Ogra XI / Il matto

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L’ALTER ARGO

Undicesimo Territorio

2 EURO


Territori esplorati: ovvero abbiamo finora navigato, tentando di esplorare:

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È possibile riprodurre parti della rivista, senza scopi di lucro (salvo diversi accordi), contattando la redazione. Delle opinioni manifestate nei testi sono responsabili gli autori, dei quali i direttori intendono rispettare e ribadire la piena libertà di opinione, giudizio ed espressione. Le scelte editoriali sono di responsabilità della redazione, dei curatori e coordinatori delle singole rubriche e di entrambi i direttori.


Itinerario

p. 79 p. 76 p. 73 p. 70 p. 68 p. 67 p. 66

Daniel Agami (Inter)Nato M(ent)ale Paolo Nori Con stivali di occhi neri sui fiori del mio cuore Sara Pasquino Lei sente che lui lama Gabriele Falco Pesci Rossi Lorenzo Franceschini Il kamikaze Marco Benedettelli Conchiglie Angelo Nanni Pazzi di casa nostra

La buona novella

p. 63 p. 62

Giulia Ferrandi Vedere dove siamo Poesie di Matteo Fantuzzi, Loris Ferri, Lara Lucaccioni, Giosuè Renato Vinay

Sfumando Pezzi di vetro

p. 58

Dr. HammPappaBuona Rimedio omeopatico contro la follia

Extravaganti

Recensioni

L. Canali, Spezzare l’assedio (di Federico Cinti), E. Carnevali, Il primo Dio (di Jonathan Sebastian Procaccini), R. Calasso, La follia delle ninfe (di Daniela Shalom Vagata), V. Andreoli, Follia e santità (di Andrea Panzavolta), A. Konc˘alovskij, La Casa dei Matti (di Daniel Agami), F. Ozpetek, Cuore sacro (di Roy Menarini), C. Zavattini, La veritàaaa (di Alessandro Mainini), R. Faenza, Prendimi l’anima (di Giulia Ferrandi), A. Rezza, Fotofinish (di Valerio Cuccaroni),A. Celestini, La pecora nera (di Daniela Shalom Vagata)

L’Isola del Pop

Panorami e spedizioni Tracce Iperuranio impoverito

(soqquadri)

Beat Holes

Giacomo Bottà Manchester/ madchester: la follia di una città Daniel Agami Eutanasia di un amore antropofagico

p. 51 p. 50

Annabella Losco Cronaca di una catarsi Francesca Blesio & Valerio Cuccaroni Lo sguardo svelato Filippo Furri Etnopsichiatria: disordini a confronto

Filippo Furri featuring Ernesto De Martino Balla che ti passa Francesca Blesio Ascoltare le voci dell’anima – Intervista a Eugenio Borgna

p. 48 p. 46 p. 44 p. 43 p. 40

Geraldina Colotti Testimoniare l’orrore e combatterlo Intervista a Maria Grazia Giannichedda

p. 37

Alessandro Chalambalakis Nietzsche c’est moi

p. 34

Claire Lahuerta David Nebreda: il corpo mutilato come apertura al mondo David Leblanc Sulle rovine fumanti dell’arte Mascetti Ingegni rari e asini vetturini

p. 32 p. 30 p. 28

Alessandra Prandin Mussorgsky: dissonanze tra demoni e follia Johnson&co. Chronic Schizophrenia

p. 27 p. 26 p. 24

Chiara Paganini featuring Johnson Charlie 'Bird' Parker Mario Sorrentino Da Sade al Marat/Sade Francesco Filippi Dissociazioni animate Daniel Agami (Televisione e) Cinema De-Mente (e non demenziale) Giovanni Andria Il corridoio della paura - lo sguardo di un folle raccontato da un genio

Giacomo Manzoli Dal cuculo alla luna Vincenzo Mollica direbbe

mAgia «È triste morire senza figli»

Daniel Agami Non è l’amore che porta alla follia, ma la sua assenza o impossibilità

Antorio Rezza e Flavia Mastrella Il pazzo è un’invenzione degli altri

p. 2

Daniel Agami liberato daValerio Cuccaroni IL MATTO

p. 1

Daniel Agami Il Complesso di Eracle - l’attacco - l’esplosione - la fine

Valerio Cuccaroni Un principio di sovversione totale

Diario di bordo

p. 15

Daniela Shalom Vagata Storia di una poesia diventata canzone

Annabella Losco Quel sottile confine tra arte e nevrosi

Rossella Renzi La doppia immagine di Anne Sexton

L’ospite

p. 23 p. 22 p. 21 p. 19 p. 18 p. 16

p. 14 p. 13 p. 11 p. 10 p. 7 p. 7 p. 6 p. 4

Chiara Frezzotti Conoscere attraverso la follia: Don Chisciotte della Mancia

Valerio Cuccaroni Lo sguardo stigmatizzato. Tre poeti da laboratorio?

Alfabeti

p. 53

Marco Benedettelli L’animale piumato

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La buona novella - Rubrica di racconti, prose poetiche e sperimentazioni narrative DANIEL AGAMI

(Inter)Nato M(ent)ale A chi fu il principio di tutte le cose (e la fine di tutte le altre) Non ho ancora 22 anni e sono già stanco di vivere. Asclepiade

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Le piastrelle. Azzurre. Le piastrelle sono azzurre. Le piastrelle azzurre sono tante. Le piastrelle azzurre, sono troppe. Le piastrelle azzurre sono troppo perfette, così antipaticamente perfette, così geometricamente precise, così precisamente antipatiche. Le piastrelle sono molte, troppe per il senso comune della gente, e ti guardano con aria di sfida, quasi a provocarti. Stanno fisse a fissarti, sono guardate per guardarti, sono miriadi di piastrelle, il mondo è invaso dalle pareti, a loro volta invase da milioni di piastrelle. (e moriremo dunque piastrellati?) L’acqua, le chiare fresche e dolci acque ora sono imbottigliate in eleganti, essenziali e nudi contenitori di vetro con etichette azzurre o bianche, talvolta rosa, e sono liquidi oligominerali, effervescenti ma naturali, gassati e mai aeriformi, prodotte in massa da una serie di scimmioni specializzati in un tappo, nel peso netto di un’etichetta, nel colore del tessuto vetrato, riprodotte e spedite nelle aree più in là del mondo, o al di là del mondo (l’immondo mondo) in pianeti sconosciuti oltre la Luna. Oppure sono rapidamente sgorganti da quei rubinetti antichi, in cui basta ruotare l’ingranaggio per mirare un getto potentissimo, o in quelli più moderni, in cui vi sono quelle precise leve che sollevi con la mano, prodotte da rubinetterie magari povere, ma piene di quei bei professionisti che lavorano ore e ore dietro una scrivania, artigiani del rubinetto, li chiamano, magari un po’canzonandoli, per scherzo, o per scherno. E poi le belle tavolate dei viaggi organizzati, in quei gelidi alberghi illuminati, illuminanti, elegantissimi, e con tutte quelle televisioni accese, e dove il cameriere col papillon nero e la giacca bianca, ti indica il buffet, o ti porta della carne bollita con tante, tante patate di contorno: forse fritte, per accattivare i bambini e i golosi senza moglie (nel cibo trovano l’elisir per le loro doglie), e i gelosi con moglie, ed un cappello da cow-boy per gioco; o magari ar-

rosto per contentare i padri dal frastuono in riposo, senza cravatta, o lesse, per accontentare le vecchie ottuagenarie perennemente (e, lo sappiamo benissimo, falsamente) in dieta e le mamme con un filo di trucco e un filo di rimmel (e un filo del discorso continuamente perso, e un figlio del dì scorso temporaneamente, e per sempre, perso) per sottolineare la splendida forma dei loro 40 anni… E le parolacce, urlate da giovani bruciati e divorati dall’adolescenza, con l’arroganza di chi si sente grande, e la mascolinità di chi si sente il glande, sfogliandosi soavemente tra le mutande. E i loro riti di iniziazione, malinconiche suzioni e maldestre (alcoliche) erezioni nell’ombra di un quadriciclomotore sbandato fuori da una giostra, sopra al selciato, la sera al dì di festa sui colli (prenderanno fuoco, moriranno conigli, fabbricheremo col machete nuove caserme e più ipermercati di telefonia), paradisi ormonali e interminabili code dentro il reggipetto al cesso o nel bidet, del privé, dove la luce blu al neon ti impedisce di trovare la vena, ma ti mette in vena. Di attaccarti a una liana, di togliere la clava dalla naftalina, di invocare il peana se ti avranno beccato con la coca in frigo, di sacrificare il sangue inguinale di una vergine al tuo bel idolo minotaurino. E il culto delle automobili, veloci, mono, grandi, velocissime, e il cancan dei clacson strombazzanti e urlanti, e chi si cambia tranquillamente la mercedesbenz come se fosse normale, e i loro dannati pizzetti di chi è (ancora?) giovane, e i loro visi sbarbati ancora più dannati. Gli onorevoli massoni si nascondono dietro le regole di una democrazia, le onorevoli giocano a fare le femministe, come se il femminismo fosse ruba-bandiera. Ma il problema vero è che non c’è più verde, è finito in una gabbia costruita nello zoo dall’urbanista, buono solo per andarci a pisciare. O a consumarti solitudini, cercando scintillii. Nelle radio delle ragazzine la morte non esiste, nei saldi ai supermercati la morte non esiste, nel risveglio affannoso dei fornai la morte non esiste, col sudoku la morte non esiste, nelle insonnie a Formentera la morte non esiste, nei collettivi alle manifestazioni la morte non esiste, nel tempo dell’aperitivo la morte non esiste, ai cineforum la solitudine non esiste, alle feste di laurea, nelle foto di classe la morte non esiste, con il festivalbar la solitudine non insiste (la canzone per l’estate è già nota, sarà la colonna sonora di un’estate caldissima, nei falò al

Edward Munch, Madonna (1895), litografia, Munch Museet, Oslo [Norvegia]

- scritto tutta la vita, in particolare il 19/12/2002 e al tramonto del sole nel 2005 -


La buona novella

mondo bisognava rifarlo daccapo, magari con un po’ più mare, in disco, dentro l’armadio, ci sarà sempre e solo lei, chissà quante follie, quanti bagni di mezzanotte, quante di intelligenza e bontà. Facciamo un bel rutto, dopo aver trasgressioni dentro una camera, quanti baci sopra al sorseggiato una Heinekeen® ed abbiamo risolto il protraghetto, che capodanno sarà questo ferragosto?, ci blema. I sottogiacca, mah. sarà da divertirsi). Ma tanto ci rivedremo tutti, l’Addio non esiste più (lo E chi va a Londra a fare il cameriere felice e beato – danno solo le ragazze ai poeti, fumettisti, comici registi poi in Erasmus alla Sorbonne, la tesi discussa a Turku, il novellieri e cantautori che lo scriveranno per soffrire dottorato è meglio in Canada, d’altronde Amsterdam meglio), ci si ribeccherà tutti prima o poi su Messenger: non è più lei dopo l’11/9, in Africa i missionari dormono con la webcam, a fissar le stelle cadenti, guardandole ritutti in hotel col lusso mentre fuori la gente muore di flesse nel profondo dei suoi occhi. fame col sacco a pelo, ma non conosce la depressione, Un iPod, dotato di una memoria infinita e incancelpoi si va in Islanda per lo labile, registrerà il tutto stage, U.S.A.? Già dato, anzi, no, solo i momenti overseas all’Università di migliori, la perdita della Palm Beach – “ci sentiaverginità, il compleanno mo presto se non muori, con 69 persone (e 1/2), la per Natale ritorno in Italia morte del padre, il cielo a casa dai miei genitori, sopra Stoccolma, l’emogiusto il tempo di scaricazione e l’acquolina, tutti i re tutta la posta elettroninumeri importa(n)ti, l’imca dal server”. prevedibile indescrivibile Non è più tempo di e dio che ti saluta con la mano e ti dà una pacca fluorescenze, fluidi, lucdurante quell’eterna straciole e fuochi fatui. na imprevedibile immenI motorini dei ragazzisa e poetica rivoluzionani hanno fatto il loro temria timida penetrazione. po, ora è tempo del corpo L’animaccia me la sono libero (e preservativi sgargianti dentro la bor- daniel di Giulia Montanari (e Marianna Mastroroberto), foto delle inferriate del can- rivenduta su e-bay.… E cello di delimitazione del giardino interno al Dipartimento Igiene Mentale, Presidio setta, per ogni evenienza: Psichiatrico di Diagnosi e Cura presso Ospedale Malpighi di Bologna: i degenti pos- quelle biblioteche immense, labirintiche, misono francesi, piacciono sono camminare nel giardino in determinati orari, delimitati dalle cinte di ferro riadi di libri1… ma esistoal maschio medio, stimono davvero? Ancora? lano il piacere e ritardano E quegli orrendi giubbotti odorati di freddo e tabacco, la diuresi, o forse ritardano il piacere e stimolano la diuindossati da un tuo affetto lontano, con una cicatrice a forresi), d’altronde l’Hiv è la peste di fine (o inizio?) millennio, usando il profilattico debelli l’aids (e fai felice Benetma israelitica dentro al cervello. E quei modi buffi con cui tòn e Mr. Hatù) mentre un pubblicitario sta per decidere si vestono le sign.ne: maglie a collo alto attillate (magari a se sterminare una popolazione o no, ma ride perché è mezze maniche) o larghissime (maglioni sovrumani), panuna domanda retorica. E ridiamo anche noi, con i comici taloni aderenti o scanalati o a zampe d’elefante, slip che si che non fanno ridere, e ci si ricorda di un pomeriggio triaffacciano curiosi da fuori il pantalone, maglie a maniche ste, sui venti anni circa, quando avevamo capito che il lunghe col sudore nelle ascelle (ma non ridiate perché è 1 Quali? Melville, Rino Gaetano, Italo Calvino, Pasolini, Zvi Kolitz, Giacomo Leopardi ed Agostino hanno indetto tutti assieme una grande manifestazione; Cechov, Hawthorne, Stevenson, Voltaire, Pascal, Bram Stoker ed Emilio Salgari non ci vanno, faranno la Nazionale Scrittori; Ovidio, Pavese e Silvio D’Arzo verranno al cinema con me, ma prima ho un aperitivo con Tieck, c’è un problema: Hannah Arendt piange il sabato sera, prima di uscire, impiastricciandosi sola tutto il trucco, sempre per Martino, che si abbottona con le sue amiche. Corazzini e Gozzano andranno con me, Freud e Catullo questa estate in inter-rail. Giorgio Gaber e Vincenzo Mollica sono uno di noi. Erasmo e Balzac sono seduti in un pub con Svevo, Zola; Don De Lillo gioca a dadi con De Sade, Montale fa mosca cieca con Hoffmànn. Kafka va a un festino (d)a Collodi, farà un salto pure Flaubert, assieme ad Anite di Tegea. Daniel e Giovanni fanno a gara di apocalisse, sotto l’alluvione; Petronio, Maupassant, Rodari verranno alla mia festa, Tibor Fischer invece si fa in vena tutte le domeniche pentecostali il suo pusher abita ad Atlantide, si chiama Omero e fa il cieco di mestiere, spaccia eroine ed eroi come se tutto andasse davvero bene. Sorridendo. Torquato Accetto gioca a nascondino con Mann, Moravia e Poe; Stefano Benni è un mio vicino di casa, nelle scale fa sempre lo sgambetto ad Archiloco, che convive con Palazzeschi. Saffo, Virginia Woolf, Mary Shelley e Isabella Santacroce sono le mie ex, Tommaso Landolfi mio fratello. Fo, Luciano di Samostata e Buzzati fanno i centralinisti per la Fastwebnèt.Roberto Benigni il 18 gennaio del 206 è in un'Osteria di Gerusalemme, sotto i portici che non ci sono, di fianco agli avanti miei prodi: è uscito con l'etimologia della parola Amore, con cui si accarezzò anni prima, e una losca comparsa; ride, scherza, crede di capire il simbolo, ma poi casca lo Stronzo dal cielo, il suo attuale compagno tinto d'azzurro nell'azzurro, si baciano, e Benigni va in malora, perduto. De Gregori era morto, e Asclepiade sta male come me. Rimbaud, Verlaine, Mallarmè, si presenteranno al Festival di Sanremo quest’anno, la carne è debole e gli imperi alla fine della decadenza, Baudelaire all’inferno assieme a Don Giovanni e l’aura da poeta caduta nel fango…

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sono le patate, non si può saturare il dolore con le patatanto dolce, e voi non lo potete nemmeno sapere il perché) e questa moda delle cinture smisurate, gilet col capte, gonfiano, i tubi vengono ostruiti dai tuberi, così inpuccio, maglioni a maniche corte, le camicie sbottonate grasso, e per educazione fisica apro e chiudo l’armanei primi 2-3 bottoni, rosa, azzurre, bianche, le canotte dietto per ore. Spreco il presente, perché non ho futuro. aderenti da mettere d’estate, col rossore della vergogna Ho molti impegni nelle giornate, alle 18 faccio su e giù della propria femminilità o con l’arroganza di voler piaceper il corridoio, centinaia di andirivieni senza la cintura, re, magari per prendere il sole anzi, certamente per piacepasseggio continuamente oppure circunnavigo la mia re, per prendere il sole, sole, solo per sé stesse. stanza 1983 volte, in tuta da ginnastica. Colazione, pranNon esistono più, le ragazze con i sandali sportivi, zo e cena sono gli eventi della giornata, l’elettrocardiostruccate, che portano come niente i pantaloni corti con gramma, beh, no, quello è solo nei giorni di festa. Alla rale tasche e una larga t-shirt di cotone, col walk-man e le dio ascolto molto «Pur se l’estate è finita t’amo ancuffie - non gli auricolari cor….». Stasera ho un -, e compilazioni di amoimpegno: mi ucciderò re e psiche in musicasleggendo il finale de La setta, e un libro di poecoscienza di Zeno, come sie nella cartella e la ritutti i giorni dispari. Opvoluzione bloccata per pure celebrerò i funeraun ingorgo ematico tra li per tutti i moscerini il cuore e la laringe: sono morti dentro le luci al tutte morte. Erano raneon intermittenti: se gazze-acqua, nel viso riuno guarda attentacordavano la gioia e rimente, dentro a quelle voluzione che si ha due lampade c’è una strage minuti dopo aver partodi moscerini fulminati, è rito, ma avevano 20 un olocausto del moanni, partorivano peluscerino. Bzzz.. che, anche se negli inVede, io non lo so perverni particolarmente ché le ho uccise tutte, vispi per le nostre sesquelle coppiette, perché sualità notavano la pan- Edward Munch, Vampiro (1893-94), dipinto, Munch Museet, Oslo [Norvegia] persi gli occhi a guardarle cia anormalmente creaccarezzarsi soavemente, sciuta, e si rifugiavano con passione nelle nuove ginecodovrei ricordarmi quelle terribili estati al mare forse per rilogie: erano figlie della luna, del cielo e del vento… ora sponderle, proprio quelle dove vegetavo burro, giocavo a sono tutte morte. Avevano la luna in testa e sulla pelle, il ping pong con l’animaccia mia, quelle in cui mettevo una cielo negli occhi e il vento nella mente. Sono tutte mortesta nel secchio, con i pesci rossi ancora vivi, per trattenere te. Dio è morto, è vivo, c’è, non c’e, o c’è ma non si fa troil suicidio, per poter arrossire, e urlare tutta la mia inattitudivare apposta? Le ha bestemmiate Dio, le ho create io. ne nelle olimpiadi del salto in alto e in padella, del salto delDa qui vidi tutto, li ho visti i signorini bambini albegla quaglia, la totale mia impermeabilità agli aperitivi, agli giare, le ragazze con la pesca in bocca rosseggiare, uomiantifecondativi e alle suonerie da scaricare, e nemmeno ni infranti nel cuore e nella mente diluviare, ragazzi-omperché ho divorato la mia *, Giulia End cara, che già nel suo bra tacere per lunghe maree e successive glaciazioni, e cognome aveva il futuro nostro, la descrizione della mia poi all’improvviso bruciarsi a primavera, piromani di loro Fine, dopo averla bruciata, una volta imbalsamata nel freestessi, nel loro stesso foco (“ti vedo fioco, se non mi innazer, perchè non finisse mai, per poterle ancora dare un bamori ora stavolta ti sfoco…”), e gli invecchiati tuonare, e cio con la lingua tra i suoi capelli in argento. gli eterni conoscenti sfumare, e i fighi tramontare. Vedo So, anzi, le dedico una brutta poesia, fa così2. So che tutti i giorni e più di una volta al giorno coscienze e incovorrei ascoltare una bella canzone, magari, e ballarla scienze sospirare, e ragazzi con una voragine nel cervello, con lei, commissario, professore, dottoressa, le posso e l’Apocalisse in fondo agli occhi, stralunare. dare del lei vero?, lei che è una persona così dolce, alE la mia vita, che ti può portare in posti come questi. meno lei… ta ……ta…..tta……laralllalà…una musica, Io non sto male, sa? Il rancio qua è buono, anche se per così…come questa……..posso?............... colazione avrei preferito lo zucchero: la cioccolata con la morfina mi resta sullo stomaco. Se piangi, ti danno il altrove@argonline.it budino, che trema come te, con te. Però nei pasti troppe 2 Schegge di occhi azzurri che divengono vetro schegge di occhi azzurri che divengono acqua schegge di occhi azzurri che diventano cielo.


La buona novella PAOLO NORI

Con stivali di occhi neri sui fiori del mio cuore Il testo della (buona) novella seguente è tratto da una riscrittura inedita del romanzo Pancetta di Paolo Nori (edito da Feltrinelli nel 2004), rielaborato dallo stesso Paolo per il teatro, per uno spettacolo, un reading (come l’ha definito di recente Stefano Benni), o meglio una lettura-concerto (come ce l’ha presentato a noi l’autore), realizzata con Umberto Petrin, che ha debuttato nell’estate 2005 a Milano. Titolo e adattamento editoriale del racconto inedito per questa monografia di Argo sono dello stesso P. Nori. Consigliandovi di leggere il romanzo da cui è ispirato e di seguire la sua tournee teatrale, signore e signori, a voi Paolo Nori. Buona Novella. [daniel]

non so se passeranno la mia censura lenta e impietosa, mi son forse fatto trascinare dai sentimenti ma contro la forza dell’autunno quando cambia un giardino i sentimenti non hanno potere così come non hanno potere i rimorsi ha forse rimorsi, l’autunno, per tutte le cose che ha fatto morire?» Quel poema che cita Filosofov, quello che comincia Come l’autunno cambia il giardino, è un poema di Chlebnikov che si intitola La Rusalka. La cosa migliore che ho scritto, scrive Chlebnikov nel 1921, è La Rusalka, scritta il 16, il 17 e il 19 ottobre del 1919, 365 righe. La rusalka è chiamato a volte anche Il poeta, Il carnevale, Il poeta e la rusalka o La festa di primavera, e è un poema che Chlebnikov ha scritto per via che lui, Chlebnikov, tentava di prevedere il futuro.

Un poeta e filosofo russo misconosciuto, Pavel Filosofov, che a un certo punto della sua vita ha abbandonato poesia e filosofia e s’è messo a fare il poliziotto, negli anni sessanta del novecento ha pensato che era ora di scrivere le proprie memorie su come non riuscì a diventare poeta, e in queste Per via dello spazio, Chlebnikov aveva memorie a un bel momento scristudiato matematica all’università di ve: «Fu solo molto tempo dopo, Kazan’ e si considerava discepolo di Loche cominciai ad avere un’idea bac˘evskij. di come ci si comporta, mi ci vollero anni perché imparassi a reagiE se la lingua, viva e autentica sulle labre con calma e con ponderazione e bra del popolo, può essere equiparata alla a muovermi in armonia con la terra. geometria di Euclide, non può il popolo Come dice il primo verso di quel poerusso permettersi il lusso, inaccessibile ma Come l’autunno cambia il giardino, agli altri popoli, di creare una lingua simicome lo cambia l’autunno il giardino, le alla geometria di Lobac˘evskij, a questa velocemente? Lentamente. Io ormai ombra di altri mondi? Non ha diritto il sono anni, scrive Filosofov, che ho misupopolo russo a questo lusso? rato il mio passo su un passo ancora più lento del passo dell’autunno Per via del tempo, Chlebnikov conosceva i quando cambia un giardino, io lavori di Einstein e Minkovskij, e come sono vent’anni che quest’ultimo considerava sono ossessionato il tempo la quarta didai critici e questa mensione dello spazio. memoria ho deciso di Morto in piedi di Giulia Ferrandi scriverla solo cinque anni Uomini! Il cervello degli fa e soltanto adesso, mi sono riuomini corre fino ad oggi solto, e prima che mi decida a diffonderla ce ne vorrà su tre gambe (tre assi dello spazio). Noi, che abbiamo del tempo, dovrò riguardare tutto per bene anche certi coltivato il cervello umano come aratori, attacchiamo giudizi, ho lasciato forse andare la mano certi giudizi a questo cucciolo la quarta zampa, vale a dire l’asse

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La buona novella

Nevrotica2 di Luca Martignani

del tempo. Cucciolo sciancato! Non strazierai più il nostro udito con i tuoi brutti latrati. Il passato il presente e il futuro, secondo Chlebnikov, esistevano contemporaneamente, era come se fossero adagiati in una quarta dimensione che si allargava in una direzione diversa da lunghezza larghezza e profondità, una direzione che noi non eravamo ancora capaci di percepire ma che esisteva come esistono le altre tre, a dispetto di Kant, che aveva cercato senza riuscirci, di dimostrare che la tridimensionalità dello spazio era un concetto a priori che aveva a che fare con la natura dell’uomo e che non c’era da discutere che era così e basta. Kant, che voleva determinare i limiti dell’intelletto umano, ha determinato i limiti dell’intelletto tedesco. S’è confuso.

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Chlebnikov si sforzerà per tutta la vita di misurare il tempo, di renderlo con formule matematiche, di vedere, secondo il paradosso di Mommsen, gli effetti del futuro nel passato e di prevedere, attraverso lo studio del passato, il futuro. Vladimir Markov si meraviglia che nei suoi calcoli Chlebnikov delle volte ci prende. E in effetti Chlebnikov, nella seconda metà del 1911 prevede che c’è da aspettarsi, per il 1917, la caduta dell’impero russo. È una previsione, va detto, che non muove da un’idea dialettica della storia, la rivoluzione per Chlebnikov non è la conseguenza di una particolare arretratezza dello stato russo o delle terribili condizioni di vita delle masse operaie e contadine, è la conseguenza del fatto che nel 534 fu assoggettato il regno dei vandali. Nel 534 fu assoggettato il regno dei vandali, scrive Chlebnikov, non dovremmo dunque aspettarci, per il 1917, la caduta di uno stato? Secondo Chlebnikov gli eventi storici si susseguono seguendo leggi che sono simili a quelle che regolano la diffusione della luce, e sono, come quelle, calcolabili, se si tiene presente che l’angolo di rifrazione è uguale all’angolo di incidenza e che a un evento storico di una determinata portata corrisponde, dopo un preciso intervallo di tempo, un evento uguale e contrario. Nell’autunno del 1911 Chlebnikov spedisce il suo Saggio sul

significato delle cifre e sui modi di prevedere il futuro a Aleksandr Alekseeviã Nary‰ kin, che reggeva il ministero dell’agricoltura e del demanio statale, accompagnandolo con una lettera: Desiderando verificare, per questioni connesse al mio lavoro, la possibilità di prevedere il futuro, ho realizzato una previsione che riguarda i non tanto lontani 1917 e 1919, e glieLa mando, sperando nella Sua illuminata attenzione. Dal momento che né Aleksandr Alekseeviã Nary‰ kin, né nessun altro del ministero dell’agricoltura e del demanio statale gli risponde, Chlebnikov tra il 1912 e il 1913 la sua previsione la pubblica tre volte. Majakovskij, un paio d’anni dopo, nel 1915, nella sua celeberrima Nuvola in calzoni scriveva: Vedo venire attraverso le montagne del tempo / qualcuno che nessun altro vede. / Dove l’occhio degli uomini frana monco, / là, testa di orde affamate, / con la corona di spine delle rivoluzioni / s’avanza l’anno sedici. È vero che sbaglia, ma di poco, solo di un anno. Chlebnikov continua anche dopo la rivoluzione, a far le sue previsioni e per un certo giorno del 1919 prevede che nella città ucraina di Char’kov ci sarà un colpo di mano, e va a Char’kov a verificare i suoi calcoli. Qualche giorno dopo scrive una lettera a un poeta che era stato a suo tempo egofuturista, Gnedov, Avevo ragione, gli scrive, la città è stata presa dalle truppe bianche di Denikin. Solo che purtroppo, mi vogliono arruolare per forza nell’esercito volontario. L’unico modo per evitare l’arruolamento era avere un certificato medico che testimoniasse che non si era adatti al servizio militare, e fu così che Chlebnikov finì in manicomio. Nel 1935, nel primo numero degli Atti della terza clinica ospedaliera di Krasnodar, viene pubblicata una memoria del professor Vladimir Jakovleviã Anfimov intitolata Sul problema della psicopatologia nell’arte. Anfimov ricorda che nel rigoroso inverno del 1919, nelle enormi e mal riscaldate corsie dell’ospedale psichiatrico panrusso del governatorato di Char’kov, attirò la sua attenzione l’originale personalità di un malato. A dire il vero, scrive Anfimov, non era un vero e proprio malato, si trovava tra quelli per i quali gli specialisti dovevano decidere se il loro stato di salute psichico-nervosa permetteva la partecipazione alle operazioni mi-


La buona novella

Occhio filosofico di Giulia Ferrandi

litari, e si chiamava Viktor Vladimiroviã Chlebnikov. Alto, con arti lunghi e sottili, un viso oblungo e tranquilli occhi grigi, scrive Anfimov, era avvolto in un leggera coperta demaniale, e vi raccoglieva sotto i grandi piedi, che sembravan coperti da qualcosa di simile a delle scarpe. Pensieroso, non si lamentava mai delle disgrazie di quel duro periodo, era come se non notasse le privazioni, e fu rallegrato dall’apparizione di una persona che aveva con lui interessi comuni, e pronto a sottoporsi all’analisi medica e psicologicosperimentale. Credo di non sbagliare, scrive Anfimov, se dico che per lui fu un’esperienza interessante. Tra altri esami che fece fare a Chlebnikov, per verificare l’estensione della sua fantasia Anfimov gli chiese di scrivere qualcosa sui temi della caccia, della luce lunare e del carnevale. Chlebnikov, scrive Anfimov, cominciò a coprire con grafia minuta dei fogli di carta che a poco a poco si accumularono intorno a lui in mucchi. A proposito della caccia e della luce lunare scrisse il racconto La caccia, pubblicato per la prima volta nell’articolo di Anfimov e poi incluso nella raccolta degli inediti che uscì nel 1940, e il poema La luce lunare, che sarebbe poi entrato a far parte delle Tavole del destino. Il terzo tema, scrive Anfimov, provocò la nascita di un piccolo poema di 365 versi, poi pubblicato nella raccolta delle opere del poeta uscita nel 1923 con il titolo La rusalka. L’originale, che conservo, è intitolato Il carnevale, e termina con una dedica che mi è cara, scrive Anfimov nel 1935 nel primo numero degli Atti della terza clinica ospedaliera di Krasnodar. Chlebnikov apparteneva, nelle conclusioni di Anfimov, al tipo degli impulsivi, originali e strambi, e non era adatto al servizio militare.

Come l’autunno cambia il giardino, Porta la porpora, color blu del rame, E una cascata di pietre non preziose Precede la vittoria delle nevi, E col calore del più chiaro sogno Son decorati i tronchi di betulla E a salutare il verde dell’estate Vola l’uccello, araldo dell’inverno, Dove di un fine scialle d’oro Si veste il ripido pendio delle colline E solo la pianura e i fossi Sono spettrali e nudi, E l’azzurro silenzio Chiamava le parole del profeta, Così la festa del carnevale dell’anima Eterna con gioia spensierata Nasconde il giorno poco duraturo Nasconde il corto camminar del sole Getta per terra il panno dell’inverno E, per imbrogliare il tempo, Corre là, veloce più del daino.

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La buona novella SARA PASQUINO

Lei sente che lui lama

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La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toccano il pavimento gelido della stanzetta in cui dorme tutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna. Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campagna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lentamente le scale di legno che scricchiolano nonostante la bambina sia magramagra. Spero che i nonni non mi sentano spero che i nonni non mi sentano… Sara si sveglia di colpo in un bagno di sudore. Le lenzuola sono arrotolate intorno al suo corpo. Le ombre si rincorrono sulle pareti silenziose, appena rischiarate dalla luna. Le finestre sono spalancate, ma l’aria è densa e pesante. Sara allunga il braccio verso l’interruttore e una pacata luce azzurrognola illumina la stanza. Sulle lenzuola, tracce di sangue rappreso. I tagli sulle braccia e sulle gambe sembrano fare fatica a rimarginarsi. Sara ha un brivido ripensando alla sera prima, al coltello tra le mani di Thomas, al modo in cui lui la guarda dopo averla legata. Ha sete. Si alza e va in bagno. La luce al neon le rimanda nello specchio l’immagine di Lama di Giulia Ferrandi una donna stravolta. Sul collo i due segni del coltello a doppia punta. Sara si inginocchia davanti alla tazza del water e vomita anche l’anima. Poi sviene sul pavimento. Terzo mese di terapia con Thomas. L’esimio Dott. Thomas Friedberg, della scuola freudiana di Vienna. Da anni in Italia. Sara ha cominciato ad andare da lui dopo un mese che faceva ogni notte lo stesso sogno. La bambina e le scale che scricchiolano. E una lama nel buio. Thomas continua a chiederle chi è quella bambina e continua a dirle che quella lama nel sogno lei non la

vede. Ma Sara la sente. C’è. Thomas e Sara fanno terapia tre volte a settimana e alcune notti l’esimio Dottore si dimentica della deontologia professionale. Thomas le ha detto che quel sogno è sicuramente legato ad un episodio della sua infanzia ben rimosso dalla sua memoria. E poi ha voluto sapere tutto delle storie di Sara con gli uomini. Lei gli ha raccontato con calma di rapporti malati, come se fosse l’unico modo che lei conosce. Storie di ordinaria e

sottilissima violenza psicologica, accompagnate sempre da venature sadomaso. E lei era certa che quello fosse amore. Thomas si era subito accorto della strana fascinazione che il suo tagliacarte d’argento esercitava su Sara e cominciò a giocarci mentre la ascoltava. Le lasciò il numero di cellulare dicendole di chiamarlo anche di notte dopo il sogno che ormai la svegliava ripetutamente. Dopo la prima telefonata, circa un paio di settimane dall’inizio della terapia, tutto precipitò. E ora, quando lui arriva a casa sua in piena notte e la trova sconvolta, mentre la lega al letto, le spiega che quella lama che lei sente bisogna farla apparire, chiamarla. È necessario che quella lama riaffiori dal suo inconscio per poi distruggerla. La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toccano il pavimento gelido della stanzetta in cui dorme tutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna. Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campagna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lentamente le scale di legno che scricchiolano nonostante la bambina sia magramagra. Spero che i nonni non mi sen-


La buona novella

tano spero che i nonni non mi sentano…La bambina arriva alla fine delle scale, apre lentamente la porta del casolare ed esce nella pungente aria mattutina. Ora il belato si sente più forte. È straziante. Lei lo segue. I piedini pestano l’erba ancora bagnata dal temporale della notte. La bambina si stringe nella sua camiciola leggera per proteggersi dal freddo. I rami spogli degli alberi si allungano nel chiarore del cielo come zampe di ragni immensi. Il belato proviene da dietro la casa. Forse dalle stalle. Ho paura ho paura ho paura… Thomas sa come tranquillizzarla dopo il sogno. Le tiene la testa sulle ginocchia e le racconta di come la terapia stia funzionando. Sara lo sente. La ama. Nessun altro si era mai preso cura di lei come fa lui. Il freddo delle lame sul corpo e poi il calore dei baci di Thomas. E poi lui la rispetta. Non la vuole mai possedere. Thomas trae il suo massimo godimento dal piacere che prova lei quando lui le incide la pelle. Tagli netti, sottili, precisi. Un dolore così vicino all’estasi. Thomas le ha spiegato che per svelare tutto ciò che il suo inconscio nasconde, prima Sara deve riprendere coscienza totale del suo corpo. E il dolore è l’unico modo. Mai prima d’ora Sara aveva sentito così pienamente il suo corpo. I coltelli e i taglierini che usa Thomas stimolano i sensi di Sara. E lei si guarda, mentre il sangue scorre in sottili e brevi rivoli sulla sua pelle bianca e si vede bellissima. Per la prima volta. Il copione è sempre lo stesso. I taglierini cominciano sulle caviglie e risalgono lungo l’interno coscia. Ma Thomas esercita solo una leggera pressione sulle lame. Poi, incide la pelle all’altezza delle creste iliache, due taglietti veloci che portano Sara ad inarcare il bacino. Thomas poi afferra un coltello da caccia, seghettato, e lo fa scorrere dal ventre verso la gola, lentamente, raccontandole di antiche battute di caccia. Il belato si sente più forte. Tra i due seni, incide la pelle, fermandosi poi ad osservare il sangue che scivola verso l’ombelico. È la volta poi di un normale coltello da tavola, d’argento, che Thomas passa di piatto dai polsi alle spalle, tagliando qua e là la pelle morbida dell’interno delle braccia. Arrivato al massimo dell’eccitazione, l’esimio Dottore afferra il coltello da arrosto con la doppia punta e scivolando con il suo corpo su quello di Sara le ferisce il collo, lasciandole un segno che sembra il bacio di un vampiro. In quel momento Sara di solito lo prega di penetrarla. Glielo urla. Lui le dà piacere. E’ giusto che lei faccia lo stesso. Questo è vero amore. Lui lo fa raramente. La rispetta tanto che spesso non ci riesce.

La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toccano il pavimento gelido della stanzetta in cui dorme tutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna. Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campagna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lentamente le scale di legno che scricchiolano nonostante la bambina sia magramagra. Spero che i nonni non mi sentano spero che i nonni non mi sentano…La bambina arriva alla fine delle scale, apre lentamente la porta del casolare ed esce nella pungente aria mattutina. Ora il belato si sente più forte. E’ straziante. Lei lo segue. I piedini pestano l’erba ancora bagnata dal temporale della notte. La bambina si stringe nella sua camiciola leggera per proteggersi dal freddo. I rami spogli degli alberi si allungano nel chiarore del cielo come zampe di ragni immensi. Il belato proviene da dietro la casa. Forse dalle stalle. Ho paura ho paura ho paura…La bambina costeggia il muro della vecchia casa che puzza di umido. La sterpaglia le graffia le caviglie. Il vento scuote l’aria. Il belato è più vicino. La porta della stalla è aperta. La bambina non ha il coraggio di varcare quella soglia. Il belato riempie ogni spazio di ciò che rimane della notte. Ma questo è Neve il mio agnellino ma questo è Neve il mio agnellino… Sara si sveglia di botto. Ha un sapore dolciastro in bocca. Ieri sera Thomas le ha tagliato un labbro. Sta albeggiando. Ieri sera lei ha sentito dolore quando lui le tagliava il labbro. Le stava raccontando che una volta era così che si segnavano i capi di bestiame, soprattutto gli agnelli. In quel momento, Sara ha avuto uno scatto e ha cercato di divincolarsi, ma i legacci erano ben stretti. Per la prima volta Sara ha provato fastidio misto a rabbia. Soprattutto gli agnelli. Thomas si è arrabbiato quando lei gli ha chiesto di slegarla. Le ha detto, con disappunto malcelato, che la terapia doveva continuare, ma lei gli ha risposto che non si stava divertendo. Forse era solo stanca. E lui l’ha penetrata con rabbia. Lei non ha sentito nulla, se non pena per sé stessa. Per la prima volta. Thomas l’ha slegata e se n’è andata in malo modo. Non va bene. Sara respira a fondo e ripensa al sogno. E’ stranamente lucida. Quella bambina, l’agnello e i nonni e la lama. Dov’è? Sente prurito ad una spalla e si gratta. È umida. Si è riaperta una ferita con l’unghia. Sara si alza e si abbandona sotto ad una doccia calda. La bambina si avvicina lentamente all’ingresso della stalla e si affaccia, mentre il belato le squarcia la mente. E vede il lavorante dei nonni, di schiena, e un baluginio nella sua mano destra, mentre con la sinistra tiene qual-

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cosa che la bambina non riesce a vedere. La bambina inciampa in un secchio e l’uomo si gira e la vede. «Cosa fai già alzata a quest’ora? Mettiti lì nell’angolo e stai buona. Ho quasi finito e oggi la tua nonna ce lo cucina con le patatine croccanti.» La mano destra dell’uomo stringe un coltello, la mano sinistra è serrata intorno al collo di Neve, il suo agnellino. La bambina si rannicchia in un angolo, le ginocchia raccolte a sé. Vorrebbe urlare, ma l’unica cosa che riesce a fare è spalancare la bocca dalla quale non esce alcun suono. Il coltello dell’uomo affonda nella gola dell’agnello. Il belato cessa. Il silenzio piomba come un macigno sulle lacrime che rigano le guance della bambina. L’uomo si mette a pulire e non si accorge dello sguardo della bambina che trasuda odio e orrore. Il coltello sporco di sangue riluce nel bagliore della lampada. Io mi fidavo di lui. La bambina si alza. Sente una forza quasi da grande. Si avvicina al tavolo dove l’uomo ha appoggiato il colt e l l o.

L’uomo sbuffa di fatica mentre pulisce l’agnello. Io mi fidavo di te e tu hai ucciso il mio amico io mi fidavo di te e tu hai ucciso il mio amico… “Thomas ti prego vieni qui. Ora è tutto chiaro. Sai la terapia ha funzionato. Ho visto tutto. No ti prometto che mi comporterò bene. Te lo giuro. Ti prego. Grazie. Ti aspetto.” Thomas le accarezza la testa, poi, senza una parola, comincia a legarla. Il taglierino scorre sulle gambe. La piccola Sara è accucciata in un angolo che guarda la Sara grande. La bocca silenziosa spalancata. Il coltello da caccia scorre dal ventre alla gola. Le lacrime solcano il viso della piccola Sara. La Sara grande sente dolore. Io mi fidavo di te. Thomas continua il suo lavoro. Afferra il coltello con la doppia punta. La Sara grande piange. La piccola Sara si copre gli occhi. Ma poi si alza e fissa la Sara grande negli occhi mentre Thomas la penetra e le incide il collo come un vampiro. La piccola Sara afferra il coltello dal tavolo di fianco al lavorante dei nonni. La Sara grande estrae con facilità i polsi dai legacci, mentre Thomas si stende nel dormiveglia dell’orgasmo. La piccola Sara si avvicina alla schiena dell’uomo che non si accorge di nulla. La Sara grande cerca con la mano il coltello a doppia punta. Il petto di Thomas va su e giù ritmicamente, ansimante. La piccola Sara affonda il coltello nel fianco dell’uomo, con una forza sovrumana. L’uomo preso di sorpresa non riesce a reagire e allora lei affonda ancora e ancora. La Sara grande spinge la doppia punta nel cuore di Thomas che non capisce cosa succede. Allora lei continua. L’uomo si accascia e la piccola Sara ride mentre il corpo senza vita piomba a terra con gli occhi spalancati. La Sara grande continua a crivellare il corpo di Thomas che sussulta e urla incredulo e inutilmente sotto quei colpi di una furia inaudita. Poi tutto tace. La Sara grande ride. La piccola Sara torna in fretta in casa. Tanto la nonna mi laverà la camiciola. L’ho sporcata tutta. Speriamo che non si arrabbi. La Sara grande non ama più Thomas. La piccola Sara non venne neanche chiamata in causa. Si parlò di un pazzo che si aggirava per le campagne. La Sara grande unisce i puntini sul petto di Thomas con un dito intinto nel sangue. voice@fastwebnet.it

Sanguinaria di Giulia Ferrandi


La buona novella GABRIELE FALCO

Pesci rossi - scritto il 21/6/2005 -

La prima volta che metto i pesci rossi nel freezer, sul to in ogni braccio e due vistose fasciature ai polsi. Jenny davanzale schizzano proiettili di grandine. è coricata accanto a me e mi tiene la mano. Dice che le Dalla sala da pranzo, percepisco perfettamente papà dispiace, ma non ha potuto fare di più. È stata lei a intrufare la voce grossa con Dio. E lo immagino, con gli occhi folarsi fra le latrine del secondo piano, quelle proibite, e sbarrati e il collo della bottiglia appeso alle laba rubare il rasoio. Ed è stata lei a recidere la bra. Una protesi a forma di proboscide. vena, mentre io fissavo il muro di cinta Mamma entra in cucina urtanin fondo al cortile e masturbavo le do la ciotola del latte per il gatlabbra con una smorfia. to che ho appena spostato Jenny. vicino alla credenza. NepDa dieci anni la mia pure si accorge del launica amica. Sorella, ghetto bianco sul paviamante, madre e figlia. mento. Le sue mani tremanti afferrano a La prima volta fatica pillola e bicche incontro Jenny chiere, prima di inlei compare dal trecciarsi fra loro. Al nulla, portata forse posto degli occhi ha dal vento insieme due batuffoli di polalla grandine. vere sudati puntati Papà mi rincorre verso l’alto. Voltata con in mano la cinverso la finestra, a conghia e bestemmia. Ha templare i campi di medecine di piccole loni devastati dalla temschegge conficcate sul pesta che non accenna a viso e dagli zigomi scorroplacarsi, non bada a me. no rivoli di sangue. Apro il freezer e prendo in Sul pavimento, le pinne di mano la boccia di vetro. Tom e Jerry, Tom e Jerry, sbiadite e immobili e la seppur a fatica, ancora muovono le bottiglia di vodka al limone. Pesci rossi di Giulia Ferrandi pinne. Li ho chiamati così nel moAffondo le ciabatte nel prato e mento stesso in cui li ho vinti sulle dai talloni si alzano zollette di fango. giostre. Tom è il più grosso, quello che si muove più lentaSposto nelle gambe tutta la mia flebile forza e mi mente. L’altro è un missile. A volte mi siedo a spiarli per faccio strada fra i meloni bucherellati, già condannati a minuti interi e alla fine mi gira la testa. Se stessero fermi marcire sotto i primi raggi del sole che filtrano in mezpotrei finalmente vederli bene. zo a nuvole tornate a colorarsi di latte. In lontananza, la Ripongo la boccia nel freezer, incastrandola fra i survoce di mamma lo implora di lasciar perdere. In nome gelati e la bottiglia di vodka al limone. Jerry nuota radi Dio, della sua misericordia e delle troppe sfortune dente alla superficie, se fosse uno squalo il minaccioso che già ho avuto. Non colpa sua, lui non capisce, urla triangolo scuro avrebbe già fatto il vuoto attorno a sé. mescolando la saliva alle lacrime. Ma è inutile. Dietro di Chiudo l’anta, mi avvicino a mamma e tiro il gremme, gli ansimi di papà sono sempre più vicini. Corre, biule. Lei si fa il segno della croce e mi prende in bracsbuffa e bestemmia. La cinghia gli cala dalle dita come cio. Il suo collo odora di miele. fosse un’estensione naturale del suo braccio. In lontananza, tuoni e il rumore di una bottiglia di Entro nella stalla accolto da muggiti scomposti simili a vetro in frantumi. un presagio. Inciampo fra gli attrezzi, ma a fatica rimango in piedi, finché sento la stoffa della maglietta allungarsi e La prima volta che risorgo dai morti ho un ago infiladue macigni calarmi sulle spalle e sbattermi a terra.

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La buona novella

Sul viso di papà i cocci sugli zigomi e gli occhi spiritati fanno a gara per luccicare più intensamente.Io sbavo dal labbro ed emetto una lunga sequenza di suoni gutturali. Se la mia bocca sapesse parlare chiederebbe pietà. Mi riempie la guancia di sberle e si rialza in piedi, caricando verso l’alto il braccio con la cinghia. È in quel momento che Jenny arriva a salvarmi. Mi gira su un fianco, facendo mancare al primo colpo il bersaglio. Dallo slancio,papà perde l’equilibrio,Jenny gli dà il colpo di grazia con un calcio alla caviglia che lo fa rotolare a terra. Atterra con il viso sulle punte di un rastrello steso in un angolo, cinicamente in attesa della vittima predestinata. Mi piace pensare che anche questa sia opera di Jenny. L’ultima volta che metto i pesci nel freezer Jenny raccomanda attenzione. Siamo nella cucina del piano proibito, stasera Jenny è riuscita a rubare le chiavi all’infermiere coi baffi. Glieli ha sfilate silenziosamente dalla tasca, mentre io contorcevo le gambe e le braccia e fingevo di colare schiuma dalle labbra. Le chiedo perché non farlo nel modo più semplice. Con un coltello, ad esempio. Ma appena vede la boccia con Tom e Jerry, lei sogghigna. Se ha funzionato per papà, funzionerà anche per me.

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L’ultima volta che vedo mamma, lei piange a dirotto e mi batte forte le nocche sul petto. Dice che mi odia. Mai quanto io odiavo lui, penso guardando gli occhi di papà fissare strabuzzati lo sciame di insetti che gli succhiano il sangue. Se la mia bocca sapesse tradurre i pensieri in parole lo urlerebbe fino a prosciugarmi i polmoni. Invece, si accontenta di grugnire e sbavare schiuma. I muggiti rimbombano e la mangiatoia di fronte a me incomincia a girare, finché Jenny mi abbraccia e mi lascia cadere a terra. Buio. Mi accarezza le tempie, sussurra parole dolci e si incolla alla mia pancia. Un canguro e il suo cucciolo. Da allora siamo una cosa sola. È lei che mi sorregge quando i miei muscoli sobbalzano sotto i colpi degli elettrodi. È lei che mi tiene compagnia durante le ore nello stanzino buio, senza più la percezione del giorno e della notte. È sulla sua spalla che piango e sbavo schiuma quando capisco che mamma non vuole più vedermi. Ed è lei a insegnare al mio corpo a contorcersi a comando, l’unico modo per spaventare gli spettri in camice bianco che ogni giorno mi ronzano attorno come avvoltoi. È lei ad aiutarmi a scappare. E quando mi riprendono, è lei a spiegarmi il modo per fuggire per sempre.

pesci rotti di Giulia Ferrandi

muro di cinta e raffiche di vento trasformano i rami negli alberi in piccole altalene. Apro il freezer e Tom e Jerry muovono le pinne a fatica. Per l’ultima volta la mia bocca prova a trasformare i miei pensieri confusi in parole, ma inutilmente. Al loro posto, cola schiuma dalle mie labbra. Per fortuna con Jenny non serve parlare. E mi convince a non avere paura. Mi metto in posizione, a torso nudo, col mento appoggiato davanti al freezer aperto, come papà tanti anni prima. L’aria gelida mi riempie la pelle di centinaia di piccoli puntini rosa. Tremo senza sapere bene se per il freddo o per la paura. Neppure Jenny sa bene perché a un certo punto la boccia scoppia, ma ha funzionato con papà e funziona anche per me. Le piccole schegge di vetro si infilano nella pelle come lame nella corteccia. Il mio corpo si anima pian piano di rivoli di sangue, ma tutto sembra ancora non voler finire. Mi lascio cadere per terra e rotolo. Sento la schiena e il petto bruciare e godo al pensiero di mio padre sotto le medesime sofferenze. Con un grugnito imploro a Jenny pietà. Lei apre il cassetto e prende il coltello più grosso. È abile con la lama. Le basta un colpo per ognuna delle bende che coprono i polsi. hanss.squonk@tin.it

L’ultima volta che vedo Jenny lei mi abbraccia e mi bacia le guance. Il suo collo odora di miele. Fuori dalla finestra proiettili di grandine si abbattono sul


La buona novella LORENZO FRANCESCHINI

Il kamikaze Senza titolo dal catalogo mostra Fra muri di gomma, Persiceto 1990

Un giorno, poco tempo fa, mi trovai in una situazione molto sconveniente. Ero sul treno, andavo verso nord. Già la casetta abbandonata che apre alla vista del mare svaniva all’orizzonte, quando mi accorsi che un terrorista di Al Qaeda era seduto poco lontano dal mio posto, proprio in uno dei sedili centrali del vagone. Appena vidi quell’uomo, capii subito che si trattava un fondamentalista islamico, in viaggio con l’unico scopo di fare un attentato su quel treno, non appena si fosse fermato in una stazione importante. I tratti somatici erano inconfondibili: era biondo, slanciato e molto magro, due occhi blu scuro erano coronati da lunghe ciglia che bene si sposavano con la fine eleganza della bocca. Portava il pizzetto, e i capelli rasati – ma il taglio era di qualche settimana. Pensai: “Quale travestimento migliore di questo, per un terrorista arabo!”.Inoltre, altri fattori concorrevano allo smascheramento dello sciagurato: si trovava proprio nel mezzo del vagone centrale, dove un’esplosione avrebbe spezzato a metà il convoglio, con le conseguenze più devastanti. Ma la cosa che più mi persuase circa la sua identità, fu il constatare che egli non aveva con sé nessun bagaglio. “E per forza!”, considerai, “con valige o zainetti, facilmente desterebbe qualche sospetto, mentre senza, passerà certamente inosservato. E poi, i kamikaze non hanno bisogno di valige per compiere la loro missione: l’esplosivo lo portano nascosto sotto i vestiti o allacciato alla cintura”. Alla stazione seguente salì un gruppo considerevole di giovani, forse una scolaresca, e il vagone, da vuoto che era, presto si riempì. La situazione era grave. I ragazzi ridevano, scherzavano e non si rendevano minimamente conto del pericolo che incombeva su di noi; nemmeno gli accompagnatori sembravano curarsene. Allora presi a pensare a quale fosse la cosa migliore da fare: dovevo avvertire tutti della minaccia incombente? Questo avrebbe di certo allarmato la scolaresca, peggiorando soltanto le cose. Dovevo scendere alla stazione successiva senza dire nulla? Il rimorso per quelle piccole vittime innocenti mi avrebbe travagliato per tutta la vita. Forse la cosa migliore da fare era quella più avventata: un’azione di eroismo, di quelle da film. Risolsi che avrei aspettato il momento buono per bloccare le mani del kamikaze, in modo da impedirgli di azionare il detonatore, per poi immobilizzarlo, in attesa dei soccorsi.

La prospettiva di questa impresa era insopportabile; il solo pensare all’enorme fatica che avrei dovuto sostenere e al rischio che stavo correndo mi faceva sudare copiosamente, già provato dal caldo del viaggio in treno intrapreso in piena estate. La mia agitazione non passò inosservata sotto gli occhi degli sventurati compagni di viaggio, le bambine mi guardavano ridevano parlavano tra di loro e ancora mi guardavano e ancora ridevano. Anche i giovani accompagnatori erano incuriositi dal mio stato. Ma come era possibile che non capissero? Erano anche loro – quelle menti vergini – sorde a quanto succedeva? Anche loro avevano disastrosamente esorcizzato la diuturna presa di coscienza a cui ci chiama il Medio Oriente, quella della nostra precarietà, sotto i motti mendaci del “continuiamo a vivere, fermarci a riflettere sarebbe darla vinta a chi vuole rovinarci l’esistenza”? Solo l’arabo non si era accorto della mia trasfigurazione, lui guardava fisso il mare – e sono sicuro che, tra sé, pregava Allah. L’occasione per agire non si fece attendere. Proprio come un viaggiatore stanco di stare per lungo tempo nella scomoda posizione a cui costringono i nostri interregionali (egli riuscì ad imitare perfettamente questa condizione), l’attentatore si alzò in piedi: aveva di certo deciso che quello era il momento buono per compiere la propria missione. Mi sembrava di sentire propagarsi dalla sua testa i versi del Corano che sicuramente stava recitando prima del sacrificio estremo, e rimbombavano dentro il mio cervello. Raggiunse il corridoio del vagone, “la posizione centrale darà più efficacia alla sua azione di morte”, pensai – la tensione era al massimo, i bambini continuavano a fare rumore, lui era a pochi centimetri da me, sentivo gli occhi gonfi, non battevo più le ciglia – in quell’istante avvicinò la mano destra alla cintura: era il momento! Da seduto, con un colpo di reni slanciai il tronco verso di lui, gli afferrai le mani, mi alzai – i bambini, attoniti, avevano smesso di fare chiasso – lo immobilizzai contro un sedile e, preso dalla concitazione, premendo la pancia sulla sua schiena, lo riempii di botte sulla nuca. Quando le mani, impegnate a bloccare le sue, non mi bastavano, lo prendevo a morsi, a testate… tutti ci guardavano confusi – ancora non capivano, non capivano! Continuai a battermi valorosamente per alcuni istanti, ma il mio gesto di eroismo fu inutile: con un guizzo si liberò il braccio sinistro, portò la mano alla cintura e… tutto si spense. Mi svegliai in un letto bianco. Non capii subito di essere vivo, e ancora oggi che scrivo queste righe non mi capacito di come sia potuto uscire incolume da quella vicenda. Ero in un letto bianco, dicevo, e ogni cosa intorno era bianca, anche le persone, anche i vasi, anche i fiori. Ero vivo! Avevo riportato solo qualche graffio a seguito della lotta. Mi ero salvato dall’esplosione. Miracolosamente! Nel volto di tutti i presenti lessi compassione e pietà quando, costernato, li feci partecipi della triste sorte che era toccata alla comitiva. france.lorenzo@argonline.it

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La buona novella MARCO BENEDETTELLI

Conchiglie

Conchiglia di Marco Benedettelli

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Ci sono tanti sassi bianchi vicino alla spuma del mare. Tante uova pesanti accatastate. Gli altri dormono ancora e stanno distesi per terra negli angoli dove c’è più ombra, perché il sole è già alto e rovente e fuori da qui ha disintegrato ogni riparo, per questo è tutto bianco e gli altri stanno qui a dormire, fuori sarebbe impossibile, con tutti quei sassi per terra che puntano sul corpo abbandonato e il caldo con i vestiti della notte ancora indosso, perché stanotte era freddo e non si vedeva niente di quello che c’era, c’è qui intorno. Eppure qui il mare è lucente e le onde calme del mattino sono risucchiate attraverso i sassi da un motore profondo. Ho provato a mettere tre parole in fila per aprire la cassaforte tutta la notte, mentre gli altri erano già crollati. Ero lì accanto ai pali fradici del pontile, dove adesso è rimasta una cassetta di plastica. Tutta la notte sono rimasto seduto lì, cercavo la combinazione per aprire le sue orecchie e rimpicciolirmi fino a camminare nelle conche e nelle dune delle sue cartilagini bianchissime e calde. Oppure con la lingua, avrei appoggiato la mia lingua al suo padiglione per sentirne il tepore sprofondato. Ma i sassi bianchi non si sono aperti, non sono sbocciati, al massimo hanno iniziato a pulsare vicino ai miei piedi ma questo solo perché il mare è sempre un po’ agitato prima dell’alba, e il suo rumore è l’unica cosa che si sente. Eppure ieri camminavamo in mezzo agli scogli che nel buio erano latte. Perché gli altri dormono ancora? Doveva già essere finito tutto con la notte trascorsa, ma adesso tutto s’è prolungato sotto la luce del

sole. Sono dilatate le sue ore, e i suoi passi di stambecco continuano ancora, hanno attraversato il ponte d’oro dell’alba e adesso evaporano al sole e sono sospesi nell’aria, per questo penetrano dalle narici, dagli occhi, dai timpani fin dentro al cervello. Non ho trovato le tre parole da mettere in fila e la porta si è mostrata, ma non si è aperta e i sassi sono rimasti accatastati; ho intravisto solo una magrezza eccessiva e una foglia di lattuga appoggiata sulla sua testa come un cappello, come una corona, ma che era sott’acqua e scivolava verso il fondo del mare basso. C’è bisogno di una trama e di un manipolo di personaggi per dare forma al suono delle campane, al suono di questo canto incuneato tra le foglie e tra i sassi nella piccola falce di spiaggia chiusa in un mantello di roccia. Chi l’ha detto che si sta male senza ombra per terra, non è questa la solitudine che mi spaventa, l’azzeramento provocato dal sole che ha denudato anche la risacca di cespugli dove ieri ci siamo spinti a parlare, dove adesso c’è una capanna di pietra forse di un pescatore, per lasciare i suoi attrezzi. Voglio stringere le sue orecchie nei pugni, e spremerle come due datteri, mia dolce amica che hai conosciuto la solitudine della clinica nella montagna, con le sue stanze quasi d’albergo, nel trambusto di gente che andava e veniva. E adesso che ci sono tutte queste conchiglie per terra io le raccolgo e le metto dentro ad un secchio, finché gli altri non si sveglieranno. È pieno di conchiglie, è pieno di gusci mischiati ai sassi, e sono gusci calcarei, riccioluti, che incorniciano piccoli antri di madreperla. Sono le sue orecchie, piccole, che il sole ha sparso in giro, i suoi gusci di cartilagine abbandonati che parlano. Un secchio ne colmerò, un orecchio dopo l’altro accatastati, finché il secchio non sarà pieno come un pozzo d’acqua. Ne raccoglierò dei secchi di teste di cammelli, di gigli del mare, mentre gli altri dormono ancora. Sono un palmo di spuma ossificata tutte queste conchiglie nel secchio, che muovono la coda muovono i loro midolli attorcigliati sotto l’abbaglio del sole, con le nicchie smaltate di madreperla come gli incavi degli occhi nido di luce. Ti ricordo sempre bella, solo te che mi guardi dal fondo del secchio. Un bocciolo interrogativo che si dirama come una ragnatela dalle tue tempie. Non hanno mai quiete le tue piccole spirali sul letto del mio passato. Tu possiedi il dono della lontananza. Le ciocche dei capelli attorcigliati, le mani chiuse e le orecchie disegnate nello squilibrio e nel veleggiare delle linee che irrompono dal fondo del cervello. marco.benedettelli@argonline.it


La buona novella ANGELO NANNI

Pazzi di casa nostra e le zie: è una pazza alcolizzata, pericolosa! E io sempre ci ho creduto. E anche perché ho visto il segno sul piede di mamma: un coccio di vetro di birra da quella scagliato su questa prima figlia che accusava di perfidia, forse d’incesto – sì anche di questo, di tutto. Altri segni ho visto sul corpo di mamma, ma è bellissima comunque, non so pensare a quelli. Penso a lei.

Famiglia di Giulia Ferrandi

Il diciotto agosto di questo anno duemilacinque è capitato che tragicamente mio zio morisse schiacciato sotto un trattore, rovesciatosi il cingolato mentre si lavorava la campagna. Lui sul mezzo, poco distanti nonno e zia traversavano il maggese per raggiungere un ciocco d’orto. Mamma se n’era da poco andata. Mi avvisano istantaneamente della tragedia. Ecco: io mi ritrovo a dover comprendere la notizia da Bologna – tra le cinque e le sette di sera: non ricordo – prendere un treno, un maledetto treno e fare la faccia inguardabile di quello che va da un morto. Alla stazione di Vasto – mattino seguente – mi vengono a prendere che non mi bacia nessuno, piangono e mi afferrano stretto, sono mio padre e un nostro caro, ci dirigiamo verso la casa di un morto. A un morto nulla si può fare che gli giovi, non è; ai vivi intorno, a quel momento della morte sdraiata in un lettuccio di legno, men che meno si può fare qualcosa. Il mio cervello ingarbugliato, ripetendosi tanto, sragiona dunque su ciò che c’è al di qua della morte, i vivi e la vita a cui si può; c’è una pazza viva della mia famiglia – lo sapevo e a lei sempre ho guardato come a un personaggio romanzesco; da bambino le disegnavo l’ombra vicino a quegli altri della famiglia che ritraevo per la scuola – adesso la subitanea velocità con cui zio era scomparso, così: senza preavviso, mi faceva pensare a quel momento prossimo o vicino in cui lei sarebbe morta senza che io… Io, mia nonna pazza cattiva, non l’avevo mai conosciuta prima. Sapevo che è alcolizzata però. Quando ero piccolo ricordo che a volte a casa telefonava, rispondevo che mamma non c’era. Si capiva niente del suo biascicato saluto, pezzi di parole vomitate come pezzi di fegato. Questo mi avevano sempre detto mamma nonno

Il diciannove agosto – giorno della sepoltura – avevo da poco terminato di scrivere il mio primo libro finito. Mie fotocopie. Su quell’altro incompiuto pochissima era stata la voglia nei giorni precedenti al lutto di tornarvi a lavorare. Però avevo un nuovo semi progetto, confuso e alternativo. Il diciannove agosto, zio morto, decido di andare a trovare mia nonna pazza. Distacco, freddezza, l’antipatetico per eccellenza – mi sono detto – porteranno me in casa sua a dirgli non: ecco tuo nipote, ma: a te una persona che oggi e non so se un’ altra volta futura vuole parlarti perché… perché, cazzo! Là dentro quelle fogne di vene che hai corre roba che è pure del mio sangue. Ti voglio guardare negli occhi, scorgere nelle tue diottrie sfasate se c’è pure una fase delle mie lune. Voglio dirti che non vengo a dirti nonna ma: fattrice di mia mamma, ciao come stai, ecco io sono tuo nipote. Che dici: un po’ t’assomiglio? Come cazzo hai fatto a rinunciare a tanto?! Per quel giorno non mi mancava il coraggio: avrei scritto di zio parole di terra e d’incenso, e di vermi, e avrei bestemmiato tanto! Nella testa mi frulla e mi frullava il cervello. A ogni cosa che vedo, se non vedo la sento, scrivo. Scrivo di tutto quello che accade e dunque avrei infranto anche quel mito, anche per scriverlo: mia nonna fuori dal suo e finalmente nel mio romanzo. Trovato il perfetto tipo pazzoide che cercavo: per me? Per il libro nuovo? Vado. Parcheggio che ho la radio spenta, capita raro. Mi preparo come per una di quelle interviste che per sta roba che frulla e che scrivo sono solito fare – ogni tanto mi caccio sempre nei guai e l’ultima volta le ho prese talmente di brutto tanto che nella mia vita mai più tornerò a roma, tanto che per esorcismo ho dovuto scrivere una filippica contro il papa che poi sono quelle fotocopie che vi dicevo. Questa non era da meno: la pazza nonna è una pericolosa, mi avevano detto. Suono dalla pazza: non ha un campanello, allora ho battuto il portone di vetro forte e più forte che potevo,

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La buona novella

bicchiere di roba qualsiasi preferirei una sigaretta mi porge una Futura che io accetto e accendo contemporaneamente alla sua. In seguito mi sarei sentito in imbarazzo, ma non troppo, devo dire. ‘Non sono qui a conoscere e riconoscere mia nonna’, le faccio accidiato, ‘ma lei signora, una sconosciuta che è mia nonna, sì, ma non la conosco, e probabilmente non so nemmeno se ho tanta voglia di conoscerla. Sono qui perché si può morire da un momento all’altro e sempre si è perso comunque qualche occasione. Sono qui per non perdere questa di sapere se… di vedere se… ’ ‘Bene tesoro, potrei morire io domani come pure tu. Vedi quanti incidenti’ mi interrompe. Non capivo: la pazza capiva e non si scomponeva d’un trattino, rispettava perfettamente le regole della conversazione e non sembrava affatto pazza, gli occhi erano però stanchi, la deriva di un pianto o di un fiume sporco, abbavati come fossero passate di lì lumache giganti. ‘Mi hanno riempita di merda oggi, quattro cinque punture di quel fottuto tranquillante tesoro. Ma chi ti ha mandato, tua madre? Quella mi odia!’ ‘No, gliel’ho detto, la necessità è stata la mia.’ ‘Che fai nella vita?’ ‘Studio!’ ‘Menomale che non sei come tua madre, ha fatto la terza media tre volte, e la prima elementare sette’. Silenzio. Mi guarda, ci Tracce d’alcool nessuna guardiamo. Lei: ‘Scendo tra in quella casa, né pezzi di veun attimo, mi devo mettere tro franti, oggetti contunqualcosa addosso che dordenti a riposo. La pazza non mivo’. Non sembra felice di era pazza – ovvero: un po’ questa cosa nuova: né omsquilibrata lo era, stando ai bra, né fastidio, solo tedio in suoi racconti scolastici mamquello sguardo, nella persoma dovrebbe andare ancora na sua tutta. Passa del tema scuola adesso, comunque po, poi mi apre la porta una mi seguiva, non era compledonnona compita che mi tamente fuordisenno come invita a sedere e si dice meme l’ero immaginata, parlava ravigliata di vedermi, con lo un italiano non da schifo stesso nauseato sguardo tentando di sopire il dialetto con cui avrebbe condotto più prepotente. Usava buone l’intera conversazione mi ri- Otto Dix, La Pazza, (1925), tempera su legno, Kunsthallen Mann- maniere, mi stupiva in fredvolge un: ‘Prego’ e mi indica heim, Manheim dezza, distacco e soprattutto a sedere. Dunque mi maniper il totale antipatetismo. festo; da subito lei sembra ignorarmi, mi offre da bere Oltre le aspettative non era né pericolosa né vuota, anzi succhi, mi chiama tesoro e quando si accorge che a un intelligente. Tentavo di scorgere in me qualcheduno dei forte come lei quando batteva le figlie. Non c’era altro da fare. Non mi apre ma io non me ne vado: batto batto batto che sembro un muratore effrattore di mura. ‘Dorme la signora Luisa’, mi dicono due vicini dalla loro finestra che sembrano infastiditi, ‘dorme se non risponde. Ma tu chi sei?’ A domanda non rispondo neppure io, continuo a battere fino a quando dal balcone al piano superiore, una stanza da letto illuminata appena da mezzo lucore, d’un tratto si affaccia un virano di circa una sessantina, togato di sottana, che mi urla: ‘Che cazzo volete ancora?! Andatevene! Un altro dottore di merda! Oggi mi avete… punture…. punture del cazzo! Vattene!’ La riconosco, è lei, mia nonna pazza: ‘Signora… ’ – ‘Vattene!’ – ‘Signora … ’ – ‘Vattene!’ – ‘Signora… ’Tento di sedarla, interromperla, ma lei la donna, le sue urla, più forte ancora: ‘Vattene, te ne devi andare!’ e tutte le imprecazioni in fila contro tutto e contro di me dottore o cos’altro che fossi. ‘Mi stia a sentire’ grido io oltre la sua voce, deciso, ‘non sono un dottore né uno che vuole farle del male’. Sembra placarsi, respiro. ‘Chi cazzo sei allora, stiamo a sentire…’ la voce pessima tra il tragico e l’ironico. ‘Mi faccia entrare che glielo dico, la prego’. ‘Chi cazzo sei???’ fortissimo adesso sporta dal balcone quasi volesse afferrarmi per la strozza come un collo di bottiglia. ‘Suo nipote, il figlio di Lucia, la prima...’

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La buona novella

pazzia 1 di G. Ferrandi

suoi tratti, ad uno che ne intuivo ho ucciso subito la colpa. La conversazione nelle mie parole procedeva al suo attento silenzio, dico quanto la morte mi spaventi: ‘Sono qui proprio oggi, o meglio, è tanto che mi dicevo di venire ma… oggi, sa la morte, l’imprevedibilità della vita scritta sulla lapide di zio, mi ha detto vai. E io sono venuto’.‘Sei un ragazzo intelligente, non come tua madre, la vipera. Quella a cinque anni mi teneva segregata in una camera buia. Tuo nonno con il suo aiuto mi ha tagliato tre dita, mi teneva fermo il polso su un tronco dove con l’accetta mi colpì la mano: zac! Mi ha lasciato così – mi mostra l’amputazione che io ho sempre saputo essersi praticata da sè – monca, viva per grazia di Dio’. Una settimana chiusa in cantina con la mano in cancrena mi tenne, spuh!, quella merda, a lui si doveva riprendere il grande segnatore e invece si è ripreso a quell’altro poveruomo di mio genero. L’erba cattiva non muore mai. Spuh!’. Poi si sarebbe messa a cercare tutte le carte del processo di affidamento, riguardanti la sua interdizione: non le trova: non ci sono; la casa è sottosopra: tutti i tiretti aperti, letti sbandellati, lei delirante ripete di aver sopportato per amore materno, di aver taciuto, quel giuda con i miei soldi si è comprato il mondo, giudici, maresciallo, lui e tua madre matricida che mi odia. Nessun accenno alle mie zie sue figlie minori. Mi parla però ancora di carte, lettere anonime che neppure le trova, prove incontrastabili della sua sanità le definisce. Non l’ho creduta ma, dopo aver conosciuto mia nonna, ne è venuto che il semiprogetto confuso e alternativo a quell’altro è diventato il mio secondo libro quasi finito, le mie seconde fotocopie. È un manuale sulla follia, depressione, ascesi… dir che si voglia. Innegabilmente è lei che mi ha suggerito la trama. In seguito alla sua estenuante ricerca dei documenti or detti, qualcuno avrebbe suonato alla porta. Entra una donna sulla cinquantina, tarchiatella con il viso piatto inespressivo. Chiede chi sono. Tento di spiegare

la sua inopportunità in quel momento sì intimo ma… colpo di scena: la pazza fa la pazza e dice di non sapere chi io sia, forse un dottore dice. Quella chiatta con il viso piatto a chiedermi i documenti e a minacciare il ricorso alla legge. ‘Sono suo nipote, se ne vada!’ intervengo visibilmente alterato, ma non basta. Il clima di ostilità aumenta, mia nonna è furente, allora fuori la patente. ‘Primo maggio ottantadue, Atessa.’ Legge la data di nascita l’intrusa. Mia nonna annuisce, dice: ‘Telefonai quel giorno, nessuno mi volle’. Quella brutta viene da me cacciata e la pazza come nulla fosse accaduto siede di nuovo al tavolo, incrocia le braccia, ne accende una, mi guarda e mi dice che quelli nonno e mamma volevano far passare che lei beveva: ‘Non sono alcolizzata!’ Con la casa priva di alcolici si sentiva inequivocabilmente sincera, infatti penso abbia smesso adesso, ma rimane pazza, comunque pazza. Lo so di mio ora. Tuttavia a casa si dice solo che bevesse, dire pazza non si dice a una che tiene per forza pezzi di sangue dei figli delle figlie. ‘La odi tu mia madre?’ ‘Lei sì a me’ ‘Che ne sai, guarda che questa stessa domanda [prima a lei l’ho rivolta’ ‘E cosa ti ha risposto, che mi odia? ’ ‘No, mi ha risposto di no’ ‘Nemmeno io la odio allora’ Quando esco di casa non mi accompagna alla macchina – rispetta le distanze richieste e non un abbraccio, mi mostra la sua auto, tesoro mi chiama e mi dice che posso farne uso a bisogno. Mi offre cento soldi che io con tutti i vizi che ho accetto di buon grado, ma scanso gli equivoci e le dico: ‘Grazie, ma non so se tornerò signora Luisa’. Lei mi saluta bonariamente, io pure e addio. La sua deviata intelligenza, tuttavia, il genio di avermi saputo raccontare una storia diversa da quella che credo, tutto ricostruito particolare per particolare nel suo grande romanzo, i cavilli giudiziari perfettamente ricavati e resi a suo vantaggio in base a una legge inesistente per gli altri ma essere per lei l’unica vigente, il furore letterario con cui tutti i buoni ha saputo tramutare in mostri cattivi, tutto ciò mi ha detto forse qualcosa circa le sue diottrie sfasate, intorno ad alcune fasi delle mie lune. Ma ho ucciso subito la colpa. I pazzi conoscono sempre storie diverse, alcuni di loro le vivono, altri le scrivono o le raccontano per non impazzire vivendo nell’incomprensibile mistero della verità assoluta. Sono forse un’espressione matematica di riconosciuto valore intuitivo, ma irrisolvibile, poiché la loro seppur possibile risoluzione non è utile a nulla.

etarballo@yahoo.it

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Sfumando - Rubrica di fumetti GIULIA FERRANDI

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Testi e disegni di G. Ferrandi

giulia.ferrandi@email.it


Pezzi di vetro - Rubrica di versi

Dalle oscure voragini del sogno Poesie scelte da Rossella Renzi, Lorenzo Franceschini e Valerio Cuccaroni

Manicomio è parola assai più grande delle oscure voragini del sogno Alda Merini

Matteo Fantuzzi

Devo prendere gli antipsicotici, è quello che ha detto Nazzoli alla clinica. I motivi già li conoscete: ho reazioni scomposte ed attacchi di panico. Alle volte mi pare qualcuno mi fissi sull’autobus, è a quel punto che cerco di sfondare il vetro scappando per strada. Fingo d’essere un terrorista due volte ogni anno, minaccio l’autista con il tagliaunghie, gli dico di portarmi in Piazza dei Servi: lui ormai mi ha presente (è lo stesso da anni) in fretta mi lascia nel luogo richiesto, chiede scusa alla gente sul mezzo 62

e riparte. Ridendo. matteofantuzzi@yahoo.it

Il folle gioco Nella strofa iniziale della poesia di Matteo Fantuzzi, il soggetto parla in prima persona, confessando con freddezza e lucidità il suo stato psichico. Si rivolge con rassegnazione al lettore che già conosce la sua condizione: palese, quasi scontata, come se fosse comune a tutti gli uomini, provocando non poco sgomento. Poi l’attacco di panico, la mania di persecuzione, la fuga. La seconda parte è una scena teatrale che si ripete nel tempo, pura azione che si svolge veloce, tra l’eco di drammatiche situazioni attuali, attori e luoghi noti. La conclusione «ridendo» rivela che è tutto un folle gioco, una beffa, la completa illusione. (Rossella)


Pezzi di vetro Loris Ferri

Chiara Macchi, La pazzia e il suo potere

ho sognato uomini, lavorare nella notte cattedrali di segni, nel magma di un tempo obliquo possedere mani sporche, come una torba ignominiosa e al crollare della prima foglia, ergere l’etimo uragano, come un’artiglieria di zanne, nell’ombra confitte dell’aria. che come macchine d’argilla, riposano le loro menti avare, nelle folle dei grattacieli. ho sognato nei paesi occidentali, come elefanti geografici, l’Arte creare le sue palingenesi, fuori dalle inquadrature accademiche, trovando le sue città proibite, nelle camere oscure del Prado! ho sognato uomini che non avessero memoria bellica; folare per le strade, come una fibra di libeccio, inseguire il pensiero nelle taumaturgie dei supermercati, oziare come grandi maestri Izvor e gli altri, nel grandioso tramonto di Korcula, nel corvo solare degli altipiani sordi; questa nube ho sognato, che scivoli oscura sul petto a brandelli delle strade nella spazzatura delle città moderne, confondere l’anima, come un urlo che non ha corde, le tempie lavarsi nella semplice marea, come un sasso baltico. ho sognato truppe, avere l’insolenza delle scodelle!

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ho sognato dalle stanze impervie della notte, << nostra sorella la vita >>, in risciacquo, serpeggiare come un sole metrico, lungo la scia polverosa d’ogni tempesta! Ferri.Loris@libero.it

Lo sguardo allucinato La poesia è lo sguardo del folle fatto poesia, un folle che vede la realtà in tutta la sua complessità, «come dovrebbe essere, senza sovrastrutture, ma come in realtà non è!», secondo quanto ci dice l’autore. Complessità questa che nella scrittura poetica si traduce in un linguaggio decisamente difficile, ma affascinante, pieno di simboli che il lettore è invitato a decifrare in un viaggio di fantasia che appena accenna alle sue mete. Per dare solo qualche indicazione, Izvor Oreb è un pittore croato dell’accademia di Zagabria, le cui opere il poeta conobbe a Korcula, un’isola sull’Adriatico. Il Prado è il famoso museo, dove Loris vede l’arte confinata, come in una quarantena a cui l’uomo l’ha costretta e da cui non può uscire. (Lorenzo)


Pezzi di vetro Lara Lucaccioni

Serena la scena scompare Serena la scena scompare. Saetta veloce nel cielo la rete di vene bluastre alle gambe. Oggi ho i capelli dipinti, più neri di ieri; il naso così, schiacciato sul vetro gelato; la testa un po’ rossa di sangue. Diventerò altro che schizofrenica Il rosso paletto restringe la strada. L’ho preso, balbetto. Statua di pietra, mi ghiaccio. Rintrono, campana stonata, di rancido fastidio, dissono.

Poesia di Neruda elaborata da Chiara Macchi

Diventerò altro che schizofrenica Un punto asimmetrico, un peso sganciato la sete perpetua di fiumi, di mare da amare. laralucac@libero.it

La vita interrotta La scena messa in versi da Lara Lucaccioni è carica di stimoli visivi, tattili, sonori: dai colori più forti e simbolici (rosso, nero, bluastro), alle sensazioni corporee (gelo, ghiaccio), ai segnali sonori (stonato, dissono); sono presenti persino elementi olfattivi, con quel «rancido fastidio». Tali vivide sensazioni esprimono l’idea di una esistenza in movimento, che si svolge al ritmo cantilenante della poesia. Questa si presenta gremita di figure retoriche, echi, suoni che ridondanti si ripetono. Ma il fluire dei versi è interrotto da quel motivo così discorde e dissonante che spezza il veloce scorrere delle parole: «diventerò altro che schizofrenica». Come un ostacolo, quel verso interrompe bruscamente una ruota che gira, l’ingranaggio che procede, la macchina-cervello che elabora ed opera. Il suono della voce, insieme all’effetto sulla pagina stampata, dà il senso di una dolorosa rottura, della malattia che spezza la vita. (Rossella)

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Pezzi di vetro Giosuè Renato Vinay

7-9-69 Dovrebbe piovere sette secoli per lavarmi del tutto. L’ultima rosa appassita pende al centro dell’arco e cede i suoi petali all’acqua. È stata per giorni e giorni la mia rosa. È durata a lungo, tra bocciuolo e fioritura, sola al centro dell’arco riempiva quel piccolo spazio di cielo che appartiene, ancora. Ora gli ultimi petali deformi cadono pesanti a terra come coppe dilatate incapaci di contenere la rugiada. Della rosa non rimane che un duro pugno, sconcio e spoglio come uno scheletro lavato da interminabili secoli di pioggia. Dovrebbe piovere sette secoli per lavarmi del tutto. 59

Piove.

I giorni della rosa

La poesia di Giosuè Renato Vinay è incentrata sulla figura della rosa, protagonista della lunga strofa centrale, che si contrappone alla disperata invocazione del poeta, cornice del componimento. Quel fiore tanto tenue e delicato è in grado di colmare un vuoto, quel piccolo spazio di cielo che accompagna l’angoscia quotidiana. L’animo sofferente trova in lei consolazione, trasmette tenerezza evocando l’immagine del Piccolo principe che parla della sua rosa. Ai suoi occhi quel fiore, simbolo di purezza, cede al tempo, si secca, perisce, si fa «scheletro lavato» di fronte alla condizione di chi si sente impuro, al punto che neppure secoli di pioggia potranno cancellarne il dolore. O forse, per un momento, è bastata la rugiada contenuta nei petali di rosa. (Rossella)


Dr. HAMMPAPPABUONA

Rimedio omeopatico contro la follia Estratto da: Il Grosso Libro delle Terapie Naturali FOLLIA: condizione che non ha bisogno di molte spiegazioni, tanto è diffusa oggigiorno. Eccessiva familiarità con la dimensione sociale, assenza di difficoltà nel mondo scolastico e lavorativo, interesse per televisione, radio e giornali sono i sintomi che devono allarmare. Spesso questa è la vera causa dei malesseri che affliggono parecchie persone. E a sua volta, naturalmente, il disturbo mentale è causato dalla soddisfazione profonda con cui molti fruiscono dei mezzi di comunicazione, vivono il proprio lavoro, la propria vita... OMEOPATIA: Insonnia 8CH; Libido 8CH; Alcol 6CH 3 granuli di ogni rimedio al giorno per tre giorni fino alla scomparsa dell’Io

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Al calare del sole, meglio se quello del venerdì ma non necessariamente, recarsi in un locale affollato. Ordinare da bere, offrire da bere, possibilmente al sesso opposto ma anche allo stesso sesso ma di qualcun altro; prima di essere troppo ubriaco scegliere con chi passare la serata. Scelta molto importante perché come vedremo determinerà il successo o il fallimento della terapia. Continuare a bere, seconda questione essenziale: non smettere mai di bere. Ricordarsi di comporre sempre periodi brevi e possibilmente divertenti, scandendoli bene e a ogni modo sorridendo. Entrare in un locale da ballo solo se è possibile farlo con un bicchiere in mano. Lasciarsi cadere assieme alla compagna/o, cadere in pista, cadere al bancone, cadere dal bancone, cadere nel locale vuoto, cadere uscendo dal locale e finalmente sedersi al volante. Recarsi velocemente a mangiare qualcosa di pesante per trattenere in sé il demone dell’alcol. Assicurarsi di essere con la stessa compagnia che era stata scelta all’inizio della serata, unico modo per riuscire a proseguire la cura. Difatti senza la tensione dell’energia libidica non sarà possibile evitare di addormentarsi. Superato il punto critico cercare un bar già aperto con una sala priva di finestre in modo da poter ignorare la nascita del nuovo giorno. Uscirne solo dopo aver rovesciato almeno tre drink e non prima di mezzogiorno, così non si correrà il rischio di essere tentati dal buon senso e si fuggirà il sonno ristoratore. Se questo passaggio sarà effettuato con abilità ci si ritroverà completamente sfasati nel cuore della giornata avendo l’impressione di trovarsi ancora in quella precedente. Così si perderà un venerdì, tecnica omeopatica infallibile. Se ti sentirai da schifo dopo la notte passata a bere come un/a matto/a concediti un paio d’ore di sonno, due, ma solo dopo il pranzo. Ti gioverà se riuscirai a consumarlo con persone che hanno dormito, ti faranno notare di quanto ti sei allontanato dal pensiero comune, la differenza tra te e loro sarà un passo verso la completa guarigione. Al risveglio sarai un altro, la realtà che dovrebbe apparire fa-

Sguardo di Giulia Ferrandi

Extravaganti

miliare ti lascerà a bocca aperta. A causa della privazione di sonno il tuo punto di vista abituale non esisterà più, tutto apparirà inusuale. Una parte di te se ne starà sempre in disparte sorridendo di quello che tutti fanno e dicono, l’altra parteciperà al fare e al dire e verrà accettata normalmente dagli altri; sarai tu a iniziare a distaccarti da te stesso fino a non riconoscerti più. Di buon ora, non più tardi delle cinque, recati a consumare un aperitivo con amici festaioli, meglio se si tratta di uno o più compleanni. Seguili. Non dimenticare mai di non smettere di bere, bevi e se ti dovessi ritrovare a cena in una baita a duemila metri prova la grappa di genziana. Ormai non sei più ubriaco, diffondi la calma di chi non sente più niente, sei folle, il tuo pensiero è incoerente e ti sembrerà di essere così da sempre. Alle sette del mattino puoi finalmente buttarti a letto ma dovrai assicurarti che qualcuno ti sveglierà per un pranzo con forti bevitori della domenica in questo caso, abituali, per gli altri giorni della settimana. Con loro bevi più che puoi, questa disciplina ti darà la forza per non dormire. Se l’alcol non dovesse bastare ricordati dell’energia libidica, ti appoggerà fino alla fine della procedura di “alleggerimento” dell’Io e se ti andrà bene ti darà un motivo per fermarti prima del precipizio, se ti andrà male, ti costerà la vita. Recati nel locale dove conosci i gestori, ti offriranno i cocktail che ti piacciono tanto, poi per sdebitarti con loro berrai birra che se sceglierai bene potrà sostituire la cena. Infine, lasciati consigliare una buona nottata di sonno dal/la compagno/a che ha dato origine a queste settantadue ore di veglia. Quando lunedì mattina ti sveglierai alle otto senza la minima fatica, capirai di non essere più te. Hai consumato la consapevolezza del tuo Io per tre giorni di fila. Sarai vuoto, dovrai ripensare le cose più banali, la tua vita, la tua realtà quotidiana dovranno essere ricostruite pezzo per pezzo. I ponti che avevi innalzato con fatica per riuscire a raggiungere gli altri sono crollati. Dovrai ricostruire tutte le abitudini che ti permettevano di vivere. Capirai che una notte di sonno non ti è bastata, capirai che la ricostruzione sarà dura e che per rimettere assieme il tuo Io come minimo dovrai scrivere. Scrivi per issarti a bordo, per ritrovare l’equilibrio che tanto ti è caro e che per seguire la libido non ti sei posto il problema di conservare. Scrivi per capire meglio cosa è successo, scrivi per comunicare come ti è apparsa la strada che ti avrebbe allontanato dai sentieri battuti. E adesso che sai da dove sei arrivato puoi anche tornare indietro, se ti è andata bene, altrimenti ti costerà la vita. hammpappabuona@yahoo.it


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