Ogra XII / Laborinto

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allegato di ARGO

laborinto

viaggio nel labirinto del lavoro uscita

Rivista d'esplorazione

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«Argo» Numero 12 / LABORINTO Rivista d’esplorazione fondata nel 2000 registrata al Tribunale di Bologna N.7393 del 22/12/2003 con il Patrocinio dell’Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Lettere e Filosofia

Equipaggio Direttore responsabile: Valerio Cuccaroni Vice-direttore: Marco Benedettelli Direttore artistico: Giulia Ferrandi Redattori: Marco Benedettelli, Valerio Cuccaroni, Lou Del Bello, Giulia Ferrandi, Lorenzo Franceschini, Filippo Furri, Tommaso Gragnato, Annabella Losco, Stefania Piras, Rossella Renzi, Daniela Shalom Vagata Collaboratori: Francesca Benassi, Giacomo Bottà, Giulia Capogrossi, Mattia Cavagna, Federico Cinti, Geraldina Colotti, Marco De Marco, Giulia Endemini, Oscar Fuà, Girolamo Grammatico (percezionesociopatica.blogspot.com), Johnson&co., Samuel Manzoni, Andrea Marcellino, Antonella Mastroianni, Giampaolo Milzi, Michela Murgia, Fabio Orecchini, Natalia Paci, Chiara Paganini, Stefano Sansoni, Paolo Guglielmo Sulpasso, Igor Tchehoff, Giovanni Tuzet Disegnatrice: Giulia Ferrandi (www.neros.it) Fotografi: Jonathan Gobbi, Mattia Santini Correttori bozze: Giulia Capogrossi, Tommaso Gragnato Tirocinante: Silvia Righini Webmasters: Francesca Benassi, Daniele Bernardini Hanno inoltre collaborato a questo numero: Piera Campanella, Andrea Cati, Clio (www.poilacartabrucia.com), Sergio Cofferati, Claudio Emme, Francesco Filippi, Susanna Ghazvinizadeh, Marcus L. (www.blatta.bliz), Marco Lanza, Roy Menarini, Francesco Orazi, Michele Pedrazzi, Petra Raffaelli, Stefano Sanchini, Luigi Socci, Marco Socci, Giulio Spiazzi, Jara Vernarecci. Daniel Agami ha scritto [lav](ORO NERO)2 Grazie a: Accademia delle Belle Arti di Bologna (in particolare Severino Storti Gajani e Romina Morresi), Cristina Balboni, Nanni Balestrini, Andrea Battistini, Matteo Belli, Biblioteca di Italianistica dell’Università di Bologna (in particolare Alessandro Dondi, Federica Rossi, Marco Serra), Francesca Blesio, Bernardo Bolognesi e Studio Aspide, Antonio Bruno, Gianluca Busilacchi, Emma Cardamone, Casa Editrice Ediesse (in particolare Carla Pagani), Beppe Castagnini, Federico Cinti, Giuseppe Colomasi, Comune di Bologna – Cultura e Università (in particolare Rosalba Campanella, Cheti Cursini, Cristina De Rubertis, Raffaella Grimaudo, Stefania Luigi, Giancarla Melis), Federico Condello, Federico Curzi, Mario Dondero, Electron Libre, Estragon (in particolare Bindi, Silvana Maiorano), Angelo Ferracuti, Loris Ferri, Alessia Fontana Librerie Feltrinelli, Pierluigi Fontana, Paolo Franceschini, Sergio Frassanito, Paola Frontera, Marco Furlani, Luigi Ghezzi, Angelo Guglielmi, i lettori, Pasquale Indulgenza, Juliette Lewis & The Licks, Link, Niva Lorenzini, le lucciole dei viali di Bologna, Lorenzo Mazza, Roberta Mazza, Laura Medici, Marco Nardini, Alessandro Natalucci, Aldo Nove, Nuova Scena Arena del Sole di Bologna (in particolare Paolo Cacchioli, Viviana Gardi, Davide Martini), Daniele Pario Perra, Paola Pisani, Radio Città Fujiko, Gino Ruozzi, Luca Sansone, Giuseppe Sassatelli, Viviana Scarinci, Elisabetta Sgarbi, Laura Simbula, Strebenstrasse (Nico), Alfredo Stori, tutti gli autori non citati di materiale non pubblicato, VAG61 (in particolare Alvin, Elisabetta Mereghetti, Valerio Monteventi), Valentina Zerbini, Ambra Zorat, Raffaella Zuccari

Logo: Simone Mazzieri Elaborazione grafica: Jonathan Gobbi, Mattia Santini In copertina: Edoardo Sanguineti (fotografie di Mattia Santini) Editore: Edizioni Pendragon, Via Albiroli N. 10, CAP 40126 Bologna www.pendragon.it Proprietà e Corrispondenza: Nuove Argonautiche, Via Bellacosta N.34/3 CAP 40137 Bologna Sede della redazione: VAG61 – Officina di Media Indipendenti (v. Paolo Fabbri 110, Bologna) Sito: www.argonline.it e-mail: argo@argonline.it «Argo» si può trovare un po’ ovunque, in particolare qui: http://www.argonline.it/dove_trovare_argo.html Per facilitarvi la ricerca andremo in giro per l’Italia a presentare questo numero con spettacoli e incontri. Per l’Argontour ’07 consultate il nostro sito. Fra le tappe: Macerata, Milano, Roma, Torino. Avvertenza ai Lettori: carissime, e cari, noi e voi, dopo essersi fatta in due (euro) nello scorso numero, «Argo» si fa in tre (euro): costa cioè come una sana colazione (cappuccino e briosche) o una cialda gelato a quattro gusti. L’aumento è giustificato dal fatto che, dopo il lancio, stiamo cercando la stabilità in volo. Verrà egualmente garantita la pubblicazione dei territori in formato elettronico nel nostro sito e la consultazione gratuita presso le biblioteche di riferimento. Grazie! (La Redazione)


itinerario

Diario di bordo – L’editoriale Valerio Cuccaroni & Annabella Losco Il mestiere della star controcorrente – Intervista a Juliette Lewis Artisti squatteur al lavoro nel cuore di Parigi Marco De Marco Come vivere di solo teatro – Intervista a Matteo Belli Oscar Fuà Esaltare la fatica. O no? La fatica nell’antica Grecia Anime all’opera di Francesco Filippi Ken Loach: collasso del lavoro e distruzione dell’identitá di Filippo Brunamonti La vera scuola della vita di Rossella Renzi Valerio Cuccaroni La grande rivolta Tempi moderni di C. Chaplin (Roy Menarini) Il lavoro nobilita chi non ce l’ha di Nico Chiara Paganini feat. Michele Pedrazzi Scurdammoce ’o passato Lorenzo Franceschini Il gesto che racconta una vita – Intervista a Mario Dondero E poi siamo arrivati alla fine di J. Ferris (Tommaso Gragnato) Michela Murgia Pari opportunità Lorenzo Franceschini Uno sguardo ad altezza d’uomo – Intervista ad Angelo Ferracuti Natalia Paci Amarcord del diritto del lavoro Sergio Cofferati L’Europa delle città contro le derive del lavoro Sindacato: origini e prospettive di Piera Campanella Essi vengono di Giulia Ferrandi My Beatiful Laudrette di S. Fears (Susanna Ghazvinizadeh) Il giro del mondo – Storie di lavoratori da Africa, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Svezia Marco Benedettelli Se una sera d’estate un barista Marcus L. Lo psicodramma della spumetta del caffè Giulio Spiazzi Non penso, lordo Vivere per lavorare di Samuel Manzoni The Take di N. Klein e A. Lewis (Paolo Guglielmo Sulpasso) L’arte del sabotaggioin azienda di Igor Tchehoff La rivoluzione precaria di A. M. Merlo e A. Sciotto (Natalia Paci) Marco Socci e Francesco Orazi I cambiamenti del lavoro nella nuova societá Giampaolo Milzi Fare il giornalista: meglio che lavorare o meglio lavorare? Mi chiamo Roberta… di A. Nove (Antonella Mastroianni) Valerio Cuccaroni Mi chiamo Antonio Antonello… – Intervista ad Aldo Nove Gomorra di R. Saviano (Luigi Socci) PopPrecario di Marco Benedettelli Tommaso Gragnato Pregare per lavorare : i paradossi della precarietá Giulia Ferrandi Notturno bolognese Parassita metropolitano di Claudio Emme Respiro cronometrato – Dialogo con Simon Weil di Elisa Biagini Poesie di Natalia Paci, Andrea Cati, Stefano Sanchini Lou Del Bello La Domanda Sbagliata On the dole di Giacomo Bottà

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Giacomo Bottà : giacbot@hotmail.com

On the Dole Dal sussidio di disoccupazione alla nichilista abnegazione per il lavoro. Quando i punk indossavano i panni dismessi e laceri dei propri padri.

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Stephen Patrick Morrissey conclude la scuola a sedici anni e lavora per qualche settimana per un ufficio delle tasse. Poco dopo decide di smettere di lavorare e di mettersi on the dole, si iscrive alla lista di collocamento per usufruire di un sussidio di disoccupazione. Ha la fortuna di avere dei genitori piccoloborghesi, passa il tempo in camera sua, scrive alcuni saggi sui suoi idoli adolescenziali (James Dean, the New York Dolls), va a qualche concerto (Patty Smith, the Ramones, Sex Pistols), scrive poesie, che canta di fronte allo specchio e redige lettere, che indirizza alle rubriche per i lettori delle riviste musicali «Melody Maker» e «NME».

Più o meno lo stesso stavano facendo molti altri, che di lì a qualche anno sarebbero entrati nella storia della musica popolare britannica. Senza il sussidio di disoccupazione, quasi tutto quello che è stato prodotto sotto forma di musica popolare in Gran Bretagna a partire dal 1976 non esisterebbe. Addirittura il gruppo reggae UB40, prende il nome dal formulario utilizzato per usufruire del sussidio di disoccupazione, il famigerato modello 40 per Unemployment Benefit. Le canzoni che citano il dole sono innumerevoli, sembra che la vita di un’intera generazione ruotasse soltanto attorno a questo. Anche dal punto di vista della storia ora-


le, migliaia di interviste a componenti di gruppi punk, post-punk e new wave del periodo cominciano con la frase: «Beh... ero on the dole e non avevo un gran che da fare, allora ho messo insieme un gruppo». Gli Smiths, il gruppo dove il Patrick Steven di qui sopra, comincia a scrivere testi ed a cantarli in un microfono, sono forse il gruppo che più a giocato con la decostruzione dell’etica lavorativa della generazione precedente. Le canzoni del gruppo celebrano spesso l’indolenza, la mancanza di energia o l’eccesso di timidezza che impediscono all’io narrante, quasi sempre identificabile con Morrissey stesso, di recarsi al lavoro.Contemporaneamente Morrissey si dedica anche alla glorificazione di teppisti, borseggiatori e criminali vari, tutti coloro che normalmente sono additati dall’opinione pubblica come i fannulloni, coloro che, nei primi studi antropologici sulla popolazione delle città britanniche, erano classificati come unwilling to work, restii al lavoro.

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La generazione precedente agli Smith, ai Ramones e ai Sex Pistols aveva sconfitto Hitler e ricostruito la Gran Bretagna post-impero, nel nome della regina e della nazione, ed era stata ricompensata con un lavoro fisso, una casa in periferia con giardino sul retro, un’automobile e una serata al pub, il venerdì sera. Alla fine degli anni ’70 questo mondo si stava sgretolando sotto il peso dell’industria pesante e del suo fallimento. Il punk è nato grazie a coloro che si erano ritrovati adulti troppo presto e senza un futuro. Il punk, a prima vista, è ribellione nichilista al sistema e ad una società che sembrava crollare sulla sua falsa moralità, sul suo sistema borghese di valori e sulla sua mancanza di fantasia, creatività, spontaneità. Il punk come avanguardia, simile ai suoi predecessori, al dada, al situazionismo, all’espressionismo. Ma attenzione, se guardiamo al punk nella sua manifestazione primordiale, quella del 1975 1976, ci troviamo di fronte a qualcosa di completamente diverso: la furia nichilista non nasce come


ribellione ad un sistema, ma come estrema, disperata abnegazione ad esso. Il punk rappresenta un grido di dolore più che una protesta, è la presa di coscienza da parte di una generazione di non essere all’altezza, di non avere nessun mezzo per soddisfare le aspettative paterne, di non essere in grado di salvare il paese in nome della regina e della nazione. Ciò può essere confermato dall’insistenza maniacale che il punk ed il post-punk hanno nel tematizzare la morte della regina (da God Save the Queen, Sex Pistols 1977, a The Queen is Dead, The Smiths 1986), l’abbandono della lotta, il no future. Il punk è la prima moda che utilizza il look della generazione precedentemente, modificando e lacerando ciò che è stato indossato dai padri: giacche da burocrati, con le maniche strappate, sopra camicie bianche (white collars, appunto) serigrafate con frasi del situazionismo, cravatte nere ricoperte da spille da balia, calzoni grigi della divisa della scuola, consumati a dovere. Allo stesso tempo però la musi-

ca popolare britannica conquista il mondo, grazie all’assoluta dedizione al lavoro, da parte non soltanto di musicisti, ma anche di discografici, produttori, fotografi, promoters, grafici etc. Il numero di suicidi, depressioni, abuso di sostanze stupefancenti ed alcolismo nelle scene della musica popolare sono da imputare anche all’eccesivo carico di lavoro a cui gli artisti, una volta affermati, sono sottoposti. Fino al raggiungimento dello status di rock star, il lavoro di un musicista non esiste, la sua legittimazione avviene soltanto grazie a ‘l’avercela fatta’. È soltanto recentemente che suonare è diventato un ‘lavoro creativo’, un ‘lavoro a tutti gli effetti’; negli anni ’70 ed ’80, tutto ciò che aveva a che fare con il palcoscenico era considerato tempo libero e non aveva niente a che vedere con il sudore della fronte. Ciò sembra confermare nuovamente il senso di colpa degli artisti punk, incapaci di essere normali, vittime di quello che avremmo poi chiamato “superlavoro flessibile”, mascherato da festa senza fine.

Cacciatore di teste (Tit. or. Le couperet, Francia-Belgio-Spagna, 2005) di Costa Gavras. La disoccupazione e il precariato sono argomenti troppo attuali per poterci fare un film che non sia simile a un documentario, o ad una docufiction. Quando il regista è un acuto autore del cinema impegnato come Costa Gavras (Z, l’orgia del potere), il progetto riesce in pieno. Le couperet è una commedia nera in cui il funzionario di un industria cartaria, licenziato dopo anni di lavoro per via delle nuove leggi che incoraggiano il precariato, persegue un folle piano che prevede l’assassinio di suoi potenziali concorrenti all’assunzione nell’azienda leader del settore. La trama paradossale non impedisce al film di funzionare perfettamente, innanzitutto grazie all’attore protagonista, José Garcia, che riesce a rendere credibile un personaggio che oscilla tra l’ordinario e la follia, sconfinando di quando in quando nell’umorismo nero. In secondo luogo l’uso del sonoro, sapientemente dosato nelle scene trhiller, a rafforzare lo scarto d’atmosfera tra le scene ambientate in un contesto normale e quelle che descrivono gli omicidi. Il punto forte della pellicola, infatti, è il suo essere perfettamente bilanciata, tra la drammaticità del reale, che racconta senza troppi fronzoli (la disoccupazione e il precariato, che non vengono mai persi di vista come tema centrale, rientrando sempre attraverso i personaggi secondari con cui il protagonista ha a che fare nel corso dei suoi omicidi), e il tono da thriller/black comedy. Il film descrive molteplici situazioni d’ingiustizia, rappresentate dai vari personaggi, nessuno dei quali comunicante con gli altri: ciò impedisce la formazione di quella che una volta era chiamata ‘coscienza di classe’ che spinga a cambiare il sistema. Lo stesso protagonista non agisce per cambiare le cose, ma per tornare a far parte del sistema che lo ha escluso, in una posizione di maggior prestigio. Gavras mostra un insieme di individui accomunati da una situazione di sfruttamento e frustrazione, accentuata dalla costante presenza di immagini pubblicitarie sexy e auto di lusso, che stridono con la realtà di incertezza e precarietà che descrive il film. Si tratta di un insieme che non sa più diventare collettività e far valere quindi i propri diritti. Se la vostra paga da precari non vi permette di comprare il DVD, scaricatevelo: ne vale la pena!

Marco Lanza


Lou Del Bello : louandreas@hotmail.it

La domanda sbagliata Lavorare o non lavorare, questo è il dilemma! Storie di lupi solitari che hanno lasciato il branco Ci sono dei momenti nella vita, siano fugaci come un batter di ciglia, o gravi come macigni, che segnano inesorabilmente il confine tra un ‘prima’ e un ‘dopo’. Dopo che la luce entra in una stanza, non riesci più a ricordare come la immaginavi quando era completamente buia. Quando i tuoi occhi si aprono sul mondo come non lo avevi mai visto, e resti disgustato, o ferito, o semplicemente attonito, non puoi più richiuderli e fare finta di niente. Spesso non ce ne accorgiamo, ma di persone che

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hanno aperto gli occhi (sul buio o sulla luce…chi può dirlo) e sono scese inorridite dalla giostra, ce ne sono ad ogni angolo. E la prima delle giostre da cui saltano è quella impazzita del Lavoro. Tutti li conosciamo, anche se facciamo finta di non vederli. Chissà cosa pensano, chissà perché. Perché in fondo a noi lavorare piace, lavorare si deve, e quando qualcuno intorno cade, smette di correre la feroce gara al titolo di studio, allo stipendio fisso, alla promozione, ci voltiamo solo per un attimo, scuotiamo appena la testa. Forse un rimprovero, forse per un attimo l’invidia,


e poi proseguiamo per la nostra strada. Se ci fermassimo ad ascoltarli, forse non li capiremmo, perché parlano una lingua diversa. Eppure Chiara, di fronte al suo ultimo esame di geografia, tesi finita, libretto da lode, esce e decide che l’università e la sua brillante carriera accademica possono anche finire nel cestino, perché semplicemente non ne ha più voglia. E quando le dico che piantare tutto ora è come «dargliela vinta», lei si fa una risata e mi risponde «Glie la do vinta se mi laureo». Una volta aperti gli occhi, non si torna più indietro. Non so se Chiara cambierà idea, e se non cambierà idea, sicuramente sarà perché qualcuno può permetterle una vita senza lavoro, ma in fondo questo non è molto importante. Quando il giovane Hanno Buddenbrook decide di cedere alla morte, e se ne va senza rimpianti con uno sberleffo a «quel lavorio beffardo, vario e brutale che si è lasciato alle spalle», non è forse perché la breve strada della vita che ha percorso altro non era se non un vano cammino di morte?

direzione. Il lavoro può rendere la nostra vita più ricca, più utile agli altri. Ma non è più una necessità primaria, e quando implica competizione, sfruttamento, umiliazione, molti semplicemente scelgono un’altra via. Alessandro a volte vede delle cavallette sulla sua coperta. Prende una volta al giorno delle pillole, ma ritornano. Ha 38 anni, ha studiato, ma a lavorare ci ha rinunciato. Vive con i suoi genitori, e aiuta in casa. «A quest’età, potrei trovare lavoro in un bar, forse in fabbrica. La prima volta che ho visto gli insetti, anche se non l’ho detto a nessuno, ho capito che la mia vita non poteva essere come quella degli altri, perché io vedevo un po’ più in là di loro. E se guardi solo un passo oltre il tuo naso, ti accorgi che tutto quello che ti fanno fare non ha senso». E se l’unico processo possibile è il passo cieco del bastone e la carota, qualcuno, forse più d’uno, forse una piccola nazione, ha scelto di restare immobile. Ha preferito la delusione negli occhi dei parenti, lo scherno degli amici, una vita forse più difficile, certo

andrea hamm

In questa parte del mondo, ogni nuovo nato porta dal primo giorno il peso di una vita che è stata preparata per lui, di quella che sarà la sua esistenza. Il più possibile felice, facile, di successo. Una corsa che inizia con la scuola e si completa oggi nella professione ancor prima che nella famiglia. Ma ‘bisogna lavorare per vivere’ è un vecchio adagio che per la maggior parte dei ricchi occidentali non è più da prendersi alla lettera. Perché il nostro è un mondo che ha accumulato tanto da potersi permettere dei figli improduttivi. Figli che un bel giorno potrebbero alzarsi e chiedersi che senso ha continuare ad accumulare, minuscole formiche, il cui formicaio straripa di tutto quello che l’intera colonia potrebbe consumare in dieci vite, e che pure continuano ad affannarsi, senza scopo né

di rinuncia. Un’esistenza magari più solitaria e triste, ma profondamente onesta, ribellione di un’umanità violentata. Non farcela, restare indietro, o scegliere di abbandonare le armi. Necessità o Arbitrio, è la debolezza dei nostri anni ubriachi di fronte ad una macchina che corre avanti senza più direzione. Forse un giorno l’unica forza che ci salverà sarà quella di tirare il freno. «Chi vuol vivere oggi e godere la vita non dev’essere come te o come me. Chi pretende musica invece di miagolio, gioia invece di divertimento, anima invece di denaro, lavoro invece di attività, passione invece di trastullo, per lui questo bel mondo non è una patria…», dice Hermann Hesse ne Il lupo della steppa.

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«Che ne sappiamo tu e io, ignari dell’arte loro…» A cura di Lorenzo Franceschini, Rossella Renzi, Giovanni Tuzet Con la scelta di questi testi vorremmo tracciare un percorso di progressivo allontanamento dalla dimensione lavorativa, ispirato alla dialettica ‘lavoro-non lavoro’ su cui si basa questo numero di «Argo». Nella prima poesia, Cordialmente tua, la presenza del lavoro è tanto predominante da prestare la propria sfera semantica alla significazione di un rapporto amoroso. Il testo che segue, L’aria della domenica, descrive il giorno della festa: qui il lavoro è comunque presente, ma nella forma più remota che porta alla sua assenza. Infine, la presenza già sfumata del lavoro diventa negazione e scompare del tutto nella campitura arancio dei muri di Praga…

Natalia Paci

Cordialmente tua La presente per comunicarle che la funzionalità del prodotto è stata manomessa con l’uso, delusa l’aspettativa promessa. Sarebbe comunque gradita una sua nota di commento onde apportare opportuno adeguamento in vista di futuri altrui utilizzi. In effetti, rincresce constatare una certa indifferenza una discreta assenza di confidenza da parte sua, soprattutto dopo tanta intimità nella nostra precedente attività.

Si confida vivamente in un suo riscontro in nome dei consolidati e cordiali rapporti intercorsi, frequentemente, tra i nostri corpi. Si auspica che possa farmi avere - anche tramite legale rappresentante un plico contenente una chiara ed esauriente spiegazione di ogni sua passata e presente emozione.


Andrea Cati

L’aria della domenica

Diversa da tutte le altre è l’aria della domenica: dalle frasi pacate appena benedette alle liturgiche elemosine di grazie, essa si veste di sacro, di rito che dai massoni fino ai più umili, rabbrividisce, strazia e stupisce. L’aria di ogni domenica è diversa da tutte le altre: solo Gennaro e Karl restano lì all’angolo tra la Conad ed una mano avvolta in un boccale che scaldi, in una lacrima mai raccontata. Più in là se vuoi, se la ragione regge a qualche palpito o lamento, scorgi Hugo, sempre con gli stessi abiti e la barba più lunga d’ogni sorriso, lui, sull’identico torrido ponte, affamato e leso. L’aria di questa domenica è diversa da tutte le altre: mentre rotolo verso un lauto pranzo slaccio gli enigmi del dolore in Epicuro affinché io possa dimenticare ciò che vedo e ciò che a voi e a me non dico.


Stefano Sanchini

Praga

Jan Hus, la verità è morta col nascere della parola, mai più potremo comprendere il pensiero del cigno, fermo sul ciglio del fiume, in fondo la poesia non è

di parole, è l’infinito che a tratti per brevi istanti percepiamo, restando poi arresi, afflitti nell’inferno della materia nel linguaggio di cui siamo fieri. Così quello che vidi, lo vide anche il pittore, quel giorno, lì, sulla tela, furono nostri sentimenti emozioni che non hanno nemmeno un nome. Defenestrare l’anima dal corpo, buttarla giù dagli occhi lucidi, ora non basta, insomma provaci tu, se ci riesci, a spiegare questo duraturo incomprensibile frammento: l’arancio sui muri di Praga.


Elisa Biagini

Respiro cronometrato dialogo con S.Weil*

«l’unità di tempo è la giornata: in questo spazio si gira in tondo»

Con queste scarpe tonde, che non portano, che affondano nel qui, mentre la stanza gira e dagli specchi sale la schiuma. «la salvezza dell’anima dipende dalla costituzione fisica»

1. Il battito del polso del cucchiaio: tempobuia piscina dove il corpo affonda. Lo stomaco una tela che si fa e si disfa alla fatica.

2. Parole stanche trascinano i piedi e drizzano le orecchie al pavimento. Col fragore di ferro dello stomaco inneschi allarmi: dall’ingranaggio cola miele nero. «non pensare più. unico mezzo per non soffrirne»

1. Specchio: coda di pesce bloccato nel ghiaccio. (Luce che vedi solo ad occhi chiusi.) 2. Pesce di fondo a cui ti tagli se ti fermi da questo tuo nuotare.

* Questa poesia è stata letta da Elisa Biagini durante il concerto-evento dedicato al lavoro Makina, svoltosi al Link di Bologna venerdì 10 novembre 2006 nell’ambito del Multi Media Labor Festival, prodotto dalla Cgil per il suo centenario. Si ringrazia l’autrice, Luigi Cinque, responsabile del progetto Makina, e la Cgil per la gentile concessione.


Claudio Emme : www.48ore.com

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Parassita metropolitano

Chi me lo fa fare? Chi me lo fa fare? Mi ripeto mentre apro la doccia, accendo la radio, corro in cucina a mettere sul fuoco il caffè. Chi me lo fa fare per mille e non più di mille euro al mese di cui la metà se ne va per l’affitto, le bollette, la tassa sui rifiuti? E poi, quando sembra che le acque si siano finalmente calmate, puntualmente ti salta un’otturazione e devi chiedere un prestito per il dentista. Era meglio stare con i miei, mangiare pane a tradimento, aggiungere una targhetta alla porta dell’ufficio di mio padre. E invece me ne sono andato quando avevo 18 anni, quando il numero di zoccole che conoscevo ancora non superava quello delle ragazze a modo. E ora sono anch’io un ingranaggio della macchina e sembra che se mi fermo tutta la macchina si debba fermare con me. Oggi ho un appuntamento importante, non posso mancare. Gessato grigio, camicia bianca, cravatta blu. I vestiti me li passa mio zio, che fa i soldi vendendo case. Abbiamo la stessa taglia: quando ingrassa cerco di ingrassare anch’io. Quando perde peso mangio di meno. La cravatta l’ho presa a un’asta on line, per cinque euro. Se il rilancio economico del Paese dovesse dipendere da gente come me non ci sarebbe speranza. Sono un parassita metropolitano, un acrobata del saldo, un segugio del free drink, del ‘seguirà buffet’, della ‘liquidazione totale’. A volte mi sento come quei pesci che strisciano sul fondo degli acquari e aspirano merda. Li avete mai visti? Eppure non ho alternative. Lavoro dieci, dodici ore al giorno. Quello che non butto in affitto lo spendo per mangiare o foderarmi il fegato di aperitivi. Quando mi avanzano cento euro volo ad Amsterdam a trovare Lidia, un’olandese che ho conosciuto quest’estate. Turismo sessuale. Del resto sotto le Alpi non imbrocco più niente da tempo. Solo neo-vergini con una passione smodata per le liste nozze. Esco di fretta e corro verso la stazione. Sono un pendolare. Quaranta minuti ogni santo giorno per arrivare a Grand Central, quel mostro di marmo che la mattina, a intervalli regolari, sputa impiegati, segretarie, re-

visori nel cuore della città operosa. Salgo in treno col lettore mp3 a palla e pratico l’autismo consapevole. Mi isolo dalle segretarie starnazzanti, dai quarantenni che parlano di pensione, di «bel tempo oggi», «il treno è sempre in ritardo», «hai visto Striscia?», «non prendo più il regionale!». Quando arrivo in ufficio si sta allestendo il grande incontro. Come sempre il banditore sarò io. Venghino signori, venghino di grazia. I nostri titoli sono i più buoni al mondo. Gradisce un etto di responsabilità sociale? E lei? Vuole assaggiare un po’ di etica? Sì, non esageriamo, solo un pezzettino, poi se non le piace non insisto. Alle due arrivano i clienti: il dott. Barolis, direttore del GCSE (Grande Circuito di Scambio Elettronico) e il suo vice. Pezzi grossi. Lancio i miei biglietti da visita come a una mano di poker. Il vice ricambia. Barolis no, perché «Tutti mi conoscono», e comunque «Il mio cognome non è altro che il genitivo di un noto vino piemontese», precisa. Contento lui. La prima mano la vinco io bluffando con il videoproiettore. Muovo sicuro il mouse aprendo e chiudendo finestre fitte di dati che non ho mai visto prima. Commento ad alta voce con sicurezza. La seconda è loro: scoprono un numero non aggiornato nel mio power point. Potrebbe far crollare tutto il castello. Sono in seria difficoltà. E allora calo l’asso: «Risolviamo tutto, non vi preoccupate. E se firmate entro il mese prossimo è gratis per il primo trimestre e poi vi facciamo il 40% di sconto». Ed eccomi a novanta, a svendere le mie competenze, i miei anni di studio, le mie notti sui libri, i pomeriggi in casa mentre gli amici limonavano con le mie compagne di classe. A svendere tutto per quattro soldi. Ma chi se ne frega. Per me è uguale. Che vinca o che perda mi danno sempre lo stesso stipendio. Da sei anni. Saluto i cortesi ospiti, stringo dita che sembrano salsicce. «Arrivederci», «Di nuovo!». Di nuovo. Di nuovo esco. È già buio. Corro verso la stazione, salgo al volo sul treno, accendo l’mp3, chiudo gli occhi e sogno di quando ero bambino, di quando Reagan si è incontrato con Gorbaciov. Di quando è finito tutto ed è iniziato il nulla.


Giulia Ferrandi

Notturno bolognese Viaggio nel mondo delle lucciole, alla scoperta del mestiere più antico e più crudo del mondo che in Italia è abbandonato a se stesso, come se non fosse un lavoro. ms / nieva

Bologna – La notte è limpida e gialla di lampioni sui viali. La prima ragazza che incontriamo è ferma sul ciglio del marciapiede, stretta in un piumino bianco da adolescente, i capelli raccolti in una coda castana. Emana una dolcezza infinita, il volto pulito si apre in un sorriso candido. «Che domande volete fare?» vacilla, esce dal cerchio di luce del lampione scuotendo la testa. «No, non ho voglia di rispondere». Saluta con un forte accento dell’est la Punto rossa che si allontana. Ci fermiamo dopo più di mezzo chilometro di viali, sono passate da poco le undici; è ancora presto. Vicino a porta San Felice una ragazza bruna aspetta, si avvicina al nostro finestrino abbassato. Non ha paura di parlare, anche se ogni tanto lancia occhiate oblique verso l’orizzonte di fari del viale. È poco più anziana della precedente, sui trent’anni, un filo di trucco sulla

pelle olivastra da creola, lunghi e lisci capelli corvini. Dice di chiamarsi Maria, di aver iniziato a prostituirsi…così. «Così», fa un gesto con le mani a dire «è capitato» fissando la punta delle sue scarpe. Non parla bene italiano, non comprende parole come legalizzazione e case chiuse, ma, appena intuisce ciò che significano quelle parole, annuisce seriamente e dice sì, sono d’accordo. Che le piacerebbe lavorare in un posto regolare e protetto. «Perché, è pericoloso?» le chiediamo. «Sì… pericoloso». Gira a lato gli occhi, sta piangendo lieve. «Che tipo di pericoli?» «Mah… tutti». Tira su con il naso. «E cosa diresti a una ragazza che volesse iniziare il tuo stesso lavoro?» «Che è… brutto».


tando su se stessa. Poi è stata la volta del travestito: appoggiato ad una Porsche grigia metallizzata, al nostro rallentare sfodera due enormi tette gonfie di silicone e sotto la pelliccia solo un filo nero di tanga. Si ricopre quando capisce che non siamo clienti, dalle labbra gonfie di rossetto esce una voce nasale e cadenzata. «Sono cazzi miei. Perché fate domande?». Poi però inizia a parlare, dice che il suo lavoro non è difficile, ma per una come lei non ci sono ‘incidenti’, ha una salute di ferro… solo le piacerebbe che venisse legalizzato.

marco furlani / nieva

Ripartiamo. Siccome Maria alla fine si è messa a piangere, pensiamo sia meglio scendere e andare a parlare di persona, per non dover urlare dal finestrino semi abbassato. Così al lampione successivo accostiamo e scendiamo, solo che, fatti appena due metri, vediamo la ragazza sfoderare un’agilità impensabile, così tarchiata e con tanto di tacchi a spillo, e correre in mezzo al traffico del viale. Una sua collega, guardinga al lampione successivo, si accende una sigaretta e si dilegua con indifferenza nel buio di un vicolo. Ripartiamo per accostare dopo due minuti, ma senza scendere. Qui le ragazze sono due, stanno trattando con

un cliente: la prima è molto bella nel suo cappotto elegante, alta, bionda, l’altra è grassottella, con la faccia simpatica e i capelli arruffati da maschio. Ci sorride. «Come hai iniziato?», le chiediamo. «Con il cazzo in bocca, no?», ride, guarda la bionda cercando complicità ma l’altra si è allontanata fingendo di parlare al cellulare. Dice di chiamarsi Maria. «Ma vi chiamate tutte Maria?». «È un nome molto diffuso in Romania!». «Qual è il brutto del tuo mestiere?». «Mah… che non si guadagna abbastanza!», ride, l’altra si accende una sigaretta in silenzio. «Perché lo fai?». «Perché ho bisogno, no? Ed è facile». «Lo fai tutti i giorni o saltuariamente?». «Quando ho voglia». «E da quanto tempo?». «Da tre anni». «Cosa diresti ad una ragazza che volesse iniziare?». «Che venga… il marciapiede è di tutti!». Ride piroet-

«Perché?», le chiediamo. «Ma perché così pago le tasse, no? Come tutti!», risponde con questa sua strana ironia. «Vorresti che riaprissero le case chiuse?». «E credi che lo Stato riuscirebbe a controllarle tutte?». Il discorso la appassiona. «Non riuscirebbe mai. È dagli anni ’80 che sento dire stronzate di questo tipo, e sai cosa è cambiato? Ho 43 anni e ho sempre lottato per essere riconosciuta, ma niente». Quindi è la volta della biondina di via Stalingrado, intenta a destreggiarsi in mezzo ad un gruppo di ragazzi della Bologna bene. Si stanno divertendo proprio tanto, l’aggressività del gruppo maschera l’inadeguatezza di ciascuno. Raluca ha 23 anni e lavora da un mese. «È difficile il tuo lavoro?». Si avvicina di più al finestrino. Come iene gli altri circondano la Punto. «LAVORO?!... Sentilo…e la puttana gli risponde anche!».


Sbarre faticose Il detenuto che svolge un lavoro in carcere, è definito lavorante e non lavoratore: scrivano, scopino, spesino, vivandiere, piantone. Stesse voci al femminile. Lo scrivano aiuta chi non sa farlo a compilare moduli, lettere e richieste. Lo scopino è il netturbino di sezione o dell’intercinta (così viene chiamato lo spazio tra l’edificio del carcere e il muro dove staziona la ronda e che separa dal fuori). Lo spesino raccoglie gli ordini per la spesa - il ‘sopravvitto’ - custodita in un locale chiamato bettolino. Il vivandiere è il detenuto che trasporta il cibo negli appositi contenitori e lo distribuisce a orari da ospedale. Il piantone è una specie di assistente domiciliare (o meglio, cellulare), che assiste un detenuto seriamente malato. Nessuno percepisce un salario, ma una mercede, in quanto svolge mansioni, non mestieri. Paradossi di un limbo semantico oscillante tra arbitrio e concessione. Ipocrisie di un mondo capovolto che non consente altra identità fuori dall’istituzione totale, e vuole mascherarlo con vezzosa burocrazia. Scrivono Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella, dell’associazione Antigone, nel volume Patrie galere (Carocci): «Il lavoro è un diritto per tutti i reclusi, obbligo per i soli condannati, opportunità per chi intende partecipare ‘attivamente all’opera di rieducazione’. Non è facile riassumere le nozioni di ‘opportunità’, ‘diritto’ e ‘obbligo’ intorno allo stesso concetto». Infatti, anche se dal 1975, con la riforma penitenziaria il lavoro in carcere non è più obbligatorio, non per questo è diventato un diritto. Sulla carta vale il criterio della rotazione dei lavori, ma solo il 25% circa dei reclusi ha il permesso di svolgere un’occupazione. I compensi sono irrisori, appena sufficienti per comprarsi pochi generi al sopravvitto, pagare la quota di mantenimento al carcere, acquistare francobolli e sigarette. Le ore di lavoro vengono calcolate in base a criteri insondabili, comunque decise sempre secondo la disponibilità e i turni del personale di sorveglianza. Lavori atipici applicati anzitempo, che ormai dilagano anche all’esterno, e richiedono acquiescenza, crumiraggio, flessibilità: comportamenti a cui viene ben preparato il detenuto odierno. E non si dica che il carcere non offre una formazione. Geraldina Colotti : gcolotti@ilmanifesto.it

giulia ferrandi

«Ma siete proprio dei bambocci, eh…», gli urliamo. Le iene prima di rispondere qualcosa si sono già allontanate in branco, solo uno a distanza farnetica parole vuote inghiottite dal boato delle auto. «Dipende… dipende dal cliente», risponde Raluca alla nostra domanda, come se non fosse successo nulla. «Se il cliente è tranquillo, il lavoro è tranquillo. In un mese ho avuto quattro incidenti con i clienti stronzi, quelli che rubano e picchiano. E ho sempre paura delle malattie». «Perché lo fai?». «Ho cominciato per soldi… sì, certo», e qui un gesto plateale abbraccia il grande vialone nero, le macchine, i prefabbricati intorno e oltre, «CERTO, non mi piace scopare con tutti italiani di tutta Italia tutta la notte eccetera, ma se non ci sono soldi, no?». «Ce ne sono molte come te… tue amiche… qui?», mentre le rivolgiamo questa domanda una morettina si è avvicinata, incuriosita. Non parla italiano, Raluca le dice qualcosa in rumeno e lei scuote la testa, indietreggiando. «Qua tutta la strada è piena, rumene come me». Raluca indica dove i fanali sono puntini rossi nel fondo cieco di via Stalingrado.


Tommaso Gragnato : tommaso.gragnato@argonline.it

Pregare per lavorare: i paradossi della precarietà

jg / nieva

La linea di demarcazione che separa il lavoro dalla vita tende sempre più a impallidire e la precarietà finisce per condizionare tout court l’esistenza dei giovani lavoratori. Società e mondo politico non ci sostengono, anzi si può dire che ci tengano in sospeso, offrendo un’unica certezza: la scadenza del contratto.

Se volessimo trovare una qualità specifica del nostro tempo potremmo dire che è un decennio caratterizzato dalla mancanza di traiettorie definite. Costruire un percorso di vita lineare è cosa ormai inverosimile e, da un certo punto di vista, nemmeno auspicabile. Stiamo imparando pregi e difetti della flessibilità, fuggiamo la routine come qualcosa di insopportabile e critichiamo l’instabilità che ha invaso il mondo del lavoro ritrovandoci inevitabilmente a combattere nell’ennesimo double blind nato dalle dinamiche confuse di questo nuovo millennio. Alzando il tiro, possiamo riconoscere che la temporaneità, il precariato o in generale l’instabilità, sono la stimmung, la caratteristica preminente della nostra epoca: nelle nostre azioni, negli spostamenti, nella vita sociale così come nell’approccio al mondo del lavoro – in sostanza in ogni gesto –, si avverte come questa particolare disposizione d’animo, quest’atmosfera di transitorietà sia sempre presente, seppure

passiva, impercettibile. La dialettica precarietà-sicurezza è un tema su cui si spendono moltissime parole e risorse, e che tocca ognuno di noi sotto molteplici aspetti . In tutti i casi questo legame sottende una linea di schizofrenia che più e più volte ci accorgiamo di oltrepassare. Possiamo ricordare con quale temerarietà abbiamo accostato la nostra persona ai più svariati lavori, quelli che si omettono dai curricula per una sorta di vergogna, ma che in un modo o nell’altro qualche soldo l’hanno fatto guadagnare. Lavoratore temporaneo, lavoratore interinale sono qualifiche che contraddistinguono un determinato periodo di vita, magari gli anni universitari; poi, quando freschi di laurea inizia a maturare un’esigenza diversa, di posizione, di riconoscimento, di ritorno economico, eccoci pronti a indossare le vesti del lavoratore precario: quando avvertiamo la necessità di dare forma alle nostre vite, di usare e osare nell’esperienza, ci dicono che non è più possibile. «È certo poco nobile non


bilità di un impiego temporaneo; produce sul punto di rottura, sul limite di questa rottura, presentendo che nel momento in cui il ramo cederà, non sarà un morbido atterraggio ad accoglierlo, ma piuttosto un volo nel vuoto, un incubo da pochi euro. In questa complicata differenziazione tra precariato e flessibilità, tra società flessibile e società precaria, occorre fare riferimento ancora una volta al concetto di ‘tempo’. Avremo allora sotteso alla flessibilità un continuum temporale; congiunto al precariato non solo un

valerio cuccaroni

portar nulla di nostro nel mondo» diceva Pico della Mirandola nel suo De hominis dignitate. E come dar torto a un così saggio pensiero. Il nostro problema non è tanto la volontà di affermare la propria personalità, di vedersi riconosciuti per ciò che si fa. Il sospetto che nasce da un rapido sguardo al mondo del lavoro è che, specializzati o meno, intraprendenti o misurati, non ci sia posto per tutti. O meglio, c’è più gente che lavora ma meno lavoro, cioè la curva dell’unità di lavoro è in discesa . Un elemento distintivo del sistema di potere delle forme moderne di produzione è legato al concetto di ‘flessibilità’. Secondo Richard Sennett esso si articola su tre elementi: reinvenzione discontinua delle istituzioni, specializzazione flessibile della produzione e concentrazione di potere senza centralizzazione. Se queste sono le regole del mercato del lavoro flessibile, per l’individuo lavoratore si registrano solamente ricadute e una generale sensazione di passività: fusioni aziendali (delayering), fallimenti e riorganizzazioni (reengineering), specializzazioni della produzione in chiave flessibile; ogni posizione teorica, ogni suddivisione schematica coglie il problema dal punto di vista della produzione e raramente da quello del lavoratore. Nel mondo dell’informazione il termine flessibilità dà luogo, nelle sue differenti connotazioni, a una delle più sorprendenti mistificazioni semantiche. Da alcuni viene indicato come la soluzione, mentre altri vi riconoscono un ulteriore inganno per il lavoratore. ‘Flessibilità’ (dal lat. flectere: ‘che si lascia piegare senza rompersi’) sta originariamente a indicare quella particolare qualità del legno di resistere alla flessione, di piegarsi senza spezzarsi. Nell’ottica dei ‘padroni’ il lavoratore flessibile è colui che si lascia deformare, che è in grado di adattarsi, che può essere spostato all’interno della catena produttiva. Nell’ottica del lavoratore, il lavoro flessibile è quello che permette un sufficiente ricambio delle mansioni tale da non alienare eccessivamente la propria persona. Quello che si registra oggi sembra essere piuttosto un’instabilità delle istituzioni: non è il lavoro che è flessibile, né tanto meno il lavoratore fa esperienze alla Charles Fourier, ma è il mondo dei padroni ad essere in continua mutazione e trasformazione. Questo è il sistema di potere di cui parla Sennett e che si riversa nelle vite dei lavoratori rendendole instabili, precarie. Il precario è senza padrone fisso, appeso all’insta-

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senso di frattura temporale, ma anche l’idea di più tempi lavorativi paralleli con una successiva frammentazione dell’identità del lavoratore: più lavori, più stipendi, parecchio stress. Si afferma così una vera e propria classe sociale, quella del lavoratore precario, colui che etimologicamente ottiene il lavoro per preghiera, che fa dell’instabilità la sua religione. Co.co. pro, pochi diritti, basso costo per l’azienda, questa tipologia di lavoratore è sempre pronto a svuotare il proprio armadietto, a liberare la scrivania non appena salta una commissione, un progetto è portato a termine o quando la sua competenza non rientra nei piani aziendali. Portafoglio carico di tessere, conto in banca agonizzante, un forte senso dell’ironia sul futuro a breve termine – del tutto impossibilitato alla progettazione a medio o lungo termine – il precario si fa scudo della solidarietà famigliare, di una disillusione tutta tendente al ribasso, alla rassegnazione, a un’afflizione da martire della società. Infatti, non solo


valerio cuccaroni

è precario il suo lavoro, ma gli attributi della precarietà si estendono alla sua situazione esistenziale, dalla sfera lavorativa a quella sociale, alla vita tutta fino a un’identificazione del self, di sé come persona precaria, se non addirittura affetta da precariato. La frattura che a metà del Settecento ha portato alla separazione tra domus (casa) e lavoro sembra ora rientrare con qualche non indifferente mutazione. Se al tempo di Diderot l’enciclopedista francese poteva mostrare il valore positivo del lavoro in fabbrica, men-

tre per lo più tutta l’economia era incentrata intorno alla domus – ogni bottega era inserita nella casa del bottegaio che spesso offriva anche vitto e alloggio ai suoi dipendenti – quello che possiamo vedere oggi è una fusione totale tra vita e lavoro: i limiti tra ciò che sono e ciò che faccio sono definitivamente venuti meno. Io sono il mio lavoro, il mio essere è la funzione. In quest’ottica il precario porta a casa pochi soldi e tutta la sua precarietà, mentre il lavoratore a tempo indeterminato è tornato, in un certo senso, a far parte della famiglia del datore di lavoro: se è dipendente di una multinazionale o di un grande gruppo o di aziende affiliate, il lavoratore ridistribuisce, consumando, la ricchezza guadagnata lì dove chi l’ha fornita intende riprendersela. Se avete velleità di consumo critico significa che siete persone di grande volontà, perché è il sistema stesso che porta determinati lavoratori a fare determinati acquisti. Determinati da altri, s’intende. Non ci può sfuggire quanto i mezzi di produzione

siano diventati mezzi di controllo, come agiscano sulle scelte dei lavoratori, andando a toccare finanche la sfera affettiva. Da qui parte un assunto, una provocazione che ha dell’assurdo: se vogliamo essere vivi dobbiamo ‘essere’. Non è questa una dichiarazione di resa, anzi è necessario leggerla come una sfida, una sfida che richiede molte energie: accettare il precariato e fare di tutto per trasformarlo in flessibilità. Immersi in un sistema-società che sotto molteplici aspetti rivela e cerca di ingiungere un carattere precario alla vita, è necessario problematizzare il precariato, spogliarlo di ogni passività, piegare la situazione a nostro favore per una nuova ottica attiva, una ‘rottura flessibile’, un’etica ferma che accetta il precariato per superarlo, annientarlo. Certo sono indispensabili gli ammortizzatori sociali e, fondamentalmente, la società dovrebbe garantire al lavoratore provvisoriamente disoccupato un sostentamento, dal momento che quando finisce un contratto temporaneo il lavoratore è ancora disponibile al lavoro, come succede in altri paesi europei. Lungi da noi il delegare alla ‘società’ il compito di trovare un lavoro al disoccupato. La generazione che oggi si affaccia al mondo del lavoro conosce la necessità di inseguire il lavoro, di fare degli spostamenti. Quello che registriamo è un gap, un divario tra un mondo lavorativo che vuole dinamismo e disponibilità allo spostamento, e strutture d’accoglienza e servizi assetati di denaro, carichi di burocrazia, che si muovono a una velocità ridotta creando una serie infinita di problematiche: il contratto d’affitto, le regole comunali, i permessi per circolare… Appena un lavoratore giunge in una delle grandi città italiane viene immediatamente attaccato da ogni sorta di tassazione. Per generalizzare, l’impressione è che ci sia un sistema che si muove a due velocità: da una parte il mondo del lavoro richiede dinamicità e disponibilità allo spostamento, dall’altra il tessuto dei servizi sociali ha caratteristiche statiche, burocrazie che non si allineano, che non sanno essere flessibili. L’era del capitalismo organizzato è finita. Se pensate che cambiare le carte in tavola sia un’utopia, che l’impatto della generazione ‘mille euro’ sulla vita sociale di questo paese sia di carattere del tutto passivo, l’unica soluzione è uscire dal circuito della produzione, svincolarsi dal produci-consuma-crepa. Come? Producendo e consumando il proprio, lontano da contratti e manifestazioni, scomparendo nell’autosufficienza.


Marco Benedettelli : marco.benedettelli@argonline.it

PopPrecario Nuovi santi in paradiso e nuove costellazioni di resistenza mediatica.

Non è bello né angelico, e nemmeno ha tatuato sul volto il fuoco sacro dei disperati. San Precario è piuttosto un paffuto ragazzo, dagli occhi miti e dal viso tenero, che un po’ ricorda Romano Prodi e un po’ Ugo Fantozzi. Viene da dire che San Precario sembra un ragazzo remissivo, se non fosse per quel passo della Bibbia dove si ammonisce che «Tremenda è l’ira dei mansueti». La prima apparizione di San Precario sulla terra risale al 29 febbraio 2004, giorno in cui la sua statua fu portata in processione in una Coop di Milano. Da allora le sue apparizioni si sono moltiplicate per l’Italia e per l’Europa, nelle manifestazioni, nei volantini lasciati clandestinamente nelle toilette dei Mc Donald’s, negli schermi dei computer, con la fluidità invisibile di un gas. Il Santo è ritratto nell’atto di pregare, fedele dunque alla radice semantica del suo nome, poiché ‘Precario’ deriva dal latino precarius, cioè ‘ottenuto con preghiere’ (da prex, precis). Il suo onomastico si festeggia il 29 Febbraio, che è un giorno ‘intermittente’, che va e viene ogni quattro anni, come i rapporti di lavoro con cui il Santo è vessato, e così se ne sta lì tutto penitente e inebriato di mistica grazia a pregare per delle cose semplici, ma che la crisi del progresso fa vacillare: l’accesso ai saperi, alla casa, al reddito, agli affetti, evocati dai simboli che s’irraggiano dalle sue mani congiunte in preghiera. Rivolto forse proprio al dio imperscrutabile dell’economia globale, San Precario è lì che prega con indosso i vestiti di un Chainworker, (letteralmente ‘lavoratore della catena’), come chiamano oltreoceano i dipendenti impiegati nei grandi luoghi di produzione e vendita di beni destinati al consumo di massa, quei lavoratori orfani dei diritti sindacali, che vivono solo di un ‘now’ allucinato e che rischiano di divenire l’emblema di una nuova era del (non)diritto del lavoro. E l’abito in questo caso fa anche il monaco, perché San Precario è figlio di un gruppo di mediattivisti che hanno

deciso di chiamarsi proprio Chainworkers, e di architettare con San Precario una precisa operazione mitopoietica. La sua icona è un anti-brand creato per accostarsi in funzione straniante alla giungla dei brand, i marchi commerciali, ovvero le entità mitiche del nostro immaginario contemporaneo. La figura del Santo è ripresa da un particolare di un’opera di Chris Wood, un artista canadese che raffigura nei suoi dipinti ad olio dal tratto iper-realista soprat-


Roberto Saviano

Gomorra

Torino, Einaudi, 2006

Sembra proprio, a rileggere Gomorra dall’ultraspecifico punto di vista dei temi legati al lavoro, che fare il camorrista oggi non sia più l’impiego sicuro di un tempo. Ahinoi! Bei tempi quelli in cui agli apprendisti di belle speranze che muovevano con fiducia i primi passi della propria carriera criminale si dischiudeva, a patto di non tradire o finire morti ammazzati, la stabilizzante e rassicurante possibilità del posto fisso, del lavoro (o del carcere) a vita. Il sistema economico della camorra d’oggi, orizzontalmente strutturato in piccoli ma potentissimi clan (dei quartieri spagnoli o di Forcella, secondiglianesi o casalesi che siano) in perenne concorrenza tra loro, sembra non riuscir più a garantire, specchio nemmeno tanto distorto della coeva (e comunicante) economia legale, la ormai chimerica prospettiva di automatismi negli scatti di carriera, di adeguati ammortizzatori sociali e del godimento della meritata pensione dopo un’onesta carriera di contrabbandi, sfruttamento della prostituzione, pizzi e ammazzamenti vari, lasciando spazio all’impronunciabile spettro (anche qua) della parola ‘flessibilità’. Co.co.pro. dello spaccio e dell’intimidazione, i camorristi delle ultimissime generazioni non vengono più assunti (o meglio ‘affiliati’ secondo il gergo): perdendo i diritti del vecchio welfare cutoliano, i giovanissimi percepiscono stipendiucci forfettari di modesta entità, non hanno l’assistenza legale in caso di arresto né la ‘mesata’ (ivi inclusa la reversibilità della stessa nei confronti del coniuge e della famiglia che pure la nuova camorra organizzata di don Raffaè, vero e proprio stato sociale nello stato, riusciva a garantire). E tutto ciò non per effettiva necessità, non perché ci sia crisi o ci si debba confrontare con agguerriti concorrenti internazionali. L’economia descritta in Gomorra appare floridissima: la capacità di penetrazione commerciale dei suoi ‘imprenditori’ dei mercati esteri, formidabile; l’adattabilità al mutare delle situazioni, da far impallidire Montezemolo e Pininfarina. Da qualunque indicatore economico lo si guardi, il sistema di cui Saviano ci parla appare quello dell’azienda italiana ideale, almeno nell’ambito di un capitalismo selvaggiamente e sregolatamente inteso. Autore, a mio modo di vedere, del miglior esordio italiano dai tempi di Woobinda di Aldo Nove, Saviano, dall’alto delle sue cinquecentomila e più copie vendute, sembra quasi suggerirci, eccezione che conferma la regola, che in qualche raro caso anche quello dello scrittore possa essere un mestiere ancora praticabile.

Luigi Socci : socci.bros@libero.it

tutto i lavoratori delle grandi catene commerciali, i Chainworkers appunto, con l’intento di smascherare il misticismo della civiltà occidentale e dei suoi nuovi consumi di massa. Partendo da questo particolare i mediattivisti della webzine www.chainworkers.org hanno sviluppato un’icona capace di instaurare un cortocircuito tra la tradizione più visceralmente popolare della cultura italiana, quella dei santi, e l’elefantiasi mediatica della pubblicità. E di mettere alla berlina attraverso tale carnevalata una delle più serie epidemie sociali del nuovo millennio, il precariato appunto. Nuovi linguaggi popolari per nuove forme di protesta post-ideologiche. In Italia è dalla fine degli anni ’90 che un arcipelago di piccoli gruppi di mediattivisti lavora in tal senso. Le testimonianze sono molte: vedi il Manifesto Bio/Pop del Precariato Me-

troradicale, o il manuale Comunicazione Guerriglia, tattiche di agitazione gioiosa e resistenza ludica all’oppressione, a cura dell’Autonome a.f.r.i.k.a gruppe, Luther Blisset e Sonja Brünzel (DeriveApprodi, 2001), oppure lo scherzetto di Serpica Naro, quando nel 2005 i Chainworkers beffarono tutto l’establishment della Settimana della Moda di Milano organizzando in segno di protesta la sfilata di una stilista, Serpica Naro, che non esisteva, e che altro non era se non l’anagramma di San Precario, un puro e consapevole fantasma mediatico, mentre purtroppo i precari della moda che parteciparono alla sortita erano lavoratori in carne e ossa.


Valerio Cuccaroni

Mi chiamo Antonio Antonello ‘Aldo 9’ Satta Centanin, ho 40 anni, sono uno scrittore Intervista a un ex-cannibale

andrea marcellino

E venne il pulp. Vi ricordate il pulp? I film di Tarantino, Pulp Fiction, gli scrittori pulp, la rivista «Pulp», la musica pulp… Forse no. Del resto, nella società della realtà-spettacolo, dei reality show, le mode, le tendenze, le correnti si diffondono con la stessa rapidità con cui scompaiono. In un blob quotidiano di immagini parole suoni colori. A volte, però, i creatori delle mode, gli stilisti, quelli che determinano lo stile sia della sartoria che di qualsiasi altra arte, sopravvivono alle mode e riemergono, mutati, a disegnare nuovi modelli, a creare altri abiti, altre opere. E gli scrittori che una decina di anni fa, alla fine del Novecento, vennero considerati i figli di Tarantino, gli esponenti del pulp all’italiana, per le loro storie

a base di omicidi, stupri, violenza e sangue, sono oggi i comici, i narratori, i poeti e gli sceneggiatori italiani più amati, sebbene di pulp non si parli più. Fra loro ricordiamo Daniele Luttazzi, Niccolò Ammaniti, Aldo Nove, tutti presenti con un loro racconto nell’antologia Gioventù cannibale, pubblicata da Einaudi nel 1996 e ristampata nel 2006, per il decennale. Questi pulp-cannibali, questi nuovi maledetti chiudevano il secolo e il millennio narrando di demoniache cappuccetto rosso, di pompini, crani lavati con il bagnoschiuma, merda e fast food. Alla fine degli anni Novanta la società italiana si contorceva in un soprassalto di neo-consumismo ebete. I cannibali colsero la novità, l’attaccarono come belve e la fecero a brani. Brani sanguinanti, si capisce, come i personaggi pulp.


Ve la ricordate, la fine del secolo scorso? Sono passati soltanto pochi anni e sembra un secolo… Vi ricordate, cominciavano le manovre belliche degli Stati Uniti in Medio Oriente, le merci dilagavano ovunque, il lettore dvd cominciava a scalzare il video-registratore, i telefonini cominciavano a moltiplicarsi come pani e pesci surgelati… Era la fine del secolo, la fin du siècle, disperata, estetizzante e guadente come la fin du siècle di due secoli fa, dell’Ottocento, quando Paul Verlaine cantava l’Impero alla fine della decadenza. Ma quando finirà questa decadenza? Certo, è arrivato il nuovo secolo, il ventunesimo, e assieme a lui e al baco il nuovo millennio, il terzo. La decadenza però non si è arrestata: decadendo le Torri gemelle, sono dilagati il terrorismo e la guerra preventiva, si è continuato a spingere sui consumi e a smantellare lo stato sociale, il welfare state. Alla fine del ventunesimo secolo dell’era cristiana il governo italiano si era già prostrato alle necessità del mercato, o meglio dei mercanti, alla Banca Mondiale, al Fondo Monetario Internazionale (FMI). E come un bianco coniglio dal cilindro, all’inizio del nuovo millennio è stato estratto il precariato. Per una volta, però, gli scrittori italiani non si sono rifugiati nell’intimismo. Al contrario, hanno cominciato a raccontare questa funesta magia, questo rito macabro che si gioca sulla pelle di milioni di persone. Compreso l’ex-pulp, l’ex-cannibale, l’inarrestabile sperimentatore di linguaggi Antonello Satta Centanin, l’autore che tutti conoscono come Aldo Nove. Con Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, pubblicato da Einaudi nel 2006, Nove ci ha consegnato la sua visione dell’Italia contemporanea, in una raccolta di interviste a lavoratori precari. Compiendo così il suo personale esorcismo contro uno dei Mali che più ci tormentano in questi anni. Che differenza c’è, secondo te, fra l’immagine del lavoro che danno i letterati e la realtà? La letteratura mette al centro la soggettività. Non la realtà. La questione è dare più punti di vista possibile per restituire la nostra visione della realtà. Ma è difficile, la realtà è data per scontata. Invece, la

domanda è: che cos’è l’Essere? A livello religioso e teologico è qualcosa che sostituisce la realtà… poi c’è la realtà dei dati e delle statistiche… Lasciamo stare l’Essere in generale e torniamo a te, invece, alla tua soggettività di ‘Essere particolare’: perché hai sentito la necessità di scrivere un’opera sul precariato? Non ci ho pensato, ad un certo punto ho sentito un’esigenza talmente pressante che ci ho messo dentro tutto. Avevo ascoltato storie assurde. Meravigliose. Tragiche e comiche… E che cosa ti ha colpito dei lavoratori che hai intervistato? L’estrema dignità. La consapevolezza. L’adattabilità di queste persone che si sono trovate di fronte a situazioni estreme, riuscendo a fornire di senso una realtà completamente schizofrenica rispetto a come la si rappresenta. Tu che sei stato il pionere di quella che sta diventando una vera e propria saga, che cosa ne pensi del proliferare incessante di romanzi dedicati al precariato? Più che pensare, constato. È molto brava Michela Murgia, che ha pubblicato Il mondo deve sapere. Storia tragicomica di una telefonista precaria per le edizioni Isbn (un racconto inedito di Michela Murgia si può trovare in questo numero di ARGO a p. 32). Mi sembra che in questo libro sia stato raggiunto un livello di maturità tanto forte da riuscire a coniugare volontà di denuncia e capacità di far ridere. È il più bello. Il fenomeno è arrivato alla sua acme. Come giudichi l’attuale situazione economica italiana? Non molto bene. E non dico altro, perché non potrei articolare un discorso complesso, faccio lo scrittore, non l’economista né l’analista. Allora parlaci del tuo lavoro di scrittore… Volevo fare lo scrittore da quando avevo sette anni. Tra i sette e i nove anni avevo scritto un pensierino su un gatto. La maestra lo lesse a tutti, il direttore lo lesse a tutta la scuola. Ho deciso che sarebbe an-


data avanti così. Ne La più grande balena morta della Lombardia (Torino, Einaudi, 2004, N.d.R.) c’è un rifacimento di quel racconto.

petra raffaelli

Un’ultima domanda: se ti dico “lavorare tutti per lavorare meno”, tu cosa mi rispondi? Cosa vuoi che ti risponda? È come se chiedessi al papa se è cattolico… qualcosa però posso aggiungerla: io svuoterei di significato la parola ‘fallimento’ quando si parla dell’individuo, quando si parla di fallimento sul piano individuale. Considererei il lavoro sempre come un mezzo e non un fine. L’unico fine è essere vivo: qualsiasi cosa tu faccia, va bene, se resti vivo. Un modo per stressarsi di meno è non identificarsi col proprio lavoro. È un paradosso: dovremmo creare una cultura dell’ozio, ma per farlo dovremmo liberarci da catene che non riusciamo a metterci.

Aldo Nove

Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese... Torino, Einaudi, 2006

Quando ho letto la quarta di copertina di questo libro ho pensato subito al solito librettino sulla sventurata esistenza dei trentenni del Duemila, i miei coetanei, del lavoro che non c’è, del futuro incerto... blablabla, la solita ‘Ode alla Sfiga’. In realtà, si tratta di una raccolta di interviste realizzate da Aldo Nove e pubblicate sul quotidiano «Liberazione» tra il 2004 ed il 2005; storie di quelli che, non troppo tempo fa, hanno smesso di essere una generazione di vincenti per diventare solo numeri da statistica, animali da colloquio, precariamente al mondo quasi come il panda gigante. E quando cominci a leggere, capisci che questo non è affatto un libricino messo lì al km 26 dello scaffale S14 per macinare i soldi del prezzo di copertina con un argomento che tira, e che le storie che racconta saranno forse storie comuni e tristemente familiari, ma non per questo banali. Alla fine della lettura (a parte l’irresistibile voglia di emigrare in una meravigliosa quanto inesistente repubblica caraibica che offre solo lavori bellissimi, semplicissimi e strapagati) mi sono sentita come chi ha appena finito di sfogliare un album fotografico, ma di foto sviluppate dalla pellicola, magari in bianco e nero, quelle venute prima del digitale e di Photoshop, senza ritocchi e senza filtri. Il mondo del lavoro oggi di imperfezioni ne ha tante, di ritocchi gliene servirebbero anche di più: ma, per fortuna, gli scrittori come Nove Photoshop non lo usano mai quando scrivono, e le storie di questo libro sono amari fotogrammi rubati al nostro quotidiano. Mi chiamo Roberta è una raccolta di favole contemporanee: quattordici interviste a Cenerentole a cui è rimasta a malapena la zucca, ad Hansel e Gretel che, aspettando tempi migliori, si sono mangiati tutte le briciole e non trovano più la strada dell’ufficio di collocamento, e un paio di Barbablù che hanno speso tutta la loro eredità di uxoricidi per pagare la rata del mutuo. In fondo, siamo un po’ tutti messi così, ormai, disillusi dalle favole che ci hanno raccontato sul nostro meraviglioso futuro, in attesa del lieto fine. Fermi così... Foto ricordo... Sorridete... CLICK!!!

Antonella Mastroianni



Giampaolo Milzi : urloline@libero.it

Fare il giornalista: meglio che lavorare o meglio lavorare?

Giampaolo Milzi è stato direttore responsabile di ARGO dal 2000 al 2003, quando la rivista usciva come allegato di URLO, mensile indipendente fondato e diretto dallo stesso Milzi. In questa e nelle pagine seguenti troverete le copertine di tutti i numeri di ARGO pubblicati finora.

Quattordici giorni di sciopero negli ultimi 12 mesi. Il rinnovo del contratto collettivo bloccato da due anni dagli editori, disposti a cedere solo in cambio di una trasformazione definitiva delle redazioni e del loro indotto occupazionale in call center iperflessibili. E cioè incapaci di assicurare una informazione di qualità, libera e indipendente. Luoghi di lavoro dove i redattori con contratto a tempo indeterminato rischiano di diventare una razza in estinzione, trasformati in topi da desk, ridotti al ruolo di telefonisti, a passare e titolare al computer i file degli articoli consegnati da un’armata brancaleone: quella costituita da lavoratori esternalizzati a tempo stabilmente indeterminato. E poi tanti, troppi interni sprofondati nel nero dell’abusivismo coatto. Fantasmi, per il diritto del lavoro: niente ferie o ripo-

si festivi e settimanali, rimborsi spese, assistenza sanitaria o copertura in caso di incidenti legati alla professione, suscettibili di essere messi alla porta da un giorno all’altro senza alcuna spiegazione razionale. E quindi facilmente ricattabili, influenzabili, resi remissivi dai padroni del vapore editoriale. Asservibili agli interessi più o meno occulti di editori che tutto sono fuorché editori puri, bensì palazzinari, banchieri, capitani d’alta finanza, potenti imprenditori. Legioni di iper-precari senza tutela. Con retribuzioni da fame, pagati ad articolo, anche a 2,5 euro a pezzo. Può avere dunque ancora senso baloccarsi col luogo comune: ‘Fare il giornalista? Meglio che lavorare’. Già, la professione più bella del mondo. Poca fatica, grandi avventure, emozioni e divertimenti.


Una casta privilegiata? La realtà è ben altra: una professione ai limiti della tragicommedia. Al che vien da dire: “Fare il giornalista? Meglio lavorare! Nel senso di sbancare il lunario in altri modi”. Tra i professionisti dell’intelletto, forse, solo i professori stanno peggio. Parola di chi scrive. Giornalista professionista dal 1992, dopo 8 mesi di collaborazione esterna, 7 di abusivismo in nero nella redazione de La Gazzetta di Ancona, 18 mesi di contratto da praticante, quindi l’esame di Stato e l’iscrizione all’albo dell’ordine professionale. Com’è andata a finire? Giusto il tempo di mettere nel por-

pubblicità. Ho collaborato con testate nazionali e locali, ho coordinato due periodici del Comune di Ancona, ho preparato all’esame scritto di maturità alcune classi di una scuola superiore privata, ho realizzato un giornale con gli studenti di una scuola pubblica. Insomma, sono rimasto giornalista. Freelance, naturalmente. Ma giornalista non pentito. Nonostante sia stato, la stragrande maggioranza delle volte, pagato a pezzo. Costretto, per legge, a versare contributi d’oro all’Inpgi (l’ente previdenziale dei giornalisti) sebbene con pochissime speranze di invecchiare con una vera pensione.

tafoglio il sospiratissimo tesserino, di esclamare “ce l’ho fatta, sono redattore ordinario a tempo indeterminato”, e nel giugno del ’92 l’editore, Edoardo Longarini, “ras locale” delle strade incompiute di Ancona, viene arrestato. A gennaio del ’93, con ad altri circa 130 colleghi del Gruppo Gazzette, eccoci in mezzo alla strada. La Edizioni locali fallisce. Da allora ad oggi ho bussato a mille porte, spedito mille curricula. Ma ho ottenuto un solo contratto, per 4 mesi, al Messaggero di Ancona. Io avrei potuto cambiare mestiere. Sono laureato in legge (laureato, come la maggior parte dei giornalisti). Alla Gazzetta avevo fatto 2 anni di cronaca giudiziaria, diversi studi di avvocato mi avrebbero accolto volentieri. E invece ho fondato un periodico – «Urlo, mensile di resistenza giovanile» – un free-press distribuito gratuitamente e finanziato con la raccolta di piccola

Una professione da riformare. Sacrosanto. Ma da dove cominciare? L’abolizione dell’Ordine professionale? In questo contesto equivarrebbe a un pre-suicidio. L’Ordine, di fatto, non garantisce privilegi. E qualche volta, come la Fnsi, mi ha aiutato dal punto di vista economico. Ma soprattutto l’Ordine è chiamato a garantire la deontologia professionale. Ad autoregolamentare l’attività dell’informazione libera, indipendente e pluralista. La sua qualità. Certo, andrebbe riformato. Così come andrebbero riformate le regole d’accesso alla professione. Anacronistico, ipocrita, ormai, pretendere che per essere iscritti nell’elenco dei professionisti si debba passare per le forche caudine del contratto di praticantato, per poi essere ammessi all’esame di Stato. Dato che quel contratto diventa sempre più raro da ottenere. Si dovrebbe sempre più riconoscere il giornalismo di fatto, quello delle migliaia di precari


che spesso per anni, spesso coprendo interi settori di cronaca, hanno dimostrato sul campo di essere veri giornalisti. E invece che cosa è accaduto negli ultimi anni? Un proliferare, frequentemente incontrollato, di scuole, corsi, facoltà universitarie di giornalismo e comunicazione. Fabbriche, nella stragrande maggioranza dei casi, di false promesse, altra precarietà, disoccupazione. Basta pensare al boom di una facoltà come quella di Scienze della Comunicazione. Tre o cinque anni, molta, troppa teoria. E poca o nulla pratica. Ci sono eccezioni virtuose. Alcune scuole, alcuni corsi sono

con piccoli periodici o quotidiani locali. Iscriversi a una facoltà umanistica. Puntare anche su pubblicazioni on line, internet-media. Inserirsi in quelle cartacee auogestite, periodici free-press. E poi “inventarsi” – maturando esperienze soprattutto sul campo - un’attività professionale nella comunicazione su più fronti: non solo giornali, ma radio, tv, uffici stampa, consulenze mediatiche, coordinamento di giornali e corsi di informazione nelle scuole. Con la prospettiva, quindi, di poter fare il giornalista costruendo un reddito attraverso diverse fonti di retribuzione. In attesa del colpo di fortuna o

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riconosciuti dall’Ordine. Sono biennali, gli iscritti redigono un loro periodico, la frequenza sostituisce il praticantato e abilita all’esame di Stato. In molte altre scuole gli studenti frequentano stage, effettuano tirocini nelle redazioni. Ma, anche in questi casi, gli editori ci hanno marciato sopra. Invece di sostituire i professionisti in ferie assumendo precari o disoccuppati, coprono quei vuoti di organico con corsisti e stagisti a costo zero. Ma i corsisti e gli stagisti dovrebbero imparare dai redattori, non sostituirli! Un sistema bloccato e in costante involuzione, dunque. Che deve fare, quindi, chi nonostante tutto vuol provare a vivere di giornalismo? Scrivere, scrivere, scrivere. Anticipare il più possibile la gavetta. Cominciando magari già in un giornale scolastico. Chiedendo di collaborare

dell’occasione giusta (spesso le due cose coincidono) di un contratto a tempo indeterminato. Sconfiggere il precariato? La battaglia si può vincere solo con l’aiuto di un forte intervento delle forze politiche, dello Stato. Alcune idee: tagli dei finanziamenti milionari a molte testate (spesso di gruppi parlamentari) tali solo di facciata, lette da quattro gatti, che tutto svolgono fuorché una funzione di pubblica informazione; contributi e agevolazioni per cooperative e associazioni di giornalisti o aspiranti tali; imporre agli editori la fine delle assunzioni arbitrarie, con una legge che li obblighi a stipulare almeno una quota di contratti selezionando i giornalisti attraverso concorsi seri; costituire più fondi sociali di garanzia per sostenere economicamente free-lance, pubblicisti, collaboratori precari.


Francesco Orazi e Marco Socci : francesco.orazi@univpm.it m.socci@univpm.it

I cambiamenti del lavoro nella nuova società Due giovani sociologi dell’Università di Ancona interpretano flessibilità e precarietà per scoprire se, oltre a insicurezza e frammentarietà, possono creare anche delle opportunità

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Il mutamento sociale La crisi del welfare sta ridisegnando le caratteristiche del mercato del lavoro e della struttura sociale industriale. L’industrializzazione ha prodotto un’idea assolutizzante del lavoro: l’ambito dove si formano identità sociali, biografie individuali e traiettorie di appartenenza coese e rigidamente definite, come nei blocchi di classe. E’ l’homo faber che rappresenta in modo auto-consistente la struttura degli individui. Gli stessi si presentano come privi di una dimensione psicologica e affettiva, immersi e definiti

solo in base alla specifica configurazione sociale a cui appartengono e dalla quale sono agiti. Individuo e lavoratore assumono una relazione di identità. La società post-industriale e consumistica destruttura i paradigmi interpretativi descritti e ci consegna un quadro dove le relazioni private, affettive e narcisistiche colonizzano una parte consistente degli ambiti sociali. Il lavoro diventa sempre più una dimensione culturalizzata. Da un lato si configura come ambito di auto-realizzazione per obiettivi identitari riconosciuti socialmente (estetica del ruolo sociale);


dall’altro come terreno strumentale di accesso al consumo e alla protezione sociale (cittadinanza economico-sociale). In tale configurazione, l’homo faber e l’individuo non coincidono tout court, quest’ultimo si presenta come un prodotto culturale con una sua psiche di adattamento/posizionamento eterodiretta, fondamentale per definirlo come consumatore di status (produzione di soggettività). Tale società sovverte il modello industriale e si configura come contesto in avanzata transizione: dall’etica della produzione all’estetica del consumo. Le politiche del lavoro e i sistemi di welfare tradizionali appaiono quindi inadeguati a regolare le esigenze di una società “liquida” e individualizzata. Flessibilità necessaria? L’idea di flessibilità ha orientato per un ventennio le politiche finalizzate a sbloccare le rigidità del modello fordista e rendere fluida l’occupazione

nelle economie terziarie, tecnologiche e della conoscenza. Le recenti politiche della flessibilità adottate in diversi paesi europei presentano differenziali di performance, con relativi “tipi ideali” emergenti. In alcuni paesi si configura la situazione della “società dei due terzi”, dove un terzo della popolazione non ha accesso ai diritti economici e di cittadinanza. Altri, pur mantenendo impianti formali di garanzie generalizzate sembrano invischiati in un gap di competitività che frustra il potenziale innovativo di una forza lavoro più mobile, istruita e dotata di ampie opportunità tecnologiche e culturali. Altri ancora, pur avendo adottato politiche di flessibilità del lavoro sembrano applicarle in modo asimmetrico, determinando una situazione contrapposta tra lavoratori tradizionalmente tutelati e lavoratori a bassa soglia di garanzia, con rischi di scivolamento in precarietà di lungo periodo. Alle situazioni descritte si accompagnano rischi e opportunità. I numerosi studi condotti dalle scienze sociali individuano due filoni interpretativi prevalenti. Il primo

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segnala l’emergere di una società del rischio e dell’incertezza, con il diffondersi di precarietà, frammentazione del lavoro e insicurezza sociale (ad es.: Bauman, Beck, Castel). Il secondo, pur non trascurando gli aspetti problematici delle trasformazioni in atto individua il profilarsi di una società attiva, con potenzialità e opportunità di auto-realizzazione e aumento delle libertà personali (individualizzazione; ad es.: Paci, Giddens). In questo caso, accanto al rilancio della competitività delle economie nazionali appare necessaria la riforma dei sistemi di protezione sociale e delle politiche dell’impiego e della formazione. Il tutto per coniugare libertà individuali, sicurezza e coesione sociale, contrastando il rischio di apartheid generazionale nella precarietà. La situazione italiana L’aumento della flessibilità ha coinvolto anche – destabilizzandoli – gli equilibri di funzionamento del mercato del lavoro italiano. Emerge una diffusa per-

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cezione di insicurezza, vero nuovo “male” del nostro tempo. Alcuni autori (ad es.: Gallino) parlano di lavoro flessibile percepito come “ferita dell’esistenza, fonte immeritata di ansia e diminuzione di diritti”, tanto che si è evocata l’intercessione di “San Precario” (cfr. in questo numero di «Argo» PopPrecario). Ad un’analisi dei dati disponibili, la situazione italiana pur critica, appare però meno drammatica di come è percepita (Accornero). I lavoratori atipici sono stimati in circa 4 milioni, ma nell’ambito del lavoro indipendente e di collaborazione i precari sarebbero in realtà circa 800 mila, anziché 2,5 milioni (Reyneri). L’ambito in cui la precarietà è aumentata in modo consistente è il lavoro dipendente. Ciò non è avvenuto né tra i lavoratori interinali, né nel lavoro part-time, dove cresce la quota di lavoro stabile e a tempo indeterminato, ma nel lavoro a tempo determinato. In 10 anni il lavoro a termine è quasi raddoppiato, rappresentando circa il 12% dell’occupazione dipendente complessiva (Accornero; Paci). A livello


comparato, secondo dati Eurostat, nei 25 Paesi della Ue il 14,2% degli occupati ha un contratto a tempo determinato, e tale fenomeno risulta in costante crescita; inoltre, nel primo trimestre del 2006 quattro giovani europei “under 25” su dieci – senza significative differenze di genere – ha un contratto a tempo determinato, mentre nell’aera dell’euro i giovani con lavoro temporaneo sono circa uno su due: il 48,6%. Va considerato che la crescita dell’occupazione flessibile – in Italia e in Europa – ha coinvolto principalmente fasce di popolazione tradizionalmente penalizzate (donne, giovani e immigrati). La flessibilità a “dosi socialmente accettabili” può effettivamente rappresentare una porta di accesso all’occupazione per categorie di lavoratori deboli. Questa porta non deve però condurre ad un percorso di “intrappolamento” in carriere instabili, con basse retribuzioni, scarse tutele e bassa qualifica. Se è anacronistico un ritorno ad una logica in cui il lavoro a tempo indeterminato e per tutta la vita rappresenta l’unico stan-

dard di riferimento, lo è anche una trasformazione per via normativa dei lavori flessibili in occupazioni stabili. Occorrono idee e proposte nuove. In particolare, sono i tempi di transizione “a fare la differenza”, nel senso che l’ingresso nel mondo del lavoro può anche giovarsi di strumenti e forme contrattuali non standard, a patto che i percorsi verso la stabilizzazione siano effettivi e concentrati in periodi di tempo non destabilizzanti per gli equilibri delle persone e dei loro progetti di vita. Pertanto, anziché insistere sull’ampliamento del ventaglio dei contratti flessibili, a livello di culture del lavoro e normativo appare più adeguata una serie di riforme volte a ridisegnare il profilo delle tutele, per garantire le traiettorie occupazionali degli individui tra un lavoro e l’altro. Questa nuova rete di sicurezza avrebbe la possibilità di contribuire a non far subire esclusivamente la flessibilità come precarietà ma a coglierne gli aspetti di opportunità verso tragitti lavorativi e individuali volti all’auto-realizzazione personale.

Slogan antiprecarietà All’inizio del 2006 i giovani francesi hanno reagito all’approvazione da parte del governo del Cpe (Contrat Première Embauche), visto come ulteriore passo verso la precarizzazione del lavoro, quindi respinto grazie a un’intensa stagione di lotte, forgiando innumerevoli slogan, fra cui: «Non vogliamo questa società che ci propone un futuro senza avvenire». Il Cpe è stato soprannominato in molti modi durante la protesta: Contrat poubelle embauche (‘Contratto di assunzione spazzatura’); Contrat précarité éternelle (‘Contratto di precarietà eterna’); Cadeau pour l’employeur, Calvaire pour l’employé (‘Regalo per il datore, calvario per il lavoratore’); Chomage promis aux etudiants (‘Disoccupazione assicurata per gli studenti’); Contrat première embrouille (‘Contratto di primo imbroglio’); Clochard pour l’éternité (‘Barbone a vita’), ecc. Gli slogan sono stati raccolti in Rivoluzione precaria (vedi in questa monografia di «Argo» p. …) Il 4 novembre 2006, invece, a Roma, i nostri ‘inviati’ Gabriele Giangiacomi e Gilberto Mastromatteo hanno sentito i giovani precari italiani cantare con la Bandabardò più o meno così: «Oggi non lavoro, oggi non mi vesto... resto nudo e manifesto». Quelli del sud Italia rispondevano gridando: «Vogliamo casa, lavoro, servizi e reddito per tutti». Quelli del nord dello ‘stivale’ gli facevano eco: «Stop precarietà ora». Banconote da mille euro volavano sui Fori imperiali, lanciate in aria dai precari di BancAmica, per l’occasione ribattezzata «BancAmica tanto…». Fluttuano nel vento sulle note di Je so’ pazz di Pino Daniele, spiegando una metrica ‘diversa’ da quella, che vuol essere razionale, del profitto. «Fate qualcosa di sinistra – dicono i dipendenti vestiti da fantasmi dell’azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma – assumeteci tutti». «Avete la faccia come il cu…neo». C’erano maschere bianche e trampolieri imbandierati che recitavano: «No all’amore precario». Slogan di piglio sessantottino, così come quello variopinto esibito dai precari di Rifondazione Comunista: «Vogliamo il pane, ma anche le rose».


Anna Maria Merlo e Antonio Sciotto

La rivoluzione precaria. La lotta dei giovani francesi contro il CPE

prefazione di Ignacio Ramonet (Direttore di Le Monde Diplomatique), Roma, Ed. Ediesse, 2006

Il libro racconta le recenti lotte degli studenti francesi contro il Cpe (Contrat première embauche), il contratto che prevedeva, per i giovani fino a 26 anni, la legittimità del licenziamento senza giustificazione per i primi due anni di lavoro. Presentato dal primo ministro francese Dominique de Villepin come mezzo contro la precarietà, il Cpe è stato contestato come mezzo che invece la istituzionalizza, come un’ulteriore tappa verso il completo smantellamento del codice del lavoro e la definitiva precarizzazione dell’occupazione. Di qui la protesta dei giovani francesi che ha portato, dopo una serie di agguerrite manifestazioni in diverse città, al ritiro della legge il 10 aprile 2006. Nel libro si descrive in dettaglio il calendario degli eventi e degli scontri tra il gennaio e l’aprile 2006 e si opera una ricognizione del mondo dei movimenti studenteschi francesi descrivendone forme organizzative e nuove tecniche di lotta. Il tutto nutrito da una serie di interessanti interviste a intellettuali francesi (Dubet, Bensaid, Castel, Fitoussi, ecc.) e agli stessi giovani leader dei movimenti. Infine, il libro si chiude con un’analisi di approfondimento qualitativo e quantitativo del mercato del lavoro francese, a cura di Alessandro Genovesi del Dipartimento di Politiche attive della Cgil. Insomma, un testo di grande interesse che, attraverso interviste inedite e risultati di ricerche economico-statistiche, confuta il dogma liberista della precarietà come passaggio necessario, denucia gli eccessi dell’attuale capitalismo finanziario e l’irresponsabilità dell’impresa di oggi concentrata sulla «ricerca spasmodica di sempre maggiori profitti, più irresponsabile di ieri e meno disposta a rispettare l’antico patto sociale della République: per cui a maggior guadagno e maggiore produttività corrispondevano – fino a ieri – salari maggiori, posti più stabili, maggiore mobilità sociale verso l’alto».

Natalia Paci : natpax@yahoo.it




Igor Tchehoff

L’arte del sabotaggio in azienda jg / nieva

La parola sabotaggio ci fa pensare alla danneggiamento della proprietà o delle infrastrutture, ad una specie di atto bellico. Ma perché parlare di sabotaggio in relazione al lavoro oggi, quando i conflitti violenti tra operai e padroni appartengono ormai al passato, almeno nella maggior parte dei paesi ricchi? In realtà, il sabotaggio non solo proviene originariamente dal contesto industriale lavorativo ma vi si sopravvive, anche se in forme diverse. La parola è stata coniata all’inizio dell’Ottocento in Francia e nel corso del secolo è entrata a far parte delle lingue europee: sappiamo che saboter deriva da sabot, cioè ‘zoccolo’, la calzatura di legno usata dai contadini, ma qui le certezze etimologiche finiscono. Saboter significa ‘urtare con gli zoccoli’, come sostengono i dizionari, o invece, ‘trascinare i piedi’, come dice Thorstein Veblen, il noto economista americano, in un articolo degli anni Venti?

Veblen sostiene che il termine sabotaggio faccia riferimento a qualsiasi rallentamento o ostruzione del processo lavorativo: si tratta di un «deliberato abbassamento di efficienza», secondo la definizione dei sindacati americani all’inizio del Novecento chiamati Wobblies (cfr. On the Nature and Uses of Sabotage, in G. Mars, Work Place Sabotage, Ashgate, Dartmouth, 2001). Il sabotaggio, sia attivo che passivo, era infatti parte della loro strategia in un periodo in cui i diritti degli operai erano ancora molto limitati. I due significati, uno attivo e illecito, l’altro passivo e legalmente accettabile sono quindi presenti sin dall’inizio. Il fatto che noi, con ‘sabotaggio’, intendiamo distruzione, è al contrario il risultato della prassi della stampa, che ha sempre privilegiato l’aspetto criminale e sensazionale del sabotaggio a causa degli interessi della classe dirigente e della logica massmediale. Per gli operai dunque è sempre stato difficile


The Take Canada 2004, regia di Naomi Klein e Avi Lewis

Argentina 2003. Il paese è alla vigilia di nuove elezioni. Sono passati meno di due anni dalla crisi del 2001, quando milioni di persone si sono riversate nelle strade per gridare ai politici un forte «que se vayan todos»; da allora si sono velocemente succeduti cinque presidenti, ma le conseguenze del fallimento delle politiche degli anni ’90 sono ancora evidenti e drammatiche. Sono passati meno di due anni, il paese è alla vigilia di nuove elezioni e, ad eccezione dei candidati politici, nell’aria c’è qualcosa di nuovo. Mentre centinaia di fabbriche chiudono, gruppi sempre più numerosi di operai, al ritmo di «occupare, resistere, produrre», si adoperano per riattivarle. Nasce il movimento delle imprese ‘recuperate’, un modo inconsueto di risanare le fabbriche fallite o abbandonate. Scampate allo smantellamento, vengono ora occupate da ex-lavoratori che riavviano la produzione organizzandosi in forma cooperativa. A pochi mesi dalla crisi le fabbriche gestite in questa maniera superano il centinaio; un numero in crescita che fa pensare al principio di un nuovo tipo di economia, alla nascita di un sistema alternativo che si sostituisca ai fallimenti delle politiche neoliberiste degli anni ’90. Nell’aria c’è qualcosa di nuovo e l’Argentina diventa il centro d’interesse per tutti quei movimenti che, coscienti delle contraddizioni e drammi della globalizzazione guidata dalle multinazionali, si battono per un’alternativa. In prima linea anche Naomi Klein, autrice di No Logo. Ben cosciente del fatto che «protestare serve soltanto fino a un certo punto, poi arriva un momento in cui bisogna dire per cosa si sta lottando» la vediamo insieme a Avi Lewis (il marito) e a una troupe di 16 persone (più attivisti politici che filmmaker) scoprire e documentare questa esperienza argentina, sostenere la ricerca di alternative che non siano il risultato di modelli economici sviluppati nelle aule di prestigiose università, bensì il frutto di esperienze concrete maturate dal basso. Così nasce The Take, un viaggio in quell’Argentina post crisi, fonte di movimenti popolari che riscoprono principi di democrazia partecipativa, una nazione in cui «una fabbrica chiusa non è più la conseguenza inevitabile del sistema, la fine della storia, bensì ne è solo l’inizio…».

Paolo Guglielmo Sulpasso imporre una visione differente nella lotta simbolica sul significato di certe azioni. Il primo, e forse il più noto gruppo di sabotatori, è stato il movimento Luddista, i cui appartenenti il 18 marzo 1811 distrussero più di sessanta telai nella fabbrica tessile di Arnold, Nottinghamshire, lasciando scritto il nome del mitico ‘Nedd Ludd’, che già nel 1779 distrusse un telaio con un martello. Il Luddismo è diventato sinonimo di un cieco odio contro le macchine da parte di operai frustrati e minacciati dallo sviluppo tecnico. Negli ultimi decenni gli storici hanno cercato di dare un’immagine più bilanciata del movimento: secondo John M.Jermier il sabotaggio in generale e il Luddismo in particolare sono una risposta razionale da parte degli operai e sono caratterizzati da un alto grado di organizzazione e di know-how tecnico (cfr. J. M. Jermier, Sabotage at Work: The Rational View, in G. Mars, Work Place Sabotage, cit.). Si trat-

ta spesso di una risposta creativa e limitata ai funzionari d’azienda: l’‘arte’ del sabotaggio sta nel nonessere scoperto immediatamente. Questo carattere tecnico e specifico del sabotaggio è una delle ragioni per cui il sabotaggio è così poco conosciuto fuori dal contesto lavorativo in cui prende atto; un’altra ragione ovviamente sta nel fatto che le aziende vogliono evitare ogni tipo di cattiva pubblicità che possa destare dubbi sulla qualità dei proprio prodotti. Le cause del sabotaggio sono diverse. Quando il ritmo di lavoro diventa disumano, fermare la catena di montaggio sabotando significa riconquistare il controllo del proprio tempo e il senso di dignità. Secondo Jermier dobbiamo quindi abbandonare l’immagine del sabotatore folle e isolato, tipica della cosiddetta letteratura di management, che cerca le cause del fenomeno nella personalità disturbata dell’operaio. In una prospettiva politica il sabotaggio, e


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0 più spesso la minaccia del sabotaggio, cambiano la dinamica del potere nel posto di lavoro, ed appartengono ad una più vasta rete di conflitti sociali. Quando gli operai sabotano, riflettono la loro esperienza collettiva e sfidano gli interessi del capitale. Per Jermier, la forza del sabotaggio nel contesto fabbrica non sta tanto nella distruzione materiale, ma nel suo carattere simbolico, che veicola una certa posizione politica. Quando invece il sabotaggio colpisce a caso, o comporta gravi conseguenze per la salute o la vita, i sabotatori risultano perdenti. Ma perché parlare di sabotaggio oggi, quando il lavoro industriale ha perso la sua centralità? Ai nostri giorni il sabotaggio non è più un’azione collettiva e violenta, ma un atto individuale e passivo. L’operaio industriale è sempre più sorvegliato, mentre l’impiegato d’ufficio può decrementare l’efficienza dell’azienda fingendo il proprio impegno. In questo modo, il sabotaggio sopravvive ancora come una forma di resistenza passiva contro le esigenze delle

aziende. La crescente specializzazione del mercato comporta uno spostamento di potere verso i livelli più bassi dell’organizzazione e offre conseguentemente più responsabilità e controllo all’impiegato individuale – e con ciò una maggiore possibilità di sabotaggio. Questo il punto di vista di un libro che ha suscitato un acceso dibattito in Francia, Italia e anche in altri paesi europei: Buongiorno pigrizia. Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile, il bestseller di Corinne Maier, pubblicato in Francia nel 2004 e in Italia, da Bompiani, nel 2005. Il titolo eloquente rimanda al romanzo di Françoise Sagan, Bonjour tristesse; e anche se l’ambiente della grande multinazionale può sembrare molto lontano dai problemi della fabbrica cui abbiamo fatto riferimento, il punto fondamentale per la Maier, come per gli operai, è di riconquistare il controllo del proprio tempo e di esprimere la propria individualità a spese dell’azienda per cui si lavora. Dell’analisi spietata della Maier colpisce soprattutto ciò che viene definito come «la cultura d’impresa».


L’impresa, che era «un tempo solo una macchina per fare soldi, è ormai prima di tutto una macchina per fare obbedire», afferma la scrittrice nella prefazione all’edizione italiana, e questa stessa impresa è ora invece diventata un concetto virtuale e fine a se stesso, ed il suo prodotto principale è una lingua-slogan vettore di un potere impersonale, nascosto sotto un flusso di parole come mobilità, flessibilità, etica, globalizzazione, libertà; così come sotto il gergo incomprensibile delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. «Quadri, impiegati: vi stanno mentendo; non fatevi fregare», ammonisce la scrittrice che lavora part-time per la gigantesca azienda statale Electricité de France. «L’impresa non vi ama e non rispetta i valori che incoraggia», richiede sempre di più in termini di formazione, diplomi e qualifiche, e concede sempre di meno durante la breve vita del lavoratore. La menzogna maggiore sta nel vedere il lavoro come «il nucleo essenziale attorno al quale l’individuo costruisce la propria identità personale». Le proposte di Maier sono poche, visto che ormai nessuna ideologia può sfidare il presente stato delle cose. La prima consiste nel rimanere fuori del

mondo aziendale, «indirizzandosi verso professioni meno assoggettate al giogo capitalista (arte, scienza, insegnamento)». La seconda si concretizza nella logica della pigrizia, resa possibile dal carattere autonomo del lavoro dell’impiegato cui abbiamo accennato prima. «L’importante è rispettare i regolamenti, i riti, lo status quo: un buon andamento delle cose premia l’impresa e la sua funzione»! Il segreto è padroneggiare la neolingua dell’impresa, «costruirsi una rete di appoggi», non accettare mai un incarico di responsabilità, scegliere «i posti più inutili: consulente, esperto, ricercatore, analista». In realtà, si tratta di un atteggiamento abbastanza diffuso, secondo un sondaggio citato dall’autrice, «il 17% dei quadri è ‘attivamente disimpegnato’ sul lavoro, il che significa che ha adottato un atteggiamento cosi poco costruttivo da sfiorare il sabotaggio». Dunque se ci possiamo fidare del sondaggio della Maier il sabotaggio è ancora oggi un fenomeno molto presente nel mondo del lavoro, anche se in forme diverse. Forse, dopo tutto, le cose non sono così cambiate dall’inizio dell’Ottocento.

Samuel Manzoni : myskyiscrying@yahoo.it

Vivere per lavorare o lavorare per vivere? Chiediamolo a John Lennon Cerchiamo sempre un fervido rappresentante dei nostri bisogni, dei nostri più intimi sogni, ci limitiamo ad attenderlo e a portarlo dentro di noi con adolescenziale innamoramento. La musica si presenta come una tavolozza di colori, da ‘pasticciare’ e combinare nell’inesauribilità delle sue plurime forme, e sono proprio quelle che ci aiutano a sopravvivere in questa giungla monocromatica, ma «The Times They Are A-Changin’…» cantava Bob Dylan quarantadue anni fa nell’innocente consapevolezza che qualcosa si stava muovendo, con la velocità di un’opera futurista s’intende, e il lavoro con essi ne è diventato schiavo. Alcuni musicisti hanno intriso le loro liriche di versi eloquenti, rappresentando il lavoro come una sorta di cinico animale meccanico. Nel brano Working Class Hero, John Lennon descrive l’ascesa sociale dell’eroe proletario: «Appena nasci ti fanno sentire piccolo, togliendoti tutto il tempo che potresti avere…», tra paure, «Ti feriscono a casa, ti colpiscono a scuola, ti odiano se sei intelligente e ti disprezzano se sei stupido…», e speranze, «E ti continuano a dire “In cima c’è spazio”, ma devi prima imparare ad uccidere sorridendo, se vuoi gareggiare con la gente in alto…», l’importante è diventare un eroe proletario. Non mancano sussulti di ‘globalizzazione’ del soggetto stesso, «Ti drogano di religione, sesso e televisione, e tu pensi d’essere furbo, senza pregiudizi, libero…», quando in realtà «Resti uno stupido che non capisce niente…». Parole aspre verso quel vivere per lavorare proprie della Working Class, che non corrisponde al proletariato o alla ‘classe operaia’, bensì a coloro che devono lavorare per vivere, tra leggi inesistenti e burrascosi rapporti tra lavoratore e datore di lavoro.


Giulio Spiazzi : giuliospiazzi@yahoo.it

Non penso, lordo Di fronte al fallimento evidente del mito della produzione possno salvarci i contromiti della decrescita e dell’auto-produzione? Che cosa può ancora darci il caro vecchio orticello?

giulio spiazzi

Per chi non ha intenzione di rinunciare alla propria avventura di pensiero, è ormai chiaro che il ‘mito della crescita’ dell’osannato Prodotto Interno Lordo è giunto doverosamente al capolinea della coscienza consapevole. L’ideologia del massacro etico ed economico di una ‘infinita progressione produttiva’ nell’ambito della realizzazione delle merci porta con sé un corollario di materiali complicanze in ambito ambientale, umano, sociale. La ‘certezza’ (l’‘ottimismo’ è ormai cosa obsoleta) che il futuro evidente sia la dimostrazione positiva, che i progressi economici e tecnologici camminano sulle spalle dei giganti è sempre più avvertita come mera chimera irrazionale se confrontata con la serena equazione di un mondo limitato che, non si sa perché, dovrebbe reggere e ‘in-esaurirsi’ in un’innaturale crescita illimitata. L’inquinamento ambientale, l’aumento dei rifiuti e della scorie industriali, i repentini mutamenti climatici, l’annientamento continuo di delicati ecosistemi, la prolife-

razione delle guerre ‘giuste’ per l’approvvigionamento esclusivo delle ultime fonti energetiche e di quelle idriche (per anni stoltamente vissute come inestinguibili), sono un evidente ritorno del fallimento di senso delle logiche di rapina, collegate al dogma della ‘piena attività produttiva’. In questo contesto, pensare (finalmente) e mettere in pratica il concetto di decrescita diventa stimolo di testimonianza, se non ancora collettiva in senso allargato, comunque individuale o microcomunitaria, in antitesi alla narcotica condizione generalizzata del consumo di matrice industriale. Col termine decrescita si indica quel moto originato da una ‘presa di consapevolezza’ disincantata sulla realtà attuale, in cui individualmente o in comunione con altri soggetti ‘consapevoli’ si promuove una più ampia sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente ed acquistate nei circuiti commerciali, con l’autoproduzione di beni. Questa scelta comporta già nelle immediate attuazioni una inversione di tendenza, una diminuzione del


l’appello ad un ‘riesaminare nel vivere’ un altro (questo) mondo possibile. Il sentire e l’agire scaturente dall’angolatura della decrescita si muove invece da un pensare che vede questa ‘uscita-entrata’ di scena delle fonti energetiche, nella reciproca alternanza delle stesse, basata sul semplice principio di riduzione dei consumi, attuabile sia con l’azzeramento degli sprechi, sia con la drastica caduta dei consumi indotti da qualsiasi ente economico, o da reti d’industria, finalizzate più o meno consciamente, ad annullare la corrente di risposta volta all’autoproduzione di beni con la usuale, massificante germinazione e commercializzazione di merci.

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fantomatico prodotto interno lordo, per creare condizioni propizie all’attuazione del reale miglioramento della vita individuale e della collettività, delle relazioni tra genti dal patrimonio culturale differente, del dialogo tra Stati aperti alle sensibilità delle complessità planetarie, per impostare un netto cambio di rotta in termini di salvaguardia delle risorse ambientali. La prospettiva della decrescita si dispone nel campo logico e operativo opposto al cosiddetto ‘sviluppo sostenibile’, a cui va imputata l’adesione al meccanismo (alla intima gestalt) della crescita economica come ‘fattore di benessere’. E non vale l’intento espresso di correzione graduata della struttura di crescita per

mezzo dell’introduzione di tecnologie meno inquinanti, anche a favore (caritatevole) delle popolazioni del pianeta, marcate dalle stigmati classificatrici di termini quali ‘sottosviluppate’ o ‘terzo-quarto-tot-mondiste’. La scelta di decrescita prende le distanze ontologiche da una tale visione poggiante comunque sulla ideologia del ‘progresso irrefrenabile’, sul ‘consumo ipertrofico’, sul ‘bisogno come inevitabile motore dell’evoluzione’. Basta rapportarsi empiricamente ai settori (maldestramente divenuti) fondamentali dell’energia per evidenziare come le cosiddette fonti fossili non siano in grado di estendere e implementare una ‘crescita durevole’ di carattere globale che, nel ventilato massiccio intervento (perchè ancora non si nota?) delle prossime fonti alternative, potrebbe ricreare quel clima di serena continuità di una tendenza, che nella propria essenza comunque ritiene il seme di una eterna illusione. Se non si esce dal cerchio teorico-pratico della produzione in quanto ‘ambito delle quantità’, a nulla vale

Ciò, ovviamente, comporta un salto nel futuro anteriore delle scelte delle cosiddette ‘società industrializzate’. Il mettere nuovamente in gioco forme di gestione delle risorse appartenenti al ‘passato’, tralasciate nella cieca corsa ‘in avanti’ del ‘progresso’, porterebbe a riappropriarsi di quelle conoscenze dirette e di metodo, liquidate troppo velocemente (e sovente denigrate, con pragmatica arroganza), e che a tutt’oggi, guarda caso, costituiscono un autentico tesoro di esperienza partecipata. Nel settore di crisi dell’energia, ad esempio, la maggiore efficienza e il minore impatto ambientale vengono ristabiliti seguendo conduzioni operative sane, collegando in rete, per scambiare le quote d’eccesso, vari impianti di autoproduzione. Ciò vale maggiormente per tutti quei paesi che or ora soffrono dell’abbaglio dell’occidentalizzazione autoindotta. Ricalcare il modello da cui si è attratti costituisce il ‘protocollo di suicidio’ a cui si indirizzano colossi ‘emergenti’ quali Cina e India, spinti alla di-


struzione dei propri patrimoni ambientali, sociali, culturali, nonché di vero e proprio know-how ‘alternativo’ di pensiero pratico, nel seguire univocamente il riflesso che l’occidente attende, ovvero intraprendendo la strada di una crescita dei consumi che comporta una repentina sostituzione dei beni autoprodotti con merci costruite industrialmente. Ciò ha dei risvolti globali non indifferenti, considerando la massa di soggetti coinvolti in questo ciclopico inganno continentale. Come si potrà aspirare ad una più equa redistribuzione delle risorse, se l’aumento del ‘benessere’ di questi complessi umani avverrà all’interno della linea ideologica della crescita del prodotto interno

per arrivare alla autoproduzione di energia termica ed elettrica, il tutto contemplato e praticato nella visione d’insieme dello scambio e della reversibilità di sostegno comunitario. Tutto questo, rigorosamente, ai danni del famigerato PIL, despota invisibile delle moltitudini mercificate, asservite alle ‘entità Stato’: nessun coinvolgimento al consumo per il consumo = nessuna crescita del prodotto interno lordo. Ebbene tutto ciò, si dirà, è poca cosa: uno scoglio dimenticato nell’oceano della ‘vincente felicità’ della delega della capacità di saper produrre qualcosa alla fascinosa comodità del tutto pronto a pagamento. Comunque la si voglia vedere, questa avventura di

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lordo, ovvero delle logiche di consumo stratificate il cui unico quoziente di moltiplicazione è il consumo in quanto tale? Certo, potrà far sorridere la pratica quasi settaria dell’individuo o della piccola comunità di decrescita che attua con stoica determinazione la scelta dell’ autoproduzione. Potrà pure fare tenerezza l’ambiente di coltura della svolta consapevole, fatta di gruppi d’acquisto, d’orti biologici, di indumenti passati di mano in mano o semplicemente conservati e rigorosamente manutenzionati, vero sberleffo allo scintillio vorace del ‘dio di mercato’. Passate di pomodoro, spremute di succo di mele e di frutta di stagione (dunque non d’importazione delocalizzata), latte di riso, soia, yogurt fatto in casa e, ancora, farina automulinata, pane, torte, biscotti con o senza zucchero, ortaggi, frutta e quant’altro il vecchio, dimenticato pezzo di terra può sempre offrire. Per passare poi ad aspetti ancora più marcati quali l’ideazione e la realizzazione di utensili, oggetti d’uso corrente, le manutenzioni degli edifici e dei mezzi di trasporto,

pensiero della decrescita, se perseguita negli aspetti più vivi della testimonianza di resistenza all’attuale tendenza planetaria, ha certamente il sapore di un terreno ben vangato nel rispetto delle logiche di manifestazione futura. L’istruzione dei figli e di piccoli gruppi di bambini nell’ambito della relazione diretta partecipata, praticata al di fuori delle visioni quantitative dei ‘programmi’ in sé, e di quelli ministeriali in particolare, l’accompagnamento dei neonati attraverso la tecnica naturale della vicinanza spontanea, lontana (‘ancestralmente’) dalla delega del ‘servizio a pagamento’, l’assistenza organizzata in mutua collaborazione tra membri di scelta a disabili ed anziani, costituiscono fattori di controflusso su cui dirigere il risveglio dell’attenzione verso non un astratto ‘progresso’ ma una pratica quotidiana che, se ben condotta, può allargare gli spazi materiali e di condivisione di pensiero ad un arcipelago di presenze sempre più organizzato e determinato nella propria proposta etica.






Marco Benedettelli

Se una sera d’estate un barista Mi guardo riflesso nella specchiera del bar e faccio delle facce assurde, tanto nessuno mi vede, spero. Inarco le sopracciglia e gonfio le guance, tiro fuori la lingua, spalanco la bocca e strabuzzo gli occhi mentre passo lo straccio sui bicchieri. La trattoria inizia ad animarsi, gruppetti di persone entrano timidamente e si siedono ai tavoli schernendosi con piccole mosse impercettibili. Gino, Pino e Peppe girano come mo-

tutti, abbatterli come zombi che non finiscono mai e ritornano a frotte, come in un incantesimo, in un sabba. Poi riapro gli occhi: Josè, il mio collega di bancone, si passa le mani dietro la testa, adesso è nella fase taciturna e osserva attonito passare le biciclette sotto le chiome pesanti degli alberi, sul marciapiede, ovattate in un silenzio lontano oltre la vetrata del locale. Chi sa che cosa pensa. Invece di pervertir-

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sconi su e giù per il locale, indossano fresche magliette azzurre, con uno scudetto al petto e la scritta ITALIA a caratteri cubitali dietro la schiena. Salutano, approcciano la clientela con ostentato piglio italico e prendono appunti. Chiacchierano tra loro, si danno indicazioni strategiche perché tra poco arriva la botta, quando bisogna andare all’attacco – manco fosse la guerra gesù –, quando ci sono tutte le comande che ti piovono addosso e se non stai tonico vai in merda. Al bar Josè ed io siamo pronti. Abbiamo tutte le munizioni luccicanti dietro il bancone che di sera diventa la nostra trincea. I bicchieri, i limoni, i coltelli, l’odore di salse e di cibo che ci impregna la pelle; li sfondiamo a mitragliate gli avventori, spappoliamo tutti i crani: bang bang bang. Nel locale volteggia dallo stereo lo stornello «Quanto è dolce quanto è bella la città de Pulcinella» e io mi vedo abbracciare il fucile e sparare in uno stato di esaltazione contro

mi in certi pensieri, per non lasciarmi andare forse dovrei concentrarmi su qualcosa di più candido, di più eterno, e poi raccogliere tutto e vergare un flusso di inchiostro sul mio quadernaccio, stanotte quando ritorno, quando si sente solo il ronzio del frigorifero in cucina. Cantare alla Luna. Sì: «Silente luna, intatta sposa e pellegrina, flogisto, pancia di coniglio e medusa butterata, in fasi di deformità sopracciglio e bocca sguaiata ed aglio e continente di formaggio sventrato dai topi che ti rosicchiano nei sottoscala umani…». No! no, no, questo no, questo è troppo, è troppo kitsch… – più piano. «Luna, logaritmo d’argento, diletta, silente e pellegrina, che faccio io nel mondo? Dimmi, che faccio? Che se potessi, solo del tuo chiaror sarei io pago. Mille cose tu sai, mille discopri, solinga, vergine, eterna giovinetta immortal, candida luna…». «Strunzu, strunzu, che fai? Strunzu! Chissu dorme, aeh, ma ch’agg’a fa io co’ chis-


su?! Strunzu!». Un guaire squarcia il velo dei miei sogni e la luna esplode nella notte celebrale come una lampadina fulminata. Mi volto, e ci sono il naso adunco la boccuccia contratta e gli occhi incassati e luccicanti del padrone della trattoria, Don Gennaro: «Chi è ´sa femmina, eh? Tu me la devi fa conoscere chi è questa che t´ha fatto uscire pazzo. Ti chiamo e non rispondi, che agg´a fa io con te? Eh? Strunzu! Tè, piglia sto ciesso», e vorticando con il suo corpo tarchiatello mi allunga una ciotola colma di carciofi. Sono le nove, il locale è al completo. Arrivano i bicchieri sporchi, ne asciugo ceste vaporanti e spuntano dal nulla ogni volta i camerieri che si accostano al bancone per chiamarmi nel frastuono i caffè i cappuccini le panne cotte e via così. Sono quindici anni che vivono tra Svizzera e Germania, ogni tanto mi raccontano com’era quando sono venuti qui. Meriterebbero di entrare in un romanzo, altroché, un romanzo tra l’epico e il grottesco, dove c’è tutto, le storie di quando sono arrivati che avevano manco vent’anni e si muovevano incendiati e disperati nella grande metropoli. Poi il rapporto ambiguo con la nostalgia per le montagne intorno casa, l’Italia che non ti ha dato un cazzo, essere soli col proprio dialetto e lo scontro e il disprezzo; anche le risse a sentir loro, con gli arabi, i russi, i tailandesi, i turchi nei biliardi e nelle balere, parlare sempre dell’Italia, dei suoi politici e dei suoi calciatori. Sembrano molto più vecchi di quello che sono i camerieri di questa trattoria, nel corpo e nella faccia. A me piace stare qui per il momento, perché ti dà l’adrenalina sentirti un mozzo, un marinaio dentro a ’sto paese di Cuccagna straripante di pastasciutte attorcigliate, di tiramisù colanti cioccolato, di piatti sporchi, di gente che entra, si ubriaca e poi va a casa a farsi una trombata. Ed ecco che verso le dieci si ripete la rotazione d’astri, confusa tra la puzza e il fumo delle sigarette l’Archetipo entra nella trattoria. È Josè a dirmelo e mi fa un cenno con gli occhi a palla di biliardo. Tutti la chiamano la ‘Fioraia’, perché è una ragazza bionda piena di fiori. Dicono che sia olandese, ma nessuno sa chi sia. Ogni sera entra, passa tra i tavoli e vende piccoli mazzetti di margherite, viole e altri fiori di campo, che tiene tra le braccia raccolti in un cesto di vimini. Tanto è fiabesca e inghirlandata che sembra uscita dal cuore più segreto della foresta silenziosa. Passa tra i tavoli e se vende un fiore viene da me, mi chiede un vaso con dell’acqua che io le verso cercando ogni volta

d’inventare lì per lì dei colpi da prestigiatore che non ho. Poi non è che me ne freghi molto se vogliamo dirla tutta, la fioraia può deluderti, se le scruti gli occhi rischi di vederci dentro delle smorfiette glaciali. Contro l’aurea incantatrice dei suoi capelli biondi, contro la noia, dedicherò all’Archetipo una patinata storia pop-postcomunista. Invece che figli di una trattoria io e lei saremo due cittadini nati sotto il Patto di Varsavia. Lei sarà la bella e robusta agricoltrice col fazzoletto in testa, la grande mietitrice delle primavere rivoluzionarie; ed io, io sarò un giovane operaio, un Prometeo dell’accelerazione, un uomo dallo sguardo olimpico e dalle spalle di ghisa, il saldo bullone d’acciaio nella locomotiva della storia. E per lei costruirò un’astronave trasparente, e lei la fodererà di carta da parati a rombi e dentro la riempirà di tavolini in design minimale ed altra paccottiglia un po’ retrò; poi come novelli cosmonauti partiremo per le stelle e da lassù frantumeremo a getti di laser, in stile Space Invaders, tutte le menzogne elettroniche del capitalismo. E poi concepiremo un figlio, bello più di Che Guevara e più acuto di Lenin, un figlio portatore di pace, il grande demiurgo del paradiso comunista. Insieme a lui le mozzarelle e le salsicce fioriranno sugli alberi e sarà sempre caldo e non bisognerà più lavorare, anche l’amore libero non sarà più un’utopia e, e, e… «ciao». L’Archetipo esce dal locale senza aver venduto nemmeno un fiorellino, io e Josè continuiamo ad asciugare i bicchieri e la seguiamo con lo sguardo sgusciare oltre la porta. Finché tutti lentamente se ne vanno, le luci sono spente, tutto è pulito e ramazzato e le sedie se ne stanno accatastate sopra i tavoli. Don Gennaro è seduto in un angolo e conta i soldi, immerso in un cono di luce che viene da un faretto. Distribuisce a ognuno la paga della settimana. Sembra un pater luminoso che spezza il pane, però ha un filo di dolore nella bocca, non riesce a mascherare il dispiacere che gli dà staccarsi da quelle banconote. Prendo i miei soldi e mi sento più tranquillo, anche se durerà solo qualche ora. Un altro giorno è andato, si è consumato come un’altra sigaretta, sul marciapiede aspetto il tram e nel mio silenzio solitario passano a trovarmi i colleghi, la fioraia, la luna e qualcos’altro. Mi si sovrappongono mescolati a ciò che mi circonda come in un collage magmatico di qualche dadaista. Vorrei cercare di parlarci, di interrogarli sul futuro, eppure restano lì a qualche passo di distanza, scorrono e pulsano dentro il loro mondo. Guardano altrove.

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