, perché è una condizione che schiaccia verso il basso e impedisce la costruzione di un percorso, di una prospettiva di vita positiva. Se guardiamo ai processi migratori, notiamo come molte etnie che storicamente sono presenti a Bologna oggi abbiano dei flussi di andata e ritorno rilevanti: vengono da noi, ma non sempre si fermano. Prima ancora degli stranieri, questo è il comportamento tradizionale degli studenti. Occorre tenere conto di questa frantumazione del tempo nell’uso del territorio, che è di per sé potenzial-

jg / nieva

mente uno straordinario valore. Una città che vuole aprirsi all’Europa e al mondo ha nella sua storia questa radice. L’Università più antica non è nata per i Bolognesi, ma era frequentata da ragazzi e da professori che venivano da tanti Paesi lontani e che hanno ciclicamente lasciato qui tracce delle loro identità e delle loro culture. È sorprendente come a volte la città rifiuti questa parte bella della sua storia e si illuda di potersi chiudere. Al di là dell’opinione di chi vi parla, una Bologna che pensa di chiudersi in sé non esisterebbe, non sarebbe possibile. E per fortuna, perché questa dimensione internazionale è nelle dinamiche che stanno sotto le condizioni materiali e culturali che anche noi a volte, un po’ semplicisticamente, tendiamo a sottolineare. Credo molto nell’Europa delle città perché penso che le caratteristiche, da quelle economiche a quelle delle strutture urbane a quelle sociali e culturali delle città, sono tali da rappresentare un elemento di uniformità che non sempre lo Stato-Nazione è in grado di offrire. Se l’Europa riuscirà a riprendere il cammino verso una dimensione più compiuta della sua struttura istituzionale e sociale, sarà per il contributo delle città. Compresa Bologna, che, ne sono convinto, grazie alla sua storia, può dare un impulso positivo a questo processo.


Piera Campanella : pcampanella@uniurb.it

Sindacato: origini e prospettive

Il sindacato è nato in Italia tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900 in risposta alle nuove e pressanti esigenze della classe lavoratrice salariata, in particolare quella operaia. L’affermarsi della grande impresa industriale cosiddetta ‘fordista’1 ha comportato l’emergere della figura del lavoratore subordinato, per cui le organizzazioni sindacali – ossia i soggetti collettivi preposti all’autotutela degli interessi degli stessi lavoratori subordinati – hanno acquisito ben presto un posto di rilievo nel contesto economico-sociale del tempo, contribuendo al progressivo sviluppo di un regime legislativo di tutele forti per il lavoro dipendente, di cui lo Statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970) rappresenta, almeno nel nostro Paese, la massima espressione. Ma che ne sarà di tali soggetti collettivi nell’attuale dimensione di organizzazione della produzione, cosiddetta ‘postfordista’? Tale organizzazione è connotata dal passaggio ad una nuova economia, più fluida e volatile, che trova alcuni dei suoi tratti qualificanti nella crescita del terziario, della piccola impresa, se non addirittura di vere e proprie strutture imprenditoriali a rete, effetto della diffusione di processi di esternalizzazione e di delocalizzazione produttiva2. Tutto ciò determina una crisi del paradigma tipico del lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato, crisi peraltro accentuata nel nostro Paese dalla recente legislazione di riforma del mercato del lavoro (D. Lgs. n. 276/2003 attuativo della L. n. 30/2003). In un contesto simile, dai contorni sociali sfumati ed eterogenei, il sindacato versa in una situazione di difficoltà, divenendo più faticoso il suo sforzo di sintesi degli interessi individuali e di rappresentanza generale dei lavoratori. A parte la scarsa presenza di valori collettivi soprattutto nei giovani, poco attratti dalle organizzazioni sindacali, va detto che queste ultime, in genere, si muovono bene all’interno delle grandi dimensioni produttive dell’industria e dell’impiego pubblico, ma non altrettanto nei settori emergenti della piccola impresa, dei servizi privati, dell’economia immateriale. D’altro canto, non v’è dubbio che la trasformazione delle condizioni dell’occupazione accresce la precarietà e la flessibilità del lavoro, disarticolandolo in molteplici figure contrattuali. Si diversificano così i bisogni dei lavoratori ed emergono nuove richieste da parte

degli stessi. Il lavoro post-fordista, anche quando esige competenze cognitive e relazionali maggiori - rivelandosi, dunque, meno noioso, ripetitivo ed eterodiretto - si presenta comunque più instabile e poco regolato rispetto a quello fordista. Perciò una parte sempre maggiore del mondo del lavoro manifesta oggi ansie in qualche modo inedite e reclama diritti e garanzie ancora negate. Se, dunque, il lavoro è cambiato, continuano comunque a persistere, nelle relazioni lavorative, quegli aspetti di debolezza dell’una parte nei confronti dell’altra che impongono un agire collettivo. Stando così le cose, sembra che – nonostante tutto – più di uno spazio d’azione potenziale per il sindacato resti aperto. Tutto sta, però, a saper decodificare e rappresentare collettivamente i nuovi bisogni dei lavoratori. Rispetto a ciò le attuali organizzazioni sindacali – almeno quelle maggioritarie nel nostro Paese – non paiono ancora attrezzate. Ad esse si richiede, pertanto, quantomeno una ridefinizione organizzativa, che punti in modo più deciso allo sviluppo di forme di rappresentanza per i nuovi lavori ed in generale privilegi il coordinamento orizzontale, a livello territoriale, dei lavoratori, piuttosto che l’integrazione verticale degli stessi, per categorie produttive o per singola azienda. I nuovi modelli di organizzazione della produzione determinano, infatti, una frammentazione o addirittura evaporazione di quella forma-impresa classica (sostituita, tramite outsourcing, dalla microimpresa, dall’impresa-rete o dall’impresa virtuale), che lo stesso attuale sistema di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro in realtà presuppone, con ciò mostrandosi ormai inadeguato allo scopo. Si tratterebbe, poi, di ripensare a fondo il ruolo del sindacato, con un’innovazione di strategia atta a fornire, com’è stato detto, una risposta di senso – oltre che un’offerta pratica di rappresentanza – all’universo variegato dei lavoratori, spesso flessibili, mobili, intermittenti, discontinui. Solo attraverso una ridefinizione profonda delle identità collettive si potrà, infatti, giungere a dare risposta a quei bisogni di sicurezza e stabilità, ma anche di autonomia e di accrescimento delle proprie competenze professionali, che emergono ormai impellenti nella realtà plurale degli attuali lavori.

1 Henry Ford (1863-1947) è stato il primo grande imprenditore americano a rivoluzionare il sistema di produzione industirale introducendo la catena di montaggio. N.d.R. 2 Si parla di esternalizzazione quando un’impresa cede una parte della propria produzione, “appaltandola” ad un’altra impresa (cosiddetto outsourcing) e di delocalizzazione produttiva quando v’è uno spostamento dell’azienda, o di parte di essa, in paesi diversi, dove il costo del lavoro è solitamente più basso (paesi dell’est, paesi asiatici, ecc.).


Giulia Ferrandi : giulia.ferrandi@email.it

Essi vengono Goobacks - visione animata di un futuro possibile

giulia ferrandi

La televisione di chi non guarda la televisione manda in onda il colorato show di una stereotipata umanità media, fotografata, in serie animate come South Park, tra parodia e polemica. Questo l’universo bidimensionale creato da Trey Parker e Matt Stone, dove caricature dalla testa enorme e gli occhi rotondi affrontano episodi di quotidianità fino ad un esito surreale, degenerazione della normalità apparente nella loro cittadina qualsiasi. «Venite giù a South Park, venite a conoscere alcuni miei amici. Tutti ridono e sono felici, gente onesta e senza ambizio-

ni», invita la sigla folk. Venite, alle due di notte, nel limbo fuori orario del politicamente scorretto, dove lo slang è pretesto per censurare la satira: questa la silenziosa protesta della terza serata, mentre tutti dormono. E mentre tutti dormono, una navicella spaziale si materializza nell’arida periferia ai confini di South Park: scende un uomo, la testa a uovo e la pelle giallastra. Svanisce disorientato nella notte di cartone. Il mattino dopo tutti i Tg annunciano: è arrivato un uomo dal futuro. Parla una lingua frutto del miscuglio di tutte le lingue del mondo, turco, inglese,


arabo, cinese; la sua pelle ha un colore meticcio, incrocio di ogni razza. Il Tg rassicura, l’uomo ha intenzioni pacifiche, vuole soltanto trovare lavoro, perché nel futuro la sovrappopolazione mondiale è talmente elevata che viaggiare nel tempo è più facile che avere un impiego. Così, lasciate casa e famiglia, l’uomo cerca occupazione nel passato, per aprire un conto in banca e mantenere a distanza i propri cari con gli interessi. Non chiede molto, pochi centesimi per le mansioni più umili. Dal futuro iniziano ad arrivare altri uomini, decine, centinaia, a tutti lo sfruttamento della disperazione riserva il posto senza sosta e senza paga. «Nel futuro si deve stare proprio male» commenta Stan, il protagonista di 9 anni, eroe di ogni avventura insieme ai suoi tre amici, Kyle, Eric e Kenny. Bambini portavoce delle verità evidenti vietate al benpensiero adulto in questa rappresentazione di cartone di una moderna commedia greca, dove il potere è demolito attraverso altre voci, in altri tempi. Gli uomini del futuro intanto continuano ad arrivare in massa, con mogli, figli e famiglie: servono nei fast food, puliscono le strade, sono colf, manovali,

lavapiatti, camionisti. Creano una cyber little future in periferia, mentre i bambini nelle scuole e gli adulti nelle fabbriche subiscono il disagio dell’immigrazione. «Ci rubano il lavoro», esplodono i sindacalisti di tutto il paese, uniti contro la disoccupazione dilagante, mentre la parossistica americana soluzione da cartoon è distruggere il futuro. Se non ci sarà futuro, non ci sarà immigrazione dal futuro, così i sindacati riuniti organizzano un’enorme manifestazione, un’orgia di soli uomini che, convertiti gay, vogliono impedire all’umanità di procreare. Inversione di sesso per risolvere un’inversione sociale: oggi il lavoro si può rubare. Paradosso che accentua i conflitti verso il cosmopolitismo, in una città qualsiasi, la nostra, dove le conversazioni da bar non risuonano più di «vengono per rubare» ma dei ben più inquietanti «vengono per lavorare», la terza persona plurale carica di sinistro presagio. Essi vengono: essi, entità aliene dalla lingua incomprensibile, dalle teste calve a uovo, indistinguibili l’uno dall’altro, in sostanza senza identità e umanità, vengono ignari nel paese dove rubare e lavorare non sono antitetici, ma sinonimi.

My Beautiful Laundrette (U.K., 1985) di Stephen Fears

Guardando The Queen, l’ultimo film diretto da Stephen Frears, si torna con la mente a una pellicola nella quale il regista britannico non metteva sotto i riflettori gli inglesi altolocati, bensì si occupava degli immigrati, coloro che nel corso degli anni hanno cambiato la fisionomia di città come Londra, Birmingham e Bradford. Il film in questione è My Beautiful Laundrette, uscito nel 1985 e considerato il capostipite della ‘British Renaissance’. My Beautiful Laundrette è sceneggiato dallo scrittore anglopakistano Hanif Kureishi, il quale nelle sue prime opere ha dipinto il ritratto di una nuova figura d’inglese, frutto dell’ondata di immigrazione iniziata dopo il 1947, anno in cui l’India ottenne l’indipendenza dal dominio britannico. Hanif Kureishi fa parte della seconda generazione di questi immigrati, generazione appartenente alle ‘nuove etnie’ inglesi, espressione coniata dal fondatore dei Cultural Studies, Stuart Hall ed è proprio Stuart Hall a parlare di My Beautiful Laundrette come di un film che rappresenta le minoranze etniche senza idealizzarle. Il protagonista del film è Omar, un giovane rampante che trasformerà in un luogo elegante e ‘trendy’ la vecchia lavanderia affidatagli da suo zio Nasser. Quest’ultimo appartiene a quella categoria di immigrati pakistani arricchitisi durante il governo di Margaret Thatcher. Omar farà lavorare alle sue dipendenze il vecchio amico Jhonny, un ex militante del partito xenofobo National Front. In questo modo per i due personaggi del film avviene un’inversione di ruoli di hegeliana memoria: a poco a poco il padrone’ Jhonny, che, come gli altri inglesi, godeva passivamente del lavoro dei pakistani, finisce alle dipendenze del servo’ Omar. Attraverso My Beautiful Laundrette il grande pubblico si è accorto dell’esistenza dei figli degli immigrati, quelli che nel suo romanzo Il Budda delle periferie (1990) Kureishi ha descritto come degli ‘strani tipi di inglesi’.

Susanna Ghazvinizadeh susanghazvi@gmail.com




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