Argo X / Questioni di gusto

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Primo semestre 2005, e 2,90

Rivista d'esplorazi

Questioni di gusto


Argo. Numero X. Anno V. Iscrizione al registro del Tribunale di Bologna n. 7393 del 22/12/2003 Direttore responsabile: Francesca Blesio Caporedattore: Carlo Schiavo Redazione: Francesca Blesio, Valerio Cuccaroni, Annabella Losco, Mirco Mungari, Rossella Renzi Collaboratori: Daniel Agami, Marco Benedettelli, Marco Camerani, Elga Disperdi, Filippo Furri, Tommaso Gragnato, The Italian Stallion, Johnson&co., Celso Machado Jr., Serena Terranova, Pierpaolo Totti Hanno collaborato a questo numero: Isabelle Barberis, Giuliano Colliva, Marco De Marinis, Simone Dubrovic, Giulia Ferrandi, Gianni Formizzi Opitz, Nader Ghazvinizadeh, Roberto Gibertini, Jacopo Masi, Massimo Montanari, Neil Novello, Massimiliano Petrelli, Christian Ryder, Piero Schiavo, Gianluca Simeoni, Paolo Sorcinelli, Valentina Spina, Anna Vallarino Si ringraziano inoltre: l’Accademia di Belle Arti di Bologna, Beatrice Bellini, Giuseppe Bellosi, Alex Caselli, il Centro Studi sul Romanticismo (e specialmente Gioia Angeletti e Lilla Maria Crisafulli), Matteo Chiura, Chiara Frezzotti, Oscar Fuà, Angelo Guglielmi, Libreria Modo Infoshop, Yahis Martari, Eleonora Pedron, Francesca Sanzo, University of Georgia - Cortona Program (specialmente Dan Di Caprio e Zack Patton), Daniela Shalom Vagata Elaborazione grafica: Priscilla Bolognesi, Edizioni Pendragon, Via Albiroli, 10 – 40126 Bologna, www.pendragon.it Copertine: da un disegno di Giulia Ferrandi Logo: Simone Mazzieri Sito: www.argonline.it e-mail: argo@argonline.it

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Editoriale Francesca Blesio

Questioni di gusto In realtà nessun essere umano indifferente al cibo è degno di fiducia (Manuel Vázquez Montalban)

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ggi ottocento milioni di persone nel mondo soffrono la fame. Contemporaneamente nel ricco Occidente il bisogno primario di mangiare si allontana sempre di più dal concetto originario di sfamarsi. Non da ieri, comunque. La nostra società, quella che si sceglie di mostrare quasi sempre celando povertà e indigenza comunque presenti, si è accostata nei secoli al cibo con altre istanze complementari a quella dell’elementare nutrimento. L’atto di mangiare non si esaurisce mettendo a tacere uno dei bisogni primari del nostro corpo, ma comprende in sé un ampio discorso inerente alla simbologia propria del cibo e al conseguente complesso ruolo che ha il pasto nella quotidianità e nella vita di un individuo, e l’alimentazione in quella di un popolo e della sua cultura. Ci avviciniamo a conoscere l’Altro anche osservando come mangia, facciamo esperienza di una civiltà anche gustandone i suoi peculiari sapori. E analizzando le sensazioni che proviamo nei confronti del cibo scopriamo molto di noi stessi. Ecco perché anche mangiare può essere un discorso intimo. Feuerbach sosteneva che «l’uomo è ciò che mangia», e da questo pensiero siamo partiti per indagare all’interno di questo numero il legame che unisce il cibo all’io di ognuno di noi. La consapevolezza di ciò che si va consumando è uno dei punti focali della nostra esplorazione. Mangiando siamo, perché mangiando operiamo delle scelte, niente affatto di poco valore; basti pensare all’incidenza che le scelte alimentari hanno avuto nella storia del genere umano. Scrivere dell’uomo attraverso il suo rapporto con la nutrizione vuole dire porsi nella condi-

zione di scrutare quasi tutti gli aspetti della sua natura, poiché il modo di accostarci al cibo (il prima, il mentre e il dopo) interessa sfere diverse del nostro essere: quella etica, quella sociale, quella culturale. Abbiamo deciso di lasciare ad altri le indagini sulle nuove mode della gastronomia, e osservare con il prisma di «Argo» i riflessi che il rapporto tra identità e cibo può creare oggi e quelli che ha disegnato nell’arte e nella storia. Attraverso il cibo si è fatta nei secoli cultura, allo stesso modo, nel rapporto tra l’uomo e ciò che mangia possiamo leggere culture diverse. Secondo il carattere della rivista che curiamo, la nostra attenzione si è soffermata quindi soprattutto sulle sovrapposizioni tra arte, in senso lato, e cibo: da Neruda a Proust, da Petronio a Rossini, passando per Amado e Marinetti e altri artisti ancora. «Si dice che l’appetito vien mangiando, ma in realtà viene a stare digiuni», diceva Totò: parlare di cibo implica riflettere anche sulla sua disomogenea distribuzione. Significa ricordarsi dell’importanza di un suo consumo critico. E criticamente abbiamo cercato di rileggere la storia dell’alimentazione e le relative implicazioni sociali e spirituali. In «Ogra», il volto estroso di «Argo», abbiamo fatto lo stesso. Dai fumetti alla poesia, dalla fotografia ai racconti, tutti i nostri autori hanno indagato il rapporto che lega l’individuo al cibo raccontando scelte e storie diverse; tali per i contesti sociale e spaziale in cui nascono, ovviamente, ma anche e soprattutto, in questo caso, per la fantasia e la poetica di ognuno degli artisti.

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L’ospite Paolo Sorcinelli

Sensi di colpa nutrizionisti Il nostro contraddittorio Occidente, tra la possibilità diffusa di consumare pasti prima impensabili e il terrore di pancia, colesterolo, trigliceridi

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La paura del colesterolo e dei trigliceridi stravolge le nostre sicurezze alimentari. Le nostre pance piene. Ci angoscia come bambini di fronte a un dolce proibito. Il mondo ricco, sereno e sazio vacilla. Dopo la paura della guerra atomica, dopo la crisi petrolifera, dopo l’aids, le Twin Towers e Osama Bin Laden, la rinuncia della bistecca, della frittura di pesce, della panna cotta e delle costine di maiale ha scavato un solco profondo fra dieta e gusto, fra realtà e desideri, buttando all’aria ciò che il miracolo economico aveva sancito come sacrosanto e inalienabile. La paura commestibile nell’era di Internet e del Grande Fratello ci opprime e ci immalinconisce, come se quello dei cibi supervitaminizzati, delle merendine e delle acque minerali che favoriscono la pipì fosse l’unico mondo possibile. Proviamo a riflettere un attimo su questa condizione mentale e alimentare che gli italiani hanno imboccato quasi cinquant’anni fa insieme alla Seicento, alla Lambretta e al frigorifero. Le prime dovevano servire per scoprire le trattorie fuori porta, il secondo a conservare le nostre spese alimentari, sempre più ricche e sostanziose. Era suppergiù il 1958-59. Nel paese dove abitavo, tremila abitanti, c’era un solo spazzino: con una carretta raccoglieva l’immondizia e scaricava il tutto in una piccola fossa a due passi dalle case. Non esistevano praticamente rifiuti: la gente comprava la pasta, la conserva, il tonno, il salame, in piccoli involti di carta oleata o gialla, a seconda della merce. Per l’olio si portava da casa la boccetta. Anche la marmellata o la cioccolata si vendevano a grammi, sfuse. A volte si andava in negozio con la fetta di pane già pronta e il negoziante le spalmava sopra. Il 38% delle famiglie italiane (in dati assoluti quasi quattro milioni e mezzo!) non acquistava mai carne, il 27% faceva un solo acquisto settimanale e il 15% almeno due volte alla settimana entrava in una macelleria. Solo il 20% comprava carne tre o più volte alla settimana. La poca carta che entrava in casa veniva subito riciclata per accendere il camino o la cucina economica. I giornali erano i più contesi perché, per la loro morbidezza, venivano ridotti in strisce da appendere vicino al gabinetto. Il Carosello televisivo fu un colpo mortale alla società del riutilizzo esasperato. Aprì la prima breccia verso la società dell’usa e getta. Fu una grande rivoluzione che preparava, come sempre succede, altre rivoluzioni, soprattutto in ciò che gli italiani (ma non solo) avrebbero mangiato e bevuto. Ma come ci si è arrivati? Con il Ventesimo secolo tutti i paesi europei hanno imboccato con minore o maggiore decisione la strada che avrebbe segnato un radicale cambiamento nei consumi alimentari. All’inizio decretando il passaggio dalla farina gialla di

mais a quella più o meno bianca del grano; nel ventennio fascista sacrificando il sogno della fettina alle esigenze autarchiche che imponevano la distinzione fra alimenti fisiologici dell’istinto e della tradizione italici, e alimenti antifisiologici «apportatori di malattia e di morte». Infine con il passaggio definitivo - dalla metà degli anni Cinquanta - da un’alimentazione in prevalenza cerealicola e vegetale, alle proteine, cosiddette nobili, della carne. Addirittura nello spazio di due decenni, fra gli anni Sessanta e Settanta, il consumo di carne si attestò su livelli superiori alle razioni consigliate dai dietologi. Se nel 1885 ogni italiano consumava in media 11 chili di carne all’anno, nel 1955 il valore era passato a 14 chili, per balzare poi a 46 nel 1974, con una variazione del 27% nell’arco dei primi settant’anni e del 228% nell’arco degli ultimi venti anni. Culinariamente parlando forse questo fu l’unico periodo storico in cui quasi tutti gli italiani poterono soddisfare non soltanto la fame, ma anche il gusto dell’appetito. Dovevamo saldare il conto con l’atavico desiderio di carne. Dovevamo riempire secoli e secoli di privazioni di bistecche, cosciotti e salsicce che gli italiani, generazione dopo generazione, avevano imparato più a sognare che a praticare. Non è forse vero che dopo il principio della naturale frugalità del popolo italiano, profuso a piene mani dai governi monarchico-liberali, il ventennio fascista aveva provveduto a sanzionare una netta divisione fra la religione del pane e la demonizzazione della carne? Che ingrassava e che portava all’impotenza? Eppure tutti sognavano di mangiarne, anche se pochi potevano farlo. Da qualche decennio il mito industrialista e consumista ci ha abituati a convivere con le contraddizioni, nutrizioniste e non. Quelle dei paesi perennemente in via di sviluppo, che fra sottoproduzione, inadeguata assistenza sociale, aumento delle malattie, devono fare i conti con un’endemica sottonutrizione e con le sue conseguenze sanitarie, e quelle del nostro mondo, che consuma il 75% delle risorse totali. Dove, come mette in evidenza il sociologo francese Claude Fischler, «a occupare le menti non sono più né la paura delle privazioni né l’ossessione dell’approvvigionamento», ma l’abbondanza. Cioè la duplice inquietudine derivante dal timore degli eccessi e dei veleni della modernità e dal problema della scelta degli alimenti stessi. Così, dopo i sogni di colossali abbuffate di carne che non c’era e dopo reali abbuffate di carne che abbondava, ora il mangiare ci tenta e ci fa paura. Come l’aria che respiriamo e come la pioggia che ci bagna. E di fronte a un piatto di tortellini bolognesi e di cannoli siciliani ci sentiamo frastornati e atterriti. E, comunque vada, sempre in colpa.


Indice Editoriale L’ospite Scritture

Arte Visioni Musiche Confini

Uomini e dei Tracce L’isola del pop Fino a prova contraria

Questioni di gusto di Francesca Blesio

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Paolo Sorcinelli Sensi di colpa nutrizionisti

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Daniel B. Agami La tavola viaggiante Gianluca Simeoni L’appetito di Casanova Simone Dubrovic L’affettività dei sapori in Marcel Proust Marco Benedettelli I Futuristi e la rivoluzione alimentare Rossella Renzi Il miracolo del pane Celso Machado Jr. La letteratura del cibo tra melanzane e jacas

p. 4 p. 7 p. 12 p. 15 p. 19 p. 23

Justine Thyme Un’antologia tascabile del Novecento

p. 27

Marco De Marinis Teatro di cibo e dei sensi Isabelle Barberis Il teatro della voracità

p. 29 p. 32

Mirco Mungari Il musicista gastronomo

p. 36

Annabella Losco Il (vero) prezzo della produzione alimentare Tommaso Gragnato (a cura di) Languori d’Africa. Colloquio con il direttore di «Nigrizia» Francesca Blesio Figlie infelicemente perfette Roberto Gibertini Incontro vegetariano

p. 38 p. 41 p. 45 p. 49

Marco Camerani «Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio»

p. 52

Massimo Montanari Dal Mediterraneo romano all’Europa medievale. L’evoluzione della cultura alimentare

p. 55

Daniel Agami Telebidone 1982-2004

p. 57

Recensioni Eric Schlosser, Luca Ragagnin, Elisa Biagini, Morgan Spurlock, Mike Patton, siti alimentari e slowfood.it

p. 61

p. 65

Giulia Ferrandi Ti è venuta fame, Dogghy?

Sfumando Punti di fuga

p. 67

Le vie del sale. Ferrocarril AB (Antofagasta-Bolivia) a cura di Francesca Blesio con Alcolismi Letterari a cura di Celso Machado Jr.

p. 68

Copertine ARGO (2000-2004) Pezzi di vetro

p. 72

Ossessioni, memorie e silenzi del cibo – con poesie di Anna Vallarino, Nader Ghazvinizadeh, Jacopo Masi a cura di Rossella Renzi The Italian Stallion Il banchetto nuziale: pida e parssot, figa par tot! Neil Novello Ricotta e Nazionali Johnson&co. Frigòri

La buona novella

p. 75 p. 77 p. 80

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Scritture Daniel B. Agami

La tavola viaggiante Meno tavole rotonde e più tavole calde (Ennio Flaiano)

In un’epoca in cui i prolificanti simposi dedicati ai più svariati argomenti accademici vedono il momento topico non dichiarato per i partecipanti (dottori, professori ed eruditi in generale) nella fatidica pausa pranzo, un lussuoso buffet in cui studiosi e cuochi si confondono (i primi per mangiare le vivande, i secondi per addobbarle e cucinarle), si può facilmente dimenticare il significato che il termine simposio, o convito, o banchetto ha assunto nella storia delle espressioni artistiche come la letteratura, l’arte, o il cinema. Vi sono due banchetti in particolare che, nonostante distino tra loro circa millenovecento anni, appartenendo il primo alla letteratura latina d’epoca imperiale giulio-claudia, il secondo alla letteratura filmata, sembrano stare entrambi presso un’unica, lunghissima e coesa tavola.

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levante del banchetto era la poesia, la lirica monodica, o la famelica disquisizione filosofica, nell’episodio della cena del Satyricon il momento principale del pasto è invece tutt’altro che aulico e metaforico, ma visceralmente basso e letterale. Il confronto non è casuale, dato che il convito del Satyricon, volgarmente materiale, ha assunto toni di parodia del banchetto del Simposio platonico, idealmente metafisico. Ma cosa mangiano dunque gli invitati al banchetto dell’ospite asiatico? La descrizione del pasto occupa quasi la totalità del lungo frammento pervenuto. Avventurandosi nella lettura, l’affamato lettore incontra vere e proprie architetture gastronomiche. Gli antipasti sono stuzzichini come «un asinello in bronzo di Corinto con le bisacce piene di olive bianche e di olive nere»5 addobbato da ghiri cosparsi di miele e di papavero, salOltre alla Coena Nasiadesicce, prugne e chicchi di Un viaggio lungo un’unica, uguale e dini, vera e propria protagonimelograno o una gallina versa tavola, che riunisce ai due estresta di una satira di Orazio,1 il con al suo interno uova di banchetto latino rimasto pavone (!), «con un grasso mi uno scrittore latino del Primo secopiù impresso nell’immagibeccafico immerso nel tuorlo dopo Cristo e un regista italiano del nario collettivo è la ancora lo, ben pepato e lardellato». Ventesimo, entrambi capitavola: Petropiù celebre Coena TrimalcioIl pasto vero e proprio, poi, nio e Marco Ferreri nis, il frammento più lungo prevede un gigantesco vaspervenutoci (a tal punto da soio raffigurante le dodici essere stato scisso come costellazioni, con pantaopera a sé stante) del Satyricon di Petronio (I secolo grueliche pietanze al di sopra di ogni segno zodiacale d.C.), che probabilmente deve molto all’antecedente come ceci simili a piccole teste di montone, testicoli e oraziano.2 rognoni, fichi africani, aragoste, torte di cacio e dolci al In una delle sequenze della lacunosa narrazione delmiele, persino un gufo oltre che le immancabili (sic) vulle peripezie di Encolpio e Ascilto,3 veri e propri picari ve di scrofa; quindi un «cinghiale con il berretto in teante litteram, compare un servo, che invita i due a parsta», contornato da maialini e datteri, «un porco gigantecipare alla cena di Trimalcio (tradotto in lingua italiatesco che occupò tutta la tavola», un dolce dalle effigi na come Trimalchione o Trimalcione). I due finiscono priapee di pastafrolla, galline; e ancora «tordi fatti con come commensali alla tavola di questo liberto asiatico. farina di segale e ripieni di uva passa e di noci», cotoÈ proprio nella descrizione gastronomica che il bragne, una mostruosa oca contornata di pesci e uccelli di no letterario trova il suo punto forte, sia per il carattere ogni genere e un gigantesco gallo. comico della narrazione che per quello davvero spettaCome si vede, qui gli alimenti sono veri e propri mocolare delle portate servite. Petronio, in verità, descrive stri6 gastronomici, che non fanno altro che impressioun simposio rovesciato rispetto al modello greco. Ciò nare. L’incommensurabile quantità delle portate, abnon deve stupire, dato che «nella tradizione alta della norme rispetto agli effettivi bisogni dei cenanti, è voluLetteratura conviviale il cibo veniva lasciato fuori scena, tamente iperbolica perché deve stupire, in un delirio di quasi censurato. Il Simposio iniziava proprio dove il grandezza che fa della cena una vera e propria perforBanchetto finiva: la parola dominava sul cibo. Qui avviemance spettacolare, con portate dissimulatrici paradossali, come la gallina che al suo interno contiene uova di ne l’esatto contrario».4 Se nel Simposio di Platone (e nelpavone (e che sottintende, come altre portate, una inla pratica simposiale greca in genere) la portata più ri-


Scritture

gegneria gastronomica piuttosto elaborata e impegnativa). Per tutta la cena «il cibo celebra se stesso e domina incontrastato facendosi materia di spettacolo e discorso», sostiene il latinista Conte, arrivando a sottolineare la sua «volgarità materiale».7 Il cibo offerto è un delirio di abbondanza e lusso, in un andirivieni sfrenato e opprimente di pietanze, che arriva facilmente al disgusto, alla nausea, al vomito e alla bulimia. Analogo è l’uso che del cibo viene fatto in una autentica ricezione novecentesca di questo tipo di simposio, che Marco Ferreri descrive ne La grande abbuffata.8 Il film racconta di quattro amici, tutti stimati professionisti borghesi, ben navigati nelle rispettive carriere, che decidono di rinchiudersi in una villa nei dintorni parigini, circondati in un primo momento solo di cibo, per suicidarsi mangiando, ingozzandosi fino alla morte. Inizialmente soli, decidono di compiere il loro allucinato viaggio necrofilo accompagnati da alcune prostitute e da una pingue, materna e felliniana maestra, la cui stessa carne sarà materia di pasti erotici, scambiata e usata dai vari commensali. Come nel prosimetro di Petronio, anche nel film di Ferreri il rapporto tra cibo e individuo è filtrato da un’iperbole, pacchiana e volgare, e da altrettanto suggestive architetture gastronomiche: in entrambi i casi il cibo non deve sfamare, ma stupire.

Ed esso diventa orgiastico, vero e proprio protagonista di un baccanale, la cui carnalità sessuale funge da sfondo a quella delle vivande preparate. Sono pietanze speciali: come nella Coena Trimalcionis, un delirio barocco che arriva esplicitamente a disgustare perfino i commensali. Stesse portate interminabili, identica reificazione dei cibi lanciati come oggetti ludici, medesime altitudini cibarie dalle innumerevoli decorazioni9 (addirittura in entrambi i casi viene scritto il nome di uno dei commensali, Trimalchione o la maestra, in una delle vivande). Ma in Ferreri l’iperbole iniziata da Petronio continua spingendosi oltre. Abboffarsi viene inteso come masochistica punizione («Mangia, Troia!», è l’imperativo dettato a una prostituta, che, satura dell’alienazione monomaniacale nel cibo, esclama: «Siete grotteschi, grotteschi e disgustosi. Perché mangiate se non avete fame? Non è possibile, non è fame!»). Il cibo è intrinsecamente legato al sesso, come benedizione e come maledizione. Appartiene al primo caso l’uso metaforico che ne fa Tognazzi,10 che paragona il culo di una prostituta a una meringa al cioccolato; e al secondo la scena in cui Mastroianni, solitamente imprigionato nel clichè del latinlover, esclama: «Non si può morire mangiando!», disgustato perché impedito nel raggiungere l’erezione necessaria per un coito anale tentato con la maestra, anche per colpa dell’obesità della partner. Appena due anni dopo Pier Paolo Pasolini riuscirà a concludere l’iperbole accentuandone la violenza e l’assurdità, e idealmente portando a termine il cupo pasto nero di Ferreri, nel suo Salò:11 qui la reificazione di uomo e cibo è ormai completata, e quest’ultimo non esiste, e se esiste non sfama né uccide, ma tortura fino all’estrema degenerazione. E porterà alla Fine, con l’apocalittico banchetto necrofilo a base di escrementi (anzi, di merda) e di patate ripiene di chiodi, le innocenti vittime, in un orrore assoluto.

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Hor., Saturae II, 8. Ipotesi avvalorata, tra gli altri, dall’antropologo e latinista Maurizio Bettini in La letteratura latina, Scandicci, La Nuova Italia, 2000.

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Il Satyricon è un prosimetro attribuito a Petronio, identificato con un proconsole della Bitinia, ed elegantiae arbiter – ‘giudice di cose di gusto e di eleganza’ - fatto suicidare dall’imperatore Nerone, la cui leggenda è lievitata dalla testimonianza di Tacito. Lo storico latino racconta (in Annales, XVI, 18-19) che lo scrittore morì proprio mentre banchettava tra donne, vino e cibo, mangiando e scherzando anziché parlare dell’immortalità dell’anima. Il Satyricon ci è pervenuto fortemente frammentario (soprattutto per la censura che ostacolò le sue fortuna e circolazione nei secoli successivi), al punto che il testo, progenitore del romanzo moderno, non ha una trama omogenea e ricostruibile totalmente, ma una struttura episodica derivata proprio dalla lacunosità dei codici che lo hanno trasmesso. Dal romanzo è stata tratta una versione cinematografica, Fellini - Satyricon (1969) di Federico Fellini, a cui collaborò come consulente di lingua latina Luca Canali, oltre che un Satyricon (1969) di Gianluigi Polidoro interpretato da Ugo Tognazzi. Altri hanno tentato invano di trasporre sullo schermo il testo di Petronio, compreso Pier Paolo Pasolini, che avrebbe dovuto girare dal prosimetro il film Petronio, rimasto solo un progetto. Gian Biagio Conte, L’autore nascosto, Bologna, Il Mulino, 1997. La traduzione a cui si fa qui riferimento è quella più letteraria che filologica che fece uno scrittore italiano, Piero Chiara (Petronio, Satiricon, Milano, Mondadori, 2000), a cui si rimanda anche per le successive citazioni, ove non specificato. Piero Chiara, che tradusse l’opera nel 1969, adattò il testo latino alle esigenze di un lettore contemporaneo: rese dunque il Satyricon un romanzo prosastico, suddividendolo addirittura in capitoli e omettendo le interpolazioni in versi, come lui stesso avverte nella Nota introduttiva. Successive furono poi vere e proprie riscritture, tra cui è interessante ricordare quella fatta dal poeta e italianista Edoardo Sanguineti (Il gioco del Satyricon, Torino, Einaudi, 1970) e quella recente del latinista Luca Canali (Satyricon: se Petronio l’avesse scritto oggi, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1999), ambientata ai giorni nostri. Dando al termine il significato etimologico che ha monstrum, di ‘stranezza meravigliosa’.

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Gian Biagio Conte, L’autore nascosto, cit. La grande abbuffata (Italia/Francia, 1973, t.o. La grande bouffe) di Marco Ferreri, con M. Mastroianni, U. Tognazzi, P. Noiret, M. Piccoli, A. Ferrèol, fu scritto dallo stesso Ferreri con R. Azcona. Il film fu censurato (l’unico network televisivo che lo trasmise integralmente fu l’allora pay tv Tele+1), ma vinse il Premio della Critica al XXV Festival di Cannes. Fu distribuito anche nei paesi di lingua anglofona come Blow-out. Le pietanze furono create dal ristorante parigino Fauchon e il film si è avvalso della consulenza di Giuseppe Maffioli come assistente gastronomico, coadiuvato dallo chef Jacques Quellenec. Non a caso gestore di un ristorante nella fictio del film, ma anche nella vita grande gastronomo. Cfr. Ugo Tognazzi, L’abbuffone, Cava de Tirreni, Avagliano editore, 2004, che contiene anche un’interessante testimonianza documentaria sul film. Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pier Paolo Pasolini con P. Bonacelli, E. De Giorgi, I. Pellegrini; fu scritto dallo stesso Pasolini con Pupi Avati (e Sergio Citti), traendo il soggetto dal romanzo erotico Le 120 giornate di Sodoma (17821785) del marchese De Sade.


Scritture Gianluca Simeoni

L’appetito di Casanova Il rapporto di Giacomo Casanova con la buona cucina e con il cibo è stato un elemento costante e indissolubile che lo ha accompagnato per tutto l’arco della sua lunga esistenza e sin dall’inizio il destino pare averci messo lo zampino se, come egli stesso racconta nei Mémoires:«Mia madre mi mise al mondo a Venezia il 2 aprile, giorno di Pasqua dell’anno 1725. Ebbe voglia di gamberi. A me piacciono molto». Il vero manifesto casanoviano relativo al cibo e alla buona tavola, anche se in realtà è inerente a tutta la sua filosofia di vita, risiede nella prefazione ai Mémoires, dove in poche sintetiche righe distilla le sue preferenze in campo gastronomico e non solo…

la quale passa una delle notti più indimenticabili della sua vita. In questo frangente il cibo svolge un ruolo determinante e Casanova è ben conscio dell’importanza che esso ricopre, visto che si premura di curare la cena fin nel più piccolo dettaglio. Si spinge addirittura al punto di fare una prova generale nel suo casino di San Moisé con il cuoco che ha assoldato. Fortunatamente tutto era squisito […]. La cacciagione, lo storione, i tartufi, le ostriche e i vini, tutto era perfetto. Gli rimproverai solo d’avere dimenticato di mettere su di un piatto delle uova sode, delle acciughe e degli aceti profumati per l’insalata. […] Gli dissi anche che per la prossima volta desideravo delle arance amare per aromatizzare il punch e che volevo rum, non rac. […] Avvertii il cuoco che per il dessert desideravo tutta la frutta fresca che avrebbe potuto trovare e soprattutto dei gelati.3

Amai i piatti dal sapore forte: il pasticcio di maccheroni preparato da un bravo cuoco napoletano, l’oglia potrida, il merluzzo di Terranova molto vischioso, la Questa cena immortalerà il cavaliere di Seingalt cacciagione il cui aroma confina con il puzzo e i forcome il grande conquistatore di donne noto ormai a tutmaggi la cui perfezione si rivela quando i piccoli esseti e consacrerà l’ostrica al ruolo di cibo afrodisiaco per ri che li abitano cominciano a diventare visibili. Per ciò eccellenza, specie se manche riguarda le donne, ho giata nel modo inusuale e sempre trovato che quella Nella vita di Giacomo Casanova cibo e innovativo proposto dal veche amavo aveva un buon neziano: «Ci divertimmo a odore e più la sua traspiradonne sono uniti da un particolare lemangiare ostriche passanzione era forte più mi semgame, quello della golosità e della vodocele quando le avevamo brava soave.1 racità. Il richiamo della carne emerge

già in bocca. Che buona salsetta quella che accompagna un’ostrica succhiata dalla bocca del proprio amore!».4 Queste sono parole in cui vibra tutta la passione erotica suscitata dalla chiara allusione ostrica/lingua, ma da cui traspira ed emana il profumo delle arance utilizzato per il punch, la freschezza dei frutti del gelato, l’ebbrezza del rum che ottunde i sensi. Questa esperienza sottolinea anche un forte legame con l’aspetto intellettuale e filosofico instaurato con l’amante della quale ama e mangia non solo il corpo, ma anche la mente. Infatti, durante questa avventura Giacomo alterna il cibo alla cultura: legge passi di vari libri e contempla le stampe a carattere erotico appese alle pareti del casino. Insomma, ha fame di sapere tutto di lei compreso cosa pensa, come ragiona, come parla, come fa l’amore. E questo parallelismo tra mondo gastronomico e mondo del pensiero è una costante anche della nostra vita, se pensiamo che espressioni quali «divorare un

con vigore nei testi e nella vita dello

Si palesa così un ulterioscrittore re legame con un’altra delle sue passioni, sicuramente la più nota al grande pubblico: le donne. Ma cosa può accomunare questi due elementi – cibo e donne – nella vita di Giacomo Casanova? L’aspetto che funge da comune denominatore è certamente la golosità, l’appetito, la voracità con la quale egli affonda i denti in ognuna di queste passioni: la prolificità mista all’ingordigia nei suoi rapporti con le donne e il grande appetito e curiosità per tutto ciò che è commestibile. Ed è proprio su questo punto che vogliamo porre l’attenzione.2 Una delle situazioni maggiormente esemplificative del rapporto cibo-donne si svolge quando Giacomo, attorno ai trent’anni, va incontro a una delle esperienze amorose più importanti della sua esistenza: quella con M.M., una monaca amante del cardinale De Bernis con

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Scritture

libro» oppure «assimilare un’idea» fanno ormai parte del nostro linguaggio quotidiano. Nel caso di Casanova si direbbe quasi che prepara varie portate di una cena a base della sua amata, avanzando per gradi verso l’atto finale in una specie di cannibalismo amatorio che però non ha nulla di cruento e sanguinario.

gusto squisito. […] I maccheroni al sughillo, riso a volte pilav a volte in cagnoni e la olla podrida: tutti cibi che facevano parlare. […] Davo loro [agli invitati, N.d.A.] uova fresche e burro più gustoso di quello rinomato di Vambre. Poi maraschino di Zara a profusione, buono come non lo si trovava da nessuna parte.5

Dopo essere fuggito dai Piombi, dove ebbe modo di patire la fame ma anche di sperimentare le proprie doti di cuoco con i poveri mezzi che aveva a disposizione, Casanova si reca in Francia e più precisamente a Parigi. Qui ha la possibilità di frequentare la corte e osservare da vicino il sistema gastronomico d’oltralpe costituito da infinite portate e piatti che diventano di moda semplicemente a seguito di una frase benevola della regina. Diventa milionario e acquista una casa fuori Parigi dove offre pranzi ad amici e conoscenti avvalendosi delle capacità della Perla, la cuoca che ha assunto.

La voglia di stupire gli astanti è pari alla sensazionalità dei cibi offerti: nulla deve essere paragonabile a quanto egli concede ai propri invitati, a costo di spendere cifre abnormi. Per Casanova la tavola si fa il luogo eletto per conquistare non solo le donne, come si potrebbe pensare, ma anche importanti uomini d’affari: il cibo e la parola diventano il veicolo prediletto di un uomo la cui filosofia incarna al meglio il secolo nel quale vive. Affrontare ogni situazione ed esperienza con la consapevolezza che hanno un inizio e una fine, gustare i momenti che trascorrono in un lampo subitaneo, non sono null’altro che l’essenza del pensiero casanoviano e settecentesco in particolare: «Coltivare il piacere dei sensi fu per tutta la mia vita la mia principale occupazione e non ne ebbi mai altra più importante».6 I sensi devono inebriarsi vicendevolmente come un unicum armonico in cui un elemento influenza l’altro, sicché l’udito resta incantato dalle parole ma anche dallo stordimento subìto dal palato per mezzo del cibo e delle bevande creando un vortice che induce al raggiungimento del piacere. Dalla tavola all’alcova, il passo è breve. Per lui fare l’amore non è altro che l’espressione del desiderio di mangiare. E «mangiare è il grido più antico dell’uomo».7 Ma in Casanova questo grido primordiale, questo urlo primigenio assume una connotazione ancora più profonda e intrinseca: il piacere della gola si unisce al piacere della carne con lo scopo comune di riempire un vuoto che, nel primo caso, è quello dello stomaco e nell’altro quello di una compagna. Se poi si vuole aggiungere un’ulteriore sfumatura di stampo filosofico quale il riempimento di un vuoto di pensiero, si viene a chiudere quel cerchio che vede Giacomo Casanova assimilare la donna in ogni sua componente. Egli infatti cerca di porre rimedio al vuoto dell’anima misto al vuoto dello stomaco non soltanto per recuperare forze, ma anche per assumere nuovi concetti e nuove nozioni di un mondo in continua evoluzione che gli permetterà di partire alla conquista di altre donne e altri banchetti. Ma come mai Casanova mangia così a dismisura e assapora così tante donne dall’estrazione sociale diver-

Facevo alimentare i polli con riso tenendoli chiusi in una stanza buia; riuscivano bianchi come la neve e di

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sa l’una dall’altra? Cosa lo spinge a provare esperienze gastronomiche ed erotiche tanto differenti? Probabilmente è mosso da un concetto di dieta non unilaterale anche a livello di pensiero: egli non nutre il proprio corpo sempre con lo stesso cibo così come non si accompagna sempre allo stesso tipo di donna e di conseguenza è aperto a ogni nuovo modello di idea. Mangiare sempre il medesimo alimento, per quanto raffinato, può diventare monotono e noioso. E allora si abbandona a donne nobili e a servette pulciose, a piatti sugosi e a misere zuppette sempre senza la benché minima riserva mentale, in pieno accordo con il pensiero illuminista del quale è degno rappresentante. Non corre certo il rischio di abbuffarsi, di fare indigestione, e di sicuro male si adatta a lui la regola monastica del poco cibo mangiato in silenzio. E questa regola la aborrirà anche a Dux in Boemia dove si trova, ormai alla fine dei suoi giorni, a gestire la biblioteca del conte Waldstein. Anche lì continua a cercare il gusto del buon piatto cucinato comme il faut e si infuria contro i cuochi del castello perché non gli cucinano a dovere i maccheroni. E pure sul letto di morte questo filo continuo con il cibo non lo abbandona e chiede, come ultimo desiderio, di poter mangiare dei gamberi esattamente come aveva fatto sua madre alla vigilia della sua nascita. In questo modo, il 4 giugno 1798 si conclude la sua vita così com’era iniziata, e il cerchio si chiude. 9

Il ritratto che si delinea mette quindi in luce un uomo che diede molta importanza all’aspetto gastronomico in ogni tipo di relazione che intraprese e soprattutto nei rapporti interpersonali. Il binomio cibodonne è pressoché obbligato nelle pagine dei Mémoires, come se il pasto fosse il viatico imprescindibile al banchetto sessuale. Ogni amplesso anche reiterato nell’ambito dello stesso incontro, veniva preceduto da piatti succulenti e ghiotti e non si può pensare che questo fosse solo un mezzo per recuperare forze in vista dell’ennesima fatica. Lo si può considerare invece alla stregua di un rito sacrificale dove la fanciulla viene mangiata, gustata, assorbita, metabolizzata ancora prima d’essere goduta fisicamente. Uno scambio di sensazioni – quella sessuale e quella del gusto – che soddisfa l’esigenza casa-


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noviana di eccitare e placare i sensi. La ricerca del godimento ad ampio raggio è ciò che muove Casanova a dedicarsi sia al cibo che alle donne con la medesima applicazione. Per lui sono semplici sfaccettature di un diamante più complesso che comprende anche la scrittura, la musica, gli odori, la parola e che danno forma all’universo dell’uomo settecentesco per eccellenza. Il godimento che pervade la coscienza e coinvolge i sensi. Il dettaglio nella descrizione e nella preparazione dei cibi così come in quella degli incontri sessuali, fa parte di una liturgia ben precisa dove ogni attimo viene vissuto e filtrato in pienezza e profondità. Vige in tutto ciò un parallelismo tra donna e cibo che si sublima, nel primo caso, su un letto e nell’altro sul tavolo, consentendo però lo scambio dei protagonisti e delle parti con la conseguente commistione dei sensi: e in questo Casanova, diamogliene atto, si è dimostrato un perfetto buongustaio.

Note 1

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Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, A. Mondadori, 1964, vol. I, p. 30. All’interno dei Mémoires sono innumerevoli gli episodi in cui viene toccato l’argomento gastronomico. Per non risultare troppo prolissi, ci limiteremo a evidenziare solo quelli giudicati più interessanti rinviando i lettori che intendessero approfondire la materia a un’opera che la tratta esaurientemente: Jean Bernard Naudin, Casanova un goloso libertino, Venezia, Canal & Stamperia, 1998. Giacomo Casanova, Storia della mia vita, cit., vol. II, p. 455. Ivi, vol. II, p. 480. Ivi, vol. III, pp. 305-306. Ivi, vol. I, p. 29. Piero Chiara, Sali & Tabacchi, Milano, A. Mondadori, 1989, p. 265.


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Afrodite in cucina Si dice che Afrodite fosse una buona forchetta, ma di cosa si cibasse per rimanere così in forma e per continuare comunque a provare un appetito (anche sessuale) così vivace, non ci è stato tramandato. Da lei, com’è noto, prende il nome tutto ciò che ha il potere di stimolare o aumentare il desiderio sessuale, detto afrodisiaco, appunto.

Le leggende popolari vogliono che a favorire l’appetito erotico siano aragoste, caviale, frutti di mare crudi. Non proprio cibi per tutte le tasche. Per finanze meno fornite, l’orto di casa offre sedano, asparagi, peperoncino e aglio. Il senso che in molti animali (e umani) accende gli istinti è l’olfatto, che si dice venga stimolato anche da droghe come pepe nero, senape, zenzero, noce moscata, chiodi di garofano, cannella (attenzione al vin brulé, quindi), zafferano, tartufo, che con le sue potenti emanazioni di sostanze simili a ormoni, eccita non solo i maiali (a lungo usati per scovarlo sotto le radici delle Farnie). Dell’aglio sappiamo che attraverso l’aliina, convertita in allicina con la cottura, agisce come potente cardioregolatore antibiotico. Al pepe, che con i suoi alcaloidi (soprattutto piperina e piperettina) e con l’acido idrocianico, possiede proprietà di stimolatore, sono attribuite misteriose capacità.

Un tempo era preziosissimo: i romani lo usarono come moneta, mentre l’elevato costo raggiunto nel Rinascimento spinse i portoghesi a trovare una via di mare per l’India. Miracolose, dicono, le uova, più facili da reperire del tartufo e meno costose. Muhammad An-Nafzawi nel tredicesimo secolo le suggerisce per favorire e potenziare le proprie prestazioni: «Chi per alcuni giorni mangerà uova fritte con mirra, cannella e pepe, potrà constatare un inconsueto vigore nel coito e un miglioramento nell’erezione: il suo membro giungerà a un tal grado di turgore che sembrerà non avere più riposo». Nel Giardino Profumato, uno dei protagonisti, nutrito di molte cipolle, ceci, e rossi d’uovo, costretto ad accoppiarsi per cinquanta notti di fila, supera brillantemente la prova fermandosi solo dopo 60 giorni di prestazioni irreprensibili. Cucinare è un atto d’amore, un modo per trasmettere e condividere piacere. La chimica presente in natura è spesso più potente e coinvolgente della chimica di sintesi, e le alchimie che avvengono sui fornelli hanno un fascino diverso da quello di una pastiglia di Viagra nel Cuba Libre. 11 Gianni Formizzi Opitz


Scritture Simone Dubrovic

L’affettività dei sapori in Marcel Proust La nostalgia è il ricordo del calore del nido (G. Bachelard)

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Nel Contre Sainte-Beuve, opera uscita postuma ma Richard nota anche come rivesta una grande imporprecedente la Recherche, Marcel Proust racconta, immetanza la ricorrenza di pranzi, di cene, di colazioni, le dediatamente all’inizio, un episodio straordinariamente scrizioni di cibi e bevande in tutta la grande opera familiare ai lettori di Du côté de chez Swann. Tornato a proustiana. L’oralità possessiva risponde anche di tutte casa, intirizzito dal freddo e dalla neve, forse malinconiquelle traslazioni metaforiche cui Proust ricorre per deco, il Narratore si fa servire dalla vecchia cuoca una tazfinire l’essenza di golosità sensuale suscitata in lui dalla za di tè. Assieme al tè vengono portate delle «fette di femminilità. Le spalle nude e rosee delle donne di Rivepane abbrustolito». Non appena inzuppata nella bebelle, indorate dal sole al crepuscolo, gli sembrano pevanda e assaporata, la fetta sci estratti dalla rete; gli di pane libera una sensazioasparagi di Combray, nella Nella Recherche, l’alimento può allune sconosciuta e inaspettaloro untuosità, rendono un ta, piena di felicità. Il Narrasapore come dovrebbe dere a una aspirazione di intimità o a tore vi ritrova involontariaaverne la carne di fanciulle una possessività violenta. E il suo samente l’essenza di un passhakespeariane; le fragole pore potrebbe esprimere tutte le tonalisato liberato dagli anni e nel formaggio gli paiono le tà dei desideri profondi di una vita psidalla memoria cosciente e guance vellutate della sicologica illusiva. Risente vive e dense gnorina Vinteuil. di verità non intellettuale le impressioni della sua infanLa qualità di molle dolzia. In Du côté de chez Swann le fette di pane abbrustolicezza dell’universo alimentare proustiano non si rivela to vengono sostituite dai più riconoscibili (talora tropmai direttamente. Essa è annunciata e raggiunta dopo po riduttivamente riconoscibili) biscotti, le petites mala breve resistenza di una durezza accogliente, non ostideleines, dolci «corti e paffuti». L’effetto è lo stesso: atle. Tale dialettica vorrebbe avere una segreta corrispontraverso questa sensazione gustativa si schiude vivida e denza affettiva nella rivelazione dei sentimenti e delle improvvisa l’appartenenza a un passato che riprende conoscenze amorose. In Proust l’amore è avvertito escorpo. senzialmente come possesso, come assillo di stabilità Tornato anche qui a casa, affaticato dal freddo e da conoscitiva che lentamente vorrebbe assimilare l’esseun segreto logorio, dall’incapacità di scorgere nel future amato nella radianza assoluta di chi ama. ro una risposta possibile di gioia, il Narratore trasale riTuttavia sembra che mai nella realtà effettiva degli scoprendo, affondata imprecisabilmente, una vitalità fiinnamoramenti della Recherche possa trovare una conduciosa di cui non si credeva più capace. Il passato (e la clusione appagata il desiderio cui i sapori gustati semsua felicità) prendono «forma e solidità» uscendo dalla brano alludere. L’incrinatura della gelosia, dopo una pritazza di tè. Ma, di là dal consueto discorso sulla rivelama promessa di felicità, allontana per sempre l’intimità zione memoriale involontaria, perché nel Contre Sainteche poteva gustarsi nella crema al cioccolato preparata dalla cuoca Françoise, nella liquidità rappresa dei forBeuve Proust parla di «pane abbrustolito» e in Swann di maggi, della panna, del burro, alimenti dispensati dalle biscotti «corti e paffuti»? lattaie cui Proust è così affezionato. Quelle lattaie che Il critico francese Jean-Pierre Richard ha spiegato, nel popolano frequentemente le sue pagine e le sue tentasuo libro Proust e il mondo sensibile,1 le ragioni di questo zioni erotiche con apparizioni di bianca, rosea, rigenecambiamento. Nella fenomenologia degli alimenti prourante dolcezza. stiani nella Recherche vi è una costanza e una predilezione per le qualità di dolcezza materica del cibo. La durezUn alimento latteo rappreso in una immediatamenza del pane abbrustolito perciò avrebbe male espresso te conseguente liquidità è il gelato. Esso sembra risponla morbida e consistente omogeneità, l’avvolgente e indere perfettamente alle istanze gustative proustiane. timamente conchiuso senso di ritrovamento interiore Proust non ama aggredire l’oggetto, come nuovamenche invece rendono, nella loro disciolta pastosità, le petite suggerisce l’affascinante Richard, ma preferisce una tes madeleines. lenta invasione e penetrazione, definita felicemente dal


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critico francese «quietismo alimentare». Però tale disposizione racchiude un senso sottilmente doloroso, presaga di un ripiegamento di contemplazione solipsistica degenerante nell’«inumano mondo del piacere». Quando Albertine, la cui figura si offusca già della gelosia del Narratore, fa un elogio estenuatamente inaspettato del gelato, all’amante inquieto non sfugge il tono voluttuario e sensualmente distruttivo: «Quanto ai gelati […], ogni volta che ne mangio, templi e chiese, obelischi e rocce, è innanzitutto una sorta di geografia pittoresca quella che contemplo, salvo poi convertirne i monumenti di lampone o vaniglia in freschezza per la mia gola». E ancora: Mio Dio, ho paura che al Ritz troviate delle colonne Vendôme di gelato - gelato di cioccolato o di lampone - e ce ne vorranno parecchie, allora, perché abbiano l’aria di colonne votive o di pilastri eretti lungo un viale in gloria della Freschezza. Di lampone fanno anche degli obelischi, che s’innalzeranno a intervalli nel deserto bruciante della mia sete, e di cui farò fondere il granito rosa in fondo alla mia gola ch’essi sapranno dissetare meglio di qualsivoglia oasi (e qui scoppiò in una risata profonda, o per soddisfazione di parlare tanto bene, o per burlarsi di se stessa per via di quelle immagini così perfette, o infine, ahimè, per la voluttà fisica di sentire dentro di lei qualcosa di così buono, di così fresco, che le procurava l’equivalente di un orgasmo). [trad. di G. Raboni]

Nelle parole di Albertine si determina una commutazione negativa, di aggressione rovinosa, non compatibile se non come rovescio demonico della quieta degustazione, che Proust vorrebbe estranea a fratture e lacerazioni. La stessa freschezza di cui Albertine vanta l’orgasmo quasi ferale è un valore alimentare altrove positivo. Quando Swann cade preda di un angoscioso attacco di gelosia sorseggia un’aranciata fresca. Vicino,

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le sagome sfuggenti e sospette dell’amata Odette e del rivale Forcheville. La freschezza dell’aranciata mitiga e rigenera la ferita di Swann, quasi in una straziante compensazione assimilativa, per tramite della bevanda, dell’impossibilità del desiderio. Sembra dunque non inverosimile proporre un’ambivalenza dei sapori e del cibo nell’universo della Recherche proustiana. Corrono parallelamente due manifestazioni, quella dell’alimento come allusione a un desiderio di intimità e riposo effusivo (quale vorrebbe viverla il Narratore) e quella di una trasmutazione negati-


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va dello stesso sentimento, tradotto nella violenta contesa del possesso. Il sapore, nelle sue manifestazioni all’interno dell’immaginazione proustiana, potrebbe esprimere tutte le tonalità dei desideri profondi di una vita psicologica. Il motivo del ricordo che corrode in un’utilità catalogativa il ben più vasto orizzonte della Recherche, trova nel gusto una sua manifestazione (così come la si trova nell’olfatto, nell’udito, nella vista e nel tatto). Giova precisare però che i termini dell’epifania rivelante non sono per nulla collocati in una compulsività disordinatamente soggettiva. I cibi (come anche tutte le rimanenti oggettività percettive) rispondono a un preciso valore espressivo che rispecchia le affettività in una proiezione materica circostanziata e perspicua. Nel deserto proustiano, affacciato costantemente sulla catastrofe della perdita in tutte le sue implicazioni ramificate, laddove non esiste il conforto dell’amicizia, dell’amore, della costanza, dove tutto sembra irrimediabilmente combusto dall’ordalia di forze dissolventi, rimangono come piccole concrezioni di angelica promessa delle sensazioni, conformi a desideri. Desideri allusi anche se irrealizzabili, caldi come una stanza in cui ci si ripara dall’inaccoglienza del freddo e della propria malinconia.

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Jean-Pierre Richard, Proust e il mondo sensibile, Milano, Garzanti, 1976.


Scritture Marco Benedettelli

I Futuristi e la rivoluzione alimentare di Marinetti, proponeva alcune soluzioni pratiche per le Tutte le avanguardie storiche del Novecento apintuizioni di Apollinaire. Ma lo scoppio della Guerra paiono debitrici verso il Futurismo. Esso è stato il primo troncò, insieme a moltissime altre cose, gli sviluppi di movimento a predicare con lucida consapevolezza l’inevitabile necessità di una rivoluzione totale della forquesto débat avanguardistico-culinario. Esso verrà rima come reazione vitale alla crisi profonda che si stava preso, in maniera decisiva, solo diciassette anni più tarsviluppando dentro l’epoca. Nel Manifesto Futurista, al di (nel 1930), allorquando, provocatoriamente, Marinetpunto 6, si legge: «Bisogna che il poeta si prodighi, con ti decide di ripubblicare il manifesto di Maincave su «La ardore, sfarzo e munificenza, cucina italiana», in quel tempo per aumentare l’entusiastico rivista di punta della gastronoDall’abolizione della pastasciutta, fervore degli elementi primormia nazionale.4 Alla provocazio1 diali». Ciò significa, come avne risponde lo scrittore Massi«assurda religione gastronomica mo Bontempelli che, sulle coviene anche nel Surrealismo o italiana», ai cibi in pillole: le teorie lonne della stessa rivista, propunell’Espressionismo, che è e la storia del Manifesto della cugna il Novecentismo anche a tacompito dell’artista tuffarsi cina futurista vola. La bagattella ha una certa nella profondità più viscerale eco giornalistica e così Marinetdel proprio essere, per riportati, da geniale stratega della core alla luce quelle antichissime municazione, con ribalderia porta avanti la polemica: in forze primigenie con cui plasmare un nuovo parametro occasione di un pranzo mondano tenutosi in onore del di forma, che vada oltre il pantano della storia e le sue mortifere strutture. Il mondo allora è decostruito e ricostruito da capo, secondo una nuova declinazione della forma che coinvolge tutto. In Democrazia futurista, Marinetti scrive: «L’arte è per noi inseparabile dalla vita. Diventa arte-azione e come tale è sola capace di forza profetica e divinatrice».2 La rivoluzione è dunque totale, invade e modifica ogni aspetto dell’esistenza: l’arte innanzitutto, come luogo privilegiato della fenomenologia dell’essere; ma poi anche la politica, la società e le sue consuetudini, il concetto di corpo e pure, come vedremo nel dettaglio, la cucina e l’alimentazione. Il 28 dicembre 1930, nella «Gazzetta del popolo di Torino», appare il Manifesto della cucina futurista, firmato dal solito Marinetti. Il proclama non nasce dal nulla, ma si riallaccia a una discussione iniziata il primo gennaio 1913 con il manifesto Le cubisme culinaire scritto da Apollinaire e pubblicato sulla rivista parigina «Fantasio».3 In esso il poeta esponeva i fondamenti di un nuovo tipo di cucina capace di compiere quella rivoluzione sensoriale che in pittura era stata portata dal cubismo. Sempre nel 1913, in un clima estremamente effervescente, quando di giorno in giorno venivano stilate risme di manifesti, mentre Apollinaire e Marinetti stringevano alleanza sottoscrivendo entrambi L’Antitradizione futurista, nella stessa rivista «Fantasio» appariva l’altro manifesto La cuisine futuriste, a opera dello chef Jules Maincave. Il cuoco, richiamandosi alle idee artistiche

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Futurismo, egli annuncia che il suo movimento sta per sovvertire il sistema alimentare. E così è: il 28 dicembre 1930, come già detto, viene pubblicato il Manifesto della cucina futurista.

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Che cosa asserisce tale manifesto? È fin troppo facile rintracciarvi gli stilemi più classici del Futurismo. Nell’esordio squilla già la tromba della rivoluzione, dacché vi si legge: «Il Futurismo italiano affronta ancora l’impopolarità con un programma di rinnovamento totale della cucina».5 Parole chiave sono: rinnovamento e impopolarità. Il disprezzo per la tradizione passatista si fonde anche qui con «la voluttà d’esser fischiati»,6 di cui già nel 1911 i futuristi si ammantavano in sfregio al tradizionale pubblico teatrale, fatto di «uomini maturi e ricchi, dal cervello naturalmente sprezzante e dalla digestione laboriosissima». Difatti anche qui nel Manifesto della cucina segue subito una clamorosa provocazione: il primo paragrafo è intitolato Contro la pastasciutta. Per prima cosa, nella sua filippica, egli parafrasa il motto di Feuerbach («Si è quello che si mangia») e scrive che «si sogna e si agisce secondo quello che si beve e si mangia». Ciò postulato, si presenta subito il nocciolo della questione: «Noi Futuristi… prepariamo una agilità di corpi italiani», e poiché «nella probabile conflagrazione futura vincerà il popolo più agile, più scattante», è dunque necessario stabilire «il nutrimento adatto ad una vita sempre più aerea e veloce». Prima di tutto va abolita la pastasciutta, «assurda religione gastronomica italiana». Essa, secondo i Futuristi, è un alimento difficilmente digeribile, che appesantisce e assonna, causando negli uomini «fiacchezza,

pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo», non adatta quindi a una razza che vuole farsi più forte. Dopo l’abolizione della pastasciutta Marinetti illustra le altre rivoluzioni da portare a tavola. Secondo la sua prospettiva, la chimica deve impegnarsi nell’inventare cibi in pillole che, distribuite dallo Stato, possano sfamare e nutrire il popolo. In questo modo l’uomo non dovrà più lavorare per procurarsi il cibo. Se a questi traguardi delle scienze chimiche si assomma lo sviluppo prodigioso delle macchine che diventeranno il nuovo «obbediente proletariato», per Marinetti l’uomo in futuro avrà bisogno di lavorare solo due/tre ore al giorno, e potrà così «nobilitare le altre ore col pensiero le arti e la pregustazione di pranzi perfetti». Ma qual è il pranzo perfetto? Per prima cosa egli suggerisce due specialità: prima Il Carneplastico, assurda vivanda di forma fallica, costituita da un cilindro verticale di carne ripieno di undici qualità di verdure, che poggia su un anello di salsiccia e tre sfere dorate di carne di pollo e coronato da uno spessore di miele; quindi, la vivanda Equatore + Polo Nord che, con una rossa distesa di torli d’uovo su cui si erge una bianca montagna di albume solidificato con spicchi di arancio-sole incastonati e «pezzi di tartufo nero tagliati in forma di aeroplani negri alla conquista dello zenit», evoca la fusione dei due orizzonti antitetici nella simultaneità che abolisce lo spazio. Negli altri punti del suo manifesto, poi, Marinetti afferma che bisogna mangiare con le mani e che vanno abolite le posate, poiché il cibo deve dare «un piacere tattile». Egli auspica inoltre dei «bocconi simultanei che contengano dieci, venti sapori da gustare in pochi attimi», capaci di «riassumere una intera zona di vita».


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Siamo di fronte a due cardini dell’estetica futurista: il tattilismo e l’analogia. Al primo Marinetti aveva già dedicato due manifesti, nel 1921 e nel 1924, nei quali si predicava la necessità di riabituarsi a un profondo contatto fisico con la materia, affinché il corpo tornasse a compartecipare dell’energia che circola nell’universo. L’analogia, invece, è uno degli elementi più significativi del pandinamismo vitalistico dei futuristi. Essa, come si legge nel Manifesto tecnico della lettura futurista, è la stretta rete con cui si abbraccia «ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia», e muove dall’«amore profondo che collega le cose distanti».7 Il Manifesto della cucina futurista suscita subito accese discussioni, che si riflettono su numerosissimi giornali, soprattutto satirici; a destare lo sbigottimento generale è soprattutto la campagna contro la pastasciutta. Nel 1931 addirittura la polemica supera i confini nazionali e trova posto in giornali francesi, inglesi, tede-

il libro La cucina futurista, curato da Marinetti e Fillìa, che raccoglie tutto il materiale accumulato in un anno di campagna gastronomica.9 Oltre al manifesto, il volume riporta tutte le cronache giornalistiche dei banchetti futuristi, nuove ricette e istruzioni per perfetti pranzi futuristi e inoltre un «piccolo dizionario della cucina futurista», che chiude il libro, e un racconto inedito, dedicato al rapporto tra eros, plasticità e cibo, che lo apre. Nel capitolo delle ricette, intitolato I pranzi futuristi determinanti, c’è un piccolo paragrafo introduttivo. In esso si torna esplicitamente a insistere sulla relazione tra rivoluzione alimentare e allevamento di una nuova razza.

schi e americani. Tra il 1931 e il 1932 Marinetti tiene numerose conferenze e arriva a riferire le ragioni della sua arte culinaria fino in Turchia e in Romania. Intanto, in tutta Italia, viene organizzata una serie di banchetti futuristi anch’essi ampiamente documentati dalla stampa.8 In seguito a tanto scalpore mondano, nel 1932 esce

Posto che il Futurismo negli anni Trenta aveva oramai perso, dopo l’istituzionalizzazione del Fascismo, molto della sua spinta propulsiva, imbolsendosi sia nella produzione artistica che nell’azione culturale, non dobbiamo dimenticare, come già accennato, i propositi totalizzanti insiti nel progetto della avanguardia futurista. Dietro l’idea di una rivoluzione alimentare, che passa attraverso ricette davvero fantasiosissime, di sbalorditivo impatto plastico-visivo, e la geniale e spaccona irrisione delle consuetudini borghesi intorno alla tavola, emerge l’anelito alla manipolazione anche corporale dell’uomo. Il cibo nuovo è conforme alla volontà di creare un uomo nuovo, un uomo metallizzato che nelle nuo-

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ve forze della meccanicizzazione, divenute orribilmente evidenti fra le trincee della prima guerra mondiale, crede di scorgere il lume divino della sua nuova epoca. Nasce allora una nuova mistica che coinvolge pure le abitudini alimentari.

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Luciano de Maria (a cura di), F. T. Marinetti. Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1983. Ivi, p. 365. Per i riferimenti bibliografici relativi ai manifesti e agli articoli citati in questo paragrafo, rimandiamo direttamente a: Claudia Salaris, Cibo futurista. Dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, Roma, Stampa alternativa, 2000, pp. 20-31. In realtà già dieci anni prima era arrivato dal movimento futurista un altro proclama alimentare. Una sedicente Irba Futurista, nel manifesto Culinaria futurista, apparso su «Roma futurista» il 9 maggio 1920, predicava un rinnovamento del-

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le abitudini alimentari soprattutto mediante la rivoluzione della ceramica da tavola, che doveva essere sgargiante e geometricamente inconsueta, in sberleffo dei noiosissimi servizi da corredo borghesi. La proposta nasce in un momento in cui il Futurismo è molto impegnato nel rinnovamento delle arti plastiche e decorative. In quegli anni, tra le altre cose, a Roma e a Milano aprono vari cabaret arredati in design futurista, dove Marinetti legge alcuni dei suoi famosi proclami antimonarchici e anticlericali. (Cfr. ivi, pp. 30-31). Il Manifesto della cucina futurista è citato da: Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi & C., 1986, pp. 25-34. Luciano de Maria (a cura di), F. T. Marinetti. Teoria e invenzione futurista, cit., p. 310. Ivi, p. 49. Per un approfondimento documentaristico di questo biennio cfr. Claudia Salaris, Cibo futurista. Dalla cucina nell’arte all’arte in cucina, cit., pp. 42-61. Filippo Tommaso Marinetti e Fillìa, La cucina futurista, Milano, Sonzogno, 1932.

Due pasti futuristi

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Il 12 gennaio 1910 i futuristi sono a Trieste: performance nella prima serata propagandista del movimento, poi tutti al Politeama Rossetti per lo sperimentale cenone sovvertitore di gusti e di abitudini, che cominciava con il dolce e finiva con l’antipasto. Il menu è di Mario Nordio (vd. Guido Botteri e Vito Levi, Il politeama rossetti 1878-1978: un secolo di vita triestina nelle cronache del teatro, Trieste, Editoriale Libraria, 1978, p. 215): «caffè, dolci memorie frappes, frutta dell’avvenire, marmellata di gloriosi defunti, arrosto di mummia con fegatini di professori, insalata archeologica, spezzatino di passato con piselli esplosivi in salsa storica, pesce del mar morto, grumi di sangue in brodo, antipasto di demolizioni, vermouth». Ma il primo pranzo ufficiale futurista si tenne solo una ventina di anni dopo, l’8 marzo 1931 a Torino alla Taverna Santopalato (nome coniato dallo stesso

Marinetti); la lista prevedeva (da: F.T. Marinetti e Fillìa, La cucina futurista, Milano, Longanesi & C., 1986, pp. 94-95):

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Antipasto intuitivo Brodo solare Tutto riso con vino e birra Aerovivanda tattile, con rumori ed odori Ultravirile Carneplastico Paesaggio alimentare Mare d’Italia Insalata mediterranea Pollofiat Equatore + Polo Nord Dolcelastico Reticolati del cielo Frutti di Italia (composizione simultanea).

[m.b., m.c. e c.s.]


Scritture Rossella Renzi

Il miracolo del pane ti inadeguati all’arte poetica, donano semplicità e traÈ curioso scoprire come un poeta dello spessore e sparenza a questi brani originali. All’occhio appaiono lidella fama di Pablo Neruda abbia voluto dedicare una neari: sono componimenti lunghi, caratterizzati da una parte della sua vastissima produzione in versi al cibo. certa asciuttezza espressiva, Tra le Odi Elementari, scritte nel 1954, quando il maestro da versi brevi o brevissimi, fatPablo Neruda nelle Odi elementari compie cinquant’anni, si posti anche di una sola parola o sono selezionare una serie di da una semplice particella, celebra la magia di alcuni cibi che testi che parlano di alimenti, che dispongono il testo come nascondono una misteriosa armoin particolare di ortaggi e frutuna colonna sinuosa e sottile, nia tra uomo e natura e suggeriscota, sapientemente raccolti nel accompagnata dal ritmo inno una comunanza fra popoli volume Ode al vino, e altre odi tenso dovuto all’impeto verelementari.1 bale dell’autore. Elementari lo sono per i L’amore del poeta riesce a temi affrontati e per il linguaggio utilizzato, che insieme valorizzare l’umiltà degli alimenti, tanto insignificanti e tendono alla scelta estetica propria dell’Ode. Ode, tra le persino ridicoli - se si pensa al carciofo o al cocomero sue possibili declinazioni, viene qui intesa nell’acceziocome oggetti di lirica –, attraverso un atteggiamento di ne etimologica greca di canzone, ricollegandosi così a «religioso rispetto». Il materialismo di Neruda, infatti, certa poesia classica di stile semplice, argomento meno nelle Odi diviene atto spirituale: egli avvicina l’esperienelevato e versi brevi. Il tipo di scrittura, elementare, è limza del quotidiano, la considerazione di una cipolla o di pido, immediato e accessibile al maggior numero di letun’arancia, a una dimensione «estatica e visionaria»:2 tori; è quello che più si addice all’argomento trattato. Il verso prosastico, le parole della quotidianità, le espres… Sia arancione / la luce / di ogni / sioni della tavola, tutti elementi solitamente consideragiorno, / e il cuore umano, / i suoi grap-

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poli, / sia acido e dolce: / sorgente di freschezza / che abbia e che preservi / la misteriosa / semplicità / della terra / e la pura unità / di una arancia.3

Il poeta si fa artefice di una magia straordinaria, fatta di accordi e fragranze che abitualmente vengono ignorati, a causa della loro consueta presenza sulle tavole, e per la frenesia della contemporaneità. I versi si assaporano in modo diretto e sciolto, come può avvenire la degustazione di un piatto genuino e saporito, stimolando il desiderio di continuare a nutrirsi di quelle parole, di quelle sensazioni. Questa esperienza permette di scoprire il buono e il bello della natura, dell’uomo e insieme delle sue opere; così il limone arriva a essere un’opera architettonica: Nel limone i coltelli / han tagliato / una piccola / cattedrale, / l’abside nascosto / aprì alla luce le acide vetrate / e in gocce / scivolarono i topazi, / gli altari / la fresca architettura.4

oppure la forma sensuale del corpo femminile e insieme della madre terra: uno dei capezzoli profumati / del petto della terra, / il raggio della luce ch’è diventato frutta, / il fuoco minuto di un pianeta.5

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Sapori e profumi nutrono il corpo e la mente dell’uomo, stimolano le percezioni più diverse, che si fissano nel pensiero catturando momenti e circostanze della vita che non si possono dimenticare. La prugna, per esempio, diviene frutto della memoria: l’inaspettato contatto con il suo colore, la sua forma e il suo gusto concedono al poeta di rivivere momenti dell’infanzia, di tornare a essere «quel ragazzino silvestre», quando ne racchiude una tra le mani: … / Io, piccolo / poeta, / con i primi / occhi / della vita, / andavo / a cavallo / dondolando / sotto le chiome / dei prugni. // È così che da bambino / potetti / aspirare / da / un ramo, / da una fronda, / l’aroma del mondo, / il suo garofano / cristallino…6

La galleria dei cibi viene accompagnata dal succo conviviale per eccellenza, esaltazione degli affetti e dell’amore, velluto corale e scambievole: il vino, «… amicizia degli esseri, trasparenza, / coro di disciplina, / abbondanza di fiori».7 La vivacità dei toni, la schiettezza degli aromi danno poi l’immagine della genuinità ed esemplarità del rapporto umano. Da qui si legge il «vitalismo umanitario e solidaristico» dell’autore - come lo definisce De Cesare nella sua introduzione -,8 che ora più che mai scrive in modo trasparente, affinché la poesia sia per tutti, proprio come il miracolo del pane, alimento che rappresen-


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ta l’unione e la comunanza di tutti i popoli. Queste ultime vengono ribadite dalla saporita semplicità dei frutti della terra. Si pensi per esempio alla patata, utilizzata nelle cucine di tutte le culture, a cui Neruda dedica ben due odi: Ode alla patata e Ode alla patata fritta. Essa ha per patria d’origine l’arcipelago cileno di Chiloè, ed è considerata alimento universale che ha sfamato intere popolazioni, specie durante i momenti di carestia: è dunque «tesoro interminabile / dei popoli».9 Dai versi chiari e luminosi traspare dunque l’intenzione primaria dell’autore, quella di disporre le cose «de acuerdo con el hombre y con la tierra»,10 evidenziando l’armonia, la sintonia che vige in natura. Essa vive nel cibo, negli alimenti essenziali che sono i fondamenti della cucina della sua terra, il Cile. Ed è forse contenuto in una certa zona geografica, nella terra latinoamericana, il segreto del rapporto tra il cibo, il poeta e la poesia delle Odi elementari. Esiste una potente originalità, un aroma inaudito che accomuna scrittori della stessa area, evidente nelle affinità di vibrazione e cadenza, nella nudità e semplicità della voce,11 che evoca di frequente le medesime immagini. Così, mentre Neruda scrive nell’Ode al mais: «America, […] / Fu un grano di mais la tua geografia»,12 il messicano Ramon López Velarde, cantore affettuoso del suo paese, comincia il componimento Dolce patria con queste parole: «Patria, la tua superficie è il granoturco».13 E ancora, Jeorge Carrera Andrade compone: Terra dell’equinozio, patria del colibrì, / dell’albero del latte e di quello del pane! / […] / Terra mia dove abitano razze dell’umiltà / e dell’orgoglio, foglie del sole e della luna, / del vulcano e del lago, del lampo e dei cereali. / In te esiste il ricordo del fuoco elementare / in ogni frutto…14

Questi poeti creano mirabili affreschi della loro terra, con gli elementi più puri, con gli alimenti. L’argentino Leopoldo Lugones, nell’ode Al bestiame e alle messi, dipinge un quadro quotidiano e ispirato della vita nella sua pianura, attraverso «… la sonora / parola di compiacenza e d’affetto» che «come il pane ben cotto era gustosa».15 Esiste una lingua poetica autonoma dell’area ispanoamericana, attenta al popolare, all’indigeno, una lingua profonda, intima e viscerale che si attacca agli oggetti, ai simboli della memoria per esprimere la presenza fisica di un continente, della sua realtà e del suo mito.16 C’è un’aderenza particolare della lingua spagnola alla terra e ai suoi frutti, resa efficacemente da una certa coesione tra linguaggio colto e popolare. La nota indigena fondamentale e caratteristica di questa arte è «un americanismo genuino ed essenziale; non un americanismo descrittivo e folcloristico».17 Il pane, elemento basilare del nutrimento, ritorna spesso come

simbolo della purezza del vivere, del dialogo tra l’io e la natura; così il peruviano Cèsar Vallejo, nella poesia Il nostro pane, dice: Si fa colazione… Umida terra / di cimitero odora di sangue amato. / Città d’inverno… L’acre traversata / di una carretta che trascinare sembra / un’emozione di digiuno incatenata! / […] / E in questa ora fredda, in cui la terra / esala polvere umana ed è così triste, / bussare vorrei a tutte le porte / e supplicare non so chi, perdono, / e fargli pezzetti di pan fresco, / qui, nel forno del mio cuore…!18

Mentre Neruda, con la sua veemenza espressiva, vede nel pane «coricato e rotondo» «il ventre / della madre», «l’onda / della vita, la congiunzione del germe / e del fuoco», che come un «miracolo ripetuto» manifesta «la volontà della vita»19 comune all’umanità: … il pane di ogni bocca, / di ogni uomo, / ogni giorno / arriverà perché andammo / a seminarlo / e a produrlo

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/ non per un uomo solo ma / per tutti, / il pane, il pane / per tutti i popoli, / e con esso ciò che ha / forma e sapore di pane / divideremo: / la terra, / la bellezza, / l’amore…20

Nelle Odi, come in tutta la poesia, la descrizione delle immagini non si arresta in superficie, ma diviene anello, allegoria: la poesia di Neruda è colma di metafore, similitudini, allusioni che dilatano la possibilità di visione e interpretazione. In questo modo gli elementi in versi fanno l’eco a concetti di carattere letterario, politico, ideologico e storico: il sapore del cibo diviene spunto per riflessioni che riguardano altri aspetti, a volte meno gustosi, della vita.

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Pablo Neruda, Ode al vino e altre odi elementari, Firenze, Passigli, 2002. Cfr. Introduzione di Roberto Paoli a Pablo Neruda, Poesie, Milano, Bur, 2004, p. 14. Pablo Neruda, Ode all’arancia, in Ode al vino e altre odi elementari, cit., pp. 143-145. Idem, Ode al limone, in ivi, p. 129. Ibidem. Idem, Ode alla prugna, in ivi, pp. 117-118. Idem, Ode al vino, in ivi, p. 25. Giovanni Battista De Cesare, Amore e poesia, Introduzione a Ode al vino e altre odi elementari, cit., p. 12. Pablo Neruda, Ode alla patata, in Ode al vino e altre odi elementari, cit., p. 91. Cfr. Introduzione di Giovanni Battista De Cesare, Amore e Poesia, cit., p. 11. Cfr. La Premessa di Francesco Tentori Montalto, in Poeti Ispanoamericani del 900, Torino, Eri, 1971, pp. XI –XV. Pablo Neruda, Ode al mais, in Ode al vino e altre odi elementari, cit., p. 131. Ramon López Velarde, Dolce Patria, in Poeti Ispanoamericani del 900, cit., p. 61. Jeorge Carrera Andrade, Terra dell’equinozio, in ivi, pp. 93, 95. Leopoldo Lugones, Al bestiame e alle messi, in ivi, pp. 55-59. Cfr. Francesco Tentori Montalto, Introduzione alla poesia ispanoamericana, in ivi, p. XXXI. Cfr. Marcelo Ravoni, Introduzione a Poeti ispano americani contemporanei, a cura di Marcelo Ravoni e Antonio Porta, Milano, Feltrinelli, 1970, p. XIX. Cèsar Vallejo, Il nostro pane, in ivi, pp. 11-12. Pablo Neruda, Ode al pane, in Ode al vino e altre odi elementari, cit., pp. 51-53. Ibidem.

Cantami, oh burro! (poesia in forma di leccornia) Burro freschissimo / quattr’once, Niside, / tante di mandorle / pelate e candide, / e tanto zucchero / pesa a rigor. / Tutto in mortaio / poi metti, e macina, / finché s’incorpori / la pasta, e leghisi, / e alquanto irrorala / d’acqua di fior. Cantano proprio così le prime due strofe della poesia Burro di mandorle (o Burro freschissimo), che Lorenzo Magalotti pubblicò nelle Canzonette anacreontiche (Firenze, 1723, opera postuma) sotto lo pseudonimo di Lindoro Elateo. «È del poeta il fin la meraviglia» chiosa un celebre verso di Giambattista Marino: difatti, nella poesia dei poeti italiani

barocchi, hoggidìani (come lo stesso Magalotti, che fu accademico d’Arcadia, scienziato ma anche dantista) diventano oggetti di versi i pavoni, le bolle di sapone, gli occhiali, la neve, gli insetti, le passiflore, e persino i cibi, per rompere con la tradizione classicista. Nella contaminazione di generi tipica degli «ideali e delle ossessioni del Barocco» (A. Battistini), Magalotti da scienziato poetico contamina il massimo genere aulico, la Poesia, con il minimo genere pratico, la ricetta. Nei quarantotto versi del componimento, la musa ispiratrice non è tanto il burro di mandorle, ricercato (e calorico) dolce alla vaniglia, quanto la preparazione stessa del dessert. Dunque un testo

pratico, di tecnica culinaria, in uno stile poetico e aulico. Magalotti scrisse altre ricette in poesia: La Sorbettiera, La Frittata, Il Candiero (bevanda di latte, uova e zucchero). Ma per quanti vogliano sapere - con l’acquolina in bocca - come termina l’elaborazione culinaria in poesia del Magalotti, ecco l’ultima strofa: Quivi rammontala, / e porta in tavola; / fresca, non gelida, / sul pan distendila: / se così gustila, / ti tocca il cor. Assaggiare per credere. Daniel Agami


Scritture Celso Machado Jr.

La letteratura del cibo tra melanzane e jacas spontaneamente al bello, e difficilmente viene consideLa cucina è un’arte, a qualsiasi livello la si pratichi. rato con superficialità: anche quando ci prepariamo il Preparare un risotto con i porcini richiede una tensione più umile dei panini, non lo facciamo mai con trascurastilistica, uno sforzo verso il raggiungimento della beltezza. lezza non diversi da quelli necessari per preparare un Sconcertante banalità, per contro, manifesta la magbuon toast. In ciò, la gastronomia è avvicinabile alle arti gior parte dei libri di argomento culinario oggi in comfigurative; ma è accostabile anche a taluni aspetti della letteratura (almeno prendendo l’abbrivio da una promercio. Nulla è più triste e vacuo che passare con gli ocspettiva bachtiniana, cioè chi in rassegna i coloratissiconsiderando la tendenza mi libercoli accuratamente Dall’Ottocento ai giorni nostri, qualche di generi come il romanzo esposti negli scaffali più naad assorbire altre forme). Mi scosti e appartati delle libreconsiderazione sui libri di ricette e sul riferisco alla caratteristica rie, quelli con l’indicazione perché, in alcuni casi, abbiano sconfipropria dell’arte culinaria di «cucina»; pare che anche i linato nell’arte (e viceversa) stringere intorno a sé, di brai ne abbiano pudore, tancontaminare beneficamento si adoprano per nasconte le attività collaterali a derli, relegarli in un cantucessa; così, diventa prossimo all’arte anche il sapere cocio insignificante, magari accanto ai libri per bambini, mentre negli scaffali più in vista campeggiano i classici struire e approntare dei buoni coltelli e delle padelle di latini e greci e le sezioni di storia e filosofia. Il ricettario qualità, e la scelta delle materie prime, delle bevande, e non ultima l’arte di apparecchiare la tavola e di manin sé e per sé, insomma, non mi affascina. Non me ne vogiare educatamente. Insomma, tutto ciò che ha a che glia suor Germana. fare con la preparazione e degustazione del cibo tende Di contro, in questo breve articolo mi accingo a esa-

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minare alcuni casi letterari in cui l’idea del ricettario di cucina dà vita a un prodotto artisticamente valido, e in alcuni casi a un capolavoro; ma si tenga conto che parlerò di eccezioni, di casi particolarmente riusciti, che si distaccano dal piattume generale, e che sono comunque qualcosa in più di semplici ricettari. In particolare, ho scelto di effigiare due casi tra loro speculari: il primo è un ricettario che diventa opera letteraria; il secondo è un insieme di opere letterarie che diventa ricettario. Se già il De re coquinaria di Apicio esula dalla categoria dei semplici testi di cucina,1 perché costituisce un preziosissimo documento storico per ricostruire la cultura materiale romana all’inizio dell’Impero, e se comunque anche i secoli successivi (specialmente quelli tra il Quattrocento e il Seicento) sono ricchi di casi letterari che sconfinano nel gastronomico (vedi l’abbondanza di cibi e banchetti nell’opera barocca, da Vivaldi ai napoletani), la vera fioritura del ricettario si situa a mio parere tra diciannovesimo e ventesimo secolo, sul-

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l’onda di quella rivoluzione cultural-gastronomica iniziata in Francia con gli studi sulla fisiologia del gusto. Durante tutto l’ancien regime, nelle sale da pranzo di Vienna e di Versailles, ma anche nei più modesti salotti dell’alta borghesia, il rito della cena o del pranzo domenicale è parte integrante della vita sociale; il momento di più alta convivialità all’interno della famiglia (o della corte) aveva all’epoca un valore molto maggiore di quello che ha oggi (solo nel Meridione d’Italia ho finora riscontrato una cultura della mensa paragonabile a quella ottocentesca), e la preparazione delle vivande richiedeva un impegno che andava al di là della semplice cottura del cibo. Questa atmosfera fumosa e inamidata traluce meravigliosamente dalle pagine del capolavoro di Pellegrino Artusi da Forlimpopoli, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene.2 Uomo d’affari con l’anima votata al culto del buon mangiare, il grande romagnolo ha immortalato come in una polaroid virata seppia la buona società padana che era diventata italiana da trent’anni,


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con le massaie affaccendate in cucina fin dal mattino presto, a preparare stufati dai tempi di cottura biblici, affettare carni bollite, tirare a cottura intingoli, mantecare risotti da presentare agli ospiti convenuti per il pranzo domenicale. Tra le pagine della Scienza in cucina, che pure è un’antologia ragionata di ricette e non un libro di memorie, emerge la passione dell’Artusi per la sua Romagna, ma unita a uno sforzo continuo verso il miglioramento e l’apertura a tradizioni gastronomiche diverse. In questo senso vanno colte a mio parere la grande novità e l’importanza della Scienza in cucina: essa non nasce come catalogo di ricette, ma come testimonianza d’indagine, manifesto di un amore incondizionato per la cucina intesa come strumento di ricerca della felicità e della bellezza. E l’Artusi, nel comporre il suo inno alla gastronomia per la prima volta italiana, perviene ad altri due importanti risultati. Innanzitutto dà all’Italia da poco formata e indipendente un manifesto gastronomico nazionale, riconoscendole una tradizione unitaria e articolata in svariate correnti regionali: a mio parere è solo dopo l’opera artusiana che si può davvero iniziare a parlare di un modo di nutrirsi all’italiana. Grazie all’Artusi gli spaghetti non sono più solo napoletani, la lasagna non è più solo bolognese, i carciofi non sono più solo toscani, ma ogni specialità e prodotto tipico concorrono a formare la neonata cultura nazionale del cibo. L’altro grande merito dell’Artusi è di avere creato il primo lessico unificato della cucina italiana. Con un’opera in fondo non troppo dissimile da quella compiuta con I Promessi Sposi da Manzoni, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene introduce un riferimento chiaro e valido su tutto il territorio nazionale riguardo alla nomenclatura degli ortaggi, delle carni e dei metodi di cottura. Con l’Artusi, il soffritto, il bollito, il risotto, i tortellini entrano ufficialmente nella lingua italiana colta (basti pensare alle travagliate vicende delle melanzane, che prima di arrivare alla denominazione moderna hanno subito un estenuante calvario lessicale culminato nel settecentesco petonciani). Dalla godereccia Romagna all’assolato e povero Sertão, e dall’Ottocento impettito e borghese al Novecento doloroso e bellissimo, il nostro cammino tra i libri non solo di ricette ci porta sulle coste del Brasile, per parlare delle opere di Jorge Amado. Amado è l’uomo che ha esportato la cucina di Bahia

in Europa; grazie ai suoi romanzi il Vecchio Continente ha scoperto i gamberetti essiccati, il latte di cocco e la jaca. Egli è stato ambasciatore instancabile e appassionato della sua cultura nel mondo, svelando all’Europa le asprezze di un Brasile poverissimo e disperato, ma insieme l’allegria irrefrenabile di un popolo che anche nella peggiore miseria si dimostra solare. Le storie che ci ha raccontato Jorge Amado sono intessute di personaggi sempre in bilico tra la disgrazia e l’incontenibile gioia di vivere, che si esprime soprattutto attraverso i profumatissimi piatti di cucina baiana disseminati tra i capitoli dei suoi romanzi. Così, l’inguaribile ottimismo del dolcissimo Vadinho, fannullone impossibile da biasimare, si concretizza nei sontuosi pranzi cucinati da sua moglie, la graziosa donna Flor; la fragranza dell’olio di palma, della frutta esotica, della carne di pollo e dei fagioli rende felice e colorata un’esistenza di per sé impostata quasi sulla sopravvivenza, e il sapore amaro della storia si percepisce solo in filigrana, non essendo questa mai urlata o dipinta in modo verista. Ciò accade in Donna Flor e i suoi due mariti,3 e in quasi tutte le altre opere di Amado.4 Va notato che quest’ultimo non ha mai scritto un vero e proprio ricettario della cucina baiana, se non alla fine della sua lunga carriera con La cucina di Bahia, che è comunque un’antologia ragionata delle innumerevoli indicazioni culinarie disseminate appunto nei suoi romanzi;5 i ricettari erano state le sue meravigliose storie, in cui il cibo è descritto dettagliatamente in tutti gli aspetti. In esse abbondano le ricette, che anzi spesso diventano un vero e proprio strumento organizzativo della narrazione (si pensi al citato Donna Flor, che ne presenta una - con relativa preparazione - praticamente in

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ogni capitolo), e abbondano le descrizioni minute dei colori, dei profumi e dei sapori. Quindi la presenza di Amado in un articolo sui ricettari non è affatto fuori luogo; lo scrittore brasiliano è giunto a concretizzare in un’antologia di ricette ciò che ha caratterizzato tutta la sua produzione letteraria, cioè la descrizione del Brasile anche (forse soprattutto) attraverso il cibo. E i suoi romanzi sono nel contempo opere di narrativa e maestosi ricettari. Come preannunciato, ho scelto di trattare soltanto di due casi letterari, cioè le opere di Artusi e di Amado, perché mi sembra mostrino in maniera efficace quel curioso rapporto tra gastronomia e letteratura che talvolta (ahimè, solo talvolta) si instaura attraverso il ricettario. In effetti, il desiderio di sintesi mi ha portato a escludere molte opere, come il celeberrimo Afrodita di Isabel Allende,6 o, per tornare all’Ottocento, il mostruoso, ma in senso letterario comunque rilevante, ricettario di Alexandre Dumas padre;7 e l’intenzione era non di creare un’antologia dei ricettari artistici, ma di studiare come un ricettario possa diventare un’opera d’arte, o almeno, per una volta, possa essere un po’ più divertente del solito.

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Consiglio l’ottima edizione a cura di Attilio A. Del Re, De re coquinaria: antologia di ricette - Marco Gavio Apicio, Milano, Viennepierre, 1998. Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, Firenze, Giunti, 2003. Jorge Amado, Donna Flor e i suoi due mariti, Milano, Garzanti, 1986. Mentre i romanzi per così dire realisti appartengono a un altro filone della produzione dello scrittore brasiliano, che in opere come Mar Morto (Milano, Mondadori, 1985) e I capitani della spiaggia (Milano, Garzanti, 1988) si rifà a uno stile prossimo a quello di Vargas Llosa. E che redasse, tre anni prima di morire, con la collaborazione della figlia Paloma. Jorge e Paloma Jorge Amado, La cucina di Bahia ovvero Il libro di cucina di Pedro Archanjo e Le merende di Donna Flor, Torino, Einaudi, 1998. Isabel Allende, Afrodita: racconti, ricette ed altri afrodisiaci, Milano, Feltrinelli, 2000. Alexandre Dumas, Il grande dizionario di cucina, a cura di Carlo Carlino, Palermo, Sellerio, 2004.

Il grande (ab)buffone

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Alle carriere di attore, regista, presentatore e comico, a Ugo Tognazzi va aggiunta quella di gastronomo. In cucina Tognazzi fu eccentrico, creativo e fantasista non meno che in televisione, in teatro o al cinema, al punto che lui stesso definì la sua una «cucina d’arte». La vocazione gastronomica si intersecò con gli altri ambiti lavorativi: nel cinema fu spesso il regista culinario delle scene gastronomiche (preparandone le delizie); inoltre collaborò alla trasmissione radiofonica Gran Varietà di RadioRai con una rubrica di ricette. Divenne gastronomo, come si direbbe all’Università, in quanto cultore della materia: alcuni suoi piatti sono stati accolti dai ricettari popolari e pratici, come gli spaghetti alla Tognazzi. Per questo attore il cibo è pure espressione artistica, il frigo «spettacolare» (ipse dixit); l’abilità culinaria diventa comunicazione creativa, e la cottura una vera e propria performance. Tognazzi si preoccupò di documentare la

propria attività gastronomica (assieme a una visione del cibo come linguaggio artistico - comico, satirico, grottesco), e di recente il suo ricettario è stato riedito (L’abbuffone, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004). Le sue, come recita il sottotitolo, sono proprio «storie da ridere e ricette da morire»: delle prime fa parte la sezione Autogastrobiografia, testo umoristico, biografico e culinario al tempo stesso; delle seconde le sezioni Ricettario e La Dernière Bouffe, dove le «ricette da morire» sono quelle de La grande abbuffata di Ferreri, come il Purè di Patate, la torta Andrea o la Bavarese di Tette, compromesse dalla sceneggiatura del film come foriere di morte. Il ricettario di Tognazzi è allo stesso tempo popolare e nobile: la minestra della nonna e la zuppa di cipolle si alternano agli uccellini dal becco gentile con polenta, la macedonia di angurie alla brioche al tartufo. Particolare attenzione va data alla titolazione delle ricette,

con cui Tognazzi rende unica la raccolta: la Mia carbonara diventa My Cherbounerau e seguono la Bresaola condita a modo mio, le Costine alla Mao, le mitiche Orecchiette al sugo bastardo, gli Spaghetti alla sgualdrina (variatio degli spaghetti alla puttanesca?), la frittata Austerity (in tempo di crisi, dopo il 1973), fino alle politically uncorrect La checca sul rogo o i Coglioni di Toro al Pernod. Il ricettario è assieme virtuosismo culinario, testo umoristico e documento di grande interesse filmologico (soprattutto la sezione sul film di Ferreri). Resta solo un mistero: come di questa documentata passione non vi siano state tracce nel fisico dell’attore, a differenza di quanto accaduto ad altri amici artisti privi di abilità culinaria ma pinguemente compromessi, come lo stesso Ferreri o il compagno e amico Paolo Villaggio…

Daniel Agami


Arte Justine Thyme

Un’antologia tascabile del Novecento Le piccole immagini illustrate che i droghieri davano al 1972. Le figurine Liebig hanno attraversato dunque in omaggio con le confezioni di estratto di carne Liebig un periodo cruciale nella storia d’Europa, riflettendo i rappresentano sicuramente la prima serie di figurine da mutamenti sociali e di costume nelle numerosissime e collezione mai apparsa in Europa. E potrebbero inoltre diversificate tematiche delle loro collezioni, dalle meradefinirsi un prototipo dei gadget pubblicitari, in grado viglie del mondo animale agli sport di squadra, ai perdi persuadere ma anche, con le scritte sul retro, di fornisonaggi famosi, alle piante, e creando di fatto una vare cultura con chiarimenti riegata enciclopedia tascasul prodotto e con la spiebile, oltre che un prezioso gazione dettagliata dell’imspecchio dei tempi. I vari diUna geniale trovata pubblicitaria divemagine. L’introduzione delsegnatori rimanevano anonuta documento storico: le figurine delle figurine-omaggio in camnimi, seppure osservando l’estratto di carne Liebig bio dei buoni acquisto dei bene si potrebbero riconoscere determinati stili e prodotti Liebig si data intorscelte tematiche: come non no al 1872 (il primo caso in pensare a un’ispirazione al celeberrimo protofumettista assoluto del genere, ideato da una catena di grandi matedesco Wilhelm Busch o al suo erede ideale Rudolph gazzini francesi, è del 1860), e l’emissione delle serie Dirks, nella serie «Le Monde renversé»? continua per un secolo: l’ultima, la numero 1866, risale

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Arte

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Visioni Marco De Marinis

Teatro di cibo e dei sensi Una storia dei rapporti (intensi e molteplici) fra cibo e teatro in Occidente non è stata ancora scritta, che io sappia, e riserverebbe delle sorprese. Tralasciando in questa sede i riferimenti antichi e canonici, dalla Grecia dei Misteri (eleusini, dionisiaci, orfici) al moderno Melodramma e al Caffè-concerto, mi limito a ricordare innanzitutto qualche esempio a partire dalle mie personali esperienze, le rappresentazioni legate al cibo alle quali mi è capitato di assistere personalmente: dal leggendario pane distribuito, in modo eucaristico, dal gruppo americano Bread and Puppett Theater,1 alla tavolata imbandita (anche se frugalmente) a cui erano invitati gli spettatori dell’Odin Teatret per lo spettacolo Nello scheletro della balena,2 al “vino-e-salsicce” che la banda romagnola del Baldus3 condivideva con il pubblico (almeno nella rappresentazione al Link di Bologna del gennaio 2001). Andando talvolta dietro a Giuliano Scabia, nei suoi viaggi per quartieri e paesi, a cominciare dai tempi del Gorilla Quadrumàno (197475), mi è spesso capitato di mescolare gusto e olfatto e tattilità ai sensi cosiddetti nobili, in un irresistibile lievitare sinestesico di visioni ed emozioni. E chissà quanti altri esempi dimentico. Fra gli ultimi in ordine di tempo, e fra i più espliciti, è certamente il Teatro da mangiare? (un evento per 26 commensali) del Teatro delle Ariette, consumato, è proprio il caso di dire, alla XXXI edizione del Festival di Santarcangelo (luglio 2001), in un casolare sulle colline romagnole.4

La riscoperta dei sensi bassi attraverso l’esperienza culinaria in alcune performance teatrali

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Visioni

In esso, il cibo non rappresenta più il contorno o la conclusione dell’evento ma proprio il suo piatto forte, la sua stessa ragion d’essere, e per una sorta di contrappasso (che sa in realtà di antico: si pensi ai banchetti medievali e rinascimentali) sono i materiali teatrali (declamazioni, scenette, monologhi, canzoni) a fungere da cornice, intermezzo, legamento.

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Per collocare queste esperienze allargando il campo dalla storia del teatro e dello spettacolo, e comprendere le ragioni che stanno alla base della reintroduzione del cibo sulla scena, è interessante osservare come, nel corso del Novecento, si sia fatto strada progressivamente un paradigma dell’esperienza estetica alternativo a quello basato sul vedere-ascoltare,5 e quindi sul logos e sulla distanza esistente tra comprensione e interpretazione: un paradigma rasico, potremmo chiamarlo seguendo Richard Schechner e la sua nozione chiave di rasa (‘sapore’),6 o forse manducatorio, citando il grande glottologo e antropologo francese Marcel Jousse.7 Schechner nel suo articolo distingue infatti tra un modello occidentale (platonico-aristotelico) di esperienza estetica, basato sul vedere-udire e un modello che chiamerei asiatico, legato invece al gustare, e dunque alla bocca, all’apparato digerente, al corpo: basato, in breve, sulla partecipazione sinestesica. Saremmo tentati di leggere la distanza tra questi due modelli di esperienza performativa all’interno dell’opposizione cervello/viscere, ovvero mente/corpo, dove il teatro rasico appare senza testa, come quel teatro gastronomico (o culinario) contro cui si poneva Bertolt Brecht. In realtà questo teatro è sì viscerale, ma non per questo scervellato. Infatti, secondo gli studi della neurobiologia, l’uomo possiede un vero e proprio cervello anche nella pancia, chiamato secondo cervello, cervello addominale, o sistema nervoso enterico: il second brain. Il secondo cervello, come il primo, produce sostanze psicoattive, capaci di influenzare gli stati d’animo, come la dopamina, ma anche oppiacei antidolorifici, e persino sostanze calmanti come quelle del valium; può ammalarsi, soffrire di stress, pensare e ricordare.8 Dunque, l’opposizione tra modello greco (occidentale) e modello asiatico non ricalca le precedenti opposizioni richiamate di cervello/viscere o mente/corpo, bensì quella di primo cervello/secondo cervello. Ma questo paradigma, si è detto, potremmo chiamarlo anche manducatorio. Basterebbe pensare, per qualche semplice riferimento senza pretesa di completezza, oltre al già citato Jousse, alla parola-corpo, che nasce da una crudele reinvenzione fisica del linguaggio nell’ultimo Artaud, il quale così ridava vita nell’oralità alla poesia dei testi; al Manifesto antropofago del poeta brasiliano De Andrade, con la sua distinzione fra cannibalismo e antropologia;9 al racconto messicano dell’ultimo Calvino, Sapore sapere,10 legato anch’esso a una riflessione sul cannibalismo (oltre che sul cibo e sui sacrifici umani); ai funambolismi letterari dell’attore-autore

Valère Novarina circa la carnalità della lingua e delle parole;11 alle tesi dell’estetologo Giorgio Agamben;12 al dionisismo ben temperato di Giuliano Scabia e al suo viaggio pluriennale nel corpo delle Baccanti euripidee13 – ma anche, da rileggere in questa chiave, oltre che nella loro propria, post-strutturalista e post-semiologica, agli scritti di Roland Barthes sulla jouissance e sul plaisir du texte.14 Allargando il campo di ricerca da un teatro di cibo a un teatro di sensi, è stato detto che la sinestesia costituisce «un paradigma dell’espressione “teatrale”» (R. Milani).15 Una cosa è sicura: uno dei tanti modi di leggere le esperienze e le teorizzazioni teatrali contemporanee potrebbe consistere proprio nel considerarle globalmente come un tentativo di restituire al teatro la ricchezza sinestetica. In questo modo si ripeterebbe l’esperienza del cibo sulla scena, in una plurisensorialità che coinvolgerebbe anche il senso del gusto, i quali insieme avevano caratterizzato lo spettacolo occidentale fra XV e XVII secolo (per non parlare delle epoche precedenti) e che dal Settecento in poi si erano venute riducendo drasticamente, per effetto del progressivo affermarsi dell’ideologia testocentrica e di un buon gusto improntato a canoni di raffinata e realistica letterarietà. Ne avevano fatto le spese soprattutto i sensi bassi (il gusto, certo, ma anche gli altri, dall’olfatto al tatto), quasi sempre invece fortemente sollecitati o comunque tenuti in grande considerazione in precedenza: basterebbe pensare all’importanza dei cibi e dei profumi nella civiltà teatrale rinascimentale e barocca (tutta impostata sulla serie festa-banchetto-commedia); ma un discorso analogo andrebbe fatto, probabilmente, per la coeva civiltà teatrale giapponese, la quale ha conservato quasi immutato fino a oggi questo tipo di caratteristiche, che propongono lo spettacolo come una vera e propria festa dei sensi. Interi filoni della sperimentazione e della ricerca artistica contemporanea si sono caratterizzati per il loro tentativo di riscattare il gusto e gli altri sensi bassi (rimossi e censurati anche per ragioni antropologiche dalla «civiltà delle buone maniere», come l’ha chiamata Norbert Elias)16 e restituirli allo spettacolo e all’esperienza dello spettatore: penso, per esempio, alla linea che dalle serate futuriste e surrealiste porta agli happening americani ed europei e poi alla performance degli anni Settanta e seguenti; e penso anche alla tematica del coinvolgimento e del contatto fisico, sviluppatasi in tutt’altro ambito ma sfociante in un’analoga rivalutazione di dimensioni percettive come il gusto, o il tatto, e anche l’olfatto. Sembrano filoni inariditi oggi, e probabilmente lo sono per davvero. Oppure – che è lo stesso – essi attualmente vengono sottoposti a un’accelerazione vertiginosa dalle tecnologie multimediali e informatiche: che cosa sta di-


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ventando la sinestesia nel mondo virtuale di Internet? E, con essa, o meglio mediante essa, che ne sarà della rappresentazione del cibo sulla scena, in questi presunti tempi tecnologici?17

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Il Bread and Puppet Theater è stato un gruppo teatrale fondato da Peter Schumann nel 1961. Fu tra i maggiori protagonisti, assieme alla S. Francisco Mime Troupe di Ronnie Davis, il Teatro Campesino di Luis Valdez, e l’Open Theatre di Joe Chaikin, del nuovo teatro americano degli anni Sessanta, sulla scia dell’esperienza pionieristica del Living Theatre. Fu fautore di un teatro di azione politica fondato su forme e modalità espressive semplici e immediate (come i pupazzi indicati nel nome) e sull’idea del pubblico come comunità (questo era il senso profondo del rito finale della condivisione del pane). Per un approfondimento, si veda Marco De Marinis, Il nuovo teatro (1947-1970), Milano, Bompiani, 1987. Spettacolo teatrale del 1997. Spettacolo prodotto dalle Albe ravennati, dirette da Marco Martinelli, nel 2000. Nonostante questo spettacolo si sia svolto nella provincia romagnola, da quindici anni ormai la base delle attività di teatranti-contadini-cucinieri del Teatro delle Ariette è Il Castello di Serravalle, nel bolognese. Per approfondimenti, cfr. Marco De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Roma, Bulzoni, 2000. Richard Schechner, Rasaesthetics, in «Teatro e Storia» n. 2021 del 1998-1999. L’autore guarda all’India classica, quella del trattato Natya-Satra, dove viene delineata una visione del teatro come un’arte che permette allo spettatore di as-

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saporare e di gustare le emozioni, come cibi e insieme ai cibi. Marcel Jousse, La manducazione della parola, Roma, Edizioni Paoline, 1980. Cfr. Michael D. Gershon, The Second Brain, New York, Harper&Collins, 1998. Oswald de Andrade, Manifesto antropofago, in La cultura cannibale, a cura di Ettore Finazzi-Agrò e Maria Caterina Pincherle, Roma, Meltemi, 1999. Il racconto Sapore sapere fu scritto da Calvino nel 1981, destinato a una raccolta di racconti incompiuta, I cinque sensi, e pubblicato per la prima volta in «FMR» del primo giugno 1982. Conosciuto anche come Sotto il sole giaguaro, è stato ripreso con questo titolo in Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro, a cura di Giorgio Manganelli, Milano, Garzanti, 1986. Secondo Marco Belpoliti (in Settanta, Torino, Einaudi, 2001) la morale di questo racconto è che «per sapere bisogna ingerire, e il cannibalismo è un modello di conoscenza sensibile sul mondo». Valere Novarina, Davanti alla parola, a cura di Gioia Costa, Milano, Ubulibri, 2001. Cfr. per esempio il lemma Gusto in Enciclopedia (vol. VI), Torino, Einaudi, 1979. Euripide, Baccanti, a cura di Giorgio Ieranò, Milano, Mondadori, 1999 e Giuliano Scabia, Avvicinamento a Dioniso, in «Culture teatrali» n. 2-3. Roland Barthes, Il piacere del testo, Torino, Einaudi, 1975. Cit. in Marco De Marinis, In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, cit. Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Bologna, Il Mulino, 1998. Per ulteriori approfondimenti rimando al mio Lo spazio della mente e lo spazio del corpo: nuovi paradigmi per l’esperienza teatrale in «Drammaturgia» n. 10 (Drammaturgie dello Spazio), Roma, Salerno editrice, 2003.

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La fame dello Zanni Quello che rende veramente magico Mistero Buffo è la sua lingua. Dario Fo e Franca Rame non si esprimono attraverso un linguaggio pulito e immediato, ma scelgono il dialetto e il grammelot (tecnica teatrale dove non si fa ricorso al significato semantico ma alle modulazioni foniche e alla pantomima dell’attore) per raccontare i sacri misteri e le giullarate popolari di un antico repertorio teatrale. Tra i tanti episodi all’interno di Mistero Buffo proposti e interpretati da Dario Fo (che anche grazie a questo spettacolo vinse il Premio No-

bel nel 1997), da segnalare particolarmente il grammelot dello Zanni, il povero facchino bergamasco della Commedia dell’Arte. La povertà economica di questo personaggio è causa prima della sua fame e della sua disperazione: con le tasche e la pancia vuota, infatti, lo Zanni può soddisfare il suo appetito solo attraverso l’immaginazione; così, tra parole masticate in un miscuglio di suoni (che acquistano senso grazie alla mimica e a poche nitide parole scelte da Dario Fo), lo Zanni fa comparire paiolo e polenta tra le sue mani e se ne

nutre abbondantemente. La realtà della finzione teatrale, però, non è mai abbastanza reale, e il povero Zanni – dopo una brevissima epifania – si ritrova con la pancia più vuota di prima. Quello che gli darà veramente soddisfazione sarà un «grasso» moscone con delle zampe come «parsiütti»; il nostro Zanni, infatti, uscirà dalla scena battendosi il petto esultante, urlando un grosso: «Che magnàda!».

Serena Terranova


Visioni Isabelle Barberis

Il teatro della voracità

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La scena si dimostra in generale ostile alla rappretro, è insieme soprannaturale, terrificante e grottesco. sentazione del cibo, in particolare dell’azione di cibarsi. Rappresentato durante una delle più sanguinose dittaCiò stupisce poco per ciò che riguarda i generi teatrali ture della storia argentina, questo spettacolo può esseche puntano al sublire letto come la parame o alla descrizione bola di un potere miliIl gesto alimentare, per secoli escluso dalla di gesta eroiche. Ma la tare onnipotente e derappresentazione delvastatore. Il realismo scena, acquista un ruolo centrale nel teatro del’atto di nutrirsi non è critico sfiora la deforgli autori argentini Roberto Cossa e Raul Dafrequente neanche mazione grottesca di monte (Copi). L’atto di cibarsi diviene nelle loro nella commedia. Se il un universo divenuto opere motore dell’azione e metafora delle relacibo come oggetto fa commestibile, dunque zioni umane parte dei quadri di rifedistruttibile. Il ciborimento convenzionali azione trasforma i per(le nozze, il banchetto), sonaggi e il mondo ciril cibo come azione, il gesto alimentare, interessa solo costante in cibo-oggetto. L’ingerimento si situa all’opmarginalmente la scena teatrale. Esso tende in effetti posto del discorso, del dibattito: la sua violenza, la sua verso un iperrealismo che disturba la rappresentazione idiozia (la nonna è vecchia) sono rappresentative di un e denota una concezione estetica molto forte – il natupotere che fa a meno delle parole – impressione rafforralismo in Antoine, per esempio, che sospese sulla scezata dall’inintelligibilità dei discorsi della Nonna che na dei pezzi di carne sgocciolanti di sangue.1 parla un miscuglio di italiano e spagnolo. Infine, la voraL’atto di cibarsi, compiuto per sé e non per altri, non cità costituisce il motore dell’azione drammatica, il suo è un’azione di teatro, almeno stando a Hegel che defiprincipio dinamico. L’insaziabilità rappresenta in effetti nisce l’azione drammatica come rappresentazione di un oppositore drammatico insormontabile, poiché si un’azione sul mondo. Incompatibile con l’intersoggettinutre per l’appunto di ogni azione che gli si oppone. vità del dialogo teatrale – se è vero che «parlare con la Ogni negoziazione attanziale5 si rivela un fallimento. La bocca piena» non si fa – essa non avrebbe spazio sulla voracità funziona dunque come un’istanza della devascena, salvo il caso in cui si introducesse una pausa, una stazione, ma anche del grottesco. Per Dominique Iehl il forma di «distacco».2 L’originalità dello spettacolo di Rogrottesco si caratterizza per il piacere del miscuglio: berto Cossa, La Nonna,3 come dell’insieme dell’opera ibridazione dell’animale, del vegetale, dell’umano, conteatrale di Copi, risiede nella trasgressione di questa fusione dei generi e dei corpi.6 Per Michail Bachtin, l’imconvenzione. Qui il cibo-azione costituisce il tema stesmagine grottesca caratterizza il fenomeno nel momenso della rappresentazione, dando luogo a una teatralità to in cui muta, in cui la metamorfosi non è ancora reaorganica e ritmica poco preoccupata della verosimilizzata.7 L’ingestione totalitaria all’opera ne La Nonna glianza. corrisponde all’esito della logica di distruzione e d’indifferenziazione che anima il grottesco; e lo stesso avLa Nonna, spettacolo in due atti creato a Buenos Aiviene nel teatro di Copi. res nel 1977, è tuttora l’opera drammatica più rappresentata dell’autore argentino Roberto Cossa. Erede del Se in Roberto Cossa il ricorso alla metafora alimengrottesco criollo,4 Cossa rivendica per sé una vena grottare fa parte di un procedimento satirico e politico pretesca che definisce come il punto d’incontro di situaziociso, a proposito dell’opera teatrale di Copi nel suo ni iperrealiste e della forza comica. Nello spettacolo, tutcomplesso si può parlare di un vero e proprio teatro ta una famiglia porteña (di Buenos Aires) si dissangua della fame. Raul Damonte, alias Copi (1939-1987), traper nutrire l’insaziabile Nonna, un orco femmina che disferitosi a Parigi nel 1962 e autore di una quindicina di vora tutto quello che le capita a tiro, anche se non è pièce, è uno dei componenti più attivi della «scuola arcommestibile (!). La sua voracità rovina progressivagentina di Parigi».8 Il gesto alimentare prende avvio nelmente la famiglia e conduce ogni membro alla perdila sua opera da una messa a nudo dell’intimità. Come la zione. Il personaggio, la cui camera è assimilata a un ansessualità, la rappresentazine dell’azione del nutrirsi è


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sinonimo di una teatralità dell’interno in senso organico. Questo procedimento esibizionistico non è incompatibile con una forma di pudore, o perlomeno di ripiegamento interiore: il carattere ermetico del frigo, oggetto feticcio che ossessiona l’immaginario di Copi, suggerisce uno spazio interamente ritirato e involuto; sulla scena l’apparizione del frigo ci ricorda che l’esibizione della materia (corpo, cibo) produce non-detti e non-luoghi. Come in Cossa, il tema del cibo corrisponde a un modo di rappresentare iperrealisticamente e organicamente le relazioni umane: in Une visite inopportune (1988), il personaggio di Regina Morti offre al protagonista, Cyrille, il suo cervello come regalo d’amore: «Questo cervello col quale sono nata è per te, amore mio! Devi mangiarlo per provare la tua passione! Tieni, mangialo, tutto! Quando tu sarai morto, io mangerò il tuo cuore!». Sono numerosi gli esempi in cui il fatto di ingerire (cibo, droga) si sostituisce metaforicamente al rapporto intersoggettivo del dialogo tradizionale. Ne La Tour de la Défense (1978), alcuni personaggi mal assortiti si ritrovano riuniti per la festa di Natale come per un artificio teatrale esibito. Le relazioni conflittuali saranno «canalizzate» grazie al cibo. La cena, improvvisata a partire dal cadavere di un serpente e di un ratto, ci è presentata come l’elemento organico che circola fra i personaggi. Più che un leitmotiv, lo scambio di cibo ritma lo spettacolo e gli dona sostanza. A conti fatti i personaggi non arrivano mai a «mettersi a tavola», scopo che sembrava invece posto all’inizio: il cibo li lega senza mai riunirli. La libido rimpiazza la socialità. Questa circolazione contamina tutti gli attanti, uomini e anima-

li, in tutti i sensi (si tratta di nutrire una gabbianella con del caviale). La presenza ossessiva di un bagno fuori scena, il fatto che il serpente commestibile sia uscito dalle condutture sono emblematici tanto quanto la tuyauterie (‘insieme dei tubi, condotti, canalizzazione di una costruzione’) che lega i personaggi. Questa circolazione è essa stessa una metafora dell’energia teatrale e dei giochi d’empatia a partire dai quali si costruisce il gioco dell’attore: il teatro diviene così oggetto della rappresentazione. Si noterà che il rapporto con il cibo istaura in Copi una temporalità particolare, che è quella della fame. Cachafaz (1993) ci mostra per esempio come gli abitanti affamati di una bidonville finiscano per uccidere, tagliare e mangiare i poliziotti che li perseguitavano (nella rappresentazione di Alfredo Arias,9 ne fanno dei salami). Il cannibalismo è la manifestazione di un’indifferenziazione totale, indifferenziazione che si può considerare in collegamento con l’omosessualità di Copi. Fare lo stesso con dell’altro, fare altro con se stesso: è l’oggetto di uno degli spettacoli più astratti e organici di Copi, Loretta Strong (1973). Il personaggio unico si appropria dell’universo per invaginazione (concetto di Jacques Derrida),10 fa rientrare tutto ciò che trova nella sua «vagine», orifizio a un tempo sessuale e digestivo, e conclude la sua metafora con questa esclamazione paradossale: «Je sors!» (‘io esco’). L’invaginazione generalizzata, specie di ingestione attraverso il basso, può allora far pensare alla definizione del carnevalesco proposta da Bachtin. In Copi, essa è soprattutto la rappresentazione di un mondo allo stesso tempo precario e indiffe-

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renziato, che forma un continuum – sia fra l’uomo e l’animale, che fra sessualità e metabolismo digestivo. Questa continuità crea una poetica più metonimica che metaforica:11 contrariamente a Cossa, in cui la voracità è in maniera evidente metafora dell’opposizione politica, il cibo contribuisce in Copi a creare un universo infinitamente plastico e metamorfico, modellabile e ingeribile, nel quale evolvono dei personaggi proteiformi (L’Omosessuale o la difficoltà di esprimersi). Questa constatazione rivela un autore che intrattiene con la sua opera un rapporto anch’esso plastico, e un’opera che forma essa stessa un continuum. In conclusione, che avvenga in Cossa o in Copi, e in maniera opposta alla «ruminazione» nietzscheana, la rappresentazione del cibo-azione si oppone a quella del pensiero: mostrare individui voraci in un universo interamente digeribile è una maniera di significare che essi sono pensati piuttosto che pensanti, mangiati piuttosto che mangiatori. (traduzione dal francese di Valerio Cuccaroni)

Note André Antoine (1858-1943) fonda nel 1887 il Théâtre-Libre, legato alle idee della corrente naturalista di Émile Zola. Antoine promuoverà un teatro sperimentale che rivoluzionerà la messa in scena classica e farà conoscere in Francia i testi di Ibsen e Strindberg. Con la crisi del naturalismo si darà al cinema e alla critica drammatica (cfr. Jean-Pierre Sarrazac, Antoine, l’invention de la mise en scène: anthologie des textes d’André Antoine, par Jean-Pierre Sarrazac et Philippe Marcerou, Arles, Actes Sud-Papiers, 1999). 2 Erving Goffmann, Les Rites d’interaction, Paris, Editions de Minuit, 1974 (ed. it. Il rituale dell’interazione, Bologna, Il Mulino, 1988). 3 Roberto Cossa, La Nonna, Arles, Actes Sud-Papiers, 1990. 4 Movimento satirico argentino nato nel primo quarto del Novecento con autori come Armando Discepolo (Stefano, 1928). Cfr. Irene Perez, El grotesco criollo, Discepolo-Cossa, Buenos Aires, Ediciones Colihue, 2001. 5 Ogni racconto può ridursi, secondo Algirdas Julien Greimas, a uno schema attanziale, che è a sua volta un’estrapolazione di una struttura sintattica. Come in ogni proposizione ci sono un soggetto, un oggetto, ecc., così in ogni azione drammatica c’è un soggetto che è spinto da una data forza alla ricerca di un certo oggetto, nell’interesse di un destinatario, con il contributo di un aiutante e l’opposizione di un avversario. È la semplificazione del modello di Propp e Souriau (cfr. Algirdas Julien Greimas, La semantica strutturale: ricerca di metodo, Milano, Rizzoli, 1968). 6 Dominique Iehl, Le Grotesque, Paris, PUF, 1997, p. 20. Da consultare anche André Chastel, La Grottesque, Paris, Le Promeneur, 1988 (ed. it. La grottesca, Torino, Einuadi, 1989). 7 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979. 8 Lucien Attoun, L’école argentine de Paris et le Concile d’amour d’O. Panizza, «Europe» n. 480-481, 1969. 9 Théâtre national de la Colline, Paris, 1993. 10 «L’invaginazione è il ripiegamento interno del fodero, la ri1

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applicazione rivoltata del bordo esterno all’interno di una forma in cui l’esterno forma una tasca. Una tale invaginazione è possibile fin dalla prima traccia. È per questo che non c’è “prima” traccia»; Jacques Derrida, Paraggi: studi su Maurice Blanchot, Milano, Jaca book, 2000, p. 199. Nell’Antichità, da Aristotele al Neoclassicismo settecentesco, il termine «poetica» indicava lo studio della poesia e delle varie forme poetiche, compreso il tentativo di stabilire a partire da questo studio regole universali per interpretare e comporre nuove opere. Il termine viene qui usato nella sua accezione moderna, lentamente acquisita negli ultimi due secoli. Con la fine delle estetiche classiche, classiciste e neoclassiche, infatti, la rivoluzione romantica e la nascita di un nuovo statuto dell’arte e dell’artista, fondato sull’autonomia, la libera iniziativa e l’individualismo, dall’Ottocento in poi, l’artista non rispetta più le regole di una data poetica (come per esempio quella teatrale aristotelica delle tre unità di Tempo, Luogo e Azione sulla scena), ma crea le proprie leggi e regole, dotandosi così di una sua poetica individuale, derivata non solo dallo studio delle opere del passato e dal rispetto delle regole a esso ispirate, come quella antica, ma anche dall’elaborazione di una personale concezione dell’arte e un personale modo di proce-


Visioni dere. È possibile dunque riconoscere la poetica di un artista attraverso lo studio delle sue opere e dei suoi scritti teorici, cercando di individuare la sua concezione dell’arte e il suo modo di procedere. Una poetica si può definire metonimica quando risulta fondata su una rappresentazione, o meglio una «designazione», di un fenomeno, un oggetto, «un’entità qualsiasi mediante il nome di un’altra entità che stia alla prima come la causa sta all’effetto e viceversa, oppure che le corrisponda per legami di reciproca dipenden-

za (contenente/contenuto; occupante/luogo occupato; proprietario/proprietà materiale o morale ecc.)» (Bice Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, RCS Libri & Grandi Opere, 1995, p. 149). Si può definire metaforica quando la concezione si basa sulla «sostituzione di una parola [o qualsiasi altra entità del discorso] con un’altra il cui senso letterale ha una qualche somiglianza col senso letterale della parola sostituita» (ivi, p. 160).

La Fame nera – assaggio del Minestrone Malincomico, fiabesco, cupo, giocoso e gioioso, Il Minestrone (Raiuno, 1981, di Sergio Citti, sceneggiatura di Sergio Citti e Vincenzo Cerami, con R. Benigni, G. Gaber, D. Nicolodi, F. Citti, N. Davoli) fu una fiction per la Rai, atipica per i toni favoleggianti, allegorici e picareschi: data l’originalità creativa ne fu anche montata una versione cinematografica (più corta, più brutta). Il film tv, in tre puntate, racconta un viaggio allucinato, in un’Italia dominata dal verde, dal vento e dalle nuvole, fuori dal tempo e dalla storia (un’assenza cronotopica, caratteristica delle favole), di veri e propri picari post litteram, che della ricerca del cibo fanno modo di vita, spinti da una fame atavica. In origine sono due accattoni, alla disperata ricerca di cibo nella monnezza (il cibo come spazzatura?) nelle borgate periferiche di una grande capitale italiana. Finiti in carcere per avere innocentemente osservato il cielo, conoscono il Maestro per antonomasia (Benigni), la cui ars docendi è la deprecabile abilità di «fare il vento», ossia cibarsi nei ristoranti migliori senza pagarne il conto. La ricerca di cibo, inizialmente individualistica, diventa un’utopica ricerca collettiva, un unanimismo ideale in cui ai due discepoli e al Maestro, mediante peripezie, si aggiungono anime sole, sbandati, suicidi, briganti, tutti con un unico fine: quello, basso e corporale, di saziare una fame disperata, la fame come essenza. La favola, «la versione nera di Pinocchio» (Paolo Mereghetti nel Dizionario dei film), prosegue in un famelico viaggio alla ricerca della tavola, seguendo idealmente il romanzo di Collodi: c’è un Mangiafoco, ricco borghese da commuovere per avere la libertà di mangiare, c’è un Melampo umano incatenato per avere cercato di sfamarsi nascosto in una trattoria. Il contrappasso è una desolata ex locanda, Al Verme Solitario, in cui i picari mangiano ferro, e finiscono in lavanda gastrica. Il cibo

morso si fa sempre più fine, dal rubbish diventa vivande popolari in taverna poi un’onirica Olimpiade dello Spaghetto, quindi pietanze ricercate, fino alla sintesi assoluta, quasi metafisica, del cibo: la Flebo. Il Maestro Benigni, carismatica guida dei picari, cede in ospedale il suo ruolo a chi sembra saperne di più: è Lui, il Messia della Fame, un cupo e terminale Gaber, armato di flebo anziché di scettro pastorale, che li guiderà in una sorta di Paradiso dove sfamarsi per sempre. Il viaggio diventa

ascetico, i picari sempre più numerosi e affamati (ivi compreso un cane, Amico) e il sentiero montuoso. Ma l’Empireo sognato, in cui cibarsi, si rivelerà una simbolica Morte: un cocuzzolo innevato con una banda che suona, il nulla assoluto. «Ma dove c’hai portati?», chiederà il Maestro al Messia; lapidaria la fine della vana ricerca, nella risposta: «Che cazzo ne so!».

Daniel Agami

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Musiche Mirco Mungari

Il musicista gastronomo

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Avere a che fare con la musica di Gioachino Rossini scodella di zuppa di verdure e cereali, scegliamo d’istinè come mangiare una tavoletta di cioccolata dopo aver to il primo; e ci dimentichiamo della delicatezza al palatolto tutta la stagnola: si finisce sempre per ritrovarsi to dell’orzo e del farro, delle sensazioni di calore e arocon le dita inzaccherate e appicmatico benessere che donano i cicose, col muso sporco, magari piselli e le lenticchie cotte nel broGioachino Rossini, illustre mucon qualche macchia sulla cado, delle sfumature speziate delle micia, ma la soddisfazione finale carote e delle cipolle. Così, tra il sicista, era anche un valente è indescrivibile. Così è l’ascolto Barbiere di Siviglia e la Petite messe teorico dell’estetica dei sapori. di una qualsiasi sinfonia dalle solennelle, o lo Stabat mater, preTanto nella sua produzione musue opere, buffe o serie che siaferiamo istintivamente il primo; sicale quanto in quella gastrono: un’esperienza sensoriale, questo perché consideriamo la nomica ritroviamo il continuo prima ancora che spirituale. Delmusica di Rossini come roba da affinamento del gusto e il piala sinfonia del Barbiere o della mangiare, e andiamo alla ricerca cere di sperimentare Gazza ladra non stiamo a cercadei sughi di carne, delle polpettire le strutture, non ci mettiamo ne, della pasta all’uovo, tralasciana isolare i temi e gli incisi mendo le salse delicate e i profumi di tre ascoltiamo; semmai, mastispezie. E ci perdiamo il meglio. Ho scritto ciò non certo con l’intento di convincere chiamo con le orecchie le melodie, lasciamo che i susil lettore ad addentare i cd con incisioni di Rossini (non surri degli archi e i borbottii di corni e fagotti ci passino provateci, anche la migliore versione del Barbiere non attraverso i timpani, scivolino verso le papille gustative, sa di ragù), ma semplicemente per persuaderlo che il e in ultimo si depositino nello stomaco per un godimento completo e profondo. La musica di Rossini sazia, rapporto, tanto spesso e tanto superficialmente sbanproprio come la cioccolata. dierato, tra il Pesarese e il cibo è molto meno banale e Tutto ciò rischia di farci apparire il Pesarese come un sensoriale di quanto si possa credere, e si intreccia a musicista poco attento all’idiomaticità del fatto musicamio parere profondamente con il suo modo di concepile. È facile, infatti, cadere nello stereotipo del Figaro qua, re la musica. Figaro là, che ci porta a concepire Rossini e la sua musiSi sprecano le prolusioni sulle virtù gastronomiche ca come una sorta di baraccone da fiera, ci fa inevitabildi Gioacchino Rossini; le cronache delle sue cene parimente pensare al compositore come a un abilissimo gine e bolognesi, la sua passione per i tartufi e la cactessitore di tarazumpappà e crescendi con timpani e ciagione, il suo gusto meraviglioso per i vini e i cioccogran cassa, e mette in ombra la sua vena più autenticalati ricercati, hanno finito per creare un cliché tanto mente lirica, la sua inarrivabile abilità di facitore di muinossidabile quanto, a mio parere, superficiale e per cersica, il suo solidissimo mestiere. E soprattutto il suo ti versi sbagliato. Certo, egli era un uomo di spirito allegrande talento di poeta drammatico dei suoni. In quegro e gioviale, pare ereditato dal padre (Rossini senior sta sede non voglio però occuparmi del Rossini musiciera soprannominato Vivazza), e trovò nella gastronomia sta tout court, ma piuttosto cercherò di palesare il legail suo ambiente naturale. Inoltre, a leggere le descriziome tra la sua attività principale di compositore e quella, ni delle cene lasciateci dai suoi biografi, non si può fare non secondaria ma effettivamente parallela, di gastroa meno di giudicarlo quanto meno un raffinatissimo nomo, cuoco e teorico dell’estetica dei sapori, ben più buongustaio; ed egli stesso si compiaceva nel definirsi complessa e profonda di quanto ci faccia credere la tanto gastronomo quanto musicista (amava dire di avemesse di aneddoti e barzellette sorta intorno allo stere due bernoccoli: uno in testa, per la musica, e un altro reotipo del Pesarese gaudente, pigro e irrimediabilsul ventre, per la cucina), e tra i suoi Péchés de vieillesse mente obeso che ne accompagna la fama di musicista. inserì Quatre Hors-d’oeuvres et quatre mendiants (letteralmente ‘Quattro antipasti e quattro frutta secche’) per Quando partecipiamo a un banchetto, andiamo alla pianoforte. ricerca per primi dei sapori forti, incisivi, grassi, che ci ricordano l’infanzia: tra un piatto di lasagne al ragù e una Del resto, l’affinamento costante del gusto e il pia-


Musiche

cere nello sperimentare i sapori si riflette sottilmente nella produzione musicale rossiniana; se fino dalle precocissime composizioni giovanili il musicista dimostrò di possedere un grande senso della melodia e una predisposizione per le strutture agili, nelle opere della maturità, come il Guillaume Tell e la ben più tarda Petite Messe Solennelle egli si abbandona a un raffinato lavoro timbrico, che lo porta a cercare nuove soluzioni strumentali (la partitura del Tell è il primo esempio di impiego del corno inglese in orchestra, fino dalle celeberrime terzine dell’ouverture) o a ridurre drasticamente l’organico orchestrale, creando atmosfere di incredibile intimità (la Petite Messe prevede, nella prima redazione, soltanto due pianoforti e un armonium oltre al coro e ai solisti). Probabilmente la musica lirica è più vicina alla gastronomia rispetto alla musica strumentale; l’arte del compositore d’opera è soprattutto un’arte di accostare, di mescolare accortamente voci e strumenti, mettendo in risalto il carattere di ogni personaggio evitando che l’orchestra sovrasti il canto. Esattamente come fa il cuoco quando imbastisce un sugo: egli parte da un’idea di massima relativa al sapore che vuole ottenere, e inizia ad accostare gli ingredienti valutandone sempre il gioco d’insieme, per fare sì che nessun sapore copra gli altri o si sperda nell’amalgama. In Rossini questa sensibilità è particolarmente acuta; da buon mediterraneo, egli usa pochi e genuini ingredienti, prediligendo un’orchestra mai troppo carica. Come una brava massaia prepara in maniera sempre originale i piatti della tradizione, così Rossini utilizza un ventaglio di sonorità ereditato soprattutto dall’usanza italiana settecentesca (un quartetto d’archi compatto, con un abile uso melodico dei bassi; una sezione legni basata su flauti e clarinetti spesso in impasto con gli oboi, e il fagotto aggregato quasi sempre a viole e violoncelli; gli ottoni scarniti e tendenti all’acuto, con i corni e le trombe ben rincalzati dagli indispensabili timpani e spesso dal tamburo militare),

che tende ad allargarsi solo nelle grandi opere francesi d’impianto più imponente, ma sa sfruttarlo abilmente con un attento lavoro di tessitura. In un buon ragù non deve esserci troppa cipolla, e il grasso della carne non deve sovrastare il dolce del pomodoro; Rossini lo sa, e gioca d’equilibrio: la sua scrittura timbrica è paragonabile a un gustoso sugo di carne, in cui i tre ingredienti fondamentali (archi, legni, ottoni più timpani) sono ben bilanciati, e anche nei fortissimo e nei calcolati crescendo l’orchestra appare omogenea e calibrata, come un risotto mantecato ad arte. Ci risiamo: l’ascolto ragionato di Rossini dovrebbe elevarci verso l’empireo delle zuppe di verdure, e invece ci conduce inevitabilmente ai succulenti ragù e agli stufati di cacciagione… Forse è bene che sia così, in quanto il Pesarese è un uomo dalle profonde radici mediterranee, che amava ugualmente Mozart e la mortadella (quale matrimonio fu mai più felice di quello tra Rossini e Bologna?), e la sua musica è succosa e saporosa, carica di scintillante comunicativa tanto nelle opere buffe quanto in quelle serie; egli sa essere musicista di altissimo livello in tutti i frangenti, dai momenti di puro artigianato (spesso le sinfonie delle sue opere erano scritte la mattina stessa della prima, dietro minacce di morte dell’impresario) alle vette di altissima ispirazione, come la Petite messe solennelle e il Guillaume Tell. Allo stesso modo, quando, nel corso degli anni, giunse a perdere quasi tutti i denti, Rossini concentrò la sua indagine gastronomica sui semolini e le minestre a brodo, raffinandone instancabilmente il gusto e giungendo talvolta a creare dei piccoli capolavori di sapore ed equilibrio. Cosicché, neppure l’infermità e la vecchiaia fiaccarono l’amenità del suo ventre e la raffinatezza del suo palato, e anche nelle avversità, l’amore per il bello (anzi, per il buono) dell’artista ebbe la meglio sul quotidiano affannarsi dell’uomo.

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Confini Annabella Losco

Il (vero) prezzo della produzione alimentare Non è possibile fare la spesa senza fare politica.

to del cibo, è abissale»:1 per questa ragione diventa imIl potere d’acquisto è oggi, nella nostra società, a tutti gli effetti un potere politico: come in una campaportante maturare la consapevolezza di ciò che si può gna elettorale, ogni nostra celare dietro la complessa compera rappresenta un voto realtà produttiva che fa giunL ’industria agro-alimentare e le sue da spendere, un diritto di scelgere un alimento sulla nostra ta da esercitare ogni giorno, tavola.2 strategie produttive: tenere conto Per esempio: con quali mequando decidiamo cosa metdelle ripercussioni sull’ambiente, todi un’azienda riesce a ottetere nel carrello. sulla salute e sulla forza lavoro può nere un costo di produzione Esprimendo la nostra presignificare prendere una coscienza basso all’origine, sul quale fare ferenza con il privilegiare il le cui conseguenze materiali si riin seguito lievitare i guadagni? prodotto di un’azienda piutflettano su una scelta politica Prendiamo un’azienda che tosto che di un’altra, con il nooperi nel settore agro-alimenstro denaro consentiamo a quella particolare azienda di tare: le sue spese più imporcrescere, espandersi e affermarsi ulteriormente; nel tanti, se escludiamo quelle di promozione e di pubblicicontempo, finanziamo (letteralmente!) la diffusione deltà (che pure incidono in maniera a volte determinante: la sua peculiare strategia di produzione, e di tutto ciò sempre più spesso ci viene venduta una immagine priche essa comporta: a volte anche pratiche che non conma che un prodotto), riguardano le materie prime e la divideremmo, se ne fossimo al corrente. manodopera. «Il gap di conoscenza che si è creato in soli cinquant’anni, in seguito alla delega nei confronti dell’industria agro-alimentare di tutto ciò che riguarda il reperimen38

Sul fronte delle materie prime, le strategie per incrementare la produzione riducendo nel contempo gli investimenti prevedono principalmente il ricorso a prati-


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che agricole e di allevamento intensive, con l’obiettivo comune di massimizzare il rendimento abbattendo i tempi di produzione. Dall’inizio della rivoluzione industriale fino a quella tecnologica, i ritmi di vita e di consumo sono aumentati con una rapidità impressionante; e il risultato è che il tempo è diventato il bene più prezioso, per cui si promuovono le soluzioni più economiche e più rapide, che consentono l’aumento della produttività. Ma nel processo di industrializzazione e massificazione dell’agricoltura, utile per diminuire i costi nell’ottica di un risparmio immediato, spesso non si tengono in dovuto conto le ripercussioni a lungo termine, sull’ambiente come sulla salute, dei metodi adottati. Le tecniche moderne di agricoltura intensiva, come quelle di allevamento in batteria, consentono di ottimizzare tempi e costi della produzione, ma comportano una serie di effetti secondari, spesso deleteri sull’ambiente e sulla qualità dei cibi prodotti, che possono incidere direttamente anche sulla salute di chi li consuma (basti pensare alle epidemie alimentari più clamorose degli ultimi anni). Questi oneri sul lungo periodo non sono ovviamente inclusi nei prezzi delle etichette, eppure qualsiasi stima dei costi reali dovrebbe tenerne conto.3 Per quanto riguarda la forza-lavoro, invece, sempre nell’intento di abbattere i costi, uno stratagemma diffuso tra medie e grandi imprese è quello di reclutare la manodopera e decentrare la produzione in paesi dove non siano previsti sistemi previdenziali o sindacali che regolamentino salario, orari e condizioni di lavoro. Il fat-

to che ci venga corrisposto un compenso adeguato, con orari e condizioni di lavoro accettabili, che venga fornita l’assistenza sindacale di base, che ai bambini in età scolare venga precluso l’accesso al lavoro per consentire loro di avere innanzitutto un’istruzione, sono per noi diritti inalienabili. Ma nella maggior parte del pianeta non è così, e queste condizioni attirano gli interventi e le speculazioni dei grossi gruppi commerciali, che aprono fabbriche o laboratori nei paesi dove la manodopera ha un costo decisamente inferiore, e possono così realizzare il guadagno più alto possibile infrangendo quelli che per il nostro sistema sindacale sono diritti basilari… senza però violare la legislazione del paese in cui stanno operando.4 La scelta dei prodotti da acquistare è dunque sinonimo di responsabilità, e per questo non dovrebbe cadere a caso. Bisognerebbe riconoscere che come consumatore ciascuno di noi ha un’influenza decisiva: spendere anche un solo centesimo, considerato nel meccanismo complessivo del mercato, assume un valore notevole e diventa un gesto di portata planetaria; con i nostri acquisti quotidiani siamo in grado di orientare il mercato e gli stili produttivi, in particolare con l’esercizio del nostro diritto di voto sul comportamento delle aziende, approvandone le scelte e premiandole con l’acquisto.5 Indirizzando i nostri acquisti in questo senso, sul lungo periodo diventerà possibile instaurare una nuova forma di concorrenza (non più basata sulla capacità di

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persuasione delle campagne pubblicitarie o sulla sbandierata convenienza dei prodotti, ma sulla correttezza e condivisibilità etiche e sulla sostenibilità ambientale dei sistemi produttivi). Come in una rivoluzione dal basso dunque, che si potrebbe realizzare tutti i giorni, prendendo forza proprio dalla sua portata quotidiana.

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Carlo Petrini, Il cibo e l’impegno, in «I quaderni di MicroMega», ottobre 2004, p. 13. Nell’intento di offrire uno stimolo a documentarsi maggiormente, rimando alla consultazione di Guida al consumo critico: informazioni sul comportamento delle imprese per un consumo consapevole, Centro Nuovo Modello di Sviluppo, Bologna, EMI, 2003. È un manuale con dati aggiornati e riferimenti precisi, che passa in rassegna tutti i marchi di larga diffusione che compaiono sul mercato italiano. Questi marchi vengono suddivisi per categorie merceologiche e giudicati in base a molteplici parametri, tra cui: trasparenza (disponibilità dell’azienda a fornire informazioni sul proprio operato e veridicità delle dichiarazioni); rispetto dei diritti dei lavoratori; Terzo mondo (correttezza nella gestione di eventuali attività produttive e commerciali nel Sud del mondo); armi ed esercito (eventuali finanziamenti alla produzione di strumenti bellici e rifornimento alimentare agli eserciti); animali e ambiente (impatto e compatibilità ambientale dei metodi di produzione adottati); vendite irresponsabili (introduzione deliberata nel mercato di prodotti dannosi per la salute); OGM (utilizzo di organismi geneticamente modificati nelle coltivazioni e nei foraggi per il bestiame); illeciti e frodi (informazioni su eventuali attività illegali, troppo spesso insabbiate: accade che gli avvocati imparino anche a tacere, sotto le lusinghe di una parcella cospicua…); etichette e pubblicità (chiarezza e correttezza delle informazioni fornite ai consumatori). Considerazioni particolarmente illuminanti sull’interconnessione strettissima tra pratiche agricole intensive, equilibrio ambientale e salute si trovano in Eric Schlosser, Fast Food Nation, Milano, Marco Tropea Editore, 2002 e in Julie B. Hill, Ognuno può fare la differenza, Milano, Corbaccio, 2002, pp. 133-160. Un’opportunità per i piccoli produttori dal Sud del mondo di presentarsi sul mercato senza l’intervento di intermediari che operino speculazioni sui prezzi è quella di prendere parte al circuito internazionale del Commercio Equo, che consente di instaurare rapporti commerciali di nuovo stampo con i paesi industrializzati, basati sulla correttezza, sulla reciproca collaborazione e non sulla concorrenza per i profitti (si può trovare una biografia ampia e interessante di come è nato e ha preso piede questo modo nuovo di in-

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tendere le relazioni commerciali in Nico Roozen, Frans van der Hoff, Max Havelaar: l’avventura del commercio equo e solidale, Milano, Feltrinelli, 2003). Con la prassi eteronoma dei sussidi e degli aiuti umanitari ci si allontana dall’ottica del sostentamento a breve termine, predisponendo una concreta possibilità di emancipazione progressiva per le aree del pianeta in via di sviluppo - in senso materiale e non ipocritamente idealistico. Comprando o anche astenendoci di proposito dal farlo: il boicottaggio come deliberata azione passiva e forma di protesta, silenziosa ma efficacissima. A questo riguardo, un contributo significativo e di semplice consultazione si trova in Mini guida al consumo critico e al boicottaggio, del Movimento Gocce di Giustizia (vd. <www.goccedigiustizia.it>), Padova, La Tortuga, 2003 (nuova versione aggiornata), in distribuzione presso le botteghe dell’Associazione Botteghe del Mondo (<www.assobdm.it>).


Confini Tommaso Gragnato

Languori d’Africa

Colloquio con il direttore di «Nigrizia» Nel corso del Millennium Summit promosso nel settembre del 2000 dalle Nazioni Unite, centottantanove capi di Stato e di governo si sono impegnati nella programmazione di un progetto per costruire un mondo più giusto e sicuro entro il 2015. Tra gli obiettivi è menzionata l’eliminazione della povertà e della fame estrema. Risultato: in un recente rapporto dell’Oxfam, un’organizzazione non governativa inglese, si legge che i dati analizzati nel 2000 rilevano dei peggioramenti negli ultimi quattro anni. L’elemento che risalta da tale studio riguarda i cosiddetti paesi ricchi che si sono impegnati a parole, firme e controfirme, commissioni e dichiarazioni e successivamente hanno dimezzato i fondi per gli aiuti ai paesi sottosviluppati. Le emergenze umanitarie nel Sud del mondo ci sono, permangono e anzi peggiorano. Porre un’analisi della relazione tra fame e marginalità dell’individuo, tra povertà e sottosviluppo culturale, impone una riflessione e un confronto diretto con personalità che abbiano conosciuto la concretezza del disagio, le difficoltà della cooperazione e della mediazione culturali.

La solidarietà con l’emergenza umanitaria può far risplendere le coscienze, pacificare la giornata nella quiete di una donazione telefonica, ma nasconde al senso comune una parte consistente se non fondamentale del problema: la necessità di affrontare questo tema da un punto di vista strettamente politico-economico; è su quel terreno che si misurano le forze. Se sta nascendo sotto i nostri occhi un Occidente estremamente generoso e solidale, ciò è molto bello, è umanamente corretto, ma non sufficiente. A volte questo ideale si è perfino rivelato fuorviante o si è prestato a veicolo di speculazione commerciale e di torbidi traffici internazionali. Si ripresentano alla memoria le esperienze di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (giornalista e cameraman del tg3 uccisi in Somalia in circostanze dubbie mentre seguivano una pista sul traffico di rifiuti tossici dall’Italia), della Operazione Arcobaleno in Kosovo (sulla gestione scellerata degli aiuti italiani alle popolazioni della ex Jugoslavia); si ode la voce vibrante di Alex Zanotelli, la sua denuncia sui traffici di armi dall’Italia all’Africa, sulla «malacooperazione». «We must sell our past to other nation as their futu-

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re» fa dire Julian Barnes in England, England a un cinico uomo d’affari [J. Barnes, England, England, Oxford, Picador, 1999, p.40; trad. it. England, England, Torino, Einaudi, 2000, p.46]. Il problema sta proprio nel verbo sell, ‘vendere’. Non c’è nulla da vendere nelle Afriche! Non c’è nulla da guadagnare. «Le Afriche» è una espressione che ama usare Carmine Curci, direttore di «Nigrizia»; in essa si evidenzia la compresenza delle molte realtà e identità del Continente Nero e, in senso più esteso, del mondo nero. Realtà che non si riconoscono nell’immagine convenzionale di una sola Africa, povera e affamata. Carmine Curci scuote il nostro sogno umanitario, parla da politico ed economista, risponde alle nostre domande. C’è una sfumatura non troppo sottile tra il termine cibo e il termine fame. Quanta fame ha l’Africa? Quanto cibo ha l’Africa? L’Africa è il secondo più grande continente al mondo, ma soprattutto l’Africa non è un continente povero. Il Sudan, che in gennaio ha visto finalmente firmata la pace dopo ventuno anni di guerra civile, potrebbe produrre con la ricchezza delle sue terre grano a sufficienza per sfamare tutta l’Africa; un altro esempio riguarda l’Angola e le sue grandi distese di legname; molti altri paesi hanno nelle loro risorse naturali possibilità per emergere e rendere autosufficiente tutto il continente. C’è un’ombra lunga dell’Occidente in Africa? Ci sono le guerre. Se noi mettiamo insieme i paesi che hanno una situazione di guerra o di guerriglia, ci accorgiamo che questi sono i paesi più ricchi o potenzialmente più ricchi. Quello che l’Africa chiede è di essere competitiva sul mercato. Le grandi multinazionali si muovono con politiche che creano disparità: proteggono i propri agricoltori con grossi incentivi. Il mais americano con grossi contributi statali costerà molto meno del mais africano perché in Africa non ci sono contributi statali. Inoltre i prezzi vengono decisi nelle grandi Borse internazionali. È importante capire che l’Africa non vuole aiuti. Chiede commerci, chiede mercati. Bisogna domandarsi se il governo statunitense e quelli europei sono disposti ad aprire il mercato globale al mercato africano, senza costruire tanti ostacoli. Pretendono di entrare con merci e servizi nel mercato africano ma non vogliono che il mercato africano entri in Europa. Proprio nell’editoriale dell’ultimo numero di «Nigrizia» ho affrontato personalmente questo tema. Il 92% degli aiuti italiani allo sviluppo è speso nell’acquisto di prodotti e servizi italiani, una quota tre volte superiore alla prassi che si assesta intorno al 30%. La questione è che un aiuto vero che si sviluppi negli anni e non si fermi a un puro avvenimento assistenziale, na-

sce quando all’interno del progetto la voce del profitto per il paese donatore è minimale o ininfluente. Se nell’esprimere una solidarietà materiale viene considerata una clausola tale da restringere l’appalto degli aiuti a ditte della nazione che soccorre, se si affianca al nostro atto di generosità il senso di guadagnarci qualcosa, sappiamo già come andrà a finire: ne deriverà un aiuto assistenziale che una volta svanito l’effetto immediato lascia sul territorio nuovi bisogni che non possono essere soddisfatti senza un continuo intervento esterno di chi ha aiutato. È la differenza tra un vero intervento d’aiuto e la sponsorizzazione. Le porto un esempio. Durante la mia permanenza in missione in Malawi, si verificò una carestia. Arrivarono molti aiuti internazionali; dei sacchi di grano bianco furono distribuiti alla popolazione affamata. La gente cominciò a fare il pane bianco. Finita la carestia il governo si è trovato a dover sedare disordini perché la popolazione pretendeva ancora grano bianco per il pane. Bisogna sviluppare fortemente e assolutamente l’idea che prima di ogni intervento sia necessaria la conoscenza della cultura del popolo che si aiuta. È l’unico metodo per non dissipare energie e risorse nella ricchissima selva culturale delle duemilacento etnie che popolano l’Africa. 43

C’è un’unità di misura che determina la soglia della povertà estrema: meno di un dollaro al giorno. Ci piace poco questo parametro; ha la capacità di monetizzare l’esistenza e le esigenze di un uomo. Dovrebbe sconvolgerci e non lo fa. Come vivono le comunità africane più bisognose la quotidiana necessità di nutrimento? Attenzione! In alcune tribù nomadi avere un dollaro al giorno è una ricchezza. Usare i termini di quantificazione occidentale nella realtà africana è un azzardo che ci porta lontano dalla verità. Dobbiamo mettere da parte l’idea che l’Africa sia un continente di estrema povertà. Dove c’è la fame ci sono delle responsabilità politiche internazionali. Dove c’è la fame c’è guerra, carestie, fattori ambientali. Dove la gente può produrre e commerciare non c’è fame. I popoli africani sono popoli che si muovono, che fanno


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commercio e sanno come agire. Ed è importante non applicare i nostri metodi di avere e dare alle culture africane. Sono popoli e mondi diversi. Ecco un altro motivo per cui negli ultimi trent’anni i progetti di sviluppo portati dall’Occidente in Africa sono falliti. Quale legge regola l’economia nutrizionale dei paesi più poveri? Chi decide le politiche agricole? Le politiche agricole sono decise fuori dall’Africa. Chi chiede di entrare nella discussione si trova delle grandi barriere. Un’Africa ricchissima in agricoltura, in materie prime, in diamanti, si trova sotto l’influenza di grandi forze internazionali che decidono il destino economico del continente. Anzi oggi succede qualcosa di molto più grave. Non sono più i paesi, i governi a esercitare il potere decisionale ma piuttosto poche e grandi multinazionali, lobby, corporation. Ci sono delle corporation che hanno un bilancio due volte superiore a quello di uno stato africano; questo è legato anche a servizi militari, servizi di sicurezza, servizi privati di mercenari, servizi di intelligence. Queste multinazionali non devono rispondere ad alcuno stato e manca quindi una realtà politica di riferimento. Come possiamo vedere negli ultimi anni, la lotta è arrivata al punto che esse stanno puntando a indebolire anche il soggetto politico delle Nazioni Unite. Analizzando le prospettive possibili e praticabili, le chiederei un giudizio, una riflessione sulla potenzialità del mercato equo-solidale. È un aiuto concreto. Una realtà in crescita. A mio giudizio ci vorrebbe un impulso più commerciale, ci vor-

rebbe maggiore professionalità in questi tipi di commercio, un po’ di marketing. La gente, il consumatore deve sapere che esistono prodotti alternativi e che scegliendo un prodotto del mercato equo-solidale dà un aiuto e i soldi che spende sono un equo corrispettivo del prodotto che ha comprato. Se poi giudica il prodotto buono, dovrebbe farlo entrare nelle proprie abitudini di consumo perché questa idea vada avanti. Come può inserirsi la questione degli organismi geneticamente modificati (OGM) nelle economie di sussistenza? È un grande interrogativo. L’aspetto più serio del problema è che non viene fornita alcuna spiegazione alla popolazione. In Africa arrivano semi geneticamente modificati, spesso mescolati a sementi naturali; la gente vede arrivare questi sacchi e li usa senza conoscerne la provenienza: il primo anno il terreno ha una resa altissima, il secondo anno di meno e il terzo anno l’agricoltore si accorge che la sua terra è distrutta. È quindi un grosso problema di giustizia e soprattutto di informazione. Il fatto che «Nigrizia» testimoni da più di un secolo con la propria esperienza l’evoluzione della situazione africana può far maturare e sviluppare coscienza e sensibilità alla massa dei consumatori occidentali. Testimonianze politiche, economiche e culturali sono importanti per sviluppare nel nostro mondo un’educazione alla moderazione nel mangiare e in generale alla salvaguardia delle risorse del pianeta. La conoscenza delle diverse culture del pianeta serve a questo: a sviluppare in noi una salda consapevolezza, un’attenzione critica che vada a modificare costumi consumistici.

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«Nigrizia» La rivista nasce nel gennaio 1883, come bimestrale che raccoglie testi e resoconti dei viaggi missionari di Daniele Comboni. Nel 1958 cambia veste e si apre all’esterno: «La Nigrizia» diviene un rotocalco che accompagna e testimonia lo sviluppo delle missioni comboniane in Africa; uno sguardo e una voce occidentali sulla tematica dell’Africa delle indipendenze. Nel 1978 la direzione della rivista è affidata a Padre Alex Zanotelli. «Nigrizia»

continua il suo ruolo di informazione e vigilanza sul mondo africano. Con uno storico editoriale, Alex Zanotelli, nel gennaio 1985, porta al centro della discussione il ruolo delle forze politiche nella gestione del problema della fame in Africa. La denuncia di Zanotelli è quella di «malacooperazione» all’interno del governo italiano. Uno stralcio: «È sempre più risaputo che i soldi destinati alla lotta contro la fame o allo sviluppo vengono usati per altri fini, perfino

nel giro delle armi. Ed è inoltre sempre più evidente come l’interesse da parte delle forze politiche italiane proviene più da un preciso tornaconto che da un genuino amore per i poveri». Nel gennaio 2003 diviene direttore padre Carmine Curci, già redattore della rivista e con esperienze missionarie in Brasile, Malawi e in Kenya, dove ha diretto il New People Media Centre. [t.g.]


Francesca Blesio

Figlie infelicemente perfette Lo specchio che rimanda un’immagine diversa da quella della polaroid appena scattata, la matematica applicata alle calorie, quello spietato pozzo dei desideri chiamato frigo, i manicaretti cucinati con cura esclusivamente per gli altri, le due dita dirette in gola, i vestiti larghi a nascondere quel che resta del corpo, le bugie inventate per celare il segreto, gli sguardi prima lusinghieri e poi spietati delle persone, lo sgomento e il terrore negli occhi di mamma e papà che non capiscono perché e i medici che pronunciano la parola morte… Scene da un copione che in tanti conoscono e che racconta il dramma di corpi anoressici e bulimici, le storie di rapporti fortemente problematici con il cibo.

L’anoressia e la bulimia sono diventate il disagio femminile per eccellenza, quello che nell’Ottocento era l’isteria. Quest’ultima fu la reazione femminile alla condizione di inferiorità e di impotenza in cui era posta la donna, alla quale si chiedeva di risolvere il contrasto bruciante tra la richiesta di sensualità e femminilità e i dettami di una morale sessuale rigida e repressiva nei suoi confronti. Evidentemente, nonostante i problemi delle donne siano cambiati da allora, sono rimaste aspre contraddizioni appare bulimia nervosa: disturbi tenenti alla questione deldevianze che impressionano l’identità femminile.

L’anoressia e la bulimia sono, come è noto, disturbi del comportamento aliAnoressia mentare caratterizzati da alla moda, un’ossessiva ricerca di maperché colgono contraddizioni evidenti grezza e dal terrore di indella nostra cultura. Conflitti con il cibo, 1 grassare. Sono questo e Il disturbo anoressicocon se stessi e con il mondo che pongomolto altro; basti sapere che bulimico si verifica solitaquello anoressico–bulimico mente nell’adolescenza, no la nostra società sul banco degli imè stato definito dagli studioperiodo di importanza straputati si un vero e proprio disturtegica per la definizione bo etnico e un problema della personalità e del caculturale, oltre che la malattia del secolo (scorso e prorattere dell’individuo; e periodo, come ci raccontano le babilmente anche di questo). Ciò significa che la disesperienze dirette e la letteratura specializzata, particocussione su questa patologia non può fermarsi al sintolarmente difficile e complesso. L’adolescenza è carattemo e a un’analisi solamente medico–scientifica, ma rizzata da una molteplicità di cambiamenti che coinvoldeve comprensibilmente andare oltre. Dietro la magono il giovane e si ripercuotono all’interno del conteschera di una malattia psichica si nascondono contradsto familiare. Primo fra tutti quello della definizione deldizioni sociali e culturali, oltre a malesseri emotivi avl’identità. Non sempre la famiglia è pronta ad accompavertiti oggi in Italia da tre milioni di persone. Di donne, gnare il figlio nella libera ricerca di se stesso. Anzi. È soprattutto; perché, anche se il numero di individui di spesso proprio questa a porre insidie a una crescita sesso maschile afflitto da questo problema sta crescenequilibrata. La pronunciata percettività e l’instabilità, do, risulta essere comunque ancora irrisorio rispetto a caratteristiche di questa fase di sviluppo, rendono il raquello femminile. gazzo particolarmente sensibile ai dissidi e alle con-

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traddizioni propri dell’ambiente in cui vive. Il poco o il troppo amore manifestato al figlio dai genitori, può scatenare in lui reazioni non previste; così come altri conflitti interni alla famiglia o vissuti dai singoli componenti di questa. La sofferenza emotiva dell’adolescente, se non compresa, può portare a un forte malessere e a forme, anche cliniche, di disagio. Una delle più diffuse è proprio quella di cui stiamo scrivendo, specialmente, come appuntavamo sopra, nel caso delle ragazze: il disturbo dell’anoressia e della bulimia nervosa. Altro cambiamento importante di questo periodo è quello corporeo. Passata la pubertà, il fisico delle bambine si va avvicinando a quello delle madri e delle donne in genere. La superficie del corpo diviene sempre più evidente e le reazioni che si scatenano da questo cambiamento provocano un mutamento anche dei rapporti interpersonali, soprattutto con il genere maschile. L’aspetto fisico inizia a essere considerato un elemento preponderante nell’economia di una valutazione della propria persona: indole e intelligenza (o buona riuscita nelle proprie passioni), passano facilmente in secondo piano. Nonostante anni e anni di lotte femministe il corpo nella donna continua a essere oggi una componente fondamentale nel giudizio globale su di lei: da parte della società e, ovviamente, ancora di più della stessa ragazza che sta diventando donna. In un’età di continui dubbi e scelte, è più che naturale ricercare il modello ideale di donna codificato dall’ambiente per avvicinarsi a esso; e se l’apparenza continua a vincere, sembra logico che l’aspetto fisico avrà, nella creazione della propria persona, un peso notevole. Tuttavia, il modello vincente di donna proposto oggi dalla nostra società appare irrealizzabile: si chiede una perfezione irraggiungibile, e non solo estetica. Lo stesso ruolo della donna risulta definito in maniera ambigua; la società le richiede di essere una superdonna, di accogliere dentro di sé due entità antagoniste: una donna forte, capace nel lavoro e indipendente, e una donna dolce, accogliente, femminile e sensuale. E bella, ovviamente. Il compito è alquanto ingrato, e soprattutto difficile. Facile allora, di contro, se non si hanno i mezzi o le capacità per rielaborare i messaggi ricevuti, perdere il senso delle cose e perdere se stessi. Come abbiamo visto in precedenza, sfortunatamente non sempre la famiglia e l’ambiente che si hanno intorno aiutano nell’impresa di costruire se stessi con serenità. Integrare ambizione e accondiscendenza non è affatto agevole ed è anche per questo che la costruzione di una propria identità può diventare in alcuni casi un’impresa titanica, e nella frattura tra essere e dover essere può germogliare il seme della sofferenza. Questo problema di identità, dalle ragazze che maturano il disturbo dell’anoressia e della bulimia viene falsamente risolto nella ricerca della magrezza. La magrezza, scrive Richard A. Gordon, «è l’ideale che tiene insieme gli elementi conflittuali della nuova identità fem-

minile, costituita, da una parte da potenza, capacità e padronanza e, dall’altra, da cura, compiacenza e sottomissione verso gli uomini».2 Il corpo magro è associato a valori positivi: autocontrollo, efficienza, competitività; quello grasso invece evoca attributi quali la pigrizia, l’indulgenza verso se stessi e l’avidità. Il corpo magro è quello delle modelle, delle donne venduteci come perfette. È il modello di donna venerato dagli anni Sessanta a oggi: quello di Twiggy e di Kate Moss, quello che tanto pericolosamente somiglia alle sculture di Giacometti, e che la nostra società ci vuole slealmente rifilare come il migliore dei corpi possibili.3 Come l’unico accettabile. Dalle comunicazioni dei mass media il messaggio che arriva è che con un corpo così, con una bellezza di questo tipo, tutto è possibile: se hai un fisico come quello delle dive del momento, puoi avere tutto quello che hanno loro, quindi anche quella felicità che si suppone abbiano ottenuto con fama e ammirazione. Peccato però che le cose non stiano proprio così; che al di là delle dichiarazioni rare e fasulle sul meraviglioso mondo della moda e dello star system, ci sia una realtà spaventosa di solitudine, frustrazione e sofferenza. Difficile però è filtrare un messaggio assurdo e di facile distorsione: per essere stimata devi essere magra; soprattutto perché alcuni messaggi arrivano laddove ci sono sensibilità pronte ad accoglierli, terreno fertile. È proprio il caso delle ragazze di cui stiamo scrivendo: ragazze che scelgono di vivere d’aria e di liberarsi del peso della carne; che, attraverso il rifiuto di cibarsi o riempiendosi di cibo fino a scoppiare, comunicano il loro disagio, la paura del vuoto. Parlano con il corpo, attraverso la rinuncia o l’ossessione del cibo, perché evidentemente è diventato difficile comunicare con le parole o più semplicemente essere ascoltate. È bene tenere presente che il cibo è il modo primordiale in cui ogni essere umano entra in rapporto con il mondo. Il fatto che possa diventare in alcuni casi l’unico mezzo efficace per esprimersi, non deve sconvolgere; e nemmeno che si connoti di significati tanto importanti. Queste donne combattono il vuoto che sentono dentro e lo fanno controllandolo attraverso il digiuno o lo riempiono con dosi infinite di cibo; il pensiero ossessivo del cibo ha del resto effetti simili a quelli di un anestetico: annulla le passioni ed elimina le emozioni. Se la difficoltà è quella di crescere e di vivere, in un ambiente che lo impedisce o che comunque non aiuta, ogni panacea alla sofferenza è la benvenuta, anche se i suoi effetti possono essere devastanti. L’anoressia e la bulimia non sono difatti semplicemente malattie dell’appetito, sono più simili a una dipendenza: «La persona che usa il sintomo anoressico-bulimico, come chi fa uso di sostanze stupefacenti - spiega chiaramente Fabiola De Clercq -, ha bisogno per qualche motivo di anestetizzarsi, di soffocare un dolore, e lo fa con la bocca, come se il cibo fosse un tappo: invece di urlare la sua disperazione, si chiude la bocca con il cibo o al cibo per non dire la sua sof-

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ferenza».4 L’effetto immediato di questo rapporto alterato con il cibo sono corpi che riflettono l’immagine della morte e sguardi che implorano amore e non pane. Sottraendosi allo sguardo, assottigliandosi, si rendono più visibili a quelli di cui ricercano l’attenzione. Come a noi tutti, perché esprimono una crisi culturale che coinvolge la nostra società, e non solo il ricco Occidente.5

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Anoressia e bulimia sono malattie, più comuni tra le donne, che si servono del corpo per esprimere un disagio psicologico. L’anoressia è un disturbo dell’alimentazione che comincia solitamente con una dieta finalizzata al miglioramento del proprio aspetto. È caratterizzato da un drastico rifiuto del cibo, da calo ponderale, da distorsione dell’immagine corporea (l’anoressica non si sente mai magra abbastanza) e da amenorrea. L’anoressia attacca duramente il corpo nelle sue funzioni vitali e può condurre a gravissime conseguenze fisiche, nei casi più gravi alla morte. La bulimia è una condizione caratterizzata da ricorrenti episodi di abbuffate con sensazione di mancanza di controllo sul comportamento alimentare. Il senso di colpa che ne deriva porta la bulimica a ricorrere a condotte eliminatorie assai pericolose (vomito autoindotto, abuso di diuretici e lassativi). La bulimia non è chiaramente visibile come l’anoressia, ma ha effetti altrettanto rovinosi sulla vita e la salute di chi ne soffre. Richard A. Gordon, Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, Milano, Raffaello Cortina, 2004, pp. 112-113. Non risolvendo la contraddizione evidente tra l’imperativo consumistico e quello del binomio magrezza–bellezza la nostra cultura sceglie delittuosamente di blandire l’anoressia e la bulimia. Come scrive René Girard, un grosso aiu-

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to a perdere peso lo dà «il sistema capitalistico che è senza dubbio abbastanza intelligente da adeguarsi alla mania della magrezza inventando ogni sorta di prodotti che si suppone siano in grado di aiutarci nella nostra lotta contro le calorie, ma il suo istinto va nella direzione opposta: favorisce il consumo rispetto all’astinenza». René Girard, Il risentimento, Milano, Raffaello Cortina, 1999, p. 157. Fabiola De Clercq, Fame d’amore, Milano, BUR, 1998, p. 25. Fino a qualche anno fa si riteneva che il disturbo fosse diffuso unicamente nella popolazione bianca e ricca degli Stati Uniti e nelle famiglie benestanti dei paesi più prosperi dell’Europa: che il reddito alto, insomma, fosse un fattore determinante. Questa immagine prettamente d’élite del disturbo è stata rivista, e l’attenzione degli specialisti si è indirizzata verso i valori culturali imperanti e sempre più simili. Grazie alla globalizzazione culturale, condotta attraverso la diffusione e l’influenza dei mass media, e all’industrializzazione e urbanizzazione avvenute negli ultimi anni, i disturbi del comportamento alimentare sono arrivati a toccare quasi tutti i luoghi del mondo e le fasce di reddito, compresi i paesi più poveri. L’insediamento dei valori dell’economia consumistica dall’Europa e dagli Usa, e l’aumento dei conflitti legati alle repentine trasformazioni del ruolo della donna, rendono in questo modo globale il problema dell’anoressia e della bulimia. Emblematico è il caso, riportato da Richard Gordon, delle isole Fiji, nelle quali, con l’arrivo della televisione con attivo un solo canale che trasmetteva programmi come Beverly Hills 90210 e Melrose Place, si sono cominciati a notare comportamenti alimentari distorti. Secondo quanto riportato, se prima gli abitanti mostravano un atteggiamento di accettazione e di gradimento della grassezza, dopo questo intervento mediatico hanno iniziato a rivelare insoddisfazione per il proprio peso e per la prima volta hanno intrapreso una dieta (con le donne in prima fila). Vd. Richard A. Gordon, Anoressia e bulimia. Anatomia di un’epidemia sociale, cit.


Confini Roberto Gibertini

Incontro vegetariano Canovaccio di conversazione con chi apprende che da sette anni sono vegetariano.

tutt’altro: la cucina tipica italiana include piatti unici con tali combinazioni (pasta e ceci, riso con i piselli). Il problema principale per un vegetariano male inSei vegetariano? E che cosa mangi? formato è invece la mancanza di ferro,1 alla quale si può In realtà sono LoVeg (LactoOvoVegetariano). Vegetasopperire con un’assunzione regolare di vitamina C e riano per definizione è chi non mangiando legumi vari (spemangia né carne né pesce; esicialmente le lenticchie) o mastono poi i Vegani, persone che gari usando, come condimenDialogo tra un LactoOvoVegetariaoltre alla carne e al pesce non to dei cereali, il lievito secco in no e un comune sostenitore della mangiano neanche uova e latscaglie, ottimo come sapore e mortadella ticini. Ognuno ha un approccio ricchissimo di nutrienti. diverso al vegetarismo, a sePer un vegano, invece, conda delle motivazioni che lo compare anche il problema hanno spinto ad abbracciare questa scelta di vita. Ci della B12,2 vitamina completamente assente da tutti i vesono persone che rifiutano ogni cibo, od oggetto, che getali naturali escluse le alghe, ma presente nei lieviti; sia in qualche modo legato agli animali, come per esemmolto spesso i vegani ricorrono a integrazioni di questa pio il miele o gli indumenti di lana, oppure i medicinali importantissima vitamina (è per questo che non sono preparati con il loro ausilio. Io personalmente non manvegano, non mi sembra bello ricorrere a prodotti artifigio carne né pesce, non indosso abiti di pelle, ed evito ciali per integrare la propria dieta quando la natura ci tutto quello che è stato cruento nei confronti degli anidà tutto quello di cui abbiamo bisogno); un vegetariamali o tutto quello che è oramai lontano da ciò che era no sopperisce invece al fabbisogno già grazie a un in natura, come per esempio lo zucchero bianco. Tolto uovo alla settimana e a piccole quantità di latticini. questo, rimane quello che mangio: una miriade di tipi diversi di verdura (zucche, erbe selvatiche, rape, barbabietole, ecc.), tutte le varietà di cereali (miglio, avena, segale, quinoa, amaranto), di legumi (ceci, soia, lenticchie), di frutta; e poi funghi, miele, alghe, semi oleaginosi (noci, sesamo, mandorle), birra, vino... e forse è meglio che mi fermi sennò facciamo notte. Dimenticavo: ovviamente mi nutro anche di tutti i prodotti da essi derivati. La tua dispensa, da quel che mi dici, non deve essere vuota. Ma mi spieghi come fai con le proteine? Ti confesso che le proteine sono l’ultimo dei problemi che un vegetariano può avere. Rapidamente. Le proteine sono composte di amminoacidi, che possono essere di diversi tipi: quelli essenziali per un adulto sono otto, mentre quelli necessari per un bambino sono nove. Le proteine della carne sono abbastanza ricche di tutti e otto gli amminoacidi essenziali, mentre quelle dei legumi, dei cereali e dei semi oleaginosi no; i primi mancano di alcuni amminoacidi che sono presenti negli altri e viceversa. Combinando cereali, legumi e semi oleaginosi e magari integrando anche con delle proteine complete (come il formaggio sulla pasta o il lievito sempre sui cereali), si ottengono proteine dello stesso valore di quelle della carne. La cosa non è impossibile,

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Mi spieghi perché uno come te o come me dovrebbe rinunciare alla carne? Le motivazioni che possono portare una persona a diventare vegetariana, in una delle tante forme presenti, possono essere molteplici; la più nota è quella animalista, ma ce ne sono molte altre. Te ne elenco alcune. Ambientalista. L’allevamento degli animali richiede enormi quantità di foraggio (una mucca restituisce un chilo di proteine animali ogni otto-nove chili di proteine vegetali di uguale valore che le vengono date in pasto); questo ci costringe a utilizzare metodi intensivi di coltivazione, pesticidi, concimi (che vanno a inquinare la terra e lo stesso cibo che viene prodotto), e richiede inoltre una maggiore quantità di acqua e di spazio. Se ognuno fosse vegetariano, basterebbe lavorare la metà delle terre coltivate oggi per sfamare tutti (intendo proprio TUTTI), e le colture biologiche non sarebbero una costosa rarità ma la norma; la salute pubblica migliorerebbe infinitamente, e anche quella della terra.

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Salutista. Gli unici vantaggi di una dieta carnea sono il semplice apporto di ferro immediatamente disponibile e di vitamina B12 in quantità. Per il resto, la carne comporta solo dei problemi nel nostro organismo: il colesterolo, per esempio, non è assimilabile dall’organismo umano (mentre lo è per gli animali carnivori) e conosciamo tutti i suoi effetti su di noi;3 alcune malattie animali possono trasmettersi all’uomo attraverso l’ingestione delle carni dell’animale malato; la carne che mangiamo comunemente è di dubbia provenienza e potrebbe benissimo contenere tracce di antibiotici, ormoni o altre porcherie chimiche. Il pesce, che sarebbe un alimento perfetto, purtroppo ha la sfortuna di vivere nel mare, uno dei ricettacoli delle peggiori schifezze che gli uomini producono; non sono rari i casi di intossicazione dovuta a pesce inquinato da immondizia varia o addirittura da sostanze come mercurio o uranio. Non solo chi si avvicina al vegetarismo per motivi salutistici solitamente si prende la briga di studiare come dovrebbe essere una corretta alimentazione, non solo non rimane denutrito, ma si ciba meglio di come faceva

quando era onnivoro. Oltre a quelli che sono vegetariani per migliorare la propria salute, ci sono ovviamente casi in cui lo si è per intolleranze alla carne o al pesce. Religiosa. Alcune religioni sostengono il vegetarismo come forma di alimentazione non violenta e depurativa per l’organismo. Si dice che anche i primi cristiani fossero vegetariani, e per questo venissero perseguitati dai romani che amavano mangiare la carne. Animalista. Ho lasciato questa motivazione per ultima, non perché sia la meno importante ma perché preferisco dare la precedenza a tutte quelle che la gente solitamente ignora. Un vegetariano animalista non mangia carne semplicemente perché ama gli animali e pur di non farli soffrire è disposto in alcuni casi a rimetterci la propria salute; per quanto io non condivida questa scelta, mi sento di rispettarla. Sicuramente mi sono scordato di mille altre motivazioni, spero che tu mi possa perdonare. Sì, ma tu perché sei vegetariano? E come ti è venuto in mente di diventarlo? E poi, sii sincero, ma non ti manca la mortadella? Io sono vegetariano per motivazioni ambientalistico-salutiste, e il modo in cui lo sono diventato è troppo lungo per parlarne ora, se vuoi stasera davanti a del seitan alla piastra con contorno di pomodori arrosto te lo racconto con calma. Se mi manca la carne? Sarei un falso se dicessi che non è così: io sono sempre stato un buongustaio e alcune pietanze per me erano quasi divine. Oggi ho scoperto però un modo differente di nutrirmi, ho fatto la conoscenza di cucine di molti paesi diversi e la mia è diventata la fusione delle parti di esse che più mi sono piaciute; chiunque venga a mangiare a casa mia non rimane mai deluso, anzi solitamente resta piacevolmente sorpreso. Se c’è una cosa che poi mi sprona a continuare per la mia strada è rendermi conto che per soddisfare un mio bisogno interiore sono in grado di rinunciare a un piatto di tortellini in brodo, che un tempo mi facevano impazzire, senza troppi rimpianti; sapere, quindi, di riuscire a rimanere fedele ai miei ideali davanti a qualsiasi cosa.


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Ancora non mi hai convinto del tutto… Quando mi inviti a cena? Spero di averti chiarito un po’ le idee, almeno. Se però credi che io sia pazzo, a cena non t’invito. E, nel caso, non sai cosa ti perdi! Note 1

Il ferro che assumiamo può essere di due tipi, emenico e non emenico. Il primo si trova nella carne ed è derivato dall’emoglobina contenuta nel sangue; per essere bene assimilato dall’organismo non ha bisogno di fattori esterni come la composizione dei pasti. Il ferro non emenico invece (quello dei vegetali), varia la sua assimilazione secondo diversi fattori, come la combinazione degli alimenti nei pasti e la preparazione delle vivande. I fattori che aiutano un vegetariano ad assimilare il ferro non emenico sono: il consumo di glucidi semplici, il consumo simultaneo di vitamina C (elemento determinante: l’assunzione di cento millilitri di succo di arancia alla prima colazione triplica l’assimilazione del ferro non emenico), il fatto di non mescolare i vari

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alimenti. Ci sono poi delle cause che ne determinano il male assorbimento: i tannini del tè e del caffè, i latticini, la crusca dei cereali lo riducono drasticamente. I consigli utili per avere un apporto sufficiente di ferro sono pochi e semplici: consumare cibi che ne sono provvisti, come i legumi e i cereali, e utilizzare integratori come il lievito (per integratori intendo cibi che per la loro particolare ricchezza di nutrienti possono essere considerati tali, sono invece contrario a integratori sintetici in pillole), assumere le giuste quantità di vitamina C tramite il cibo (verdure a foglia verde, frutta, patate, peperoni), ridurre gli alimenti che ne rendono difficoltoso l’assorbimento, come la crusca (per questo vanno utilizzati cereali semi-integrali e non integrali), evitare le cotture lunghe in acqua, la caffeina, lo smog, lo stress, ecc. La vitamina B12 è presente nella carne, nel pesce e nei latticini; gli unici vegetali che ne contengono in quantità apprezzabili sono le alghe e i lieviti. I vegani, che non consumano latticini e uova, hanno necessariamente bisogno di integrare artificialmente la vitamina B12 per non incorrere nei gravi problemi che la carenza di questa vitamina causa. In realtà, dal punto di vista medico-scientifico questa affermazione non è propriamente corretta. Per motivazioni e approfondimenti, si rimanda al box allegato all’articolo. [N.d.R.]

Il controaltare Abbiamo chiesto un parere a proposito dei valori nutrizionali della dieta vegetariana al Dottor Massimiliano Petrelli della Unità Operativa di Dietetica e Nutrizione Clinica dell’Ospedale Regionale di Torrette di Ancona. Ecco le sue opinioni. La dieta vegetariana è fondamentalmente carente da un punto di vista proteico. Le proteine animali hanno un alto valore biologico per la loro completezza e ricchezza di amminoacidi essenziali. Carne, pesce, formaggio e latte contengono infatti tutti e otto gli amminoacidi essenziali. Con il termine «essenziale» si intende un amminoacido che non può essere sintetizzato dal nostro organismo ma deve essere introdotto con la dieta, altrimenti non saremmo in grado di formare alcune delle proteine umane a noi necessarie. Nelle proteine vegetali gli amminoacidi ci sono, ma non tutti quelli essenziali! Per fortuna, come dice l’articolista, i cereali ne hanno alcuni che sono assenti nei legumi e viceversa. Quindi per avere a disposizione da cereali e vegetali tutti gli amminoacidi essenziali per formare le proteine umane dobbiamo combinarli in un piatto (pasta e fagioli, riso e piselli, riso e soia, ecc.) e mangiarne in grande quantità. La dieta vegetariana, pertanto, può andare bene per chi è normopeso (cioè per chi ha un peso equilibrato) o obeso, ma è sconsigliata per i bambini (per i quali gli amminoacidi essenziali diventano nove) e per donne in gravidanza, che hanno un fab-

bisogno aumentato rispetto al normale. In sostanza: un vegetariano che assume regolarmente anche latte e uova (LoVeg) non va incontro a problemi nutrizionali, eccetto per il ferro, di cui parleremo dopo. La dieta Vegana (solo vegetali e niente altro) è invece assolutamente scorretta dal punto di vista nutrizionale e porta, nel lungo periodo, a gravi carenze. Leggendo l’articolo, mi permetto di fare alcune doverose precisazioni anche su altri punti. — Il ferro, incorporato nell’emoglobina, è l’elemento fondamentale nel corpo umano per il trasporto dell’ossigeno; nella carne è incorporato in una proteina simile all’emoglobina e pertanto risulta più assorbibile del ferro «intrappolato” nei vegetali. Per aumentare l’assorbimento del ferro dai vegetali si può usare la vitamina C (il succo di limone ne è ricco), che quindi facilita l’assorbimento ma NON SOPPERISCE alla sua funzione unica e irripetibile. — Se tutti fossimo vegetariani dovremmo coltivare IL DOPPIO delle terre coltivate oggi (anche noi dovremmo mangiare otto/nove chili di proteine vegetali incomplete per ricavarne un chilo di proteine umane complete), proprio perché gli animali vegetariani trasformano le proteine dei vegetali (a basso valore biologico) in proteine ad alto va-

lore biologico, cosa che i carnivori e l’uomo non sono in grado di fare. — Il colesterolo PURTROPPO è totalmente assimilabile dall’organismo umano e questo è il motivo per cui TROPPA carne o TROPPI formaggi lo fanno aumentare nel nostro sangue! — L’inquinamento, disgraziatamente, è un problema ben più vasto e colpisce non solo gli allevamenti animali o i pesci nel mare, ma tutto il pianeta, comprese le coltivazioni. Bisognerebbe ridimensionare i profitti e tornare al biologico in tutti i campi! — Cristo e i primi Cristiani mangiavano sicuramente il pesce e l’agnello; leggere il vangelo per credere. In conclusione vorrei che il messaggio fosse chiaro: per una corretta e completa alimentazione non si deve mangiare carne tutti i giorni, ma non dobbiamo neppure bandirla completamente dalla nostra tavola. Pertanto sono io il primo a consigliare di mangiare frutta, verdura, cereali (anche il pane e la pasta rientrano in questa categoria) e legumi tutti i giorni in buone quantità. Associamo a questo il latte o meglio ancora lo yogurt, sempre tutti i giorni. Il formaggio una o due volte a settimana. Però non dimentichiamoci di mangiare una porzione di carne magra una o due volte a settimana e una porzione di pesce due o tre volte a settimana. A cura di Valerio Cuccaroni

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Uomini e dei Marco Camerani

«Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio» dente, è considerata una grave colpa: il consumo di carne è consentito solo negli ospedali e agli indù fuori casta, i cosiddetti paria, gli unici ai quali è relegato, tra l’altro, il mestiere di macellaio. L’anima, per uscire dal ciclo delle reincarnazioni e raggiungere il nirvana (la perfetta beatitudine), deve affrontare una serie di trasmigrazioni: per passare da demone, il livello più basso, a vacca, lo stadio immediatamente precedente a quello umano, ci sono ottantasei passaggi. Proprio per questo motivo l’uccisione della vacca è punita con il massimo della pena, che consiste nel ritorno allo stadio più basso, da cui l’anima dovrà ricominciare l’ascesa. Alcuni studiosi, quindi, ricercano ragioni di carattere teologico nei testi sacri indù: S.L. Malik riferisce che nella vacca abitano trecentotrenta milioni di dei e divinità, cosicché solo servendola e pregandola l’uomo può accedere al Nirvana.2 Secondo altri, invece, la vacca non viene uccisa perché utile al sostentamento dell’uomo. Senza dubbio, inTutte le principali religioni dedicano un’attenzione fatti, essa occupa un posizione privilegiata nella cultura particolare al rapporto che l’uomo intrattiene con il indiana3 per il fatto che, producendo il latte e i suoi decibo, sancendo spesso divieti o restrizioni alimentari rivati, fornisce all’uomo tutte le sostanze necessarie a che il fedele dovrebbe rispettare. Come riferito in episopravvivere. Alcuni antropologi, come Marvin Harris, grafe, la causa immediata di una delle più sanguinose accentuando la motivazione economica, ritengono rivolte nell’India coloniale dunque che da questo dato ottocentesca fu proprio l’indi fatto derivi il rispetto per Dalla sacralità della vacca all’impurità frazione di una norma aliogni forma di vita,4 visto mentare: le cartucce, il cui che in India, con «l’intensifidel maiale, il consumo di determinati involucro deve essere strapcazione produttiva, l’esauritipi di carne viene proibito da diverse pato con i denti prima delmento delle risorse naturali fedi religiose. Ma i motivi potrebbero l’uso, unte con grasso di vace l’aumento dell’intensità non essere solo di carattere sacro ca o maiale obbligavano indemografica si spinsero fatti i soldati indù e quelli ben oltre i limiti di crescita musulmani a infrangere due rispetto a qualsiasi altro divieti capitali delle loro fedi. luogo del mondo preindustriale, eccettuata la valle del In linea di massima, mentre tutte le grandi religioni Messico».5 non proibiscono una dieta vegetariana, notevoli differenze, motivate da ragioni di vario ordine, emergono Per l’ebraismo l’animale impuro per eccellenza è il quando si tratta di particolari tipi di carne, quali per maiale: in numerosi passi biblici esso viene infatti preesempio quella di vacca e di maiale. sentato in termini spregiativi, e la sua carne proibita.6 Jean Soler, esaminando la questione in una prospetI fedeli indù ritengono che, a seconda delle azioni tiva socio-antropologica, analizza le varie proibizioni in compiute, l’uomo si reincarnerà in un essere umano o relazione «alle strutture mentali e sociali ebraiche».7 Il trasmigrerà in un altro essere vivente. Di conseguenza, mondo è creato da Dio secondo un ordine ben preciso, uccidere e cibarsi di qualsiasi animale, in cui risiede ape impuro è considerato tutto ciò che lo infrange: i diviepunto un’anima che sconta gli sbagli della vita preceti biblici definiscono proprio i caratteri e i confini delL’insurrezione indiana del 1857, se ebbe una durata brevissima fu nondimeno sanguinosissima e fece battere il cuore dei conquistatori, tanto più che nessun inglese l’aveva nemmeno lontanamente prevista. [...] Già da tempo un profondo malumore, abilmente dissimulato però, regnava fra i reggimenti indiani accantonati a Merut, a Cawnpore ed a Lucknow, feriti nel loro orgoglio di casta dalla nomina di qualche subadhar e jemmadar di rango inferiore e dalle voci sparse ad arte da emissari di Nana-Sahib, il bastardo di Bitor, che gli inglesi davano ai soldati indú cartucce spalmate con grasso di vacca ed a quelli di fede mussulmana con grasso di porco, un’atroce profanazione sia pei primi che pei secondi. L’11 maggio, improvvisamente, quando meno gl’inglesi se lo aspettavano, il 3° Reggimento di cavalleria indiana, accantonato a Merut, città prossima a Delhi, pel primo dà il segnale della rivolta, fucilando tutti i suoi ufficiali inglesi.1

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l’infrazione. La proibizione di Levitico 11,3 («Mangerete d’ogni animale che ha l’unghia spartita e ha il piè forcuto, e che rumina»),8 delinea una delle norme di purità per gli animali terrestri, che devono avere le zampe strutturate in una certa maniera (unghia spartita e piede forcuto, appunto) e, inoltre, essere erbivori. Soler afferma infatti che al regime alimentare vegetariano del Paradiso Terrestre se ne sostituisce, dopo il peccato originale, uno a base di carne, e dunque mangiare animali carnivori vorrebbe dire per l’uomo essere impuro due volte. Anche per l’antropologa Mary Douglas, che parte da analoghe considerazioni sulla cultura ebraica, il maiale viene bandito perché connesso all’idea di contaminazione e impurità;9 esso, infatti, oltre a infrangere le prescrizioni di Levitico, si nutre anche di carogne (la morte, alterazione irreversibile dell’organismo, è la maggiore impurità per gli ebrei) ed è allevato da popolazioni non israelite, che ne mangiano la carne (in maniera analoga i matrimoni con gli abitanti dei territori vicini sono considerati una minaccia per l’integrità e la purezza del popolo ebraico, e dunque proibiti). Al di là delle motivazioni di ordine sacro e sociale, un’altra ragione che spiegherebbe la repulsione verso il maiale è di ordine igienico: già il rabbi Mosè Maimonide, medico di corte di Saladino, riconosce che il divieto opposto alla carne di maiale è dovuto principalmente al fatto che «le sue abitudini e il suo genere di alimentazione sono particolarmente sudici e ripugnanti, constatando che la bocca del maiale è sporca come gli escrementi stessi.»10 Harris infine, ritenendo, come si è visto, che i bisogni materiali precedano le varie elaborazioni culturali e intellettuali, analizza la proibizione del maiale in chiave

economico-ecologica. Verso il 1200 a.C. i territori montani si disboscano, i maiali richiedono più cure (umidità e ombra artificiale) e sottraggono cereali alla popolazione, che nel frattempo sta aumentando. Le mutate condizioni ambientali rendono dunque il maiale inutile, se non dannoso, alla sopravvivenza dell’uomo; bovini, ovini e caprini, al contrario, permettono di cibarsi di carne e latte senza dover dividere con il bestiame il raccolto. Di qui, appunto, l’avversione verso il maiale.11 Con il Cristianesimo i precetti alimentari ebraici perdono significato: l’amore di Dio manifestatosi attraverso Gesù Cristo rende libero il credente dal formalismo che proibiva certi atteggiamenti e regolava anche le abitudini alimentari.12 Tuttavia il divieto di particolari cibi ricompare qualche secolo più tardi nell’Islam, che non ammette la carne di maiale.13 Le norme alimentari islamiche, da un punto di vista etico, rientrano nel concetto di adab,14 che è la giusta attitudine morale e spirituale con la quale il musulmano si rapporta al mondo: il digiuno e le proibizioni (tra le quali, appunto, quella del maiale) insegnando al credente l’autocontrollo, gli permettono di raggiungere un sano equilibrio, condizione indispensabile per divenire un vero muslim, cioè un sottomesso alla volontà di Dio. In una prospettiva storica, invece, benché anticamente il maiale venisse cacciato e mangiato, già fenici, egizi e babilonesi nutrivano avversione verso di esso, escludendolo dalla loro dieta; in tempi pre-islamici, nei territori dell’Africa e dell’Asia Minore fino all’India, il maiale era considerato animale impuro da evitare, principalmente per ragioni igienico-sanitarie; questo retroterra può avere dunque influenzato il divieto di cibarse-

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ne presente nell’Islam, che vede così facilitata la sua espansione in quelle zone. La proibizione di carne di maiale può essere inoltre suggerita, come argomenta Frederik Simoons,15 dal bisogno di differenziarsi dal Cristianesimo, religione dominante al tempo della predicazione di Mohammed. Altri, come Harris, considerano anche la proibizione islamica della carne di maiale condizionata da fattori geografici: ci sarebbe una sorta di frontiera che divide i territori adatti all’allevamento di maiali (Malaysia, Indonesia, Filippine, l’Africa a sud del Sahara) da quelli in cui il caldo secco lo rende invece economicamente non remunerativo. Il fatto che l’Islam non abbia mai messo stabili radici in quelle regioni marca il confine tra due diversi modelli sociali, culturali e, appunto, alimentari.16 In definitiva, come risulta da questa rapida rassegna, «le scelte alimentari risentono di più fattori, tra loro dipendenti, come la cultura, l’area geografica, l’epoca storica, il rapporto con gli altri popoli e, ovviamente, l’impronta religiosa che segna un popolo».17 E forse sarà proprio questo uno dei tanti obiettivi che le religioni cercheranno di raggiungere nel terzo millennio: una maggiore consapevolezza di quanto, delle proibizioni alimentari, sia ispirato dalla divinità e di quanto, invece, abbia origini più che altro storiche, economiche o geografiche, cioè umane. E da qui ripartire (o proseguire) per un approccio più consapevole - e maturo - al proprio credo e, senza dubbio, alla convivenza con le altre fedi e culture.

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Emilio Salgari, Le due tigri, Milano, Fabbri, 2001, pp. 358-359 (è l’ultima edizione, con postfazione di Antonio Faeti). S.L. Malik, Comment on «Questions in the sacred-cow controversy» by F.J. Simoons, in «Current Anthropology» n. 20, 1979, p. 484. Al contrario di altri animali quali, per esempio, il maiale: «coloro che quaggiù hanno cattiva condotta avranno una cattiva rinascita: diventeranno cani, maiali o fuoricasta» (Chandogya Upanishad V, 10). Marvin Harris, The cultural ecology of India’s sacred cattle, in «Current Anthropology» n. 7, 1966, pp. 51-59. V. anche Andrew P. Vayda, in ivi, p. 63. Marvinarvin Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 168 (ed. or. Cannibals and kings: the origins of cultures, New York, Random House, 1977). Vd., per esempio, Lv 11,4-7 e Dt 14,3-9. Jean Soler, Semiotique de la nourriture dans la Bible, «Annales ESC», 28, 1973, pp. 943-955. Senza dubbio la norma alimentare è sempre stata un tratto distintivo dell’identità ebraica, come testimonia, per esempio, 2Mac 7,1: «Ci fu anche il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite». Un analogo episodio è la citata rivolta indiana del 1857. Qui e in seguito le citazioni bibliche sono tratte da La Bibbia di Gerusalemme, Bologna, EDB, 2002.

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Mary Douglas, Antropologia e simbolismo, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 179 ss. Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di Mauro Zonta, Torino, Unione tipografico-editrice torinese, 2003. Marvin Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, cit., pp. 144-150. Significativi al riguardo Mc 7,18-19 e 1 Cor 8,8: «Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio; né, se non ne mangiamo, veniamo a mancare di qualche cosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio». La rapida diffusione del Cristianesimo è senza dubbio stata favorita anche da questa libertà alimentare. Vd., per esempio, Corano, Sura II, 173 (simile, peraltro, a Lv 11,8;24); VI, 145; XVI, 115. Sul concetto di adab v. Barbara Daly Metcalf, Moral conduct and Authority, The place of adab in south Asian Islam, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1984. Frederik J. Simoons, Non mangerai di questa carne, Milano, Eleuthera, 1991, p. 28 (ed. or. Eat Not This Flesh: Food Avoidances in the Old World, Madison, University of Wisconsin Press, 1961). Marvin Harris, Cannibali e re. Le origini delle culture, cit., pp. 79-80. In proposito Massimo Salani, nel suo libro A tavola con le religioni (Bologna, EDB, 2000, p. 165), fa un’interessante osservazione critica alle tesi di Harris: «Quale valore avrebbe quel mezzo che permette all’uomo di raggiungere la santità negandosi quello che non possiede? [...] Quale riconoscimento verrebbe assegnato a uno strumento, il rifiuto del cibo, del tutto privo di efficacia in un contesto di povertà, di fame, di indigenza?». Ivi, p. 164.


Tracce Massimo Montanari

Dal Mediterraneo romano all’Europa medievale L’evoluzione della cultura alimentare mancano di sottolineare l’estraneità dei nuovi venuti ai La crisi dell’Impero Romano e l’avvio della storia che veri valori della romanità, quei mores di cui erano parte chiamiamo medievale rappresentano, anche dal punto integrante le severe e frugali norme alimentari del civis. di vista alimentare, un difficile ma fecondo momento di Per esempio, l’anonimo autore della Historia Augusta confronto fra culture diverse, fino a quel momento con(una raccolta di biografie imperiali redatta nel Quarto trapposte. Da questo scontro/incontro nasce una nuova civiltà, un nuovo quadro di riferimento politico rapsecolo) sottolinea che i veri romani, oltre a mangiare con presentato dai regni romano-barbarici; questa nuova moderazione, amano i cibi vegetali: l’ imperatore Giuliaorganizzazione sociopolitica conduce del resto al forno «si accontentava di mangiare verdura e legumi senza marsi di una società dalla forte impronta multietnica, e carne»; Gordiano era goloso, ma solo «di verdura e di a quel rimescolamento di frutta fresca»; Settimio Seusi e tradizioni che porta vero «era ghiotto di verdure alla definizione del modo di della sua terra mentre la Pastori e cacciatori germanici e agricolvivere che oggi chiamiamo carne spesso non l’assagtori romani fondano insieme la cultura europeo. giava neppure». Invece gastronomica europea, in contrasti che Massimino il Trace, il primo si addolciscono senza annullare le diffeimperatore-soldato, «nato In un primo tempo, il renze caratteristiche da genitori barbari», arrivaconfronto tra cultura romava a mangiare «fino a quana e cultura germanica ha ranta libbre di carne al giorun carattere decisamente no, o addirittura sessanta», e i maligni mormoravano conflittuale. Fra Terzo e Quarto secolo, quando i nuovi «che non avesse mai assaggiato ortaggi»; degno emulo popoli entrano nella scena dell’Impero e personaggi di estrazione barbarica assumono crescente prestigio sodel padre, suo figlio Massimino il Giovane «era ghiotto ciale e politico, giungendo fino alla conquista del soglio soprattutto di selvaggina, non mangiava altro che carne imperiale, gli intellettuali romani di vecchio stampo non di cinghiale, anatre, gru e ogni sorta di cacciagione».

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Tracce

La contrapposizione dei costumi alimentari romani e germanici nasceva da diverse tradizioni e abitudini di vita dei due popoli, ma finiva per assumere i tratti di un vero scontro ideologico. Essa si conservò a lungo e in qualche misura si può dire che permanga tuttora, millecinquecento anni dopo, come elemento di differenza nel comune quadro culturale europeo. Tuttavia, l’evento più significativo dal punto di vista storico fu appunto la costruzione di questo quadro comune, all’interno del quale i contrasti si addolcirono, senza che le differenze venissero cancellate: proprio qui, in questa pluralità di prospettive che si rimescolano ma non si annullano, anzi arricchiscono il patrimonio culturale di ciascuno, si trova la chiave per comprendere la straordinaria varietà della cultura gastronomica europea, la sua grande potenzialità inventiva e innovatrice. Il nuovo modello gastronomico, che vide confluire assieme la tradizione agricola mediterranea e l’economia forestale dei popoli germanici, basata sulla caccia e la pastorizia, si formò grazie a un processo di scambio e di acculturazione che a poco a poco modificò entrambi i protagonisti. Da un lato ciò avvenne per il peso sempre maggiore che i popoli del Nord (e dunque, indirettamente, il loro stile di vita) stavano assumendo nella nuova Europa. Dall’altro, per l’indiscusso (anche se logoro) prestigio che la tradizione romana comunque conservava agli occhi dei popoli invasori. Un ruolo decisivo in questo senso ebbe il diffondersi della cultura cristiana, che rafforzò e perpetuò i valori (anche alimentari) della tradizione di Roma, rinnovando in chiave religiosa le abitudini dell’alimentazione romana basata sui prodotti della terra, e in particolare sul pane e sul vino. Il primo processo, l’influenza cioè della cultura degli

invasori, avviene per imitazione dello stile di vita dei vincitori da parte dei vinti. La carne, simbolo di forza fisica e di potere guerriero, diventa nel Medioevo il cibo per eccellenza; contemporaneamente però si diffonde la cultura del pane e del vino, i cibi dell’identità grecoromana assunti ora a simbolo della religione cristiana, e perciò carichi di una valenza, oltre che nutrizionale, anche simbolica: è attraverso la condivisione del pane e del vino che nel rito cristiano si perpetua e rinnova il sacramento dell’Eucarestia. La compresenza e l’alternanza di prodotti animali e vegetali sulla tavola di tutti gli europei è inoltre veicolata dalle regole del calendario liturgico, che impongono l’alternanza di due modelli diversi, di magro e di grasso, secondo i giorni della settimana e i periodi dell’anno: l’atto di nutrirsi viene dunque rivestito di una fortissima valenza etica, e mangiare può diventare sinonimo di peccare. Questo aspetto morale dell’alimentazione è una novità introdotta nella cultura europea dal cristianesimo: se infatti nel mondo antico vigevano divieti alimentari riguardo a particolari cibi ritenuti puri o impuri, nella morale cristiana l’atto stesso del mangiare diventa un potenziale peccato, nel momento in cui da semplice soddisfazione di un bisogno di sussistenza esso diviene puro godimento dei sapori. Con questa serie di fenomeni, intrecciati tra loro e spesso interdipendenti, si costruisce, nell’Europa dell’alto Medioevo, un comune e nuovo linguaggio alimentare che è il diretto precursore del nostro attuale rapporto con il cibo. Il nostro modo di mangiare si è costruito in rapporto con la complessa serie di cambiamenti culturali e storici che hanno interessato l’Europa fino dal suo formarsi come entità geopolitica.

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La questione della birra Problematico, soprattutto in Italia, fu l’incontro fra la cultura «barbara» della birra e quella vinicola locale. I Romani consideravano questa bevanda bassamente popolare, e la guardavano con diffidenza anche religiosa, data la sua provenienza Celtica (specie Gallica) e Germana. Per simili motivi, essa fu in seguito denigrata dalla Chiesa, che arrivò ad assimilarla a una «pozione infernale»: se il vino per i Cristiani si trasmuta nel sangue del Salvatore, la birra non può che essere la bevanda dell’Anticristo. Cosicché, nel

medioevo la sua produzione fu tenuta sotto stretto controllo, e passò in molti casi nelle mani dei monaci delle abbazie (che vi videro invero anche un buon modo per allettare i pellegrini, oltre che un ritemprante nutritivo per loro stessi). Nacquero allora numerose fabbriche di birra, specialmente in Belgio (patria delle formidabili trappiste) e in Francia. Proprio in quest’ultimo Paese, la birra autoctona e il vino di importazione romana si divisero la scena. In Italia, al contrario, la diffidenza si perpetuò, fino a riversarsi oggi

nell’ambito di un gusto e di un pensiero diffusi, non solo a livello popolare, che collocano la birra in una posizione comunque subordinata rispetto al vino. Tuttavia, in questi ultimi anni, e in particolare al Nord, si sta comprendendo che la birra non è solo una bevanda dissetante, bensì un prodotto, gastronomico e culturale, di dignità pari a quella del vino. Carlo Schiavo


L’isola del pop Daniel Agami

Telebidone 1982–2004 Anche in mezzo a un naufragio, si deve mangiare… (Francesco De Gregori, Il cuoco di Salò)

dall’infanzia a oggi. Ricordo infatti piacevolmente le ore Nelle riunioni redazionali in cui si decideva il menu da offrire per questo decimo numero di «Argo», è emersa la buche alle elementari, in cui mi offrivo volontario per fivoce di un collaboratore che ha confessato il suo morboso nire la giornata scolastica nell’aula informatica. E, per rapporto con il cibo, nato nelle infantili solitudini pomeriaula informatica, attorno al 1988-1993 si intendeva una diane televisive. Ormai pentito, ha deciso di dare la sua testanza al pianterreno con una approssimativa accozzastimonianza personale come intervento di pubblica utilità glia di attrezzatura elettronica, in questo caso tre televiper i lettori, che ne trarranno le consori, due videoregistratori, un visiderazioni più opportune. deolettore e un monitor IBM inesoLa redazione ha stabilito di pubrabilmente spento. Nell’attesa che il Venti anni di cibo in tv blicare queste memorie, che vedono malcapitato maestro informatico raccontati da un telespettaproprio la televisione al centro dei capisse come avviare il videoregitore grasso e pentito rapporti – privati sì, ma in qualche stratore, il televisore rimaneva accemodo universali – fra lo scrivente e il so su Canale 5, dove all’ultima ora cibo, anche per omaggiare il cinsarebbe cominciato quello che fu quantenario della televisione italiana, da poco concluso. chiamato «il ristorante di Canale 5». Il collaboratore ha deciso di rimanere in un dignitoso Di pomeriggio, mentre i miei coetanei guardavano i anonimato, esponendo solo oralmente la triste storia con cartoni animati di Big! o (ancora peggio!) correvano nei il cibo che lo ha toccato, e autorizzandone la riproduzione prati giocando a pallone, io, ricordo, restavo a casa a cartacea. Nel rispetto della dignità e della persona del colguardare la Wilma De Angelis, che mi allettava con suclega, ne diamo qui di seguito la trascrizione fedele. culenti manicaretti da sogno.1 Essendo io nato nel 1982, lo stesso anno in cui cominciò la popolare trasmissione Il pranzo è servito, risulta ora ai miei stessi occhi abbastanza evidente come la televisione abbia condizionato profondamente il rapporto con il cibo

Con l’epopea delle televisioni commerciali, che rompono il monopolio statale della Rai, e la nascita di un duopolio, sorgono nuovi generi televisivi, legati proprio alla natura commerciale delle televisioni private. Si superano dunque vari tabù: la televendita, il sesso, e il cibo. Fino al 1982 è difatti difficile in televisione parlare di cibo o vederlo.2 Un argomento troppo basso, legato all’esperienza quotidiana, come gli altri bisogni fisiologici viene taciuto. Ma con il trionfo delle tv commerciali, come dicevo, anche il cibo entra nel piccolo schermo. Anzi, lo invade con un’ampia gamma di programmi, dalle trasmissioni gastronomiche (o di presunta divulgazione gastronomica) alla pubblicità (gli spot di manicaretti e prodotti surgelati, che sostituirono Carosello), dai game-show ai quiz, ai varietà. Il Pranzo è servito, per l’appunto un game-show, ovvero un gioco in uno studio televisivo la cui scenografia rappresentava una tavola a pranzo (il piattone, le posate, la saliera, persino il tabellone con le portate per raggiungere il pranzo servito, dal primo alla frutta), inaugura la fascia del mezzogiorno, «televisivamente “inesistente”

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L’isola del pop

fino a quel momento, e frequentata soprattutto dalle casalinghe».3 E il gioco a premi di Corrado apre un nuovo momento del palinsesto, inevitabilmente associato al cibo.4 Una cosa simile avviene nel giornalismo: Giovanni Minoli, all’epoca giornalista creativo e autore sperimentale di infotainment alternativi, proponeva Che fai mangi?, una inchiesta semiseria su cibo e individuo condotta da Enza Sampò, proprio alle ore 12… Non è un caso, si diceva, che l’alimentazione entri in tv con la nascita dei network commerciali: negli anni Ottanta essa in televisione è puro commercio, è persuasione esplicita al consumo, visto come divertimento oltre che piacere. Il cibo condiziona l’individuo? È evidente piuttosto come sia la televisione degli anni 1982-90 a condizionare l’individuo nel suo rapporto con il cibo. Lo capisce bene Renzo Arbore, che nell’acuto show satirico Indietro tutta, in un delirio di colori, sfarzo e volgarità pacchiane, al grido liberatorio di «Sì!, la vita è tutta un quiz…» rendeva topico il momento telepromozionale del Cacao Meravigliao, vero incubo catartico sudamericano, dove succinte ballerine mulatte pubblicizzavano il fantomatico cacao che, caso unico, ebbe un’abnorme richiesta di mercato nonostante non esistesse, e fosse un’invenzione di Arbore per la satira del boom dei network privati.

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Tra i programmi della tv dei ragazzi che ogni tanto guardavo, tradendo la mia cara Wilma, c’era Bim Bum Bam, una trasmissione-contenitore che andava in onda su Italia Uno e in seguito su Canale 5. Tra un cartone animato e un altro, rimanevo estasiato da Pìolo (poi Paolo Bonolis) che gustava il Soldino del Mulino Bianco (ora scomparso, credo), e calmava Uan, il pupazzo cane rosa sempre furente, facendogli addentare (? - pur senza denti) il mitico Tegolino. Il programma poi lasciava spazio alla pubblicità, che mi aumentava la famelica brama… «con i cinque cereali di kinder colazione +, con quel gusto di cacao che ti tira un po’ su, puoi partire alla grande anche tuu», oppure «la morale è sempre quella, fai merenda con Girella!»…5 Cosicché, il cibo diventa alla fine degli Eighties inflazionato tormentone delle pubblicità, non solo quelle per bambini (grassi) come me. Se il comico Beppe Grillo alla Notte dei Telegatti ’87, dove vinse l’agognato micio televisivo per il migliore spot, si lamenta: «Mi avete tenuto a bagno per un anno nello yogurt!», un motivo ci sarà stato, dato che per ritornare in televisione il comico censurato dalla Rai fu costretto a vendersi alle pubblicità (dove consigliava a un alieno di mangiare yogurt Yomo, o dove, vagamente minaccioso, tentava di ipnotizzare lo spettatore per poi dire: «Provate ad uscire a comperare qualcos’altro, adesso!»).6 E se non è materia di spot pubblicitari, il cibo entra nelle case degli italiani nei famigerati messaggi promozionali; memorabili, in quegli anni, le telepromozioni di Michelangelo Bongiorno detto Mike ai prosciutti Rova-

gnati o quelle del confortante Claudio Lippi al burro Prealpi e la proverbiale mortadella del(l’ex?) cabarettista Gianfranco Funari. Davide Mengacci, ultimo ristoratore del Pranzo è servito, lo provò a rinnovare conducendo La cena è servita (però alle 17.00 su Retequattro) nel 1993, fallendo inesorabilmente. Ma, nonostante il flop, Mengacci si affezionò, e ritornò sul cibo prima in La domenica del villaggio, rivale di Linea Verde, poi in Fornelli d’Italia, edizione estiva sulle prelibatezze gastronomiche italiche con cui ancora ci delizia. Tra il 1997 e il 2001 qualcuno tenta di nobilitare il talk gastronomico. È il caso di Edoardo Raspelli, severo e simpatico critico gastronomico di Fenomeni di Piero Chiambretti, ora colesterolo vivente spalla dell’On. Gabriella Carlucci nel Melaverde; o di Andrea Pezzi, autore e conduttore di Kitchen su Mtv (in cui la ricetta e l’esecuzione sono un’occasione per approfondire con il cuoco ospite, da Maurizio Costanzo a Jovanotti, temi vari). Tuttavia, con Il paese delle meraviglie, condotto su Raiuno nel 2000 dal tristemente comico Pippo Franco, il cibo ritorna gioco ludico. La cucina intanto è diventata il luogo dove posizionare il televisore, ed è entrata a far parte dei palinsesti dei vari canali, giungendo a contaminare l’inflazionato genere del reality show7 e persino le televisioni tematiche musicali, come All Music: nella rubrica di musica italiana Azzurro, la vee-jay Lucilla Agosti termina le puntate con l’atteso angolo Lucilla’s Secrets, dispensando ricette di cucina popolare (e locale) italiana, dalle Dolomiti alla costa salentina. Da ormai quattro anni, mentre i miei coetanei si eccitano con la filmografia di Rocco Siffredi, la mia fantasia viene stimolata da Antonella Clerici e La prova del cuoco, dove le mucche si confondono con le conduttrici, il cibo è un paradisiaco oppio in cui sono definitivamente caduto, e Bruno Vespa in camicia e cravatta finge di preparare la pasta e parla del suo ultimo libro da adottare nelle scuole; e mi conturbano le polente padane cucinate dall’On. Umberto Bossi e assaggiate da Ma-


L’isola del pop

rio Merola come esponente del sud, i cous-cous di Afef, le pizze di Luciano De Crescenzo assaporate dall’On. Calderoli: tutto questo sotto lo sguardo estasiato ancora del dottor Bruno Vespa nel suo Porta a porta. E io, grasso, sono pronto per mangiare, con le posate. Davanti, la tv.

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Wilma De Angelis è stata una cantante di musica leggera passata alla storia per la memorabile interpretazione di Patatina di Gianni Meccia, nel 1961. Come altre colleghe coetanee, Iva Zanicchi e Orietta Berti, anche Wilma nella decadenza musicale degli anni Ottanta esordì come conduttrice televisiva. Forse proprio in virtù della sua Patatina (intesa come canzone), per anni condusse su Telemontecarlo (poi TMC) Sale, pepe e fantasia, in seguito divenuto il leggendario A pranzo con Wilma. Al massimo si poteva assistere al cibo come prodotto lavorativo di contadini e braccianti, nella celeberrima La TV degli agricoltori, periodico agricolo, poi divenuto A come agricoltura e ora Linea Verde (dal 1982), trasmissioni di interesse etno-gastronomico e di divulgazione agraria. Aldo Grasso, Enciclopedia della Televisione, Milano, Garzanti, edizione speciale per TV Sorrisi e Canzoni, 2003. «Ma perché solo a mezzogiorno? Forse perché la sera si

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cena fuori?» (da un’e-mail inedita di Johnson&Co. del 29/9/2004). Ci duole, qui come altrove, citare nomi di prodotti e aziende commerciali, ma si precisa al lettore che non si tratta di pubblicità (mica tanto) occulta, quanto di dovere di cronaca. Beppe Grillo, ospite fisso di Fantastico 7, nel 1986 fu bandito dalla Rai dopo un monologo satirico sul P.S.I. di Craxi, all’epoca premier, che provocò la sua estromissione dal Festival di Sanremo 1987. L’unica apparizione televisiva concessa a Grillo fu pagata non dalla Rai, ma dalla Yomo: Grillo fu testimonial dello yogurt. Proprio nella Notte dei Telegatti, si sfogò a proposito dello yogurt e della censura. Per un inquadramento della vicenda, cfr. L. Ruggiero, Grillo da ridere (per non piangere), Milano, Kaos edizioni, ottobre 2003, ora introvabile perché ritirato da una causa indetta dallo stesso Grillo, secondo cui la trasposizione di monologhi televisivi e di testi teatrali (tratta dalla stampa) lede i suoi diritti, e trae in inganno il lettore (ospite a Striscia la Notizia, nel 2003, il comico disse: «Non comprate il mio libro!»). Fabrizio Del Noce, attuale direttore del primo canale Rai, ha aperto infatti la rete a questo genere commerciale inaugurando, nel dicembre 2004, Il Ristorante di Raiuno, con i peggiori presenzialisti come ristoratori (dalla contessa De Blanc al redivivo Giucas Casella), e la conduzione dell’immancabile Antonella Clerici. Canale 5 si è adeguata alla nuova politica culinaria contrapponendo alle trasmissioni della Clerici, nel 2005, Il piattoforte, con Iva Zanicchi alla conduzione e ai fornelli.

Poldo e Homer. Da voraci contestatori a portachiavi Sulla scena, sia essa di teatro o d’altro, la maschera porta l’essenza di un destino o di una forza ultraterrena. Tutti conosciamo quella di Arlecchino, ma qual è l’essenza di Poldo e di Homer Simpson, queste due maschere dell’arte cartoonistica americana contemporanea? Il loro ventre rigonfio e la loro insaziabile voracità – i due più evidenti attributi di entrambe - ci dicono che la loro essenza è l’obesità. Quella di Poldo e Homer Simpson però non è un’obesità di cui vergognarsi, è un’obesità ostentata, carnevalesca, capace di rovesciare gerarchie, situazioni e convenzioni. Dal canto suo, Poldo Sbaffini (J. Wellington Wimpy) rovescia l’aggressività di Braccio di Ferro e Bruto, e la loro eterna guerra, in ridicola schermaglia nel mezzo della quale piazzarsi a mangiare. In un cartoon di Braccio di ferro (Popeye, nel fumetto originale creato nel 1929 da Elzie Crisler Segar), l’eroe protagoni-

sta e il suo eterno rivale Bruto si improvvisano ristoratori e si contendono come cliente Poldo, a suon di hamburger ed enormi cosce di pollo. La contesa però finisce ben presto in rissa e i due cominciano a lanciarsi gli alimenti. Poldo, dopo essere stato per l’intera puntata calamitato da un ristorante all’altro, nel finale si piazza in mezzo alla strada e, afferrandoli al volo con le mani, si mette a mangiare i cibi volanti. Protagonista principale della serie di Matt Groening The Simpson (iniziata nel 1989 e tuttora prodotta dalla Fox), Homer è diventato ormai l’eroe di un’intera generazione occidentale di adolescenti e studenti universitari. Icona della cultura alimentare industrializzata, a base di cibi grassi e tv (ti-vì la chiama Homer), l’ottusa voracità del papà dei Simpson supera spesso i propri ridicoli confini, per trasformarsi in mezzo magico: in una celebre puntata

della serie, una mangiata di piccantissimi peperoncini, per esempio, procura a Homer visioni shamaniche dell’abisso cosmico. Pur essendo allegorie dell’obesità media americana, grazie alla loro comicità e al loro carattere dissacratorio queste due maschere contemporanee si elevano al di sopra della loro condizione, al di sopra della società che le produce, salvo poi ricadervi subito dopo nel ruolo di prodotti di consumo e gadget dell’industria culturale, come le maschere della Commedia dell’Arte divenute costumi da negozio di giocattoli. In Italia, dal 1998 al 2001, il fatturato della vendita di oggetti ispirati ai Simpson è stato di 70 milioni di euro, di questi 15 milioni solo per il cibo (biscotti, merendine, caramelle, hamburger) e 13 per l’equipaggiamento scolastico. Valerio Cuccaroni

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Carl Spitzweg, Il topo di biblioteca

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Fino a prova contraria

RECENSIONI Eric Schlosser, Fast Food Nation, Milano, Marco Tropea Editore, 2002 «La grande sfida che si presenta ai Paesi di tutto il mondo è quella di trovare un giusto equilibrio tra l’efficienza e l’amoralità del mercato. Negli ultimi vent’anni gli Stati Uniti si sono spinti troppo in avanti in una sola direzione, indebolendo le normative per la salvaguardia dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente». Nessun angolo del pianeta è troppo remoto perché non vi campeggi l’insegna di un fast food, sia essa il celeberrimo doppio arco dorato o la donut gigante dei sogni golosi del Simpson padre. Nonostante a un primo sguardo la Nation del titolo richiami in esclusiva la nazione chimicamente felice e sinteticamente addomesticata dipinta da Elizabeth Wurtzel nel 1999 col suo Prozac Nation (in effetti a ben guardare il sottotitolo originale recita proprio What the all-American meal is doing to our world) le abitudini alimentari statunitensi sono unicamente lo spunto per riflettere su una realtà economica e di consumi di respiro planetario. Fenomeno insieme economico e culturale (per il nesso tra economia, consumo e cultura), la frenesia dei consumi unita all’omologazione dei prodotti alimentari non solo ha trasformato il nostro modo di alimentarci incidendo sulla cultura stessa dell’alimentazione, ma ha prodotto importanti mutamenti nell’economia e nel mercato del lavoro, e Schlosser ne passa in rassegna gli effetti deleteri. Ma l’autore non cade in una facile demonizzazione aprioristica ai danni di un modello alimentare che sembra già abbondantemente in crisi: nello sforzo di fornire un’analisi quanto più obiettiva e documentata, Schlosser ha intervistato, ha incontrato, ha visitato, è risalito lungo la catena di produzione per analizzarne meccanismi di funzionamento ed effetti. E l’oggetto dell’esplorazione è stato l’universo della ristorazione veloce, del fast food. Dallo stile e dai toni coinvolgenti di un romanzo, il libro è tuttavia un’appassionante inchiesta, partita originariamente nel 1999 per conto del «Rolling Stone» versione USA e fino a pochi mesi fa disponibile solo in versione originale. Nel 2002 è stato edito anche in Italia, dove nessuno prima aveva pensato a tradurlo e distribuirlo nonostante l’attualità del tema: forse ha aiutato il

convegno Terra Madre sul cibo e l’impegno etico, economico e ambientale organizzato da Slow Food a Torino, dato che Carlo d’Inghilterra lo ha a più riprese citato quale lettura imprescindibile del movimento new global. Con Fast Food Nation, infatti, Schlosser fa luce sui limiti di un Paese, gli Stati Uniti, che si vorrebbe voce e portatore di un modello di democrazia politica, ma che per primo non sembra rispettarlo nell’applicazione della sua economia. Annabella Losco

Luca Ragagnin, Canzoni da Mangiare. Piccolo dizionario Gastropop, Torino, Il Leone Verde, 2003 Spesso e volentieri nei secoli i letterati si sono cimentati nell’arte dei manuali gastronomici, mettendo a servizio della cucina il loro bello stile e la loro immaginazione. Nel 2003 è nato un nuovo ricettario: Canzoni da Mangiare. Piccolo dizionario Gastropop, a opera di Luca Ragagnin. Il libro incuriosisce soprattutto per la sua strutturazione. Come i ricettari, Canzoni da Mangiare è un elenco di ricette, dalle più semplici alle più stravaganti, dalle più digeribili alle più ipocaloriche, ma ognuna di esse è accompagnata, anzi introdotta, dal testo di una canzone pop. Tra la ricetta e la canzone c’è poi una breve riflessione di Ragagnin, che cuce, con una nota di indole giocosa, le due entità così apparentemente eterogenee. A volte, secondo le elucubrazioni dell’autore, un alimento citato nella canzone allude in via allegorica a qualcosa o a qualcuno, e quindi Ragagnin utilizza tale alimento per una possibile ricetta in cui comunque l’allegoria di partenza sopravvive. Per esempio, in The Lemon Song dei Led Zeppelin è cantata un’invocazione diciamo pruriginosa: «Squeeze me baby, till the juice runs down my leg. // The way you squeeze my lemon, I’m gonna fall right out the bed» (‘Spremimi bambina, finché il succo coli giù dalle mie gambe. // Mentre spremi il mio limone io cadrò fuori, alla destra del letto’). Allorché, l’autore presenta con piglio demenziale la ricetta del Sorbetto di limone. Ma al di là dei differenti casi, la dinamica che collega canzone e ricetta fiorisce soprattutto sull’emozione e sulla fantasia stimolata dal testo musicato. Così può capitare che Ragagnin ammetta di essersi lasciato suggestionare, nel processo di eterogenesi con cui si traduce la musica in cibo, da movenze impalpabili, come il desiderio di plasmare in

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entità culinaria lo stile musicale di un gruppo, o di dare evidenza visivo-gastrica alle eccentricità di una star del pop. Per il primo caso si possono menzionare i Dadini allo yogurt dello spirito (una sorta di biscotto-gelato di yogurt a cubetti), atti a materializzare la musica dei 10cc, un gruppo che, secondo Ragagnin, già dai primi anni Settanta «riesce a personificare, rendendoli squisitamente ridicoli, una dozzina di stili musicali». Per il secondo caso rimandiamo al Cioccolato alla gigliola, ispirato da Egg Cream di Lou Reed e soprattutto dedicato alla illuminata pinguedine in cui, dopo aver preso droghe, baciato David Bowie e composto musica ultraminimalista fatta solo di rumori, l’ex Velvet Underground nel 1996 scrisse la canzone. Luca Ragagnin con questo libro mette in evidenza una vocazione pop non priva di raffinatezza e ironica eleganza. Vocazione riconfermata anche nella sua ultima raccolta di poesie Videre Leviter. Breve storia in versi della televisione italiana (No Reply, 2004), in cui la riflessione linguistica affonda nell’immaginario collettivo degli ultimi cinquanta anni di televisione italiana, ponendo quindi in atto una contaminazione fra generi che rischia di sfiorare la vertigine. E pure qui, in Canzoni da mangiare, la contaminazione è di casa: canzoni pop accoppiate a ricette culinarie, in uno spazio in cui non è più chiara la distinzione tra antologia gastronomica e itinerario musicale. Il cibo, come pure molta musica premoderna, è da sempre una delle manifestazioni più autentiche della cultura popolare, tramandata per via orale. Ma le canzoni pop già si inseriscono in quella fase della civiltà contraddistinta dalla riproducibilità di massa, dove la tecnologia permette la clonazione infinita di un fenomeno. L’accostamento, in Canzoni da mangiare, della cultura pop alla cultura popolare equivale o al desiderio seminconscio di Ragagnin di santificare la cultura pop come autenticamente popolare per e nella dimensione del moderno, oppure è un esperimento barocco frutto di una mente postmoderna sensibile agli accostamenti più bizzarri, nella speranza di evocare qualcosa di nuovo che ancora, ahinoi, tarda ad arrivare.

Marco Benedettelli

Elisa Biagini, L’ospite, Torino, Einaudi, 2004 Esce nel 2004 il libro d’esordio della poetessa fiorentina Elisa Biagini, che aveva già offerto un assaggio della sua attitudine poetica con le raccolte giovanili Questi nodi (1993) e Uova (1999). Il senso del titolo è già di per sé denso di significati, e anticipa l’idea che pervade tutta l’opera: il contrasto, l’opposizione, la dualità. L’ospite, infatti, è chi riceve una persona nella propria casa, ma anche colui che viene ricevuto; fa poi notare il critico Andrea Cortellessa, in un suo articolo sul libro, che la parola di origine latina hospes condivide la sua radice con hostis, che sta per straniero, ma anche per antagonista. L’ospite è una persona che vive nella casa, insieme all’io poetante; ma a volte è lo stesso io-soggetto. La raccolta è infatti interamente giocata sull’alternanza tra dissociazione e unione, tra ricerca di sé e dell’altro, ma anche sul riflesso di sé nell’altro. La contrapposizione, lo scambio, la mescolanza sono possibili chiavi di lettura: l’Io che scrive è giovane, pieno di fantasia, crede alle favole; l’Altro è vecchio, prossimo alla morte, quasi pietrificato. Che si tratti di una persona anziana lo si deduce dagli accenni ai suoi atti meticolosi, tipici delle nonne, accorte al conto pagato in bottega, agli «scontrini serbati / da te come santini». La nonna, in realtà, è una presenza indefinita, poiché in tutto il libro viene nominata solamente una volta: «Nonna, mano / di lupo, / apri / la tua voce, apri / la mia gola per / riempirmi anche meglio / di cibo». L’elemento evocato maggiormente è proprio il cibo, che viene a costituire un legame tra l’io e l’altro («fra noi, come / la panna del / latte»); la nonna, infatti, sembra esprimersi per ricette, dal momento che in lei tutto si identifica con i suoi ingredienti: «Parlami ancora / per ricette, / tu / col cuore che pesa 3 / arance, tu con un / braccio che pesa 3 / mele». Il cibo, elemento costante della quotidianità domestica, viene poi ripetutamente messo in relazione con la morte: è il principio della vitalità immerso in situazioni prive di vita, è il conflitto tra soffio vitale e fissità mortale («Sei pane / cotto sotto la / cenere»). L’altra presenza ricorrente è il corpo, protagonista della battaglia domestica, continuamente sospeso tra azione e staticità, tra solidità e mollezza. È sottoposto al processo del tempo, si disgrega come gli alimenti («si sfilano via i nervi / come i gambi del sedano»), e si frantuma come gli utensili da cucina («andrai coi / piatti rotti / nella cassa e / le tazze, spezzate / come te…»). In diretto rapporto col cibo si pone, infine, la ricerca d’identità, per una fusione evidente nella disposizione delle parole, affiancate nello stesso verso: «Per giungere /


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a te – cibo, io». Tra antitesi e identificazione, nella poesia dell’Ospite insieme morbida ed efferata, si assiste a un processo di autofagia, una pulsione ossessiva al divoramento che vuole porre fine allo scontro; il cibarsi diventa un modo per cancellare, ripulire i resti al termine della battaglia: «per far pulito / e presto, ti / mangerò». Con il suo verso breve o brevissimo, piuttosto raro oggi, la poesia della Biagini tratteggia proiezioni allo stesso tempo delicate e brutali, evocando sensazioni contrapposte. La luce algida e nivea dei contesti, e la parola così mirata ed efficace ricordano la cifra poetica di Sylvia Plath, in grado di rivelare il ribrezzo che si nasconde nella più ordinaria realtà familiare. Rossella Renzi

Super Size Me, di Morgan Spurlock, U.S.A., 2004 Eating responsibly at McDonald’s is like going to a strip club for the iced tea. [Mangiare in modo responsabile da McDonald’s è come andare in uno strip club per del tè freddo.] Rogert Ebert, «Chicago Sun-Times», 7 maggio 2004 Premio per la migliore regia all’ultimo Sundance Film Festival, Super Size Me prende in esame le abitudini alimentari di un paese, gli Stati Uniti, dove il sessanta per cento della popolazione è obeso o sovrappeso. Morgan Spurlock, al tempo stesso regista, sceneggiatore e protagonista, decide di sottoporsi alla McDiet: per un mese intero, sotto stretto controllo medico, consuma colazione, pranzo e cena rigorosamente da McDonald’s, con l’obbligo di ordinare almeno una volta tutti i piatti disponibili e di evitare i menu maxi (super size) se non esplicitamente offerti dal cameriere di turno. Dopo soltanto qualche giorno, compaiono forti emicranie e un senso di oppressione al petto, mentre la libido cala e i livelli di colesterolo e glicemia vanno alle stelle; Spurlock sviluppa inoltre una progressiva dipendenza fisico-psicologica che, poco dopo ogni pasto, rimpiazza il senso di pienezza e sazietà con attacchi di depressione e desiderio di ulteriore McFood. Alla fine del mese il regista si ritrova con tredici chili in più, il colesterolo a duecentrotrenta, i valori del sangue completamente sballati e il fegato ridotto in paté. A parte il significativo resoconto di questa particolare dieta, Super Size Me risulta interessante anche per alcune riflessioni che Spurlock fa sull’industria e le abitudini alimentari d’oltreoceano. Attraverso la massiccia pubblicità

del suo marchio, presente persino negli ospedali, e dei suoi McMeal, spacciati come pasti completi, McDonald’s contribuirebbe a diffondere una cultura alimentare nociva e non equilibrata. E le abitudini alimentari sbagliate si perpetuano producendo i loro nefasti effetti fino dalle scuole elementari, nella maggior parte delle quali, per interesse e per ignoranza, vengono serviti menu a base di alimenti precotti, patatine fritte, bevande gassate e dolciumi di vario genere. Dunque anche a causa di McDonald’s, che serve 46 milioni di persone al giorno, gli Stati Uniti spendono 75 miliardi di dollari all’anno per curare problemi di salute legati al sovrappeso (dato fornito dai Centers for Disease Control di Atlanta); e mentre ci sono quelli che ricorrono a soluzioni drastiche come la diminuzione chirurgica dello stomaco, il regista si appella ripetutamente alla responsabilità personale: per stare bene, alla fine, basterebbero pochi accorgimenti pratici (e di buon senso) come, per esempio, mangiare più frutta e verdura, comprare in maniera intelligente al supermercato e fare più attività fisica. «Il film è un attacco all’attuale cultura del cibo» dice Spurlock in un’intervista. «Ho scelto di fare riferimento a McDonald’s perché è la compagnia più grande. L’unica in grado di avviare il cambiamento. Se lo facesse, tutti gli altri la seguirebbero. [...] Sto attivandomi affinché il mio film venga mostrato presto in tutte le scuole, dalle elementari in poi [...] voglio che le nuove generazioni capiscano che ci stiamo ammazzando da soli. Mangiando». Dati il successo e la popolarità del film documentario, McDonald’s si è vista costretta a prendere posizione: «[Super Size Me] è raffinato e ben realizzato. Ma non realistico [...]. Siamo d’accordo con l’argomento centrale [...], se mangi troppo e ti muovi poco non è una buona cosa. Non siamo d’accordo con l’idea che mangiare da McDonald’s faccia male». Da notare comunque che, poco dopo, la catena di fast food ha deciso, in via ufficiale per scelta propria e indipendente, di abolire dai suoi ristoranti i menu super size. Marco Camerani

Mike Patton, Pranzo oltranzista, 1997 Pranzo oltranzista è forse definibile come l’incarnazione gastronomico-sperimentale del poliedrico Mike Patton, ex frontman dei Faith No More: una vera e propria esperienza sonora ai limiti del crossover. Nata come omaggio a Filippo Tommaso Marinetti, questa surreale opera reca dappertutto in sé l’impronta di Patton, anche se è stata registrata con la collaborazione di musicisti quali Erik Friedlander (cello), Marc Ribot (chitarra), William Winant (percussioni) e John Zorn (sassofono alto). A proposito del disco e di come è stato realizzato, ha dichiarato Patton: «Io voglio domare il

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Caos. Quindi lavoro come un guerillero: assemblo la mia armata, poi esco e faccio quello che devo fare». Elettricità atmosferiche candite ci accoglie con un inquietante tappeto sonoro da accompagnamento filmico tessuto con note di violino, sovraincisioni probabilmente tratte da pellicole (alla maniera dei seminali Skinny Puppy) nonché alcuni interventi rumorosi di una mosca. Evidenti i rimandi all’Industrial Music della prima generazione fine anni Settanta (Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, Psychic TV) per quanto concerne le influenze e le sonorità, pure se si considera che il tipo di strumentazione “oggettistica” adottata passa dalle betoniere e i martelli pneumatici agli strumenti di lavoro da cucina, direttamente dipendenti dall’atmosfera che il disco dovrebbe avere. Ma al contrario, per quanto riguarda le tematiche, questo genere nato dal forte e disperato desiderio di protestare e ribellarsi contro la società, il consumismo, l’alienazione e i mass media, non sembra sposarsi a meraviglia con la gastronomia, se non forse come forma di contestazione, anche qua, verso gli eccessi, le oltranze culinarie di questa epoca. Carne cruda squarciata dal suono di sassofono alterna momenti rilassati (con un Mike Patton che sgranocchia grissini al ristorante, questo pare evocare l’ascolto dell’ambientazione!) a esplosioni a dir poco brutali di urla e chitarre compresse quasi grind-core da fare invidia all’allucinante sperimentalismo sonoro di Fixed dei Nine Inch Nails (1992). Futurismo e sbalzi emotivi, assoli per batteria (da cucina, ovviamente… in pratica una serie di pentole, bollitori, casseruole e leccarde percosse in maniera forse solo apparentemente casuale… da sembrare però un ammasso di latta e acciaio che rotola rovinosamente giù da una rupe), chitarre dissonanti, sassofoni che impazziscono ricordando le folli atmosfere di Strade Perdute di David Lynch oppure le ambientazioni noir degli italiani Macelleria Mobile di Mezzanotte, momenti di puro dadaismo musicale alternati a suoni e stridori che creano istanti di stasi, tensione e attesa. Probabilmente Pranzo oltranzista è anche un invito alla fantasia, alla pura evocazione di immagini attraverso i suoni: necessita di essere interpretato per arrivare a condividere ciò che la dimensione inconscia della mente di Patton ha concepito, in questo prodotto artistico di difficile catalogazione. L’aggettivo del titolo rimanda forse ai momenti più estremi e improvvisi di alcuni brani, o si potrebbe ricollegare a una disapprovazione che rimarrebbe nell’ambito gastronomico (si ricordino gli strumenti! Nonché la contestazione di cui sopra); di certo, associato all’immaginario culinario il termine crea un certo senso – sicuramente voluto – di straniamento. Oppure, il disco potrebbe essere una semplice provocazione dadaista, secondo peraltro lo stile dello stesso Patton. O entrambe queste cose. Per arrivare in ogni caso a capire (o almeno a ipotizzare) se questo controverso personaggio sia un genio oppure un autentico pazzo è necessario accettare il suo invito a pranzo. Il primo piatto: Garofani allo spiedo. Altrimenti, se preferite, Scampi alla carlina, cucinati dai te-

deschi Einstuerzende Neubauten di Blixa Bargeld, indiscussi maestri e pionieri del genere Industrial. Christian Ryder

Siti alimentari e slowfood.it Pressoché sterminato è il numero di siti italiani dedicati al cibo, e quasi altrettanto massiccia risulta la presenza in rete di indirizzi che rimandano ad argomenti o ad articoli variamente collegati con la relazione tra cibo e individuo. Per tentare di orizzontarsi un poco, facendosi un’idea piuttosto generale, si può partire da <guide.supereva.it /educazione_alimentare>. Presentato come guida, e curato da una nutrizionista, questo sito ha il pregio di fornire numerosi spunti, suddivisi per aree tematiche e per «argomenti» continuamente aggiornati. Ognuno di essi è correlato, tramite rimandi interni, ad almeno altri quattro, e di ciascuno viene fornita una trattazione breve e abbastanza superficiale. Ma, per l’appunto, il quadro risulta vasto, e il navigante se interessato potrà poi approfondire, magari scegliendo uno dei «link preferiti» indicati dalla Guida (in rigoroso disordine e senza introduzioni). Tra questi ultimi, ci sembra il caso di segnalare <www.slowfood.it>, per toccare anche solo di sfuggita la singolare realtà cui fa riferimento. Il sito è molto colorato e vivace, ma leggero e di agile e veloce esplorabilità, grazie soprattutto all’uso di un codice semplice e lineare, con per esempio molte tabelle e nessuno scomodo e oramai superato frame. Nella classica colonna sulla sinistra, si trova il menu con i link interni; e poi, nella home, al centro i titoli di un notiziario legato al mondo Slow, a destra i banner di siti amici e/o di interesse. La varietà mai banale di <slowfood.it> sembra in sostanza coniugarsi alla filosofia stessa del movimento Slow in ambito gastronomico, tesa al recupero delle particolarità e delle ricchezze delle cucine locali, regionali e nazionali; volta alla riaffermazione di una identità culinaria contro l’appiattimento e la standardizzazione del gusto; promotrice del valore del cibo anche dal punto di vista culturale. Per ciò che ci riguarda, condividiamo senza dubbio gli appena detti elementi e idee del progetto. Di poi, al di là delle questioni storico-sociali sulla materiale difficoltà, per alcune o per molte persone, di condurre una vita in senso largo Slow in un contesto veloce come quello attuale, e oltre ai dubbi (e alla loro liceità) sulla personale identità economica di chi può abbracciarla (e su chi invece ci marcia per fare soldi), ci pare del tutto condivisibile la possibilità di un contrasto se non altro dialettico con una esistenza sempre più frenetica. Carlo Schiavo


allegato di ARGO

Questioni di gusto


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