Angeloni

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Angelo Angeloni

CONVERSAZIONI CON LA SOCIOLOGIA Interviste a Franco Ferrarotti

ARMANDO EDITORE


SOMMARIO

Prefazione I.

Che cosa è la sociologia? 1. 2. 3. 4.

La memoria La sociologia Sociologia e Letteratura Il professore e il politico

II. La condizione giovanile: per una sociologia della gioventù 1. I giovani e la scuola 2. I giovani e la famiglia 3. I giovani e la violenza

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III. Un possibile punto di riferimento per i giovani: l’affascinante esempio di Simone Weil

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IV. Sociologia della comunicazione: a) parola scritta e immagine

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V.

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Sociologia della comunicazione: b) parola scritta e memoria 1. 2. 3. 4.

Socrate e la parola La fine della cultura del libro? Le due logiche “Tradizione e memoria in un mondo smemorato”

VI. La morte nella società tecnicamente progredita

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VII. L’agire dell’uomo nella storia

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Note

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Cronologia delle opere di Franco Ferrarotti citate in queste conversazioni

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PREFAZIONE

Il mio primo incontro con Franco Ferrarotti avvenne attraverso un suo libro: Studenti, scuola, sistema, che l’editore Liguori di Napoli pubblicò nel 1976. Mi ero appena laureato in Lettere e, come tutti i giovani laureati, sognavo il lavoro. Quel libro, se da un lato mi teneva legato a un periodo che avevo attraversato e avevo appena lasciato (ancora vivo di ricordi e di speranze), dall’altro provocò in me disincanto, quando lessi questa pagina: «La difficoltà, l’impossibilità di trovare un lavoro […] ha un risvolto esistenziale e comporta effetti psicologici difficili da calcolare, ma certamente di gravità eccezionale. La disoccupazione dei giovani in cerca di prima occupazione non può essere equiparata ad alcuna altra forma di disoccupazione. Può sempre accadere che un operaio, meno spesso un impiegato, si trovino a dover affrontare un periodo di ozio forzato, quello che si chiama una fase di disoccupazione stagionale o congiunturale. La situazione è penosa. La cassa integrazione è un parafulmine inadeguato. La famiglia deve ridurre il tenore di vita. […] La sicurezza d’un tempo, cioè quello che potremmo chiamare il respiro o l’orizzonte vitale della famiglia appare drasticamente ridotto, poiché nulla è così necessario quanto i consumi apparentemente superflui e dolorosissima appare la rinuncia che significa riduzione del tenore di vita e quindi discesa, perdita della collocazione sociale raggiunta. Siamo pur sempre in presenza d’una situazione che si spera temporanea: una specie di infortunio, un’interruzione passeggera. Nel caso dei giovani in cerca di prima occupazione le cose sono radicalmente diverse. È generalmente difficile, per un giovane arrivato all’età di lavoro, comprendere pienamente il meccanismo economico e politico della società globale e vedere quindi il proprio caso personale solo come uno degli indici segnaletici d’una situazione generale, impersonale e oggettiva. L’im7


possibilità di trovar lavoro rappresenta dapprima per questo giovane una sua incapacità individuale e implica il senso d’una colpa personale, che per essere oscura non è per questo meno reale e dolorosa. Ma, ben presto, l’impossibilità di occuparsi stabilmente viene, dal giovane disoccupato involontario, percepita soggettivamente come il rifiuto che la società inspiegabilmente e testardamente oppone alla sua offerta di energia e di collaborazione» (pagg. 33-34). Non dico che i miei sogni s’infransero, ma compresi che la realtà era più complessa. Le conversazioni qui raccolte sono nate in occasione della pubblicazione di alcuni libri di Franco Ferrarotti: esse, quindi, prendono spunto dal tema specifico di quei libri. Ma discorrendo, succedeva che si ampliassero, fino ad abbracciare una molteplicità di altri temi: i giovani, la famiglia, la scuola, la violenza, la lettura e la cultura in generale, la televisione e i mass-media, il lavoro, la fabbrica, la disoccupazione, l’immigrazione, i sistemi di produzione, il tempo del lavoro in una società frenetica e velocizzata, la morte, l’etica. Argomenti limitati, naturalmente, rispetto a quelli di cui egli si è occupato nella sua lunga attività di sociologo, e di cui è testimonianza un’immensa bibliografia*. Argomenti diversi, ma tutti legati da una profonda attenzione all’uomo nella società industrializzata: obiettivo di tutta la ricerca sociologica di Ferrarotti. La sociologia, infatti, se da un lato si occupa della realtà esterna in cui l’uomo agisce, non può ridursi – come spesso ha ripetuto – a semplice scienza documentaristica. E se nei suoi libri si nota bene questo “umanesimo”, basta una sola volta conversare con lui, in pubblico o in privato, che avverti un calore umano, il quale diviene, a volte, pietas per la condizione dell’uomo: quasi un sentimento “religioso” che ti coinvolge (intendendo per “religioso” un “penetrare”, uno “scavare” in quella condizione, e comprenderla). Il filo che tiene unite queste conversazioni è, dunque, la società e i valori umani che essa deve conservare: valori che vanno al di là di quelli semplicemente economici e amministrativi. Qualunque azione umana, se non si prefigge uno scopo umano, non ha valore. Se l’uomo 8


crede di vivere solo l’attimo, senza uno scopo che lo superi e che tenda verso più ampi orizzonti, la sua azione è inutile. *** Ad eccezione dell’ultima conversazione, non pubblicata, le altre sono state pubblicate nelle seguenti riviste: – “Cosa è la sociologia”, in Tempo Presente, nn. 341-348, maggiodicembre 2009, pagg. 27-34, con il titolo: “Memorie di un outsider”. – “La condizione giovanile: per una sociologia della gioventù”: in Tempo presente, aprile 1995, con il titolo: “Il pianeta giovani”. Poi, in appendice al libro di Franco Ferrarotti, Rock, Rap e l’immortalità dell’anima, Liguori, Napoli 1996. – “Un possibile punto di riferimento per i giovani: l’affascinante esempio di Simone Weil”, in Avvenimenti, 31 luglio 1996, pagg. 66-67, con il titolo: “Simone Weil”. – “Sociologia della comunicazione: a) parola scritta e immagine”, in Mondoperaio, n. 3, maggio 2000, pagg. 120-127, con il titolo: “Lo scritto e l’immagine (libri e mass-media)”. – “Sociologia della comunicazione: b) parola scritta e memoria”, in Cultura e libri, nn. 145-146, ottobre 2003-marzo 2004, pagg. 13-19, con il titolo: “Libro e memoria”. – “La morte nella società tecnicamente progredita”, in Tempo presente, nn. 309-312, settembre-dicembre 2006, pagg. 21-25, con il titolo: “L’uomo di oggi di fronte alla morte”. Poi in Cultura e libri, nn. 158-159, gennaio-giugno 2007, pagg. 19-26. Ringrazio i direttori delle suddette riviste per aver consentito questa nuova pubblicazione. Forse qualche aspetto di queste conversazioni è legato al tempo in cui esse hanno avuto luogo. Ma gli argomenti di fondo che le costituiscono non hanno perduto importanza, né attualità. Angelo Angeloni 9


I. CHE COSA È LA SOCIOLOGIA?

C’è in ognuno di noi il bisogno di ricordare, di tornare indietro nel tempo. Ognuno di noi – diceva Montaigne – sente il bisogno di «riservarsi un retrobottega tutto nostro, sicuro, in cui possiamo collocare la nostra vera libertà. […] In questo luogo bisogna di solito intrattenersi con noi stessi». Qualche volta, per non smarrirci nel quotidiano o per sfuggire la realtà, ci rifugiamo tra le pagine del gran “libro della memoria” dove sono scritte le nostre esperienze. Dalla lettura di questo libro si genera la scrittura, anch’essa come bisogno. Quando ricordiamo o raccontiamo le esperienze della nostra vita, siamo soliti dar rilievo a quelle che ci sono costate di più; o a quelle che più hanno contato. I ricordi dell’infanzia fanno parte a sé. Il libro di Franco Ferrarotti, che dà l’avvio a questa prima conversazione, ha origine – credo – da tali bisogni. Si intitola Pane e lavoro!: «l’antica invocazione della gente che quotidianamente fatica per procacciarsi i magri mezzi della sussistenza»; e raccoglie le memorie di lui, outsider: le memorie di chi – libero, autodidatta, un tempo senza fissa dimora e in lotta con la miseria, ma forte della forza dei libri e dell’amicizia di persone care – per tirare a campare ha dovuto svolgere diverse attività1. Negli anni del dopoguerra – anni di fame e di penuria – incominciò a guadagnarsi da vivere come traduttore di libri presso la casa editrice Einaudi. I libri, dunque, gli hanno fatto conoscere, per primi, la vita e il mondo e gli hanno dato da mangiare2. Dopo i libri, la fabbrica: Ferrarotti va a lavorare alla Olivetti come tornitore nel reparto attrezzaggio: lo aveva preferito al lavoro più tranquillo e rispettato di “addetto ai problemi sociali”. Il lavoro durò circa otto mesi; e furono mesi importanti, più istruttivi dei libri, forse. Per capire la vita di fabbrica, infatti, non bastavano i libri: bisognava viverla direttamen11


te, sperimentarla di persona, sottostare alle umiliazioni e ai pericoli fisici. Se il lavoro di traduttore gli aveva consentito di capire l’altro attraverso il testo – attraverso la paziente interpretazione di esso e «il tormento delizioso di andare alla ricerca della traduzione perfetta, della parola che trasmetta, in un’altra lingua, significato e clima, senso e misura»3 –, la fabbrica gli ha permesso di avere una conoscenza diretta della condizione umana e sociale che lì si viveva. Come ha scritto nella vita di Simone Weil, «la fabbrica è il luogo in cui si incontra la vita vera: conflitto, durezza, dolore, sofferenza, stanchezza, ma anche vitalità, gioia, la soddisfazione di riuscire qualche volta, purtroppo non sempre, a vedere davanti a sé il prodotto del proprio sforzo, l’effetto della fatica, vale a dire la propria creatività»4. Allo stesso modo, il contatto diretto con la gente durante le campagne elettorali, la professione di docente e la ricerca sociologica gli hanno consentito quell’incontro umano e dialogico, attraverso il quale solamente l’uomo può aprirsi alla realtà degli altri. Niente, infatti, c’è di più biasimevole che chiudere gli occhi di fronte ai dolori e alle necessità degli altri. Insomma, in tutte le esperienze raccontate in questo libro – da quelle più importanti, a quelle meno e perfino ironiche – c’è il sociologo che vuol comprendere fatti e persone (“capire” è il verbo ricorrente in queste pagine): la sociologia – ripete – non è scienza che si possa studiare solo sui testi: è un servizio sociale e, come tale, ha bisogno della partecipazione, dell’osservazione del reale; è «l’occasione per l’incontro con l’umano, forse il primo passo per la costruzione di un’identità dialogica»5. Nella varietà delle sue professioni, dunque, Ferrarotti non ha mai cessato di interrogarsi sul rapporto che lega l’identità all’alterità – aspetto fondamentale del vivere (e del “convivere”), soprattutto oggi. Ma oggi, l’analisi della società va spostata su scala planetaria: al dialogo fra le culture, perché la comunicazione è il solo fattore di integrazione sociale; e Ferrarotti ha dedicato diversi lavori a questo aspetto. In Homo sentiens ha scritto: «Non siamo nulla in senso assoluto. […] Interdipendiamo. […] Non c’è “egoità” che non comporti l’esistenza e lo scambio con l’alterità»6. In lui, il discorso strettamente sociologico non è mai staccato da quello umano e sentimentale. Ci sono pagine in questo libro che sono state scritte, prima di tutto, col cuore: i capitoli iniziali sulla fame, per esempio; o quelli sull’incontro di amici, dove si 12


percepisce che il tempo non ha cancellato il sentimento di amicizia e di “com-pagnia” (di chi divide lo stesso pane) di allora. “Caro, carissimo amico, forse paterno ancor più che fraterno” – dice ora, scrivendo di Pavese7. Ma da queste stesse pagine ci viene data, anche, una fotografia dell’Italia del dopoguerra: la povertà, l’industrializzazione, la contestazione studentesca, la condizione della donna, i partiti politici. A volte si tratta di confidenze che divengono riflessioni, analisi, interpretazioni di fatti che hanno segnato, positivamente o negativamente, la storia politica italiana. ***

1. La memoria A.: I ricordi – si sa – non restituiscono mai i fatti così come si sono vissuti mentre accadevano. Tra il fatto primordiale e il ricordo di esso c’è il tempo trascorso, c’è la storia (individuale e collettiva), c’è la vita. Noi siamo, ora, ciò che siamo stati; anzi, “ciò che ricordiamo di essere stati” – come lei dice in Il silenzio della parola8. – Può chiarire questo concetto? F.: A me non accade spesso di citare in maniera positiva Benedetto Croce; ma egli affermò che non c’è storia che non sia “storia contemporanea”9. La stessa cosa potrebbe dirsi quando dalla “grande” Storia passiamo alle nostre storie “individuali”: le storie di vita, anche minima: quelle che, alla fine, vanno a formare la grande Storia. Quando parliamo, dunque, della storia di un individuo, non c’è dubbio che ogni qualvolta si ripensa al passato, lo si rielabora in termini del presente: tra presente e passato c’è una continuità, ma è una continuità mediata da una rielaborazione, la quale non è necessariamente nostalgia, né memoria fotografica, che non sarebbe possibile. Questi sono i due tipi di memoria che Hegel, soprattutto in Fenomenologia dello spirito, chiama Erinnerung (qualcosa che sorge dal di dentro, da ciò che è nell’interiorità ed esplode fuori) e Gedächtnis (una specie di rimpianto nostalgico, un richiamare il passato al presente, non solo con una certa nostalgia, ma anche con una 13


sorta di rimpianto rammemorante). Ed è forse questo tipo di memoria che richiedeva, secondo Heidegger, la devozione, l’umiltà, la penombra. Detto ciò, si deve però affermare che – devozione o meno, nostalgia o meno, rimpianto o meno – non si può ripensare la vita senza riviverla. Il vero libro di memorie o di ricordi non è necessariamente un diario: il diario ha un’immediatezza empirica che non si può restituire; il libro di memorie (cioè: il tentativo di ricordare) è un tentativo, spesso destinato al fallimento, di ricongiungersi con se stessi. E allora, il concetto fondamentale è la continuità attraverso una fondamentale coerenza che sta sotto alle accidentalità di superficie. A.: Insomma, l’io del presente fa rivivere l’io nascosto nella nebbia della memoria. F.: In un mio libro – Il ricordo e la temporalità – ho elaborato la teoria secondo cui il ricordo del passato viene “ripresentificato”, rifatto presente. Ora, nel momento in cui il passato si fa presente, pur non cessando dall’essere passato, si trasforma, rielaborato attraverso la consapevolezza. Si tratta, in fondo, della “anamnesi” platonica: noi non impariamo mai, semplicemente “ricordiamo” ciò che era sepolto nei più profondi fondali della nostra coscienza. A.: Gli eventi della sua vita, che lei rievoca e rielabora in questo libro, che valore assumono oggi? Cominciamo dall’incontro con persone che hanno contato di più per lei. F.: Nessuno di noi può ricordare veramente tutto ciò che ha sperimentato nella vita: sarebbe un segno di follia. Si tratterebbe di quel tipo di ricostruzione del passato che Jorge Luis Borges ha immaginato nel racconto Funes el memorioso, in cui il personaggio – Ireneo Funes – “sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882”10. Questa specie di “ipermnesia” sarebbe insignificante o folle, perché metterebbe tutto sullo stesso piano. Il ricordo, invece, filtra, come un setaccio, il passato; e quello che ne resta ha significato permanente. Il passato non è passato: è dentro di noi; e torna costantemente. Ciò premesso, dico che gli eventi da me ricordati in questo libro hanno valore in quanto io, non ricordando tutte le esperienze 14


nella loro “fatticità” empirica, ma ricordandone alcune, in qualche modo affermo di fronte a me stesso che non tutto è da accettare. In questo mondo dell’ “usa e getta”, ci sono personaggi, esperienze, momenti della vita che vanno tesaurizzati, perché hanno valore in sé. Se io penso a uomini come Cesare Pavese, Felice Balbo, Adriano Olivetti, Nicola Abbagnano, avverto una certa pietas (ma, naturalmente, anche gratitudine e riconoscenza), la coscienza di aver incontrato dei valori: persone che in qualche modo hanno instaurato una conversazione con me, e viceversa: io sono riuscito a stabilire con loro un dialogo, un contatto significativo.

2. La sociologia A.: Nel 1960 (come lei stesso ricorda) fu bandito il primo concorso a cattedra ordinaria per la sociologia. Si rimane sbalorditi di fronte alle battaglie che ha dovuto sostenere per l’introduzione o il riconoscimento di questa scienza. – Perché è stato così difficile? F.: Per due ragioni fondamentali. Allora c’era da una parte la filosofia cattolica come neoscolastica, dall’altra il neoidealismo italiano che si riassumeva in due nomi: Benedetto Croce e Giovanni Gentile. In nome dell’ortodossia cattolica, i filosofi neoscolastici (che potremmo chiamare genericamente “spiritualisti”) riscoprivano e rinverdivano l’insegnamento di Tommaso d’Aquino. Il neoidealismo italiano era, a sua volta, un’importante corrente filosofica che perpetuava quella che era stata tradizionalmente l’Italia di fronte alla situazione della filosofia: una provincia della grande filosofia tedesca classica – da Kant, a Hegel, fino alla sinistra e destra hegeliana. Gli stessi marxisti italiani erano così imbevuti di questo idealismo, da essere antisociologici. Ora chiediamoci: perché queste due correnti (lo spiritualismo cattolico e il neoidealismo, crociano e gentiliano) erano contro la sociologia? Perché esaltavano (soprattutto il neoidealismo) l’assoluta libertà e imprevedibilità del comportamento umano: essendo il comportamento dell’uomo nella società del tutto imprevedibile (legato, in sostanza, alla coscienza storica), non poteva essere ana15


lizzato e previsto nel futuro, prossimo o a lunga scadenza. Allora, il fatto che le scienze (le scienze sociali, e in particolare la sociologia) si ponessero come oggetto di studio l’uomo in società (in quanto essere umano che si comporta a seconda di determinate variabili presenti nell’ambito in cui viene comportandosi) – questo era considerato una violazione del principio della libertà umana; voleva dire: fare una scienza dei manichini. Dunque, già nei primi anni del ’900 la sociologia veniva assolutamente condannata da Croce che si avvaleva anche della debolezza concettuale dei sociologi di quell’epoca, i quali confondevano Marx, Darwin, Spencer (la famosa “trinità”). Ma, fra il materialismo storico di Marx, l’evoluzionismo di Spencer e il biologismo di Darwin ci sono degli abissi. Per Croce e i crociani di stretta osservanza era facile usare una critica col pettine di ferro e in qualche modo dimostrare il carattere frammentario, occasionale delle ricerche sociologiche. Alla sociologia essi riservavano una funzione classificatoria dei dati, una specie di schedario intellettuale: era un mezzo inferiore della vita filosofica; non aveva capacità cognitive in senso proprio. A.: Dov’era l’errore? F.: L’errore, secondo me (ma anche secondo Nicola Abbagnano), consisteva nel porsi di fronte ad un dilemma: o l’uomo è libero e posseduto da una “psiche”, da una coscienza libera: e allora si può studiare la storia passata, ma non quella futura; oppure è assolutamente determinato: e allora si cade nel casualismo marxista, per cui la struttura genera la sovrastruttura. Noi, invece, dicevamo: l’uomo non è né assolutamente libero, né assolutamente determinato. L’uomo, nel suo comportamento in società, è condizionato dalle circostanze oggettive in cui si trova a vivere. Queste circostanze oggettive (che sono i termini reali dell’azione umana) si possono studiare benissimo dal punto di vista sociologico. Quindi la sociologia, pur non esaurendo l’essenza dell’uomo, ne studia i comportamenti esterni entro determinate circostanze, per giungere, poi, alle motivazioni interne. Ma c’era anche un’altra ragione – una ragione politica: i regimi dittatoriali, in Italia come in Germania, non potevano tollerare la sociologia perché, nel momento in cui questa studia scientificamen16


te una istituzione, ne fa la critica. Sia il nazismo che il fascismo, pertanto, abolirono completamente la sociologia, salvando solo la parte della statistica e della demografia che serviva al regime. Pertanto, bisogna che i giovani colleghi che oggi scelgono e poi insegnano sociologia, si rendano consapevoli di ciò che ha voluto dire il ritorno della sociologia. Alcuni di loro – più per inconsapevolezza che per ignoranza – si limitano a dire: la sociologia è tornata con i carri armati americani… No! Molto prima della guerra, già negli anni Quaranta, io mi interessavo di sociologia. La sociologia non è caduta dalle nuvole, in Italia; è stata una dura battaglia da me combattuta, aiutato, ma da autodidatta non legato a nessuna corrente ufficiale11. A.: Chi l’ha aiutato? F.: Nessun accademico, con un’eccezione che dirò subito. Mi hanno aiutato scrittori (Cesare Pavese), filosofi fuori dall’Accademia (Felice Balbo); ma soprattutto, ho avuto la fortuna di avere quella che chiamerei la mia quinta colonna: Nicola Abbagnano. Abbagnano aveva seguito e si era formato sui corsi tenuti dal professor Aliotta, molto legato al discorso scientifico; ed era, in questo caso, un’eccezione luminosa. Pertanto, Abbagnano si trovava preparato ad accettare la sociologia12. C’è da dire anche un’altra ragione interna, a proposito di Abbagnano: di solito si pensa che il suo libro fondamentale – La struttura dell’esistenza (1939) – con cui presenta l’esistenzialismo italiano, sia debitore di Essere e tempo di Heidegger. Nulla di più sbagliato: Essere e tempo finisce per essere una sorta di dimostrazione di come la sola autenticità possibile sia data dalla morte. Pertanto, l’esistenzialismo di Heidegger è nichilistico; quello di Abbagnano, invece, è un esistenzialismo positivo, perché Abbagnano, invece di elaborare una teoria dell’esistenza come preparazione alla morte, ne elabora una in cui ritiene fondamentale il concetto di “possibilità”: l’esistenza come esercizio di possibilità, dove l’uomo si realizza sfruttando le sue possibilità con la scelta: la scelta in base al progetto: il progetto in base all’analisi dei termini storici ambientali in cui egli si trova a vivere. È questa la ricerca sociologica. 17


3. Sociologia e Letteratura A.: Sono note le teorie dei romanzieri naturalisti (Zola, soprattutto) sul romanzo come “documento umano” e sociale: i comportamenti e i sentimenti dei personaggi venivano studiati non più secondo analisi interiori o sentimentali, ma nell’ambiente sociale in cui essi vivono. Anzi, quando nel secondo Ottocento il progresso tecnologico offrì un nuovo strumento per rappresentare o documentare la realtà – la fotografia – parecchi letterati, tra cui Verga, ne furono affascinati. Insomma, anche la letteratura ha come scopo quello di capire. – Che contributi ha dato la letteratura (specie quella realista o neorealista) alla sociologia? F.: La letteratura, in quanto ci aiuta a capire il clima intellettuale d’una fase storica, è importantissima; ma non va confusa con la sociologia. Bisogna tener presente tre livelli diversi: uno di creazione letteraria, in cui il momento sociale viene trasfigurato dalla vocazione estetica; un altro che chiamerei del giornalismo investigativo, nel quale, se è buon giornalismo, c’è molta sociologia. Infine, il livello specificamente sociologico: sebbene possa attingere idee dalla letteratura o dal giornalismo investigativo, l’inchiesta sociologica, rispetto a quella giornalistica o alla ricreazione letteraria, ha questo di particolare: che parte dal problema, elabora delle ipotesi e cerca di validare o invalidare tali ipotesi. A.: Questo discorso vale anche per il cinema neorealista? F.: Assolutamente! Si prenda, come esempio, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, o il contributo dato come sceneggiatore da Cesare Zavattini. Ma la differenza tra questi discorsi parasociologici e la sociologia come tale è che la ricerca sociologica è una disciplina scientifica. A.: Facciamo un altro nome importante: Pier Paolo Pasolini. Ragazzi di vita è del 1955, Una vita violenta del 1959, più o meno gli anni in cui lei, tornato dagli Stati Uniti, frequentava con i suoi collaboratori Valle Aurelia, la “valle dell’inferno”, la zona di Monteverde Nuovo, dove stavano arrivando, soprattutto dal meridione, nuove ondate di immigrati. Cito dalla vita di Pasolini di Enzo Siciliano: «Ragazzi di vita parla… di borgate, di esistenze deragliate. Pasolini 18


scrive di una vita che della vita ha solo l’apparenza. […] Quel libro ha una dirompente carica politica: mette a nudo, con la novità di uno stile elaboratissimo, il sobborgo esistenziale della società italiana»13. – Quali sono stati i suoi rapporti di sociologo con lo scrittore di questi romanzi? F.: Con Pier Paolo Pasolini io ebbi una garbata polemica che partiva dal fatto che egli – a mio giudizio persona intelligentissima, ma “rapida” (io lo chiamavo, senza mancargli di rispetto, “uno scugnizzo scippatore di idee”) – usa il termine “omologazione”: egli si doleva del fatto che dal balcone di una casa che si affaccia su una piazza, una volta si poteva dire, guardando sulla piazza, quello è un meccanico, l’altro un contadino, ecc. Poi, ad un certo punto, queste persone sono state tutte omologate14. Io rispondevo: ha guadagnato terreno l’uguaglianza sociale, con un miglioramento del tenore di vita, per cui anche un muratore, per fare un esempio, va a mangiare in una tavola calda15. Egli, invece, da esteta, vedeva tutto questo come un fatto “terribile”. Indubbiamente, per la vecchia idea fascista l’omologazione era un fatto sconvolgente, perché, per esempio, una domestica ad ore comperava ed usava lo stesso collant della signora per cui lavorava. Ma ci scontravamo anche su altre idee. Per esempio, a proposito della “descolarizzazione della società” – un’idea sostenuta da Ivan Illich16 – io replicai a Pasolini17 dicendo che non si poteva tornare al ’700, al tempo, cioè, del precettore del “giovin signore”18. Detto questo, però, nessun dubbio che sia in Ragazzi di vita che in Una vita violenta, o in certe poesie de Le ceneri di Gramsci o negli articoli sul Corriere della Sera ci fosse l’elemento sociologico. Tuttavia, bisogna sempre tener presente che ci deve essere una distinzione netta tra quella che è una “sensibilità” sociologica e la “ricerca” sociologica come impresa scientifica. Stimolato dalla sua domanda, però, devo dire che io già da giovanissimo, negli anni Quaranta, sentivo (e non era questione di intelligenza) che l’Italia cambiava; e sentivo che le tre ottiche intellettuali fondamentali su cui essa si basava, non erano più in grado di capire il cambiamento. La prima ottica – quella filosofica – non vedeva l’uomo in situazione. La seconda – giuridicoformale – ottima e coerente, ma di sistemi vigenti19. La terza, 19


storico-economica: la storia era già “storica”: storia del passato. I crociani, come ho detto, non volevano sapere del presente, non raccoglievano storie di vita. Si sono scritte delle biografie, ma solo di uomini illustri, ma nulla che riguardasse il popolo. Io avvertivo (non so spiegarlo nemmeno a me stesso) che la cultura dominante, in quelle sue forme fondamentali, non riusciva a dar conto di ciò che succedeva a questo paese. Quindi, noi siamo arrivati ad avere un paese industrializzato, senza cultura industriale. Qualche romanziere può aver fiutato questa situazione. Poi finalmente la sociologia è stata accettata perché si è visto che era imposta dalle circostanze. Pasolini stesso, tuttavia, fuggiva dalla letteratura; e faceva il cinema, il drammaturgo. Molti romanzieri si sono messi a fare i cineasti. Non voglio dire che non possono farlo: ognuno sceglie i propri mezzi. A.: Ma non lo fanno certamente per ragioni sociologiche! F.: No! Lo fanno perché vogliono raggiungere il più vasto pubblico possibile. Insomma, per me la letteratura ha un suo ufficio fondamentale come custode e testimonianza della parola scritta: i grandi scrittori sono quelli in lotta con il linguaggio, quelli che reinventano la lingua. Oggi ci sono due logiche che si contendono le anime degli esseri umani: la logica della lettura e della scrittura, e quella dell’immagine sintetica, dell’audiovisivo. Le due logiche non si mescolano: l’errore, oggi, è quello di voler vendere i libri come saponette. È la commistione delle due logiche: non c’è nulla che non possa essere detto con la parola concettualmente orientata.

4. Il professore e il politico A.: Abbiamo accennato alla scuola. Queste sue memorie si fermano all’anno della contestazione studentesca: il 1968. Solo alla fine, come in appendice, riporta l’articolo scritto sul Corriere della Sera del 25 febbraio 1977, dal titolo “Diario di un docente contestato nei giorni caldi dell’università”. – Due domande, al riguardo: prima domanda: 20


da professore (i professori venivano definiti, allora, “baroni”) come ha vissuto il decennio 1968-1978 – il decennio, cioè, che va dalla prima contestazione, al sequestro e all’uccisione di Aldo Moro? F.: L’ ho vissuto tutto in una situazione molto difficile. Ero del tutto d’accordo con alcuni scopi del movimento del ’68: per esempio, l’antiautoritarismo, una maggiore apertura verso l’esperienza umana in tutti i settori, una università non per pochi, ma per tutti, ecc. Tuttavia, non chiudevo gli occhi di fronte al marcio, alle “carogne” (detto naturalmente in modo metaforico) che la corrente del fiume trasportava con sé. Ero d’accordo con la direzione del fiume, ma il fiume aveva dentro di sé del marcio: i profittatori, che poi sono arrivati alla deriva della violenza. Insomma, ero un testimone “empatico” che era d’accordo e in disaccordo nello stesso tempo. Come mi diceva Raffaele D’Addario, allora preside di Statistica e Demografia (presso cui ho insegnato): caro Franco, tu diventerai “a Dio spiacente e a li nimici sui”: i “baroni” ti considerano un traditore, e gli studenti presto o tardi non accetteranno il fatto che tu vuoi che studino sul serio, e non accetti il voto politico. Ed è ciò che è accaduto. A.: L’altra domanda è questa: perché le sue memorie si interrompono al 1968? F.: Questo libro risponde a una domanda precisa: quali sono state le mie attività professionali che mi hanno dato uno stipendio? Sto lavorando ad altri progetti secondo tre dimensioni che qui non ho sviluppato: l’infanzia, la mia esperienza di Diplomatico a Parigi, che è stata molto importante20, l’esperienza politica. A.: Di questa esperienza, infatti,vengono ricordate, qui, solo le campagne elettorali, a cui dà grande rilievo. – La televisione, con la sua “retorica dell’immagine”, come ha cambiato il rapporto con la gente in simili occasioni? F.: Apparentemente, con la comunicazione elettronica si direbbe che il politico sia stato avvicinato ai suoi elettori. Al contrario! Sembra più vicino, ma di fatto è più lontano. Ai tempi a cui io mi riferisco nel libro, c’era veramente la visita a tu per tu, di casa in casa, al mercato: c’era un rapporto molto più diretto, non c’era 21


lo spot televisivo, o scorciatoie tecniche; l’immagine non aveva l’importanza che ha oggi. A.: Questa lontananza del politico dalla gente, questa attenzione odierna all’immagine, dipende dalla mancanza di idee politiche, o da cosa? F.: Dipende da molti fattori. Il primo è certamente il crollo delle ideologie: che è stato un bene, perché le ideologie erano diventate un megafono dell’ufficialità. Mentre si prendeva atto di questo crollo, però, bisognava riaffermare gli ideali, perché le ideologie danno anche il senso dell’orientamento storico. Invece, cadute le ideologie, si sono lasciati cadere anche gli ideali, e sono rimasti in piedi, così, solo gli interessi personali o del piccolo gruppo. E allora la lotta politica è diventata una lotta giocata sullo pseudocarisma dell’immagine21; è diventata una specie di gara sportiva (come farebbe pensare la denominazione di Forza Italia). Insomma, il vuoto lasciato dal crollo delle ideologie, in sé positivo, non è stato riempito da nulla. E qui si inserisce il grande problema che si potrebbe esprimere con questa frase: non la mancanza della rappresentanza democratica politica, ma la scarsa rappresentatività della rappresentanza: la rappresentanza non è più rappresentativa. Forse, bisogna inventare nuovi modi di rappresentanza: la democrazia deve rinnovarsi dall’interno; le democrazie non crollano mai per colpi provenienti dall’esterno: crollano per autoconsunzione morale (come è mia convinzione). A.: Perché ha lasciato la politica? F.: L’ ho lasciata perché non volevo giocare su due tavoli; l’ ho lasciata per coerenza, perché non c’era più acqua pura. Io non ho avuto bisogno di “Mani pulite” per toccare con mano la corruzione: la corruzione c’era già, e come! Non c’era per chi non la voleva vedere.

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