empatia

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Franco Ferrarotti

L’EMPATIA CREATRICE Potere, autorità e formazione umana

ARMANDO EDITORE


Sommario

Avvertenza per il lettore incauto

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1. Prologo

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2. Prolegomeni

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3. La conoscenza sociologica come conoscenza partecipata

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4. La traduzione: mediazione e strumento dell’identità dialogica 121 5. La democrazia: sostanza e procedura

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6. Potere, autorità, formazione umana

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7. Il neo-misticismo nella società massificata

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APPENDICI

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I. On the way to “Creative Empathy”: the concept of truth as a social community enterprise in G.B. Vico’s New Science

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II. Nota sul concetto di libertà in Franco Lombardi

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Avvertenza per il lettore incauto

L’empatia creatrice è il sequitur di L’identità dialogica, una sorta di carburazione interiore dal Fedro a Edith Stein. Ossia: l’altro come problema e come soluzione. So che muoversi verso l’altro vuol dire entrare in terra ignota, incontrare (o sfidare?) il mistero. Ma è il rischio da correre per chi intenda approssimarsi alla verità. Nasco solo. Muoio solo. Posso vivere da solo? Vivere: cioè svilupparmi, crescere. Intanto, espulso dall’utero materno, ho subito bisogno che qualche anima buona mi tagli il cordone ombelicale. Nasco solo. Ma non sono indipendente. Non sono né autonomo né autarchico. Dipendo da fattori esterni. Ho bisogno di cure, di essere intanto lavato. Ma gli altri, che cosa sono? Sono solo un’assenza? O una presenza scomoda? O addirittura un inferno (come riteneva Jean-Paul Sartre)? O possono invece essere il tramite verso l’empatia creatrice, gli interlocutori privilegiati, i compagni con cui rompere insieme il pane? Su un punto non ho dubbi: ci si può sentire «estranei» a se stessi. Che cosa significa? Chi è questo silenzioso ospite che sta dentro di me senza mai esattamente coincidere con me? È la domanda, il questionario, da quaerere. Cerco l’interlocutore, il salvatore, l’inceneritore? Ancora la domanda. Cos’è? Il senso della meraviglia ingenua, gli occhi stralunati del fanciullo. Mi si consenta, senza intenti dissacranti, di parafrasare il Vangelo: «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno della conoscenza». Il presupposto dell’identità dialogica, contro l’identità fissa, dogmatica, è la rinuncia al monopolio esclusivo della verità. Nessuno potrà più dire: «extra ecclesiam (meam) nulla salus». 7


Il presupposto dell’empatia creatrice, contro le chiusure dell’ego intellettualistico, è la partecipazione dell’umano all’umano, l’accettazione della conoscenza impura, il carattere slabbrato, incompiuto della verità intersoggettiva, fondata sul solo sapere concesso agli umani che è il sapere di non sapere. L’empatia non è abbandono (la Gelassenheit heideggeriana) né generica benevolenza. È l’accettazione dell’altro in vista di uno scopo al di là dei singoli, di un autentico télos. Si dice: «Warten Sie einen Augenblick» (aspetti un istante). Ma l’attimo non aspetta. Strano destino, il mio (ma tutti i destini possono dirsi, almeno in parte, strani, cioè imprevedibili). Sono cresciuto, nei primi anni di vita, nella Bassa vercellese a T., ma, anche a causa dei polmoni deboli e gualciti, ho goduto nello stesso tempo dell’aria secca di Sanremo e di Nizza, e degli alti colli liguri, da Badalucco a Ciabaudo, ad Argallo e ai Vignai sulla strada per Bajardo. Sono nato, però, a Palazzolo, lungo il Po e le colline del Monferrato. Ma il luogo non c’è più. Il cascinale detto La Fornace se l’è portato via il Po, in una notte di malumore, straripando. Forse è di lì che comincia il mio intermittente interesse per le radici, ma anche la mia vita raminga, errabonda, tipicamente sradicata. Sono senza patria, e non ho mai avuto il tempo per rimpianti e nostalgie. Il luogo dove sono nato non c’è più. La comunità, sta bene. Non è il Blut und Boden. È il legame interpersonale, l’accettazione del rapporto a faccia a faccia, contro ogni illusione della «realtà virtuale». Un autore, anche il più francescano e il più oblativo degli autori, non è un consolatore. I titoli non dovrebbero ingannare il lettore. Caveat emptor. F. F.

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1. Prologo

Dall’élan vital al rapporto interpersonale Già nel titolo questo libro evoca, per il lettore attento e informato, un altro titolo: quello, famoso, di Henri Bergson, L’évolution créatrice. Una ripresa? O una ripetizione? Non credo. So bene che molte citazioni, anche le più appropriate, sono solo recitazioni. D’altro canto, non si dà tentativo, per quanto originale, che possa trascurare o semplicemente cancellare l’antefatto. Ci si propone di andare oltre. Il teorico della «durata», cioè dell’identità nel cambiamento, il sottile elaboratore delle differenze fra intelligenza e istinto, è ancora figlio del suo tempo. Se non proprio come san Paolo ai piedi di Gamaliele, è ancora immerso nel clima mentale dell’evoluzionismo quale impersonale, cieco processo cumulativo, efficacemente propagandato da quell’«anima di latta» o da quell’«eunuco della filosofia» che, secondo Friedrich Nietzsche e Antonio Labriola, rispondeva al nome di Herbert Spencer. L’evoluzionismo darwiniano, nelle scienze della natura, e quello spenceriano, per le scienze sociali, più che una communis opinio, costituiva all’epoca una vulgata da cui non era agevole né districarsi né tanto meno liberarsi. Si viveva e si pensava al suo interno. Il critico acerrimo del meccanicismo, Henri Bergson, nonostante il proclamato élan vital, è ancora prigioniero o quanto meno tributario del clima dell’evoluzionismo scientistico e biologistico imperante, così pervasivo da contagiare persino l’iconoclasta Friedrich Nietzsche. La coscienza, riteneva il teorico dell’«oltre-uomo», è un 9


organo a sviluppo evolutivo ritardato, quindi incompleto, imperfetto. Per questo non ci si può fidare degli altri. Il livello etico non è uniforme né può dirsi raggiunto in egual misura da tutti. L’etica come tecnica di convivenza civile è un concetto altamente problematico, irregolarmente sviluppato. In La gaia scienza, al paragrafo 352, Nietzsche annota puntigliosamente che la coscienza in generale si è sviluppata soltanto «sotto la pressione del bisogno di comunicazione»; inoltre, che essa è stata all’inizio «necessaria e utile soltanto tra uomo e uomo (in particolare tra colui che comanda e colui che obbedisce), e che soltanto in rapporto al grado di questa utilità si sia inoltre sviluppata. Coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo – solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda non ne avrebbe avuto bisogno»1. È appena il caso di osservare che il paleopositivismo evoluzionistico visse dapprima una sua stagione fiorente in Europa e specialmente in Italia, nella sua forma giuridica con Enrico Ferri e medico-psichiatrica con Cesare Lombroso, per tornare poi, in tempi recenti, con la sociobiologia di Edmund Beecher Wilson, che ha, inaspettatamente, reclutato fra i suoi zeloti, per così dire, studiosi di tutt’altra provenienza (in Italia, fra gli altri, agguerriti analisti sociali come Luciano Gallino e Sabino Acquaviva). Là dove Henri Bergson ancora paga un pesante tributo all’evoluzionismo a sfondo biologistico, che permeava il clima mentale dell’epoca, il dialogo socraticosenofonteo offre invece, a mio parere, la chiave e il mezzo ideale per l’incontro intersoggettivo, premessa essenziale per lo scambio dialogico e l’eventuale accendersi dell’empatia creatrice, a sicura distanza dalle confusioni concettuali di quei socio-biologi cui non risulta chiara la differenza fra mutazione genetica e cambiamento sociale. Nel linguaggio politico quotidiano – quell’incomprensibile, iniziatico linguaggio che si è convenuto di chiamare «politichese» – la parola «dialogo» si è consumata fino al limite del banale. Qualcuno 1

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Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it., Milano, Adelphi, 1986, p. 221.


ha detto che è una parola «malata». È straordinario come i termini della salvezza, in un momento di estremo pericolo, possano presentarsi sotto le mentite spoglie di uno scherzo giullaresco. L’essenziale si nasconde dietro il sipario del ridicolo, procede con l’andatura sghemba dello sciancato. Ciò che è più drammaticamente necessario appare come un’opzione improbabile, forse assurda, comunque non urgente. Il dialogo non ha nulla di dolciastro né di improvvisata approssimazione, malgrado la sua caratteristica casualità. Il dialogo è un duello, un corpo a corpo. Ego e alter sono presenti, si guardano negli occhi. C’è la fisicità, la realtà «reale». Non quel simulacro della realtà che è la realtà «virtuale». Il dià-logos è un «passarsi attraverso», alla lettera un «trapassarsi». Non c’è solo l’idea, il segno. C’è la parola viva, enunciata. C’è la vocalità, la voce, il tono, la «grana della voce». Non è dunque solo un’inter-vista; è un’inter-voce. Naturalmente, è necessario un terreno comune. È il contesto, il quadro in cui l’incontro ha luogo, da cui non è dato fuggire. Ma si comunica anche con il silenzio, con il misterioso, eppure a suo modo esplicito, linguaggio del corpo. Nel linguaggio comune e nei discorsi quotidiani, quando si dice intervista, si pensa all’intervista giornalistica, o radiofonica o televisiva, che per lo più riporta le opinioni di un personaggio a vario titolo ritenuto una sorta di opinion leader, o «opinionista», e come tale degno di venire ascoltato. Ma si tratta, ovviamente, di un’intervista che non presume di attingere il livello critico – di passare, in altre parole, e per usare i concetti classici, dalla dóxa all’epistéme. Da questo tipo, assai comune, di intervista «impressionistica» si passa poi all’intervista sociologica, soprattutto quando si intende la conoscenza sociologica come conoscenza partecipata, nel quadro di un concetto di verità intersoggettiva, e la sociologia stessa come scienza di osservazione, quindi tenuta alla scoperta di evidenze empiriche, ma nello stesso tempo concettualmente orientata, a sicura distanza dal paleo-positivismo a-critico, convinto che i fatti parlino da soli, e dai filosofemi apriorici che approdano regolarmente al delirio solipsistico. 11


In questa prospettiva, che cos’è dunque un’intervista? Ho scritto e pubblicato abbondantemente intorno all’intervista, a cominciare da Sociologia – storia, concetti e metodi (1961) fino al Trattato di sociologia (1968) e al Manuale di sociologia (1986). Ma solo recentemente, riflettendo sulle esperienze di ricerca sul campo, sono stato colpito dal fatto che un’intervista non è mai solo una «vista», o un incontro, come dire?, visivo tra due o più persone. Una intervista, o interview, o entrevue, è essenzialmente una inter-voce, se mi si passa il termine, cioè un inter-loquio. Forse solo la lingua tedesca, con il termine Vorsprache, ritiene il momento della parola. In questo senso, nel corso di un’intervista, non basta vedersi, anche se ha la sua importanza il linguaggio del corpo. Bisogna parlarsi, aprirsi al dialogo, far sentire la propria voce. D’altro canto, l’interloquio ha bisogno, presuppone necessariamente gli interlocutori. Di più: per riuscire autentico e produttivo di verità umane significative, nel corso dell’interloquio, gli interlocutori hanno da essere su un piede di parità. Occorre la comunicazione a due vie, e quindi va fatta cadere la tradizionalizzata asimmetria fra ricercatore e ricercato, fra intervistatore e intervistato. La ricerca diventa una con-ricerca. Da questo punto di vista, emerge un’aporia su cui non si è forse riflettuto abbastanza: la ricerca quantitativa oggettualizza l’intervistando e quindi inevitabilmente lo perde. Lo tiene fermo, lo scarnifica, lo semplifica per poterlo meglio analizzare, forse non immemore del riduzionismo degli economisti classici con il loro homo oeconomicus, senza rendersi conto che con ciò non sta più trattando con la persona, ma con il suo cadavere. D’altro canto, la video-intervista è una scappatoia. Se l’intervista quantitativa, con le sue comode risposte pre-codificate, cioè scontate, oggettualizza l’intervistato, la video-intervista lo smaterializza. Il rapporto perde il suo carattere di contatto vero, nella sua fisicità immediata, non preparata, senza replay, con gesti, respiro, sudore, e così via. Si comprende allora che la conoscenza sociologica è una «conoscenza partecipata», che coinvolge sullo stesso piano ego e alter. L’altro, però, è il mistero, ma di ciò in altra sede. L’intervista qualitativa è un interloquio, che non va scambiato né confuso con il col-loquio. Ho già detto più sopra che 12


è un dialogo, un passarsi «attraverso», letteralmente, un «trapassarsi». Non presuppone un accordo preventivo. Semmai, questo sarà il risultato finale. Inter-vista e inter-voce Un’intervista è dunque, in essenza, un dialogo. In altre parole, l’intervista non è solo inter-vista; è anche inter-voce. Parlando, piuttosto liberamente, se necessario discretamente stimolato dall’intervistatore, e quindi assumendo il suo tono e la sua voce – quella che Roland Barthes chiama «la grana della voce» – il soggetto afferma la propria autonomia2. Prima dell’oralità c’è la vocalità e, per questo tema, rimando il lettore volenteroso al mio Il silenzio della parola (Bari, Dedalo, 2003). In quella sede osservo che si pensa, in generale, alla tradizione come racconto tramandato a voce, e quindi all’oralità. Prima del linguaggio, da intendersi come atto comunicativo all’interno di un sistema di significati e da non confondersi con la lingua come struttura grammaticale e sintattica, ossia prima del linguaggio del corpo e degli enunciati verbali, c’è dunque la voce. La vocalità non va confusa con l’oralità. La voce, ancor prima che racconto esplicito, è potenzialità di espressione, indistinto flusso di vitalità, vale a dire spinta confusa, ancora inarticolata, al voler dire, a prendere la parola, a farsi presenza fisica, corporea. Forse solo chi abbia sofferto un periodo di afasia – bastano pochi giorni – si rende conto dell’importanza cruciale della voce come strumento comunicativo e espressivo. La voce viene prima della parola, del linguaggio e delle lingue. La sua «spiritualità» è in realtà legata al corpo, 2 In un diverso contesto (cfr. specialmente il mio La musica post-moderna ha un cuore antico, Roma, Verso l’arte, 2010), ho notato la differenza fra canto «vivo» e canto «trascritto». Si nota oggi un ritorno alla melodia dopo l’abbuffata dodecafonica; in questo senso, si verifica un recupero del melodramma italiano, vale a dire il ritorno alla voce, al canto fisico, libero, affidato alle imprevedibili doti vocali del singolo cantante, a quei gorgheggi che, considerati capricci gratuiti della vanità di prime donne, influenzeranno Mozart fino a creare i presupposti del sinfonismo classico.

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alla bocca, alle corde vocali, all’alito caldo, al fiato, all’azione del respirare, fondamentale nelle religioni hinduistiche (l’Atman come «respiro cosmico»). Ogni voce ha un suo timbro, la sua «grana», come Roland Barthes ha intuito, vale a dire una sua tonalità, così come ogni oralità ha un suo ritmo, ossia un suo ordine del movimento. Il timbro è l’elemento più naturale. Cambia con il crescere e il mutare del corpo. Si cambia voce entrando nella pubertà (a meno che non si cada vittime del costume settecentesco di evirare imberbi giovanetti a preservarne la voce bianca per cori di musica ecclesiastica o operistica, secondo il rimprovero rivolto alla città di Milano del ’700 dall’abate Giuseppe Parini che la bollava come «lasciva – d’evirati cantori allettatrice»). Il cantare insieme, il greco συνφωνείν, non è da intendersi letteralmente, in latino come symphonia, ma come «concordare» e «concordia», così come nelle lingue romanze o neolatine si notano l’assonanza e forse la comune radice fra cor, cordis, che è il «cuore», e chorda, o corda di uno strumento musicale, ricordando che la cetra dei Greci veniva suonata abbracciandola, e ancora si impone, con la voce, il suo strumento fisico, la bocca (in latino os, oris), come bacio o «piccola bocca», in latino osculum. «Concordare» significa, alla lettera, essere «cuore a cuore», ossia essere «un solo cuore». Ricordo in proposito l’affermazione di Paul Valéry parlando di Mallarmé: «La voix humaine me semble si belle intérieurement, et prise au plus près de sa source, que les diseurs de profession presque toujours me sont insopportables» (P. Valéry, Variétés II, Paris, Gallimard, 1930, p. 177)3. È poi da sottolineare che solo la lingua tedesca mantiene vivo il legame fra Stimme e Stimmung, ossia fra «voce» e «atmosfera, clima intellettuale» di un ambiente. Mi preme qui accennare ad un’altra complessa problematica: il soggetto afferma la propria autonomia assumendo il proprio tono e il timbro della propria voce. Ma è allora evidente che i questionari 3

La voce umana mi sembra interiormente così bella, e presa il più vicino possibile alla sua fonte, che quasi sempre i dicitori di professione mi riescono insopportabili.

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preconfezionati, con le loro risposte pre-codificate, allo scopo di facilitarne in un secondo momento la trattazione statistico-matematica, sono di per sé contraddittori. Si negano mentre si affermano. Scontano le risultanze della ricerca prima di farla. Sono strumenti, più che di comprensione, di dominio e di esclusione. Mentre si propongono e presumono di ascoltare l’altro, in realtà, lo predeterminano, se ne allontanano, lo «oggettualizzano», cioè lo negano. Il tono della voce, la lingua, i termini usati sono la base e la conferma dell’autonomia del soggetto, dell’intervistando. Ma la lingua, il discorso sono doni della comunità. La lingua preesiste all’individuo. Esiste prima di me. Quando io nasco, la lingua esiste già, non è una mia proprietà originaria, personale. Lingua e discorso sono una proprietà collettiva personalizzata. Sono una realtà comunitaria. In essa il soggetto si costituisce e si riconosce. Non solo: nelle domande dell’intervista libera è vero che c’è già, implicitamente e in parte, la risposta. Ma le domande, con risposte pre-codificate dall’intervistatore, impongono necessariamente la risposta all’intervistato, non ne rispettano l’autonomia, ossia l’imprevedibilità. Vedere, guardare un viso è come attendere una domanda. Per i Greci, gli occhi, non il viso, erano fondamentali. Per descrivere Athena, si limitano a chiamarla «glaucopide», dagli occhi azzurri. Il loro verbo essenziale era οράω, «io vedo». Lo troviamo usato da Aristotele all’inizio della Politica. Lo stesso concetto di «idea» e di «immagine» – ειδος, rimanda alla «visione». La radice ιδ anticamente aveva il digamma, la ν (video in latino), che poi il greco classico ha perduto: ιδέα dall’antica v-idea, come «visione». Per i Latini, contrariamente ai Greci, è il viso, la facies, ciò che conta nel rapporto fra uomo e uomo ossia nel contatto, appunto, a «faccia a faccia». «Sfacciato» è chi si rifiuta al «faccia a faccia»; privo di pudore, ma anche di valore soggettivo personale. Il «face-book» televisivo di oggi è la standardizzazione delle facce e quindi, al limite, la loro negazione, come fisionomie irriducibili e irripetibili, non intercambiabili, uniche. Il viso, anche quando si tace, ti parla. In particolare, nel viso riveste un’importanza del tutto speciale la «bocca» = os, oris, da 15


cui l’oralità e, anzi, prima ancora, la vocalità, e nel cui diminutivo cogliamo – lo abbiamo già rilevato – il segno del contatto intimo, l’osculum, la «piccola bocca», il bacio. Se uno ti guarda, sorge spontanea la domanda: «Perché mi guardi? Cosa vuoi?». Nei miei testi didattici, più sopra menzionati, ho descritto i vari tipi di intervista, sottolineando sempre, come caratteristica essenziale dell’intervista sociologica, la presenza del corpo come «residenza del soggetto», dall’intervista libera e non direttiva, quindi informale, a quella formale con questionari da amministrarsi a un campione statistico rappresentativo dell’universo da indagare. Qui vorrei limitarmi a considerare l’importanza dell’intervista per la sociologia in quanto si distingue specialmente dalla storia, ma anche dall’antropologia, sociale o culturale, e dalla psicologia. L’imputazione causale degli storici e lo schema esplicativo condizionale A parte il fatto ben noto che una disciplina, come un individuo o un’istituzione, è ciò che è stata, va riconosciuto che la distinzione fra storia e sociologia trova la sua motivazione profonda nell’intervista. È da tutti risaputo che l’uomo in società è il tema comune per storia e sociologia, l’oggetto su cui fanno convergere le loro ottiche intellettuali. Ma per lo storico il comportamento umano, imprevedibile, e in questo senso creatore o demiurgico nel grande individuo, e insieme ricorrente, nella quotidianità della gente comune, fino a cristallizzarsi eventualmente in istituzione, è analizzato come un unicum, di cui occorre scoprire e fissare le cause. Per lo storico è fondamentale l’imputazione causale, e quindi la storia, sia come historia rerum gestarum sia come storia istituzionale o della «longue durée», tende ad individualizzare, in maniera specifica, i fenomeni. Per la sociologia, invece, la conoscenza e l’eventuale chiarimento (il weberiano erklären), se non la spiegazione dei fatti sociali, fanno perno su una chiave esplicativa non causale, bensì condizionale. In questo senso la sociologia è comparativa e generalizzante. 16


Ma non basta. Lo storico non avanza previsioni; teme per la sua rispettabilità accademica quando si avvicina troppo alla figura del profeta. Per questo si occupa di fatti storici conchiusi e le sue ricerche riguardano la storia già storica, fredda, marmorizzata, a sicura distanza dalla cronaca tumultuante e dalla biografia troppo magmatica. Nella cultura italiana del secolo scorso è nota la lunga, fortunata battaglia di Benedetto Croce contro le previsioni storiche in nome della sovrana libertà del comportamento individuale, e quindi contro la filosofia della storia e i tentativi, da lui bollati come pure fantasie, di previsione sociale. La sociologia è invece la scienza del vivente e l’analisi del presente. A giustificazione degli storici, è chiaro che è piuttosto difficile intervistare i morti. Si possono invece intervistare i contemporanei e non solo i grandi individui, ma anche le persone dette comuni, se non altro in base al principio ragionevole che, per sapere cosa pensi una persona, sarà bene per prima cosa, con tutte le cautele del caso, rivolgerle qualche domanda, intervistarla. L’intervista aperta, libera, non strutturata, anche se «focalizzata», è lo strumento tipico della ricerca sociologica. Ricerca che ricorda il verbo spagnolo yo quero, che vuole dire «ricerco» e «amo» nello stesso tempo e che ci rammenta come, in ogni atto cognitivo, è sempre attivo l’interesse, un’opzione metateorica, la passione, l’intenzionalità. Già in La storia e il quotidiano (Laterza, 1986) credo di aver dimostrato che la crisi dello storicismo non è solo una questione «interna» allo storicismo, che essa non si esaurisce nelle sue aporie intellettuali né nei suoi limiti di ordine latamente culturali. Detto in breve, la crisi dello storicismo corrisponde puntualmente al passaggio dalla concezione dello sviluppo storico come movimento diacronico alla concezione che ne scorge invece il carattere sincronico, orizzontale, planetario, in concomitanza con l’entrata nella storia di popoli e di culture che ne erano fin qui esclusi. Il poeta Derek Walcott, premio Nobel, è l’Omero dei Carabi. La storia diviene ampia, polisemica, polimorfica, polidimensionale «vita storica». Allo scopo di evitare pseudo-soluzioni alla crisi, occorre tuttavia soffermarsi sui limiti intellettuali dello storicismo e sui loro corollari. Esiste infatti il rischio di prendere atto della crisi dello storicismo 17


per dichiarare e frettolosamente stendere il certificato di morte della storia, proclamandone la «fine», in concomitanza con l’esaurirsi della modernità oppure illudendosi di inaugurare l’età dello strutturalismo meta-storico. È invece vero che l’uomo resta un animale essenzialmente storico. Nasce e si sviluppa all’interno di un determinato contesto storico. Non si dà una natura umana fissa e immutabile. Si danno invece comportamenti, variamente reagenti e condizionati da un determinato «orizzonte storico». Ma, per la piena comprensione dello sviluppo storico sincronico, allo storicismo classico, essenzialmente elitario, è necessario che subentri uno storicismo critico, in grado di dar conto della molteplicità dei tempi storici, della pluralità e della convivenza problematica delle culture in un’epoca neo-ecumenica, in cui lo sviluppo dell’elettronica e della telematica rendono possibili la trasmissione e la elaborazione dei dati a distanza in tempo reale. Il sentimento di una «fine della storia», coincidente con la fine del secolo XX, è appunto un sentimento di stanchezza assai più che una elaborazione teorica, una sorta di collasso dopo la tensione straordinaria tipica dello storicismo ottocentesco, che, dominato dall’idea del progresso ineluttabile, ha «consumato» il futuro nello sforzo di afferrarlo e dominarlo. L’«accelerazione storica», di cui scriveva Daniel Halévy nel secolo scorso, ha finito, con un curioso corto circuito, per annientare la storia. Annientamento illusorio. Perché o l’uomo è animale storico o non è nulla, anche se è vero che non si esaurisce tutto nella storia. Per tornare ad essere significativa, la storia ha però da ampliare la sua prospettiva, rinunciare al presupposto elitario che l’ha fin qui definita, legandola all’impostazione eurocentrica come unica fonte del valore, riconoscersi come impresa umana nell’accezione più ampia del termine. La ricerca sociologica ha bisogno della «coscienza storica» per non perdere irrimediabilmente il senso del problema, ma la coscienza storica non può più essere fornita dallo storicismo di vertice o elitario4. 4

Per una interessante premonizione in questo senso, cfr. W. Dilthey, Storia della giovinezza di Hegel e frammenti postumi, tr. it., Napoli, Guida, 1986, passim.

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Le difficoltà, teoretiche e psicologiche, sono vistose. In uno dei suoi ultimi scritti, Rosario Romeo osserva che «l’impostazione del problema della storia che sta a fondamento dello storicismo è assai più avanzata di quella che ha cercato di sostituirla mettendo al centro della sua riflessione l’incontro fra storia (cronaca) e scienze sociali»5. Più avanti, questo autore chiarisce cosa intende: «La storia è e ha da essere “storia politica”, interessata ai grandi problemi del destino dei paesi, da non confondersi con “la moda delle biografie”» (p. 354). Non sembra commuoverlo il fatto che questo ristretto criterio elitistico-dinastico abbia condotto ad una storia settorializzata o, per così dire, «lottizzata». La storia politica o intellettuale, ossia «ideologica», ha portato ad una storia frantumata a seconda delle varie preferenze ideologiche, tanto da avere una storia cattolica, una storia liberaldemocratica, un’altra ancora marxistica, e così via. È andato perduto – è appena necessario rilevare – il senso della globalità, dell’interconnessione e delle mediazioni dell’esperienza sociale. Bisogna riconoscere che Edward Augustus Freeman, morto nel 1892, citato da Arnaldo Momigliano, appare su una posizione più avanzata quando dichiara, all’atto del suo insediamento nella cattedra di storia moderna di Oxford: «Fu da Arnold che io prima imparai che dovrebbe essere al centro e costituire la vita dei nostri studi storici, la verità dell’unità della storia» (cfr. A. Momigliano, Uno storico liberale fautore del Sacro Romano Impero, E. A. Freeman, in «Annali della Scuola normale superiore di Pisa», 1981, p. 312, corsivo mio). Fa una certa impressione sentire proclamare la storia come «un tutto unitario» oltre mezzo secolo prima non solo rispetto ai veti odierni di Rosario Romeo, ma anche prima di Paul Veyne e di Jacques Le Goff o di Fernand Braudel. C’è da temere che siamo ancora fermi, quanto ad elitarismo eurocentrico, alla «preghiera sull’Acropoli» di Ernest Renan (nei deliziosi Souvenirs d’enfance et de jeunesse), se non al provvidenzialismo della «storia universale» di Bossuet – storia universale per 5 Cfr. R. Romeo, “Lo storicismo: eventi e strutture”, in AA.VV., La storiografia

contemporanea, Milano, Il Saggiatore, 1987, p. 350.

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modo di dire, in realtà mediterranea ed europea in cui, come nota correttamente il curatore Jacques Truchet, «i cinesi, per esempio, sono appena menzionati» (cfr. Jacques-Bénigne Bossuet, Discours sur l’histoire universelle, a cura di J. Truchet, Paris, Flarmarion, 1966, p. 17). L’espressione più cristallina e perspicua del presupposto elitario ed eurocentrico dello storicismo è probabilmente da ricercarsi in Lutero e l’idea di storia universale di Leopold von Ranke (cfr. tr. it. Napoli, Guida, 1986). «Se ci fossero gli annali del mondo – scrive Ranke – si saprebbe come la stirpe umana si è diffusa sulla terra, l’ha trasformata in sua proprietà, come ha vissuto e pensato, lottato e sofferto, fino ad arrivare al punto attuale» (p. 197). In altre parole, il punto attuale – la civiltà euro-occidentale – è l’acme della storia umana universale. Più avanti, Ranke ci offre l’idea della «continuità», o della interconnessione, ma secondo la prospettiva dello storicismo classico, vale a dire in senso strettamente diacronico cosicché il susseguente è sempre totalmente (e tautologicamente) giustificato e spiegato dal precedente tanto da accelerare la storia nel senso di un movimento evolutivo ascendente che, per troppo desiderio di progresso e di avvenire, finisce per metterli entrambi a repentaglio e sboccare, di fatto, nella pura e semplice serialità, che è una delle facce della disperazione odierna, o della semplice sequenza temporale, vuota e ripetitiva, nichilistica poiché non più portatrice o creatrice di valori. «Nella storia già da tempo – scrive Ranke – si è cercato di raggiungere e di offrire qualcosa di più alto, la rappresentazione cioè dell’interna connessione, dello sviluppo continuo che sempre collega ciò che precede con ciò che segue, fino a giungere all’idea della ininterrotta perfettibilità…» (p. 204). Ma più avanti, troviamo l’esaltazione del «genio», secondo un modulo carlyliano intorno all’eroe e all’eroico nella storia la cui eco risuona anche, molto distintamente, in Dilthey (cfr. Critica della ragione storica), là dove scrive dell’intuito artistico di Ranke: «Inoltre nell’esistenza umana c’è molto […] a cui non è possibile applicare il concetto di progresso. Ciò è costituito soprattutto dalle produzioni del genio poetico, del sapere intuitivo, dell’arte. […] Il genio, infatti, non dipende dal 20


concetto di umanità, egli ha un rapporto immediato col divino da cui deriva la sua origine» (p. 232, corsivo mio). Sembra chiaro che questa storia elitaria non può aiutare il formarsi della «coscienza storica» di cui la sociologia ha bisogno, contrariamente a quanto sostiene Jacques Le Goff quando scrive, in verità alquanto corrivamente, che «nuovi procedimenti scientifici, quali la psicanalisi, la sociologia, lo strutturalismo spingono […] alla ricerca dell’atemporale, e tentano di evacuare (sic!) il passato» (cfr. J. Le Goff, Storia e memoria, tr. it., Torino, Einaudi, 1977, ed. 1982, p. 181). Resta solo da sperare – o da temere – che l’«evacuazione» riesca bene. L’ampliamento della prospettiva storica comporta certi pericoli di indeterminatezza definitoria – pericoli reali, che però sarebbe vano sperare di esorcizzare o attraverso definizioni dogmatiche e autoritarie di ciò che è storia e di ciò che è scienza sociale in modo da operare congiunzioni «esterne» sul modello di alleanze fra «grandi potenze», per così dire, oppure facendo appello a un’indefinita interdisciplinarietà, che raramente sfugge ad una confusione grossolana di termini e di idee. La caduta del criterio dinastico-elitario significa semplicemente che vengono meno certe cesure fra il racconto storico, da una parte, e le fonti, gli strumenti concettuali e le tecniche di ricerca delle scienze sociali, dall’altra. Un esempio illustre: Arnaldo Momigliano, che aveva sempre e coerentemente fatto valere uno stacco preciso e di merito fra storia e biografia (cfr. A. Momigliano, Lo sviluppo della biografia greca, Torino, Einaudi, 1974, pp. 4-5: «Persino uno storico avveduto ed esperto come Johann Gustav Droysen trovava che fosse difficile riabilitare la biografia. In un memorabile paragrafo della sua Historik distinse tra uomini di cui si possono scrivere biografie e uomini di cui non si possono scrivere. Sarebbe follia tentare di scrivere la biografia di Cesare o di Federico il Grande, che appartengono alla storia. Ma Alcibiade, Cesare Borgia, Mirabeau – «das sind durch und durch biographischen Figuren». In altre parole, l’avventuriero, l’uomo che non ha avuto successo, la figura marginale erano i soggetti adatti alla biografia. J. Burckhardt non sarebbe stato d’accordo») riconosce da ultimo che «la problematica storica non è mai, se non al caso limite, 21


uno studio dei fatti in quanto tali, ma uno studio delle fonti in quanto in un modo o nell’altro ci diano i fatti» (cfr. A. Momigliano, «Storiografia», in Supplemento della Enciclopedia Italiana, Roma, 1978; corsivo mio). Opportunamente, Luciano Canfora osserva (in “Il Manifesto”, 10 settembre 1987): «[…] il mondo che (A. Momigliano) ha sentito con maggiore profondità (è) quello dell’intreccio delle culture (non solo le tre culture guida – ebraica, greca e romana – ma anche iranica), quello della ‘mescolanza’ […] gli intrecci tra mondo politico e dimensione religiosa (sia delle masse che delle élites): le ‘fedi’ degli uomini, non come segno della loro inevitabile ‘follia’ (come in fondo le considerava Gibbon), ma come parte essenziale dell’‘umano, troppo umano’, che è la pasta, la creta, onde è fatta la storia». In questo senso, si recuperano fondamentali dimensioni sincroniche che vengono a chiarire e ad arricchire un racconto storico essenzialmente diacronico: «Lo strutturalismo ci ha acutamente ricordato che la comprensione sincronica è ancora più necessaria dello scrivere storia diacronicamente. […] Lo strutturalismo, certamente, rivela elementi più profondi e più permanenti della nostra natura umana. Ci ha insegnato a cercare nuovi rapporti tra insiemi diacronici e insiemi sincronici di avvenimenti» (cfr. A. Momigliano, «Storicismo rivisitato», in Sui fondamenti della storia antica, Torino, Einaudi, 1984, pp. 459-460). I limiti dello storicismo appaiono anche più evidenti quando il racconto storico si propone di dar conto dei rapporti inter-culturali, ossia dell’incontro fra culture radicalmente differenti e pur tuttavia compresenti e storicamente interagenti. Il limite si fa qui contraddizione: nel momento stesso in cui lo storicismo non può sviluppare il suo racconto senza l’apporto di culture e valori totalmente «altri» rispetto a quelli euro-centrici, esso non è strumentalmente in grado di scorgerli e accettarli nella loro totale, irriducibile autonomia e specificità. Anche all’interno della tradizione euro-centrica insorgono, tuttavia, problemi delicati di definizione e di metodo. Presentando il terzo volume della Storia della vita privata, pubblicato in Italia da Laterza, Georges Duby, curatore insieme con Philippe Ariés della 22


vasta opera, si preoccupava di chiarire l’intento profondo e il carattere decisamente innovativo di questa impresa storiografica. In particolare, è parso che Duby ci tenesse a non confondere il concetto di «vita privata» con quello, a suo giudizio più corrivo, di «vita quotidiana». Nulla di scopertamente polemico nei suoi interventi, ma non è difficile cogliere in essi la risposta a coloro, e specialmente in Italia non sono pochi, che da tempo vanno predicendo e quasi assaporando la crisi della «nuova storia», vale a dire di quella corrente storiografica che non si contenta di raccontare le vicende dei vertici politici e, al più, intellettuali dei vari paesi, ma tende al contrario, facendo perno sulla rivista parigina «Annales» e, fino a pochi anni fa, intorno alla figura autorevole di Fernand Braudel, degno successore di Marc Bloch e di Lucien Febvre, a raccontare anche le evoluzioni delle mentalità e del costume, la storia delle istituzioni, e che si fa quindi storia economica, sociale e della cultura popolare, storia dell’ambiente, del clima e, in una parola, della quotidianità. È curioso che in Italia si critichi, come dato acquisito, ciò che ancora non esiste. Ci si affretta a criticare, a mettere in guardia e a promulgare veti contro la «nuova storia» quando questa, salvo pochi casi, è ben lontana dall’offrire un nutrito insieme di ricerche. Vale la pena ricordare, a proposito della scena culturale italiana, che ancora una volta, poco tempo fa, Furio Diaz, attenta sentinella dei metodi e degli orientamenti della storiografia tradizionale, aveva sommariamente liquidato la «nuova storia» in termini piuttosto sprezzanti: «Esercitazioni, certo scritte suggestivamente, sui modi di vivere, tempi della giornata, mentalità di fronte a morte, malattia, igiene, sesso, matrimonio, regole nella scelta della parentela come espressioni del ritmo demografico di un piccolo paese, facoltà esorcistiche trasmesse di padre in figlio, tendenze ereticali, e così via» (cfr. P. Alatri, Ma fatti più in là, in “Il Messaggero”, 1 ottobre 1987, p. 17). Ciò che più colpisce, invece, nelle parole di Duby, è la consapevolezza dei problemi e delle difficoltà con cui la «nuova storia» deve fare i conti. La storia della vita privata, secondo Duby, non è da confondersi, come abbiamo più sopra accennato, con quella del quotidiano e neppure con la storia dell’intimità. Non riguarda la storia della casa, 23


della famiglia, bensì, semmai, quella del «muro», di ciò che separa gli uni dagli altri all’interno della stessa famiglia. La storia della vita privata è quindi da vedersi piuttosto come la storia del «segreto». Ciò pone ovviamente un problema specifico che riguarda le fonti di informazione. Bisogna aspettare che dal gruppo nasca l’individuo e che questo individuo lasci tracce utili, analizzabili. È solo verso la metà del Trecento, in Italia, che il muro sembra aprirsi e che comincia a farsi strada il concetto, tipicamente borghese, di «privato». Dal punto di vista del metodo, è evidente che qui emerge il problema generale di quanto sia legittimo usare concetti elaborati in un’epoca posteriore, come appunto il concetto di privacy, o riservatezza, per ricerche che investono epoche più antiche. È noto al riguardo, per esempio, che il concetto di «lotta di classe» si adatta male al Medio Evo, ossia ad un’epoca in cui la stratificazione sociale non si fondava sul principio stratificante della proprietà, o della esclusione dalla proprietà, – un principio che doveva più tardi, nell’epoca del capitalismo, dar luogo alle classi sociali in senso proprio, destinate a prendere il posto della frastagliatissima stratificazione degli «onori», «ranghi», «immunità», e così via, dell’età feudale. La storia del privato è invece data dalla descrizione interpretativa del processo di individualizzazione delle norme e dei costumi socio-morali collettivi. Duby propone in proposito di distinguere un privato collettivo e un privato individuale, scorgendo nella convivialità un terreno che si colloca fra la folla e la solitudine e si distingue nello stesso tempo dalla cerchia familiare dei consanguinei. Di una ulteriore dicotomia, quella fra Stato, o «pubblico», e privato, in quanto «particulare», nel senso di Guicciardini, varrebbe la pena di discutere a fondo, specialmente per quelle culture e per quei paesi in cui lo Stato non si è mai posto come presenza forte o addirittura, come invece in Francia, determinante. La vocazione delle culture a Stato debole potrebbe rivelarsi decisiva nel farci scoprire che il significato di «pubblico» è più ricco e va oltre il concetto di «statale» per indicare, al di là delle strutture istituzionali formalmente codificate, il «sociale» nella sua accezione più ampia. Homo quam res publica senior. 24


Dall’osservazione “naturale” all’osservazione scientifica La ricerca del sociologo si differenzia da quella dell’antropologia «sociale», come la chiamano in Inghilterra, oppure «culturale», come viene definita negli Stati Uniti. L’antropologo ha molti meriti; pratica l’antica virtù dei parroci d’una volta, la stabilitas loci. L’antropologo risiede in loco. Scopre, interpreta, rispetta l’altro; convive con l’altro, ma come appartenente a una cultura diversa. Non così il sociologo, che non sembra che sia ancora riuscito a liberarsi dalla Reiselust, dalla passione del viaggiare, tanto che può sempre contare su un alibi perché si trova in ogni luogo in ogni momento. Per il sociologo, in realtà, abbiamo sempre la Cina sotto i piedi. Gli altri, i diversi ci passano sotto casa. Non sono i «primitivi». Sono i vicini. Li vediamo dalle nostre finestre. Abitiamo sullo stesso pianerottolo. Non è necessario andarli a scovare in paesi lontani. Date le barriere linguistiche, insieme con l’intervista, l’antropologo si vede spesso costretto a praticare l’osservazione partecipante. È sempre la storia. Da essa non si evade. Ma è la storia vista dal basso. Per esempio, con le «storie di vita», il processo di industrializzazione, che sta investendo il pianeta, non lo si fa raccontare dai grandi storici o antropologi o sociologi, bensì da coloro che lo stanno vivendo. Da sistema teorico si presenta come esperienza vissuta. Per esempio, come ho osservato in altra sede, mentre non mancano trattazioni di grande respiro – storico ed economico ma anche, se pure in maniera indiretta, sociologico e psicologico-sociale – a proposito del movimento operaio e degli organismi sindacali, sono piuttosto rare le ricerche focalizzate sul mondo degli operai al lavoro e sui comportamenti quotidiani in officina. Lo stesso processo di industrializzazione è stato analizzato dall’alto, da parte di studiosi che raramente avevano esperienza personale del lavoro in fabbrica, quasi mai attraverso le testimonianze di coloro che l’hanno vissuto. Mi permetto di richiamare in proposito la mia ricerca, con la collaborazione di Pietro Crespi, La parola operaia (L’Aquila, Scuola superiore Reiss Romoli, 1995), quella di Alvin W. Gouldner e Ray25


mond Williams (cfr. R. Frazer, Work, 2 voll., New York, Penguin Books, 1968-69) e la raccolta di interviste curata da Studs Terkel (Working, New York, Random House,1990). Non si osserva mai, nelle scienze sociali, solo per osservare. L’osservazione viene fatta avendo in mente un’ipotesi di lavoro da esplorare, da verificare o, come anche si dice, da «falsificare». Se lo studio è impostato con interessi principalmente esplorativi, questa ipotesi viene generalmente formulata in termini sufficientemente vaghi così da permettere di sensibilizzare l’attenzione dell’investigatore su aspetti non anticipati, neppure in via ipotetica. Bronislaw Malinowski, per esempio (B. Malinowski, Crime and Custom in Savage Society, New York, Harcourt, 1926, p. 15. A proposito del metodo clinico dal punto di vista medico, si veda l’ottimo studio di Vito Cagli, Elogio del metodo clinico, Roma, Armando, 2001), era partito dall’ipotesi che l’uomo primitivo non sia legato alle leggi tribali da una acquiescenza automatica e da una sottomissione istintiva, come si era portati a credere ai suoi tempi, ma piuttosto da «complessi stimoli» (inducements) psicologici e sociali, dei quali la moderna antropologia non si era, a suo giudizio, ancora interessata. La sua investigazione quindi è impostata non tanto in funzione del rigetto di una ipotesi generalmente accettata, quanto invece in funzione della verifica di un’ipotesi ad essa alternativa. Essendo però quest’ultima ad un livello di generalizzazione troppo vago e non suscettibile di una verifica diretta, lo scopo della ricerca è necessariamente di natura esplorativa. Questo significa «avvicinarsi ai fatti cui si è interessati con una concezione molto elastica e ampia del problema della ricerca». Non solo, ma la natura stessa dell’ipotesi di partenza è tale da richiedere una certa cautela nella concettualizzazione che deve sovrintendere all’osservazione: «Abituati come siamo a cercare un meccanismo definito di attuazione, amministrazione e osservanza (enactement, administration and enforcement) delle leggi, noi tentiamo di trovare qualcosa di simile nella società primitiva (savage) e, non trovandolo, concludiamo che ogni legge è obbedita perché vi è una misteriosa propensione del selvaggio a farlo» (ivi, p. 16). 26


Per Malinowski occorreva dunque sviluppare la ricerca senza idee preconcette e senza definizioni a priori (ready-made). Ma questa desiderata sensibilità e questo voler partire senza preconcetti e definizioni categoriche non assimila però l’osservazione a scopi esplorativi e descrittivi di tipo qualitativo a quella non scientifica, «naturale» e basata sul senso comune. Intanto, egli dice, occorre avere certe «definizioni minime» di partenza, e poi occorre avere una «mappa mentale» (mental chart), o come si direbbe oggi un «modello», concernente il fenomeno che si sta investigando. In Europa, pioniere in questo campo è Pierre Guillaume Frédéric Le Play (cfr. P.G.F. Le Play, Les ouvriers européens, 2° ed., 6 voll., Tours, Mame, 1877-79). Proponendosi di studiare la vita e le abitudini dei lavoratori europei, durante più di vent’anni di studi e ricerche condotte nella metà del 1800, Le Play soggiornò a lungo come osservatore partecipante presso diverse famiglie operaie. Secondo quanto egli stesso ebbe a dire, «dopo diversi anni di costante sforzo, la mia concezione originale del metodo dell’osservazione, che mi è stato ispirato soltanto dalla ragione e dalla analogia, cominciò a dimostrarsi utile dai risultati che forniva». L’importanza di Le Play come metodologo non è finora stata messa in luce in modo sufficiente. La sua rigorosità metodologica resiste, come quella di Durkheim, all’analisi più serrata dei moderni sociologi, sia per quanto concerne la concettualizzazione e l’operazionalizzazione che per quanto attiene alle tecniche e strumenti di ricerca. Il problema dell’attendibilità dei dati, così fondamentale nella ricerca empirica, è già da lui posto nei suoi termini più chiari e ormai generalmente accettati. I risultati di una ricerca sono attendibili non tanto perché dovuti alla capacità personale del ricercatore, quanto alle caratteristiche proprie del metodo stesso che, se riutilizzato da chiunque lo voglia, non potrà dare che i medesimi risultati: «Il contrasto tra i nostri risultati non può attribuirsi ad alcuna superiorità che io posseggo, piuttosto è spiegabile con le differenze nel metodo che noi abbiamo usato nel nostro lavoro». E più tardi dirà: «Le garanzie di precisione devono essere per quanto possibile inerenti nel metodo stesso». 27


L’impostazione concettuale e la sua operazionalizzazione sono rigorose; ogni assunto è esplicitamente indicato; le ipotesi logicamente derivate; i concetti, anche quelli che sembrano ovvii, come il concetto di «lavoratore», definiti in modo rigoroso, in modo da non consentire fraintendimenti e da essere facilmente reperiti nella realtà fenomenologica. Le Play comincia con lo spiegare perché desidera investigare i lavoratori manuali: «[…] possiamo acquisire una adeguata comprensione dell’ordine sociale prevalente limitando le nostre osservazioni a quella parte delle popolazioni che esercita un lavoro manuale». Poco prima aveva spiegato: «L’organizzazione materiale e morale delle popolazioni lavoratrici e la natura del lavoro che compiono costituiscono uno dei tratti caratteristici dell’ordine sociale». Così, studiando questa parte della popolazione nelle diverse società, Le Play ritiene di poter arrivare ad uno studio comparato dei diversi ordini sociali. Rispetto alla psicologia, soprattutto alla psicologia sociale, la sociologia si differenzia perché non si occupa dell’uomo in quanto individuo, di per sé unico, irripetibile e irriducibile ad altro, bensì dell’uomo in società. Per il sociologo, la società non è costituita da individui, bensì da un sistema o da una rete di ruoli. L’individuo interessa il sociologo in quanto rappresenta ed è portatore o titolare di un ruolo sociale. Oggi, i ruoli traballano, stanno perdendo la loro univocità e quindi la loro autorevolezza. L’intervista aperta, soprattutto l’intervista-guida per la raccolta delle «storie di vita», è lo strumento più produttivo per misurare la crisi dei ruoli. La crisi dei ruoli Questa crisi morde nella sostanza della società. L’inchiesta strutturata su campioni statisticamente rappresentativi non riesce a coglierla nel suo vivo farsi. È infatti una crisi che nasce in gruppi marginali, non campionabili, talvolta numericamente insignificanti oppure penalmente perseguibili e quindi clandestini, come drogati o terroristi, prostitute o immigrati illegali. Questi gruppi pesano 28


tuttavia e condizionano lo sviluppo della convivenza civile. La loro presenza ne denuncia il patto che la fonda. I marginali, gli esclusi, i clandestini ci ricordano che l’oggetto della sociologia non è la sociologia. Sono i problemi sociali nel loro primo sorgere, talvolta come temi di cui ci si vergogna, scomodi, essenziali, tuttavia, per comprendere i movimenti profondi di una società dietro la facciata della saggezza perbenistica convenzionale. L’intervista aperta diventa allora l’unico strumento disponibile. Intervista come inter-voce, inter-loquio e, più ancora, come interazione, rapporto fiduciario e dialogo significativo. Non si confidano i propri Erlebnisse, le proprie personali esperienze di vita, a un registratore; non si risponde a domande che prevedano risposte pre-codificate. La conoscenza si fa auto-coscienza, premessa e condizione di auto-sviluppo. Nasce la «personalità» della persona. L’analisi sociologica esplora e interpreta le circostanze in cui l’individuo eventualmente emerge, le condizioni di fatto cui deve far fronte. Ma l’individuo come prototipo originale e imprevedibile inevitabilmente sfugge ai suoi strumenti tradizionali di ricerca. L’Homo sociologicus appare sospeso fra l’esigenza di relativa standardizzazione a fini scientifici e il timore di perdere l’oggetto stesso della ricerca, vale a dire l’individuo specifico, la sua dimensione fondante, quella fluida indeterminazione che fa di ogni esistenza umana una realtà originale, irripetibile e irriducibile, un unicum. In altri termini, la sociologia non può cogliere scientificamente il singolo se non mediante le sue determinazioni di ruolo così come sono definite e fissate dalla società; Ma la pura e semplice somma dei ruoli giocati dal singolo, la loro ricomposizione, non ci dà l’unitarietà del singolo. Cioè: nel momento in cui studia l’uomo, la sociologia lo raddoppia, ne delinea l’ombra, crea il manichino6. Come modelli convenzionali, i manichini sono indispensabili alla ricerca, a condizione che non vengano scambiati per l’uomo vero, storica6

Cfr. in proposito l’istruttivo scambio polemico fra C. Antoni (La scienza dei manichini, in “Il Mondo”, 17 novembre 1951) e N. Abbagnano (Risposta a Carlo Antoni, in «Quaderni di sociologia», n. 3, 1952).

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mente determinato, a condizione, in altri termini, che non vengano «reificati». Mi pare che sia questo il nodo di problemi intorno a cui Ralf Dahrendorf viene svolgendo una serie di acute, se pur discontinue, riflessioni7. Ciò che fin dagli inizi del discorso lo preoccupa è la possibilità di pseudo-soluzioni variamente legate ad analogie puramente verbali o a metafore più o meno felici. Il termine «ruolo», osserva, non deve indurre a vedere nella individualità che «recita» un ruolo sociale, un uomo non autentico, a cui basta togliersi la maschera per apparire nella sua vera natura. Tra l’homo sociologicus e l’individuo integrale della nostra esperienza esiste una pericolosa e paradossale sproporzione. Che l’uomo sia un essere sociale è più che una metafora, i suoi ruoli sono più di una maschera che si prende o si lascia. Ce n’è a sufficienza per garantire Dahrendorf contro ogni pericolo di risoluzione in termini psicologistici, come tutta una pubblicistica che si richiama ai concetti di ruolo e di processo appare incline a concludere, generalmente in chiave anti-strutturalistica e più sovente in una prospettiva specificatamente anti-marxistica. I fatti della società sono condizionanti perché non ne possiamo prescindere e se il singolo resiste alle sollecitazioni della società, osserva ancora Dahrendorf, può conservare al più una indipendenza astratta e inutile. A mio giudizio perfino una tale indipendenza marginale, nelle condizioni odierne delle società tecnicamente avanzate e a divisione del lavoro spinta, è in pericolo. È fin da ora chiaro che per Dahrendorf due sono i concetti rilevanti per l’insieme dei problemi richiamati: il concetto di posizione e il concetto di ruolo. Nel campo dei rapporti sociali, la posizione indica per Dahrendorf semplicemente un luogo; il ruolo ha invece ben altra importanza in quanto ci fa conoscere il tipo di relazione esistente tra i titolari di certe posizioni e quelli di altre posizioni appartenenti allo stesso campo8. Il tipo di relazione mette in evidenza le pretese 7

Cfr. R. Dahrendorf, Homo sociologicus – Ein Versuch zur Geschichte, Bedeutung und Kritik der Categorie der Soziale Rolle, tr. it., Roma, Armando, 1966. 8 Ivi, p. 35.

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della società nei riguardi del singolo titolare di una data posizione secondo un duplice angolo prospettico: soggettivo (comportamenti di ruolo) e oggettivo, ossia riguardante la sua configurazione esteriore, il suo «carattere» (attributi di ruolo). Come elemento dell’analisi sociologica, il concetto di ruolo presenta tre caratteristiche: a) i ruoli sociali sono posizioni quasi obiettive; b) il loro contenuto non è determinato o mutato da qualche individuo; c) le aspettative di un comportamento legate ai ruoli sono per l’individuo di una obbligatorietà cui non può sottrarsi. Così definito il concetto di ruolo, non stupisce che il problema fondamentale per Dahrehdorf possa esprimersi in questi termini: in primo luogo, come avviene l’incontro fra il singolo e i suoi ruoli precostituiti dalla società? In secondo luogo, come viene garantito, nei confronti del singolo, il carattere obbligatorio delle aspettative di ruolo? In terzo luogo, si può dare per scontato che interessi di ruolo e aspettative di ruolo coincidano? Singulus e Socius Questioni tutt’altro che oziose, e tuttavia non sufficientemente definite con riguardo alla loro collocazione, ambiguamente a mezza strada fra l’intento di elaborare un concetto operativo a fini euristici e l’ambizione tutta filosofica, e come tale assai sospetta e in ogni caso alquanto pesante anche per Dahrendorf, di individuare e specificare un principio di validità universale, l’«atomo» della sociologia. Ora, a parte il fatto che nella fisica anche l’«atomo» è stato a suo tempo «tagliato» e debitamente scisso, mi sembra che il tentativo di Dahrendorf non vada al di là di un salutare caveat metodologico. Quando intende procedere alla fondazione di un concetto sociologico elementare, irriducibile in senso proprio, e ritiene di averlo identificato nella nozione di «ruolo sociale», appunto allora rischia di imboccare il vicolo cieco della contrapposizione vieta e volgare fra singulus e socius, fra norma socialmente precostituita, dalle MussErwartungen alle Soll- Erwantungen e alle Kann-Erwartungen, e «destino», «gusto», «opzione», «valori interiori» del singolo, quasi 31


che l’analisi sociologica non fosse analisi del comportamento osservabile e fosse invece in grado di penetrare nel «mistero» della coscienza interna dell’individuo. Di qui i facili fraintendimenti, dei quali l’Autore dà ampio conto in appendice. Al lettore non specialistico potrà forse riuscire utile, ai fini di una personale valutazione critica di questo contributo, uno sguardo complessivo e necessariamente sommario al concetto sociologico di ruolo. Dahrendorf richiama con molta precisione i contributi di Ralph Linton (1936) e quelli, più recenti, di George C. Homans e Talcott Parsons, di Hans Gerth e C. Wright Mills, di T.H. Harshall, di S.F. Nadel, Chester I. Barnard, a seconda delle particolari esigenze del suo ragionamento che sfocia nella utilizzazione di concetti strutturali-funzionali ai fini della costruzione del suo modello conflittualistico. Ma il concetto di ruolo è fondamentale per almeno tre tendenze della ricerca sociologica che vengono, anche cronologicamente, svolgendosi negli Stati Uniti e in Europa: l’interazione simbolica, come è stata soprattutto elaborata da George Herbert Mead, lo studioso che per i sociologi americani potrebbe agevolmente surrogare Freud, e poi ripresa e sistematicamente presentata da Herbert Blumer come «interazionismo simbolico»; lo strutturalismo funzionale, da Ralph Linton a Robert K. Merton e a Talcott Parsons, teso a spiegare il problema della coesione della convivenza civile non in termini hobbesiani, sebbene richiamandosi alla interiorizzazione delle norme e dei valori socialmente condivisi; infine, il conflittualismo, soprattutto preoccupato di spiegare il cambiamento sociale delle strutture come tali, e non semplicemente all’interno delle strutture, come fanno egregiamente Parsons e discepoli. Si tratta, come risulta chiaro anche da una prima approssimativa esposizione, di tre modelli o schemi analitici che si ricollegano a tre fondamentali concezioni della società e che muovono dal rapporto inter-personale al consenso, che dà luogo ai processi di integrazione, e al conflitto, che si esprime nelle lotte dei gruppi di interesse e nelle misure coercitive. È in questa prospettiva che si chiarisce come il concetto di ruolo sia di straordinaria utilità euristica in quanto: a) impedisce il congelarsi di tali modelli in senso esclusivo e rigidamente 32


alternativo; b) si pone come concetto mediatore fra la persona, intesa come singolo, e la struttura. Come ho avuto in altra sede modo di osservare, l’esigenza metodologica fondamentale per la sociologia odierna è da vedersi nella possibilità di sottrarsi alle impostazioni che teorizzano un’opposizione radicale, sterilmente dicotomica fra il livello socio-psicologico e il livello strutturale. Non riducibile ai requisiti funzionali formali della struttura, ma neppure nello stesso tempo sospeso o dipendente rispetto alle caratteristiche imprevedibili, labili, sociologicamente irrilevanti della condotta strettamente individuale, il ruolo si configura come una fusione di elementi individuali e collettivi, come un denominatore comune e una differenziazione individuale, che rende possibile l’analisi contestuale dell’aspetto formale e dell’aspetto informale di ogni fatto sociale e ogni situazione umana significativa. La nozione di ruolo è dunque tipicamente una nozione mediatrice e corrisponde, fin dalla prima formulazione da parte di George H. Mead, al tentativo di superare le posizioni individualistiche implicite in tutte le teorie sociologiche a fondamento biologico-psicologistico. Essa ci induce a vedere la società non come un assoluto, bensì come un insieme di rapporti sociali determinati. Ossia: la società è data dall’insieme delle parti che gli individui giocano in essa. Gesto, linguaggio, simbolo, significato: la comunicazione interindividuale, che è al fondo della vita sociale, si impernia ed è resa possibile da due operazioni fondamentali, vale a dire dal role-taking e dal role-playing. «Prendere, assumere il ruolo» significa essenzialmente porre se stessi al posto dell’altro in modo da anticiparne la risposta. L’azione individuale diventa sociale in quanto si sviluppa tenendo presenti le possibili reazioni degli altri e cercando di adattarvisi. Ogni rapporto sociale esige infatti, e non è a rigore neppure concepibile altrimenti, un adattamento reciproco; il gesto, risposta ad uno stimolo, viene assunto come segno di gesti futuri, prevedibili; alcune categorie di gesti, seguite da soddisfazione e quindi come mezzi idonei allo sviluppo di una collaborazione inter-individuale. I gesti, così concepiti, nel loro effetto cumulativo, diventano manifestazione e nello stesso tempo causa di atteggiamenti. 33


Individuo, ruolo, comunità Il legame sociale, l’appartenenza comunitaria, o di gruppo, dell’individuo sorge così dal fatto che l’individuo deve in ogni suo atto determinato essere consapevole del significato del suo gesto, anticiparne la risposta suscitata negli altri allo scopo di utilizzarla in vista del controllo della sua condotta; deve, da ultimo, saper comprendere e assumere l’atteggiamento, il ruolo dell’altro, verso il suo gesto. Quando tale comprensione ha luogo, può dirsi iniziata la vera e propria comunicazione umana, ossia può dirsi nato il simbolo significante, per usare la formula di George H. Mead, cioè il contenuto comune necessario ad una comunità di significato. In ciò consiste, secondo Mead, l’intelligenza: «Questo prendere il ruolo e l’atteggiamento dell’altro è non soltanto uno dei vari aspetti o espressioni dell’intelligenza o del comportamento intelligente, ma è la vera essenza del suo carattere»9. Basta guardarci intorno. È un fenomeno che trova già il suo riscontro, al livello più elementare, nel mondo animale. La capacità di «prendere il ruolo» si sviluppa tuttavia specialmente nell’essere umano probabilmente a causa della lunghezza del periodo infantile, la quale consente al bambino di vivere a lungo in rapporto stretto con chi gli appresta le cure necessarie e di richiedere la soddisfazione dei suoi bisogni mediante i gesti, specialmente vocali. Ma il campo in cui il meccanismo del «prendere il ruolo» e la nozione stessa di «ruolo» trovano i maggiori e più validi elementi di conferma, a parte il linguaggio articolato e il gesto, è quello dell’attività di gioco del fanciullo. Il fanciullo gioca ad essere il maestro, la mamma, e così via: ma si tratta di un gioco assai serio, nel quale il fanciullo si mette al posto di queste persone, si «impersona» in esse, ne assume il comportamento tipico. Non si tratta però di semplice imitazione. Mead ha, a questo proposito, chiarito egregiamente la differenza fra gioco come play e gioco come game. Il fanciullo assume successivamen9

Cfr. G.H. Mead, Mind, Self and Society, Chicago, University of Chicago Press, 1934, p. 141, nota.

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te le diverse parti, osserva Mead, ma non le organizza in modo da rappresentare se stesso di fronte alle persone che interpreta. I diversi ruoli restano indipendenti tra di loro. Il fanciullo, d’altro canto, non avendo ancora organizzato il suo mondo di rappresentazioni non sa considerarsi come oggetto, non ha cioè ancora costituito il proprio io, il suo self. In una fase ulteriore, in cui il play diviene più complesso e apre la via all’emergere del game, il fanciullo, in qualche modo, si sdoppia. Se, per esempio, gioca a fare il poliziotto non si limita semplicemente a compiere le funzioni e gli atti di questo personaggio, ma si rivolge a se stesso come maestro, genitore; immagina di giocare con un compagno. Attraverso lo sdoppiamento, nasce una vera e propria struttura organizzata, si pongono le premesse per lo svolgimento di un vero e proprio psicodramma, come più tardi lo definirà Moreno. Ma l’analisi di Mead si fa particolarmente acuta e pertinente allorché passa a considerare il gioco di gruppo. Qui la trama dei ruoli, la loro diversità e specificità diventano evidenti: quando un gruppo di ragazzi «gioca agli indiani», ogni ragazzo ha in sé una serie di stimoli che richiama in lui le risposte che vorrebbe richiamare negli altri. Sulla base della risposta che egli vorrebbe dare a tali stimoli, essi vengono organizzati e si passa così dal play al game, cioè a quel tipo di gioco retto da regole che tutti i partecipanti debbono conoscere e seguire. Le regole del gioco non sono infatti altro che l’espressione dell’organizzazione dei diversi ruoli che ogni partecipante al gioco assume come proprio. Le regole del gioco La differenza fra il play e il game è a questo riguardo significativa: nel game, contrariamente a quanto accade nel play, il ragazzo è pronto ad assumere l’atteggiamento di ogni altro partecipante al gioco e pertanto fra i diversi ruoli si stabilisce una rete di relazioni. Nel play il ragazzo reagisce ad un certo stimolo e la sua reazione è la stessa che è suscitata negli altri; nel game invece ciascun indivi35


duo si colloca al proprio posto e reagisce in modo appropriato alla sua posizione. Quando il fanciullo può agire nella situazione sociale rappresentata dal game e rendersi conto delle regole che la reggono e seguirle, egli è anche in grado di anticipare in se stesso le azioni di ogni altro membro del gruppo e pertanto di regolare la sua condotta in base a tali anticipazioni. In altri termini, il fanciullo colloca allora se stesso come un individuo fra altri individui coinvolti nella stessa attività. Per esempio, in una partita di baseball ogni giocatore deve conoscere le parti, i ruoli degli altri per poter regolare su di essi il proprio comportamento, ossia deve sapere che cosa significhino i gesti e il comportamento di ciascun altro giocatore per essere in grado di giocare con successo la sua parte. Nel game, il ragazzo non trova dunque soltanto il senso del proprio gesto e del proprio ruolo; egli scopre anche gli altri, il senso dell’alterità degli altri, ossia socializza, per così dire, la propria azione anticipando e scontando le reazioni altrui. Queste reazioni, nei termini di Mead, costituiscono nel loro insieme, l’«altro generalizzato» (generalized other), ossia l’espressione esplicita e strutturata delle risposte di tutti i membri del gruppo, l’universalizzazione del processo di «prendere il ruolo», per cui «l’atteggiamento dell’altro generalizzato è l’atteggiamento dell’intera comunità»10. La vita sociale è dunque tutta interpretata e tendenzialmente risolta nell’insieme delle relazioni interpersonali e nei ruoli cui dà luogo. Interpretazione per più di un verso pericolosamente sprotetta rispetto a fondate istanze critiche. In primo luogo, va considerata la critica di Georges Gurvitch: la teoria di Mead a proposito della portata dei ruoli sociali «è profonda sebbene sia ad un tempo esagerata e troppo limitatrice: è esagerata perché riduce tutta la realtà sociale ai ruoli che vi vengono svolti e scambiati ignorandone tutte le altre fondamenta; ed è troppo limitatrice perché prende in considerazione solo i ruoli assunti dagli individui nei “rapporti con l’Altro” e non tiene conto del fatto che questi ruoli e questi rapporti non sono possibili se non sulla base dei Noi, 10

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Cfr. ivi, p. 154.


dei gruppi e degli insiemi, che servono da contesto ad ogni “scambio di ruolo” e svolgono ad un tempo essi stessi dei “ruoli sociali”»11. Ma l’individualismo di Mead aveva già trovato un primo, attento correttore nell’antropologo culturale Ralph Linton, il quale, in collaborazione con Abram Kardiner, arricchisce la nozione di ruolo di tutta una serie di nozioni laterali. Il ruolo viene a collegarsi strettamente con la nozione di «tipo di base di personalità» (o personalité de base, come ha tradotto poco letteralmente M. Dufrenne), con il concetto di status nella doppia accezione di status ascritti e di status acquisiti, a seconda che si tratti di status indipendenti dalla volontà dei singoli oppure invece di status che costituiscono il punto terminale, l’acquisizione, di un’azione dei singoli, e infine si collega con l’idea di pattern o modello di comportamento associato ad una certa posizione nella società. Per questa ragione, la nozione di ruolo, ancora assai grezza in Mead, viene ora dirompendosi secondo una scala di significati, nella quale, partendo dal presupposto che il social status sia complessivamente la situazione attribuita al singolo dai membri del suo gruppo, è possibile distinguere i vari ruoli che corrispondono ai diversi statuses, vale a dire ruoli «dominanti», «superiori», «inferiori», «subalterni», «generali», e così via. Ruolo e istituzioni Il concetto di ruolo viene così configurandosi in tutta la sua ricchezza e con riguardo a tutte le strutture istituzionali. Nell’ambito della famiglia, per esempio, abbiamo i ruoli di genitori, di padre, di madre, di fratello, di sorella, ecc. Ognuno di questi ruoli ha un suo contenuto particolare, implica determinati atteggiamenti (di autorità, di ubbidienza, di superiorità, di subalternità, ecc.), è circondato da un’attesa particolare da parte del gruppo e della comunità, per cui si pone come un fatto vincolante nei riguardi del singolo e lo condizio11

G. Gurvitch, La Vocation actuelle de la sociologie, Paris, Presses Universitaire de France, 1950, p. 66.

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na per ciò che concerne aspetti importanti del suo comportamento. Ogni status ha come corrispondente un determinato tipo di ruolo. In una società essenzialmente statica, come può essere quella contadina o pre-tecnica, prevalgono i ruoli «ascritti», cioè i ruoli legati a condizioni relativamente indipendenti dall’individuo singolo; nella società industriale, mobile e più aperta, prevalgono i ruoli acquisiti, che dipendono dalle doti individuali, dalla competenza tecnica specifica, dalla capacità. Ma tale capacità individuale, per quanto idealizzata, ha un campo di azione ben delimitato. Essa incontra un primo limite nell’attesa di determinati comportamenti che ogni ruolo evoca; un secondo limite è dato dal carattere reciproco dei ruoli, ossia dal fatto che ad ogni ruolo corrisponde un ruolo simmetrico (al ruolo di marito corrisponde il ruolo di moglie; a quello di lavoratore corrisponde il ruolo di datore di lavoro, ecc.). L’azione personale appare così condizionata non solo dalla cornice strutturale-istituzionale che definisce ogni convivenza umana, ma anche, e in maniera più sottile, sia pure meno appariscente, dalle trame dei diversi ruoli sociali e dai quadri di riferimento, dai complessi di valori e, in una parola, dai modelli di comportamento che troviamo al fondo di ogni cultura e dai quali attingono forza e giustificazione i ruoli sociali. Così concepiti, i ruoli sociali costituiscono indubbiamente uno strumento euristico prezioso per il sociologo e si spiega il relativo insuccesso delle critiche, anche le più radicali, avanzate contro la nozione di ruolo. Lo stesso Sorokin che ha severamente criticato gli studiosi cui si deve la formulazione rigorosa e l’uso scientifico di tale nozione (Mead, Znaniecki, Moreno e lo stesso Linton) ha poi in qualche luogo della sua opera12 dato prova di saper valersi di nozioni e di concetti operativi già elaborati da Mead e da altri psicologi sociali, che hanno posto il concetto di ruolo al centro delle loro ricerche. Del resto, la validità di concetti operativi quali quello di ruolo non è da ricercarsi nella rigorosa coerenza interna soltanto, bensì anche nella fecondità dal punto di vista della ricerca sul terreno. 12

Cfr. ad esempio, Society, Culture and Personality, New York, Harper and Row, 1947.

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Da questo punto di vista, il concetto di ruolo ha già subito un collaudo piuttosto severo e i risultati sono stati sostanzialmente positivi. Ricordiamo qui brevemente le ricerche pionieristiche nel campo della sociologia dell’industria e del lavoro condotte da Elton G. Mayo. Come osserva assai acutamente Michael S. Olmsted13, queste ricerche non solo consentirono la scoperta di quel fattore misterioso che faceva salire la produzione globale e la produttività per uomo-ora indipendentemente dalle condizioni fisiche e normatiche di lavoro e che si decise di chiamare, impropriamente, il «fattore umano». I ricercatori scoprirono anche fenomeni di più vasta portata di quanto non parrebbe a prima vista. Studiando dei gruppi di lavoratori piuttosto ristretti e in condizioni predeterminate, essi scoprirono alcuni principi generali dell’organizzazione dei gruppi sociali elementari o gruppi primari, «faccia a faccia», per riprendere la formula di Charles Horton Cooley: a) persone in continuo contatto reciproco come si hanno in un gruppo di operai, tendono a comporre una organizzazione sociale informale, che implica un modello di comportamento «al di fuori» o «al di là» delle uniformità di movimento e di comunicazione necessarie a evitare urti e conseguire il fine. Questo comportamento è una sottile mescolanza di attività palesi, parole, gesti, sentimenti e idee che finiscono per identificare al pari di un distintivo, i «nostri» rispetto agli «altri»; b) un fattore importante in questo organismo sociale informale è un codice di gruppo. Questo codice, almeno nelle sue parti più importanti, non è scritto e può ben darsi che i membri del gruppo non si rendano conto di come esso plasmi il loro comportamento. Esso tuttavia non ha efficacia automatica o universale né opera senza scontrarsi con altre tendenze o pressioni. Per di più, il codice del gruppo primario prescrive le virtù della lealtà di gruppo e dice in effetti: «Sii dei nostri. Gli altri sono tutti testoni»; c) all’interno del gruppo, non tutti si comportano allo stesso 13

Cfr. The Small Group, New York, Random House, 1959.

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modo. Per varie ragioni, avviene una distribuzione delle parti: uno dei membri diventa il pagliaccio del gruppo, l’altro il dirigente; alcuni sono capi e altri seguaci; alcuni hanno parecchio prestigio e altri poco. Nella sala di osservazione di posa dei fili, presso la Western Electric Company di Hawthorne, l’azienda nella quale Elton G. Mayo condusse per dodici anni le ricerche più note, si manifestò chiaramente un fenomeno concomitante: il suddividersi del gruppo in due cricche rivali che differivano per abitudini di lavoro e per posizione sociale. Ruolo, status, creatività Il giudizio complessivo, per quanto riguarda le ricerche di Elton G. Mayo, può variare grandemente, dall’esaltazione fattane, in modo quasi sempre acritico, dagli ambienti industriali che speravano di aver trovato in esse la giustificazione scientifica per le tecniche di trattamento psicologico e di vero e proprio conformismo e asservimento mentale che intendevano applicare nei confronti delle proprie maestranze alle critiche sovente indiscriminate, se non dettate da furore ideologico dottrinario, dei fautori della impostazione strutturalistica. Sta di fatto che la scoperta dell’incidenza e in generale dell’importanza degli aspetti informali e dei rapporti reali nei quali si esprime la vita del piccolo gruppo, con l’assunzione dei ruoli e la divisione delle parti che la contrassegnano, rappresenta un punto fermo per la ricerca sociologica. Ciò risulta evidente dall’esame di numerose ricerche condotte specialmente negli Stati Uniti, ossia in una situazione culturale in cui tradizionalmente forte è stato l’accento sul bisogno di coesione del corpo sociale, costituito storicamente da gruppi etnici e culturali di immigrazione, e quindi fortemente differenziati e nella quale d’altro canto è assai viva la preoccupazione, tutta democratica, della formazione spontanea, dell’organizzazione e della struttura d’autorità nel piccolo gruppo. Si possono ricordare a questo proposito gli studi di Frederic M. Thrasher14 sulle bande di 14

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Cfr. F.M. Thrasher, The Gang, Chicago, University of Chicago Press, 1927.


minorenni nei bassifondi di Chicago. «La banda – scrive Thrasher – è un gruppo primario […] Essa esplica praticamente ogni genere di comportamento di gruppo fino alla più fredda deliberazione e programmazione. Inoltre essa può elaborare tutta una tradizione, quasi una cultura sua propria, e in tale senso è come una società in miniatura»15. La nozione di ruolo, di role-taking e di role-playing è fondamentale per l’analisi dell’organizzazione interna delle bande. «Ogni membro della banda – scrive Thrasher – tende ad avere una sua posizione definita nel gruppo. Le imprese comuni esigono una divisione del lavoro. Per riuscire nella lotta (con altre bande, con la polizia, o con la comunità in genere) ci vuole una guida con una certa dirigenza, magari inavvertita, e di conseguenza vi sarà una certa sottomissione e disciplina da parte dei membri. Via via che la banda sviluppa attività complesse, le posizioni entro ad essa si definiscono e i ruoli sociali si differenziano più nettamente»16. La differenziazione dei ruoli sociali è fattore di efficienza e nello stesso tempo si pone come uno strumento decisivo di controllo da parte del gruppo sulla condotta dei singoli membri. Le osservazioni di Thrasher sono a questo proposito di grande interesse. A suo giudizio, l’unità del gruppo non è un semplice fatto che si possa dare per scontato. Fuorché in circostanze speciali e temporanee, il dominio di un leader non basta a spiegare la coesione della banda. Esiste nella banda una forma di democrazia, per così dire, e il leader deve adattarsi in modo assai preciso ai desideri della banda. Il gruppo possiede un codice comune, una cultura con norme proprie e simboli particolari che contribuiscono al consenso; spesso si viene alle mani allo scopo di sistemare delle divergenze ma anche questo succede secondo le regole contenute nel codice del gruppo. Profonde affinità con il tema principale delle ricerche di Frederic M. Thrasher è possibile trovare nei lavori di William Foot Whyte, specialmente in Street Corner Society, che analizza la funzione della banda nella vita dei ragazzi poveri della comunità italiana di Bo15 16

Ivi, p. 288. Ivi, p. 328.

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ston17. La differenza più notevole è di ordine metodologico. Mentre Thrasher conduceva un’indagine di tipo estensivo, basandosi per lo più su dati di seconda mano (rapporti di polizia e di assistenti sociali e informazioni di ex-membri di bande), Whyte ha svolto un’analisi approfondita di poche bande, alla vita delle quali egli stesso ha partecipato applicando il metodo assai difficile dell’osservazione partecipante. Ciò che colpisce Whyte è la struttura rigidamente gerarchica delle bande, le quali, viste dall’esterno, possono invece dare l’impressione di formazioni anarchicheggianti. Whyte osserva infatti che non solo il gruppo in genere faceva quello che il capo suggeriva, ma ogni membro tendeva a comportarsi in funzione della sua posizione nel gruppo, ossia a seconda del ruolo che aveva assunto. Whyte narra, per esempio, che il punteggio dei ragazzi nel gioco delle bocce non rifletteva solo le loro abilità naturali ma anche il loro rango sociale. Quando un membro molto bravo sfidò un membro a lui superiore a una partita di bocce, altri membri del gruppo esercitarono pressioni di vario genere, con canzonature e altri mezzi psicologici, sullo sfidante per farlo uscire perdente dall’incontro. L’analisi del contenuto del ruolo del leader in termini di comportamento costituisce ancora oggi un contributo di prim’ordine alla ricerca sociologica, soprattutto in quanto chiarisce l’intrecciarsi di aspetti formali e informali, il configurarsi degli schemi di comunicazione fra i membri della stessa banda, i canali attaraverso i quali le istruzioni partono dal vertice e scendono ai «ranghi» inferiori. Nello studio di Whyte la funzione del leader è colta con straordinaria immediatezza: «il leader spende più denaro per i suoi seguaci che non essi per lui. Quanto più in basso si guardi nell’organizzazione tanto più scarsi sono i casi in cui il leader si sente tenuto a dare del denaro ai suoi seguaci […] Il leader evita di farsi degli obblighi nei riguardi dei membri inferiori al gruppo. Il leader costituisce in punto focale nell’organizzazione del suo gruppo. In sua assenza i membri della banda si dividono in tanti piccoli gruppi. Non c’è at17

1943.

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W.F. Whyte, Street Corner Society, Chicago, University of Chicago Press,


tività comune né conversazione generale. Quando il leader appare […] diventa il centro della discussione. Un seguace comincia a dire qualcosa, s’interrompe quando nota che il leader non lo segue, e riprende quando ha ottenuto l’attenzione del leader […] Il leader è colui che agisce quando la situazione lo esige. È più ricco di risorse dei suoi seguaci. I fatti del passato gli hanno mostrato che le sue idee sono giuste. In questo senso ‘giuste’ significa semplicemente che soddisfano i membri. Egli è il più indipendente nel giudicare»18. Le funzioni dei ruoli d’autorità Basandosi sulle risultanze degli studi intorno al piccolo gruppo, ma anche su un ampio materiale storico, Hans Gerth e C. Wright Mills hanno distinto tre funzioni principali dei ruoli d’autorità: a) in primo luogo, la funzione che consiste nella rappresentanza del potere e dei suoi attributi; b) in secondo luogo, la funzione di legittimazione del potere di fatto mediante un’appropriata elaborazione dottrinaria, che tende a razionalizzare, giustificare teoreticamente la situazione di fatto; c) in terzo luogo, infine, la funzione vera e propria dell’esercizio del potere detenuto, ossia il meccanismo dell’adozione della decisione con riguardo alla utilizzazione delle risorse materiali e umane in vista degli scopi da conseguire19. La determinazione dei ruoli d’autorità è importante dunque per renderci conto di come operi concretamente la struttura normativa della società. La prevalenza di ruoli ascritti o di ruoli acquisiti, di ruoli «democratici» o di ruoli autoritari ci può offrire dati significativi intorno a una società, essenziali per comprendere il modo e la dinamica di sviluppo tanto quanto i dati riguardanti la struttura economica, la costituzione giuridica, l’ordinamento politico formale, e così via. Sul piano dell’analisi socio-psicologica, la nozione di ruolo è importante per fissare le caratteristiche dei rapporti interpersonali e la struttura 18

Ivi, p. 253 e ss.

19 Cfr. H. Gerth, C.W. Mills, Character and Social Structure, Londra, Routledge,

1954, p. 413.

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dei gruppi primari. In questo senso, essa è stata soprattutto usata da J.L. Moreno, il fondatore della sociometria, geniale tentativo di misurare, quantitativamente e qualitativamente, le relazioni fra due o più persone in quanto formino un gruppo di socii, ossia individui singoli, i quali entrano in contatto con gli altri membri del gruppo a livelli diversi di libertà o di condizionamento individuali, attraverso la «presa o accettazione del ruolo», che lascia un margine minimo o addirittura inesistente all’iniziativa personale, il «gioco del ruolo», che invece consente un certo grado di autonomia, e la «creazione del ruolo», che concede e, anzi, implica il pieno dispiegarsi dell’iniziativa spontanea dell’attore. È in quest’ultimo caso, secondo Moreno, che l’individuo si realizza nella compiutezza della sua personalità attraverso la «produzione spontanea di se stesso»: «gli aspetti afferrabili di ciò che si chiama “io” appaiono nei ruoli in cui esso opera»20. Analizzando i ruoli, e non solo in quanto siano complementari, ma anche nei loro aspetti di incompatibilità e di contrasto, si giunge a comprendere meglio, secondo Moreno, una determinata cultura in quanto il concetto di «ruolo» si configura come un sistema di riferimento, rispetto all’azione pratica, più duttile, meno astratto o generico dei concetti di «personalità» o di «ego». A giudizio di Moreno, esso si costituisce come un prius pressoché assoluto: «Non sono affatto i ruoli che emergono dall’io, ma l’io che può emergere dai ruoli». Moreno insiste sul carattere pratico, se non rivoluzionario come dice sovente piuttosto enfaticamente, della sociometria. Applicando la teoria della diversità dei ruoli e facendo ricorso al role playing, Moreno sostiene che è fin da ora possibile risolvere i problemi sociali che affliggono la società industriale, favorendo un’adesione più immediata e personale rispetto alle funzioni cristallizzate di una società razionalmente organizzata. Giocare un ruolo, infatti, implica non solo l’accettazione passiva di uno schema di comportamento rigido, ma al contrario, una decisione spontanea dell’individuo il quale si immedesima nel ruolo e lo fa rivivere in maniera personale. 20

Cfr. J.L. Moreno, Who shall survive?, tr. fr., Parigi, Presses Universitaire de France, 1954, pp. 29-34.

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Forse è da vedersi in questa esaltazione del momento della spontaneità creativa dell’individuo l’apporto originale di Moreno, ma anche il limite del suo contributo. Le ricerche sociologiche intorno ai gruppi sociali elementari sembrano concordemente confermare un punto importante, che già Thrasher aveva fissato con riferimento alle bande di minorenni dell’area metropolitana di Chicago: l’obbligatorietà del consenso all’interno del gruppo, ossia la capacità da parte del gruppo come tale di funzionare, nei confronti dell’individuo singolo, come uno strumento di controllo sociale. Nell’indicare i mezzi con cui il gruppo fa valere e mantiene il suo controllo sui membri, Thrasher mette le punizioni fisiche subito dopo la «opinione di gruppo». L’importanza della violenza e della coercizione, materiale o morale, anche al livello dei piccoli gruppi, non va sottovalutata. Da questo punto di vista, gli esperimenti di laboratorio, in quanto si fondano su un presupposto di adesione assolutamente spontanea, rischiano di allontanarsi dalla realtà dei rapporti sociali concreti e di cadere nella trappola del formalismo psicologistico. Torniamo così a Dahrendorf. Non scambiare l’uomo con la sua ombra, lo schema standardizzante con i contenuti storici concreti, l’esperimento di laboratorio sociale con la vita degli individui reali: è un richiamo da non dimenticarsi. È però in Il conflitto sociale nella modernità che Dahrendorf dà la piena misura del suo contributo come ricercatore e pensatore sociale. Con il concetto di entitlement, inteso come il conferimento alle persone di una legittima pretesa sulle cose, si scopre il ritardo di molte politiche assistenziali nelle società tecnicamente progredite. Si rende, per esempio, evidente che la cultura politica che regge le politiche sociali in Italia è ancora inadeguata, limitativa, vecchia. Si fonda sull’idea di assistenza come iniziativa caritativa, espressione di una generosità occasionale, che nella sua stessa discrezionalità mostra il suo volto essenzialmente paternalistico, se non manipolativo. Dahrendorf ne ricava tre temi per la cittadinanza: a) assicurare a tutti i diritti di cittadinanza, inclusiva e non esclusiva; b) eliminazione della povertà e della disoccupazione strutturale; c) una coscienza planetaria per una società. Può darsi, come taluno ha sospettato, che 45


la stessa ricchezza delle vocazioni di Dahrendorf ne abbia deviato l’interesse dalla ricerca teorica alle responsabilità dell’amministrazione e che all’ottimo sociologo sia così subentrato a un certo punto il commissario europeo, nominato a suo tempo Baronetto dalla Regina d’Inghilterra – proprio come i Beatles, non esiteranno a commentare, sottovoce i maligni. Non sono mai venuti meno, però, in lui, l’ansia, il vivo desiderio di un mondo nuovo, un mondo diverso, in cui la quota di sofferenza non strettamente necessaria fosse ridotta al minimo. «Si può dubitare – scrive in quelle mirabili Sei lezioni su un mondo instabile – che già esista un diritto internazionale in senso stretto, un diritto delle genti. Ma gli inizi indubbiamente già esistono. Essi vanno dalla Carta delle Nazioni Unite con relativa “Corte”, agli inizi di un diritto penale internazionale, alle norme che mantengono entro certi limiti il commercio e il traffico di capitali». Che poi le norme siano disattese, violate o semplicemente ignorate, è da attribuirsi a quella hybris originaria che sembra far parte integrante e necessaria della natura proteiforme del capitalismo. Scomparsa l’Unione sovietica, con una rapidità superiore ad ogni ragionevole previsione21; entrati in crisi irreversibile e fondamentalmente riorientati i paesi già detti del «socialismo reale»; entrata nel circuito commerciale mondiale la Repubblica Popolare Cinese, il capitalismo, per almeno tre generazioni e nel prevedibile futuro, non ha alternative. È parte essenziale della sua natura muoversi dinamicamente a sbalzi, fra alta e bassa congiuntura, non a macchia d’olio, bensì a pelle di leopardo.

21 Da me interrogato, in una riunione dell’East-West Institute a Venezia (maggio 1990) circa il modo in cui si era verificato il collasso dell’Unione sovietica, Michail Gorbaciov mi rispondeva testualmente: «Non è stato difficile. Era inevitabile».

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