ISBN 978-88-8342-668-1
9 788883 426681 >
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ARGO Numero 14 / PLAY | GIOCHI PREZIOSI
Rivista d’esplorazione fondata nel 2000
registrata al Tribunale di Bologna N.7393 del 22/12/2003 con il Patrocinio dell’Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Lettere e Filosofia
Equipaggio Direttore responsabile: Valerio Cuccaroni Codirettore: Marco Benedettelli Vice direttore: Giulia Ferrandi Direttore artistico: Mattia Santini Redazione centrale: Marco Benedettelli, Giuseppe Colomasi, Valerio Cuccaroni, Giulia Ferrandi (www.neros.it), Lorenzo Franceschini, Filippo Furri, Tommaso Gragnato, Samuel Manzoni, Andrea Marcellino, Stefania Piras, Rossella Renzi, Silvia Righini, Giovanni Tuzet Collaboratori: Silvia Albanese, Giacomo Bottà, Mattia Cavagna, Marco De Marco, Claudio Emme, Oscar Fuà, Jan Heberlein, Johnson&co., Jònsi, Marcus L. (www.blatta.bliz), Alessandro Lupo, Giuseppe Merico (www.scrivoeleggo.splinder.com), Michela Murgia, Francesco Orazi, Natalia Paci, Olga Patti, Igor Tchehoff Redazione di Roma: Fabio Orecchini, Giulio Pompei, Stefano Sansoni Collaboratori: Geraldina Colotti, Girolamo Grammatico Redazione in Kyoto: Daniela Shalom Vagata Collaboratori: Chiara Castignola, Kosuke Kunishi, Shima Ueda
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Correttore bozze: Tommaso Gragnato Tirocinanti: Chiara Bivona, Lucia Leonelli Webmasters: Francesca Benassi, Daniele Bernardini, Christian Boragine Hanno inoltre collaborato a questo numero: Alessandra Berardi, Luigi Bernardi, Chiara Bivona, Martha Chalikia, CIEL, Claudio Comandini, Joana Desplat-Roger, Federico Di Biasio, Alessandra Di Dio, Matteo Fantuzzi, Annamaria Ferramosca, Luigi Ghezzi, Matteo Innocenti, Vivian Lamarque, Natalie Leclerc, Lucia Leonelli, Alessio Luise, Giulio Marzaioli, Giampaolo Mastropasqua, Anna Maziarczyk, Roberto Muzi, Guido Oldani, Pia Rutigliato, Raphaël Sigal, Luigi Socci, Sparajurij Lab (www.sparajurij.com), violettavalery, Ilaria Vitali Grazie a: gli abbonati, www.absolutepoetry.org, Erika Alberghini, Marianna Aldovini, Jadel Andreetto, Arci Ancona (in particolare Alessandro Ricchiuto e Federico Pesciarelli), ArcoirisTV (www.arcoiris.tv), Arteria (www.arteria.bo.it), AGA (Associazione Giochi Antichi), Francesca Barra, Biblios Cafè (Siracusa), Biblioteca Comunale “Giovanna R. Ricci” (Conselice, RA), BIRRA (in particolare Ivano Bariani e Andrea Ferrari: www.birrariviste.it/blog/), Black Eyed Dog, Micol Bronzini, Brown Sugar, Manuel Bongiorni, Dibres Cantini, Loredana Catania, Chowra Manu Amandine Erik e Montreal in generale, Marco Cinque, Barbara Coacci, Comune di Bologna - Cultura e Università (in particolare Rosalba Campanella, Daniele Del Pozzo, Stefania Luigi, Giancarla Melis), Antonino Contiliano, CRIC, Cinzia Delnevo, Joe Dever, Domenico e tutti i teppisti della vita di Beppe, Mattia Filippini, FIxO - Ufficio Coordinamento Tirocini e Stage (Bologna), Antonio Galluzzi, Franco Galluzzi Livera, Gelsomina Clown (vicolo Broglio 1/F, Bologna, www.gelsominaclown.com), Massimo Gezzi, Niccolò Gregnanini, Angelo Guglielmi, Paolo Guidi (www.rivistatabard.it), Ingegneria Senza Frontiere Bologna, Andrea Inglese, Samuele Lambertini, lapoesiaelospirito.wordpress.com, i lettori, Libreria Il Portico (Bologna), LIPS (Laboratorio Internazionale di Poesia Sperimentale), Loredana Lipperini, Gianmichele Lisai, Antonio Luccarini, Franca Mancinelli, Serena Medioevale, Paolo Marocchio, Claudio Martella, Maruhei, Daniele Muriano, Marco Nardini, Luciano Nigro, Piergiorgio Odifreddi, Massimo Paci, Fiorella ed Emilio Pasquini, Radio Città Fujiko, Federica Rapini, Regione Emilia-Romagna (in particolare Roberto Franchini), Antonio Rezza, Gino Ruozzi, Takio Sagawara, Yasuhiro Saito, Sciarada (www.sciarada.net), Alberto Sebastiani, Alessandro Seri, Yosuke Shimoda, Yotsuya Simon, Laura Simbula, Francesco Speri, Stefano Tassinari, Teatro Stabile delle Marche (in particolare Beatrice Giongo), Il Traghetto Mangiamerda (in particolare Michele Barbolini, www. iltraghettomangiamerda.com), tutti gli autori non citati di materiale non pubblicato, L’Uomo Nero, VAG61 Logo: Simone Mazzieri Copertina: Laura Zanetti, Mattia Santini Editore: Edizioni Pendragon, Via Albiroli N. 10, CAP 40126 Bologna Proprietà e Corrispondenza: Associazione NIE WIEM, C.P. 138, 60127 Ancona Centro (sito: www.niewiem.org) Sede della redazione centrale: VAG61 - Officina di Media Indipendenti, v. Paolo Fabbri 110, 40100 Bologna Sede della redazione di Roma: c/o Fabio Orecchini, via dei Durantini 46, 00157 Roma (e-mail: redazioneroma@argonline.it) Sede della redazione di Kyoto: c/o Daniela Shalom Vagata, University of Kyoto, Department of Italian, 606-8501 Yoshida honmachi Sakyo-ku, Kyoto-shi-Japan (e-mail: shalomdan@hotmail.com)
Sito: www.argonline.it e-mail: argo@argonline.it Nonostante la crisi in atto, abbiamo scelto di mantenere il prezzo di copertina a 3 euro: fra poco anche un litro di benzina forse costerà di più! «Argo» si può trovare un po’ ovunque, ma soprattutto qui: www.argonline.it/dove_trovare_argo.html. Se non la trovate, chiedete al vostro libraio di fiducia di ordinarla. Ricordate che il nostro editore è Pendragon! Se non volete impazzire a cercarla e volete riceverla a casa, abbonatevi (4 numeri a 25 euro spese postali incluse). Per farlo, scrivete a abbonamenti@argonline.it Se invece volete avere tutta la serie completa, ogni arretrato vi arriverà a casa per 5 euro spese postali comprese. Scriveteci: argo@ argonline.it. Per facilitarvi la ricerca andremo in giro per l’Italia a presentare questo numero con spettacoli e incontri. Per l’Argontour 2008 consultate www.myspace. com/argonthespace e il nostro sito www.argonline.it, dove troverete anche il nostro blog.
Francesco Orazi Posto ristoro Daniela Shalom Vagata Il vizio delle palline in caduta libera Stefania Piras Ludoteca musicale italiana (articolo a episodi) – quinta parte Giulia Ferrandi Ancora dalla parte delle bambine Fenomeno Winx di Andrea Rossi Ci penserà la chimica di Olga Patti Natalie Leclerc Azzardo tra realtà e finzione Claudio Emme L'enigma della borsa Stefania Piras Ludoteca musicale italiana (articolo a episodi) – quarta parte Claudio Comandini Monopoli e Risiko! Jan Heberlein Uomo, non ti arrabbiare Giuseppe Merico Colline cave Luigi Bernardi Il gioco di M Il Gioco di Ender di Giulia Ferrandi Valerio Cuccaroni Le crociate dei bambini Small Soldiers di Jònsi Il mondo è una partita di Go di Johnson&co. feat. Butochild Raphael Sigal I giochi gore, violenti e sanguinolenti in rete Luigi Ghezzi Internet è morta Giuseppe Colomasi Giochi di strada Oscar Fuà Le gare degli eroi Marco Benedettelli Brigata pecoreccia Il parkinson - La stazione - Almeno - La cicoria matta - L'isola di Guido Oldani Giacomo Bottà Classe creativa Filippo Furri War Games: over and over and over Marcus L. Alcune problematiche legate al gioco Nascondino di Gianpaolo G. Mastropasqua Le cose di Lorenzo Franceschini Roberto Muzi Quando le domande le pone il pennuto – Intervista a Piergiorgio Odifreddi Anna Maziarczyk Jouer à la littérature – Mode d'emploi Istruzioni per l'uso di Girolamo Grammatico L'ironia che sceglie il verso di G. Tuzet, R. Renzi, L. Franceschini Tommaso Gragnato OuLiPo: penne creative per seri giochi ad ostacoli Rossella Renzi Rime per il cielo e per la terra: le poesie “per sbaglio” di Gianni Rodari Matteo Innocenti Tira i dadi e ti dirò chi sei Filippo Furri Djambi Quanti ne vuoi di questi? di Tommaso Gragnato Il jazz in gioco di Joana Desplat-Roger Matteo Fantuzzi Poetry Slam: un giochino non indispensabile Lorenzo Franceschini Un gioco da poeti – Intervista a Lello Voce Lu schifu ca me fa lu pepistrezzu (murto) D'invenzione oramai di Alessio Luise Una comunità poetica all'insegna del gioco: il Poetry Slam di G. Tuzet, R. Renzi, L. Franceschini I balocchi musicanti delle sorelle Cocorosie di Alessandra Di Dio Pascal Comelade, el gandul activista di Stefania Piras Video Games Live di Samuel Manzoni Martha Chalikia Cadaveri squisiti Una zitella sull'arca di Alessandra Berardi Stefania Piras Ludoteca musicale italiana (articolo a episodi) – terza parte Risibles Amours di Ilaria Vitali Fabio Orecchini Le logiche reticolari di conoscenza – Intervista con Fabio Bocci Daniela Shalom Vagata Doll is just a doll Anche i grandi giocano (ma di nascosto) di Silvia Righini Federico Di Biasio Il pioniere del libro-game – Intervista a Joe Dever Stefania Piras Ludoteca musicale italiana (articolo a episodi) – seconda parte CIEL Calcio fiorentino e soule I giardinetti delle delizie di Luigi Socci Stefania Piras Ludoteca musicale italiana (articolo a episodi) – prima parte Andrea Marcellino Solo per maschi. Narciso gioca a nascondino con il suo pisello! Teatro di Giulio Marzaioli Il gioco dei poveri - Circumnavigare di Vivian Lamarque Diario di bordo – Le regole del gioco
Itinerario
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Mattia Santini, Los caballeros Sanchez Lopez
Posto ristoro
Breve indagine sociologica nell’habitat delle agenzie di scommesse di Francesco Orazi : francesco.orazi@univpm.it
Ore 13:57, pomeriggio di Pasqua, davanti a un punto scommesse. Da circa dieci minuti un uomo si agita freneticamente con il suo cellulare in attesa dell’apertura. Alle 14 arriva Fabio, uno degli operatori del locale, fa il turno pomeridiano, è un mio amico e ha accettato di darmi una mano per scrivere questo articolo. Del resto chi meglio di lui può osservare sul campo i comportamenti umani impegnati nella strenua lotta con il gioco d’azzardo? E allora fra una giocata e l’altra inizia a raccontarmi. Gli chiedo subito una spiegazione su ciò che ho appena visto fuori. Chi e perché il giorno di Pasqua si fa venti minuti di nervosa anticamera in attesa che il punto scommesse apra? Si chiama Antonio mi dice, in cinque anni si è giocato nell’ordine i suoi risparmi, la sua azienda di piccolo sub-appalto edile e la sua famiglia In nome di questo compulsivo ed egoistico bisogno di appagamento ha deciso che nulla della sua vita normale avesse un valore tale da non rischiare di perderlo. In molti si comportano così fra quelli che Fabio
definisce i cronici, dando con questa sua siero politico, il Caravaggio, con le sue risse, immagine un significato euristico all’accosta- i duelli, il gioco e i bordelli, eppure sublime mento che nello studio delle dipendenze si fa riproduttore dei valori estetici della cristianità. tra tossicomani e vittime del gioco. Due spirali A queste immagini idealizzate ne sostituisco per molti versi simili, due modi diversi di stare altre, mutuate da altra letteratura e allora il sul filo del rasoio con sotto il baratro della punto scommesse mi si trasforma nel “posto stigmatizzazione sociale, della riprovazione, ristoro” dell’omonimo racconto di Tondelli in dei continui e inutili sensi di colpa. Famiglie Altri libertini. La letteratura e anche la socioche si perdono, patrimoni che si dilapidano, logia spesso tendono a sublimare. Ma i comun modo di vedere la realtà mediato da dipen- portamenti umani sono sempre collocabili in denza assoluta, inspiegabile agli affetti intimi una base animale. Lo dimentichiamo, traditi che ti circondano e alle persone che ti hanno da un insoluto bisogno di auto-soddisfazione stimato e che ora ti evitano. Più sento Fabio in che chiamiamo cultura. Bisogno di soddisfapieno outing, come quegli infermieri dei mani- re il nostro narcisismo, la nostra complicata comi che parlavano dei matti, assumendone il affettività, il superamento delle nostre paure, linguaggio e le posture e vedo i suoi clienti che tutte attese che possono sfociare in assolugiocano nel loro habitat di quote, scommesse tizzazioni da non ritorno, ovvero in condizioni e prestiti a strozzo, più mi persuado che le dove l’unica soddisfazione è vivere come mie idee di partenza sul mondo del gioco e l’animale che ti preme dentro, tra quelli simili dei giocatori erano troppo arabescate da certi a te, con la stessa irrefrenabile necessità di miti giovanili. Il Giocatore di Dostoevskij, con inseguire una stupida sensazione da brivido. la lucida e compiaciuta narrazione di sé di un E il sociologo? Che dice dopo questa “non rigenio che si distrae col vizio, il Machiavelli gorosa” descrizione del micro-ambiente in cui accanito giocatore di dadi che la notte è alla si è immerso con la presunzione dell’osservabisca e di giorno studia e rivoluziona il pen- tore distaccato? Dice che forse aveva ragione
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il conservatore Durkheim: la spiegazione dell’equilibrio materiale delle società, dei loro rapporti di forza squilibrati sta nella ritualizzazione con la quale si esorcizza la dipendenza sociale e si riconosce legittimità al potere. A questa affermazione ne seguiva una direttamente correlata: se la società è un insieme ritualizzato di pratiche, non occorre che chi vi partecipa esprima consenso sulla loro intima natura di significato; il rito si partecipa e basta. Nel mondo gli uomini non sono quello che pensano, sono quello che fanno. La soli-
darietà umana che ci fa stare insieme è un processo che non ha bisogno di consenso, dipendiamo gli uni dagli altri e a questa dipendenza nel tempo abbiamo dato diverse e sempre più complesse e pervasive forme di organizzazione; alla grande maggioranza è sufficiente per vivere, ad alcuni scatta qualcosa di diverso che li
porta a rincorrere un brivido sulla pelle, mettendo in conto a volte la loro stessa distruzione. Illusi che non vinceranno mai, scelgono “eroicamente” di perdere tutto con la recondita speranza che un giorno, come l’extra-terrestre di Finardi, qualcuno li prenda e li riporti a casa.
Complimenti! Hai terminato la lettura dell’intero numero, oppure hai semplicemente superato una tappa del tuo itinerario ludico, a seconda del punto di partenza. Ora scegli: se hai letto tutto, scrivi a argo@argonline.it ed esprimi un’opinione su questa rivista-game; altrimenti, se non sai ancora quali reazioni chimiche si scatenano nel corpo del giocatore, vai a p. 87. Oppure, abbandonati al caso, tira i dadi, vai alla pagina corrispondente e continua a leggere.
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Il vizio delle palline in caduta libera
Nelle sale da gioco giapponesi spopola il pachinko. Colori sgargianti e cartoon addobbano un azzardo che raggira l’illegalità… di Daniela Shalom Vagata : shalomdan@hotmail.com con il contributo di Yosuke Shimoda, Kyoto University
Sulla soglia delle sale di pachinko un’esilarante fantasmagoria di colori, uno stordimento da luci e intermittenze, un luna park di pupazze in carta e in carne allusive e sorridenti, una disarmonia di note elettriche, suoni assordanti, draghi fluorescenti, conigli azzurri, e granchi poli-chelipedi che ammiccano sulle pareti colorate. Le trombe annunciano qualcosa: sarà l’inferno o il paradiso? File interminabili di volti assorti, fissi sulla caduta libera delle palline o concentrati in un mantra il cui misticismo sacro è sostituto da una monotonia profana1. Benvenuti nel mondo del pachinko! Benvenuti nel mondo di Kandy Kandy, di Winter Sonata e di Mi1 Sulla scorta di Fosco Maraini, Ore Giapponesi, Corbaccio, Milano 2005, pp. 90-93 e 116, in particolare p. 92. Per un approfondimento, si consigliano anche le pagine di Roland Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 1984, pp. 35-38.
ster Lonely… “Pachino” è una parola onomatopeica a imitazione del suono metallico delle palline che battono sui chiodi che ne fissano il percorso: “pacìn”, lo schiocchiare veloce delle dita, più il suffisso diminutivo “ko”. Il pachinko somiglia a un flipper verticale, ma è soprattutto un ibrido tra la slot machine, un videogioco e il pin ball game. Il percorso della pallina è determinato dal movimento di una leva a molla. Un unico colpo d’avvio e le palline, una dopo l’altra, a distanza di poche frazioni di secondo, schizzano verso l’alto del pannello dove ricadranno seguendo il percorso segmentato delle fila dei chiodini. Se le palline entrano nelle buche prestabilite, il giocatore ne vincerà altre, continuando all’infinito, oppure potrà cambiarle in premi, cioccolate, sigarette, borse, televisori… Mi spiegava una sera Hiroshi, mostrandosi misteriosamente competente sull’argomento, che i premi vinti sono convertiti in denaro in un apposito negozio fuori dalla sala del pachinko, ma
Daniela Shalom Vagata
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più spesso, invece dei premi, si preferisce continuare la ripetitività narcotizzante del gioco. In Giappone è considerato illegale ricevere premi in denaro, per questo motivo la sala del pachinko e quella del cambio dei premi sono distaccate e appartengono a due enti differenti. In realtà il collegamento esiste, e si sussurra che il mercato sia tenuto in mano dalla Yakuza, la mafia giapponese, e dagli immigrati coreani. In più, diminuendo il valore di scambio dalle palline ai premi, il proprietario del pachinko riesce sempre ad assicurarsi il guadagno e, al tempo stesso, a indurre i giocatori a tornare. Nato dopo la seconda guerra mondiale, quando il Giappone era in ginocchio e aveva bisogno di dimenticare un passato scomodo, il pachinko continua a far dimenticare, mentre i giocatori di ieri, come quelli di oggi, non cessano di proiettare i loro sogni sulla pioggia di palline d’acciaio e sui personaggi fittizi che ne decorano le sale. Un anestetizzante alla realtà, alla solitudine e ai problemi
della vita, con lo stesso potere di dipendenza di una droga. Un mondo di illusioni che germoglia in tutte le strade del Giappone, un’erba selvatica che non ha bisogno di cure per attecchire. Sono le cinque del pomeriggio, gli uffici stanno chiudendo e la gente frettolosa torna negli appartamenti o vaga oziosa per le vie dello shopping. Seguo la giacca scura di Hiroshi, mentre oltrepassa la porta del pachinko sotto casa… Se vuoi continuare a esplorare il Giappone, vai a p. 14, altrimenti vai a p. 91 e scoprirai che prima dei cartoni erano i giocattoli a essere animati.
Coazione bulimica: colazione a ripetere g.c.
Vìla | Klub Winx | 2007
Ludoteca musicale italiana | articolo a episodi | quinta parte 91 Prima dei cartoni erano i giocattoli ad essere animati Quando la parola gioco e i suoi parenti compaiono nei titoli di una canzone. Un gioco dell’oca per significati a più facce e altrettante sfumature culturali ed emotive nelle canzoni: vita, sport, infanzia, era sesso o era amore? di Stefania Piras : stefania.piras@argonline.it
I giocattoli compaiono nella canzone italiana in significati abbastanza variegati: c’è Gianluca Grignani che racconta il crescere adolescenziale ne La vetrina del negozio di giocattoli (1996), un non luogo il cui schermo apparecchia un’immagine del mondo perfetta e placida che non corrisponde alla realtà e il cantante/ protagonista della canzone si ribella e tenta il salto oltre il vetro «dal retro libero» come un qualsiasi pupazzo1. Il pupazzo, la bambola, la statua, la marionetta, l’automa suscitarono complesse riflessioni filosofiche fin dall’antichità. L’automa è stato uno dei principali eser1 Sul Grignani giocoso leggi la quinta parte di questo articolo a episodi a p. (piras 5)
cizi intellettuali per comprendere l’essere umano e vivisezionarlo, per scoprire le funzioni anatomiche e sensistiche. Come non ricordare nell’immaginario infantile che schiude Grignani quei celebri giocattoli vivi, dotati della facoltà del pensiero e di conseguenza della possibilità di amare, sprofondare nella malinconia, innamorarsi, di illuminarsi di ideali di conquiste e sopravvivenze anche solo come soprammobili? Nell’immaginario europeo, nel sottobosco fantastico dove tutto può accadere, in cui giocattolai e bambini sono complici, i primi perché hanno a che fare con l’incanto di oggetti fermatisi per sempre, i secondi per la loro propensione mitopoietica, un posto speciale è occupato dalla fiaba di Andersen Il soldatino
di stagno (1838) musicato dalla Disney con un brano di Dmitrij Šostakovič, dagli oggetti che si svegliano per punire la pigrizia del bambino protagonista della fantasia lirica L’Enfant et les Sortilèges (1919-1925) musicato da Ravel in collaborazione con Colette che ne aveva scritto il libretto inizialmente intitolato Divertissement pour ma fille , poi dal racconto Lo schiaccianoci e il re dei topi (1816) di Hoffmann che divenne un celebre balletto musicato da Čaikovskij seguendo una versione meno cruenta del racconto originale elaborata da Alexandre Dumas, infine il ricordo potrebbe estendersi alla Sinfonia dei giocattoli di Leopold Mozart, padre del prodigio.
Con quest’ultima playlist chiude i battenti la Ludoteca musicale italiana: se vuoi tornare a giocare con la musica vai a p. 25, altrimenti vai a p. 20 e scoprirai una nuova, finora inedita, canzone d’autore.
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Ancora dalla parte delle bambine Intervista a Loredana Lipperini
di Giulia Ferrandi : giulia.ferrandi@argonline.it You’re my doll, rock and roll, feel the glamour in pink, / Kiss me here, touch me there, hanky-panky! / You can touch, you can play, / If you say, “I’m always yours”…
Bene, parliamo delle Winx. Elena Gianini Belotti, in Dalla parte delle bambine, definisce il gioco una tendenza innata del bambino, i cui modi, regole e oggetti sono invece frutto di una determinata cultura, concepiti e commercializzati per i maschi o per le femmine in vista dei diversi ruoli e aspettative. Questo nel 1973: l’assetto culturale è cambiato, le aspettative sono diverse, ma la funzione sociale del gioco sembra la stessa… Ho dedicato un intero libro, Ancora dalla parte delle bambine, a questa analisi. Le cose non sono cambiate dagli anni ’70, perché il lavoro culturale è lungo, e non è stato continuato, o almeno non in modo incisivo. Dopo un primo tentativo, negli anni ’90, di proporre giochi unisex come il Tamagotchi – che proponeva un modello di cura e accudimento anche ai maschi – la situazione è andata modificandosi. Notiamo la differenza di genere anche visivamente, passando davanti a un negozio di giocattoli: giochi di costruzione, di manipolazione per i maschi; cosmetici, trucchi, ombretti, smalti e quant’altro per le bambine, tutti giochi ispirati alle eroine dei cartoni animati, come Winx e Bratz. La distinzione di genere è netta anche nella pubblicità, dove i maschi manipolano e costruiscono, mentre le bambine si vestono, si truccano, ballano. Non che ci sia nulla di male nel ballare, ma è la strumentalizzazione che ne viene fatta ad essere sbagliata. Prendiamo il videogioco della Nintendo, ad esempio: il ballo viene insegnato
alle bambine direttamente dal coreografo di Striscia la Notizia, che è poi il coreografo delle veline. A proposito di videogiochi, recentemente ha debuttato sul mercato Miss Bimbo, che esaspera questo ideale di femminilità fashion. Become the most famous and beautiful bimbo in the world: gioca e diventa come Paris Hilton, con pillole e chirurgia plastica. Miss Bimbo fa parte del tentativo scellerato della ri-genderizzazione nel mercato dei videogiochi, ovvero cerca di fare appassionare il pubblico femminile al videogioco. È vero che le bambine giocano meno ai videogame, ma se negli anni ’90 si erano proposti videogiochi unisex, come i Pokemon, subito dopo il successo polimediale del prodotto, ovvero subito dopo che i Pokemon hanno attraversato anche altri media, come cartoni animati, film e carte da gioco, c’è stata la netta suddivisione di genere anche qui. Di fatto, per i bambini sono nate le carte da gioco dei Pokemon, mentre alle bambine sono state proposte le solite carte delle Barbie, e mentre i maschi hanno poi continuato a giocare con Magic le bambine hanno ben presto abbandonato il terreno. Il pubblico si è sedimentato, e quando una bambina a cinque-sei anni, si è convinta di dover rispondere a determinati modelli è difficile attrarla poi con aspettative di gioco differenti. Così anche i videogiochi destinati al pubblico femminile si sono evoluti in Cooking Mama o Nintendogs, riproponendo un ruolo materno, di cura: di fatto oggi non esistono videogiochi narrativi che possano attrarre le bambine.
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Perché? Mi sembra un controsenso abbassare l’entry-point, il momento in cui un individuo viene “accalappiato” sul mercato, a quattro-cinque anni, per poi escludere un’ampia fetta di consumatori quale il pubblico femminile. Voglio dire, se esistono i cosmetici per uomini, perché non produrre giochi non materni, più “maschili”, per interessare il maggior numero possibile di bambine? Molto spesso quelli che producono una campagna pubblicitaria o di marketing sono uomini, e anche di una certa età. Il marketing sta insistendo molto sulla ri-genderizzazione, ovvero sta cercando di spingere i consumatori in un senso o in un altro: il momento in cui le bambine si abbandonano al loro ruolo abbraccia i primi anni di vita. Una soluzione? Ideare videogiochi narrativi con avventure le cui protagoniste siano solo donne, ma fino ad ora non è stato realizzato niente di simile.
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Sono stati invece creati dei modelli di avventura al femminile come le Winx, che, pur avendo sulla carta un concept forte, basato su valori quali amicizia, onestà e solidarietà, finiscono per esprimere solo ossessione per il fashion, il glitter e lo shopping. Le fatine Winx hanno un precedente a fumetti, ovvero le streghette Witch: sono nate in un contesto, comune al successo di Harry Potter, in cui si cercava di puntare sulla magia per esaltarne il valore sociale, un atteggiamento mutuato dagli anime giapponesi. Tralasciando il fatto che la socialità in Giappone è totalmente differente dalla nostra, le Winx hanno preso questo valore sociale della magia dal manga. Il loro aspetto fisico deriva invece da studi americani sull’immagine, per finire in Italia a veicolare l’amicizia con il glitter. Come se non si potessero veicolare socialità, amicizia, onestà al femminile senza glitter, shopping o trucco. Come può essere nata la Winx da Barbie? C’è stata la rivoluzione femminile nel mezzo. È naturale! La Barbie è nata come sex-toy, riassumeva un mondo innocuo, limitato alla bambola – signorina fashion-victim che va a tutte le feste. Le Bratz e le Winx, come la Barbie, riflettono un fenomeno sociale che punta tutto sull’aspetto fisico delle donne, anche se questo aspetto è cambiato. Mentre nei Paesi Islamici la Mattel ha distribuito Razanne, la Barbie dotata di burqua e libro delle preghiere, in Italia la Chiesa non ha cercato di forzare il mercato per controbattere al modello delle baby-prostitute Winx o simili… Anzi, tra i produttori della Rainbow, nonché finanziatore delle Winx, compare anche un sacerdote marchigiano, don Lamberto Bigini.
Kim Smith (Houston 3.III.1983) | attrice, modella | Già immagine dei brand Victoria’s secret, Guess e Breil
Fenomeno Winx Resta solo il glitter
Winx Club (www.winxclub.com) è il più grande Vero. Però i gadget Winx non hanno come pasuccesso commerciale di sempre per un yoff “combatti il male, sii una vera amica”, bensì prodotto di animazione italiano. Tre serie, un “sei più trendy che mai!”. Essere alla moda è film e un miliardo e mezzo di fatturato nel in sé un concetto neutro, ma diventa negativo 2007 per la casa produttrice marchigiana quando i veri valori rischiano di non passare, Rainbow. Non c’è bambina che non conosca perché gli episodi sono brutti, mal fatti e spesle sei fatine che a colpi di magia glitterata so incomprensibili. Come mai? È che manca sconfiggono i cattivi di turno che minacciano la regia. Il produttore Iginio Straffi la firma, ma il regno della magia e che non voglia invero non la fa, né la delega. Nonostante il comprare i meravigliosi gadget che popolano successo miliardario, continua a non investire le giocattolerie. Tutto bene quindi? Nì. nel suo personale interno, lasciando che la Bene per l’animazione italiana, che regia emerga “magicamente” da una pipeline aveva bisogno di fiducia, investimenti e produttiva a comparti separati (tra Europa, una lezione di marketing. Male invece America e Cina). Anche per il lungometraggio per quello che è. Analizziamo... ci sono stati problemi simili. Gli investimenti “Le Winx hanno l’ombelico scoperto!”, “le sono ingenti sul merchandising e ridotti all’osso Winx istigano a fare le veline, sono un sul comparto produttivo. Alla fine, tutti i buoni cattivo esempio” lamentano spesso mamme propositi dei creativi soccombono davanti a insofferenti. Tutto vero. Winx però ci insegna una fattura spesso imbarazzante e incomprenuna grande verità, cioè che ogni storia “vende” un’emozione ben precisa, che la rende emozionante e speciale. Come sanno i pubblicitari, non si vende un contenuto (spesso simile a molti altri), ma un’emozione ad esso associato. L’emozione che Winx offre è di essere fate coraggiose alla moda, o, più esattamente, essere glitterate (ovvero “scintillanti”, dall’inglese glitter, scintillare, scintillìo, NdR) e produrre glitter magico. Winx vende, cioè, glitter coraggioso. Alle critiche di superficialità, il produttore Iginio Straffi si difende dicendo che in Winx ci sono valori forti come l’amicizia, l’onestà, la giustizia e l’amore.
Non le sembra strano? Se di conformare a dei modelli si deve parlare, la Chiesa non dovrebbe premere per imporre la sua Razanne? Mi viene in mente Pasolini, che credeva che la Chiesa avesse il potere di frenare determinate logiche di mercato. Il discorso qui è tutto laico… non sono d’accordo con Pasolini, perché la soluzione non è rifiutare il consumo ma imparare a comprenderlo e, dove si può, boicottarlo. Io ero a favore, ad esempio, della campagna della Bonino «Ti spengo e non ti compro», che invitava tutte le donne a smettere di comprare quei prodotti che vengono pubblicizzati denigrando l’immagine femminile. Per quanto riguarda i modelli imposti dalle bambole… non vedo un controsenso, anche perché per la Chiesa i modelli sono due, sempre suora o puttana. Ma, mi chiedo, non ci può essere una via di mezzo? Qual è secondo lei questa via di mezzo quando si parla di offrire una scelta ai bambini? Premesso che non ho la verità in tasca. Con Ancora dalla parte delle bambine io non ho scritto un manuale d’uso,
sibile. Non è un caso che il target delle Winx si sia rivelato il prescolare e non le bambine di dieci anni, come inizialmente pensato dalla Rainbow. Provate a vedervi (se ci riuscite) quattro episodi consecutivi delle Winx: alla fine la cosa più interessante sarà davvero scoprire il nuovo costumino di Aisha… Il vero problema è che sotto il glitter c’è il vuoto pneumatico. Se proponiamo il vuoto, riempiremo di vuoto le nostre bambine e il glitter diventerà davvero un valore, perché sarà l’unico messaggio a passare. La Rainbow ha una grave colpa di reiterata omissione di qualità, giustificata nella prima serie, ingiustificata dopo il grande successo economico. C’è, più in generale, l’emergenza contenuti nei cartoon occidentali, anche in quelli meglio confezionati: facendo meno bambini, siamo diventati paranoici: guardiamo un paio di scene di un cartoon e accusiamo la tv di far male ai bambini. Risultato: i cartoon sono sempre più asettici, vuoti, perché le tv temono le proteste dei genitori. Gli sceneggiatori hanno sempre più difficoltà a far vivere ai bambini immaginative intense, nuove e positivamente travolgenti, come sa ancora fare la migliore letteratura per ragazzi. Il guaio è che abbiamo emittenti che ammettono: «Cerchiamo roba colorata che gira, che non occorra mettersi lì a vederla». Il Nulla hendeliano avanza... di Andrea Rossi
ma ho tracciato una mappa. La soluzione che vedo è che gli adulti educhino in primo luogo se stessi, per poi poter iniziare i propri figli: solo nel momento in cui loro per primi si rendano conto di dove sono, possono indicare la strada. Sembra un’ovvietà, ma non ci siamo ancora arrivati. Io ad esempio non ho mai praticato particolari censure ai miei figli, salvo Maria De Filippi, perché Maria De Filippi finge di decodificare il reale, ma non lo fa, e nei suoi programmi ci sono le Winx fatte di carne, le Winx e i loro fidanzati! A parte questo, ho sempre cercato di leggere assieme ai miei figli quello che c’è dietro. O boicottare, anche se si è già adulti. Ad esempio, io non comprerò mai quella pasta che nella pubblicità utilizza un corpo nudo femminile sotto la doccia, così, gratuitamente. Perché non voglio più accettare l’uso che viene fatto del corpo femminile.
Se vuoi sapere il parere di un esperto sulle Winx, leggi il box qui sopra, altrimenti ascolta l'opinione di un uomo sull'educazione dei bambini a p. 16.
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Gregory Bateson (Grantchester 9.V.1904 | San Francisco 4.VII.1980)
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Aria di tradimento: libecco g.c.
Ci penserà la chimica di Olga Patti : olga.patti@hotmail.it Certo vivo in ansia continua, gioco puntando poste minime e aspetto non so che cosa, faccio calcoli e passo intere giornate al tavolo da gioco osservandone l’andamento; perfino in sogno vedo il gioco, eppure mi sembra di essere diventato di legno, quasi mi fossi impantanato nella melma. Fëdor Dostoevskij, Il giocatore
Un tempo, coloro che si rovinavano giocando d’azzardo, erano considerati depravati e viziosi; dobbiamo aspettare l’inizio degli anni ’80 perché la scienza medica riconosca questo disordine fra i disturbi mentali, inserendolo nella terza edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM–III), edito dall’Associazione degli psichiatri americani (APA). I soggetti coinvolti manifestano un comportamento persistente, ricorrente e mal adattativo verso il gioco, che può compromettere
attività personali, familiari e lavorative. Esistono ipotesi psicanalitiche che si basano su delusioni passate del giocatore che ne possono rendere la mente vulnerabile e/o teorie fisiologiche fondate su alterazioni biologiche che possono interagire anche con fattori psico-ambientali. Verso la fine degli anni ’80 sono stati rilevate nell’attività cerebrale dei gamblers (persone affette da dipendenza da gioco) delle carenze simili a quelle riscontrate nei bambini iperattivi, cioè una difficoltà a controllare o dominare atteggiamenti e impulsi. Nello stesso periodo è stata formulata un’altra ipotesi: una mancanza da serotonina che si traduce in un alterato funzionamento del sistema nervoso centrale. La serotonina è un neuromediatore chimico responsabile anche della regolazione delle forme compulsive. Da non sottovalutare anche l’insufficienza da beta-endorfina, una sostanza naturale prodotta dal sistema nervoso centrale con proprietà analgesiche; chi ne presentasse un ammanco troverebbe rimedio nello stato di ebbrezza da gioco, sopperendo a tale deficit; ma non è stato ancora spiegato perché la dipendenza sia verso il gambling e non altre attività eccitatorie. Fondamentale anche il ruolo della dopamina, neurotrasmettitore responsabile nella sensazione del piacere, coinvolta in un sistema di gratificazioni presente nel cervello. Problemi a livello dopaminergico si relazionano anche a fattori fisiologici, sociali e cognitivi. Tutte le teorie sopracitate si avvalgono sullo studio condotto nel 1988 da A. Roy in cui furono messe a confronto le endorfine e relativi substrati di individui normali e patologici, rivelando in questi ultimi un aumento dei metaboliti della noradrenalina nel liquido cerebrospinale e un conseguente aumento anche nell’escrezione del neurotrasmettitore stesso che si traduceva in pallore, tensione muscolare, sudorazione, inquietudine, eccitazione psicomotoria; tutte modificazioni che vengono percepite come appaganti. Lo stato di esaltazione che permette il superamento di ansie, stress, paure è causato principalmente da una sovreccitazione adrenergica, con la convinzione da parte del giocatore compulsivo, di poter governare il “caso” (sindrome da onnipotenza) e con il sollievo, più che il desiderio di vincita. Non esiste una terapia comprovata per il trattamento del gambling, che spesso è analogo a quello delle tossicodipendenze, ovvero, terapie educative individuali e di gruppo, e la collaborazione con associazioni (GA, ). È necessaria una riorganizzazione familiare/ affettiva nella vita del soggetto ed eventualmente una terapia farmacologica a base di ansiolitici (per contenere la fase di astinenza) e di antidepressivi.
Vai a p. 69 e scoprirai altri “bambini” prigionieri della guerra, oppure, se ti piacciono i racconti, ma cortissimi, vai a p. 37.
Il gioco d’azzardo nei romanzi francesi di Aragon, Malraux e Barbey d’Aurevilly di Natalie Leclerc : natalia.leclerc@free.fr
I differenti pensatori che hanno analizzato il gioco, fra cui i più conosciuti sono Roger Caillois e Johan Huizinga, definiscono questa attività, e in particolare il rapporto che intrattiene con il reale, in maniera piuttosto univoca: il giocatore, quando gioca, si distacca dalla realtà, si libera dei vincoli che essa gli impone, per situarsi in una sfera parallela. Ma, contrariamente all’antropologia, la letteratura presenta il rapporto fra il mondo del gioco e il reale in modo diverso. Le opere letterarie che rappresentano il gioco mostrano effettivamente il distacco dalla realtà. Uno degli esempi più espliciti è quello del romanzo di Aragon I Viaggiatori dell’Imperiale (Les voyageurs de l’Impériale, 1942). La sua struttura si basa su un insieme di capitoli, situati nel cuore dell’opera, e intitolati Due battute per niente, che raccontano le avventure del protagonista, Pierre Mercadier, nel momento in cui abbandona la famiglia. Quando decide di tagliare i ponti con la sua precedente maniera di vivere, piatta e borghese, egli si reca dapprima a Venezia e dopo a Monte Carlo, dove frequenta i casinò. Il gioco appare come il simbolo della libertà ritrovata, della presa di distanza dagli obblighi professionali e familiari, ma anche dell’assenza di scrupoli. In questo romanzo Aragon attacca quella che considera la principale causa della prima guerra mondiale: l’individualismo borghese. Se Pierre Mercadier incarna il giocatore che volta le spalle alla realtà, un altro personaggio illustra questo distacco attraverso la follia. Nel romanzo di Malraux La Condizione umana (La Condition humaine, 1933) il gioco appare una sola volta, ma è fondamentale: arrivato per caso al Black Cat di Shanghai, Clappique, uno dei personaggi chiave, si lascia trasportare dal fascino della roulette. Durante il gioco, vede il tempo passare, ma nonostante debba andare ad avvertire Kyo, un suo amico rivoluzionario, ricercato dalla polizia, non riesce a staccarsi dalla roulette condannandolo così a una morte atroce. Già affetto da mitomania, Clappique vive in un mondo a parte; la roulette non fa altro che peggiorare la sua situazione, allontanandolo ancora di più dalla realtà e facendolo diventare così una vittima perfetta del meccanismo diabolico del gioco d’azzardo. Il gioco nelle opere letterarie non si limita a rispecchiare il distacco dalla realtà. In alcuni casi crea veramente un altro mondo, non parallelo, dove si può accedere per giocare e uscire liberamente. Un intero universo in cui si succedono avvenimenti fondamentali legati al gioco è presente nel racconto di Barbey d’Aurevilly Il rovescio delle carte di una partita di whist
André Malraux (3.XI.1901 | 23.XI.1976)
Azzardo tra realtà e finzione
86 (Le Dessous de cartes d’une partie de Whist 1850). Il gioco del whist rappresenta davvero il filo conduttore dell’intero racconto: ad esempio, è durante le partite che si sviluppa la storia d’amore tra Marmor de Karkoël e la contessa di Tremblay e scopriamo la gelosia di quest’ultima nei confronti della propria figlia, Herminie, anch’essa innamorata di Marmor. Lo stesso titolo è una chiara allusione alla parte nascosta della storia, che si conclude con la misteriosa morte della figlia della contessa e la scoperta del cadavere del presunto bambino di Herminie. L’invisibile non solo si contrappone al visibile, ma è soprattutto il livello fondamentale del racconto. Il gioco quindi non ostacola la realtà, ma in questo caso ne è il motore principale: è attraverso il whist che i luoghi e i personaggi, in generale spenti e decadenti, rivivono, come nel caso della contessa che viene metaforicamente paragonata a una larva che, giocando, si trasforma in farfalla. Il gioco dunque rappresenta la dinamica attraverso cui il “virtuale” si trasforma in reale. Abbiamo analizzato differenti relazioni tra gioco e realtà e abbiamo visto che nella sfera del gioco si producono avvenimenti essenziali. C’è forse qualcosa di più serio nella vita dell’essere umano?
Se ti piace la rappresentazione letteraria dei giochi d’amore, vai a p. 18, altrimenti vai a p. 85 e scoprirai il gioco che domina l’economia mondiale.
40°42’39.64”N | 74°00’45.28”O
L’enigma della borsa
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l’hai nel culo, verdi come in the money e galoppi come Gengis Khan nelle steppe Volatilità a grappoli. Come se piovesse. infinite sul tuo purosangue da compeSiamo entrati in un ciclo di turbolenze. tizione. È lì, quando sei in mezzo alla Come fare a spiegarlo a Matilde, ap- steppa, che ti piace così tanto cavalcare pena tornata dall’Alaska? Come fare a che non smetteresti mai, perché la curva spiegarle che per dieci giorni non esco, si impenna e la tendenza è steepening”e non mangio, non parlo, non dormo. Solo il mercato è bullish, e il tuo cavallo si gallette di riso e tè verde senza zucchero. trasforma in un bisonte e non vedi in lonManco fossi Pannella. Ma in verità è così. tananza i grifoni che volteggiano, le iene Sono un trader, un trader per vocazione. che ridacchiano, gli squali che inarcano Eccomi a casa, davanti allo schermo. le pinne e affilano i denti. Da solo ad interpretare i segnali delle È lì che sbagli, e invece di impallinare col borse. Un pc portatile, una connessione mouse il cuneo verde, aspetti che diventi ultraveloce, un conto on line, trenta caffè, rosso, come un elefante stanco, che cento caffè, caffè al posto del sangue. E si consegna alla morte senza opporre si riparte. resistenza. Come spiegarlo a Matilde? Nervi saldi. Vendi se sale, compra se Come dirle che “l’incertezza è la condiscende, vendi se non riesci più a tenere zione fondamentale del mercato” e che stretto il buco del culo. Compra quando io non so se continuare questo gioco al tutti vendono. Salire controcorrente, massacro o se invece staccare la spina, come un salmone sulle curve seghettate, prendere lo scrigno intarsiato per andarsui grafici a candela, tra i supporti e le cene insieme, sui colli, a consumare le resistenze. zollette marroni? Sul video saltano elettroni cuneiformi, Ma non c’è tempo per pensare. Ritorno rossi come out of the money, quando ce sul pezzo. Rieccoli i maledetti grappoli. di Claudio Emme : www.48ore.com
Le curve scendono come i mostri di Space Invaders. Spara quando sono verdi, cristo! No, no aspetta, ancora un momento. Quante vite ho, quante tacche di energia. Datemi un’altra chance bastardi. C’è un’aria euforica e sono solo le nove del mattino. Ma la situazione è complessa. Ingarbugliatissima. Non riesco a trovare la chiave. I grafici si stanno rosolando piano sull’olio frizzante della classica ondata di acquisti d’inizio giornata. Poi, all’improvviso, succede l’imponderabile. Un pesce grosso vende e compra grandi quantitativi di tre titoli e il soffritto comincia a scoppiettare. Molti perdono il controllo della situazione e anch’io non so se tenere i nervi saldi o se vendere prima che sia troppo tardi. Poi tutto si risistema. Il giorno dopo stessa commedia. Sempre sugli stessi tre titoli. Quando lo squalo compra, tanti pesciolini lo seguono sperando di dividere con lui i profitti. Quando vende, però, per molti è un bagno di sangue. Ma giocare alla roulette piace un po’ a tutti e i pesciolini pensano ➲
Interzone, Chirurghi per hobby (particolare) Museo d’Arte Moderna di Gallarate
Ludoteca musicale italiana | articolo a episodi | quarta parte 84 di Stefania Piras : stefania.piras@argonline.it Giocattoli pretestuosi Quando la parola gioco e i suoi parenti compaiono nei titoli di una canzone. Un gioco dell’oca per significati a più facce e altrettante sfumature culturali ed emotive nelle canzoni: vita, sport, infanzia, era sesso o era amore?
Sull’onda dei buoni sentimenti e della critica alla contemporaneità sono le canzoni Giocattoli (2003) di Luca Barbarossa e Il capo dei giocattoli (1997) di Maurizio Lauzi, premio della critica nel festival sanremese, in cui si ricorda e si cerca di far rivivere un’atmosfera natalizia con un fantomatico capo dei giocattoli, controfigura di Babbo Natale, che ridistribuisce giocattoli e il senso di un giocare di cui si sono persi voglia e spirito. Barbarossa pure insiste su un tempo che vola e di cui bisognerebbe rimpossessarsi e tra le cause del vuoto esistenziale attuale mette proprio la scomparsa dei giocattoli, il non regalare più giocattoli. Fuoco sui giocattoli (1983) di Enrico Ruggeri è invece una canzone immersa nell’atmosfera politica degli anni ’80, un testo concentrato sulle antifrasi, fuoco su oggetti innocui come i giocattoli sta a indicare le contraddizioni violente dell’epoca: muri che dividono e non si spiegano, ballerini del Bolshoi che scappano negli Usa, rose piantate che non cresceranno mai. Curioso che Il barattolo (1960) di Gianni Meccia – poi autore dell’album Il gioco della
musica (1983) che intitolava canzone e sigla della trasmissione condotta da Baudo Un milione al secondo –, barattolo che “rotola e rotola”, simbolo del trastullo di un amante che si compiace di fare ciò che vuole alla stregua della bambola di Patty Pravo, diventi «il giocattolo della ghigliottina» che farà rotolare le teste blasonate condannate dalla rivoluzione giacobina nella parodia La Primula Rossa (1964) andata in onda sul Programma Nazionale che vedeva il Quartetto Cetra proporre nella trasmissione Biblioteca Studio Uno sketch ironici
incentrati su temi letterari in forma di rivista; un esempio di contaminazione tra letteratura, musica leggera e coreografie televisive. Se poi il fine e il mezzo coincidono nel gioco, come non pensare alla trovata di Cecchetto Gioca Jouer (1981) canzone/ ballo in cui ci si deve muovere secondo precise segnalazioni cantate e a un ritmo sempre più rapido. Nel 2007 il brano è stato anche tradotto in francese, inglese, spagnolo, tedesco e cinese per festeggiarne i 25 anni e nel 1994 si corredava già di una riuscitissima parodia ravvisabile nella divertentissima Il ballo dell’estate dei Latte & i Suoi Derivati.
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che prima o poi toccherà a loro ad uscire in tempo e a guadagnare con lo squalo. Io sto fermo. Non compro né vendo: voglio vederci chiaro. Chiedo consigli ad amici analisti, ma brancolano nel buio. Una cosa del genere sui libri alle undici!!!!!!!!!! Hai capito???». non esiste. «Deve essere una tecnica Io non sono ancora del tutto sveglio, ho nuova», mi spiegano. Sono saltate tutte la gola strozzata dalle Marlboro e lo le regole. Se nessuno riesce a capirne stomaco che ributta Cuba. Le urla di Maniente non c’è speranza. Racconto tutto tilde mi trafiggono il timpano, le tempie a Matilde e mi guarda spaventata, come saltano come canguri ubriachi. «Senti, fossi un extraterrestre viscido e peloso. ecco, mi hai detto che i tre titoli contrattaPer una settimana non ne parliamo. Io ti sono olandesi. Shell, Unilever e TNT». continuo a non mangiare, a non vende- Faccio sì con la testa. «Cosa vuol dire re, a non comprare. La bolletta del gas Claudio? Cosa vuol dire? Vediamo se ci è in mora da un mese. Se non metto a arrivi???». segno un colpo, anche piccolo, conviene «Matilde dammi la soluzione ti prego. che facciamo la scorta di Simmenthal e Non ho la lucidità, non ho la pazienza». cannellini. «No, no, no, devi arrivarci tu!». È sadica Poi il sabato mattina arriva l’illuminazione. la mia compagna. Gode nel vedermi sof«Ho la chiave!», mi urla Matilde dall’altro frire. Non ho alternative. Devo sforzarmi capo del mondo conosciuto. «Devi ven- di trovare una risposta. «Il dieci alle undidere tutto il 10, tutto tutto, il dieci hai ci? Che è successo in Olanda nel 1011?». capito??? Il dieci! Alle undici precise! Il No, no, sei fuori strada. Pensa al nome dieci alle undici il dieci alle undici il dieci dei titoli». «Non so, Mati, non so, non ce
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la faccio, mi arrendo». «Senti allora, senti. Shell, Unilever, TNT. È un anagramma semplicissimo con l’acquisto di due E. Ci vuoi riprovare?». «No ti prego, non torturarmi». «Allora tienitela sta cazzo di soluzione, possibile che non vuoi darmi soddisfazione?». «SHELL UNILEVER TNT. SELL IT TEN ELEVEN UHR, hai afferrato il concetto?». Il dieci, alle undici in punto, programmo la vendita dei tre titoli, che mi procura un guadagno del 135%. Il giorno dopo le borse crollano. È l’11 settembre del 2001. Davanti alla televisione con il volume a palla, Matilde mi allunga lo scrigno intarsiato. È l’ora del grande aperitivo.
Continua a leggere e scoprirai come gli umani si addestrano al gioco del potere. Oppure, se sei un fanatico dell’11 settembre vai a p. 75.
LZ+MS
Monopoli e Risiko!
Due giochi di realtà
di Claudio Comandini : claudiocomandini@infinito.it
La definizione più chiara ed esaustiva di gioco è quella di attività strutturata con la quale si offre una gratificazione ai suoi partecipanti, priva di scopi legati a necessità quali produzione e difesa. Se è così, è curioso constatare come due dei giochi da tavolo tra i più diffusi globalmente negli ultimi decenni siano stati il Monopoli (marchio registrato da Charles Darrow nel 1935) e il Risiko! (nome originale Risk!, ideato del regista francese Albert Lamorisse, commercializzato nei primi anni ’60), i cui scenari e modelli riguardano proprio le forme più tipiche della produzione di ricchezza e della difesa militare, e che quindi articolano le simulazioni simboliche di comportamenti legati alle prassi del libero mercato e all’eventualità della guerra planetaria. Infatti, gli schemi comportamentali trasmessi nella pratica di questi giochi, le cui numerose edizioni si sono adattate ai contesti più diversificati, sono improntati a una competitività molto più serrata e a regole formali decisamente più strutturate di quelle dei giochi legati al semplice divertimento, e riguardano strettamente attitudini altamente culturalizzate: piaccia o non piaccia, fare soldi e muovere conflitti rappresentano le basi e gli strumenti privilegiati della nostra cultura, e certo non da oggi. Se il gioco è davvero un pre-esercizio alle attività proprie dei mammiferi adulti, come sostiene Karl Groos ne Il gioco degli animali (1896, tit. or. Die Spiele der Thiere), il Monopoli, con i contratti, le possibilità e gli imprevisti, le case e gli alberghi da costruire, e il Risiko!, con gli obiettivi segreti, i cannoncini e i dadi, i paesi dai nomi quasi sconosciuti da conquistare, hanno in qualche modo rappresentato nella nostra epoca quell’elemento del gioco simbolicamente associato all’accettazione delle norme sociali e quindi allo stesso ingresso in società: la loro ritualità è di quelle che regolano i riti di passaggio e le iniziazioni. Accade quindi che il gioco divenga non solo istituzionalizzazione del divertimento, ma anche propedeutico a un ottimale inseri-
mento sociale; conseguentemente, le sue caratteristiche più proprie, che dovrebbero essere associate alla spontaneità del corpo in relazione e alla sua autonomia da scopi estrinseci, vengono piegate ad altre esigenze. Consideriamo inoltre che non ha grossa importanza quali fini strateghi noi possiamo essere: indipendentemente da questa eventualità, è sempre la meccanicità del gioco a vincere, imponendosi ai suoi aderenti come una verità priva di discussioni. Sostanzialmente, è il gioco che ci gioca. Nel Monopoli ognuno deve diventare il più ricco possibile e lo scopo dichiarato è mandare in bancarotta gli avversari causando loro gravi esborsi di denaro. Il gioco prende il suo nome da “monopòlio”, dominio del mercato da parte di un singolo venditore; i 750 milioni di persone che in tutto il mondo vi hanno giocato probabilmente non lo considerano un problema, anche se non fanno parte di nessun monopolio e magari soffrono anche di qualche ipoteca. Vietato nella Russia Sovietica, tuttora è al bando nella Cuba di Castro. Risiko! gioca alla guerra, ma la vede come una colpa, e si difende affermando che esso «promuove valori quali l’amicizia, il divertimento, la partecipazione. Aborrisce e ripudia lo scenario tragico della guerra vera, giudicando ineludibile e inevitabile solo la pace, mai la guerra. La pace è il valore supremo, irrinunciabile, per il quale si devono adoperare tutte le organizzazioni, a qualunque livello» (www.risiko.it). Belle parole: sono quasi le stesse usate da ciascuna autorità impegnata in un qualsiasi conflitto. Se a tutti piace parlare di pace, indipendentemente da quanto poi venga vissuta e praticata, occorre constatare che essa costituisce davvero un argomento irrinunciabile per gli aderenti alla religione cattolica romana, che paradossalmente, sebbene a volte lo si dimentichi, derivano il proprio culto da una divinità letteralmente definita nel biblico Deuteronomio (“Dio degli eserciti”), poi innestatasi sul bellicosissimo tronco dell’impero romano. Altro
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paradosso: per quanto i cattolici amino parlare molto di povertà, appartengono per lo più alla parte più ricca del globo, mentre lo stesso nome “cattolico” esprime una pervicace tendenza all’universalità religiosa: sostanzialmente, al monopolio in fatto di anime. Significativamente, un sondaggio promosso da un sito dei cattolici romani esprime un ecumenico semi ex-aequo per i due giochi, che considerati i valori approssimativi sono separati solo dallo scarto dell’1% a favore del Risiko! (42%) rispetto al Monopoli (41%). Nel forum, emblematica l’opinione dell’utente Papa Re rispetto alla sua preferenza accordato al primo gioco, espressa in termini che credo in molti potremmo sottoscrivere: «Soprattutto mi piace quando le battaglie si incarogniscono, nel senso che qualcuno ha chiaramente vinto e qualcuno ha chiaramente perso ma venderebbe la pelle piuttosto di arrendersi, trascinando la battaglia per ore... la vittoria è molto più sentita... beh in quelle occasioni ovvio che preferisco essere io a schiacciare l’avversario, ma non disdegno neppure approntare la strenua difesa...» (cfr. www.cattoliciromani.com/forum/showthread.php/ preferisci_risiko_o_mon_poli-8492.html). Le parole di Papa Re sono suffragate anche dall’interpretazione dei giochi avanzata da Sigmund Freud: favorire lo sfogo dell’aggressività su un piano simbolico, e permettere di gestire timori e ansie. Però, dobbiamo constatare che, dopo decenni di partite a Monopoli e a Risiko!, i nostri timori e le nostre ansie di fronte a problematiche inevitabili quali sussistenza e conflitti non sono per niente diminuiti, e la nostra aggressività non si è affatto accontentata di trovare soddisfacimento nelle sue rappresentazioni. Insomma, il prevalente appiattimento della dimensione ludica a
criteri di funzionalità sociale e alla logica del profitto sembra non aver portato grossi vantaggi, e non possiamo nemmeno nasconderci come spesso siano diventati più aspri anche confronti piuttosto elementari. Inoltre, anche presso adulti apparentemente civilizzati sono evidenti le ricorrenti difficoltà di assimilare alcune delle componenti più avanzate del rapporto fra gioco e sviluppo mentale, che Piaget individua nella capacità di comprendere i punti di vista altrui, e in quella di dedurre le conseguenze di situazioni ipotetiche. Queste difficoltà sembrano verificarsi anche quando adulti anagrafici presuntivamente a capo della civiltà si trovano di fronte ai serissimi compiti dell’economia e della guerra, spesso ridotti nel pensiero dei pop-filosofi più influenti sulle alte sfere, ai modelli proposti da questi giochi. Infatti, l’influenza del Monopoli può individuarsi anche nel pensiero di Fukuyama, per cui la storia è finita con l’imporsi del liberismo su scala mondiale, mentre Huntington tradisce una formazione sudata sui tavoli del Risiko! quando riduce la civiltà a un gioco strategico su misura dei generali del Pentagono. Insomma, non ci resta che continuare a giocare.
Diabolici vero, questi giochi da tavola? Addentrati nell’ombra degli accoglienti soggiorni borghesi tedeschi, se ti va di continuare. Preferisci altri giochi, anche più marci? Vai a p. 51 e conoscerai altri modi per addestrarsi alla guerra.
Uomo, non ti arrabbiare
Chi perde non deve essere umiliato e chi vince non trionfa. Il gioco da tavola in Germania appartiene alla fenomenologia dell’essere borghese. Esistono borse di studio concorsi a premi, per chi li inventa, e forse un giorno per i Gesellschaftsspiel ci saranno anche i diritti d’autore. di Jan Heberlein : janheberlein@gmx.de familiari, gli amici e i conoscenti. Si gioca in gruppi o da soli e di tipi di gioco ce ne sono diversi. Si va dal più semplice Menschärgere-dich-nicht (una sorta di gioco dell’oca), ai giochi creativi, a quelli in cui conta l’abilità, fino al complesso gioco di strategia e al quiz. Nei ricordi dei tedeschi c’è spesso un padre che, ovviamente, vinceva sempre, almeno quando si giocava ai quiz, dato che non partecipava ad altro. La mamma, ingegnosità femminile, era invece imbattibile nei giochi più creativi, mentre la nonna perdeva dappertutto. Di certo questa passione tedesca per il gioco di società, attestata da dati e statistiche
Valerio Vidali, Sirenetta
La scelta di questo tema, me ne rendo conto solo ora mentre scrivo, ha a che fare soprattutto con la prima associazione che mi salta in testa pensando alla parola “gioco”. Ovvero, non sono Lacan, Jung e tutti gli altri, a balenarmi nella mente. Perché per prima cosa mi viene spontaneo pensare al “gioco di società”, che, in tedesco, chiamiamo Gesellschaftsspiel, ovvero ai cosiddetti “gioco da tavola”, come dite in italiano. La persona tedesca, di per sé, perdonate questa generalizzazione che sicuramente ha dei fondamenti, è un homo ludens. E il posto dove può sfogare tale istinto è il tavolo del soggiorno. I partecipanti sono i
1919, Berlin, Weimar Republic
80 e che è frutto anche di uno spirito casalingo e di una tranquillità del tutto borghese, affonda le sue origini nel cosi detto movimento del Biedermeier (che in tedesco ha anche la connotazione spregiativa di “borgesuccio”), nato a metà del XIX secolo, quando la borghesia tedesca avanzò la pretesa di avere anch’essa un posto al sole. Ma di fronte al fallimento politico, di fronte a una rivoluzione fallita e a una costituzione negata (non che la borghesia avesse lottato e si fosse ribellata troppo), gli spiriti della borghesia si accontentarono di rifarsi sedendo intorno ad un tavolo con la tovaglia verde (perché deve essere sempre verde), dove si vince e si conquista, anche se solo virtualmente. Oggi l’industria del gioco da tavolo in Germania ha un notevole volume d’affari. Basti pensare a come i Gesellschaftsspiel vengono utilizzati nella didattica per l’infanzia. Milioni di bambini hanno imparato e imparano a fare di conto, scrivere, e ad usare la loro creatività giocando ai giochi della Ravensburger e della Kosmos & Co. Nel mondo anglosassone, addirittura, il termine che si usa per indicare il gioco di società è German Game che, in particolare, indica
l’Autorenspiel, cioè il gioco d’autore, del tutto originale come variante. La Germania si distingue da altri paesi per aver creato un “pool creativo” di designer di giochi di successo. Nell’ambito dei concorsi Gioco dell’anno e Premio tedesco del gioco vengono segnalati e insigniti i giochi più originali e i loro autori più talentuosi. Da questo concorso è uscito, per esempio, I coloni di Catan, creato dal rinomato autore Klaus Teuber, oggi un bestseller in tutto il mondo, al terzo posto dopo Monopoli e Risiko!. Va da sé che in Germania esistano borse di studio per giovani autori di giochi e che attualmente fra i tedeschi si stia accendendo una discussione che vede protagonisti gli stessi autori dei giochi di società, i quali, per le loro creazioni, hanno iniziato a rivendicare i diritti d’autore, diritti di cui godono, per esempio, gli autori di libri o di brani musicali. A proposito di Risiko!: sarebbe veramente impensabile che un German Game trattasse la guerra e devastazione, dato che in Germania tutti si ritengono abbastanza guariti da questi temi. Anzi, i giochi tedeschi si distinguono per la loro precisione quasi aritmetica. Sono sistemi equilibrati, che pur incitando alla concorrenza fra i giocatori, non causano mai
liti. È un contendere in maniera cavalleresca. Per esempio non è prevista l’eliminazione e anche il posizionamento del giocatore che ha straperso non deve essere troppo lontano da quello del vincitore. Tutto sommato hanno una concezione pacifista. Con questo buonismo non si delude nessuno e non c’è spazio per la figura dello sconfitto vendicativo, di cui faccio parte anch’io. Basta pensare al gioco Mensch-ärgere-dich-nicht (letteralmente: “Uomo, non ti arrabbiare”) arrecatore di famigerati attacchi di furore che non risparmiavano niente e nessuno. Il titolo del gioco ti faceva arrabbiare ancora di più, perché il richiesto atteggiamento civile ti sembrava improponibile, trovandoti faccia a faccia con la cattiveria senza fondo dei tuoi avversari. Viene da pensare che se tutti vincono, nessuno vince veramente. E che questa versione pacifica del gioco sa un po’ di Angela Merkel...
I giochi da tavola non sono sempre fatti sopra un tavolino. Entrano spesso anche dentro la realtà. Se non ci credi, vai a p. 79.
Giulia Ferrandi, Gallina
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Colline Cave Hollow Hills
to facile facile da descrivere, era tutto centro del paese, cambiando di tanto in orologio da taschino con una catenella tanto forma, animale, vegetale, gassosa. Viviamo tra le colline cave, a volte sentia- che pendeva dal panciotto. Un ometto Mio figlio si sistemò nella stanza di sopra mo le voci, quando il vento le porta. Mia insignificante dalla voce talmente bassa e disse: «Questa è la mia stanza». Mia moglie si chiama Mara, ma io la chiamo che dovevi abbassarti, per sentire quello moglie Mara, con la sua voce amara andò in cucina e disse: «Questa è la mia “amara” perché non sorride mai. A volte che voleva dire. guarda dalla finestra, aspetta che suo «Vi do il benvenuto a nome di tutti e cen- cucina». Io guardai la poltrona vicino al figlio faccia ritorno, ma lui non torna. Non toquattro i cittadini di Alcante e io, come camino e alla finestra ma non dissi nienvivevamo qui tra le colline cave, un tempo primo cittadino, vi porgo i miei omaggi, te. eravamo giù in paese, ad Alcante, così si certo che qui troverete un posto acco- Alcante contava centoquattro abitanti, adesso eravamo centosette. chiama il paese che abbiamo lasciato. Ci gliente per voi e per i vostri figli». eravamo arrivati con la nostra carrozza, Dopo due giorni avevamo già trovato Un mattino vidi l’addetto del comune, si i nostri cavalli in male arnese. Io, mia casa. La padrona di casa che era difficile presentò dicendo: «Salve, io sono l’admoglie e nostro figlio Ben. Il sindaco ci da descrivere, assomigliava a qualcosa detto del Comune di Alcante». Ricambiai aveva dato il benvenuto, stringendoci la di intermedio tra le forme vegetali, quel- il saluto porgendogli la mano, la sua era mano, a me e a mio figlio, si era inchinato le animali e persino quelle gassose. La imbrattata di vernice rossa, mi indicò e aveva salutato mia moglie Mara, che io salutammo, lei ci diede le chiavi di casa un cartello dicendo: «Ho appena fatto chiamo “amara”. Il sindaco era un omet- e prese il sentiero che portava verso il un lavoro importante». Gli chiesi cosa di Giuseppe Merico : giuseppe.merico@argonline.it
Giulia Ferrandi, Mara
avesse mai fatto di così importante, mi disse di seguirlo, mi portò al cartello di legno all’ingresso del paese, vicino a un grosso fienile. Il cartello era di legno, c’era scritto alcante, abitanti 104. La scritta era cancellata con una grossolana linea rossa. In basso c’era scritto, alcante, abitanti 107. I primi mesi furono facili, io trovai lavoro presso l’ufficio postale. Mio figlio Ben frequentò la scuola, faceva la quinta elementare, mia moglie si occupò della casa e di due galline che comprammo al mercato per avere le uova fresche di giornata. All’inizio dell’inverno, portai una lettera al sindaco, proveniva dal paese vicino che si chiamava Alvante. Il sindaco la lesse, non aspettò nemmeno che io andassi via. Mi guardò sbalordito e con voce imperiosa disse: «Lei e la sua famiglia rimarrete qui ad Alcante!». Io non capii subito. Qualche giorno dopo mia moglie “amara”, ehm…scusate, Mara, mi disse che in mattinata erano venuti due uomini a farle visita e mi mostrò una cesta che avevano lasciato nel soggiorno. Conteneva ogni ben di Dio, c’erano salumi e pane e pasta e uova e pesce e fiori e cioccolato e sale e zucchero e caffè e pannocchie di mais e farina e pomidori e arance e limoni e mele e pere e olio e aceto e menta e salvia e alloro e un pollo e un tacchino altre cose, la cesta sembrava non avesse fondo. Erano gli uomini del paese, quello confinante al orologio da taschino vi rimase intrapponostro, Alvante, disse mia moglie. Per tutto l’inverno ci sfamammo di quelle lato in mezzo. Vedevo la grossa cipolla al provviste, sembrava non avessero fine. di qua della porta e il sindaco che urlava Gli uomini di Alvante vennero a farci dall’altra parte: «Roba da matti!», diceva. visita in primavera e in estate e tutte le Il grosso orologio si staccò e cadde per volte ci portarono un cesto pieno di ogni terra, il sindaco aveva dato un grosso ben di Dio. Noi non facevamo altro che strattone e la catenella si era rotta. Bussai, il sindaco aprì la porta, era rosso in ringraziare, cosa avremmo dovuto fare? Il sindaco di Alcante, in luglio, ricevette viso, aveva gli occhi gialli, mi strappò il un’altra lettera misteriosa, anche quella suo orologio dalle mani e richiuse la porvolta mi disse: «Voi rimarrete qui ad Al- ta sbattendola più forte di prima. Fu in un giorno di agosto quando il sole cante!». Quando gli chiesi spiegazioni, non mi ri- faceva ciao tra le colline che fanno da cospose, ma mi chiese se avessimo accet- rona ai due paesi, Alcante e Alvante, che tato doni da qualcuno negli ultimi tempi. vidi l’addetto del comune dirigersi con un grosso pennello rosso verso il cartello Gli risposi di sì. Mi lasciò sull’uscio di casa, entrò dentro all’ingresso del paese, vicino al granaio. sbattendo la porta così forte che il suo Lo seguii e vidi la scritta alcante, abitanti
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104, ed era cancellata con una grossolana linea rossa. alcante, abitanti 107, e anche questa scritta era stata cancellata con una gocciolante linea rossa. L’addetto del comune scrisse, alcante, abitanti 106. Mi guardò stizzito e mi disse: «L’avete fatta grossa voi altri, sui nuovi arrivati non si può mai contare». «E perché mai?», dissi. «Perché? Perché? E me lo chiede anche?». Andò via portando con sé il secchio della vernice e il pennello rosso, lasciando gocce di colore lungo tutto il cammino. Tornato a casa vidi mia moglie, guardava fuori dalla finestra in direzione del paese confinante, Alvante. Mia moglie piangeva, mi disse che Ben
Giulia Ferrandi, Sindaco
Giulia Ferrandi, Padrona di casa
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non era tornato da scuola, che non sarebbe tornato, mi disse di leggere la lettera che le avevano lasciato i due uomini di Alvante, le avevano fatto visita la mattina stessa, ma questa volta non portavano alcun cesto. Essendo il nostro paese, Alvante, in guerra con il confinante paese di Alcante ed essendo questa guerra basata sulla tattica e la strategia, abbiamo apportato una mossa decisiva, quasi uno scacco alla regina. Avendo la vostra famiglia accettato per tre intere stagioni i nostri omaggi, le ceste senza fondo, siamo in diritto di prenderci un pedone. Vostro figlio Ben, da oggi entrerà a far parte della nostra comunità, la quale raggiungerà il numero di 103 abitanti. Siamo ancora in svantaggio di un pedone rispetto all’odiato paese di Alcante che ad oggi conta 104 abitanti. Se vorrete trasferirvi nel nostro paese sarete i benvenuti e la nostra comunità vi accoglierà come figli, sappiamo però che la comunità di Alcante non vi lascerà andare tanto facilmente. Ragion per cui, vi assicuriamo che il vostro
figliuolo di nome Ben verrà trattato con la e piangendo mi riaccompagnò a casa. massima premura e dato in affidamento, Mentre tornavamo indietro, le guardie dai da oggi, al signore e alla signora della casa palloncini rossi ci lanciavano sassi come grande accanto alla chiesa. si fa con i cani. Il silenzio dei nostri concittadini ci circonVi porgo i miei più cordiali saluti, dò e in una notte senza luna fuggimmo. il sindaco di Alvante. Passai i giorni successivi a chiedere Uccisi una guardia con un grosso masso, spiegazioni al sindaco di Alcante, alla mentre mia moglie la confondeva mogente del paese, tutti si chiusero in un strandogli il seno. La guardia cadde mormurato silenzio. Quando cercammo di ta, il sangue si mescolò al colore del suo attraversare il sentiero che dal cartello e casco e dei suoi palloncini rossi che ora dal granaio portava al confinante paese sembravano spuntare dal suolo come di Alvante, per la prima volta vedemmo tulipani nella notte. La seconda guardia le guardie. Indossavano una tuta rossa corse a chiamare rinforzi, ma arrivarono che gli fasciava le gambe e i grossi mu- troppo tardi. Noi siamo già qui, tra le colscoli delle braccia, sulla testa portavano line cave, ad ascoltare le voci quando il un casco rosso e dal casco partivano vento le porta. Nostro figlio Ben non tordue palloncini rossi legati con un filo ad nerà a casa. Vano è ogni nostro tentativo entrambi i lati della testa. Le guardie ci di riaverlo, le guardie blu di Alvante non minacciarono con i forconi, ci ordinaro- ci fanno entrare nel paese. Mia moglie no di tornare indietro e quando opposi Mara è sempre più “amara” e trascorre resistenza dicendo che dovevo andare a i giorni a guardare fuori dalla finestra, in trovare mio figlio Ben ad Alvante, uno di basso, ai piedi delle colline dove sorgono, essi mi mollò un pugno. Mia moglie mi confinanti e nemici, il paese rosso di Alasciugò il sangue che sgorgava dal naso cante e il paese blu di Alvante.
Voto di scambio: a ognuno la sua croce g.c.
Vai a p. 69 e scoprirai altri “bambini” prigionieri della guerra, oppure, se ti piacciono i racconti apocalittici, vai a p. 75.
Comunque la pensi, l’acqua va risparmiata info www.acquarisparmiovitale.it Anche in Emilia-Romagna i cambiamenti climatici hanno iniziato a farsi sentire, con temperature più elevate e stagioni sempre più variabili e bizzarre. Le previsioni e gli studi confermano per il futuro questa tendenza. La Regione è impegnata a scongiurare e prevenire le possibili situazioni di crisi idrica, potenziando le reti, migliorandone l’efficienza e incentivando il risparmio e l’uso delle nuove tecnologie per la conservazione nei settori civile, agricolo e industriale. Per consumare meno e meglio e garantire questa risorsa a tutti, oggi e domani.
Ma senza il contributo di ognuno di noi, tutto questo potrebbe non essere sufficiente. Una buona parte dell’acqua viene infatti impiegata per gli usi domestici e anche i nostri gesti quotidiani, in casa o in giardino, contribuiscono a limitarne lo spreco. L’uso razionale e consapevole dell’acqua porta con sé un significativo risparmio energetico ed economico, alleggerisce le bollette e fa bene all’ambiente. Se sconfiggiamo le “cattive” abitudini restituiremo a questa risorsa rispetto, valore e pregio. Facciamo in modo, insieme, che il bicchiere sia sempre mezzo pieno e non mezzo vuoto.
Nathalie Djurberg, Florentin | still from video, 2004, 03.36 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano
Il gioco di M. 75 di Luigi Bernardi
«Amore, se proprio vuoi regalarmi qualcosa, regalami un 11 settembre», avevo detto, e mi ero rituffato fra le sue gambe, dove Lei mi aspettava tremula, vagamente disturbata dall’interruzione. Lei era il sesso di M., un’entità così speciale da meritarsi la maiuscola. La mia lingua aveva riacceso all’istante la corrente, pacificando la carne offesa e riportandola all’eccitazione precedente il capriccio di staccare la bocca, alzare la testa, suggerire quell’idea strampalata. L’orgasmo era arrivato quasi subito, assoluto come sempre, un cortocircuito che si avventava sui nervi di entrambi, i suoi in una folgorazione che la faceva pulsare, i miei in un’apnea di trionfo durante la quale mi sentivo padrone del mondo. Mi perseguitava, la storia dei regali. Nessuno sapeva mai cosa scegliere per me. Davo l’impressione di avere già tutto e finiva che non mi regalavano niente. Non che la cosa mi pesasse, tutt’altro. Quando ricevevo dei
doni o erano cose che possedevo già e di cui dovevo fingere la mancanza, un’ammissione che mi costava la fatica di confessare lacune inesistenti; oppure cose di cui non m’importava nulla e gettavo nel primo cassonetto a portata di mano, sentendomi sempre piacevolmente bastardo mentre lo facevo. A ben pensarci, forse avevano ragione loro, e non regalarmi niente era la soluzione migliore, oltre che la più economica. M., no. M. sapeva sempre cosa scegliere. E ogni volta mi stupiva con oggetti che mai mi sarebbe passato per la mente desiderare: oggetti miracolosi che subito dopo averli ricevuti mi parevano irrinunciabili. Come quei dadi dalla superficie sempre fredda, o lo stetoscopio con il quale m’incantavo ad ascoltare il battito del cuore e forse anche il flusso del sangue, o le scatole di plastica trasparente che a toccarle sembravano fatte di materia viva, per non parlare della scatola di legno che da quando ce l’ho non passa giorno senza che mi scervelli su cosa metterci dentro.
Avevamo fatto l’amore a lungo quella sera, come sempre. M. era torrida, appassionata. Mi rivoltava in continuazione e io facevo uguale con lei, ci nutrivamo della nostra stessa fame. In una pausa, mentre ci umettavamo a vicenda le labbra seccate dagli orgasmi, se n’era uscita con la storia del regalo. Voleva offrirmi qualcosa per festeggiare il mio successo, niente però le sembrava all’altezza: per questo mi chiedeva un suggerimento, quanto meno un desiderio. Non era da lei domandarne, di sicuro voleva giocare, come spesso le succedeva. Il suo inganno era evidente: voleva un’indicazione, anche vaga, per poi sorprendermi con qualcosa di totalmente inatteso che doveva avere già in mente. Avevo deciso di stare al gioco e finalmente era arrivata l’illuminazione che mi aveva portato a interrompere la foga amorosa per chiederle quello sproposito. La serata era proseguita fra i gesti e le parole di passione che non ci stancavamo di rinnovare. M. non
Nathalie Djurberg, There Ain’t no pill | still from video, 2004, 05.25 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano Nathalie Djurberg, Badain | still from video, 2005, 05.24 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano Nathalie Djurberg, Badain | still from video, 2005, 05.24 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano
si era lasciata sfuggire un solo commento il cui odore svaniva giorno dopo giorno e notte dopo notte dalle lenzuola che ormai sulla mia richiesta. Il giorno dopo, M. non c’era più. Non rispon- sapevano soltanto di me e del mio odore deva agli sms, alle mail, alle telefonate, e ammuffito. non passavano cinque minuti senza che M. ha chiamato il 24 febbraio. Era ieri. tentassi di raggiungerla, con qualsiasi «Questa sera guarda il derby, quello di mezzo. Nello studio di progettazione dove Roma», mi ha detto. «Ti amo. Non smettelavorava non si era presentata, i pochi rò mai di amarti di un amore indistruttibile», amici comuni giuravano di non averla vista. ha aggiunto prima di riagganciare, vapoAvevo le chiavi di casa sua, a sera tarda ero rizzando in un gesto tutte le domande che così preoccupato da autorizzarmi a usarle, mi affollavano la mente. io che non lo facevo mai: una sorta di di- Solo questo mi ha detto, di guardare una screzione che mi pareva sacrosanta e avrei partita fra due squadre di calcio che mi gradito a ruoli invertiti. L’appartamento era erano estranee, sia pure non fino al punto deserto. Il letto disfatto di sicuro accoglieva di non coltivarne l’antipatia. Dopo qualche ancora tutti i nostri odori. Sembrava esserci minuto durante il quale ero rimasto sospeso, tutto. C’erano i computer, quello da tavolo il telefonino attaccato all’orecchio nella spee il portatile: entrambi spenti, l’accensione ranza che ricominciasse a parlare, ho guarbloccata da una password che non cono- dato l’orologio. Alla partita mancavano una scevo. Ho guardato fra i vestiti: M. ne aveva decina di ore. Ho acceso il televisore, non lo così tanti che non potevo memorizzarli tutti. avevo fatto per i novantasette giorni preceDi sicuro mancava la sacca che portava denti e volevo essere sicuro che funzionassempre con sé a mo’ di borsetta. L’evidenza se. Funzionava e fra le tante cose che ho non lasciava scampo: M. se n’era andata e appreso in una veloce carrellata fra i canali c’era che non avevamo più un governo, che io non sapevo perché. Al momento di uscire da casa, dopo avere una donna aveva ucciso la sua vicina di casa dato un’ultima occhiata circolare a quello e pareva una notizia che avesse scosso la che chiamavo il suo loft, avevo deciso che nazione. Infine, un breve servizio dedicato no, non me ne sarei andato: l’avrei aspet- alla partita di Roma mi aveva confermato tata lì, nudo nel suo letto che sapeva di noi. che si presentava come il solito derby: la Era una decisione irragionevole, l’unica gara in cui tutte le rivalità venivano a galla. che però mi pacificasse. Ci sono rimasto Le forze dell’ordine garantivano il massimo novantasette giorni, scomparendo anch’io sforzo perché l’avvenimento potesse svoldal mondo, negandomi alle telefonate e gersi senza incidenti, e io mi chiedevo cosa alle ricerche, concedendomi giusto qual- c’entrasse M. in tutto questo. che rapida uscita fino al supermercato Ero elettrico, un leone in gabbia, come si dove andavo a comprare il cibo che mi dice. Non mi riusciva di stare fermo. Sono serviva per vivere. M. sarebbe tornata e uscito per fare la spesa. Ho comprato paio m’imponevo di farmi trovare in forma, tatine, popcorn, bibite e anche gli anacardi quando questo fosse avvenuto. che mi sono sempre piaciuti tanto. Ho preIl successo che M. voleva festeggiare, un so anche una pietanza surgelata, una cosa romanzo che era uscito proprio il giorno con il pollo e i gamberetti. Dopo, quando del nostro ultimo incontro, si rivelava una l’ho mangiata, mi è sembrata buonissima. debacle. L’editore mi copriva di messaggi La caffettiera andava in continuazione. Il minacciosi: dovevo rilasciare interviste, televisore era sempre acceso, sintonizfare presentazioni, rispondere alle critiche zato sul canale satellitare che avrebbe che mi stavano affossando, persino a trasmesso la partita. Era un 42 pollici al un’interpellanza parlamentare che chie- plasma e ad alta definizione: lo avevo redeva il sequestro del libro per apologia galato a M. il giorno in cui avevo firmato di reato. Non mi importava: il romanzo al il contratto per il libro. Mi sono visto tre quale tanto avevo tenuto era ormai solo partite una dietro l’altra, ho ammirato il un pacchetto di carta e cartone, niente gol di un fantasista argentino che, prima di cui non potessi fare senza. Era M. di di entrare lui stesso in porta insieme al cui non potevo fare a meno. M. che non pallone, aveva scartato tre difensori e ritornava, M. che non si faceva trovare, M. il portiere. Ha festeggiato levandosi la
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Nathalie Djurberg, Florentin | still from video, 2004, 03.36 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano
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maglia e così è stato ammonito. Siccome già gli era successo dieci minuti prima per quello che il commentatore aveva definito un fallo di frustrazione, l’arbitro gli ha puntato contro il cartellino giallo e subito dopo quello rosso. Non ho mai capito perché un calciatore si tolga la maglia dopo avere segnato un gol, è un gesto così puerile che andrebbe sanzionato non solo con l’espulsione immediata ma anche con l’annullamento della rete. Su certe cose sono molto drastico, soprattutto sulla punizione degli atteggiamenti idioti. Al fischio d’inizio del derby, avevo già mangiato tutti gli anacardi e metà popcorn. Mi sentivo gonfio e non vedevo l’ora di espellere il gas che mi tendeva le viscere. M. e io scoreggiavamo in libertà, era una delle misure del nostro amore che non ammetteva pudicizia. Dopo ci annusavamo anche e facevamo le facce disgustate, poi ci baciavamo, ridevamo e ci baciavamo ancora. Nella Roma giocava un francese, un peperino basso di statura, le gambette come pale di mulino. Era l’attaccante più pericoloso, quello sul quale si concentravano i
falli degli avversari. Guardavo la partita, seguivo le azioni senza appassionarmene, mi ravvivavo solo quando la telecamera andava sulle immagini del pubblico. Cercavo M.: M. doveva esserci, in quei minuti doveva succedere qualcosa che restituisse un senso agli ultimi novantasette giorni. Conoscevo abbastanza bene M. da sapere che sarebbe stato così. La definizione più azzeccata di M. l’ha data un mio amico, uno che l’aveva vista appena una volta o due e non sapeva niente di lei, neppure come si chiamasse. «Ha l’espressione di una che ha appena finito di accendere la miccia di un enorme petardo sotto la sedia di un vescovo e fa l’indifferente in attesa che esploda», aveva detto. Quel mio amico aveva colto nel segno. M. aveva una soluzione per tutto, principalmente per smascherare quel grande bluff che è la vita. Commentavamo le notizie di cronaca e i morti non ci bastavano mai, le atrocità neppure. Ci guardavamo intorno, sentivamo le parole della gente, vedevamo i gesti e ci auguravamo che arrivasse presto una guerra a spazzare via l’ipocrisia dei
comportamenti, la loro falsità. Sapevamo che neppure quella sarebbe servita, ma ce l’auguravamo lo stesso, giusto per movimentare le giornate. Tempo addietro, avevo scritto un romanzo, l’avevo ambientato in una città martellata dai bombardamenti aerei che arrivavano puntuali al tramonto. Mentre lo scrivevo pensavo a Belgrado, che proprio in quei giorni era nel mirino di forze ostili. Qualche anno dopo, ho visto un documentario sui ragazzi di quella città. Erano del tutto identici ai nostri: sciocchi, elementari, sostanzialmente inutili. Avevo commentato le immagini con M., mi diceva che dovevo smetterla di nutrire speranze, che le cose non si potevano correggere: la deriva era senza ritorno. E poi mi canzonava per quelle che chiamava mie origini sessantottine. Meglio la sua di generazione, M. era nata nella seconda metà degli anni Settanta: a loro lo avevano fatto capire sin dall’inizio che il mondo era quello che era e niente o nessuno poteva mettersi in testa di cambiarlo. M. aveva una soluzione per tutto, dalle crisi politiche, ai delitti famigliari alla violenza
Nathalie Djurberg, Tiger Lickin Girl’s Butt | still from video, 2004, 02.15 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano
Nathalie Djurberg, Tiger Lickin Girl’s Butt | still from video, 2004, 02.15 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano
negli stadi. Va da sé che ognuna delle sue soluzioni era peggiorativa rispetto al danno, come se davvero la sola possibilità che ci rimaneva fosse quella di accelerare l’agonia, farla finita nel minor tempo possibile. Non sempre condividevo il suo nichilismo, ma quando cercavo un argomento capace di controbatterlo non mi riusciva di trovarlo. L’11 settembre era il nostro mito, ne parlavamo con gli occhi accesi, le parole incapaci di contenere gli elogi: chiunque avesse pensato ed eseguito quell’azione meritava per lo meno rispetto incondizionato. Per questo le avevo chiesto in regalo un altro 11 settembre, perché entrambi lo aspettavamo un altro giorno così. Verso la metà del primo tempo, il peperino francese era stato falciato da un brutale intervento da tergo, come lo aveva definito il commentatore. In campo era entrata quella specie di barella con le ruote e il motore che ho sempre pensato essere uno dei segni più macroscopici della decadenza umana. Prima di attardarsi in primi piani disgustosi sulla faccia e la caviglia del peperino azzoppato, la telecamera ha inquadrato
M., giusto un istante: era lei che guidava la barella a motore. Il cuore mi ballava in petto: una danza tribale, il culmine della cerimonia. Avrei voluto farmi largo fra le immagini, spostarle, vedere ancora M., sapere cosa stava facendo lì, perché di sicuro qualcosa stava facendo, qualcosa per la quale mi aveva chiesto di guardare la partita. È stato allora che M. ha acceso l’inferno, e lo ha acceso tutto quanto per me. Le decine di ugelli di irrigazione nascosti sotto l’erba hanno cominciato a spruzzare un liquido rossastro, subito il liquido ha preso fuoco e il campo è diventato una fiamma unica e fumosa elettrizzata da altrettante torce umane quanti erano i calciatori, l’arbitro, i segnalinee, gli allenatori, i medici, i giornalisti, i fotografi, i raccattapalle e dio solo sa chi altro si trovasse sul terreno di gioco. Le telecamere non sapevano cosa inquadrare. Era fuoco dentro il fuoco, le fiammelle più brillanti correvano una dopo l’altra a spegnersi dentro la massa infuocata, inghiottite come in un paradossale ritorno alla natura primaria. Le immagini hanno staccato, for-
se il regista ha ritenuto che fossero troppo cruente per gli spettatori. I commenti dei telecronisti, quelli proprio non li ricordo. Le inquadrature mostravano adesso il pubblico. Era il panico. Centomila persone che cercavano di uscire tutte quante insieme dallo stadio. Si accalcavano, spingevano, calpestavano, urlavano, davano calci e botte in testa a chi li precedeva, erano presi a calci e botte in testa da chi li seguiva: tutto uno strattonare di vestiti, una pletora di facce deformate dal terrore, di unghie che diventavano artigli, di denti che si facevano zanne. A un certo punto si sono sentite delle esplosioni fortissime, la telecamera le ha cercate. Ha trovato le tribune, quello che rimaneva della grande tribuna centrale. Prospettive capovolte, travi di cemento che schiacciavano invece di sorreggere, armature di ferro che diventavano spiedi dove andavano a infilzarsi i corpi caduti da chissà quale altezza, sedili, abiti, cappellini che svolazzavano e un fumo e una polvere che annebbiavano la vista, il dettaglio dei cadaveri, del sangue, degli arti spaiati che
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Nathalie Djurberg, There Ain’t no pill | still from video, 2004, 05.25 Min. © Nathalie Djurberg, courtesy Galleria Giò Marconi Milano
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volavano anche loro, forse rincorrendo le giacche e i pantaloni che li avevano contenuti. Quando le prime lingue di fuoco dal campo di gioco solo salite verso gli spalti, il tempo di vedere la faccia di uno spettatore sfrigolare e bollire, la rete satellitare ha bloccato la diretta, e sono cominciate le parole, i servizi in esterna, i collegamenti con gli ospedali, le testimonianze dei sopravvissuti, le dichiarazioni dei politici: una sequenza di atrocità linguistiche che restituiva appena l’inferno che doveva continuare dentro lo stadio. I morti sono stati almeno trentamila, molti di più i feriti. Di calciatori non se n’è salvato neanche uno, è morto anche l’arbitro. Le esplosioni in tribuna hanno decapitato le segreterie dei partiti di maggioranza e opposizione, dei sindacati e delle associazioni di categoria, come le chiamano. Sono morti anche molti poliziotti, carabinieri e vigili del fuoco. È stato proclamato il lutto nazionale, a Roma vige il coprifuoco: almeno per oggi nessuno può uscire di casa ma non me ne può importare di meno.
Le televisioni ritrasmettono di continuo le immagini, cercano sempre nuovi dettagli su cosa sia potuto accadere, sul perché invece si azzardano ipotesi inverosimili. Hanno isolato la sequenza che avevo inutilmente cercato durante la diretta. M. che si toglie il cappellino, lo agita come per farsi notare, lo getta e subito allunga le mani davanti al corpo. Apre tutte quante le dita, le chiude, apre soltanto l’indice della sinistra: undici. Chiude l’indice, riapre le mani, il pollice destro che rimane stretto al palmo: nove. Sorride, mi sorride perché è sicura che la sto guardando, ne sto ammirando il capolavoro. Fruga nella tasca della divisa da sanitario, estrae una specie di telecomando e lo punta verso la tribuna: secondo gli esperti è così che innesca il timer delle bombe collocate chissà dove e chissà quando. Dopo, M. getta quel telecomando e ne prende un altro, rotea alcune volte su se stessa per coprire ogni fetta di campo, fa aprire gli ugelli, scatena l’inferno. Tutti cercano di scappare, compreso il peperino azzoppato. M. no, e io
non smetto di piangere mentre fisso le immagini sul monitor, M. rimane ferma, la stessa espressione sorniona che aveva tanto impressionato quel mio amico, immobile a farsi abbracciare dalle fiamme. Mi chiedo come abbia fatto, non smetterò di chiedermelo. M. era una donna dalle risorse ineguagliabili: sapeva convincere, era difficile che qualcuno si sottraesse alle sue richieste. Cerco di immaginare i suoi passi, dall’idea alla realizzazione: mi commuovo e allo stesso tempo mi esalto. Mi ha regalato un 11 settembre, come le avevo chiesto. Lo avevo detto così, come una sfida impossibile, per smascherare il suo gioco. Dovevo saperlo che niente era impossibile per M., la mia donna. Ora sono io a essere in debito con lei. Il gioco continua, deve continuare. Da questo momento non avrò altro pensiero che raggiungerla, raggiungerla dopo averle regalato un 24 febbraio. Lo merita e io sono sicuro che saprò stupirla. La raggiungerò e finalmente faremo l’amore sulle rovine del mondo.
Si inizia a fare sul serio! Sparano i cannoni e tra realtà e finzione non c’è più differenza. Se vuoi saperne di più su carrarmatini e soldati elettrici, continua a leggere. Altrimenti torna indietro, e vai a p. 85. Troverai arcane corrispondenze simboliche, che emergono dal caos.
Florinda Bolkan | Una lucertola con la pelle di donna | Fulvio Luci, 1971
di Giulia Ferrandi : giulia.ferrandi@argonline.it
Ender’s Game è stato pubblicato nel 1985, primo libro della quadrilogia di Ender di Orson Scott Card. Vincitore sia del Premio Hugo che del Premio Nebula, il romanzo è stato adottato negli Usa come testo di riferimento in alcune università militari. Ender è un bambino che vive in un futuro distopico, dove la sovrappopolazione mondiale impone dei limiti alla natività e la terra è perennemente minacciata da un’invasione aliena. Uno scenario ricorrente nella letteratura apocalittica, dove Ender ricopre il ruolo del predestinato: oscure agenzie governative militari lo hanno scelto e arruolato, lui solo può salvare il pianeta. Ender’ s Game è, fin qui, un libro fantascientifico, ragazzi, che, però, viene studiato dai militari, come quelli dell’Università dei Marines di Quantico, in Virginia, dove il romanzo di O.S. Card è testo di riferimento per la psicologia della leadership. Questo perché Ender’s Game non descrive battaglie al laser o inseguimenti spaziali: anzi, dal momento in cui il bambino viene reclutato nella Flotta Internazionale degli Stati Uniti fino allo scontro finale, gli alieni non si vedono mai. Sono una presenza ossessiva, la possibilità di un loro attacco è costante, ma il nemico è sempre invisibile e, per questo, tanto più temibile. Il Gioco di Ender è un romanzo di fantascienza introspettivo, un building roman in cui la formazione del protagonista coincide con il suo addestramento militare. Addestramento che prevede esclusivamente l’utilizzo di sofisticati videogame, software in grado di riprodurre simulazioni virtuali delle più disparate situazioni di battaglia, determinando formazioni avversarie complesse
Il Gioco di Ender
e sempre imprevedibili. Ender, nel chiuso di una caserma spaziale, gioca: i nemici sono avatar privi di umanità, così come le navette a sua disposizione sono sacrificabili pur di passare di livello. Senza rendersene conto il bambino perde, giocando, un qualsiasi sistema di riferimento etico, per entrare nella logica del vincere a tutti i costi, nella logica della guerra. Ender’s Game oggi, a ventotto anni di distanza, rivela una dimensione di inquietante attualità: non è difficile vedere nella minaccia continua di un nemico invisibile e onnipresente la paranoia del dopo 11 settembre, per non parlare della fantascientifica guerra preventiva narrata da O.S. Card. Ma non è questo il punto, questo è solo lo sfondo del gioco, dell’addestramento mirato a trasformare il protagonista in una raffinata e pensante macchina per uccidere. Non giusto o sbagliato, ma vincitore o sconfitto: il videogame perde tutta la sua innocenza affinché il bambino guerriero possa essere innocente. Quando infatti Ender raggiunge l’ultimo livello e sceglie di distruggere il pianeta nemico, non sceglie di commettere un genocidio, né di sacrificare migliaia di flotte alleate, semplicemente sceglie di vincere. La guerra viene vinta da un bambino che senza saperlo, senza colpa, sta giocando a un videogame reale. Se ti piace il cinema, vai a p. 67, altrimenti continua a leggere.
Morti lerci: transe-unti g.c.
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Gustave Doré, Croisades d’enfants
Le crociate dei bambini
Il “gioco” della guerra nella letteratura e nel cinema di Valerio Cuccaroni : valerio.cuccaroni@argonline.it
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Fra le tante tragiche pagliacciate messe in scena dal nazi-fascismo, una in particolare ha colpito l’immaginazione di Eugenio Montale: la visita in pompa magna di Adolf Hitler a Firenze immortalata in Primavera hitleriana. In questa poesia che ha avuto una gestazione di otto anni, dal 1938 al 1946, troviamo i seguenti versi: «si sono chiuse le vetrine, povere/ e inoffensive benché armate anch’esse/ di cannoni e giocattoli di guerra». Montale stabilisce dunque un’analogia fra lo scenario della città popolata di soldati e armi, da una parte, e le vetrine dei negozi popolate da cannoni e giocattoli di guerra, dall’altra. Così facendo, oltre a stigmatizzare l’esibizionismo “da vetrina” della parata hitleriana, finisce per paragonare le armi ai giocattoli, quindi i soldati a bambini che giocano e, in definitiva, la guerra a un gioco mortale. Questa analogia più o meno indiretta di Montale, comunque marginale all’interno della poesia citata, è stata esplicitamente tematizzata e approfondita, fra gli altri, da Kurt Vonnegut, uno dei maggiori scrittori americani di fantascienza, in Slaughterhouse-Five (1966, trad. it. Mattatoio n. 5 o La crociata dei bambini, Milano, Feltrinelli, 2007). In questo sorprendente romanzo, intriso di lucide visioni e rare perle di saggezza, Vonnegut ripercorre la sua esperienza di prigioniero di guerra e testimone del bombardamento di Dresda (135.000 morti). All’inizio del romanzo, l’autore dichiara di essere andato a trovare un commilitone, tal Bernard V. O’Hare, per farsi aiutare a ricostruire i fatti con l’intenzione di scriverci un libro. In casa del commilitone, l’autore trova però la signora O’Hare rabbiosa, poiché è convinta che l’autore e il marito fossero «solo dei bambini, durante la guerra... Come quelli che stanno giocando di sopra!» (p. 22), mentre lo scrittore li avrebbe trasformati in eroi. Per rassicurare la donna, Vonnegut dichiara di voler scrivere un libro che non esalti affatto la guerra, intitolando anzi La crociata dei bambini. E subito dopo, assieme all’amico O’Hare, s’informa sulla vera crociata dei bambini1, leggendo 1 Avvenne nel 1213 e vide coinvolti 30.000 bambini, convinti di andare in Palestina a difendere il Santo Sepolcro, mentre vennero trasportati in Africa: una metà morì durante il viaggio, l’altra fu venduta.
un libro del 1841, significativamente intitolato Straordinarie illusioni popolari e fanatismo delle folle. Molti sono i paragoni diretti istituti da Vonnegut fra soldati e bambini (soprattutto per la giovane età dei primi), guerra e gioco: il rastrellamento, ad esempio, viene definito uno «svagato gioco amoroso» (p. 56); la maggior parte dei soldati americani catturati e trasportati in treno nei campi di prigionia, appaiono all’autore «poco più che bambini» (p. 70); in una scena descritta in re-wind, cioè all’indietro, gli aviatori, dopo esser tornati alla base, non a caso «lasciarono l’uniforme e diventarono dei ragazzi. E Hitler [...] divenne un bambino. [...] Tutti tornarono bambini» (p. 75). Vista così la guerra non può che apparire un massacro insensato (p. 111), una «farsa», una messa in scena con costumi e personaggi a cui basta logorarsi un po’ per apparire «ridicoli» (p. 140). Stando a questa interpretazione, non bisognerebbe quindi scandalizzarsi soltanto per la questione dei bambini soldato2, ma si dovrebbero considerare tutti i soldati per quel che sono: poco più ragazzi che giocano a uccidersi per volere, interesse e a vantaggio di qualcun altro3. Un’opera interamente costruita sul parallelismo fra bambini e soldati, guerra e gioco, è il cortometraggio Le jeu (Il gioco) di Abderrahmane Sissako: si tratta del suo saggio di diploma alla scuola russa di cinema di VGIK, realizzato nel 1988, in cui il regista racconta la vita parallela di un padre e di un figlio in un villaggio sperduto e desertico del Medio-Oriente. Il film si apre con l’inquadratura dell’uomo che attraversa il villaggio e riceve dalle mani del figlio un Kalashnikov. Dopo aver fugacemente salutato la moglie, il marito si allontana, inoltrandosi nel deserto. Il bambino si rintana in casa a rimpiangere la partenza del padre, fin quando vengono a prenderlo dei suoi amici per portarlo a giocare fra le dune, con rudimentali fucili di legno. Il bambino viene poi catturato dai compagni della squadra avversaria, dai “nemici”. Anche il padre viene fatto prigioniero. Il fanciullo però viene ritrovato dalla madre, che lo riporta a casa e lo lava, mentre il marito resta nel deserto, nelle mani dei suoi carcerieri, che lo uccidono, dopo avergli offerto un sorso d’acqua. Il breve ma densissimo film (22 min. di sabbia e lente simmetrie) si conclude in modo onirico: il bambino sogna di riabbracciare il padre in un laghetto del deserto, esplicita immagine dell’aldilà. Ciò che maggiormente colpisce è il ruolo giocato dalla donna: se non fosse andata a recuperarlo, il figlio sarebbe probabilmente morto, abbandonato dagli amici nella sua “prigione” sotterranea. Morte che coglie puntualmente il marito, privato del soccorso materno della donna. Forse Sissako ci ha voluto suggerire che la guerra è un gioco maschile: sarà dunque l’or2 Sull’argomento si legga Giulio Albanese, Soldatini di piombo. La questione dei bambini soldato, Feltrinelli, Milano, 2005. 3 Paul Valery scrisse: «La guerre est un massacre de gens qui ne se connaissent pas au profit de gens qui se connaissent mais ne se massacrent pas».
mai imminente conquista del potere delle donne a salvarci da questa farsa? Le amazzoni e Condoleeza Rice smentiscono questa speranza, purtroppo. E ancor più scoraggianti sono le madri che trascurano i propri figli, come quella di Hinton, il protagonista de I guerrieri della notte, romanzo di Sol Yurik (1965, trad. it. I guerrieri della notte, Fanucci, 2007) che ispirò l’omonimo film di Walter Hill del 1975, crudo affresco delle giovani gang dei sobborghi americani. Nel finale del romanzo Hinton, rientrando a casa dopo essere più volte scampato alla morte nei degradati quartieri di New York, trova la madre che si accoppia con il suo convivente e degna il giovane figlio appena di uno sguardo. Si può, dunque, facilmente immaginare il perché Hinton abbia eletto a sua “famiglia” di adozione un gruppo di teppisti del suo malfamato quartiere e perché il romanzo si chiuda con il giovane che, uscito di casa, dopo essersi sentito dire dal fratellastro «Jim, hai giocato a fare il soldato. Quando imparerai? Quando la pianterai di andare in giro a fare a cazzotti, e, sì, di fare bambinate?», si rannicchia in posizione fetale, «con gli occhi fissi, il pollice in bocca, finché non si addormentò» (p. 188).
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Se ti senti ancora un bambino, gira la rivista e gioca con Vivian Lamarque a p. 2. Oppure vai a p. 84 e scopri i giocattoli pretestuosi celebrati da Lauzi, Ruggeri e compagnia cantante.
Hard peplum: Ben Dhur g.c.
Small Soldiers | Joe Dante | 1998
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di Jònsi This time I need a soldier/A really bad ass soldier/ That know how to take, take care of me/I’m so damn glad that’s over/This time I need a soldier/I’m sick of toy soldiers/A boy that knows how to take care of me/Won’t be just comin’ over. Britney Spears, Toy Soldier
Tempi grami per i soldati giocattolo. Wargame di celluloide, lasciando perdere il commando di Trey – Team America – Parker, non se ne vedono più dal buon Small Soldiers diretto nel ’98 da Joe Dante. Lì, una multinazionale fabbricava missili e giocatoli guerrieri. Merito delle ambasce in cui è (stato) costretto a dibattersi Dante (critica, censura, politica) se gli alieni-balocco dei suoi film smettono sempre di essere giocattoli per diventare altro, spesso vere e proprie armi da guerra, marionette acide e crudeli. Mentre Gizmo si riproduceva e sfornava esseri bellicosi, i 237 animatronics di Small Soldiers sono divisi in buoni e cattivi sin dal principio: da una parte c’è il Commando Elite, dall’altra i Gorgonauti. Militari predatori contro paciosi nerd di plastica. Quello
che viene dato per mero merchandising (da vendere: pile-incluse!), si tramuta in realtà quando alcuni chip rubati a un potente centro militare danno coscienza ai mostriciattoli. I primi sono programmati per annientare i secondi: al risveglio conta solo colpire l’obiettivo. Gli umani che incapperanno nella guerra, non saranno risparmiati. Bambini compresi. Divertente vedere una ridente cittadina dell’Ohio piombare nel caos di una seconda Operazione Overlord. Fulminante l’omaggio a La moglie di Frankenstein (ne vanno di mezzo anche le Barbie, trasformate in ausiliare dai durissimi Commando). Una favola antimilitarista e anticonsumista si è scritto. In verità, la chiave parodistica è così maledettamente convincente da indurci a cestinare le miniature che collezioniamo in camera. O che teniamo chiuse in qualche scatolone riposto in soffitta. Ecco, chi le ha nascoste o se ne è sbarazzato, controlli meglio l’Apocalypse
casalinga è al suo giorno di svolta. Il lato quieto dell’anarchia immateriale rappresenta il fulcro del film di Dante. Dal suo apologo dipende il destino del genere umano.
Se ti piace il cinema, vai a p. 70, altrimenti siediti davanti al gioco di Go, passando alla pagina a fianco.
Olivier Cadiot, Ling Chi B | Caishikou | © Turandot
Il mondo è una partita di Go, le cui regole sono state inutilmente complicate Breve cronaca di uno scambio prolungato tra Johnson&co. e Butochild
di Johnson&co. : johnsonico@yahoo.it Mi chiamo Butochild. Sono un maestro di Go. Ieri, Johnson è passato da me. Vuole imparare a giocare a Go. Gli ho detto, mentre si sfilava le scarpe: «Ascolti e dimentichi; vedi e ricordi; fai e sai». Lui ha risposto senza guardarmi: «Anche se il Cielo è molto alto, vivo ripiegato senza raddrizzarmi». Johnson è un buon allievo. I miei allievi sono tutti dei manager. Hanno sentito dire che il Go è il modello del nuovo management, del management soft, intelligente, cibernetico, in breve, del management del futuro. Hanno ragione. Il Go non è per il popolo. Certo, «Il passo di chi sa camminare non lascia traccia». «Il Tao che si dice non è il vero Tao». «Il manager che maneggia e amministra non è un vero manager». E via dicendo... Ma Johnson non viene per farsi istruire sul management. Jonhson viene perché vuole imparare a giocare a Go. Almeno così ha detto. Vorrei crederci, ma sono un maestro di Go. Lo guardo sedersi a gambe incrociate e abbassarsi al mio livello, a terra, davanti alla scacchiera. La partita di Go non è cominciata, o forse sì. «Chi sta accanto al mandarino riceve onori. Chi sta vicino alle cucine riceve cibo», gli dico. Jonhson capisce. Mi guarda le mani mentre dispongo lentamente una pietra bianca. Forse davvero non è un manager e non vuole diventarlo. «Resistere alla tentazione, capire che l’angolo vuoto è una brutta cosa». Dimenticatevi degli scacchi. La vita è un gioco di Go. Gli scacchi sono una guerra, ma una guerra istituzionalizzata, regolata, codificata, con un fronte, delle retroguardie, battaglie. Una guerra senza linea di combattimento, senza scontri né retroguardie, al limite senza battaglia, questo è il Go. Il re, la regina, i diritti umani dei pedoni, che centrano oggi come oggi? Il Go è una macchina da guerra ottimale.
Tutti diventano anonimi, singolarità qualunque, un punto nel mondo, un terrorista nell’universo. «Nessun spazio può contenere il vagabondo». Johnson forse è un vagabondo? Sta di fatto che «Non ci sono punti al centro». Johnson impara bene. Se la corda è lunga, l’aquilone volerà in alto. Affilandola troppo, la spada rischia di trasformarsi in ago. Al più forte del suo ardore, la fiamma diventa blu. Johnson ha imparato tutto quello che potevo insegnargli. Senza nemmeno un cenno del capo gli suggerisco che la partita è terminata. «Anche un coniglio intrappolato è pronto a lottare», gli dico; e lui può rispondere: «Di tutte le trentasei alternative, scappare è la migliore». Chi può sognare un allievo migliore? Non tornerà più a giocare con me. Cielo e terra fanno crescere quello che è buono. Il decimo mese si chiama mese dell’obbedienza terrestre. Partire discretamente, è prendere il volo senza aver bisogno d’ali. Johnson sta per tornare da dov’è venuto. «Chi non ha apprezzato il suo maestro né la sua lezione, un giorno forse sarà colto, ma non sarà mai saggio». Johnson chiude la porta dietro di sé e scende lentamente le scale, infila la giacca ed esce in strada. Nevica. Se vuole arrivare a casa più in fretta, gli conviene risalire cinque minuti a piedi verso il metro, allontanandosi da casa sua, in direzione opposta. Invece si tira su il cappuccio, infila le mani in tasca e inizia a camminare verso casa. Se non esistessero gli stupidi non si distinguerebbero i saggi. http://www.kiseido.com http://www.gokgs.com/index.xhtml
In guerra, come nei giochi, gli adulti sembrano bambini: vai a p. 69 e scopri come. Altrimenti, dedicati a giochi meno pericolosi a p. 81.
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I giochi gore, violenti e sanguinolenti in rete*
La distruzione a portata di clic di Raphaël Sigal : raphaelsigal@gmail.com
Internet è un gioco, una duplice scacchiera di caselle sullo schermo e di tasti sotto le dita, che permettono di effettuare innumerevoli azioni. E un accessorio-feticcio: il mouse, piccolo animale informatico inoffensivo con uno o due bottoni, che consente di creare mondi1 e di distruggerne. Un esempio eclatante di questo uso di internet è il gioco gore. Non parliamo qui dei videogiochi iper-realistici elaborati per consolle sofisticate. Ci concentriamo invece su un tipo di gioco davvero particolare: i giochi dalla grafica naïf, bidimensionali, con i quali si può giocare online dopo un download quasi istantaneo. Questi giochi riprendono un’estetica semplice e colorata, piena di reminiscenze del videogioco per bambini, e mettono in scena degli atti brutali con espliciti riferimenti politici contemporanei. Qui bisogna spiaccicare (to squash in inglese) la testa di Bin Laden (il rumore del cranio che si spacca non è male), là farsi kamikaze in mezzo a una folla. Questo particolare tipo di videogiochi pongono, così, molteplici interrogativi in campo sociologico ed estetico: uno spazio di attualizzazione dell’attualità; un’estetizzazione fantasmatica di un’emersione improvvisa del rimosso infantile; un’immagine-movimento della distruzione istantanea, divenuta gioco in seno alla nostra società del XXI secolo. Senza voler fare il processo morale di una tale macabra proliferazione, ci interroghiamo in primo luogo su quella che chiamiamo la temporalità del “clic” del mouse. Tutti questi giochi mettono in rilievo la nozione di istantaneità. Il gioco diviene uno spazio dell’urgenza: l’atto di distruzione, parola d’ordine, garante costitutivo dei giochi di questo genere, è immediato e irreversibile. Il gioco è interamente subordinato a questa distruzione istantanea: essa ne costituisce il cuore, tanto dal punto di vista della “giocabilità” che da quello del piacere. Qual è dunque il dispositivo 2 esibito da tali giochi? * Citazione ripresa direttamente dal sito http://www.absoluflash. com/jeu-gore/jeux.shtml. 1 http://www.procreo.jp/labo/flower_garden.swf 2 «Chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi», Giorgio Agamben, Che cos’è un dispositivo?, nottetempo, Roma, 2006.
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A cosa è legato esattamente questo piacere? A una trasgressione prima di tutto: una trasfigurazione violenta e paradossale dell’infanzia, un doublebind – giochi per bambini vietati ai bambini3. A una certa pornografia nella messa in scena: tutti i gesti si limitano a un meccanico avanti-indietro da sinistra a destra e il linguaggio è ridotto a una ripetizione di onomatopee oscene. A un modo di sperimentare la storia o l’attualità: sono numerosi i giochi che mettono in scena Bin Laden 4, Bush o
degli attentati suicidi 5. A una maniera di essere Dio, infine: un Dio che «rimpiange di aver creato gli umani e che scaglia su di loro i suoi fulmini»6. Forse questi ultimi esempi ci forniscono una chiave per comprendere la dialettica essenziale che costruisce il rapporto del giocatore verso il gioco gore? Una dialettica che è di ordine estetico prima di tutto: un massacro dal colore di caramelle acidule; di ordine etico poi: giocare a ammazzare, giocare a ammazzarsi; di ordine onto-
3 I siti dei giochi gore sono imbottiti di avvertimenti «vietato ai minori di 16 anni». 4 Whack Ben Laden: http://www.absoluflash.com/ jeu-gore/jeux.shtml.
5 Kaboom! The suicide bombing game, la cui pagina d’apertura è un ritratto di Yasser Arafat: http:// www.absoluflash.com/jeu-gore/jeux.shtml. 6 Wrath – http://www.absoluflash.com/jeu-gore/ jeux.shtml.
logico infine: quelli che vengono uccisi non muoiono – play again? Cosa si distrugge alla fine, in questi giochi? Il gioco gore è in fondo un dispositivo di distruzione di significanti essenziali della nostra cultura. Questi significanti appartengono essenzialmente a due campi culturali emblematici delle nostre società contemporanee: i media e la religione. L’irrealtà del gioco si fonde con l’irrealtà degli enunciati mediatici e religiosi, rendendoli maneggiabili, giocabili. «Tutto si gioca con il mouse. Un clic e esplodete!»: un modo di giocare a lanciare degli aerei contro delle torri in tutta sicurezza, insomma.
Ci sono altri video-giochi che addestrano alla guerra: scoprili a p. 51. Altrimenti, vai su Internet e prova a sfidare Bin Laden.
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Interzone, Malesseri Speciali, particolare
Internet è morta. Il gioco si è rotto
L’avreste mai detto? La rivoluzione della rete è un bluff. Ora rimane un simpatico elettrodomestico, che insegue pratiche sociali vecchie e indispensabili come il mondo. di Luigi Ghezzi : luigi.ghezzi@gmail.com
Non aveva bisogno dei geometri dell’orizzonte necessitava capire più cosa non era del cosa poteva essere. Le paure e le illusioni non hanno fugato l’incertezza. [epitaffio che campeggia sulla lapide del gioco-Internet]
La conobbi a inizio anni Novanta attraverso un articolo di una rivista scientifica. Era la rete delle reti, Internet, creata da un giovanotto che lavorava al Cern. Tim Berners Lee unì tre semplici idee: computer, server e reti telefoniche e mise in rete la prima pagina in html all’indirizzo http://info.cern. ch/. Con la nascita di Internet gli esseri umani tornarono a una fase pre-concettuale: nascevano in questo periodo le tesi di un sapere sconfinato alla portata di tutti, delle informazioni in tempo reale, della personalizzazione di ogni contenuto. Internet era il cyberspazio. L’umanità aveva davanti a sé un periodo frizzante, e uno sbrecciare di dighe ideologiche, l’89 era alle spalle… sì, riaffiorava la tremenda parola di “rivoluzione” e dunque: Internet era di destra o di sinistra? La posta in gioco era alta: si rischiava l’estinzione dei libri, l’isolamento dal mondo reale. Dunque il gioco di Internet aveva bisogno dei primi pensieri seri e per questo motivo arrivarono i filosofi a giocare con la Rete delle Reti. Bisognava reinterpretare il linguaggio scon-
clusionato di McLuhan, rinnovare la Scuola di Francoforte con il concetto di “simulacro”, annacquare ulteriormente il pensiero debole nella rete. Nel frattempo Internet si diffondeva e le pratiche di consumo la alimentavano. Presentarsi in Internet veniva definito “costruire la propria identità”. Era il gioco dell’elaborazione del sé con pseudonimi, smiley, firme digitali; una vita frammentata, a finestre, ma pur sempre da osservare con i due occhi dell’essere umano. Internet permetteva di arricchire le telefantasie assopite dal vecchio media della tv. Si giocava molto online e Internet aveva senz’altro ampliato le possibilità ludiche. Lo schermo muoveva meglio i pezzi dei giochi in scatola e ti presentava nuovi amici nei giochi di ruolo (gdr). Le telefantasie si animarono di nuovi paladini, temi, scenari e possibilità grafiche e di simulazione che miglioravano di anno in anno, tanto da renderle sempre più vicine alla realtà. Finalmente qualche etnografo si accorse, forse proprio grazie ai giochi di ruolo, che l’esperienza ludica online e quella offline diventavano sempre più permeabili; si correva in biblioteca a raccogliere informazioni sulle battaglie, su personaggi storici, a leggere romanzi le cui trame potessero intrecciarsi con le sfide digitali. Alcune riflessioni andavano spese anche sui compagni di gioco online, che fossero gli avversari dei gdr o membri di forum e mailing list. Le analisi della comunicazione, della durata, delle dinamiche di queste comunità virtuali rivelarono che esse non erano altro che nodi di potenziali comunità che “nella realtà” magari già
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esistevano. Il Role Playing era in grande spolvero, univa le nuove tecnologie alle tradizionali pedagogie dell’apprendimento attraverso il gioco. Lasciava ben sperare su un ritorno della narrazione attraverso logiche innovative, in cui la frammentarietà testuale si ibridava al linguaggio delle immagini. Questo permetteva agli studiosi “integrati” dei nuovi media di prevedere un sorpasso del grande mostro televisivo, in una prospettiva competitiva che ci fa capire oggi quanto poco conoscessimo le regole del gioco mediale. Non posso affermare con certezza quando sia giunta l’età adulta di Internet. Sicuramente la Rete delle Reti arrivò matura al 9/11, già pronta per essere controllata, sorvegliata, smontata, occupata e punita. Forse l’unica data papabile per il suo ingresso nel mondo adulto rimane il 1999, l’anno dell’esplosione della bolla speculativa, di chi cioè aveva esteso il gioco di Internet all’economia. Da quel momento il divertimento diminuì e la navigazione da oceanica diventò lacustre: la parola d’ordine era “salviamo il salvabile” perché in Internet “non c’era mercato”.
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Dopo la prima fase scientifica pre-www, quella ludica e utopica che va dalla sua scoperta al 1999-2001, stiamo tuttora vivendo una terza fase, che dal crollo Nasdaq porta al Web 2.0, la cifra di una nuova socialità dei contenuti: tu li produci, tutti li usano. Nel 2008 possiamo tranquillamente dichiarare che Internet, così come la conoscevamo dieci anni fa, è morta: il gioco si è rotto. C’è ancora chi, come Howard Rheingold, registra, in ritardo, alcune pratiche di attivismo politico che utilizzano la Rete in qualità di strumento organizzativo. Gli Smart Mobs, così ridenominati, sono in realtà forme di partecipazione diffuse da anni, ma che non avevano ancora un nome ben definito e non aspettavano altro di essere battezzate (eccoci al fenomeno posttelevisivo di Grillo). Rheingold stesso ha ammesso di peccare d’entusiasmo: la rivoluzione sociale è magari in atto, l’intelligenza diffusa è una metafora interessante di collaborazione cognitiva, tuttavia questi fenomeni non sono “riusciti a rovesciare regimi politici autoritari”, ma piuttosto a difendere l’esistenza delle comunità stesse. È insomma qualcosa più vicino al ricorso a un Tar che non un colpo di stato contro il neoliberismo aggressivo. Internet è morta e come uno zombie vive in un’altra dimensione, quella della realtà sociale. Infatti Internet da gioco è diventata un mezzo di socializzazione: Facebook, Myspace, Flickr, Secondlife non sono che “fuoriuscite” dell’esperienza quotidiana messa in rete e che utilizzano tecnologie già a disposizione dal 1999. Dal punto di vista statistico non c’è stato alcun tracollo linguistico verso l’inglese: il 70% dei contenuti in Internet sono in spagnolo, cinese e giapponese. Internet è diventata seria perché anche le patologie da dipendenza sono diventate serie. Dopo circa dieci anni dalla diagnosi di Multiple Personality Disorder, Internet Addiction Disorder e dalle prime monografie (Turkle, Wallace), se ne è accorto pure il nostro psichiatra Vittorino Andreoli. Internet in sé poteva apparire come un gioco finché, come per tutti i media, si scoprì che i proprietari monopolisti esistevano, così come le possibilità di sorvegliare e punire; finché la necessità di economie sostenibili è diventata una pressante necessità perché l’ideologia della gratuità rischia di soffocare proprio la filosofia dell’open degli sviluppatori-professionisti della conoscenza, che pur seguendo la filosofia di Internet – dove tutti possono migliorare tutto – sono costretti a lavorare gratis e ad arrangiarsi con altri lavori nella realtà. Internet è morta come gioco per la censura e le frodi e morirà sempre di più se non si troveranno alternative a un’economia che non sia quella dei tracciamenti delle proprie mosse online (grazie alle quali sopravvivono, tra gli altri, facebook e in parte google). Internet è morta perché il gioco si è rotto; non è più un gioco, un’oasi di gioia o un mondo nuovo da costruire attraverso nuove regole, è una cosa seria e necessaria: un elettrodomestico, un attrezzo, un’indispensabile piattaforma di servizi attraverso la quale spedire documenti, inoltrare richieste, raccogliere una pluralità di informazioni; è più uno sport da scrivania che un gioco; è inoltre un enorme contenitore di importanti archivi di memoria visiva collettiva come youtube; in una parola, come sostiene Mark Cuban, ricco e avveduto imprenditore delle dot-com è diventata una utility stabile più che una tecnologia in evoluzione capace di sviluppare scenari. Lo slogan 2.0 è solo uno slogan coniato nel tentativo di rilanciarla. Ora vai a p. 13 e lasciati sedurre dagli scacciapensieri, oppure continua a leggere
Giochi di strada
L’apprendistato criminale nella Sicilia neoleghista
di Giuseppe Colomasi : ezechiele@argonline.it
Si inizia a giocare da piccoli, quando si è tutti uguali, si abita nella stessa via, si frequenta la stessa scuola. Arrivi sulla strada che in realtà nemmeno sai di arrivarci, semplicemente è lì davanti al tuo cancello, come sempre. Sembra come casa tua, un semplice prolungamento, anche se funziona con altre regole. La strada è la fucina di qualunque organizzazione criminale, è per strada che si impara come comportarsi. La strada insegna i posti, le facce, l’atteggiamento da tenere. Tutto attraverso una specie di gioco al crimine. La strada e la logica superiore alla strada. La logica delle organizzazioni, che non è più la logica della strada ma quella dell’isola e del suo spirito di autoconservazione. Immancabilmente si finisce per crescere assieme senza mai chiedersi perché si facciano determinate cose, legandosi, spesso attraverso vincoli difficili da sciogliere. Legami suggellati da esperienze forti e pericolose, quindi il più delle volte indelebili. Sembra strano. Ma è proprio un gioco diventare parte di un’organizzazione criminale. È un gioco per il fatto che innanzitutto non è una cosa obbligatoria farne parte. Nessuno obbliga mai qualcun altro a diventare un delinquente, in primo luogo perché è una cosa che, se deve avvenire, avviene da piccoli oppure non avviene. Solo da piccoli si può entrare a contatto con i livelli accessibili dell’organizzazione, perché i bambini sono visti come tutti uguali e sono soprattutto plasmabili: cioè possono essere istruiti ai valori e alle regole del gruppo e possono essere rintracciati e puniti nel caso in cui infrangano quegli stessi valori e regole. I bambini non vengono ancora bollati come delinquenti (anche se le voci si diffondono presto). Il gioco consiste nel rispettare le regole del gruppo e nel cercare
progressivamente di migliorare il proprio ruolo. Sto parlando di un’età che oscilla dai nove ai sedici anni. All’inizio la strada è come il campetto da calcio: ci sono i forti, i furbi (che di solito hanno l’ultima parola perché appoggiati dai forti) e le schiappe che sono continuamente oggetto di scherno. Così i forti saranno sempre più forti, i furbi sempre più furbi e le schiappe sempre più schiappe (e più avvilite per via delle prese in giro). Quando si smette di giocare con la palla si è già quasi imparato come comportarsi per guadagnare rispetto. Di solito è un sistema di influenze ciò che spinge ad iniziare con questa forma di piccola delinquenza. Questioni di famiglia per lo più. Ci sono sempre ragazzini che hanno dei parenti più o meno vicini che sono già affiliati, che si propongono come giustizieri in caso di bisogno, che accorrono in caso di lite, che puniscono perché qualcuno ti ha fatto uno sgarbo e tu sei troppo piccolo per scannarlo di botte; in questo caso fai una chiamata, arriva la brigata e ti fa giustizia. In realtà la giustizia non c’entra un cavolo. Non è per questioni di giustizia che richiedi gli interventi del tuo gruppo o di gruppi amici del tuo. È una questione di forza, semplicemente si vuole dimostrare la propria forza e nessuno chiede mai in questi casi “chi ha ragione?”. A meno che non si trovino di fronte due gruppi di pari forza, in quel caso generalmente si risolvono le questioni per via diplomatica senza giungere alla violenza. Può capitare, per esempio, che ci si trovi nella situazione di dover riempire di botte un tipo che però è difeso dal proprio gruppetto di amici. In un caso del genere, in inferiorità numerica, basta che ci si presenti al suddetto gruppo accompagnati da un picciotto di rispetto che dimostri di appoggiare la tua causa, e il gioco è fatto. L’“organizzazione” rende manifesto il fatto che ha preso una
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Arancia Meccanica, Stanley Kubrik, 1971
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posizione e automaticamente hai ragione, hai il diritto di far del male a tuo piacimento, perché qualunque cosa tu faccia è considerata giusta. Ecco un esempio di regole del gioco e di ruoli, anche se le regole in verità possono essere tutte ricondotte a una sola: la regola che il più forte ha ragione. Basta solo che dimostri di appoggiare una causa, qualunque tipo di causa privata, per determinare immediatamente la totale arrendevolezza in ogni osteggiatore della stessa. Ero amico di un bambino molto difficile alle elementari, lui era stato più sfortunato di noi, la delinquenza l’aveva avuta dentro casa da sempre e non aveva potuto mai farci niente. Sapevamo tutti che presto i semi di quel mondo di sangue onore e violenza sarebbero germogliati dentro di lui e lo avrebbero reso qualcosa di terribilmente spietato. Padre incarcerato, la madre non si sapeva dov’era e lui viveva in una comunità di recupero gestita dai preti. Per il suo undicesimo compleanno io e il mio migliore amico fummo gli unici invitati alla festa organizzata malamente dal prete: nemmeno un palloncino attaccato, nessuno della sua famiglia presente, tre bimbi, due tiri a pallone dopo avere assaggiato la fetta di torta comprata al market, tanti silenzi. La comunità era piena di bimbi silenziosi dagli occhi grandi e nascosti come quelli del mio amico. Era pieno di pesanti silenzi quel posto, pieno di bambini che non erano mai potuti essere veramente bambini perché la Sicilia che portavano sulle spalle era molto più pesante di quella che portavamo noi, perché non è vero che nasciamo tutti
uguali dentro all’isola e chi vuole farcelo credere e giudica gli assassini e i criminali come anime dannate non ha capito proprio niente di casa nostra. Credo di aver pensato allora e di pensare tutt’ora, che chi si rinchiude dentro al pregiudizio “parvenuto” non ha mai guardato dentro agli occhi di un bimbo che passa il proprio compleanno circondato da ammiccanti estranei e preti e nemmeno sua madre ad abbracciarlo. Chi vuole farci credere che la delinquenza è il male assoluto, che è senza ragioni, che dobbiamo odiare questa gente perché è per loro che la Sicilia sta male, si limita, secondo me, a una visione banale e alquanto “televisiva” della realtà isolana. Se è assodato che l’uomo non nasce né buono né cattivo, è altrettanto assodato che la società in cui nasce ha tutto il potere di corromperlo. L’essere dentro a un’isola non è uno scherzo. L’isola oltre che geografica è anche etnografica e sociale, è uno stato da molti riconosciuto come forma di differenza in pectore, sopratutto se rapportata a chi non è dentro l’isola. Ma l’isola è anche la forma del sociale: si ha un’immagine di sé che non deve cambiare perché costituisce la differenza, non deve essere contaminata, non deve progredire perché è già padrona (a modo suo) del territorio. L’orgoglio e l’amore per la terra spesso sono rinchiusi dentro il significato del mantenersi, sempre e accanitamente dentro a uno stato che non deve cambiare perché se cambia si perde rispetto alle proprie radici.
Per questo motivo non si cambia perché il futuro è sempre un’incognita, meglio ritagliarsi un’indiretta autonomia dentro questo presente. Questa è la logica dell’organizzazione. Tutto in Sicilia ha un retrogusto amaro. Come le arance, come l’acqua salata dopo aver mangiato qualcosa di dolce. L’infanzia, io, assieme a tanti altri bimbi vorticosi, me la ricordo sempre dolce e poi amara. È uno spirito, quello siciliano, che inizia a manifestarsi da piccoli, con la competizione e il desiderio costante di essere sempre parte di qualcosa e mai un tutto isolato. Una volontà di potenza nata con noi e con noi incessantemente presente finché calpestiamo il suolo di casa, che impone di appartenere alla nostra terra e come manifestazione dialettica di questo senso di appartenenza: che la nostra terra appartenga a noi. Dopo i sedici anni il gioco finisce. Il gioco diventa una cosa seria, diventa vita o morte, e rigidità. A questo punto coloro che da bambini hanno ricevuto l’istruzione giocando al crimine hanno la possibilità di specializzarsi: spaccio, furto, comando, vandalismo estorsivo, violenza, omicidio... Tutto ovviamente all’interno dell’organizzazione, tutto sempre alle direttive dei superiori, tutto come parte del tutto e mai come volontà singola. Vi propongo un gioco: in questo scritto manca una parola (ormai più che altro diventata un logo) che inizia per “M” e finisce per “A”. Qual è?
Se credi che da sempre il mondo sia un’arena polverosa, piena di leoni ed elmi scintillanti, vai avanti (o torna indietro) a p. 58. Altrimenti, se vuoi tuffarti negli agoni elettronici della modernità, spostati a p. 64.
Le gare degli eroi
La vergogna di perdere nella cultura greca arcaica di Oscar Fuà: ofua@classics.unibo.it
Walter Benjamin
La società greca arcaica si fondava su una ‘cultura di vergogna’ (shame culture), diversamente da quella classica e, soprattutto, dal mondo giudaico-cristiano, dove prevalse una ‘cultura di colpa’ (guilt culture)1. La ricerca di gloria e fama imperitura presso contemporanei e posteri, dunque, e non la consapevolezza di una coscienza tranquilla, era fondamentale in quella società greca arcaica che disponeva ogni valore entro i termini ristretti della vita terrena e non attribuiva significato alla sorte ultraterrena2. La vergogna davanti alla considerazione altrui, ad esempio, è alla base del comportamento di Ettore nel momento in cui Andromaca lo scongiura di non affrontare Achille: «Ma provo tremenda / vergogna di fronte a Troiani e Troiane dai pepli fluenti», obietta infatti Ettore, «se come un vile m’imbosco al riparo dalla guerra; / né così mi detta il mio cuore, perché imparai ad essere prode / sempre e fra i Troiani a battermi in prima fila, / per fare onore alla splendida gloria del padre mio e di me stesso» (Hom. Il. 6,441-46; tr.: G. Cerri). Ettore sa di andare incontro a morte sicura, lasciando senza protezione i suoi cari, ma è il pensiero dell’onore o, meglio, la paura di ‘perdere la faccia’, che lo spinge a non evitare lo scontro. Nella ricerca di gloria, perciò, ricopre un grande ruolo la competizione, ‘gioco’ riservato ai soli cittadini liberi, che distribuisce al loro interno il prestigio pubblico; in tale ‘gioco’ è essenziale superare gli altri ed essere onorati. Molto si è discusso se l’agonale, il gusto competitivo, sia stato o meno un carattere distintivo della grecità3: di certo, se non si può escludere in assoluto che il fenomeno rientri nel quadro della tendenza al gioco di ogni cultura primitiva4, bisogna dire che la dimensione agonale pervade, spiegandole, numerose forme della cultura greca antica (solo nell’ambito della letteratura si pensi alle competizio1 E.R. Dodds, I Greci e l’Irrazionale, Firenze 1978, 29 sgg. 2 Sul valore inconsistente che l’uomo greco attribuisce alla condizione dopo la morte, le parole più esplicite sono pronunciate da Achille, quando Odisseo, durante l’evocazione dei morti, si congratula con lui per la sua posizione di predominio nell’Ade: «Non lodarmi la morte, splendido Odisseo. / Vorrei esser bifolco, servire un padrone, / un diseredato, che non avesse ricchezze, / piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte» (Hom. Od. 11,488-91; tr.: R. Calzecchi Onesti). Achille, dunque, pur negli inferi, si rivela ancora una volta personaggio monolitico, sempre identico a se stesso, poco propenso a qualsiasi adattamento (una relativa evoluzione – lo vedremo infra – si coglierà solo nell’atteggiamento da lui assunto nella direzione dei giochi funebri per Patroclo, nel XXIII libro dell’Iliade). 3 Rassegna delle varie posizioni è in V. Citti, La matrice classista della dimensione agonale della cultura greca, «Klio» 63,1 (1981), 289 sgg. 4 Si tratta della tesi sostenuta nel famoso libro di Johan Huizinga, Homo ludens, Milano 1972, spec. 78 sgg., che giudica tali forme di cultura spontanee destinate a mutarsi in categorie culturali più complesse e concettualizzate.
ni teatrali5, nelle quali è strutturale l’agon tra due personaggi di opposto parere, o all’oratoria politica e giudiziaria, dove l’agon si instaura tra accusatore e accusato). È merito di Gouldner6 l’aver definito il sistema competitivo greco ‘gioco a somma zero’, un qualcosa in cui tutto quello che acquisisce in più il vincitore (sia reputazione o ricchezza) va a detrimento – in misura speculare – di chi perde, con una ridistribuzione delle risorse. In questo tipo di gioco la sconfitta non è facile da digerire, per cui i concorrenti sono pronti sempre a infrangere le regole pur di evitare la sconfitta. Proprio l’intensa competitività della società greca spiega perché l’invidia, sentimento piuttosto represso nel mondo odierno, sia inevitabile (non avvertita, dunque, con valenza negativa)7, dato che ogni successo riportato da qualcuno comporta una perdita di prestigio di tutti gli altri rivali. L’attività prevalente dell’eroe omerico è la battaglia o, meglio, l’aristeia, prova di valore del singolo che vuole e deve vincere a ogni costo l’avversario e, al tempo stesso, eccellere entro il proprio schieramento8; solo così egli potrà accrescere la sua gloria, in quanto l’onore conferito dalla collettività ha più risalto, e per esso l’eroe mette in gioco la vita stessa. Sebbene meno drammatici, momenti di forte valenza agonale sono quelli dei giochi, che i Greci affrontano con serietà: così, nel libro 5 Il termine “competizione” è usato in senso proprio, dal momento che un vero concorso coinvolgeva, a vario titolo, i cittadini nella selezione dei drammi, nel loro allestimento, nel giudizio conclusivo; le rappresentazioni avevano luogo durante le Grandi Dionisie o Dionisie cittadine, feste che all’inizio di primavera prevedevano grande afflusso di forestieri, anche per la riapertura del Pireo. 6 A. Gouldner, The Greek Contest System: Patterns of Culture, in Enter Plato. Classical Greece and the Origins of Social Theory, New York 1965, 41-77. 7 Al riguardo suona esplicito il commediografo Epicarmo (VI-V sec. a.C.): «È evidente che un uomo che non venga invidiato vale poco» (fr. 267,2 K.-A.). 8 Questo ideale è riassunto nella massima – ripetuta in due passi dell’Iliade (6,208; 11,784) – che avrà fortuna così nella paideia greca come nel pensiero di tanti educatori successivi: «Primeggiare sempre ed essere migliore degli altri».
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Encierro, San Firmino, Pamplona
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XXIII dell’Iliade, dopo i funerali di Patroclo, l’atmosfera, che era stata a lungo angosciante e piena di tensione, assume cadenze di festa; ma – si faccia attenzione – la gara possiede regole precise, codificate, che richiamano quelle del campo di battaglia9. L’impegno che gli eroi pongono nei giochi si rivela scrupoloso: l’agone viene a costituire, nel finale del poema, una sorta di sublimazione dell’ardore bellico. I ludi comprendono prove atletiche, in seguito canonizzate nel mondo ellenico10: la corsa con i carri, il pugilato, la lotta, la corsa a piedi, il duello, il lancio del disco, il tiro con l’arco e il lancio dell’asta. Spetta ad Achille, l’eroe omerico per eccellenza, proclamare l’inizio dei ludi funebri in onore del compagno, invitando tutti a prendervi parte11: «Ma lì stesso / Achille trattenne l’esercito, spianò un terreno vasto per gare, / i premi portò dalle navi, tripodi e lebeti / e cavalli e muli e possenti capi di buoi / e donne dalla bella cintura e acciaio splendente» (vv. 257-61). La successiva direzione dei giochi da parte di Achille rivela un atteggiamento misurato, poco in sintonia con l’immagine di frenesia furiosa che gli appartiene, quasi che in lui si manifesti una maturazione caratteriale; in realtà, se il Pelìde ricopre qui il suo ruolo in maniera impeccabile, altrettanto vero è che, subito dopo, all’inizio del canto successivo, strazierà con crudeltà il corpo di Ettore morto, offrendo di 9 Felici osservazioni sul rapporto che con la guerra ha il gioco, con puntuale individuazione dell’impegno e dell’ordine che regnano in esso, nel mondo antico quanto in quello di età moderna, si leggono ancora in Huizinga, op. cit., 134 sgg. 10 Non dimentichiamo che vera e propria quintessenza del momento agonale fu l’avvenimento che i Greci scelsero come punto di partenza per misurare il loro tempo, l’istituzione delle gare ad Olimpia nel 776 a.C. con cadenza quadriennale. 11 In realtà, i partecipanti sono gli eroi più noti dell’epos iliadico: Menelao, Aiace, ecc.; solo alla gara di pugilato, forse avvertita come meno nobile, partecipa e vince Epeo, personaggio altrimenti sconosciuto, che al v. 670 si autodefinisce modesto combattente.
nuovo l’immagine monolitica cui ci ha abituati. Senza dubbio una disamina articolata dell’episodio dei giochi funebri, che occupa buona parte del libro, potrebbe suggerire numerose riflessioni sui meccanismi legati alla modalità delle gare, alla scelta dei premi, e così via; ma qui, a titolo di esempio, poniamo l’accento su un aspetto che conferma, qualora ce ne sia bisogno, l’analogia tra lo svolgimento dei giochi e quanto accade sul campo di battaglia: il consueto intervento degli dèi a fianco dei concorrenti. Così, se consideriamo la prova della corsa a piedi (vv. 740-97), nella quale si contendono il primato Aiace, Odisseo e Antiloco, salta agli occhi il ruolo risolutivo dell’azione di Atena: la dea, oltre a rendere più leggere e agili le membra di Odisseo, a lei caro, ricorre persino allo sgambetto nei confronti di Aiace12, altrimenti sicuro vincitore. L’importanza della vittoria in quello che è solo uno dei giochi in onore di Patroclo viene sottolineata anche dal fatto che è Odisseo stesso, in difficoltà, a rivolgere la supplica ad Atena: «Ascoltami, dea, vieni in aiuto efficace ai miei piedi!» (v. 770). Appare evidente, a questo punto, che la richiesta del re di Itaca non sarà stata dettata solo dal desiderio di conseguire il premio per la vittoria («un cratere d’argento ben lavorato», v. 741), quanto piuttosto dalla ricerca dell’ennesimo riconoscimento pubblico che, in una civiltà di ‘vergogna’, costituisce valore primario e irrinunciabile. In conclusione, i giochi, pur svolgendosi, rispetto alla guerra, in un clima meno teso, ravvivato perfino da qualche momento umoristico, sono cosparsi di tanti elementi propri dell’esperienza della battaglia: sudore, polvere e sangue non mancano nel tentativo accanito degli eroi di conservare e accrescere, anche in tale frangente, il valore per loro primario, l’onore. 12 Anche se l’epica ama poco i toni umoristici, non si può fare a meno di sorridere allorché Aiace, per l’intervento partigiano di Atena, scivola malamente sugli escrementi dei buoi («Di sterco bovino gli s’empì la bocca ed il naso», v. 777).
Ti senti un fine stratega? Gioca a Djambi a p. 33, oppure scopri come si sono evolute le gare fra cantori greci a pp. 35/37.
Brigate Gialloblu, Verona, 1972
Brigata pecoreccia di Marco Benedettelli : marco.benedettelli@argonline.it
I
o sono Alfredo, c’è il Nano, il Balordo, poi il Feccia, il Merda, Schizzo ed il Merlo. Sta città fa schifo al cazzo, è tutta uguale pare che la gente è morta, solo zombi vedo, zombi e conigli con le facce che sono chiappe del culo e case come scatole e balconi con la gente affacciata che non sa dove guardare. Tra mezz’ora c’è il derby. Guardami guardami coniglio di Fantalandia che ti spacco la testa ti faccio strippare le ossa. Mo’ stiamo fermi ad un semaforo, il Feccia abbassa il finestrino, c’è una merdina caffelatte del Bangladesh che ci s’appiccica al vetro col suo bastone per lavare e il Feccia gli sputa addosso «torna nella fogna di casa tua, scimmia» e il bangli sta lì con gli occhi mogi mogi che ci guarda, tra un po’ scoppia piangere. Scatta il verde, noi sgommiamo via col nostro furgone, andiamo allo stadio che c’è la partita, c’è il derby, c’è Mirabinopoli - Fantalandia. Il Merlo ride, ride di non si sa cosa, il Merlo ride sempre quando è eccitato, quando capisce che tutto là fuori ringhia e le case sono dentature che si spalancano fuori di noi, fuori dal finestrino e le tempie ci pulsano.
Schizzo dorme, ha la testa appoggiato al finestrino. Tiene la bocca spalancata e nel suo cervello scorrono sogni. Ora c’è Lucia, che è il portiere del Real Balocco, lì, ferma fra i pali. La curva è piena di bandiere e tamburi. La Brigata pecoreccia sta carica, cantano a torso nudo, vengono e vanno in alto ed in basso. Ci sono il Feccia ed il Merda, hanno le braccia e le
schiene dipinte di tatuaggi tribali e livide sotto la luce. Lucia invece ha occhi da angelo; guarda Schizzo e Schizzo si ritrova ad un palmo da lei, dentro la porta, nella pupilla di Lucy, e i guanti gommosi di Lucy sembrano grandi orecchie. Ma il sogno si squaglia in un sussulto, e Schizzo si sveglia. C’è il Balordo che urla qualcosa, ha il finestrino abbassato e fuori c’è un ometto che ci fissa con gli occhi sgranati. Il Merda sul sedile di fianco bofonchia col suo testone da mucca. Già si sta trangugiando la filetta da mezzo kilo imbottita coi pomodori arrosto e la carne fritta che s’è portato da casa. Sono le sette del mattino. Che stavi a fare, zozzono, stavi sognando Lucia, eh? Gli fa il Merda, con la bocca piena di poltiglia. Schizzo non risponde. Pensa ancora a Lucia. Poi si tracanna un sorso di vino che il Merda gli allunga. Alfredo, sui sedili davanti, respira affannosamente. Era prima dell’alba stamattina quando sono arrivati sotto casa mia. Prima il Merda e poi il Nano e poi gli altri. Schizzo s’è portato il nostro striscione della Brigata pecoreccia, blu con la scritta verde, che sono i nostri colori e in mezzo c’è cucita una tromba, la tromba dell’Apocalisse. Siamo partiti per Fantalandia e tutto ancora era buio, c’erano solo le macchine parcheggiate, le villette erano mute e silenziosi i giardini. Poi è iniziata la tangenziale, il sole sembrava un occhio pesto, rosso e colante, ingialliva l’orizzonte d’un gonfiore viola, come se al cielo gli hanno dato un cazzotto e a dio gli hanno spaccato la bocca e sbava colate di bianco impiastricciate di sangue. Il Balordo s’è calato gli occhiali da sole, il Feccia guida e Schizzo conti-
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nua a dire cazzate. Voliamo sul raccordo anulare, la gente dai camion e dalle macchine ci guarda sconvolta perché siamo sette teppisti, sette ultras, e siamo belli perché siamo cattivi, e abbiamo gli occhiali scuri come assassini mentre tutto è chiaro, tutto è pura luce sulla strada, sulla pianura deserta e tra un po’ siamo a Fantalandia e a quei gatti gonfi gli buchiamo la testa. Io sono il gioco, io, come una fonte, come un sole che buca la stanchezza ed il nulla e voglio prosciugarmi la voce bestemmiando a squarciagola. Il Feccia trova parcheggio e scendono tutti. Alfredo è impettito come un tacchino, con le braccia alzate tiene tesa la sciarpa della Brigata pecoreccia, e ragliando intona i soliti cori. Il Feccia, il più trasandato di noi, lo guarda e fa finta di niente. Alla
«Balordo facciamogli vedere le chiappe a questi bastardi» e sventoliamo le nostre chiappe pelose nell’aria, come spicchi di luna gialla, fette di bile sparate su quei conigli di Fantalandia. Tendiamo le braccia all’azzurro e muta e scura laggiù la curva di quei bastardi sprofonda di fronte a noi. Scoppia qualcosa, c’è un vuoto, un cozzare di teste, di pugni. Là nella fossa si menano, là, qualcuno cade per terra e poi una pioggia di calci. Il «Nucleo Grottesco» tira cazzotti e testate tutto d’intorno, e come un’onda d’urto la rissa si allarga e siamo in cinquanta a menarci con le braccia alzate e i calci volanti. «Andiamo. Andiamo Balordo, rompiamogli il culo, andiamo a menare» e col Nano voliamo nell’occhio del tafferuglio. È tardi adesso, camminano verso il furgone, tirano calci ai
12.XI.2007 Salerno
4655 fine Alfredo è simpatico, basta che lo prendi per come è. Tutti quelli della Brigata lo conoscono fin dall’asilo e sanno che è un po’ suonato, suvvia, che si fa prendere troppo dai suoi pensieri, dalle sue fantasie. Arrivano di fronte alla biglietteria. Ci sono tanti drappelli di gente, ci sono i naziskin del Nucleo Grottesco e poi i cani sciolti, cioè i senza gruppo, che aumentano di anno in anno. Alfredo, tutto eccitato, si protende in un saluto romano verso quelli del Nucleo che lo guardano allucinati. Noialtri sei, invece, diventiamo rossi dalla vergogna. Il Merlo, che è il più comunista della Brigata, da un calcio nel culo ad Alfredo. «Sei proprio un coglione», gli fa. Poi entrano, gli sbirri palpeggiano le loro tasche durante la perquisizione. Tutte le teste vorticano davanti a me e facciamo tremare il cemento saltando e il nostro canto è un tuono, un boato, un’onda di decibel, e il verde del campo brilla, sembra una lama d’acciaio e mi forano gli occhi tutte le luci. Guarda, guarda! «Dai Tagliatella, dai! La bomba, tira la bomba, tir…» si gonfia la rete ed è: «GOOOOLLLL!! GOOOLLLL, GOOOLLLL, SÌÌÌÌÌÌÌ!! SÌÌÌÌÌÌÌÌÌ. FATTI LECCARE NANO, BELLO MIO, FATTI LECCARE CHE È GOL, FROCI DI MERDA, froci di merda, GOOOOLLL». E trema il mondo, si incrina lo spazio le facce esplodono nel brulichio di violenza e adesso mi calo le brache.
cartoni e a tutta l’immondizia schiumata dal derby. Il Mirabinopoli ha perso e Alfredo cammina scuro e ingobbito. Ha gli occhi pesti e un labbro gonfio e violaceo, l’hanno menato nella rissa scoppiata col gol di Tagliatella, mezzo Nucleo Grottesco l’ha circondato e preso a calci ma nessuno della Brigata è sceso a difenderlo, così lui ora pieno di lividi piange in silenzio. Domani si torna al lavoro, si torna ai negozi e agli uffici, si percorre la strada a ritroso senza pensarci, con le voci rauche e spezzate. Schizzo ha visto Lucia oggi, era insieme ad uno, un ragazzetto di diciotto anni e si tenevano per mano e si baciavano, lì, a venti metri da lui. Schizzo e Lucia si sono guardati ma hanno fatto finta di niente. Solo un istantaneo incrociarsi di occhi, vuoto, teso, finito. Meglio così, pensa Schizzo. Meglio se se ne sta con un ragazzetto. Lui ormai non sa più cosa dirle, non sa più cosa vuole, non è più quello di prima ed è stanco di tutto. Forse questa è l’ultima sua trasferta, pensa assorto in una angoscia un po’ ottusa, l’ultimo viaggio con la Brigata pecoreccia. Forse, ora che Lucia è andata via, è meglio chiuderla con queste cose. Gli altri se ne stanno tutti zitti e camminano in ordine sparso.
Se vuoi ascoltare qualche canzone sul calcio, vai a p. 9, altrimenti, se ti piacciono le ebbrezze adrenalitiche, vai a p. 87.
Almeno
Guido Oldani Il parkinson scrollano i palazzi i loro tetti, come la gallina le sue penne dopo che il gallo ha fatto quel che ha fatto. e le vie, se voli a bassa quota, sembrano quelle di un dismesso gioco e l’odio lo si trova a buon mercato. quello che pare un corvo è un bombardiere e al suolo è un’insalata di bambini o estirpano la testa di qualcuno con il coltello come già mio nonno, che barbaro uccideva una coniglia: millennio terzo, nostra meraviglia. * La stazione è una cattedrale la stazione e le sue volte quasi un vicecielo e i treni giusto un poco e sono altrove, si dissanguano in gente che ne scende. di casa c’è chi non ha niente in tasca e con il vino fanno rutti arcani ch’echeggiano sopra le nostre tresche e dio da un merci ha i piedi a penzoloni, appare lì ma non a chi è per bene: i poliziotti arrestano i più buoni
da bimbi si saltava in spalla a un altro, con altri saltatori progressivi finché la torre non crollava al suolo. migliori poi, gli acrobati del circo che in quella formazione stanno un poco, ma noi per sempre nel condominiale di questa patria carmina burana, al punto che l’italico stivale salpa ed attracca a barche clandestine per cercarvi una vita, ampia almeno, quanto quel legno, dato al nazareno. * La cicoria matta e le scuotevo il globo trasparente in cui per un momento turbinava la neve falsa e mi sembrava vera. ora i pioppi con la cicoria matta di polline m’imbiancano impiumato, come nel finto inverno in quella sfera il cui infinito non si è più uguagliato. * L’isola le tracce degli aerei in cielo bianche dall’aeroporto spargono a ventaglio dirette dove anch’io andarci voglio. intanto nella pentola in cucina il brodo a galla ha un’isola di grasso da cui degli acrobatici mosconi decollano nel mondo della stanza, fingo, di loro a bordo, me in vacanza
Fermati un giro, scrivi una poesia giocosa e inviacela a argo@argonline.it. Altrimenti, tira i dadi, vai alla pagina corrispondente e continua a leggere.
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Williamsburg Bridge, Brooklyn, New York
Classe Creativa
L’esserci nel mondo è un esercizio ludico. Consumare, lavorare, divertirsi… che differenza c’è, se nulla ha senso? Passeggiando tra New York e Berlino
di Giacomo Bottà : giacbot@hotmail.com
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Le grandi città occidentali si sono trasformate inesorabilmente, attraverso un processo durato più o meno trent’anni da luoghi della produzione in luoghi del consumo. Trent’anni fa Sheffield era definita “La capitale dell’acciaio”, in riferimento alle industrie metallurgiche che occupavano gran parte della popolazione cittadina e che gettavano fumo dai camini delle fabbriche solcando il cielo grigiastro. Oggi Sheffield preferisce dare un’immagine di sé in riferimento alla vita notturna, all’offerta culturale e al verde che circonda la città. In mezzo c’è stato un periodo di recessione, dove le industrie si sono trasferite in paesi dove la produzione era molto più economica e a Sheffield molti sono rimasti disoccupati a lungo. Adesso molti lavorano probabilmente nei servizi, nel turismo o nella cosiddetta industria culturale. Molti avranno contratti a tempo determinato. Qualcosa sembra essere cambiato a Sheffield e qualcosa è cambiato in molte, quasi tutte, le altre città europee. Questi cambiamenti sono stati spiegati in maniere diverse. Richard Florida, un sociologo americano, ha pubblicato un libro, che in Italia è apparso stranamente nella collana strade blu di Mondadori, intitolato L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni. Florida afferma che le città adesso sono cambiate, ma non solo, anche la società è cambiata. È nata una nuova classe sociale: la classe creativa, formata da coloro che lavorano nei servizi, nel turismo, nell’industria culturale. Sono individui che si muovono, che decidono dove vivere. Secondo Florida gli individui della classe creativa decidono dove vivere non a seconda di dove guadagneranno di più, ma a seconda di dove si sentiranno a loro agio, dove avranno più bar e ristoranti per uscire di sera, dove ci saranno gruppi rock più interessanti e dove magari uno potrà essere libero nel suo orientamento sessuale. In poche parole Florida
sembra dirci che non solo le città sono diventate posti che si definiscono luoghi di consumo, anche le persone decidono di muoversi in posti dove potranno consumare meglio, dove potranno “giocare di più”. Leggendo Florida e seguendo la descrizione dei suoi “creativi” con i loro piercing, le loro magliette di gruppi metal, non si può pensare ad altro che a un gioco. E sempre di più, andando in giro per i quartieri creativi/bohémienes/hip/dove-vivonogli-artisti di New York, Bologna, Berlino, Helsinki, Belgrado e di altre città in giro per il mondo, ci si ritrova di fronte a un enorme gioco che si attua per strada, nei caffè con il wireless, nei bar senza licenza, nelle gallerie, nelle pagine di Facebook e di Myspace, nei club indie e nelle fabbriche dismesse. La tratta della metropolitana che da Union Square, Manhattan porta a Williamsburg, Brooklyn è piuttosto breve. Williamsburg è diventato negli ultimi anni il quartiere creativo di New York. I Vampire Weekend, la nuova band rivelazione della grande mela, vengono da Williamsburg e a Williamsburg hanno trovato la loro prima consacrazione. Salendo le scale della metropolitana ci si ritrova immersi immediatamente nel gioco della classe creativa. Due passi e i primi tre hipster mi sono davanti: camicie usate, baffi ironici, mocassini. Loro lo sanno di essere degli hipster. La loro vita è un’opera d’arte. Quello che mi colpisce di più non è il loro abbigliamento, ma il modo in cui stanno lì. Non riesco a spiegarlo diversamente: stanno e basta. Questi tre tipi non si muovono, non parlano, non camminano, semplicemente stanno. Poi capisco: è una delle regole: bisogna imparare a posizionarsi nello spazio pubblico, in piedi o seduti, e semplicemente stare, emanando il proprio hipsterismo come se sopra il capo risplendesse una qualche aureola. Williamsburg non è altro che un paio di strade che si incrociano di case basse, in stile vagamente europeo, in cui si alternano negozietti di vinili, di vestiti di seconda mano, di biciclette
Anja Pietsch, The Special Guests | Berlin, Prenzlauer Berg
single speed, ristoranti e piccoli caffè pieni di poeti che stanno. Tutto quello che serve per giocare si trova a portata di mano. Per il resto c’è sempre internet. Adesso spariamoci qualche migliaio di chilometri a est di New York, in un altro continente e trasferiamoci anche indietro di qualche anno, tipo all’inizio del terzo millennio. Berlino è una città ricucita assieme. Prendiamo sempre una benedetta metropolitana, magari la U2, da Alexanderplatz, e scendiamo alla fermata che si chiama Eberswalder Strasse, nel cuore del quartiere di Prenzlauer Berg. Scendiamo le scale e ci troviamo davanti a un incrocio. Una delle vie si chiama Kastanien Allee perché a un certo punto, nella strana storia di questa città, lì ci stavano dei castagni. Percorriamo la Kastanien Allee, magari di mattino, ma non troppo presto, verso le 11:30 - 12:00. I caffè della via sono pieni di giovani creativi che bevono latte macchiato, rollano sigarette, parlottano o leggono la pagina culturale dello Zeit in silenzio. I giovani creativi si svegliano tardi perché hanno annullato la differenza tra lavoro e ozio. Lavorano e oziano allo stesso tempo. Giocano con il proprio lavoro e trasformano in lavoro il proprio giocare. Scrivono sceneggiature per videogiochi, preparano installazioni luminose per convention di grandi compagnie dedicate alla ricerca in internet, preparano colonne sonore per pubblicità di telefonini e localizzano testi per siti internet. Allo stesso tempo preparano playlist per qualche dj set serale o aggiornano i loro blog. I fruttivendoli hanno la merce bene in vista. I negozi di vinili, di biciclette usate e gli antiquari stanno per aprire, i camerieri dei ristoranti etnici stanno scaricando grandi sacchetti di cibo. Alcuni dei giovani creativi sulla Kastanien Allee hanno accessori interessanti: bambini. I bambini sono esibiti in enormi carrozzine anni settanta o, se camminano, sono vestiti esat-
tamente come i genitori. Sono delle piccole copie dei propri genitori. O viceversa, i genitori sono copie adulte dei bambini. Ci sono antiquari specializzati in vestiti, accessori e giocattoli per bambini a Prenzlauer Berg. Prenzlauer Berg è un quartiere pieno di vecchie case e fabbriche dismesse, ruderi di un qualche progetto del passato, uno qualunque tra quelli che avevano scelto Berlino come capitale del cosmo. Adesso in quelle costruzioni si tengono feste illegali, dove la birra costa due euro e dove al bancone si riesce anche a ottenere una qualche pillola che rende più socievoli. Sono posti assurdi, universi paralleli che si aprono magari dietro l’inferriata di un tombino o nella cantina di una macelleria chiusa dal 1990. Ma serve la parola d’ordine. Come in un incontro di giovani carbonari, serve la parola d’ordine. La parola d’ordine che è contenuta in qualche e-mail di qualche mailing list dove sei finito per caso, dopo aver scritto a penna, su un quadernetto sgualcito il tuo indirizzo e-mail in un bar che si chiama come un giorno della settimana. Qual è il senso della parola d’ordine? La parola d’ordine è la prima regola del gioco: se non sei a conoscenza della parola d’ordine non potrai avere accesso al gioco, non potrai giocare. In cosa consiste il giocare? Giocare significa attivare un eccesso di socialità, che altrimenti è totalmente estraneo alla vita di tutti i giorni in una grande città. A Williamsburg e a Prenzlauer Berg, così come in altre decine di quartieri in giro per le città del mondo, una generazione ha scoperto che il gioco e l’esistenzialismo non sono poi così distanti nel dare una risposta all’interrogativo “ma io cosa ci faccio al mondo?”. Non lo possiamo sapere cosa ci facciamo al mondo. Allora perlomeno giochiamo.
Se vuoi tentare la fortuna, vai a p. 34, altrimenti, se il marciapiedi è casa tua, vai a p. 60.
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War Games: over and over and over
La guerra per gioco, il gioco per la guerra: come allenare un esercito alla consolle di Filippo Furri : filippo.furri@argonline.it «Se volessimo scioccare potremmo descrivere questa colonizzazione dei passatempi dei giovani come la più grande operazione di militarizzazione di una popolazione adolescente dai tempi della Gioventù Hitleriana» Steve O’Hagan, Recruitment hard drive, «The Guardian», 19 giugno 2004
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Conciliare in qualche paragrafo gioco e guerra senza cadere nel patetico, nel moralismo e senza ricorrere a luoghi comuni non sembra possibile. D’altra parte riflettere storicamente su ciò che possiamo definire, trasversalmente, l’educazione alla guerra, come orizzonte atavico di riconoscimento, come tecnica e come economia identitaria, significherebbe in qualche modo chiamare in causa una buona fetta dell’intera storia dell’umanità: dalle teorie platoniche sull’educazione dei fanciulli – da trascinare sui campi di battaglia perché l’odore del sangue e della battaglia diventino loro familiari – fino all’analisi della relazione tra uomo e guerra attraverso lo sviluppo e l’utilizzo di nuove tecnologie di simulazione, ludiche e non, sempre più virtuali e insieme realistiche. Da una parte, la guerra come rituale di iniziazione, la guerra come orizzonte di crisi, la guerra come causa o come soluzione, la guerra come economia politica (La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, o il contrario); dall’altra, l’educazione dell’individuo (il membro di un gruppo, il cittadino), il suo progressivo ingresso nella società, la trasmissione del sapere e delle tecniche, l’emulazione e la partecipazione. Nel mezzo, una semplice e sostanziale domanda: perché i bambini giocano alla guerra? Questione a cui non risponderemo, almeno direttamente. Quello che ci riproponiamo qui è di interrogare lo sviluppo del rapporto tra individuo e gioco, focalizzando l’attenzione sulla seducente sedicente società occidentale, osservandolo attraverso la particolare evoluzione dei giochi di guerra ben sapendo che il gioco è un vettore privilegiato di apprendimento. Da piccoli si giocava ai soldatini, si usciva in piazza o in cortile a giocare a indiani e cow-boy, a guardie e ladri. Si faceva tattica aspettando lo scontro, e quando lo scontro
cominciava, il gioco era praticamente finito. Quando un soldatino cadeva, era morto, finito. Quando un amico-nemico (perché tu eri un cow-boy e lui un indiano, o viceversa) ti tirava, per sbaglio o per leggerezza, una legnata negli stinchi, ti colpiva un po’ troppo forte e ti lasciava il segno, il male si sentiva e il gioco finiva: quando i soldatini erano tutti giù, quando tutti avevano preso la propria razione accidentale di stecche, o quando si era stufi, quando si litigava; mio fratello, prima di spostare fisicamente il conflitto tra me e lui, rovesciava a spazzamano intere guarnigioni di minimilitari disposti in ordine sulla moquette della nostra camera. Si preparava lo scenario, si faceva a turno a fare il buono o il cattivo e poi in un attimo si esperivano puntualmente il dolore, la rabbia, il fastidio, si percepivano i limiti fisici dello scontro e del conflitto. Si dava sostanza a corpi in miniatura, si affondava qualche attacco per sentire finire di colpo la distanza tra sé e l’altro. Altra cosa, è simulare e sviluppare strategicamente il conflitto, che non è un gioco da ragazzini: la dama, gli scacchi per secoli, poi i giochi in scatola, giochi di società, come si dice, come Battaglia aeronavale, Okinawa, Risiko!, Warhammer, a gradi differenti di astrazione, rappresentano esercizi di logica e di strategia, simulazioni di scontri con un inizio e una fine stabiliti da regole precise, combattimenti che prevedono a priori un vincitore e un vinto. Imparare a contabilizzare e distribuire le proprie forze e quelle del nemico, imparare a valutare le proprie mosse e ipotizzare quelle dell’avversario, ragionare in termini di perdite, di tranelli e imboscate, di alleanze, di vittoria e sconfitta. Passatempo metaforico e riflessivo per giovani e adulti, esercizio tecnico fondamentale per intere generazioni di gerarchie militari1. 1 In ambito nordamericano, segnaliamo la vera e propria passione del mondo militare per i giochi di guerra disegnati da James Dunnigan a partire dalla fine degli anni ’60: Jutland (1967), 1914 (1968), PanzerBlitz (1970). Tra il 1966 e il 1992, Dunnigan ha realizzato più di 100 diversi wargame, ispirati ai più diversi scenari bellici e alle più disparate situazioni di conflitto: http://www.hyw.com/Books/WargamesHandbook/Contents.htm
C’era chi imparava dalla guerra, giocata come preparazione e che scompariva come gioco appena si manifestava, e chi giocando imparava a fare la “guerra”, imparava la strategia, l’attacco e la difesa. Non che tutti i giocatori di scacchi siano stati lucidi strateghi, ma la passione per giochi come gli scacchi tra gli ufficiali militari è cosa nota. Poi nel 1980 Atari ha lanciato sul mercato quasi vergine dei videogame Battlezone. Grafica minimale, prospettiva soggettiva, obiettivi da raggiungere e distruggere, tu di qua loro di là. Si tratta della commercializzazione di un prodotto “ludico” finalizzato apparentemente a soddisfare il desiderio dei ragazzini di giocare alla guerra. Se non fosse che Battlezone è la versione commerciale del misconosciuto Bradley Trainer, brevettato espressamente come simulatore militare e utilizzato per allenare i soldati a visualizzare il nemico e ad eliminarlo, a operare efficacemente su comandi che riproducevano intuitivamente lo strumentario di carri armati o elicotteri d’assalto. Lo stesso prodotto, per far giocare i primi adolescenti computer-muniti e per allenare alla guerra i militari. Si tratta di una sovrapposizione eclatante, che nel corso degli anni si è consolidata con finalità nemmeno troppo celate ma con effetti drammatici che solo ora iniziano a rivelarsi in tutta la loro banalità. Quello che ci interessa qui è osservare come si sia passati, attraverso lo sviluppo progressivo (a partire da prototipi militari)2 di ciberne2 Mantenendo come riferimento gli Stati Uniti, paese all’avanguardia nello sviluppo di tecnologie belliche e di sicurezza, è interessante osservare come la diffusione pubblica di ogni sorta di wargame si sia adeguata e si modelli, già a partire dagli anni ’50, alle esigenze di ricerca e di sviluppo della Advanced Research Projects Agency (ARPA) oggi DARPA per Defense Advanced Research Projects Agency – e del Simulation Training and Instrument Command (STRICOM), denominato attualmente US Army’s Program Executive Office for Simulation Training and Instrumentation (PEO STRI).
tica, robotica e sistemi di simulazione, a una generalizzazione della fiction della guerra che assume il carattere di strumento “pedagogico”, non più esclusivamente destinato alle generazioni di ufficiali e strateghi militari, ma sia esteso in primo grado a tutte le milizie, allenate non tanto a prevedere e gestire gli esiti di una battaglia, ma a soggettivare la loro esperienza del conflitto, proiettandosi all’interno di scenari bellici sempre più realistici. In secondo grado, la diffusione pubblico-domestica, convenientemente adattata, di tali simulatori sotto forma di wargame contribuisce a formare delle nuove generazioni di “possibili soldati”, ad abituare preventivamente al conflitto. La scissione che abbiamo delineato ingenuamente in precedenza (e che appartiene a un universo pacificato e pacifico, che nasconde ben altre forme di conflitti interni alla società), tra una rappresentazione reale ma immobile del conflitto e i giochi di strategia che entrano nella logica di competizione propria della guerra e la attuano simbolicamente, ci serve per sottolineare l’emersione (o la riemersione attualizzata) di uno degli assunti sociologici più ripudiati dalla coscienza civile collettiva (se esiste) e che esplicita pertanto tutti i paradossi della logica democratica da esportazione: siamo schifati dall’inciviltà di chi addestra migliaia di bambini-soldato per guerre di cui non sappiamo null’altro, poi accettiamo che i nostri figli si rincoglioniscano nelle loro stanze davanti a degli schermi dove si allenano incoscientemente a combattere intelligentemente, tecnologicamente. Non che si voglia fare qui una deontologia della guerra. Dal primo Battlezone, l’evoluzione dei simulatori di conflitto ha conosciuto uno sviluppo esponenziale fino ad arrivare agli attuali Ghost Recon o America’s Army: «Lanciato il 4 luglio 2002 (data non casuale ndr.) sul sito web dell’esercito americano, America’s Army è utilizzato dalle sezioni di reclutamento: messo in rete gratuitamente su internet, è uno dei cinque giochi on-line più popolari. Un articolo del suo realizzatore, Mike Zyda, non lascia alcun dubbio sulle sue intenzioni: Armi di distrazione di massa – America’s Army recluta per la
guerra reale»3. Se le sinergie tra Hollywood e Pentagono o tra la Paramount Digital Entertainment e il Defense Modeling and Simulation Office (DMSO) dell’Air Force sono illustrate puntualmente da Christian Salmon (Storytelling, 2007) e da altri autori (Virilio, Zizek), quello che ci preme sottolineare qui è come questa spettacolarizzazione e insieme banalizzazione della guerra vadano a replicare subdolamente logiche identitarie e di sopravvivenza ataviche e primarie che denunciamo pateticamente altrove: i bambini per diventare uomini devono imparare a combattere. «Solo che – come sostiene Greg Costikian, realizzatore di videogame intervistato dal The Guardian nel 20054 – la circoscrizione è una forma di schiavitù. Siccome siamo in un sistema di volontariato, l’esercito deve reclutare. E se è legittimo utilizzare a questo scopo la pubblicità nella stampa o in televisione, dov’è il problema nel ricorrere anche a videogame”. Dunque i wargame diventano strumenti per allenare ignari futuri soldati, per testare capacità balistiche e temi di reazione, poi per addestrarli ufficialmente e minuziosamente. Ma andiamo oltre e osserviamo come gli scenari ricostruiti negli wargame si siano progressivamente evoluti e adattati agli scenari di guerre reali o paventate: oltre alle ricostruzioni storiche che riproducono ossessivamente il dualismo tra bene e male rappresentata dalla seconda guerra mondiale, constatiamo che se negli anni ’80 lo spettro della guerra atomica e la logica bipolare della guerra fredda imponeva contestualizzazioni scontate, oggi le guerre vir3 Christian Salmon, Storytelling. La machine à fabriquer des histoires et à formater les esprits, Paris, La Decouverte, 2007, p. 158. 4 Pat Kane, Toy soldiers, in «The Guardian», 1 dicembre 2005, citato da Salmon, (2007, p. 159).
tuali si combattono in universi che rinviano alle nuove tipologie di conflitto in atto o in preventivo: non troviamo praticamente più affrontamenti a campo aperto, ma ci addentriamo per le strade di una città qualunque che a volte assomiglia più a una metropoli occidentale che a Baghdad, il nemico non è più facilmente identificabile e connotato ma si annida dovunque, assomiglia a chiunque; oppure ci muoviamo a bordo di velivoli ultratecnologici in grado di sganciare le famose bombe intelligenti su obiettivi sensibili, organizziamo e partecipiamo a missioni segrete ad alto rischio in aree urbane; tutto è mostruosamente verosimile e insieme virtuale, siamo risucchiati in simulazioni iperealistiche e assimiliamo logiche di attacco e di difesa, di ubbidienza e di sacrificio fino all’ultima pallottola, fino all’ultima delle vite disponibili. Poi Game Over, poi ricominciamo. Il confine tra realtà e fiction si perde e si confonde, i ragazzini immaginano la guerra giocandola da casa in scenari bellici ricostruiti fedelmente, i militari si addestrano alla guerra muovendosi virtualmente su terreni che assomigliano al prossimo obiettivo possibile, poi ragazzinisoldati finiscono a Baghdad a lanciare razzi con l’iPod5 nelle orecchie. Guardate il wargame con cui vostro figlio gioca oggi a gambe incrociate davanti allo schermo, saprete che tipo di guerra combatterà domani. 5 Salvo poi essere “recuperati” ancora attraverso dei videogame: in effetti, uno dei programmi dell’Institute for Creative Technologies (ICT), creato nel 1999 dall’Army’s Simulation, Training and Instrumentation Command (Stricom) e dotato di un budget di 45 milioni di dollari, prevede l’utilizzo degli stessi wargame riadattati e riconfigurati per il trattamento psicologico degli stati di stress post-traumatico dei militari al rientro dal fronte.
Se vuoi sapere come utilizzare i video-games in maniera creativa, vai a p. 23, altrimenti continua a leggere.
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