Un colpevole perso

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UN COLPEVOLE PERSO

Mariella ed Elena erano sedute al tavolo del Cafè del Corso. Il sole autunnale, tiepido ma accecante, le avvolgeva e riempiva quel loro momento di un’aurea di serenità. Non si vedevano da molti mesi e, come ogni volta, avevano molto da raccontarsi: il lavoro e i colleghi, i figli e la loro scuola, e soprattutto i mariti con i loro impegni dagli orari impossibili, le assenze inevitabili e i loro umori che seguivano l’andirivieni dei loro affari, salivano e scendevano come euforiche o malinconiche metafore dei loro grafici sui guadagni. Gino pensò che erano belle, pur avendo raggiunto oramai la femminilità pacata delle donne di mezz’età. Una di loro vestiva dei costosi pantaloni con il risvolto, volutamente un po’ corti per mettere i risalto le caviglie ancora sottili che emergevano dai mocassini, mentre l’altra indossava con un completo composto da giacca e gonna, che avevano indubbiamente visto tempi migliori. Da buon conoscitore della società fiorentina, Gino non faticò a intuire che il motivo per cui non si vedessero da mesi era dovuto al fatto che frequentassero ambienti diversi. Da quel che si capiva da quel dialogo era evidente che quelle due donne fossero amiche sin dall’infanzia. Si frequentavano poco da quando si erano sposate con due uomini che le avevano condotte a due livelli di vita che le avevano inevitabilmente divise. Dopo un paio d’ore che parlavano stavano esaurendo gli argomenti e Gino sapeva, per esperienza sul campo, che da lì a poco si sarebbero salutate riprendendo ognuna la propria giornata. Seduto vicino a Palazzo Orni, aveva visto tanti incontri e confidenze da poterci scrivere un libro. Prima o poi lo avrebbe fatto davvero: ‘Confidenze fiorentine’. Quel libro sarebbe stato un assaggio di tutto ciò che aveva ascoltato per tutti quei mesi; ma lo avrebbe composto senza riportare dei nomi, solo luoghi e tempi. Secondo lui sarebbe diventato un bestseller che gli avrebbe permesso di chiudere quella parentesi della sua vita e riprendere tutto da dove lo aveva lasciato. Ma ne sarebbe valsa la pena? Per andare incontro a che cosa? Alla galera? Meglio la libertà, anche se il costo era così salato. Gino alzò lo sguardo per occhieggiare la vita degli altri per l’ennesima volta. Mariella, ancora abbracciata con Elena, le lasciò un bacio sui capelli e l’amica, nello sciogliersi di quell’abbraccio, trovò lo spazio per accarezzarle una guancia. Si guardarono un attimo negli occhi e le loro distanze sociali si dileguarono come fanno timidamente gli inopportuni, quando capiscono che non è il luogo, il momento o tutti e due. 2


Prima di allontanarsi una accanto all’altra si avvicinarono ad un barbone seduto sopra i giornali e gli lanciarono delle monetine. Gino sorrise: “Grazie”. “Sauro, domenica tu ha’ giocato da cani.” “Guarda che ‘un mi sembra che t’abbia fatto di molto meglio: la palla che t’ha passato i’ Rosso ‘un tu l’ha nemmeno sfiorata.” “L’era troppo alta.” “’Un tu sa’ gioca’. Tu se’ ‘na sega.” Cinque ragazzi stavano commentando senza troppi complimenti le loro acrobazie calcistiche. Erano seduti su una panchina fuori dalla stazione di Santa Maria Novella, e si accusavano a vicenda di non essere stati all’altezza del loro ruolo e degli avversari. Ma poi il discorso sterzò bruscamente verso un’altra direzione. “Quando tu torni a casa dopo la partita, tu riesci a piglia’ i’ sonno la notte?” “Alle volte no. Prima o poi i miei principieranno a capi’ che l’è sempre dopo ‘na partita che fo’ ‘na notte in bianco. Ancora ‘un hanno collegato le du’ cose, ma son certo che tra un po’ c’arrivo.” “E allora i’cchè succederà?” “’Un mi faranno gioca’ più.” Quello che prima era stato chiamato Sauro intervenne : “I miei lo sanno di già ma mi mandano lo stesso. Dicono che quando smetterò di gioca’, chiuderò co’ i’ doping e tutto tornerà come prima.” “Beato te. Io ‘un ho avuto i’ coraggio di dirlo in casa. Si scatenerebbe un putiferio.” Gino li osservava con un occhio semichiuso ed uno semiaperto. Altre informazioni che potre’ scrivere ne’ i’ mi’ libro. In questo caso potrei anche fare de’ i’ bene. Se io fossi ne’ loro’ genitori, vorrei sape’ se i’ mi’ figliolo piglia degli ‘aiutini’ per rendere meglio su’ i’ campo.” Quei ragazzotti si alzarono e s’incamminarono con il passo lemme di chi non sa bene come riempire le proprie giornate in attesa di diventare un calciatore famoso. Prima di allontanarsi, però, si voltarono a salutare un ubriacone sdraiato su una panchina lì vicino. “Ciao Gino. Che, ‘un t’è ancora venuta a noia la vita di emme che tu fai?” “Parimenti a vo’ altri.” Quel mercoledì sera si prospettava freddo. Gino andò nel vicolo dove una signora gentile gli lasciava sempre una coperta pronta che sapeva di bucato, di buono, di famiglia, di qualcuno che ti aspetta a casa o che si aspetta di vederti tornare, a casa. Non come aveva fatto lui. Quella sera di fine ottobre non c’era una nuvola e la luna magnificava tutto con la sua polvere di stelle e argento. Meritava andare a dormire sul lungo Arno, per vedere ancora una volta come le luci del Ponte Vecchio sapessero riflettersi facendo di un corso d’acqua scura, uno scrigno di gioielli. 3


Gino volle scavalcare l’argine del fiume in un punto in cui, prima di arrivare all’acqua, una piccola discesa erbosa faceva sentire timidamente il suo profumo. Era inquieto e, dopo dieci minuti, decise di fare una piccola passeggiata. Alzò gli occhi e poté vedere nuovamente la strada dove, poco sopra di lui, non era l’acqua a scorrere, ma la vita. E li vide. Riconobbe, per prima cosa, quegli stupidissimi scoiattoli con gli occhi storti che stavano immobili da trent’anni sullo stesso sfondo beige e che non aveva più visto dal momento in cui gli erano stati regalati da sua moglie. Erano la decorazione di un orrendo maglione fatto dalle sue manine, che lei gli regalò quando avevano solo vent’anni. Era la sua prima ragazza e a Natale lei gli dedicò quel suo brutto ma amorevole regalo; e Gino, nonostante che le cose tra lui e sua moglie non fossero poi andate come sperava, di quel regalo aveva sempre un bel ricordo. La cosa che lo colpì era che quel maglione, rimasto incastonato come un diamante nella sua vecchia vita, era addosso ad un uomo che gliel’aveva rovinata. Parvi Primo Modesto: quel nome era una sequenza che, meno indicata, non avrebbe potuto essere considerata la persona che lo portava. Quel brigante indossava il suo vecchio maglione e camminava accanto ad un altro uomo, lungo il marciapiede che correva più in alto rispetto a dove si trovava lui. Per raggiungerlo avrebbe dovuto scavalcare l’argine ma decise di non farlo e risalì il piccolo pendio erboso fino al muretto, rimanendo indietro di qualche passo e più in basso rispetto a loro, per avere la possibilità di ascoltarli senza farsi vedere. Gino non sapeva perché si stesse comportando in quel modo sgarbato e di cattivo gusto, visto che di per sé non gli interessava sapere che cosa si sarebbero detti quei due per il resto della loro camminata. Per l’ora che seguì ebbe modo di cominciare a ragionare su quel dettaglio e non farlo scappare via. Il suo cervello cominciò a lavorare vorticosamente e arrivò all’amara ma logica conclusione che, se sua moglie aveva passato a Primo quel maglione che per lei era sacro, rivelava che i due avessero una certa confidenza. I ricordi, che da quasi un anno cercava di tenere lontani, cominciarono inevitabilmente e riaffiorare nella sua mente e il dolore si fece acuto. Gli ultimi anni della sua prima vita, come lui la chiamava, viveva in una bella casa, proprietario di una aziendina che produceva capi di vestiario in jeans e che aveva i suoi profitti di tutto rispetto. In quel momento, vestito da barbone, sporco e affamato, Gino ripensò a sua moglie Adele e, tutto sommato, ne ebbe un ricordo un po’ meno acido del solito. Con lei era stato sempre più difficile andare d’accordo e trovare dei punti d’incontro tra i loro caratteri e i loro desideri. La passione era venuta a mancare già da molto tempo, prima che lui sparisse, e anche il fatto che non avessero dei figli aveva creato un ulteriore vuoto che certo non li aveva aiutati ad essere una coppia appagata.

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Questa questione dei figli aveva inizialmente guastato il clima, ma solo per poco tempo. Dopo qualche muso lungo in breve tempo arrivarono alla saggia conclusione che la vita fosse stata, comunque, molto generosa con loro. E tutto questo, a prescindere dalla ricchezza che avevano saputo raggiungere assieme. La vita era stata munifica e loro la celebravano dedicando ogni sforzo alla loro ditta, per la quale ognuno dei due metteva a frutto le proprie capacità: lei era una sartina con uno spiccato intuito per capire e anticipare la moda. Creava dei tagli che si distinguevano e sì imponevano in tutto il mondo. Lui invece aveva un tocco magico per i contatti e le trattative. I clienti, anche i più difficili, nelle sue abili mani diventavano teneri come agnellini da condurre al pascolo sotto le sue sapienti direttive. Purtroppo nessuno dei due era un genio della contabilità e da lì nacque la necessità di affidare molta parte della gestione amministrativa al fido Primo Modesto Parvi, che fu assunto come contabile quando loro avevano poco più che un laboratorio con un negozietto annesso e che adesso girava con addosso il suo maglione, padrone della sua vita e di molto altro, probabilmente. Lui era stato l’amministratore societario, colui che controllava i conti societari. Nella tragedia l’attore principale fu Sandri, il capo contabile della ditta. Infatti, quando emerse che la società non pagava le tasse ormai da un anno e la finanza stava mettendo tutto sotto sequestro, in quei giorni Sandri fu ucciso da una fucilata. La polizia brancolava nel buio ma, come nel più classico di copioni, si convinse che l’assassino fosse stato proprio lui: Gino Sermani. Aveva l’occasione, considerato che quel giorno Sandri era suo ospite e si erano visti proprio per discutere dei problemi aziendali, e il movente: omicidio per vendetta. Sì, perché tutto faceva credere che il capo contabile si fosse appropriato dei soldi con cui avrebbe dovuto compiere i doveri fiscali per conto dell’azienda, causandone la bancarotta. Lui era sempre stato convinto che le cose fossero andate in quel modo ma adesso quello stupido maglione con una fila di scoiattoli strabici, rimetteva tutto in discussione. Durante tutti quei mesi all’addiaccio Gino si era chiesto, come avesse fatto Primo Parvi a non accorgersi di quello che Sandri stesse combinando e forse la risposta stava lì sotto i suoi occhi. Erano tutti d’accordo: lui, Sandri e sua moglie Adele. Il suo vecchio capo di vestiario, addosso al Parvi sottolineava la promiscuità tra Parvi e sua moglie. E tutto ciò faceva sorgere il ragionevole dubbio che il capo contabile Sandri fosse stato solo una pedina e che i due avessero orchestrato il tutto per poi intascarsi quel milione e mezzo di euro con cui avrebbero dovuto onorare i doveri fiscali della ditta. Gino guardò verso il basso e lo sguardo si fermò sulla fila di bottoni bianchi della camicia di lana a quadrettini che la Caritas gli aveva regalato. Lui faceva il barbone e avrebbe dovuto continuare a nascondersi tutta la vita per un omicidio mai commesso. Gli sembrava ancora impossibile che i responsabili di quella morte, considerata la scoperta di quella notte, potevano essere stati quei due. 5


Era vero che con la sua Adele le cose non andavano bene, ma non se la immaginava ad architettare di farlo affondare appioppandogli anche un omicidio. Ma forse stava correndo troppo; e allora decise di camminare. Lo fece fino a casa sua, visto che ancora si poteva definire tale, e verificare se davvero i due dessero per certo che lui fosse scomparso definitivamente e che non avrebbe fatto più ritorno a casa, dando loro il disturbo di doversi giustificare. Camminò quasi tre ore per raggiungere la villa che lui e Adele comprarono vent’anni prima, quando le cose andavano bene e il loro amore scricchiolava un po’ creando delle micro rotture su tutto ciò che avevano costruito. Nessuno si sarebbe immaginato che quelle piccole crepe sarebbero diventate spaccature profonde fino alle fondamenta. Infatti: perché ciò avvenga nella realtà, non ci dovrebbe essere un terremoto? Anche se Modesto? Oramai Gino si era convinto che fosse stato proprio lui a dare uno scrollone a tutta l’impalcatura. Per la prima volta passava a piedi tra quelle viuzze che un tempo percorreva solo in macchina, sempre di corsa, e a orari impossibili: quando il buio aveva già uniformato tutti i colori e l’aria fresca della notte aveva cancellato gli odori del giorno. Quante cose aveva perso, incurante di quanto la vita valesse la pena assaporarla anche per ciò che non ti puoi permettere. Come stava avvenendo in quello stesso momento: vestito di stracci e senza soldi, stava in piedi di fronte alla vetrina di un pizzicagnolo e riusciva a apprezzare gli odori del cibo genuino e del pane fresco che lo raggiungevano nonostante il negozio fosse chiuso per via dell’ora tarda. Quando i soldi li aveva per comprarsi tutta la bottega, non aveva tempo per quegli odori. Chissà se i nuovi sviluppi, legati e intrecciati a quel vecchio maglione, sarebbero stati forieri di giustizia e di una possibilità di riscatto; o se si stava aggrappando ad un filo di lana e basta. Vestito così, con la bara lunga e sporco oltre ogni dire, nessuno lo riconobbe e arrivò indisturbato fino al cancello d’ingresso della sua villa. In fondo era ancora sua, considerato che lui non era morto ma solo scomparso da qualche mese. Sulla targhetta del citofono compariva solo lei, ma Gino non si dette per vinto. Si sedette in un angolo, dove la recinzione del suo giardino faceva una piccola rientranza che la telecamera di sorveglianza non raggiungeva. Primo Modesto era sicuramente tornato a casa da molto, considerato che lui ci aveva impiegato tre ore, e allora decise di sedersi in quella piccola nicchia ed attendere di vederlo uscire la mattina successiva. Voleva vedere con i suoi stessi occhi che fossero davvero diventati una coppia. Se le cose fossero realmente state così, qualcosa poteva non essere andato come si era voluto far credere. Dopo una notte all’addiaccio, il vecchio orologio di Gino segnava le sette quando venne svegliato dall’arrivo di Mercedes, la loro domestica messicana che, oltrepassò il cancelletto pedonale e si avviò lungo il sentiero che conduceva alla villa. Verso le nove Gino sentì il ronzio del motore del cancello elettrico che si metteva in azione per far uscire qualcuno in auto. Beh. È invecchiata, non c’è che dire! 6


Adele uscì a bordo di una piccola auto. Era imbronciata come al solito e tutta assorta nei suoi pensieri. Un paio di ore dopo, Gino stava quasi per rinunciare a veder uscire il suo rivale, quando finalmente all’alba delle undici il Sig. Primo Modesto Parvi fece la sua uscita in pompa magna a bordo di una elegante due posti, dopo aver aperto il cancello automatico con un telecomando che teneva in tasca. Questo bastò per convincere Gino che le cose stavano proprio come le aveva immaginate lui la sera prima. Stranamente, il vedere quella scenetta di vita quotidiana della coppia, non lo rattristò e neanche lo fece arrabbiare. Per la prima volta, dopo dieci mesi vissuti al buio, stava per uscire dal cono d’ombra i cui la sua esistenza era scivolata. Se lo sentiva nelle ossa; lo stesso spirito che aveva fatto di lui, figlio di un robivecchi, un imprenditore di successo, glielo urlava a gran voce. Duccio uscì nel terrazzo che dava sul mare. La sua casa era molto più in alto rispetto alla spiaggia e la visuale aveva solo da guadagnarci. La tazzina del caffé, ormai vuota, era ancora calda nelle sue mani e la cuccuma che lo aspettava in cucina lo invitava a tornare da lei per versarsi ancora un po’ del suo liquido nero corroborante. “Ciao Duccio. Come tu stai?” Per la sorpresa, mancò poco che la chicca di ceramica non gli scivolò dalle dita. A venti metri da lui, un barbone era comodamente seduto in un angolo del suo terrazzo, con la schiena appoggiata alla balaustra e l’aria di aver trascorso la notte proprio lì, nel giardino di casa sua. Non gli sembrò un soggetto pericoloso e allora gli si avvicinò senza troppi indugi. ”Come tu fa’ sape’ che la mi chiamo Duccio? Tu l’ha letto su’ i’ citofono?” Lo straccione fece un mezzo sorriso e rimase a fissarlo con due occhietti vispi e affondati nelle occhiaie e nello sporco. “Pe’ esse’ un poliziotto, ‘un tu se’ fisionomista pe’ nulla.” Quell’uomo fece una pausa e, pazientemente, attendeva che lui lo riconoscesse. Come si fa a distinguere un barbone da un altro? Quando la strada se li prende, li accorpa in un look unico, fatto di vestiti sporchi e scapigliature, che li rende come un esercito senza mèta e senza condottiero. “Zio Dario, sei tu?” Duccio pensò all’unica persona familiare di cui non si avevano notizie da tempo, ma a quella domanda seguì un silenzio accompagnato da un mezzo ghigno. “No? Forse i’ mi’ zio l’è più giovane.” “No. I’ tu’ zio l’è più vecchio di me di quindic’anni.” “La tu’ voce mi ricorda qualcheduno. Un tu sarà mica i’ babbo della Cettina?” “No, ‘un so’ io sta’ tranquillo. Perché? Che’ ce l’ha ancora con te per quella faccenda della su’ figliola?” “Che tu scherzi? Fu ‘na storiella da nulla e manca poco la dovetti sposa’.” 7


Mentre parlava Duccio cercava di capire chi fosse e guardando i suoi occhi gli vennero in mente i jeans che aveva nell’armadio. Ed era strano perché non erano neanche blu. “Gino!” “Alleluia.” “Alleluia, sì. Mi c’é voluto un miracolo pe’ capi’ chi ci fosse sotto codesto zuzzume.” Duccio gli si avvicinò e gli allungò una mano. L’uomo la prese convinto che l’amico volesse solo stringergliela per salutarlo, ma rimase sorpreso quando si sentì tirare il braccio e grazie a quel movimento fu rimesso in piedi. Ripensando a quello che aveva scoperto la sera prima e ai possibili sviluppi, dentro di sé si augurò che quello fosse un esempio fisico di ciò che Duccio sarebbe riuscito a fare anche nella sua esistenza da straccione. Insomma, si augurò che lo rimettesse in piedi in tutti i sensi. Per Duccio la felicità di rivederlo fu tale che, quando l’amico fu in piedi davanti a lui, mosso da un impeto irrazionale lo abbracciò. Non provò il disgusto che si sarebbe immaginato abbracciando un barbone e questa cosa lo sorprese, perché sapeva di essere parecchio schifiltoso. “L’era caffè, quello che tu c’avevi nella tazzina?” “Sì, entra che lo verso.” Mentre gustava il suo caffè, Gino guardava l’amico e, senza troppi indugi, si mise a parlare. “Son qui perché so’ stufo di questa vita, ma ‘un volevo andà alla polizia. Loro mi metterebbero in gattabuia prima ancora di senti’ ‘icchè c’ho da racconta’.” “Gino, son’io la polizia, ma ti ascolto comunque. Lo avrebbe fatto anche i’ commissario Sigliani.” “E chi l’è codesto?” “L’è quello che l’ha preso i’ posto d’Alberico Di Donato, il commissario che s’è occupato delle indagini su i’ tu caso e che ora l’è in pensione.” “Io ‘un l’ho ucciso, Duccio.” “Conoscendoti, posso ben crederlo. Ma ‘un è scappando che tu risolvi le cose.” “Ospitami qui qualche giorno. Ho qualcosa da raccontarti che potrebbe convincere anche i tu’ colleghi che ‘un centro nulla con la morte de’ i’ Sandri.” “Tu mi devi promette’ che ‘un tu scappi di nòvo. Guarda che io ‘un so’ Sigliani. Io ti ribecco e poi son dolori.” Gino accettò di buon grado l’ospitalità di Duccio: la doccia, la camera in cui dormire e i vestiti nuovi che Aida si offrì di andare a compragli. “Senta, Aida. Per favore che mi compra un paio di jeans di quelli che produce la mi’ moglie? Voglio vedè i’cchè combina da che ‘un ci so’ io.” Quando Aida uscì per fare gli acquisti del caso, Duccio e Gino, lavato, sbarbato e con addosso un accappatoio prestato dall’amico, che gli arrivava alle caviglie per via della differenza di statura, si sedettero in terrazza a parlare. 8


Erano le otto di venerdì mattina e Duccio aveva ancora un’oretta da dedicargli prima di dirigersi in commissariato. “Dimmi ‘icchè posso fa’ per te.” “ ‘Icchè tu sa’ de’ i’ mi’ caso?” “So’ tutto.” “No, ‘un tu sa’ nulla.” Anch’io pensavo di sape’ ogni cosa e invece un era vero.” “Comincia da’ i’ principio.” “Oltre alla consapevolezza di ‘un esse’ stato io a uccidere quell’uomo, c’è qualcosa che può far dubitare anche voaltri della polizia che le cose siano andate come s’è voluto fa’ créde.” “Quale sarebbe la novità?” “Ho ritrovato i’ mi’ vecchio maglione.” Nel silenzio che seguì Duccio sentì un brivido salirgli lungo la schiena e fermarsi alla nuca, cosa che gli capitava quando capiva di essere di fronte ad un pericolo. Non al genere di pericolo che si corre quando si ha di fronte un pazzo, ma a quello che si rischia quando si capisce che la verità è da cercarsi altrove rispetto a dove si pensava che fosse. Lo sguardo fermo di Gino lo convinse che, se mai follia c’era stata, si era concretizzata nel voler chiudere quel caso così in fretta. Lui stesso aveva dubitato fortemente dell’operato dei suoi colleghi ma dovette ammettere che le sue conclusioni a favore dell’amico, a suo tempo, si basarono solo sulla base della conoscenza dell’onestà di Gino, visto che non aveva potuto occuparsi lui stesso del caso. A quell’affermazione campata per aria, seguì un racconto di circa dieci minuti in cui l’amico gli confidò che cosa avesse visto due sere prima e la mattina successiva, fuori dal cancello di casa sua. “Tu capisci che, se c’è stata ‘na combutta tra la mi’ moglie e l’amministratore societario della mi’ azienda, le cose possono essere andate diversamente da come si pensa. Io, stupidamente, ‘un controllavo mai i conti, perché mi fidavo della mi’ moglie. Lei probabilmente era d’accordo co’ i’ Parvi, il quale demandava il lavoro sporco a’ i’ Sandri.” “Devo ristudiarmi i’ tu’ caso, Gino. Potrei anda’ a trova’ i’ Di Donato e chiedergli di pote’ revisiona’ i’ caso. Ovviamente gli dirò che lo sto facendo in nome della mi’ amicizia con la tu’ famiglia.” “ ‘Un penseranno che mi son rifatto vivo con te?” “ ‘Un credo. Più che altro, ‘un si aspettano che io mi presti a nasconde’ un fuggiasco. A scanso d’equivoci, ‘un rispondere a’ i’ telefono, ‘un aprire la porta a nessuno e se andasse via la corrente ‘un uscì a rimetterla.” “Perché?” “L’è un classico trucco che usiamo noi della polizia quando pensiamo che un sospettato cerchi di far credere che ‘un sia in casa. Gli abbassiamo l’interruttore del contatore e aspettiamo che esca a ripristinarlo.” “Vu’ siete de’ mascalzoni di nulla, anche voaltri della polizia.” “Facciamo de’ i’ nostro meglio, grazie.” 9


“Grazie te lo devi di’ io. Tu se’ un amico, Duccio.” “In questo momento so’ anche un delinquente.” Il giorno successivo era sabato 30 ottobre e Alberico di Donato lo attendeva a casa sua per pranzare e parlare insieme del caso Gino Sermani. Quando lo chiamò al telefono fu vago sulle motivazioni che lo avevano spinto a interessarsi al caso. Si era inventato sui due piedi di aver incontrato Adele Micheletti, rattristata per la scomparsa del marito e ancora determinata a cercarlo, per fargli risolvere le sue questioni con la giustizia. Ovviamente non era vero ma anche se lei ne fosse venuta a conoscenza, considerati i suoi sviluppi personali, si sarebbe guardata bene dal negare un simile desiderio; già se la intendeva con il suo vecchio amministratore societario, vuoi che almeno si desse da fare per cercare il bene del suo povero maritino? Infatti, dalle verifiche che lui aveva fatto il giorno prima, dopo aver incontrato Gino, lei aveva fatto denuncia di scomparsa quando il marito se n’era andato. Il fine di quella manovra poteva essere che lei attendesse i due anni che la legge impone per tramutare la scomparsa di una persona cara in una dichiarazione di assenza effettiva o di presunto decesso, per poi accaparrarsi tutti i beni che si erano salvati dal fallimento e procedere all’apertura del suo testamento. Per sua stessa ammissione, Gino non era mai stato in grado neanche di guardare un e.c. bancario o non e aveva avuto voglia, sottovalutando così la situazione e finendo tra le fauci di quel pescecane. Questo portava a convincersi che Primo Modesto Parvi e Adele Micheletti, se le cose stavano come lui cominciava a credere, non si erano limitati a sottrarre i soldi destinati al pagamento delle ultime cartelle esattoriali, cosa che aveva condotto la ditta alla bancarotta; ma bensì, quasi certamente, i due avevano cominciato a rubare i soldi dai conti correnti della società con la complicità del Sandri, molto prima che le cose si mettessero così male da condurre Gino al fallimento. Per quanto riguardasse l’uccisione di Salvatore Sandri, Duccio nutriva dei dubbi sul fatto che fossero stati proprio loro due i responsabili. Qualcosa gli diceva che la motivazione andasse cercata altrove. Ma, prima di farsi qualunque idea a riguardo, era meglio studiarsi tutti gli incartamenti relativi a quel caso che la polizia teneva nei suoi archivi. Alberico e sua moglie lo attendevano per pranzo e Duccio partì quasi due ore prima da Castiglioncello per raggiungerli, perché il suo ex collega, una volta andato in pensione si era trasferito in una zona vicina al centro a Firenze in cui non trovi un parcheggio neanche pregando direttamente in aramaico. Così. Tanto per essere sicuri di venir capiti bene. Lasciata la macchina in un angolino trovato libero proprio per grazia ricevuta, e a due chilometri dalla casa del suo amico, Duccio s’incamminò per una serie di viuzze attraversate dal solito traffico sonnolento di un sabato qualunque, verso mezzogiorno. Un’esposizione di quadri di un artista di strada catturò la sua attenzione e decise di acquistare un acquarello, scelto un po’ a caso tra quelli esposti, da donare ai suoi amici. 10


Quando arrivò da loro i due anziani lo ringraziarono per il dono e cominciarono a guardarlo rimanendo un po’ assorti, come fanno i critici quando cercano i significati intrinseci di un’opera. Anche Duccio guardò bene il soggetto per la prima volta e si dette del cretino. Aveva scelto un quadro in base ai colori e non si era accorto che il pittore aveva raffigurato un vecchio peschereccio abbandonato in secco sulla spiaggia e un vecchierello seduto sulle rocce che lo guardava sconsolato. Forse, come regalo ad un pensionato, avrei potuto farmi venire un’idea migliore. I due anziani lo ringraziarono ancora perplessi e cominciarono a mangiare. Duccio apprezzò il pasto luculliano e poi lasciò che l’ex commissario di uno dei più grandi distretti di Firenze lo conducesse nel suo studio. Sin da quando erano seduti a tavola, dal modo in cui l’amico si era interessato al vecchio caso, Duccio aveva avuto l’impressione che Alberico non considerasse per niente un disturbo il fatto di aiutarlo ma, semmai, questo nuovo diversivo alle sua giornate tutte uguali, era stato accolto come un’ancora di salvezza per fare in modo che il suo personale peschereccio si staccasse dalla spiaggia ancora una volta. Ad ogni modo, Duccio non era preparato a ciò che trovò sulla sua scrivania. Tutti i fascicoli del caso, le fotografie, i risultati di laboratorio e gli esiti delle rilevazioni tecniche da parte degli agenti contabili della polizia lo attendevano ben impilati e pronti per essere portati via. “Sai Duccio, ‘un so pe’ quale motivo tu voglia rimette’ mano a tutta questa faccenda, ma io mi fido di te e ti lascio porta’ via tutta questa documentazione pe’ qualche giorno. Sai bene che questo materiale ‘un dovrebbe neanche esse’ qui, infatti ho scomodato una mi’ conoscenza di un certo peso, raccontandogli che volevo ristudiarmi questo caso, visto che l’è rimasto insoluto.” “Grazie infinite, Alberico. Sai, Adele ‘un si da pace a i’ pensiero che i’ su’ marito possa essere il colpevole.” “A me basta che tu mi ridia tutto entro pochi giorni. Ciao, fa’ i’ bravo; o almeno provaci.” Duccio scese nuovamente in strada trascinandosi dietro un trolley prestato per l’occasione, pieno di tutto il prezioso materiale. Un vecchietto seduto fuori da un bar, vedendo la valigia che stava trascinando, lo apostrofò: “ ‘Icchè tu fai? Salpi per qualche destinazione?” “No. Ma spero di approdare a una soluzione.” “Tu sé’ grullo di nulla, figliolo.” Mentre tornava verso casa, Duccio chiamò Donato, un suo carissimo amico, nonché avvocato esperto in Diritto Fallimentare e gli chiese di raggiungerlo a casa sua per quella sera. Quando Gino vide arrivare Duccio con tutto il malloppo degli incartamenti inerenti il suo caso per poco non svenì. Duccio gli offrì un bicchierino di cognac e quando si fu ripreso cominciarono a guardare tutto il materiale.

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Dieci mesi di vita all’addiaccio non avevano certo giovato alla sua salute e il colore giallognolo della pelle, emerso dopo una bella doccia, non faceva ben sperare sulle condizioni del suo fegato. “Se mi riesce di riabilitarti, vedi di farti visita’ da un buon medico.” Seguì un silenzio che Duccio interruppe: “Promettimelo.” Gino prese in mano una delle foto di sua moglie dal fascicolo fotografico che aveva davanti: “Te lo prometto, Duccio. Anche se ‘un me ne frega più nulla. Vorrei solo che si sapesse che ‘un so’ un assassino.” Donato arrivò verso sera e Duccio gli affidò tutta la parte di quei documenti che riguardava la contabilità dell’azienda, ma che purtroppo risalivano addietro nel tempo di solo n paio d’anni. Duccio gli chiese di andare al tribunale di Firenze, per procurarsi i libri contabili che furono depositati dopo il fallimento. Voleva che l’amico verificasse se negli ultimi anni si fossero verificati degli ammanchi, camuffati al solito modo rimborsi per spese fittizie, fatture per ipotetici acquisti, insomma le solite cose che permettono di sgranocchiare, diluite nel tempo, delle autentiche fortune. Tutto ciò fino ad arrivare al botto finale. Il giorno successivo era domenica 31 ottobre. Duccio lasciò Gino a casa sua e si diresse in commissariato. Dedicò la mattinata a studiare tutto ciò che riguardava il caso, fatta eccezione per la parte contabile affidata a Donato. Salvatore Sandri morì una notte di dicembre, due settimane prima che la ditta fallisse. Era a Poggio Trauzzolo, dove Gino Sermani e la moglie lo avevano invitato a trascorrere un week end presso la loro tenuta, a cui partecipò anche Primo Modesto Parvi. Sandri uscì per fare una passeggiata e non tornò più. Fu ritrovato il giorno dopo, ucciso da una fucilata partita dal fucile di Gino Sermani. Da quello che si potè evincere dagli incartamenti, fu chiaro che nessuno dei cinque in quel momento sapeva che, da lì a pochi giorni, la ditta sarebbe fallita. Per essere precisi, secondo la tesi di Alberico Di Donato, lo sapeva solo Salvatore Sandri che, mesi prima, aveva prelevato dal conto dell’azienda la cifra necessaria per pagare le tasse, poi risultate inevase, versandola su un conto cifrato che fu poi scoperto dagli inquirenti. Chissà come sperava di cavarsela sto’ bischero. ‘Un gli era chiaro che prima o poi l’ avrebbero beccato? Dopo qualche altra ora, trascorsa con il naso ficcato dentro le scartoffie societarie, a Duccio parve però chiarissimo che tutta quella macchinazione non poteva essere solo farina del suo sacco. Primo Modesto Parvi, amministratore unico della società, non poteva non essere al corrente di quei mal versamenti. Altre conferme arrivarono nel pomeriggio da parte di Donato, che lo raggiunse per telefono: una delle società fornitrici di tessuto denim, in teoria usato per fare i jeans prodotti dalla ditta Sermani, era fittizia. Per precisione, era in testata ad un prestanome, successivamente finito in galera per altre questioni finanziarie. Duccio decise di andare a trovarlo nel carcere fiorentino di Sollicciano. Fu difficile convincerlo a collaborare, ma quando finalmente Duccio ci riuscì ebbe la 12


conferma che la finta società di cui il galeotto era intestatario, in realtà era gestita da Salvatore Sandri. Ecco che ricompare di nuovo il nostro amico. “Spiegami bene com’era il giro de’ i’ fumo.” “Il mio compito era quello di intestarmi le società, per conto delle quali poi emettevamo delle finte fatture per del materiale: tessuti, cerniere, cotoni, fili e via così. Di per sé questo materiale era inesistente. Non consegnavamo mai niente. Tutto falso. “Ma la ditta Sermani pagava per davvero. Chi si occupava dei pagamenti?” “Salvatore Sandri.” “Lui ti ha mai nominato qualcun altro?” “No. Io conoscevo solo Gino Sermani di vista, ma non ho mai parlato con nessun’altro.” “Una volta ricevuto l’incasso ‘icche succedeva?” “Ci spartivamo i soldi. Creavamo delle finte spese per giustificare i prelievi dal conto della finta società e li dividevamo. Io tenevo il venti per cento e lui l’ottanta.” “Quanti soldi vu l’avete sottratto alla ditta Sermani, in tutto?” “Nell’arco di cinque anni, con quelle false fatture, abbiamo incassato circa 2 milioni di euro. Ma io non sono l’unico con cui Sandri faceva questo giochetto al Sermani. Ci sono almeno altre due società fittizie, che comparivano come loro fornitori.” “Sai i nomi degli altri prestanome?” “No.” “Com’è possibile che nessuno si accorgesse di questo giro?” “Una volta che mi sono lamentato del mio misero venti per cento, lui mi ha detto che il suo ottanta doveva dividerlo con altre persone e io mi sono convinto che fosse qualcuno che stava sopra di lui all’interno dell’azienda e che gli permettesse di fare e disfare, acconsentendo. E, comunque, tenga conto che da quella ditta uscivano circa seimila capi di vestiario al giorno, tra pantaloni e giacche in jeans. Il fatturato dell’ultimo anno si aggirava sui dieci milioni di euro. Quando ci sono in ballo delle cifre così alte è facile perderne il controllo della situazione e avere dei sanguisuga attaccati ai conti societari.” Duccio lo ascoltò immaginandosi Gino, che non sapeva neanche leggere un estratto conto, finito dentro quel racket e in balia di una serie di truffatori di quel livello e lo compatì, ma solo fino ad un certo punto Poco dopo uscì dal carcere di Firenze diretto verso il suo commissariato, con la ferma convinzione che, se anche il suo amico era innocente, altrettanto lo era Primo Modesto Parvi. Era una mera questione di logica. Quel manigoldo non si era voluto esporre in nessun modo, al punto che aveva usato il contabile, oltre che per pagare le finte fatture con i soldi che uscivano dai conti della Sermani, anche per incassare dai vari prestanome delle società fasulle, le loro percentuali. Per tutte queste ragioni, al Parvi, Salvatore Sandri serviva più da vivo che da morto. 13


Non poteva essere ricattato da lui, perché erano sulla stessa barca, e semmai si fosse fatto beccare e avesse scoperto le carte tentando di trascinarlo nel fango, lui avrebbe negato tutto. Il suo nome non compariva in nessun modo: non faceva lui i pagamenti, ne i prelevamenti, e non sapeva nemmeno chi fossero i prestanome. Sandri faceva tutto per conto di Parvi e lui doveva solo far finta di non vedere. Per quanto riguardava Adele Micheletti, sposata in Sermani, Duccio non ce la vedeva a commettere un omicidio. E poi, se proprio avesse voluto sbarazzarsi di qualcuno, per lei sarebbe stato meglio fare a meno del marito. Una volta morto, lei avrebbe ereditato tutto il suo patrimonio. Invece, da quando Gino era scomparso,lei era seduta su una montagna d’oro in attesa di poterla toccare. Non era una stupida e certamente aveva avuto qualche ruolo nella partita. A lei, il fatto di essere la moglie del proprietario non bastava di certo visto che, da quel che era emerso dallo studio delle carte che aveva a casa, Gino l’aveva resa azionaria di un misero quindici per cento. Lei, probabilmente, si era rifatta mettendo su insieme a Parvi tutto quel troiaio. Fino ad un certo punto sottraevano a Gino i soldi spartendosi insieme a Sandri gli incassi delle finte fatture. Poi avevano deciso di fare il colpo grosso, forse perchè erano consapevoli che il giochino, che avevano messo in atto, non sarebbe potuto durare a lungo. Questa era una ragione in più, secondo Duccio, per cui se lei avesse davvero desiderato uccidere qualcuno, la sua scelta sarebbe dovuta ricadere sul marito. Una volta deceduto lui, in assenza di figli, lei si sarebbe presa tutta la sua parte di azioni della società, che ammontavano al cinquantacinque per cento. No. Qui l’assassino andava cercato da un’altra parte. C’era un dettaglio, nelle conclusioni a cui era arrivato Alberico, che aveva attirato la sua attenzione. Duccio ricapitolò velocemente gli avvenimenti. Punto primo: Salvatore Sandri era morto per un colpo di fucile, durante una passeggiata a Poggio Trauzzolo, in occasione del famoso week end a cui era stato invitato con la moglie presso la tenuta dei Sermani. Punto secondo: il fucile da cui era partito il colpo che lo aveva raggiunto alla nuca, era di proprietà di Gino e le orme rimaste impresse nel fango appartenevano ai suoi stivali. In ultimo: prima di far perdere le proprie tracce, lui aveva provato a difendersi dicendo che aveva lasciato fucile e stivali in un capanno che era praticamente alla portata di tutti, ma il procuratore aveva ritenuto irrilevanti questa dichiarazione. Solo Alberico aveva avuto dei dubbi. Estratta dal fascicolo una foto che ritraeva le impronte degli stivali, ci aveva spillato un foglio sul quale aveva annotato le sue considerazioni: Gino Sermani pesa circa centotrenta chili, gli stivali sono i suoi, ma le impronte sono meno profonde di quelle lasciate dagli agenti della polizia, accorsi dopo il delitto. È possibile che gli stivali fossero i suoi , ma che non li stesse indossando lui? Duccio chiamò Alberico al telefono, nonostante fossero già le otto di sera, e scprì che lui si ricordava bene di quell’appunto. A suo tempo lui aveva liquidato le sue 14


perplessità pensando che forse, quando Gino Sermani calcò la terra imprimendo quelle orme, il terreno fosse poco fangoso. Non si ricordava se, prima che arrivassero i colleghi della polizia, avesse piovuto ancora. In quel caso si sarebbe chiarito il motivo per il quale le impronte dei secondi fossero più profonde di quelle del Sermani. Duccio riattaccò la cornetta e si chiese chi altri potesse avere interesse a eliminare Salvatore Sandri e Gino Sermani. O forse solo il primo e il secondo era stata una conseguenza. Dai documenti che giacevano sulla sua scrivania, Duccio seppe l’indirizzo della vedova Sandri, l’unica persona presente in prossimità del luogo del delitto, sulla quale la polizia non aveva soffermato la propria attenzione. Erano già quasi le nove di sera, quando arrivò davanti al suo palazzo ma si sa’ che la polizia in quanto ad essere inopportuna non è seconda a nessuno. L’appartamento della vedova Sandri faceva parte di uno stabile semplice con un androne senza troppe pretese, un ascensore da cambiare e zerbini consunti davanti a porte che racchiudevano vite dignitose e famiglie con la fatica nelle braccia e nelle occhiaie. Duccio sorrise osservando i campanelli sormontati da etichette semplici con i cognomi fatti scrivere in biro da chi, in famiglia, aveva la calligrafia migliore. Duccio volle salire per le scale, sentire i profumi classici di un palazzo che, vicino all’ora di cena, filtravano da sotto le porte e si mischiavano nei pianerottoli. L’odore di gente per bene, di stanchezza e riposo, di fame e leggera sazietà. Tutto quello lui non lo aveva mai vissuto davvero. Neanche dopo essersi trasferito a Castiglioncello era riuscito appieno a realizzare quel suo desiderio di normalità. Lui chiedeva di cenare con una pastina in brodo. Brodo di dado, possibilmente. Perché aveva imparato dal suo matrimonio con una donna semplice che i baci della buonanotte e le coccole anche quando son fatti sotto coperte a buon mercato non valgono meno. Voleva una donna. La sua Dinda era morta ormai da cinque anni e lui era rimasto sospeso nel dolore, ma era stufo di vivere non amando. Era come non vivere. Voleva sdraiarsi a guardare il cielo, scoppiare a ridere per baci che ti fanno il solletico e cercare di difendersi da una tigre, scoprendo di essere ancora un leone che sa fare anche il domatore. Arrivato al piano giusto, suonò e venne ad aprire una donna alta e molto magra. Era discretamente bella e molto ben curata. Forse troppo per il contesto in cui viveva. L’appartamento in cui lei lo fece accomodare era completamente ristrutturato e pieno di ogni comfort. Un lettore cd dotato di apertura con fotocellula e un una fila interminabile di telecomandi lo guardarono sospettosi da sopra la mensola in cristallo. Lui le fece tutte le domande che aveva in mente riguardo al loro tenore di vita ed ebbe conferma che, per il suo lavoro da segretaria, fosse un po’ troppo sopra le righe. Dire che mantenesse i due figli in modo dignitoso, era come minimizzare. Pagava l’affitto regolarmente? Non più? Aveva comprato la casa senza bisogno di un mutuo, gentile poliziotto. 15


My best compliments, gentile signora. La mattina successiva Duccio, lasciato Gino che dormiva russando come un rinoceronte col cimurro, si diresse in ufficio e convocò Vito. “Ciao Vito. Come saprai mi sto interessando a i’ vecchio caso de’ i’ mi’ amico Sermani. Te lo ricordi?” “Me lo ricordo molto bene, commissario.” “Per cortesia, controllami i conti correnti della signora Sandri da …” “ … da quando è morto il marito?” “No. Da prima. Ma non m’interrompere più sennò do’ un cazzotto e te e un bacio a tu’ moglie.” “Perché ti interessano i loro conti anche prima dell’omicidio?” “Voglio capire se l’assalto alla cuccagna l’è cominciato quando lui c’era ancora o se la vedovella ha cominciato dopo la su’ morte a spendere più di quanto guadagni.” Quando Vito se ne andò, Duccio prese in mano le fotografie della donna fatte il giorno stesso dell’uccisione di suo marito e le mise in fila davanti a sé. Il fotografo della polizia nell’immortalare la scena del delitto, il capanno e varie angolazioni della tenuta, era stato di manica larga e aveva più volte fotografato anche i vari componenti della sfortunata comitiva. Al contrario rispetto a quanto sosteneva Gino, se lui non fosse stato un buon fisionomista difficilmente sarebbe riuscito a riconoscere la vedova Sandri, perché la donna al momento della tragedia era, oltre che sconvolta, veramente brutta. Imbruttita dalla trascuratezza, dal taglio scadente dei capelli, dalla tinta fai-da-te e da molto altro. La donna che gli aveva aperto la porta la sera prima spendeva molto di parrucchiere, vestiva costoso, si faceva la lampada e la manicure. “Berti.” “Agli ordini, comandante.” Berti, che era stato nella Marina Militare prima di decidere di diventare poliziotto, era vittima di una serie interminabile di lapsus freudiani che mettevano in luce la sua passione inconfessabile per il suo vecchio mestiere. “Berti, quando tu scendera’ dalla nave? Metti i’ cervello su di una scialuppa e raggiungici in commissariato. Quando arrivi fammi sape’.” “Ha ragione, commissario. Ma sa’ ... il primo amore ‘un si scorda mai.” “Ho bisogno che tu mi faccia ‘na ricerca.” “Ha qualcosa in mente su quel vecchio caso di Gino Sermani? Vito mi ha detto che ci sta lavorando … di straforo, diciamo.” “Esatto, marinaio. Controllami tutte le compagnie aeree esistenti che fanno almeno ‘no scalo in Europa e controllami se Salvatore Sandri aveva acquistato un biglietto aereo per una destinazione fuori dal nostro continente.” “Faccio la stessa cosa anche per le compagnie di navigazione? Magari voleva andarsene in nave.” “Bravo, Braccio di Ferro.” “Secondo lei, Salvatore Sandri voleva scappare dalla moglie?” 16


“Berti, ma quando tu comincera’ a darmi de’ i’‘tu’? ‘Icchè t’ho fatto di male?” “Nulla, commissario ma io ‘un ci riesco. Lei è lei, e io sono io.” “Sì, e loro sono loro. Secondo me voleva scappa’ sia dalla su’ moglie che dalla giustizia. Se Vito me lo confermerà, lui ‘un aveva versato nulla su’ i’ conto corrente familiare de’ su’ imbrogli perpetrati a danno de’ i’ Sermani. Probabilmente aveva portato tutto in Svizzera, ma se aspettiamo che da lì arrivino delle informazioni, siamo su i’ ceppo.” “Secondo lei, la donna ci ha messo le mani sopra dopo che lui è morto?” “Fintantoché il marito era in vita ‘un avrebbe potuto, ma da vedova ne ha avuto tutto i’ diritto. ‘Un ti sembra che potrebbe essere un buon movente?” Verso sera Vito Scoppola riuscì a fornirgli una panoramica precisa della situazione finanziaria della donna, almeno per quanto riguardava il conto corrente italiani. La vedova aveva un attivo di più di centomila euro e sembrava che avesse poche spese. Accreditava il suo stipendio e non spendeva quasi nulla. Non comparivano versamenti ingenti o bonifici di accrediti. Niente che lasciasse capire le vere fonti dei suoi proventi. È furba la donna, ‘un c’è che dire. Duccio decise di andare a fare due chiacchiere con i suoi vicini di casa che, si sa, sono sempre disposti a collaborare con la giustizia se uno di loro se la passa alla grande in un contesto dove le persone, quando arrivano a fine stipendio, hanno ancora troppo mese davanti. Prima di uscire passò dalla scrivania del suo marinaio: “Chiamami quando hai quella informazione.” Duccio si diresse verso il condominio dove viveva la donna e, come aveva immaginato, le massaie costrette a sopportare la vista di quella donna sempre overdressed e che si lasciava alle spalle una tale scia di profumo che avrebbe potuto fare anche da profumatore per l’ambiente, fecero una ricca descrizione di come lei e i figli se la cavassero piuttosto bene. Dall’equitazione al golf, passando attraverso i campi da tennis, i figli riempivano gioiosamente il loro tempo libero. La signora non rimaneva indietro nel divertimento e, a proposito, non erano abbronzati per le lampade, ma per i viaggi che facevano a Tenerife, dove avevano un appartamentino. Ma noi un abbiamo detto nulla, signor poliziotto. Sono così tanto care persone. Anche loro confermarono che tutto quel benessere fosse cominciato da un annetto a quella parte e Duccio, pur non avendo ancora ricevuto notizie dal Berti era sempre più convinto che Sandri volesse scappare da solo. Ma fu costretto a cambiare idea poco dopo. Berti non gli dette la conferma che lui stava attendendo; Sandri non si era prenotato su alcun mezzo di trasporto diretto oltreoceano. Questa notizia ‘un mi ci voleva. Duccio era depresso perché non sapeva più cosa pensare. Tornò a casa e trovò Gino che lo accolse speranzoso. Quando seppe che anche lui, come il commissario Di 17


Donato, era finito in un vicolo cieco, il suo sorriso si affievolì e si chiuse in un silenzio che durò una mezzoretta e dal quale uscì con una domanda che spiazzò Duccio. “Mi hai detto che la vedova Sandri si tiene molto bene, vero?” “Sì.” “Io so per certo che la mi’ moglie a letto l’è un disastro. Frigida, tirchia, senza fantasia né passione, ogni volta che ti concede la grazia delle su’ attenzioni sembra che ti stia facendo un piacere che ‘un si ripeterà molto presto.” “Che cosa stai cercando di dirmi?” “Primo Parvi ‘un è sposato e, notoriamente, ama circondarsi di belle donne. ‘Un credo che riesca ad accontentarsi di quel poco che gli concede la mi’ moglie.” Ancora una volta Duccio fu attraversato da quel brivido foriero di verità nascoste e che devono ancora affiorare. Lo afferrò un desiderio di andare a scavare lontano da dove si stava cercando in quel momento. “Mi stai suggerendo che tiene il piede in du’ scarpe?” “Sì e non solo. Se fosse vero che frequenta anche la vedova Sandri, tiene anche la mano in du’ tasche.” Duccio chiuse gli occhi e uscì a fare due passi nel parco di casa sua. Aveva bisogno di riflettere e stare solo. Sempre quel brivido che lo tormentava. “Senti la mi’ teoria, Duccio.” Gino lo aveva raggiunto, determinato a non mollare l’osso. “Quel fetente è riuscito ad accaparrarsi tutto: la su’ parte, quella di mi’ moglie prevedendo uno sviluppo tra i due e, da ultimo, l’è riuscito anche a mettere le mani sulla terza fetta di torta, diventando l’amante della Sandri.” “Ti rendi conto, Gino, che se tu c’ha’ ragione, sarà difficilissimo dimostrare che qualcuno di loro ha ucciso i’ Sandri?” “Io credo che sia stata la vedova. Lei l’era stufa di fare una vita miserabile, mentre i’ su’ marito magari architettava di andarsene. Probabilmente anche Primo Parvi la pensa come me, ma ‘un gli interessa di frequentare un’assassina. Si coprono a vicenda perché tutti e due la c’hanno qualchecosa da nascondere.” Come farà Gino a sape’ che la Sandri se la passava male, prima dell’omicidio de’ i’ su’ marito? Bah! “Tu ce n’ha di tempo pe’ pensa’, durante i’ giorno.” “Faccio de’ i’ mi’ meglio, grazie.” “Lo sai ‘icche ti dico, amico? Che io so’ un bischeraccio. ‘Un avevo capito nulla da’ i’ principio.” “E ora t’è tutto chiaro, vero?” “Eh, ora sì.” Il commissario Dante Sigliani riprese in mano le indagini e tentò, per prima cosa, di accusare la donna. Come? Fu facilissimo: bastò farlo fare all’amante, Primo Modesto Parvi. Gli fecero credere che la donna lo stesse accusando a sua volta, oltre che di appropriazione indebita, anche dell’omicidio di suo marito. 18


È notorio che le bugie migliori sono quelle più vicine alla verità e ascoltando le accuse parzialmente veritiere della donna, Parvi si convinse del fatto che lei avesse davvero deciso di incastrarlo su tutta la linea; e allora si decise a fare altrettanto. “L’ha ucciso lei. E so anche come gl’ha fatto.” “Ne è sicuro, signor Parvi?” “Quella notte in cui i’ su’ marito morì, noi l’eravamo ospiti presso la residenza dei Sermani e lei venne in camera mia. La cosa la ‘un mi sorprese, perché io ho un certo fascino con le donne, sa? Comunque, quando finì tutto io m’addormentai sicuro che la donna avrebbe fatto ritorno da i’ marito.” “E invece ‘un fu così?” “No. La mattina mi svegliai e la trovai ancora ne’ i’ mi’ letto. La cosa mi colpì soprattutto quando seppi che il marito l’era morto proprio quella notte.” Fece una pausa. “Ma ‘un capite? Lei ‘un era tornata da lui, perché sapeva che ‘un c’era nessun marito ancora ad attenderla.” “E, secondo lei, poteva saperlo solo l’assassina, vero?” Il giorno successivo Parvi fu incriminato per appropriazione indebita e truffa ai danni della società Sermani. Piuttosto che evitare l’ergastolo per omicidio, decise infatti di confessare tutto il resto, sperando che bastasse a dimostrare la sua massima collaborazione. Le accuse a carico della vedova Sandri non furono sufficienti e, in quei giorni, nessuno fu arrestato per omicidio. Gino, fingendo di apprendere dai giornali che l’accusa nei suoi confronti era caduta, riprese il suo posto in società e tornò a stare a casa sua, accanto ad una moglie reticente ma contenta di non essere stata accusata di niente. Che cosa aveva fatto di male? Ospitare il suo ex amministratore? La storia, conclusasi senza un colpevole di omicidio, sembrava il lieto fine di una fiaba in cui sono tutti felici e contenti. Tranne uno. Duccio stringeva la sua foto tra le mani. Gliel’aveva fatta dopo aver intuito la verità e prima che le sue sembianze tornassero normali. Ora Gino si era sbarbato, aveva tagliato i capelli e aveva ripreso a fare la sua vita normale, grazie a lui. In compenso lui non riusciva a darsi pace, grazie a Gino. Duccio passò un altro pomeriggio girando per le vie di Firenze e mostrando a chiunque gli passasse a tiro quella foto del vecchio Gino, risalente a quanto viveva ancora nascosto a casa sua. Una barista lo riconobbe. No, non lo aveva mai visto dormire in giro la notte, ma solo girovagare durante il giorno. La donna gli fu molto d’aiuto quando gli indicò l’abitazione di una donna ch aiutava sempre quell’uomo, dandogli del cibo e delle coperte per la notte. La signora abitava in una vecchia casa indipendente, con il portone che dava sulla strada. Raccontò che quel barbone un giorno aveva bussato alla sua porta e le aveva 19


fatto pena perché, da come si esprimeva correttamente, si capiva che un tempo era stato un uomo dignitoso. “Io gli davo da mangiare ogni tanto. Al principio, le notti dello scorso inverno gli facevo trovare della coperte pulite, ma ho visto che non le usava mai e allora smisi.” “La ringrazio. Lei mi è stata molto utile.” “Per così poco?” La sua Ford Mustang Shelby del 1967, comprata da suo padre quando Duccio aveva solo quattro anni, ruggiva come una tigre mentre saliva su per i colli di Fiesole, fuori Firenze. Voleva parlare con la donna che era al servizio dei Sermani da quasi vent’anni. L’aveva invitata presso un bar fuori città, perché non voleva che Gino e sua moglie sapessero che Duccio le facesse qualche domanda. La donna messicana, originaria di Zaragoza, era una brava persona, abituata alla fatica e molto affezionata ai suoi padroni. Aveva sopportato la presenza di Parvi in casa loro, ma era stata certa da subito che non sarebbe durata molto. “In base a che cosa, l’era certa che quell’uomo ‘un si sarebbe fermato a lungo?” “Non lo so, senior. Io ho visto la seniora molto addolorata per la sparizione del marito. Mi sembrava strano che sopportasse la presenza di quell’uomo in casa.” “Mi dica una cosa, Mercedes: c’è un posto, all’interno della loro residenza a cui le è negato l’accesso? ‘Un so, una cantina, per esempio.” “No, io posso andare dappertutto. Qualche mese fa ho potuto anche accedere al capanno degli attrezzi per un periodo breve.” “Solo pe’ un periodo?” “Sì, ci stavano facendo dei lavori di ristrutturazione e io ho dato una mano per pulire.” “ ’Icchè c’hanno fatto di bello?” La signora abbassò lo sguardo e valutò bene se rispondere o meno. Poi, forse per un innato senso di onestà, decise di continuare. “Hanno portato l’elettricità e un lavandino con l’acqua corrente.” Duccio la guardò con profonda gratitudine. “Lo sa che mi sta simpatica, seniora Mercedes?” La donna sorrise ma i suoi occhi si riempirono di lacrime. “Capisco dai suoi occhi, che lei ha già intuito i risvolti di quello che mi ha appena confidato.” “Sì. Infatti mi chiedevo come facesse la seniora a mangiare da sola tutto quel cibo, visto che il senior Parvi mangiava sempre fuori. E poi i cani. Non hanno fatto festa, quando el senior Gino è tornato a casa. Dopo quasi un anno che non lo vedevano più mi aspettavo un’accoglienza diversa.” “Erano abituati a vederlo tutte le notti, vero?” “Credo di sì, senior.” Sarà un problema dimostra’ che so’ stati loro. I fascicoli delle indagini erano già stati riconsegnati al commissario Sigliani e lui non sapeva con che scusa andare a riesaminare il tutto per l’ennesima volta. 20


Alla luce della sua nuova scoperta avrebbe avuto bisogno di visionarli di nuovo e riguardarli con occhi nuovi, senza farsi influenzare dalle opinioni di Gino come era stato per la prima volta. Duccio gironzolava per casa sua avvolto nella vestaglia, alla ricerca d’ispirazione e cercando di capire se da qualche parte Gino e sua moglie potessero aver fatto un errore. Uno sbaglio forse lo stava facendo proprio lui, sottovalutando un aspetto importante di quella faccenda: la curiosità di Aida. Decise di provocare un po’ la povera donna, facendole una domanda birichina. Sedette alla scrivania e chiamò la domestica. La donna, in onore al suo soprannome, stava cantandoo un’aria del Verdi e s’interruppe. “Dimmi, Duccio.” “Ti ricordi i fascicoli che stavano qui sulla mi’ scrivania? Tu c’ha’ visto qualcosa d’interessante?” “Duccio, tu m’offendi. Io li ho spolverati e basta.” “Aida fa’ la brava, dai, che c’ho bisogno d’ispirazione.” La donna sbuffò, divenne rossa per un imbarazzo che durò il tempo dello sbuffo e poi gli disse: “Dai, dimmi ‘icchè tu vo’ sape’.” “C’è stato qualche cosa che t’ha colpito, in tutto quell’incartamento?” “No. A parte il fatto che c’è gente ricca forte a’ i’ mondo.” “Solo questo? Hai visto le fotografie?” “Secondo te mi perdevo proprio quelle? Mi ci son rifinita gli occhi!” “C’è, per caso o per miracolo, decidi tu, qualcosa che t’ha colpito?” “No. Tranne i piedoni che ho notato, il resto ‘un era un gran ché interessante.” “Ti riferisci alle orme degli stivali?” “No. Proprio ai piedoni di quella lì.”

L’auto sulla quale viaggiava insieme a Sigliani correva lungo la via San Domenico che dal commissariato portava a Fiesole, dove abitava Gino. Come lui li vide arrivare con le macchine con le sirene e parcheggiare fuori dal suo cancello, il viso gli si rattristò. Andò verso di loro, aprì il cancelletto pedonale e guardò l’amico. “Io te l’avevo detto, Gino, che con me ‘un si scherza.” “A ‘icchè ti riferisci?” Sigliani, in piedi accanto a Duccio nel giardino della villa in cui erano appena entrati, decise di rimanere in silenzio e lasciare che quei due se la vedessero tra di loro. “Mi riferisco al fatto che tu ha’ il trentanove di piedi e la vedova Sandri ha il quarantadue. Lei non può aver indossato i tu’ stivali. Dev’essere stata l’unica altra donna presente sul luogo del delitto, a indossarli.” L’uomo s’incamminò verso casa lasciando la porta a vetri aperta dietro di lui, perché loro lo potessero seguire all’interno. 21


Poi continuò: “Ci eravamo accorti che ci stavamo derubando di tutto e avevano organizzato quel week end pe’ parlargliene.” “Loro hanno negato tutto?” “Sì. Abbiamo anche insistito dicendo che ‘un saremmo andati alla polizia. A noi bastava che loro ci ridessero almeno in parte tutto quello che ci avevano sottratto.” Adele, che aveva ascoltato quelle prime dichiarazioni da dietro un muro, palesò la sua presenza e si avvicinò al marito. Riluttante e con gli occhi bassi, continuò il racconto da dove il marito lo aveva interrotto: “Quando vidi Salvatore Sandri che si avviava a fa’ ‘na passeggiata, ho cercato di raggiungerlo per parlargli, perché dei due mi sembrava quello più disponibile a pentirsi.” La donna si mise a piangere e aggiunse: “Ho perso la testa.” “Signora, nessuno va a cercare un dialogo portandosi dietro un fucile.” Sigliani andò per le spicce perché le scene lacrimevoli non erano mai state il suo forte. Mentre li portavano via Gino si voltò un’ultima volta a guardare l’amico. “Gino, ti rendi conto della vita che tu ha’ fatto per copri’ la tu’ moglie?” “È stato un grosso sacrificio, ma speravo che ne valesse la pena. Ma come tu ha’ fatto a scoprirmi? Era tutto perfetto: i capelli lunghi, la barba incolta, ero tutto sporco.” “Quando t’ho abbracciato ‘un mi ha fatto schifo. ‘Un me ne sono capacitato per un po’e continuavo a chiedermi i’ perché. E poi m’è venuto in mente che eri uno strano barbone: ‘un puzzavi, né tu né i tuoi vestiti. Strano, per un uomo che vive in strada da dieci mesi.”

E’ in arrivo Moulin Rouge il racconto di novembre di Arita Cast su aritacast.com aritacast.com

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