USCIRE DAL GIOCO
“I’cchè tu dici?” Era aprile e Duccio sedeva nel suo patio a godersi un fresco venticello, dondolandosi sulle zampe posteriori di una delle sue sedie da giardino. Per poco non cadde all’indietro quando udì ciò che la sua amica Françoise gli comunicò. “Sono stata avvelenata, almeno questo è quanto mi dicono i medici.” “E come la sarebbe successo?” “Dev’essere successo mentre bevevo un caffè nel locale accanto alla redazione, dove vado sempre.” “Ciò che ti ha avvelenato può essere imputato alla negligenza del ristoratore? Magari ti ha servito qualcosa di avariato.” “No. Avevo bevuto solo un caffè e i referti parlano di una sostanza chimica, il curaro. In dosi anche minime porta alla paralisi del sistema respiratorio. Sarei morta per asfissia, se non avessi avanzato metà della bevanda.” “Eri da sola quando ti è successo o in compagnia di qualcuno?” “Sola. Ho cominciato a star male subito e il mio collega Mike, che era uscito dall’ufficio diretto da qualche parte, mi ha soccorso e portato un ospedale.” La telefonata durò ancora una mezz’ora, durante la quale Duccio si raccomandò di stare all’erta e di verificare bene tutta la faccenda, prima di considerarla un attentato intenzionale alla sua vita. Magari era stato un errore, visto che il curaro viene utilizzato anche come pesticida. Anche se, in effetti, mai in forma pura. Si salutarono con la promessa che si sarebbero sentiti presto. Come chiuse la telefonata a Duccio corse un brivido lungo la schiena al pensiero che la sua amica Françoise avesse rischiato di … non voleva neanche pensarci. Françoise era una sua vecchia conoscenza di tanti anni prima. Giornalista canadese abitava a Montreal e la conobbe litigandoci durante un’intervista in cui, quella cronista d’assalto, lo bombardò con una serie di domande capziose al fine di
estorcergli delle informazioni che, durante una conferenza stampa relativa a delle indagini, non devono uscire dalla bocca di un poliziotto neanche per sbaglio. Questo era lo stile di Françoise: lei scriveva articoli su fatti di cronaca nera, senza scrupoli di coscienza alcuna, descrivendo persone e situazioni in modo così spietato che le prime ne uscivano con la reputazione a pezzi. Intendiamoci: era bravissima nel suo lavoro, stimatissima dai colleghi, ma poverino il delinquente che si imbatteva in lei lungo la marcia della sua ambita carriera come giornalista. Era riccia, mora, non molto alta, anche fin troppo magra, con due occhi curiosi che tradivano la grinta sottostante. Insomma: un fascio di nervi scoperti sempre pronto a darti qualche emozione di troppo. Però a lui mancava il vederla un po’ più spesso. L’idea di andare a Montreal a trovarla lo solleticò, ma considerato il lungo elenco di amici che voleva andare a trovare, il suo calendario dei viaggi in programma era già a zeppo all’inverosimile anche senza aggiungere quella nuova destinazione.
Giugno, a Castiglioncello, è un mese meraviglioso in cui il turismo sboccia e, aprendosi nuovamente per un'altra stagione estiva, fa rivivere la sua cittadina risvegliandola dalla pigrizia invernale per farle accogliere i nuovi turisti. Duccio uscì dall’acqua e s’incamminò in costume e a piedi scalzi verso casa sua. Come suo solito, era uscito di casa senza chiavi, ciabatte, asciugamano … senza niente. Questo perché gli piaceva cominciare le sue nuotate tuffandosi in acqua dalla scogliera dei Pungenti e riemergendo due chilometri a sud, alla caletta dei pescatori. Considerato che il punto in cui s’immergeva in acqua era diverso da quello da cui riemergeva, le ciabatte e l’asciugamano gli sarebbero serviti ben poco, visto che non potevano seguirlo. Al suo rientro a casa trovò Aida ancora intenta a fare i mestieri e Paris che le girava attorno cercando di morderle la scopa, dandole non poco impiccio. “Duccio, per pranzo t’ho preparato i’ pesce. Vedi di finìllo perché a domani ‘un c’arriva.”
Duccio alzò il coperchio della pentola e si chiese tra quanto sarebbe giunta la calata dei lanzichenecchi, conteggiata nella quantità del cibo preparato. “Farò de’ i’ mi’ meglio, Aida.” Fortuna c’è la mensa de’ poveri di Don Sebastiano, che m’aiuta a fini’ tutti i mangiarini d’Aida. Aida comparve con il suo fazzoletto in testa. “Ha chiamato una che parlava una lingua strana.” Duccio avrebbe potuto andare a verificare sul suo telefonino da quale numero fosse giunta la chiamata, ma decise di farsi due risate clandestine alle spalle di Aida. Sapeva che le avrebbe pagate a caro prezzo, ma la tentazione fu troppo forte. “Come t’ha salutato? I’cchè t’ha detto?”Aida cominciò a stringersi le mani con fare imbarazzato: “ ‘Un te lo so’ riepete’, Duccio. Lo sai ‘un ho studiato di molto.” “Come ti sembravano le prime parole? Per esempio assomigliavano a un ‘Guten Tag’ ? “ ‘Un mi pare.” “Hi o Hullo?” “Nemmeno.” “Buenas Dias?” “Forse.” “మం� ���?”
“I’cchè lingua l’è codesta?” “Telugu.” “Duccio, ‘un fa’ i’ birbone! ‘Un so’ che lingua fosse, era ‘na signora che cercava di parla’ italiano, ma
‘un la capivo. ” Aida si fermò per pochi secondi assorta e
concentrata. E poi se ne uscì con un tono di voce bello squillante, sembrava stesse annunciando un proclama reale. “Ora che ci ripenso: l’era francese.” “Tu se’ sicura?” “Certo. Continuava a ripetere che era fransuà.”
Duccio nel parlare aveva preso in mano il telefono e vide che, in effetti, la chiamata fosse della sua amica canadese, dove la percentuale di persone con nomi francesi è altissima. “Il fatto che si chiamasse
Françoise ‘un vòl di’ necessariamente che la fosse
francese. Se si fosse chiamata Germana, l’era tedesca per forza? Non sempre i nomi di luoghi e persone, anche quando s’assomigliano, l’hanno qualcosa in comune.” “Che comune? All’estero?” Duccio scoppiò in una fragorosa risata. “Aida, ti adoro. Vedi di ‘un cambia’ mai sennò ti licenzio.” “La ‘un mi garba quando tu mi dici in codesta maniera. Vòl dire che tu mi prend’aggiro.” “Vado a farmi ‘na doccia, Aida.” “Bravo. E copriti che ‘un si va aggiro scalz’ignudo.” Il tono di voce tradiva l’arrabbiatura per quella scenetta e infatti, quando Duccio uscì dalla doccia, la trovò con le scarpe e la borsa, pronta per andarsene anche se non era finito il suo orario di lavoro. “Tu se’ permalosa.” “E tu, invece, tu s’è un birbante. Le ore d’oggi le recupero domani e se c’ho voglia. Tanto ‘un tu mi licenzi. ‘Ndo tu la trovi un’altra che ti sopporta come fo’ io?” “Va bene. Tu c’ha ragione.” Aida girò i tacchi, ma continuando a guardarlo negli occhi, come per verificare che le parole e lo sguardo del suo datore di lavoro fossero in comunione d’intenti. La donna gli lanciò un’ultima occhiata altera e uscì con quel che rimaneva del suo orgoglio al seguito. Duccio mise sul fuoco la pentola di piselli con le seppie, sufficienti per sé e per l’esercito immaginario di lanzichenecchi affamati, e si mise al telefono. “Hullo?” “Hi, Françoise, come tu stai?” “Benone. Mi ha detto la tua domestica che eri a fare una nuotata. Beato te.”
“Se l’è pe’ i’ freddo, l’è questione di un mesetto e vu potete farlo anche voi.” “Per quanto mi riguarda, non è solo una questione di clima. Ho ancora un braccio ingessato perché sono stata investita da una macchina parcheggiata. Ci crederesti?” “Parcheggiata? Ma se l’era ferma, com’ha fatto a investirti?” “Il proprietario l’ha lasciata in folle e s’è dimenticato di tirare il freno a mano. Sono proprio sfortunata!” “Dimmi una cosa, Françoise: tu stavi passando giusto il quel momento, o tu eri ferma da un po’ne’ i’punto in cui l’auto t’ha investito?” “Sì, in effetti ero seduta al tavolino di un bar. La macchina, che era parcheggiata in una stradina laterale leggermente in discesa, ha preso velocità e mi è arrivata addosso.” “L’è la seconda volta in du’ mesi che ti succede qualcosa. ‘Un è che per caso tu esci co’ n’omo sposato?” “Assolutamente no.” Quando si salutarono Duccio rimase a lungo pensieroso e gli venne in mente il vecchio detto che dice che il ‘caso’ è il dio degli scemi. Troppe cose stavano avvenendo ‘per caso’ alla sua amica e lui non era scemo. I piselli con le seppie erano cotti a meraviglia ma gli rimasero indigesti. Come se la macchina della sua amica, lasciata in folle per una folle corsa, gli si fosse parcheggiata sullo stomaco.
A Duccio il mese di ottobre piaceva, perché regalava le ultime giornate temperate e con esse le folate di vento profumate di salsedine. Ad agosto aveva richiamato Françoise. Era stato in pensiero per lei, a causa di quelle due telefonate dei mesi precedenti in cui gli comunicava che era stata sul punto di morire. La sua amica lo rassicurò che non era più successo nulla e lui si era messo il cuore in pace cercando di convincersi che fossero state due casualità. Fu per questo motivo che, quando Duccio vide il nome dell’amica brillare sul display del telefonino, non era preparato a ciò che gli disse.
Era seduto alla sua scrivania in centrale e fu una fortuna, perché dopo la frase di apertura della telefonata, gli tremarono le gambe. “Hi Françoise. How are you?” “Sto male, Duccio. Mi è successo ancora qualcosa di grave.” Il silenzio sgomento di Duccio parlò per lui. “Hanno cercato di spingermi sotto la metropolitana. Penso di poter dire che sono viva per miracolo.” Il piglio deciso, con cui i maschi sono soliti affrontare i problemi, lo indusse a saltare ogni preambolo e ad andare dritto al punto. “Raccontami come l’è successo.” “Mi hanno spinta contro la metropolitana. Per mia fortuna il convoglio stava già rallentando la sua corsa, altrimenti sarei stata travolta.” “Fammi capire, ‘un sei stata spinta sotto la metropolitana, ma addosso?” “Esatto. Questo è quanto è successo. C’erano molte persone con me in quel momento e anche loro sostengono questa cosa.” “ ‘Un hanno visto chi l’è stato?” “All’ora di punta la banchina era piena e nella confusione non sono riusciti a individuare il responsabile. Qualcuno dice che si trattava di un pazzo, ma la cosa non mi convince. Come già sai, negli ultimi mesi non è la prima volta che rischio di morire.” “Come stai? Hai delle fratture?” “No, solo una contusione alla testa.” “Cercami un albergo. Metto insieme un po’ di giorni di ferie e ti raggiungo.” “Se vuoi venire a Montreal mi fa piacere, ma non farlo per questa faccenda. Non vorrei disturbarti per niente.” “Io comincio a veni’ a trovarti e poi vediamo i’cchè succede.”
L’aereo atterrò in orario, puntuale su un nuovo mistero da sviscerare, un vigliacco da scoprire e un’amica da salvare. Quest’ultima, in quel momento, ancora con la testa
e un occhio bendati, era andata ad accoglierlo e si sbracciava per salutarlo. Era stata dimessa dall’ospedale il giorno prima e, nell’abbraccio prolungato che lei gli regalò, i suoi capelli sapevano ancora di disinfettante e dolore. Una lacrima si perse nella trama della benda e di lei rimase solo una macchiolina di acqua su sfondo bianco; mentre la sua gemella correva libera sull’altra guancia ad esprimere quello che avrebbero dovuto fare in due. Quel momento di afflato si dileguò piano piano e di esso rimase solo la voce roca per l’emozione con cui Françoise gli chiese se voleva andare in albergo a riposarsi un po’. “No, bellezza, accompagnami subito in redazione. Per riposa’ avrò tempo stasera, mentre adesso voglio vederci subito chiaro in questa faccenda e siccome sappiamo bene tutt’e due che tu se’ alquanto accesa contro i criminali quando tu scrivi, son certo che i’ nome di chi sta tentando d’ucciderti lo troveremo scritto in uno dei tu’ articoli di cronaca.” “So di aver fatto di essere stata spietata con diversi delinquenti, e ogni volta salivo di un gradino sulla scalinata della mia carriera. Ma alle volte ho fatto anche del bene: a diversi di loro ho trovato un lavoro.” “Molti però non sono più riusciti a ricollocarsi.” “Questo è vero.” Il taxi percorse alcune delle vie più suggestive di Montreal e lei insistette perché si fermassero a bere qualcosa nella Place d’Armes, dedicata al fondatore della città e che si trova nella città vecchia. Gli edifici che circondavano la piazza, appartenenti a epoche diverse, erano così felicemente accostasti uno all’altro che le diversità di stile non entravano in conflitto tra loro, ma erano un arricchimento l’uno per l’altro. Proseguirono lungo la rue Saint Antoine costeggiando in parco sul quale altri edifici storici mettevano in evidenza la bellezza architettonica della città.
Arrivarono alla sede del giornale e la sua amica lo prese sottobraccio prima di varcare la soglia dell’ufficio stampa in cui, da una decina di scrivanie, si alzarono altrettante teste che lo guardarono con curiosità. Duccio guardò Françoise di sbieco e incrociò il suo sguardo birichino con cui lei sottolineò che voleva far ingelosire un po’ le colleghe improvvisando quella messinscena. Due ragazze gli sorrisero e indugiarono lo sguardo sul suo completo, sulle scarpe di manifattura italiana e sul suo Borsalino di feltro rasato, grigio antracite, con cinta intono e ala media. Come raggiunsero la scrivania di Françoise il capo redattore si materializzò subito accanto a loro e si presentò. “Hi, sono Mike Burg.” “Hi, Duccio Cortese.” “Sei l’amico italiano di Françoise, quello che ci aiuterà a salvarle il collo?” “Farò de’ i’ mi’ meglio.”
L’uomo chiese a Duccio se fosse già munito di prenotazione alberghiera e, al suo diniego, si mise ad elencare un elenco di ottimi alberghi, mosso dalla innata cortesia del suo popolo. Dopo aver ringraziato Mike per questo saggio di cordialità, Duccio si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania dell’amica e riportò l’attenzione di lei sui fatti di cronaca su cui aveva scritto degli articoli pepati e che potevano essere la causa scatenante dei tentativi di ucciderla. “Françoise, vorrei sape’ quali, tra i casi di cui ti se’ occupata, siano stati così …” “… efferati?” “No, sbagliati.” Duccio fece una pausa in cui la guardò con un certo rimprovero negli occhi. “Insomma, Françoise, quelli in cui tu ti se’ sbizzarrita a mettere alla gogna gli infelici protagonisti.” “Che io abbia sbagliato e un po’ da discutere.” “Sì, ma che io sia corso qui a Montreal pe’ cerca’ ti salvarti la pelle, la ‘un si discute.” “Touché.” “Ricominciamo da capo e infodera le unghie.” “Ok. Hai ragione, ma il punto è che non saprei da che parte cominciare. I casi di cui mi sono occupata in modo più accorato, sono stati dei casi di omicidio e i colpevoli, tranne un paio che sono già morti, sono ancora tutti in carcere. Qui non abbiamo la pena di morte, ma sull’ergastolo per nei casi di assassinio la nostra legge è irremovibile.” “Beati voi.” “Non ti sembra possibile, Duccio, che questa persona abbiano dei parenti che li vogliano vendicare?” “L’è poco probabile. I delinquenti solitamente ‘un sono molto amati neanche in famiglia. In base alla mia esperienza, ritengo che certi elementi siano più apprezzati
in carcere che a piede libero. La massima di vita che più si addice in questi casi è lontano dagli occhi e vicino al cuore, contrariamente al solito adagio.” Duccio continuò sulla sua via. “Altri casi in cui ti se’ sbilanciata in opinioni un po’ azzardate?” “Non ce n’è. Sono sempre stata il massimo dell’obiettività.” Un suo collega, seduto ad una scrivania poco distante, alzò le sopracciglia per esprimere stupore e la propria distanza dalla veridicità di quell’affermazione. Duccio allungò una mano sulla scrivania dell’amica e cercò carta e penna. “Françoise, fammi una cortesia, andresti a prendermi un caffè? So’ di molto stanco. E senti se qualcun’atro lo vuole, ve l’offro io.” “Non ci pensare neppure. Così, già che ci sono, aggiorno il mio amico Samuel sul fatto che qualcuno sta cominciando ad indagare su tutta questa faccenda.” “Chi è Samuel?” “È uno degli ex galeotti, di cui ho narrato le gesta nei miei articoli. Gli ho trovato lavoro nella caffetteria qui vicino e almeno lui, per via di questo fatto, non mi porta rancore. Anzi, è preoccupato per me.” Speriamo che sia vero. Come l’amica uscì dalla stanza, Duccio si alzò e si diresse verso la scrivania da cui erano partiti dei silenziosi commenti alle affermazioni di prima. “Ci crede che la stavo aspettando?” L’uomo gli allungò la mano. “Sono Jim Blake.” Duccio gli strinse la mano e capì, dalla quantità di materiale che aveva attorno a lui e dai segni di usura della sedia e della scrivania, che Jim era un personaggio storico della redazione. L’escamotage con cui era riuscito a far allontanare Françoise sarebbe durato pochi minuti perciò, senza perdere troppo tempo prezioso in preamboli, gli rivolse la domanda che più gli premeva: “Se tu fossi ne’ panni di Françoise, visto quello che le sta succedendo, quale de’ tu’ vecchi articoli la ti farebbe perde’ i’ sonno?”
“Nei giorni scorsi mi sono soffermato a pensare a quali potrebbero essere stati i casi in cui Françoise, nel descriverli, si è comportata più scorrettamente e i cui protagonisti girano indisturbati per la città. Me ne sono venuti in mente tre: Pamela Johnson, Carl Wigles e Rebecca Standson.” “Se sono a piede libero, immagino che ‘un siano tre assassini.” “No, ma sono pur sempre colpevoli dei reati che furono a loro imputati. Però immagino che se Françoise non si fosse occupata dei loro casi, la loro immagine agli occhi del mondo sarebbe molto meno malconcia.” “Li ha descritti calcando un po’ la mano?” “Peggio. A pensarci bene due di essi sono stati dei fatti di cronaca anche piuttosto banali, ma Françoise ha voluto tirar fuori da quelle tre persone dei capri espiatori. Per lei è stato un po’ come punirne uno per educarne cento.” “Quale di questi è stato il caso trattato più ingiustamente?” “Quello di Pamela Johnson. Era la cassiera di un supermercato e la beccarono che rubava alla cassa.” “Com’è possibile? Se qui funzione come in Italia, i cassieri so’ responsabili dell’incasso della giornata. Se ci so’ degli ammanchi pagano di tasca propria.” “Anche qui, ma il suo caso è stato diverso. Lei facilitava i suoi colleghi, nel momento in cui loro facevano la spesa e andavano a pagare, facendo passare molti prodotti sottobanco, senza scannerizzarli. Era una prassi abbastanza diffusa in quella catena di supermercati ma la cosa fece scalpore tra i consumatori perché si sentirono depredati. Françoise puntò Pamela, perché fu ripresa da una telecamera e il fatto fu inconfutabile. La dette in pasto all’opinione pubblica in nome dell’ingiustizia per tutte le famiglie indigenti che devono pagare la spesa fino all’ultimo centesimo.” “Quando avvenne questo fatto?” “Un paio di anni fa e so che la ragazza, da allora, non è più riuscita a trovare un lavoro.” “Sì, ‘un c’è che di’, lei potrebbe volersi vendicare.”
“Il secondo caso che susciterebbe il mio interesse è quello di Carl Wigles. Era un secondino del carcere di St. Patrick. È un uomo grande e grosso e lo beccarono mentre malmenava dei carcerati.” “Anche in questo caso era prassi comune, immagino.” “Esattamente, ma Françoise se la prese con lui in modo particolare. Lavora ancora in carcere, ma lo hanno retrocesso alla guardiola.” “Non oso immaginare che cosa può aver scritto Françoise.” “Immagina pure e usa molta fantasia. Io non lo conosco di persona, ma da come l’ha descritto Françoise dev’essere un uomo violento. Se fossi in lei, è da lui che mi aspetterei qualcosa, più che dalle altre due donne.” Jim, che all’inizio si era limitato ad esporre solo i fatti, cominciava ad esprimere anche delle opinioni e Duccio ne fu lieto perché, quando un investigatore si trova fuori dal proprio recinto, come era per lui in quel caso, è fondamentale scovare qualcuno per cui quella nuova zona non ha segreti. Jim sarebbe stato il suo riferimento ideale in tutta quella faccenda, visto che sull’obbiettività di Françoise non si poteva far affidamento. Duccio lesse il terzo nome della lista. “Rebecca Standson.” “Questo, in effetti, è stato un caso grave e ha colpito l’opinione pubblica più degli altri due. Sai, finché si toccano i carcerati la sensibilità della gente vibra così così, ma se si mettono le mani sui bambini…” Jim s’interruppe e fermò il proprio sguardo per pochi secondi sulla punta della matita che aveva in mano. Non bisognava essere degli psicologi per capire che ne avrebbe volentieri fatto uso addosso a quella donna. “Rebecca Standson era una maestra di asilo. In parole povere, dei genitori la accusarono di maltrattare i loro figli. Non in modo perverso, intendiamoci, erano dei maltrattamenti più dovuti alla perdita dell’autocontrollo. Forse il vivere a contatto con dei bimbi per molti anni le aveva usurato il sistema nervoso. E quando perdi la pazienza …” “… alzi le mani.”
“… e i piedi, e mordi …” Duccio chiuse gli occhi per non far trapelare il disgusto e la voce di Jim lo raggiunse. “Lo so, ha fatto lo stesso effetto anche a me.” “Come fu scoperta?” “L’asilo di Paharon Town, una cittadina alla periferia di Montreal, non ha mai avuto problemi fino a un paio di anni fa, quando i bambini cominciarono a tornare a casa con qualche livido e dei graffi. Le inservienti e le educatrici, che erano tutte sulla stessa barca in fatto di maltrattamenti, dissero che erano dei segni di lotta che i bambini si lasciavano addosso mentre giocavano o litigavano tra di loro.” “Sempre i’ solito copione.” “Si, ma questa volta ci fu un fuoriprogramma, perché un bimbo tornò a casa con il segno di un morso.” “La cui dimensione tradiva l’appartenenza di quei denti ad un adulto.” Jim gli sorrise. “Ha ragione Françoise, sei uno in gamba.” “Grazie. Spiegami ‘na cosa: se le maestre erano tutte implicate, perché Françoise se la prese proprio con lei?” “A dir la verità furono le tre colleghe e le inservienti a scaricarla. Temendo di finire tutte sul rogo, puntarono il dito su di lei, avvalendosi del fatto che il morso era stato prodotto da lei.” “Perché è finita nei guai solo lei? La polizia non è riuscita a verificare che anche le altre erano coinvolte?” “No. Le uniche testimonianze furono quelle dei bambini che, avendo meno di tre anni, i’immagini che cosa sono stati in grado di dire?” Duccio provò il desiderio bestiale di prendere a cazzotti tutte quelle donne, ma quando riprese a parlare cercò di riportare il discorso su Françoise, facendo appello a tutta la sua razionalità. “Immagino che la mia amica ci sia andata giù pesante.” “Puoi ben dirlo, amico. Quella donna dovette cambiare città e trasferirsi.”
“Abita molto distante da qui?” “No, una ventina di miglia a sud di Montreal.” “Allora potrebbe essere la nostra colpevole.” “Sì ma, se io fossi in quella donna, ce l’avrei più con le mie ex colleghe che con Françoise.” Come il famoso lupus in fabula, la collega si stava avvicinando e con lei il profumo di caffè, cappuccini, ciambelle e una cheese cake intera. “Vedo che ‘un tu ha dimenticato nulla.” Bisognava riconoscere che quando Françoise faceva qualcosa, di qualunque cosa si trattasse, ci si metteva d’impegno. Mike, il collega geloso, che per tutto il tempo che Duccio parlò con Jim, se n’era stato in disparte, si avvicinò e si servì generosamente di tutto. A Duccio non stava simpatico e sicuramente non lo considerava un tipo elegante, ma sapeva di essere un critico di prim’ordine in quel campo. La sera, semisdraiato sul letto, Duccio lesse con cura gli articoli presi dai fascicoli relativi alle tre persone di cui aveva parlato con Jim ed ebbe modo di fare delle riflessioni interessanti. Ogni tanto si alzava dal letto e si affacciava alla finestra. La sua camera era al quarantaduesimo piano del suo albergo e la vista notturna di Montreal, da quella’altezza, era spettacolare. FOTO 2
La mattina successiva si alzò di buon mattino. Montreal lo attendeva. Armato dei tre indirizzi presso cui avrebbe trovato i suoi sospetti, andò a prelevare l’auto che aveva noleggiato e si diresse verso la città. Era contento che almeno due di loro vivessero nel capoluogo perché Montreal era una città bella, sia nella zona centrale chic, che in periferia dove eleganti costruzioni in stile vagamente britannico dai colori pastello, lo attendevano messi in fila uno dopo l’altro per formare un insieme appagante per il gusto estetico di chiunque. Conoscendo l’indole pacifica dei canadesi, Duccio non fece fatica a immaginare che quella sincronia di colori e
abbinamenti che legavano un’abitazione all’altra, comprendendo entrambi i lati delle strade, non era frutto di accese discussioni e assemblee pseudo-condominiali come succedeva dalle sue parti. Dove, secondo l’italica usanza, ognuno puntava i piedi per difendere il bene proprio e li sollevava solo per dare un calcio a quello comune. Dopo una fila di alberi ad alto fusto, Duccio girò a destra in direzione di Count Street, alla ricerca dell’abitazione di Pamela Johnson. La ragazza, secondo i suoi appunti, era una trentenne che dopo le accuse di truffa ai danni del supermercato di cui fu fatta oggetto da Françoise, non era più riuscita a trovare lavoro ed era tornata a vivere coni suoi genitori. Duccio parcheggiò di fronte all’abitazione a due piani e rimase seduto in auto una decina di minuti per mettere a punto una linea di condotta da seguire per fare le domande giusti ed evitare che la ragazza si chiudesse a riccio. A lui bastava sapere se quelle tre persone erano ancora così urtate da decidere di scagliarsi contro chi le aveva date in pasto all’opinione pubblica. E allora, i’cchè c’è di meglio che schierarsi dalla loro parte? Decise, mentalmente, di abbandonare le file degli alleati e intrufolarsi momentaneamente nelle trincee nemiche per capire che aria tirasse nelle fila avversarie. Venne ad aprire una donna anziana. Era molto grossa e vestiva con un paio di pantaloni informi ed una maglietta da uomo così ampia che lui avrebbe potuto starci dentro due volte. “Buon giorno, cerco Pamela Johnson.” La donna lo squadrò e non si perse in convenevoli. “Sei un giornalista?” “Sì. Diciamo che sono un giornalista dalla parte dei cittadini. Mi sto occupando di alcuni casi in cui l’opinione pubblica ha ingiustamente creato un nemico comune. Ho studiato il caso di Pamela Johnson e ritengo che lei appartenga alla categoria di chi ha pagato il conto per tutti.”
“Noto con piacere che qualcuno di voi usa il cevello. Non siete tutti come quella là.” “Fortunatamente no.” Duccio si appuntò mentalmente di portare la sua amica fuori a cena per farsi perdonare quel momentaneo ammutinamento. “Posso entrare?” “Mia figlia sta dormendo, non vorrei che si svegliasse.” Erano le dieci del mattino. “Allora non insisto, tornerò a parlare con lei in un altro momento. Nel frattempo posso fare delle domande a lei, per capire come stia sua figlia?” “Mia figlia, a dispetto di quello che le è successo, ha trovato la forza di reagire e di fare anche un suo personale cammino. Sfortunatamente non ha ancora trovato un lavoro, ma riempie le sue giornate andando a fare volontariato per portare cibo e coperte ai barboni.” Parlarono ancora alcuni minuti, dopo i quali Duccio risalì in auto convinto che dovesse andare a cercare altrove.
Carl Wigles abitava in una struttura a due piani, attorno ai quali correva un ballatoio esterno su cui davano le porte delle abitazioni. Duccio cercò l’appartamento 16P e si fermò. Da fuori si sentiva urlare ma, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettato in casa di un secondino accusato di maltrattamenti, a gridare era la donna. Anzi: la moglie, per l’esattezza. Duccio sapeva riconoscere quando a gridare è una donna che ti si è legata alle costole con un vincolo indissolubile. Lo accusava di non essere mai a casa, di non occuparsi dei figli e via dicendo. Duccio suonò e un uomo, che con la propria mole riempiva tutto il vano della porta, lo guardò con un’aria da cane bastonato. “Posso esserle utile?” Di fronte a quella domanda formulata con estrema deferenza, nonostante l’umore dell’uomo non dovesse essere proprio dei migliori, e ripensando a ciò che di lui aveva scritto Françoise, Duccio ritirò il suo invito a cena per l’amica.
Il mastino in gonnella che stava alle spalle dell’uomo lo spinse da parte in malo modo e affrontò il nuovo venuto con un cipiglio da vera combattente. “Che cosa vuole?” Duccio ripartì con la stessa tiritera raccontata poco prima alla madre di Pamela e, curiosamente, la donna si calmò. “Mio marito era innocente. Anzi, per esattezza, qualche volta ha alzato le mani ma è stato sempre per difendersi sia dai detenuti che dai colleghi. Essendo grande, grosso e stupido, si è fatto accusare anche se non farebbe mai del male ad una mosca.” La donna sbuffava in un modo così evidente che, se fosse stata il classico toro delle vignette, le avrebbero disegnato il fumo fuoriuscente dalle narici. “Odio con tutto Françoise Angles. Duccio si chiese se veramente ce l’avesse con la giornalista o se quell’astio fosse dovuto più al fatto che volesse lei l’esclusiva sui maltrattamenti per suo marito. Nei minuti che seguirono apprese che Carl e la sua famiglia erano in visita presso dei parenti, nel periodo del primo attentato, quello dell’avvelenamento e allora Duccio incassò un altro ‘nulla di fatto’ e se ne andò. Rebecca abitava fuori Montreal da quando era finita sui giornali per via delle accuse di maltrattamenti su minori. Mentre il nostro commissario percorreva le miglia che lo separavano da quella donna, ebbe modo di osservare il paesaggio che il Canada offriva a ottobre. Il ‘foliage’ era un spettacolo della natura più unico che raro e prendeva il nome dalla colorazione della foglie che in Canada, ad autunno, raggiunge la massima estensione di colori e sfumature. Una tavolozza naturale da togliere il fiato e ridarlo con moderazione.
Rebecca Standson era, dei tre papabili attentatori, quella che lo urtava maggiormente. Il pensiero di lei che mordeva un bambino di un anno lo fece nauseare, ma si fece forza e decise, per il bene di Françoise, di fingersi nuovamente paladino di una presunta ingiustizia nei suoi confronti. Duccio si chiese se, almeno quella volta, sarebbe riuscito a raggiungere il divano di un’abitazione canadese, ma dovette arrendersi all’idea che quell’indagine l’avrebbe svolta tutta rimanendo sugli zerbini. Ripensò alle riflessioni fatte poco prima sul cattivo temperamento degli italiani che li porta ad essere litigiosi coi propri vicini. Ma, almeno ai nuovi venuti, un divano e un caffè l’offrono sempre. La donna, nella fattispecie, non gli aprì neanche la porta di casa e ritenne più che sufficiente, per tutto il periodo della loro conversazione, allungare la testa al di fuori della finestra semi aperta del piano superiore. Aveva i capelli grigi tenuti fermi coi bigodini e mentre parlava con lui sputacchiava, facendo cadere dall’alto delle particelle di saliva, motivo per cui, non essendo munito di ombrello, Duccio si dovette allontanare di qualche passo.
Era furiosa con Françoise e, parlandoci per una manciata di minuti, Duccio realizzò che la donna avrebbe avuto l’occasione, il movente e la carica per poter essere l’attentatrice alla vita della sua amica. Il nostro finto cronista avrebbe dovuto essere contento; e invece se ne andò in preda ad una forte delusione. Se io fossi in lei, con la rabbia che ho dentro, una volta decisa a vendicarmi, non lascerei passare dei mesi tra un tentativo e l’altro. Qualcosa gli suggeriva che non era Rebecca la persona che stava cercando; e poi c’erano quei quattro mesi tra la volta in cui Françoise era stata investita e quella in cui era stata spinta addosso alla metropolitana, che lo lasciavano molto perplesso. Se una persona è rosa da un desiderio di vendetta, o lo porta a termine o non si dà pace finché non ci riesce. Chi lascia passare quattro mesi tra un tentativo e un altro, standosene buono buono? Chi non può fare altrimenti. Ossia? Chi è costretto,perché è in carcere. Duccio si dette del bischero in tutte le lingue che conosceva e chiamò la redazione. “Ciao Françoise, puoi passarmi Jim per cortesia?” “Non puoi parlare con me?” “Levati di torno, bambola. Ho bisogno di uno più obiettivo e meno coinvolto.” “Sei discretamente fetente, quando ti ci metti.” “Sì e me ne vanto anche. Passamelo.” Per un attimo Duccio temette che l’amica chiudesse la telefonata e invece, dopo una breve e misera attesa musicale, Jim rispose. “Ciao. Come posso aiutarti?” “Posso chiederti la gentilezza di fare del lavoro di archivio?” “Un po’ di gavetta non fa mai male.” “Allora cerca nei vostri archivi, tra i casi di cui si è occupata Françoise, qualcuno che è stato in carcere fino a febbraio e che poi ci è tornato nel periodo tra giugno e ottobre.”
“È una buona idea. Siamo stati stupidi a non pensarci prima. In quei mesi Françoise non ha subito attentati.” “Bravo, io sto andando a fare una mia indagine personale. Ti raggiungo dopo, sperando di portare nuovi sviluppi.” Dopo un paio d’ore Duccio varcò la soglia della redazione e si diresse direttamente alla scrivania del cronista che stava momentaneamente collaborando con lui. La sua amica era fuori sede e la cosa gli tornò comoda. “Amico, sono ancora in alto mare. Mi ci vorrà un bel po’.” “Cerca un certo Samuel Finnegan. So che Françoise ha scritto qualcosa su di lui, per via di alcune sue vicende personali. Controlla se i periodi in cui è stato in carcere corrispondono.” “Sì, mi ricordo il suo caso. Ma, che io sappia, non è in cattivi rapporti con Françoise. Lei lo aiutò trovandogli un posto di lavoro nella caffetteria qui accanto.” “Appunto. Quella in cui è stata avvelenata.” “Hai ragione. Non mi era venuto in mente quell’uomo, perché non ce lo vedo a volerla morta. Quando andiamo a mangiare un boccone in quel locale, non finisce mai di ringraziarla per il lavoro che gli ha trovato. Intendiamoci: non è un uomo integerrimo. Finì in carcere per molestie domestiche ai danni della moglie.” Il consueto prurito alle mani, puntuale conferma che l’istinto precede la ragione, cominciò a tormentarlo, come accadeva sempre tutte le volte che la verità si avvicinava e gli faceva un occhiolino. Chiese a Jim di verificare se l’uomo fosse davvero stato in carcere in quei periodi e, tentando un colpo di fortuna, gli chiese di verificare anche se, dopo ogni reclusione, avesse fatto un periodo in libertà vigilata come spesso accade in casi di reati come il suo che denotano una certa ripetitività. Quando il poliziotti rispose in modo affermativo, Duccio e Jim ritennero opportuno rivolgersi alla pubblica sicurezza per mettere il tutto nelle mani delle autorità, visto che il lavoro d’indagine si stava concludendo e rimaneva solo quello dell’applicazione della legge. Prima di fare ciò, aspettarono che Françoise rientrasse
in sede e fecero un giro nella periferia di Montreal, dove lei riconobbe l’auto che l’aveva investita parcheggiata in bella mostra fuori dalla casa di Samuel Finnegan. La centrale di polizia del loro distretto, Quartier Latin, sembrava una versione più moderna della sua centrale di Colle, con la differenza che l’agente preposto alla guardiola parlava l’inglese molto meglio del suo Nunzio Berti, ma era molto meno simpatico. Quando Françoise, Duccio e Jim si accomodarono nell’ufficio dell’ispettore Garrel, parlarono per un paio d’ore raccontandogli per filo e per segno tutto ciò che avevano scoperto. L’ispettore dette ordine di andare a prelevare l’uomo dal locale in cui stava lavorando, ma Françoise intervenne. “Oggi non c’era. Anzi, il proprietario era anche scocciato perché non ha nemmeno chiamato per avvertire che oggi non sarebbe andato a lavoro.” L’ispettore Garrel uscì come un fulmine dal suo ufficio e, dopo aver intimato ai tre presenti di attendere il suo ritorno, chiamò a raccolta un po’ di agenti e si precipitò a casa Finnegan.
L’uomo si era sparato da meno di un’ora, secondo la testimonianza del figlio e della moglie che, al momento in cui avveniva il fatto, si trovavano in un’altra stanza. L’ispettore rientrò in centrale tre ore dopo con il volto stravolto dalla rabbia di chi è arrivato troppo tardi. Quell’espressione campeggiava sulla faccia dell’italiano già da qualche ora. “È morto, vero?” “Sì, hanno simulato un suicidio, ma sarà facile smontare la messinscena. Voglio interrogare subito il ragazzo. Lei mi segua; so che fa parte dell’Interpol e, comunque, ha seguito le indagini sin dal principio.” Duccio lasciò la mano gelida di Françoise, che teneva stretta tra le sue da quasi due ore, e lo seguì verso la saletta degli interrogatori. Il figlio di Samuel Finnegan fu fatto accomodare e si rivolse all’ispettore. “Che cosa volete da me? Se mio padre si è ucciso non è colpa mia.” “Questo lo verificheremo tra poco.”
Garrel stava per perdere la pazienza ma tanti anni di servizio alle spalle lo trattennero dal sollevare quel ragazzo di peso e scaraventarlo contro il muro. “Come saprai, giovanotto, Françoise Angles è la giornalista che ha scritto degli articoli di cronaca sulle vicende di violenza che hanno riguardato la tua famiglia.” “So bene chi sia. Non me lo deve spiegare lei.” “Di recente è stata vittima di una serie di attentati alla sua vita.” “E io che cosa c’entro?” “Il primo è stato un avvelenamento da curaro, avvenuto nella caffetteria dove lavora tuo padre.” “Con quello che lei ha scritto su di lui, la cosa non mi sorprenderebbe. Non vorrà dirmi che si è appena suicidato, mosso dai sensi di colpa per aver fatto del male a quella donna?” “È troppo presto per fare qualsiasi deduzione, ragazzo. Ma, personalmente, non ritengo che tuo padre fosse così sensibile. Continuiamo con le domande: in casa vostra tenete del curaro?” “Non lo so. Perché me lo chiedete?” “È una sostanza che si usa nell’industria chimica nei veleni per topi. Ma usato in dose minima, allo stato puro, può essere letale anche per un uomo. Il proprietario del locale ci ha confermato che il giorno che Françoise è stata avvelenata, tua madre è andata a trovare tuo padre sul lavoro. Se lo ricorda perché è stata seduta a un tavolo per molto tempo.” Che cosa c’entra mia madre?” “Io comincio a farti notare che al momento del primo attentato lei era presente. Ora ti dimostrerò che, sia tu che lei, lo eravate anche per l’ultimo, dove tu hai cercato di fermarla mentre cercava di spingere la donna sotto la metropolitana.” Il ragazzo si fece silenzioso, in bilico tra dire la verità e portare avanti quella pagliacciata, decise infine per la prima grazie alle parole dell’ispettore. “Davvero vuoi finire in carcere per il resto dei tuoi giorni per coprire tua madre? Stiamo già visionando tutti i video che riprendono il punto in cui Françoise Angles è
stata spinta contro il convoglio. Non appena avremo i fotogrammi tra le mani constateremo che tua madre ha cercato di spingerla sui binari, poco prima che il convoglio arrivasse; tu l’hai fermata appena in tempo ma lei, appena si è liberata della tua stretta, l’ha spinta comunque. Questo fatto possiamo documentarlo e non sarà per questo che rischi l’ergastolo. Quello che mi preoccupa è dimostrare che non sei stato tu a sparargli.”
Il ragazzo confessò di aver acquistato l’arma, ma l’esecutrice dell’omicidio era stata sua madre. La donna aveva cominciato a pianificare quella vendetta molto tempo prima, attendendo tutti quei mesi tra un attentato e l’altro, perché voleva che coincidessero ai periodi in cui suo marito era libero e non in carcere. Non desiderava che lui morisse; voleva solo sbarazzarsene facendolo condannare all’ergastolo per l’uccisione della giornalista che, secondo lei, lo aveva rovinato. La donna non sapeva che i due fossero in buoni rapporti, e questo è stato il suo primo errore. Il secondo lo ha commesso ideando l’attentato della metropolitana. Il marito e Françoise, lavoravano vicino e la sera prendevano la metro alla stessa fermata. La moglie di Samuel, però non sapeva che nel momento in cui lei stessa spingeva la poveretta, suo marito non si trovava lì in zona pronto a farsi accusare; ma era presso gli uffici di giustizia a firmare il registro giornaliero della libertà vigilata.
“Perché l’ha ucciso? Ancora poche ore e gli avremmo salvatola vita.” Françoise e Jim erano seduti davanti a lui al tavolino dell’aeroporto da cui Duccio stava per ripartire alla volta dell’Italia. “I’ primo giorno che so’ arrivato, quando sei tornata co’ caffè, tu m’ha detto d’aver raccontato a’ i’ tu’ amico Samuel che qualcuno stava cominciando ad indagare nella faccenda dei tu’ attentati. Lui deve averlo detto in casa e a quel punto la moglie s’è sentita messa alle strette. Ha perso la testa, ideando il suicidio nel tentativo di far credere che lo avesse fatto per rimorso nei tuoi confronti.”
“Come faceva ad essere sicura che prima o poi la polizia sarebbe risalita a lui, come ideatore dei miei attentati? “Se non fosse bastato lasciare la macchina da cui sei stata investita, parcheggiata in bella mostra fuori da casa loro, ci avrebbe pensato lei a dire che lui le aveva confessato le sue malefatte.” “Mi dispiace per Samuel. Era contento del suo lavoro, diceva che lo avrebbe reso un uomo nuovo. Lui si meritava un’altra possibilità.” Lo sguardo che si scambiarono Duccio e Jim la disse lunga sul fatto che Françoise fosse ancora lontana dal capire che tutti se ne meritano una. Duccio la guardò. “Promettimi che sarei più accorta in futuro.” “Non sarà facile, Duccio. In questo gioco o sei dentro o sei fuori. È difficile trovare il modo di barcamenarsi senza inabissarsi, o senza far affondare gli altri.” “Sarò un illuso, cara, ma non credo che il giornalismo sia una fantomatica battaglia navale in cui o vinco io, o vinci tu. Tu sei una giornalista di razza, sei raffinata. Troverai il modo di trasformare questa battaglia navale in una regata che, detto tra noi, ti darà meno soddisfazione. Anzi, forse solo una: quella che ti porterà lontano.”
L'archeologia porta alla luce la storia dei nostri antenati, ma alle volte ci fa delle sorprese. Lo scavo Arita Cast