MOULIN ROUGE
Duccio camminava canticchiando, accanto al suo amico Stéphane, lungo una delle vie più note del quartiere Pigalle, quello più a luci rosse di Parigi. Tirò fuori di tasca la sua fisarmonica e si mise a suonare, tanto era a Paris e lì tutto si può fare, senza per questo sembrare uno squilibrato. Puoi canticchiare, fischiettare, suonare uno strumento o tirare fuori un cavalletto e metterti a dipingere, senza che qualcuno indugi il proprio sguardo su di te facendoti sentire uno ‘strano’. Lì non si è strani, si è artisti con licenza di stupire. E come potrebbe essere diversamente in una città stupenda, parola che deriva dal latino stupendum e che significa ‘che desta stupore per la sua bellezza’? Dove lo stupore è di casa, niente è più normale dell’eccezionalità, anche quella artistica. Procedevano lenti lungo il XVIII arrondissement diretti al noto Moulin Rouge, dove li attendeva un spettacolo di cabaret a cui loro due avrebbero assistito comodamente seduti ad uno dei tanti tavolini. Duccio non ci era mai stato ed era curioso di vedere quel piccolo locale fondato da Monsieur Charles Ziedler nel 1870 e diventato famoso come ristorante danzante; di quelli in cui nessuno nota che cosa ci sia nel piatto sotto il proprio naso ma, in compenso, di ciò che avviene sul palco a venti metri di distanza, non sfuggono neanche i respiri. Alle volte, le realtà come quel ristorante nascono così. Sono come dei guanti che si infilano perfettamente in un momento storico, per loro unico e irripetibile, che calza a pennello e che fa in modo che da lì in poi diventino immortali. Gran parte della storia dello spettacolo è stata scritta da mani finemente guantate di velluto o raso, che hanno azzeccato soggetto e tempo, domanda e risposta, desiderio e appagamento del pubblico. In un altro momento lo stesso soggetto sarebbe sembrato insulso come uno dei tanti guanti monouso, che calzano a pennello solo perché sono inconsistenti. Non caratterizzano o abbelliscono niente, lasciano solo intravedere la realtà così com’è, al massimo aggiungono una patina lattiginosa per renderla meno grezza.
Il Moulin Rouge è paragonabile ad un guanto di pizzo nero, una mèta del desiderio di quelle che per essere apprezzata a dovere non si deve sbagliare l’amico con cui condividere l’esperienza. Se sbagli quello, sarebbe stato meglio decidere di andare al circolino. Stéphane era medico cardiologo all’Hòpital Necker. Lui, sì, che era la compagnia giusta per andare al Moulin Rouge: single per scelta della ex-moglie, medico per scelta dei genitori, suo amico per scelta di entrambi. Si erano conosciuti da studenti all’Université Paris V Descartes, dove Stéphane studiava medicina e Duccio frequentava un cours de criminologie appliquèe. Dal nome sarebbe potuto sembrare un corso atto a far provare l’ebbrezza di essere un criminale con licenza di uccidere, ma non era stato così. In realtà era stato un corso di criminologia, a cui Duccio aveva aggiunto la dicitura appliquèe, perché gli avevano insegnato tutti i trucchi pratici per ottimizzare le rilevazioni delle prove, i segreti per non inquinarle, il saper trovare i punti focali di una scena del crimine che non devono assolutamente sfuggire. Quel corso era come un libretto delle istruzioni per saper guardare e toccare, quando a non saperlo fare si combinano dei danni immani. Durante quei mesi, Duccio e Stéphane si erano trovati come due profughi, in mezzo ad un branco di secchioni, e si erano applicati molto allo studio, soprattutto a quello dell’anatomia femminile. Per Duccio, Stéphane era stato un personaggio di spicco nel suo personale paese dei balocchi, ma non aveva avuto il ruolo di Lucignolo perché, dopo quel primo anno di gozzoviglia e ginecologia applicata, si era messo davvero a studiare e, la medicina, inizialmente imposta dai suoi genitori, era riuscita a farlo appassionare fino a farlo diventare un cardiologo di prim’ordine. Adesso era seduto accanto a lui, sorrideva a quella fila di cosce per aria scoperte fino all’inguine, e probabilmente si stava chiedendo perché un giorno avesse deciso di fare il platonico, scegliendo di curare il cuore delle donne. Tutti e due vestivano in abito scuro e camicia bianca aperta sul collo, a cui Duccio aveva aggiunto un fiore all’occhiello, perché era dell’umore giusto per farlo. Erano
belli, eleganti e non passavano inosservati agli occhi di un paio di avvenenti ragazze che, nonostante fossero in compagnia di altri amici, non disdegnavano di guardarsi attorno. “Duccio, le blonde ti guarda.” “Oh, Stèphane, l’è troppo giovane.” “Mon ami, vous avez le couer et la coscience trop … ingombrante.” “In certi casi, la basta averne una. A me piacciono le donne della mi’ età. Al massimo, anzi al minimo, di trent’anni” “Che sprecone.” Un cameriere si avvicinò a passi svelti ma non aveva la solita aria composta e affettata del servitore. Mentre si chinava per parlare all’orecchio di Stéphane, nel tentativo di farsi sentire solo da lui, sembrava quasi allarmato. Stéphane si alzò di colpo, investito dell’autorità che solo i medici hanno quando sono messi in condizione di poter salvare una vita, e a passi svelti si diresse verso un corridoio che partiva alla destra del palco, dove lo condusse il cameriere. Duccio era indeciso se seguirlo o meno, ma alla fine decise di non essere invadente e di rimanere lì incollato al velluto rosso della sedia. Ma lo fece solo per poco tempo perché due minuti dopo lo stesso ragazzo che era venuto a cercare un medico tornò per chiamare proprio lui. “Monsieur Cortese?” “Oui, c’est moi!” Duccio fu condotto lungo lo stesso corridoio in cui era sparito il suo amico poco prima. La parte di sinistra era coperta di fotografie con cornici di ogni colore, forma e dimensione, che ritraevano gli artisti che di volta di volta si erano succeduti sul palcoscenico del Moulin Rouge; mentre sul lato destro una fila di porte numerate suggeriva la presenza di camerini, dentro cui ballerine e artisti si preparavano per le loro performance, pronti a calcare la scena. In fondo al corridoio due ballerine vestite con gli abiti di scena, stavano in piedi fuori dalla porta di una di quelle stanze e guardavano verso il pavimento.
Duccio arrivò e vide rosso: il colore che esprime molte sensazioni. Il rosso racchiude sentimenti contrastanti come la paura e l’audacia, i peperoncini piccanti e le dolci ciliegie, che una tira l’altra e rimangono solo un cumulo di noccioli. Il rosso che vide Duccio aveva molte tonalità. Stava tutto sul vestito da cabarettista che indossava una ragazza sdraiata per terra a faccia in giù in mezzo al camerino e andava dal rosso fuoco del velluto, al bordeaux del pizzo, fino a raggiungere la tonalità cupa della macchia di sangue che girava tutt’attorno ad un paio di forbici conficcate in mezzo alla sua schiena. La ragazza era ancora viva e Stéphane, inginocchiato accanto a lei, cercava di cogliere delle parole che le uscivano dalla bocca tremante. “Moi, je n’était pas moi.” “Che cosa ha detto, Stéphane?” “Dice che lei non è stata lei.” “Chiedile cosa intende. Non è stata lei a fare che cosa?” Di nuovo si alzò quel filo di voce: “Moi, je n’était pas moi.” Su quel ‘… io, non sono stata io…’ si chiusero le labbra di quella ragazza e si spalancarono le porte di una nuova sfida per Duccio. Mentre Stéphane rimaneva chino su di lei, Duccio ingaggiò una lotta contro il tempo per cogliere tutti i particolari possibili della scena che aveva davanti, prima che arrivassero i colleghi della polizia francese. Le forbici conficcate nella schiena della vittima avevano un’angolazione quasi nulla, praticamente erano perpendicolari al corpo, il ché indicava che l’aggressore fosse più o meno della stessa altezza della vittima. Si voltò per cogliere altri dettagli ma la sua attenzione fu catturata dall’arrivo di un uomo. Era il direttore del locale, Monsieur Ruarin, arrivato solo in quel momento perché, disse, nella confusione generale a nessun cameriere era venuto in mente di andare a cercarlo. Stava in piedi in prossimità della porta del camerino e guardava la vittima con le braccia abbandonate lungo i fianchi. “Lei conosceva bene la vittima?”
“Certo, si chiama Corinne Dupont.” Lo disse coniugando il verbo al tempo presente, perché la vita fa sempre fatica ad entrare nell’ordine di idee che la morte trattiene le persone nel passato e non te le ridà più. Il volto dell’uomo era un misto di dolore e indignazione. Il secondo è il sentimento che fa da spartiacque tra le morti per cause naturali e quelle per cause dove la natura, intesa come ordine naturale delle cose, c’entra poco. Quell’uomo trasudava rabbia da ogni poro; sembrava che stesse per esplodere fino a che non sospirò e sembrò quasi che la fuoriuscita di quell’aria dalla sua bocca lo facesse sgonfiare fino a lasciarlo un fantoccio sul punto di afflosciarsi per terra. Duccio, intervenì per farlo reagire: “Mi chiami tutte le ballerine che bazzicavano da queste parti, poco prima che scoprissero i’ corpo di questa Corinne Dupont.” “Mi perdoni se mi permetto di farle una domanda. Lei è italiano, immagino che non sia della nostra polizia.” “Sì, ha ragione. Mi chiamo Duccio Cortese, so’ un commissario di polizia italiano e collaboro con l’INTERPOL in diversi casi d’omicidio internazionali. ‘Un le dispiace se comincio a fa’ qualche indagine in attesa che arrivi qualcheduno della Police Nationale?” “Prego, si figuri. Anzi, avrà modo di notare da solo che il suo aiuto sarà di grande importanza, considerata la cura che la nostra polizia pone nei casi che riguardano il Moulin Rouge.” L’uomo pronunciò quell’ultima frase con un accenno di ostilità nella voce. “Vado a cercarle le altre ragazze.” Nel salone la musica copriva l’assenza di uno spettacolo sul palcoscenico vuoto, e nel frattempo il direttore convogliava le ragazze che a poco a poco arrivavano, in un camerino diverso da quello in cui s trovava la povera ragazza. Indossando ancora l’abito di scena, si sedettero su una fila di sedie preparate al momento. Duccio, di fronte a quella fila di cosce accavallate, fece fatica a trovare la concentrazione, ma si impegnò e a malincuore ci riuscì. Alcune di loro si erano buttate sulle spalle un maglioncino, nonostante la stanza fosse ben riscaldata, forse per fugare la paura che il
freddo della morte potesse entrare anche sotto la loro pelle. Gli abiti facevano la loro sgargiante figura ed erano in netto contrasto con i volti rigati di lacrime delle loro indossatrici. Alcuni di essi erano rossi con piccole decorazioni nere, come quello della vittima; ed altri erano neri con qualche applicazione rossa qua e là. Le scarpe ai loro piedi non erano tutte uguali: chi aveva il vestito prevalentemente rosso indossava delle scarpe rosse, mentre le altre abbinavano ad un vestito nero, delle scarpe nere. Tranne la vittima. Lei aveva vestito nero e scarpe rosse. “Come mai Corinne ‘un aveva scarpe e vestito abbinate, come voi altre? Qualcheduna di voi lo sa?” Una ragazza dai capelli rossi, come i suoi stessi occhi pieni di lacrime, si era alzata in piedi per parlare, come se fosse stata a scuola di fronte ad un insegnante esigente. “Oui, non riusciva a trovare il suo abito di scena e allora le ho prestato il mio, quello di scorta. Lei ne aveva uno in riparazione e stasera non trovava neanche il secondo.” Duccio cominciò a sentire il familiare prurito al dorso delle mani. Segno che qualcosa di importante era stato detto. “Quando s’è rotto i su’ primo abito?” “Ieri, monsieur.” “Qualcuno sa che fine abbia fatto il suo secondo abito? Del resto col casino che regna nel vostro camerino, non mi sorprenderei se smarriste un elefante.” Il direttore del locale era vistosamente scocciato e aveva l’aria del padre non indulgente che richiama le sue bimbe ad essere più ordinate. Undici no risuonarono nella stanza. Stèphane, che era ancora in piedi accanto al cadavere, gli chiese se quel dettaglio da nulla del vestito fosse poi così importante. Anche il direttore, dopo un primo risentimento dovuto al disordine che regnava lì attorno e che aveva probabilmente portato allo smarrimento di un abito, si era avvicinato per seguire meglio il discorso, visto che Duccio aveva abbassato la voce per non farsi sentire dalle ragazze presenti.
“Avete notato che la vittima e la ragazza che le ha prestato il suo abito, hanno lo stesso colore di capelli? Io non escluderei che chi ha ucciso Corinne, in realtà volesse uccidere … .” “Pauline Ubert.” Il direttore precisò il nome della rossa che aveva parlato poco prima e di cui Corinne aveva addosso l’abito di scorta. “Questo camerino l’è l’unico che loro hanno a disposizione?” “No. Sei di loro ne utilizzano un altro. È di là.” “Mademoiselle Ubert, utilizza questo camerino o l’altro?” “L’altro.” Mentre Stéphane fu lasciato in quella stanza, accanto al cadavere, Duccio e il direttore del Moulin Rouge si diressero verso il secondo spogliatoio corrispondente a quello di Pauline. Biancheria intima femminile appesa qua e là, di tutte le forme e fantasie, accolse Duccio appena varcata la soglia e la sua capacità di concentrazione, già notevolmente messa a dura prova, ebbe un ulteriore vacillamento. Quella stanza sembrava un albero di Natale addobbato a festa per bambini cresciuti. Lui si mosse cercando di mantenere un briciolo di imperturbabilità, rise dentro di sé all’idea di cosa si stesse perdendo l’amico rimasto nella stanza accanto e poi si rimise a lavoro cominciando a cercare tutt’attorno. “Che cosa stiamo cercando? Se potessi aiutarla forse faremmo meno fatica.” Il direttore cercò di rendersi disponibile. “L’abito di scena di Corinne, ma son quasi completamente certo che lo troveremo tra gli effetti personali di Pauline. Quale gl’è i’ su’ armadietto?” “È questo.” Alle parole seguì il gesto con cui Monsieur Ruarin aprì di scatto lo sportello più vicino a lui. Una nuvola rossa di tulle, pizzo e velluto tempestati di pallettes cadde ai suoi piedi. “Non ci posso credere.” L’uomo guardava le sue scarpe maliziosamente coperte da quell’abito. “”E infatti ‘un deve farlo.”
“Che cosa vuol dire, Monsieur Cortese, che non è stata Pauline a nascondere il vestito di Corinne?” “Qualcuno lo ha fatto pe’ fa’ in modo che noi lo credessimo possibile, ma ‘un è stata lei. Ne sono certo.” “Ne sono sicuro anche io che la conosco da molto tempo. Non farebbe del male a una mosca.” Il suono delle loro parole fu coperto dal baccano con cui la polizia del VVII distretto, fece irruzione dentro il corridoio e invase i camerini. Un tenente e diversi agenti cominciarono a guadarsi in giro come se fossero stati a casa loro. Le battute e gli sguardi ammiccanti alle ballerine non mancarono di urtare la sensibilità delle ragazze stesse, che però li liquidarono con i modi esperti di chi è abituato a troppe attenzioni e poco garbo. Monsieur Ruarin si avvicinò al tenente e gli chiese come mai ci avessero impiegato così tanto tempo ad arrivare. Il tenente, che si era presentato col nome di Fournier, assunse quell’aria di superiorità che le autorità acquisiscono quando credono di aver il diritto di avere più diritti degli altri e con una risposta svogliata e molto vaga gli fece notare, non a caso, che in posti dove la rettitudine e l’ordine non si sapeva neanche dove fossero di casa, la giustizia poteva arrivarci anche con un po’ di ritardo. “Del resto, che fretta c’è? Tanto mi hanno detto che è già morta.” La mascella serrata del direttore esprimeva tutta la sua rabbia per essere stato catalogato come uno che dirigeva un posto di malaffare, un locale di quart’ordine morale. Come se la giustizia per quella ragazza potesse tranquillamente prendersela con tutto comodo; sempre che decidesse di farsi vedere, alla fine. Duccio non poté fare a meno di ripensare alle parole che Monsiuer Ruarin gli aveva detto non appena si erano conosciuti. Fu presentato al tenente francese come colui che aveva portato avanti le indagini, in attesa che arrivassero i locali tutori della legge. Fournier lo ringraziò a denti stretti e si fece raccontare tutto quanto ci fosse di interessante. Al termine del racconto il tenente guardò l’abito di scena rotolato a terra, e Duccio colse l’occasione per
esprimere le proprie perplessità sul fatto che Pauline Ubert, potesse essere stata così poco accorta, al punto da mettere l’abito praticamente in bella mostra. “Secondo lei è stato qualcun’altro?” “La c’ho questo dubbio.” “Per quale motivo un’altra persona dovrebbe far in modo che questa Pauline venisse accusata di aver fatto sparire l’abito di scena della vittima, ottenendo così che la poverina indossasse il suo?” “La motivazione ancora ‘un la so, ma ‘un sembra anche a lei che tutto calzi un po’ troppo a pennello?” Evidentemente non gli sembrava; perché dieci minuti dopo la giustizia francese, personificata in quel tenentucolo da due soldi, ritenne opportuno portarsi via la povera Pauline come principale indiziata, anche se a lei non lo dissero apertamente. Le raccontarono la solita manfrina sul fatto che avessero bisogno di informazioni più dettagliate sulla vittima, ma Duccio era certo che la ragazza sarebbe stata trattenuta in stato di fermo. Giusto il tempo di rivestirsi e la ragazza si avviò accompagnata dagli agenti diretta verso una nottataccia in gattabuia. Il corpo della povera Corinne era stato appena portato via e di lei rimaneva solo una chiazza di rosso sullo sfondo bianco del pavimento. “Lei mi sembra uno sveglio. Ci pensi lei a capirci qualcosa in tutta questa faccenda, perché se speriamo che ci si metta d’impegno la polizia di qui, la povera Pauline non ha speranza.” “Lei ha notato i’ cotone?” “Il cotone?” Il direttore strabuzzò gli occhi e cominciò a chiedersi se tutta quella fiducia appena espressa nei confronti di Duccio fosse mal riposta. “Quello nella scarpa.” Duccio allungò una mano e prese un paio di scarpe col tacco che erano accanto al borsone appartenuto alla vittima. In fondo, schiacciati in prossimità della punta, un paio di batuffoli bianchi facevano capolino.
“No. Non ci avevo fatto caso.” Il direttore lo squadrava ancora con aria sospettosa. Poi decise di allontanarsi, come se avesse deciso che era meglio non ascoltare i vaneggiamenti dei quel poliziotto tutto in ghingheri. “…io, non sono stata io …” Duccio ripeté fra sé e sé le parole della vittima e nella sua mente due domande presero vita: Non è stata lei a fare che cosa? Chi voleva uccidere Corinne o Pauline? Sì perché, con un abito identico e il medesimo colore di capelli avviluppato dentro la stessa pettinatura, le due ragazze viste da dietro sembravano uguali. Per dare risposta ad entrambe l’unica cosa da fare era scandagliare la loro vita. E chi meglio delle amiche o delle colleghe, per confidare i segreti? Le dieci ragazze rimaste nell’altro camerino, si davano coraggio abbracciandosi e dandosi delle carezze tergi-lacrime. A Duccio sembravano delle scolarette alle prese con una brutta pagella, un sette in condotta o una nota sul diario da riportare firmata entro domani. Le mandò a cambiarsi e come furono pronte le fece entrare nel camerino in cui era avvenuto il delitto. Stéphane, compagno di mille avventure, decise di rimanergli accanto anche quella volta. Forse nella loro storia di viveur non avevano mai visto tante donne tutte insieme e tutte per loro, ma purtroppo le circostanze non permettevano di scherzare sull’argomento. “Forza ragazze, raccontatemi tutto ciò che vu’ sapete sulla vita delle vostre du’ amiche.” Il silenzio che seguì sottolineò un certo imbarazzo da parte delle giovani a parlare delle due assenti. Un mazzo di rose rosse riempiva prepotentemente l’aria col suo profumo e Duccio prese lo spunto da quei fiori per rompere il ghiaccio: “Chi di voi l’ha ‘no spasimante così romantico?” “Erano di Corinne. Gliele aveva regalate Jacques, il fratello di Pauline.” Ahia, qui son dolori! Chi ha organizzato il tutto l’ha pensato decisamente bene, perché volente o nolente si torna sempre a lei. Si rivolse alla ragazza che aveva appena finito di parlare: “Come ti chiami?”
“Angélie Lemaire.” Duccio la osservò: era bionda, ma si sorprese a considerare che sarebbe stata meglio con i capelli rossi. Chissà com’era che in un momento così tragico gli veniva in mente una cosa del genere. “Continua pure, Angélie.” La biondina riprese da dove si era interrotta e raccontò di Jacques, lo sceneggiatore innamorato di Corinne, ma non contraccambiato. Il fratello maggiore di Pauline, infatti, ormai da diversi mesi era perdutamente innamorato di Corinne e per cercare di entrare nelle sue grazie aveva anche scritto una sceneggiatura per il teatro, in cui lei avrebbe avuto il ruolo principale. Stéphane e Duccio si guardarono e pensarono la stessa cosa. Fu Stéphane a dare voce ai loro pensieri: “Mi sembra di rivivere la sceneggiatura della famosa commedia musicale. È possibile che qualcuno possa essersi fatto ispirare a farne anche una tragedia a danno della povera Pauline?” “Direi di sì.” Le altre informazioni che raccolsero circa la vita delle due ragazze erano di poco conto. La vita di Corinne era riassumibile in poche parole: aveva una sorella, i genitori non erano più in vita e di amori ne aveva avuti davvero pochi. L’unico neo era che l’ultimo uomo che frequentava, e di cui Jacques era geloso, era un uomo sposato. Qualcosa su cui lavorare ce l’abbiamo e finalmente porta lontano da Pauline. E poi quella frase “… io, non sono stata io …” Pauline faceva una vita ancora più tranquilla della collega: studiava danza da molti anni e, dopo una serie di provini andati male per avere delle piccole parti in alcuni musical, si era decisa ad aggiungere il Moulin Rouge nel proprio curriculum. Questo era il massimo della trasgressione che si fosse mai concessa. Aveva un fratello che era tutta la sua famiglia, visto che i suoi, separati da quando lei e Jacques erano piccoli, li sentiva giusto per le feste comandate.
Un’ora dopo Duccio e Stéphane erano in auto, insieme a tre colleghe di Corinne a cui avevano chiesto di accompagnarli a casa della vittima. Il medico, sintetico e analitico per natura, cercò di fare un piccolo riassunto della situazione, stabilendo il record di riuscirci mettendo tutto in un’unica frase. “La ragazza è morta giusto la sera in cui l’amica, il cui fratello è innamorato di lei, le presta il suo secondo abito di scena.” Duccio era silenzioso e guardava davanti a sé, stretto dentro la giacca scura del suo completo. Sorrise per un attimo di fronte alle capacità di sintesi dell’amico, ma ripensando al contenuto di quell’unica e stringata frase, tornò subito serio. Stéphane aggiunse: “Lo so che Pauline ti fa tenerezza, mon amì, ma devi ammettere che tutto torna: la ragazza ha vendicato suo fratello deluso in amore.” “Senti, amico cardiologo: io mi metterei mai a opera’ qualcheduno a cuore aperto?” “Spero di no!” “Ecco. E tu ‘un ti mette’ a fa’ i’ poliziotto.” Le tre ragazze dietro di loro si misero a ridere e gran parte della tensione se ne andò. “Hai ragione a di’ che tutto torna, ma forse anche un po’ troppo. ‘Un trovi?” La polizia che si stava occupando dell’assassinio di Corinne Dupont era stata così pressappochista che non si era data neanche data la briga di andare a casa della vittima; ma, siccome si erano portati via i suoi effetti personali, comprese le sue chiavi di casa, i due uomini si erano portati appresso le tre ragazze, perché con la loro presenza facessero leva sul buon cuore del portiere dello stabile in cui Corinne Dupont aveva vissuto fino a poche ore prima. L’uomo anziano si intenerì di fronte all’unica ragazza delle tre che si decise a seguirli fin dentro lo stabile e un paio di minuto dopo, Duccio, Stéphane e Lucille entrarono in un monolocale che sembrava una dependance del camerino in cui si cambiava Corinne prima di fare lo spettacolo. Il bagno era invaso da abiti multicolori, al punto di sembrare uno spogliatoio. Si
salvava solo cabina doccia, che non era stata trasformata in una cabina armadio solo per la necessità di doversi lavare. File e file di scarpe rigorosamente col tacco, erano messe ordinatamente in una scarpiera composta da semplici assi pitturate a mano con piccole decorazioni floreali qua e là. Lucille, accanto a lui, aveva seguito il suo sguardo e aggiunse: “Questi fiori li ha dipinti lei.” Nel vedere quelle piccole espressioni di sé, che la ragazza si era lasciata alle spalle, una stretta al cuore trafisse Duccio con una fitta e i suoi occhi si iniettarono di rosso per la rabbia. Anche Stéphane, in piedi accanto a lui, non rimase immune a quel momento di intensi sentimenti negativi. Serrò i pugni e uno se lo portò davanti alla bocca come per frenare delle urla che gli sarebbero uscite se solo se lo fosse ancora potuto permettere. Ma era troppo adulto per urlare, troppo medico per commuoversi e abbastanza uomo da provare una furia cieca. Quella fila di scarpe femminili e sensuali erano un inno alla vita ed ora erano lì come un elenco di punti interrogativi. Il bianco del cotone schiacciato in fondo a ciascuna di esse lo guardava, sfidandolo a capire il perché lui ci fosse; lì, dentro ogni singolo paio di scarpe presenti in quella stanza. Tutte le scarpe, di una normalissima misura trentanove, erano state troppo lunghe per la loro ex proprietaria. Se la ragazza avesse avuto un piedino da bambolina, ad esempio un numero trentacinque, sarebbe stato chiaro che, facendo fatica a trovare delle scarpe del proprio numero, si fosse ingegnata per farsi andare bene quelle di un numero più facile da trovare. Ma non era il suo caso perché quelle erano un numero trentanove e a trovarle del trentotto non c’erano problemi. E poi: proprio tutte? In preda all’eccitazione di aver intuito la soluzione di quel mistero, Duccio cominciò a cercare, tra i vestiti presenti, dei pantaloni. Come li trovò ebbe la sua conferma. Stéphane, che per non stare con le mani in mano si era messo a guardare nei cassetti della scrivania, richiamò la sua attenzione e gli indicò un minuscolo involucro di carta che conteneva della cocaina. I due si guardarono e decisero di non parlarne a Lucille.
La soluzione a quel mistero era chiara; e mentre Duccio ci pensava, i latrati di un cane lo raggiunsero da dietro il divano. Uno shih-tzu, che non aveva ancora reso manifesta la sua presenza perché era troppo impaurito, si decise a fare capolino con la coda bassa e lasciò che Lucille lo prendesse in braccio.
Quando scesero, trovarono le due ragazze che non se l’erano sentita di salire con loro, che li attendevano in macchina. Tolti gli abiti del loro lavoro, senza trucco e strette nei loro cappottini neri, sembravano due ragazzine che aspettavano di essere riaccompagnate a casa dai genitori dei loro compagni di classe, dopo una serata passata a studiare insieme. Il cane che era stato mogio mogio fino ad un attimo prima, cominciò a scodinzolare e a saltare contento. Mica bischero i’ cane, appena l’ha visto du’ bionde s’è acceso subito. Certi colori ‘un hanno confini emotivi. Riaccompagnate a casa le tre ragazze, Duccio e Stéphane si tennero il cane e decisero di tornare a casa. Quella nottata era durata anche troppo.
La mattina successiva Duccio si diresse di gran carriera dal tenente Fournier, portandosi dietro il cane di Corinne. Si sedette davanti a lui senza troppi riguardi e senza che lui gli desse il permesso per farlo. Del resto, il tenente non aveva forse trattato tutta quella faccenda allo stesso modo? Con l’aria di chi ti sta facendo un favore a non alzarti di peso per sbatterti fuori dal proprio territorio, gli rivolse la parola con una gentilezza sincera quanto una moneta da tre euro: “Posso aiutarla?” “No. In compenso, so’ io che posso aiuta’ lei’.” L’uomo sorrise come un padre indulgente che soprassiede alla marachella di un figlio birichino. “Lei è sorprendente, ma per i miei gusti viaggia troppo di fantasia.”
“L’è sempre meglio che rimane’ a i’ palo con la razionalità. Perché, sa, alle volte l’immaginazione fa vede’ anche i risvolti di ciò che ‘un c’è, o meglio, di ciò che in teoria ‘un ci dovrebbe essere.” L’uomo lo guardò con aria vistosamente scocciata. “Pauline è già stata trattenuta in stato di fermo preventivo. Non appena avrò delle prove più consistenti, tramuterò il fermo in arresto. Come vede, anche io so fare il mio mestiere. Non è il caso di preoccuparsi.” “È ben per questo che mi preoccupo.” “Le ho chiesto se posso esserle utile.” L’uomo si alzò in piedi con l’aria di chi sta per liquidarti e rispedirti da dove sei venuto; ma Duccio proseguì imperterrito per la sua strada. “Il portafoglio vu l’avete trovato nella borsetta della ragazza, vero?” L’uomo era in preda ad una fredda collera, che tratteneva bene sotto una facciata di apparente imperturbabilità. Nello sguardo si cominciava, tuttavia, ad intravedere il sorgere di un ragionevole dubbio sul fatto che Duccio non fosse poi così in preda ai vaneggiamenti, ma sapeva bene da che parte si stava dirigendo. “Sì, certo. La sorprenderà sapere che abbiamo controllato anche che ci fossero ancora i soldi, per escludere che si tratti di una rapina” “Avete controllato anche i documenti?” “Sì, ovviamente. Ci sono anche quelli.” L’uomo pronunciò l’ultima frase mettendosi quasi a ridere per la banalità delle argomentazioni con cui Duccio si era presentato nel suo ufficio. “Non sono i suoi.” Il silenzio prolungato che seguì cadde come un velo bianco paragonabile alla patina di pallore che invase il volto dell’uomo che, non sentendosi più molto sicuro della propria posizione, tornò a sedersi rimettendosi al livello del suo interlocutore. “E di chi sarebbero, secondo lei?” “Della su’ sorella, Helen Dupont.”
La sicurezza con cui Duccio pronunciò quest’ultima frase indusse il tenente a prendere in mano l’interfono per dare l’ordine ad un agente di portargli la borsa della vittima. Dopo pochi minuti l’agente entrò e posò una borsetta civettuola sulla scrivania del suo superiore, il quale ebbe l’accortezza di liquidarlo perché sapeva di essere in procinto di fare una di quelle figure che un subalterno sarebbe bene che non vedesse mai. Estrasse i documenti e il viso della vittima, contornato dei suoi capelli rossi, gli sorrideva sopra la scritta: Helen Dupont. “Lei come faceva a saperlo? Li ha guardati ieri, prima che arrivassimo noi?” “No. È stato il cotone a dirmelo.” L’uomo, che ormai aveva capito di non avere di fronte un pazzo, o uno in vena di bizzarrie, ascoltò l’ultima affermazione bislacca ma rimase imperturbabile. Appoggiò i gomiti sulla sua scrivania e guardò Duccio in attesa che si decidesse di continuare. “Prima di proseguire, le comunico che i documenti dicono il vero. La ragazza è veramente Helen Dupont.” Dopo una pausa concessa al tenente per assimilare bene quell’ultima verità. Duccio riprese imperturbabile: “Stanotte mi so’ concesso ‘na piccola ricerca. Io so’ un commissario di un piccolo centro della Toscana, ma in modo non ufficiale collaboro con l’INTERPOL e questo mi consente di avere delle informazioni riservate.” “Mi perdoni, Monsieur Cortese, se sono stato brusco con lei. Pensavo che fosse solo un poliziotto italiano un po’ impiccione.” Quest’uomo riesce a offendere anche quando si scusa. Facciamo finta di ‘un aver sentito. “Ieri sera ‘na collega di Helen, che noi pensavamo fosse Corinne, mi disse che la ragazza l’aveva ‘na sorella. Ma la cosa ‘un m’aveva interessato più di tanto. Il ruolo di una fantomatica sorella m’è parso più importante solo ieri sera, quando so’ andato a casa della finta Corinne e mi so’ accorto che la ragazza defunta l’andava in giro indossando delle scarpe che ‘un erano le sue, infatti tutte le scarpe presenti in casa erano state acquistate pe’ un piede più lungo e contenevano del cotone schiacciato in fondo alla punta, pe’ renderle calzabili anche pe’ chi aveva un piede d’un numero più
piccolo. Solitamente questo scambiarsi le scarpe l’è un qualcosa che si fa co’ un familiare, come ad esempio ‘na sorella. Pe’ avere conferma di questo so’ andato a controllare tra i su’ indumenti ed ho trovato che i pantaloni so’ stati tutti accorciati e il perché l’è intuibile: se il piede della vittima, di Helen, l’era più piccolo, molto probabilmente lei l’era anche più bassa della su’ sorella Corinne; e per riuscire a mettere i su’ pantaloni doveva farli accorcia’ ”. Il tenente gli fece cenno che seguiva il filo dei suoi ragionamenti e Duccio proseguì. “Stanotte l’INTERPOL m’ha confermato che du’ anni fa sparì Helen, ma io credo che a fa’ perdere le proprie tracce sia stata Corinne. In quel periodo, Helen ebbe problemi di droga e immagino ch’abbia detto alla su’ sorella che voleva andarsene lontano per ricomincia’ ‘na nuova vita. Un sapremo mai se le cose siano realmente andate così e mi mòvo solo sulla base di supposizioni; ma son quasi certo che Corinne, essendo delle du’ sorelle quella più spigliata, propose alla sorella più piccola di scambiarsi documenti e rimane’ a vivere qui. Per quanto riguardava la vera Corinne, ci avrebbe pensato lei a reinserirsi da qualche altra parte ne’ i’ mondo, usando de’ documenti falsi.” Dopo una piccola pausa Duccio aggiunse: “In questo modo ha senso la frase che la ragazza ha pronunciato per ben due volte, prima di morire:… io, non sono stata io …. Sa, quella frase la ‘un mi dava pace, perché la vittima nella su’ vita ‘un aveva combinato nulla per cui valesse la pena fa’ ‘na confessione in punto di morte. E, invece la poverina voleva comunicarci che quella lì … lei, non era stata lei … negli ultimi du’ anni.” “Lei mi sta quasi convincendo, ma il punto cruciale è: ipotizziamo che sia tornata a vivere in zona, per uccidere la sorella e riprendersi la propria vita, come facciamo a sapere chi sia?” Duccio indicò il piccolo essere accucciato ai suoi piedi: “ ’Un c’è problema. Ci penserà i’ cane.” Il tenente fece una risata ma poi, di fronte alla serietà di Duccio capì che non era una battuta di spirito.
Su indicazioni di Duccio il tenete fece arrivare in centrale le altre ventiquattro ragazze che, oltre alle undici che facevano lo spettacolo con la finta Corinne, lavoravano al Moulin Rouge. Tale iniziativa partiva dal fatto che l’assassina aveva cercato di far incolpare Pauline o suo fratello. Ciò presupponeva che fosse al corrente della situazione sentimentale tra i due, decidendo successivamente di sfruttarla a proprio favore. E chi meglio di una collega può sapere certe cosine? Ci vollero due ore di tempo perché ventiquattro più undici donne, equivalenti a settanta gambe da urlo facessero il loro ingresso in centrale. Duccio e il tenente stavano in piedi da una parte e le ragazze, mettendosi in fila lungo il muro, sembravano pronte per un ipotetico appello. Duccio provò per un momento ad immaginarselo: Rossa come i’ fòco? Presente! – Bionda da ‘nfarto? Presente! – Mora da competizione? Presente! … e via in un crescendo di tonalità e definizioni da dare sfogo ad ogni fantasia più o meno lecita. Tornando controvoglia ad essere serio Duccio realizzò che in quel gruppo di belle donne ce n’era una che aveva commesso un omicidio. Anzi, peggio: un fratricidio. Lo consolò il fatto che presto avrebbero saputo chi di loro fosse stata. Quattro zampette entrarono e inizialmente andarono a cercare Duccio, perché dopo due giorni passati accanto a lui, ormai quell’uomo alto ed elegante, molto diverso dalle sue vecchie padrone, lo aveva fatto sentire importante, gli aveva dato da mangiare e quella notte gli aveva anche permesso di salire sul suo lettone a dormire. Gli piaceva quello lì e decise che voleva affezionarsi a lui e diventare il suo cane. Poi alzò gli occhi curiosi su quella fila di donne e, verso la metà della fila, il suo sguardo canino si fermò. La fissava stando fermo e con la coda immobile. Poi si mosse, fece un passo e la sua coda cominciò a brandeggiare a destra, poi a sinistra, di nuovo a destra fino a diventare un vero e proprio scodinzolio accompagnato da guaiti di piacere. Era lei, finalmente aveva rivisto la sua padrona dopo due anni che non la vedeva più; aveva un diverso colore di capelli, ma era le, lui ne era sicuro. Ma com’è che lei non era tanto contenta di vederlo? Io l’avevo detto che quella biondina sarebbe stata meglio co’ capelli rossi. Certo se l’è tinti per non assimiglia’ alla su’ sorella e farsi scoprir subito. Un’ora dopo il tenente stava accomiatando Duccio. Corinne, che aveva dei falsi documenti riportanti il nome Angélie Lemaire, si sentì sommersa dai sensi di colpa e
confessò di essere Corinne Dupont, di aver ucciso sua sorella e di averle rimesso nel portafoglio i suoi vecchi documenti; il tutto, prima che arrivasse la polizia. “Immagino che lei avesse intuito che l’assassina fosse quella ragazza, anche prima che il cane la riconoscesse come la sua vecchia padrona.” “Sì. Ieri sera, quando eravamo chiusi ne’ i’ camerino, ho notato delle rose e la prima cosa che la finta Angélie, ma che in verità era Corinne, m’ha fatto notare era che fossero un regalo per la vittima, dedicato a lei e da uno spasimante geloso. Insomma, ha cercato subito di indirizzarmi verso Pauline.” “Perché ha fatto tutto questo, secondo lei?” “Credo che volesse riprendersi la su’ vita. Nessuno l’è più povero di chi ‘un possiede neanche se stesso.” Uscito di lì Duccio sorrise nel vedere che Pauline aveva già riabbracciato suo fratello e fu contento di essere esattamente quello che era, anche se alle volte la sua vita da ramingo, vedovo e tutore dell’ordine alle volte non gli piaceva. Fermò un taxi che passava di lì. “È libero?” “Oui, monsieur.” “Posso sali’ anche se c’ho un cane?” “Bien sùr!” “Vive la France!”
Quando si è persone festose, la
gioia
non
si
limita
a
rallegrare la tua vita solo per le ricorrenze. Può essere Natale ogni santo giorno. Scommetti?
E’ sempre Natale Arita Cast