Guglielmi-Pala

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Marina Guglielmi – Mauro Pala (a cura di)

FRONTIERE CONFINI LIMITI

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione. I limiti, le parole e le cose

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MARINA GUGLIELMI, MAURO PALA

Luoghi, cose, persone

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MASSIMO ARCANGELI

Spazio, luogo, frontiera. Dante e l’orizzonte

37

BERTRAND WESTPHAL

Dante e il pinguino. Sulla linea di Bertrand Westphal

49

GIULIO IACOLI

La letteratura necessaria. Sul confine tra letterature ed evoluzione

57

MICHELE COMETA

Per un’archeologia della biopoetica. Response a Michele Cometa

89

MAURO PALA

Nature et culture dans Tess d’Urberville de Thomas Hardy

97

ELISABETH RALLO-DITCHE

“L’esiliato rientrava nel paese incorrotto”. La terra, il mare, 109 la costa in Mediterraneo, di Eugenio Montale SANDRO MAXIA


Montale o della malinconia. Response a Sandro Maxia

133

MARIA CARLA PAPINI

Trasgressori e assassini di bussole: scrittori sul confine

139

SILVIA ALBERTAZZI

Mappe transizionali in Shadow Lines. Response a Silvia Albertazzi

155

MARINA GUGLIELMI

Frontières du comparatisme

163

ANNE TOMICHE

Les “Frontières du Comparatisme” de Anne Tomiche

179

RADHOUAN BEN AMARA

Confine orientale: di linee, aree e volumi

191

IVAN VERČ

Niente di nuovo sul fronte orientale? Semiosi e struttura profonda del confine triestino. Response a Ivan Verč

211

MATTEO COLOMBI

I confini tra linea di demarcazione e porosità

221

SILVANO TAGLIAGAMBE

Del reale, dell’immaginario, delle rappresentazioni come forma dell’esperienza. Response a Silvano Tagliagambe

245

MARIO DOMENICHELLI

Indice dei nomi

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Introduzione. I limiti, le parole e le cose1 Marina Guglielmi, Mauro Pala

«Deutlichheit ist eine gehörige Verteilung von Licht und Schatten». «La chiarezza è una suddivisione appropriata di luce e ombre»: con questo detto il filosofo prussiano Johann Georg Hamann costruiva sul limite un’intera teoria gnoseologica, aggiungendo alla sua massima “hört!”, ovvero “ascolta!”; la scelta di non raccomandare “osserva!”, ma piuttosto “ascolta!” segnala per Hamann l’accesso ad una seconda fase, successiva alla percezione empirica, quella in cui si introietta, facendone la base di future elaborazioni, la nozione del confine e del limite. Coerentemente, il confine non va visto come una pratica desumibile dal quotidiano, quanto a sostegno di logiche che spiegano e pervadono il quotidiano. In questo nodo-pratica crediamo di poter individuare la ragione prima della scelta tematica per il convegno dell’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia comparata della Letteratura del 2009, tenutosi dal 15 al 17 ottobre a Cagliari. Già il dibattito, nelle riunioni preliminari, si era sostanzialmente sviluppato nel segno della continuità con le precedenti edizioni del convegno (in particolare Oriente Occidente, Napoli 2008), dove la geografia era stata assunta come parametro essenziale per comprendere una qualsiasi forma di rappresentazione, che andrà dunque valutata non in base al quesito “cos’è?” ma piuttosto “come, e in quali condizioni si manifesta?”. Coerentemente con 1 Pur nel confronto e nella stesura congiunta, la parte 1 di questa introduzio-

ne è stata scritta da Marina Guglielmi e la parte 2 da Mauro Pala.

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questa prospettiva ci si è concentrati – e non soltanto in ambito letterario – sull’interazione fra quei poli che Wellek designava come “monumento” e “documento”, identificando quella dialettica tra testo e contesto a partire da elementi come la giunzione e la cesura ovvero, a seconda di come li si osservi, la frontiera e il confine. Le giornate cagliaritane hanno visto susseguirsi sia gli studiosi in gran parte qui presentati sia un importante numero di partecipanti suddivisi all’interno di tre seminari: Geocritica, geopolitica: lo sguardo dell’altro (coordinato da Mario Domenichelli e Marina Polacco), Miti e temi di superamento (coordinato da Clotilde Bertoni e Chiara Lombardi), Scrittura e visioni: passaggi di soglia (coordinato da Massimo Fusillo e Gian Piero Piretto). Tutti gli interventi presentati al convegno sono stati pubblicati nel giugno 2011 sul primo numero di «Between. Rivista dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura» (http://ojs.unica.it/ index.php/between). 1. L’apertura tematica e l’eterogeneità dei discorsi non ha mai obliterato, in questo volume, un comune presupposto critico-teorico: spazio e tempo, correlativi di uno stesso raccontare, si sono intersecati nel pensiero sulle opere e sulle questioni vedendosi attribuiti, ora l’uno ora l’altro, modelli diversi di strategie interpretative dei testi. La ripresa importante dell’elemento spaziale e liminale come possibilità espressiva e dunque interpretativa del fatto letterario è stata decisiva nell’attribuzione di qualità al discorso sulla relazione fra spazio e tempo, a partire dalla definizione di cronotopo letterario di bachtiniana memoria. L’antagonismo fra le due categorie dello spazio e del tempo, che è in realtà più produttivo di quanto si pensi comunemente, è sempre stato – e destinato a rimanere – irrisolto, a causa dell’alternarsi storico e generazionale fra supposte dominanze dell’una o dell’altra. Nella prefazione al volume dedicato, appunto, al tempo e al nesso memoria/oblio, Niccolò Scaffai ribadiva la permanenza delle “scritture del tempo” (autobiografia, autofinzione, etc.) pro8


prio e anche a partire dalla riaffermazione della categoria dello spazio (Scaffai 2004). La misurabilità empirica dello spazio e la convinzione umana della rinnovabile possibilità di dominio su natura, paesaggio e spazio sono state sottoposte a incrinature sostanziali, decisive perché si affermasse invece l’idea di una possibile inafferrabilità – e dunque sempre rinnovabile interpretabilità – proprio dello spazio che circonda e comprende tanto l’esperienza del vissuto umano quanto la sua resa letteraria. Si pensi ad esempio alla rappresentazione beckettiana di spazi sociali come il cilindro descritto nella prosa de Le dépleupleur (1970) (Lo spopolatore): un’umanità scarnificata in corpi silenziosi si aggira in quel misterioso cilindro di cui il narratore ci fornisce coordinate e misure esatte, temperature e luminosità. Il tentativo di delimitare scientificamente la cavità sfugge invece ai personaggi che la abitano, eterni chercheurs che misurano incessantemente lo spazio che li circonda giungendo fino all’estinzione della vita stessa, servendosi unicamente dell’unità di misura del loro corpo e delle loro membra. Misurare iterativamente, senza certezze, quello che apparirebbe come un luogo delimitato e certo, scoperchia una dimensione vissuta dello spazio in cui certezza e dubbio umani convivono cronologicamente nell’atto stesso dell’attraversamento dell’allegorico cilindro (che tutti potrebbe contenerci). Negli ultimi anni si è progressivamente affermata un’attenzione crescente per la geografia letteraria e per i nessi tra letteratura e spazialità, a volte complementare, a volte invece antagonista, alla storia letteraria. Michel Collot, animatore con Julien Knebusch di un progetto di ricerca e di un blog sulle questioni che associano letteratura e spazialità (http://geographielitteraire.hypotheses. org), rimarca come l’interesse della geocritica, della geopoetica e della geografia letteraria per la rappresentazione dello spazio in letteratura non sia altro che una risposta ad una pratica letteraria. Nella letteratura e nell’arte contemporanea genere, tema e forma interagiscono nell’istituzione di un legame con lo spazio, come accade nella Land Art. I due studiosi articolano le ricerche in questo 9


campo su tre assi: la geografia della letteratura, per affrontare il contesto geografico storico e sociale nel quale sono prodotte e diffuse le opere; la geocritica, per rivolgersi allo studio della rappresentazione dello spazio, anche a livello tematico, nei testi letterari, e la geopoetica, indirizzata a mettere al centro le forme e i generi per analizzare il piano stilistico e poetico delle opere in relazione allo spazio. Ma non di solo rapporto con il referente vive lo studio della spazialità nei testi – ove il termine “testi” deve intendersi anche in senso ampio, lotmaniano – non di sola geografia. Certo, gli elementi di frontiere, confini, limiti sono stati assunti soprattutto in relazione ai loro referenti più immediati, più diretti che, però, rimangono spesso incomprensibili se non ci si interroga anche sul senso che acquisiscono per l’osservatore; i testi allora devono essere interpretati tenendo conto del rapporto che istituiscono con i loro referenti; ma i testi sono a loro volta agenti attivi della costruzione del senso di quegli stessi referenti spaziali che solo un pensiero ingenuo può pensare come “obiettivi”. Questa bidirezionalità e reciprocità è stata accolta e assunta dai saggi qui presentati. Ed è proprio l’animatore della teoria geocritica, Bertrand Westphal, ad aprire il volume con una relazione dedicata all’idea di orizzonte. L’indagine etimologica sulla linea fittizia che da una parte separa e dall’altra delimita, si interseca fruttuosamente con il senso escatologico del tendere e del desiderare. Il (geo)critico si concentra sulla geografia e sull’architettura dell’oltretomba dantesco (non estraneo a ricognizioni critiche geografiche, come ricorda Giulio Iacoli nel suo intervento da respondent), per mettere in primo piano l’uso originale del termine “orizzonte” che Dante attua nel Purgatorio. Tematicamente affine, nel suo intervento, a quello di Westphal, Sandro Maxia coglie in Mediterraneo di Eugenio Montale i segni del progressivo avvicinamento e della preparazione del soggetto al mondo naturale del mare, rappresentandolo poeticamente prima come soglia dell’accoglienza nel mondo dell’infanzia, poi come limite invalicabile e problematico nell’età adulta. La contrappo10


sizione liminale tra mare e terra intesa come destino (personale) di scissione fra i due elementi viene sancita in contrapposizione all’ipotesi della scelta etica. La distesa equorea è preludio in Montale alla filosofia del limen, ripercorsa qui sia nel poeta ligure sia in altri autori. L’ossimoro montaliano del mare fisso e diverso, messo in evidenza da Maxia, è sottolineato dalla respondent Maria Carla Papini come possibile trait d’union con un’affinità tematicoespressiva di Michelstaedter (ma anche di Ungaretti), nell’esito tuttavia opposto in questi ultimi del recupero possibile di una pur labile o effimera armonia e salvezza esistenziale. Nell’intervento di Elisabeth Rallo Ditche il testo di Tess è il terreno per una lettura tesa a ripristinare il valore del pensiero animista in Thomas Hardy. Mettendo in evidenza i passaggi narrativi in cui prevale la descrizione della simbiosi fra mondo naturale e personaggi, l’autrice del saggio indaga le modalità con cui Hardy da una parte costruisce un ruolo narrativo agli esseri non umani che popolano il romanzo, e dall’altra disegna la relazione fra questi e la sua eroina. Su questo nesso complesso e frastagliato fra natura e cultura si era soffermato, durante la giornata del convegno cagliaritano, anche il respondent Daniele Giglioli evidenziando come, nelle scene romanzesche in cui è preda del sonno, Tess diventi significativamente – come un animale caduto in una trappola – anche preda di uomini che la “agiscono” senza che ne abbia coscienza (la scena dello stupro nel bosco e la scena finale a Stonehenge). Su tale crinale narrativo si fronteggiano da una parte l’elemento istintuale della protagonista, dall’altra la componente culturale (e maschile) della dominanza del sesso e della legge. Su questo stesso limine natura/cultura interviene però anche l’atto che riporta il “personaggio di natura” Tess a una scelta sul versante della cultura: la vendetta e l’assassinio. Anne Tomiche ha riportato l’attenzione sull’oggetto, la cosa: la letteratura cosiddetta europea o mondiale o generale e la sua relazione, al di là della definizione, con gli spazi geografico-culturali. Se l’Europa sia un’ideale comunità letteraria (l’idea di una letteratura europea, appunto) oppure un insieme di frontiere che 11


segnano comunità letterarie differenti è da lungo tempo un cruccio della comparatistica. Il passaggio dall’idea goethiana e romantica di Weltliteratur come superamento dei nazionalismi ma, al tempo stesso, ripiegamento sull’eurocentrismo, alla concezione di una letteratura mondiale ha visto susseguirsi nel tempo diverse posizioni critiche nei confronti del “dominio” e colonialismo europeo. La questione liminale si pone in questo caso come paradigma di inclusione o esclusione canonica delle diverse produzioni letterarie del mondo, ma anche come confronto ideale e auspicabile fra fenomeni letterari (come il modernismo) troppo a lungo interpretati sotto il ristretto cono di luce delle letterature europee. La difficile equazione fra i tre termini di letteratura mondiale, europea e comparata ripropone gli elementi di riflessione cui molti comparatisti hanno dedicato ampia bibliografia, fra quali Erich Auerbach che negli anni Cinquanta, riconoscendo il dono prezioso della lingua, della cultura e della nazione che ognuno riceve, dichiarava che «solo separandosene e superandole queste divengono efficaci» (Auerbach 1984: 121). 2. Le accezioni comprese sotto le “parole chiave” di frontiera, confine e limite negli interventi di questo volume sono dunque molteplici, a riprova di una loro spiccata produttività: si va da una connotazione geopolitica ad una squisitamente teorico-ermeneutica. Ma ciò che accomuna campi così disparati è la funzione del limite, il quale, oltre a dividere, si fa catalizzatore di ciò che Edward Soja (Soja 2000: 11) designa, rifacendosi a Bhabha (Bhabha 1990: 207), come “third space”, ovvero un fattore che trascende, pur compendiandole, le circostanze in cui un’opera si manifesta. Capire le condizioni in cui una certa espressione si attua e riuscire ad andare oltre significa per Soja attivare un potenziale critico, ovvero immaginare un’altra dimensione – terza appunto – da cui ricostruire un intero processo, sociale ed estetico insieme, e comprendere così sia un singolo fenomeno che un’intera fase sociale. Immaginare partendo dal limite: si tratta in fondo della “suddi12


visione appropriata” auspicata da Hamann, il punto di partenza per superare quella che Raymond Williams prima e Bourdieu poi denunciavano rispettivamente come la “coscienza divisa di arte e società” (Williams 1976: 28) e la tendenza “purista” dell’estetica (Bourdieu 2004: 492); ricapitolare la connotazione materiale del limite non per appiattirsi su questa fase, ma per seguire le associazioni simboliche cui limiti e frontiere danno vita. In questo senso abbiamo assistito nell’ultimo trentennio alla progressiva dissoluzione dei confini nelle “città senza porte”, dove «l’immediatezza dell’ubiquità conduce all’atopia dell’interfaccia unica» (Virilio 1988: 15), e dove dunque lo spazio come insieme di differenti ubicazioni viene annichilito dalla tecnologia. Parallelamente, in un tragico processo inverso, i confini fra comunità, Stati e continenti sono andati irrigidendosi secondo discriminanti razziali ed economiche, con un continuo ricorso all’“eccezione” (Agamben 1995) che, diventando nella prassi regola giuridica, ha finito per sancire la discontinuità dello spazio e del diritto. Evidente la valenza immediatamente etica cui rinviano anche le espressioni artistiche incentrate o anche solo pertinenti alla nozione di confine. Eppure, in questa fase, proprio la capacità di avvicinarsi al margine e trasformarlo in qualcosa d’altro diventa un’esperienza di apprendimento indispensabile per «conoscere quali relazioni di prossimità, che tipo di circolazione, di approvvigionamento, di classificazione degli elementi umani deve essere considerato primariamente in questa o quella situazione per conseguire un certo fine» (Foucault 2001: 21). In un’epoca in cui lo spazio si offre sotto quelle che Foucault qualifica come “relazioni di dislocazione” diventa ancora più urgente accettare di vivere la liminarità. In questo spirito si colloca l’esortazione di Silvia Albertazzi a concepire la scrittura come atto di confine, ovvero come capacità di mettersi in gioco, consapevoli, anche sulla scia di Salman Rushdie, che siamo «condannati a vagare criticamente, emotivamente, politicamente… appassionatamente – in un mondo caratterizzato da un eccesso di senso che, se da una parte offre la possibilità di significato, dall’altra continua a sfuggirci» (Chambers 1995: 22). 13


La narrativa è la qualità che consente di attribuire senso alla condizione contemporanea, e questa operazione dovrebbe porsi come obiettivo quello di superare confini basati su un pensiero unico omologante, quello stesso che produce gli scontri di civiltà di Huntington o la fine della storia di Fukuyama; al contrario, la linea lungo la quale si dovrebbe muovere l’odierna comparatistica è quella di «mettere in comunicazione tutte le culture del mondo» e, allo stesso tempo, «mettere a fuoco la relazione fra letteratura e mondo, secondo l’unità infinita della reciprocità» (Gnisci 1998: 25). Questa direzione era già esplicita nell’idea, affermatasi negli anni Ottanta, di un sistema interpretativo che coesistesse e interagisse con chi se ne serve, creando uno «spazio fluido di alleanze trasversali rispetto alle nozioni di classe e famiglia» (Bernheimer 1995: 12). È così originata una comparatistica attenta non solo ai luoghi – lo spazio fluido – ma alle metafore produttive che ai luoghi vengono associate, una disciplina che nella sua fase postcanonica e post-Wellek ha privilegiato «una poetica del frammento, una resistenza totalizzante alla totalità» (Saussy 2006: X). Questa fase ha coinciso, a livello globale, con una esplosione dei confini, sistematicamente analizzata in un’affatto inquietante rassegna da Massimo Arcangeli. Una diagnosi, attraverso “parole chiave”, del «rischio percepito della globalizzazione come dominio di un cosiddetto pensiero unico, uscito apparentemente trionfante dalla sconfitta del socialismo reale» (Della Porta - Mosca 2003: 11). Si parte dalla crescente incapacità da parte degli Stati nazionali di assicurare un livello di benessere soddisfacente nell’ambito dei rispettivi confini, a causa dell’erosione della propria giurisdizione che gli Stati oggigiorno subiscono, ad opera di movimenti regionalistici da un lato ed entità sopranazionali sempre più potenti e pervasive dall’altro. Intanto, anche sulla spinta emotiva dell’11 settembre, l’affermarsi di spazi sempre più condivisibili anche nella progettazione urbana ha conosciuto un’improvvisa e preoccupante inversione di tendenza: dai muri della Cisgiordania ai blocchi di cemento che proteggono potenziali obiettivi sensibili 14


in caso di attentato, si è assistito al ritrarsi dell’architettura in una dimensione chiusa e protetta, come, nella prassi di tutti i giorni, quella dei centri commerciali che si negano all’interazione con la polis, e tutto ciò per timore dell’imprevedibilità insita nell’esperienza genuinamente politica. Il flusso dei migranti è percepito come una di queste minacce in quanto insidia l’inviolabilità del confine, dove questo è inteso come limite comune, separazione fra spazi contigui, ma soprattutto sanzione della proprietà su un luogo. In questo caso tutti gli spazi coinvolti da un lato o l’altro del confine sono potenzialmente fruibili per quei processi simbolici attraverso i quali si costituisce una comunità, immaginandola «come insieme limitata e sovrana» (Anderson 1996: 25). Il confine diventa frontiera, ovvero spazio ultimo, invalicabile, quando non si limita a separare ambiti diversi, ma ne sottolinea l’opposizione; la frontiera, però, a differenza del confine, è instabile, mobile, allude ad un’aspirazione, uno slancio invece congelato dal confine. La distinzione fra “border” e “frontier” tende ad indebolirsi quando si vuole designare un territorio di frontiera che resta nei limiti del confine: ad esempio, l’idea di “Mark” nella lingua tedesca designava aree che, seppure sulla frontiera, restavano all’interno della zona di pertinenza dell’etnia teutonica. Abbiamo così passato in rassegna diverse variazioni sul tema del confine, e tutte rientrano in quel racconto del confine orientale italiano ad opera di Ivan Verč, dove alla cangiante conformazione geopolitica si somma la variabile temporale: per riassumere dunque non solo ciò che questo confine rappresenta, ma anche ciò che ha rappresentato e come esso si potrebbe configurare in futuro. La storia del confine orientale, nella sua asciutta oggettività, è un esempio di decostruzione dell’idea di confine; oltre che un’esposizione esemplare delle aberrazioni che hanno accompagnato la nascita e l’affermazione del nazionalismo moderno, considerato nella sua doppia natura, già teorizzata da Renan, di ricettacolo di memoria e costruzione di consenso. Il primo aspetto di questo dualismo è ovviamente statico, mentre il secondo, indispensabile 15


all’attivazione del primo, è dinamico, ma fino a un certo punto. Oltre questo punto (il cui superamento può essere determinato, ad esempio, da un crollo del consenso) il carattere violentemente ambiguo del confine, come funzione sia della soglia (un accesso) che del contenimento (un limite) finisce per collassare, lasciando emergere la nazione come «formazione discorsiva: non una semplice allegoria o una visione immaginativa, ma una ricca struttura politica» (Brennan 1997: 99). Per cogliere l’immediata pertinenza di questi contributi al vaglio della letteratura oggi è sufficiente ricordare l’importanza del fattore nazionale nell’economia del fenomeno – letteratura, ma anche arte, cinema, musica – postcoloniale, oltre che il nesso sempre più stretto che i cultural studies hanno stabilito, producendo un’ampia rassegna di revisioni storiche e storiografiche, tra l’idea di “nation-ness” e i concetti di “folklore”, “tradizione” o “comunità”, senza dimenticare la genealogia che accomuna nazione e sistemi di comunicazione di massa, a cominciare dalla stampa e, soprattutto, dal romanzo. Leggere un romanzo e percepire l’idea, spiccatamente dialogica, di identità nazionale che esso comunica significa partecipare ad un meccanismo di consenso o a un movimento egemonico dal basso, come ben aveva intuito Gramsci nella sua diagnosi dell’assenza di un carattere nazional popolare nella letteratura italiana. «I romanzi esercitano una potente influenza […] proprio perché sono privi di una sanzione ufficiale. La loro autorità deriva dai lettori e non dagli apparati culturali dello stato» (Parrinder 2006: 9). Processi identitari, pratiche egemoniche iscritte nelle formidabili potenzialità della letteratura ci conducono ad una dimensione che, oltre che metanarrativa, contiene un importante insegnamento epistemologico. In questo senso, la translucidità esplorata da Silvano Tagliagambe si costituisce come nesso fra il reale e l’immaginario a partire dall’intuizione delle forme, senza la chiara percezione dei contorni. Un’ipotesi che rende attuale una vivace discussione sulla modernità suscitata da Benjamin a proposito del vetro dell’international style; lo stile modernista in architettura, 16


caratterizzato dalla sintesi asettica di vetro e acciaio, rappresenterebbe per Benjamin la liquidazione programmatica delle condizioni stesse dell’esperienza, in quanto il suo fine esplicito consisterebbe nel rendere impossibile il lasciar tracce. Ma il vetro, nella prospettiva di Loos e Scheerbart, non è solo perdita di aura: esso «porta il suo attacco all’idea stessa di interno, opponendosi così a un’idea di possesso inalienabile». Nella chiosa di Cacciari «il vetro dilata l’interno in una lunga pausa, in un indugio sofferto. In quest’indugio riflette se stesso nella sua differenza e fa riflettere su un possibile luogo dell’esperienza, su un suo possibile non ancora» (Cacciari 1980: 129). Ancora un confine, in questo caso spazio-temporale, il quale – come precisa Mario Domenichelli in veste di respondent –, mette letteralmente in luce il reale nella sua fase di trapasso al simbolico; traducendo la translucidità dell’esperienza postulata da Florenskij nell’idea opaca di diaframma, consapevolezza di una soglia – per usare un termine benjaminiano – che non esclude il contatto, ma lo problematizza proprio in limine. E la scrittura, intesa come interrogazione lacaniana dello spazio ermeneutico, diviene il luogo in cui “il pensiero si scardina”, ovvero la realtà dell’oltre (lo jenseits) riuscirà a risuonare dal simbolo alla coscienza attraverso «una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente». Nel suo suggestivo intervento, Tagliagambe allude all’alterità e all’“ulteriorità”. In questo segno si colloca l’appello di Michele Cometa per un’apertura agli stimoli della biopoetica, coniugata non secondo le mode statunitensi, ma riassorbita e rielaborata all’interno di un dibattito stratificato in area esistenzialista, da Husserl, ad Heidegger, per approdare a Paci. E valorizzare in tal modo, nel riconoscimento di costanti intersoggettive, le intuizioni foucaultiane sviluppate nell’antropologia italiana da De Martino, che vedeva l’emergere della natura nella cultura «in quanto fedeltà immediata a iniziative di generazioni passate, o del nostro passato e di quanto vi si lega attraverso la nostra biografia culturale» (De Martino 1977: 648). Tale «rinegoziazione di categorie apparentemente ontologiche come natura e cultura» (Cometa 2010: 17


186), a partire da abitudini che definiscono la nostra socialità nel quotidiano non escluderebbe, ma anzi spingerebbe, a partire dalle intuizioni di Raymond Williams nella categoria di «structure of feeling», ad una «etnologizzazione delle arti» (De Certeau 2001: 109), e con essa una valorizzazione della dimensione integrale del corpo. Più in generale, su questo umanesimo materialista a tutto tondo, antidoto alle generalizzazioni della globalizzazione, si profila anche la sfida della comparatistica contemporanea, sempre più radicata nel materiale attraverso una fruttuosa contaminazione interdisciplinare in cui il paradigma si apre ad approcci – ben presenti in questa breve rassegna, dal postcoloniale agli studi culturali – diversificati, flessibili, ma sempre politici, e che trovano nella teoria quel «discorso, nel senso antico e classico del termine, che significava “vedere, far vedere” o “contemplare” (theorein)» (De Certeau 2001: 118). Per l’appunto, una ripartizione appropriata di luce ed ombre.

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Luoghi, cose, persone Massimo Arcangeli

Approfitto del titolo di questo volume per sviluppare una serie di brevi riflessioni sul concetto di elemento separatore, nella sua spendibilità a diversi livelli, sottostante ai tre poli tematici fissati: frontiere, confini, limiti. Lo farò attraverso altrettante scelte lessicali: luoghi, cose, persone.

Luoghi I nuovi scenari di guerra introdotti dal planetario “scontro di civiltà” hanno messo in ombra i vecchi, ben delimitati contrasti tra gli Stati nazionali, sorti in seno alla civiltà umanistico-rinascimentale con la nascita dei primi, concreti esempi di monarchie sovrane (Francia, Spagna, Inghilterra): a farne le spese da una parte i poteri locali, dall’altra quelli sovranazionali rappresentati dall’autorità papale e imperiale, dai vari ordini religiosi e cavallereschi (come i Templari e i Cavalieri del Santo Sepolcro), dalla Lega Anseatica, quasi una multinazionale ante litteram (Dollinger 1964). Il processo sembra avere invertito da un po’ di anni la sua direzione di marcia. Una questione scottante come la difesa e la salvaguardia dell’ecosistema, cui non si può certo chiedere di coincidere con la porzione geografica su cui si esercita l’autorità politica di un Paese, non potendo essere affrontata singolarmente dai vari Stati, «mette in questione l’ambito di validità del diritto […]. Poiché 21


l’ecosistema non rispecchia l’ambito territoriale della sovranità statale, richiede al contempo un’autorità mondiale e un’autorità locale» (Viola 1996: 162). A minare le basi del diritto vigente in molti Paesi sovrani sono anche i richiami “dal basso” a una revisione dei sistemi giuridici nazionali perché tengano conto, nella gestione delle dinamiche di conflitto, delle grandi trasformazioni sociali nel frattempo intervenute. Nell’aprile 2002 la Commissione Europea, nel Libro Verde relativo ai modi alternativi di risoluzione delle controversie in materia civile e commerciale, ha riassunto il senso di un insieme di istituti giuridici fondati su principi come la negoziazione, l’arbitraggio, la conciliazione. Riunite sotto il titolo di ADR (Alternative Dispute Resolutions) o MARC (Modes Alternatifs de Résolution des Conflits), esse costituiscono un «intreccio di tradizione e soluzioni innovative» (Sassu 2009: 312) le quali, scavalcando o oltrepassando le leggi ufficiali, suggeriscono paralleli con le pratiche consuetudinarie tipiche delle società fondate sulla trasmissione orale del diritto (cfr. Gulliver 1979; Engle Merry 1982; Foddai 2003). A essere minacciata è l’idea stessa di una cittadinanza concepita all’interno della compagine statale. Di qui i numerosi inviti ad abbandonarla o a “ripensarla”, prendendo atto che a quell’idea dovrebbero subentrarne altre più al passo coi tempi e con le nuove concezioni di spazio territoriale. C’è chi ne ha elencate ben sei; alla cittadinanza culturale, ecologica e delle minoranze (cultural, ecological e minority citizenship) si aggiungono la cittadinanza di chi si riconosce nei valori e nei principi del cosmopolitismo (cosmopolitan citizenship), di chi difende i propri diritti di consumatore (consumer citizenship), di chi viaggia o si sposta da un Paese all’altro per vari motivi (mobility citizenship): There are a wide variety of citizenships developing in the contemporary world. These include first, cultural citizenship involving the right of all social groups (ethnic, gender, sexual, age) to full cultural participation within their society […]. Second, minority citizenship involving the rights to enter another society and then 22


to remain within that society and to receive appropriate rights and duties […]. Third, ecological citizenship is concerned with the rights and responsibilities of the citizen of the earth […]. Fourth, there is cosmopolitan citizenship concerned with how people may develop an orientation to other citizens, societies and cultures across the globe […]. Fifth, consumer citizenship concerned with the rights of people to be provided with appropriate goods, services and information by both the private and public sectors […]. Finally, there is mobility citizenship concerned with the rights and responsibilities of visitors to other places and other cultures (Urry 1990: 167).

Tutte forme extraterritoriali di cittadinanza che sono espressione di diritti universali1, ma palesano, nel contempo, diritti dei singoli. È un po’ come durante l’Alto Medioevo, quando del diritto, più che la territorialità, vigeva piuttosto la personalità; il rischio, già ben visibile all’orizzonte, è la svendita della tutela dei diritti individuali per una «concezione del diritto, orientata e particolare, fondata sulla preminenza dei diritti di libertà privata e sull’intangibilità di impresa e di scambio» (Croce 2008: 195). Le moderne nazioni, sempre più strette nella morsa di crisi, problemi, conflittualità che prescindono in molti casi dai loro confini, sono ripetutamente fiaccate anche da resistenze localistiche e spinte secessionistiche. Le polarizzazioni, per quanto è dei conflitti (o dei confronti), si muovono sempre più spesso, in Europa e nel mondo, lungo le direttrici dello spostamento della scena di rappresentazione dalle frontiere nazionali ai limiti micro-geografici dei premoderni luoghi fisici o sociali disseminati all’interno della compagine statale; dalle gabbie dorate per ricchi a quella specie di enclaves che sono diventati molti quartieri etnici di metropoli, e città di varia grandezza. Da una parte, oltre ai quartieri-ghetto in cui si concentrano numerose, nel Vecchio Continente e altrove, 1

Cfr. van Steenbergen 1994, Held 1995/1999, Stevenson 1997, Yuval-Davis 1997, Richardson 1998, Rifkin 2004.

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le comunità di immigrati, la protesta sociale che esplode violenta negli ambienti metropolitani e l’affiorare del preoccupante fenomeno sociale delle Fagin gangs, come sono chiamate a Londra, dal nome dell’odioso sfruttatore scolpito da Charles Dickens in Oliver Twist, le sempre più numerose e agguerrite bande di borseggiatori bambini, soprattutto romeni, venduti a gente senza scrupoli e ridotti in schiavitù (come quelli allevati nell’antica Roma dai nutricatores) prima di essere avviati al crimine. Dall’altra le gated communities di megalopoli asiatiche e americane, Bombay e Calcutta, Manila e Buenos Aires, San Paolo e Rio de Janeiro, Lima e Città del Messico (come i ricchi residenti nella centralissima Zona dell’omonimo film di Rodrigo Plá), rinserrate in quartieri-fortezza che sembrano rispolverare le cittadelle fortificate medievali e cominciano a modificare anche il panorama urbano europeo: alte mura di protezione, provviste di filo spinato e sorvegliate dall’occhio vigile di telecamere o guardie private (armate fino ai denti), proteggono i ricchi residenti da un territorio urbano colmo di insidie, abbandonato al degrado, affollato di vagabondi e questuanti, prostitute e ladruncoli. Un fenomeno che ci fa riandare con la memoria all’“incastellamento”, studiato magistralmente da Pierre Toubert per l’Italia medievale (Toubert 1973/1995): la straordinaria proliferazione in ampie aree dell’Europa occidentale, fra il IX e il X secolo, di luoghi fortificati. Testimonianza «di una normale delega dall’alto», il trasferimento di fatto ai signori locali, con la crisi dell’impero carolingio, dell’esercizio della legge, o effetto della generale insicurezza sociale provocata dalle invasioni di ungari, saraceni e normanni, i nuovi “castelli” dichiaravano in ogni caso un chiaro scopo difensivo: «spesso poco più di grezzi recinti di legno, iniziarono ben presto ad esercitare la propria forza di attrazione sulla popolazione circostante, determinando profondi mutamenti nell’habitat rurale e divenendo il centro di potere delle “nuove” signorie territoriali» (Leprai); i contadini, già a partire dal VII secolo, cominciano a stanziarsi sulle aree collinari, in villaggi ben protetti e internamente organizzati, e l’“incellulamento” (Fossier 1968) può così proseguire nella sua inarrestabile marcia. 24


In un articolo sul “New York Times” un critico di architettura, Nicolai Ouroussoff, ha mostrato i segni tangibili delle trasformazioni subite dal paesaggio, urbano e non urbano, all’indomani della tragedia dell’11 settembre (Ouroussoff 2007). Se fino a pochi anni prima gli architetti sembravano assolutamente convinti che la globalizzazione e l’apporto delle nuove tecnologie in campo informatico ed edilizio avrebbero aperto definitivamente la strada alla “fluidità” e alla “trasparenza” ambientali, osservava il giornalista, il crollo delle Torri Gemelle ha fatto registrare una decisa inversione di tendenza. Sponsorizzate dagli attentati terroristici, e dalle paci “armate” nei luoghi caldi del pianeta, si sono riaffacciate prepotenti la cultura e l’ideologia del muro e i suoi degni simulacri: le lastre alte 12 piedi della Green Zone di Baghdad2, la cittadella fortificata che recinta l’ambasciata americana, le Nazioni Unite e alcune sedi istituzionali irachene e che il governo di Nuri al Maliki ha annunciato di voler smantellare entro l’anno; il muro di otto metri e mezzo eretto ad Abu Dis, un serpentone di cemento e filo spinato, lungo centinaia di chilometri, che divide Cisgiordania e Israele; le barriere protettive, anch’esse costruite in cemento, che cingono l’ambasciata americana nello storico quartiere londinese di Grosvenor Square; le colonnine di sbarramento al traffico allineate davanti alle grandi sedi aziendali in Park Avenue a Manhattan; le panchine e i tubi ricurvi in acciaio disseminati sulla piazza antistante il quartier generale del Distretto 7 del Caltrans (il Dipartimento dei Trasporti californiano) a Los Angeles, progettato e realizzato dalla Morphosis di Thom Mayne, che ha l’aspetto di una fortezza minacciosamente incombente sul visitatore. La percezione di insicurezza che induce alla costruzione di bunker abitativi, e di “muri mentali” (Ash 2004/2005), finisce anche per spingere chi vive in città, sempre più luogo di (auto)segregazione, verso le nuove “cattedrali” del consumo (Ritzer 1999/2000): i grandi centri commerciali. Rassicuranti spazi comunitari, garantiti contro i conflitti e igienizzati, nei quali è assai comodo ricono2

Cfr. Chandrasekaran 2006.

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scersi e ritrovare una parvenza di identità, potenti epifanie della possibilità di convertire idolatricamente in merce qualunque cosa, sono spesso collocati ai margini degli agglomerati urbani, come un tempo le fabbriche. Luoghi di autentico “pellegrinaggio”, in cui consumare tutto il tempo libero disponibile senza mai socializzare, assumono talvolta l’aspetto di antichi borghi o cittadelle in cui fare acquisti o andare al cinema, divertirsi ai videogiochi, al bowling o al biliardo, assistere a un concerto o a un altro evento, passeggiare avanti e indietro dopo aver parcheggiato i bambini al “recinto” dei giochi. Un tempo si consumava quel che si produceva a caro prezzo (umano e sociale) nelle grandi fabbriche, oggi si produce a poco prezzo – in termini economici, magari con la delocalizzazione – quel che, prima ancora, si è provveduto a far sì che altri si sentano indotti a consumare. Quel tempo libero che non molti anni fa si pensava sarebbe stato sempre più speso in rilassanti attività ricreative, disinteressate e “gratuite”, ad assecondare le occupazioni preferite dall’homo ludens (Huizinga 1938/1946), si è trasformato per la maggior parte delle persone in tempo di altra, costosa produzione: che è come dire dalla padella della catena di montaggio alla brace della catena di consumo.

Cose La natura dei luoghi geografici è quella dei solidi; la natura di una rete elettronica di link, punti nevralgici e apolari di un ininterrotto, oceanico passaggio di informazioni in entrata e in uscita, richiama piuttosto le proprietà dei fluidi. Essa riflette assai bene la modernità “adiaforica” e “liquida” nella descrizione di Bauman (2000/2002), che si insinua casualmente nel tessuto sociale e ne intride le fibre; e la materia liquida evoca subito termini come ibridazione, instabilità, mescolanza. Tre parole-chiave che definiscono meglio di altre la complessità e la vischiosità, l’anomia e la forte tensione “anormativa”, il collasso di sistemi, comportamenti e linguaggi di questi ultimi anni; tre parole che, in ultima analisi, 26


abbattono limiti e confini. Mi limito a una rapida carrellata sui numerosi coinvolgimenti della prima. L’ibridazione tocca ormai un po’ tutto: i generi disciplinari (quelli letterari come quelli diffusi dalla cosiddetta neo-televisione), le scuole di pensiero e le correnti religiose, le logiche di comunicazione e schieramento politico, l’organizzazione sociale e i sistemi culturali. Ultimi ma non ultimi: a) il settore dell’informazione, specialmente il comparto della stampa periodica, con le sempre più fitte intersezioni fra giornalismo e pubblicità (Altamore 2008: 187), e i giornali distribuiti attraverso la rete, dove «sfuma la differenza tra agenzie, quotidiani e settimanali, categorie legate ai tradizionali sistemi di distribuzione» (Pedemonte 1998); b) l’apparato economico-finanziario; con la fiction economy (Carmagnola 2006), che riesce a «spiegare come un piano marketing e un’arguzia retorica possano tradursi l’uno nell’altra all’interno di una medesima strategia discorsiva: quella della marca» (Marrone 2007:); con l’eterogeneità introdotta dalle attività “per conto terzi”: produttive, come le sempre più frequenti esternalizzazioni (outsourcing); speculative, come il sistema di “transazioni fittizie” (Moi 2004) che ha impedito di inchiodare alle loro responsabilità, nei disastrosi effetti a catena dei prestiti a rischio, i nuovi megaerogatori del credito; c) il settore dell’alimentazione, con la forte crescita numerica (specialmente negli Stati Uniti) del popolo dei flexitarians; né vegani né vegetariani, consumano carne e pesce non più di due volte alla settimana e si affidano ciecamente ai consigli della fondatrice del metodo, la dietologa Dawn Jackson Blatner, e al suo vendutissimo manuale: The Flexitarian Diet3; 3

Cfr. http://www.almostvegetarian.blogspot.com.

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d) il campo tecnologico e scientifico, con le sue scommesse, i suoi investimenti, le sue rapide trasformazioni e la “risposta” della natura forzata, aggredita, violata. Perché il “salto” dei virus animali alla nostra specie, registrato nel 1997 con il primo caso di influenza aviaria trasmessa a un essere umano, un bambino di Hong Kong di tre anni (ma di passaggi analoghi potrebbero essercene stati anche prima), è di fatto una mutazione a cui potrebbero seguirne molte altre di ben diversa portata. Perché gli scienziati non sono più organizzati come una volta in comunità compatte e impermeabili al mondo esterno: pressati dalla politica, legati a doppio filo al mondo finanziario e aziendale, condizionati dall’opinione pubblica, devono rendere costantemente conto a tutti questi soggetti del proprio operato. Perché i tanti forum virtuali che trattano di scienza, da qualcuno definiti proprio ibridi, mettono in contatto la comunità scientifica con varie associazioni di non addetti ai lavori che hanno qualcosa da insegnare ai loro esponenti sulle ricadute e implicazioni sociali, per esempio, di una data malattia (Fabbri 2006). Perché si è ormai fatto realtà l’«amalgama di carne, di silicio, di metalli e di ossa» che è l’uomo bionico, un tempo protagonista di una nota serie fantascientifica televisiva: «una prestigiosa rivista medica predice che alla fine di questo Ventunesimo secolo saremo quasi tutti […] pluritrapiantati, non soltanto per sopperire alle carenze dei nostri organi, ma anche per aumentare le capacità delle funzioni già esistenti» (Bodei 2006: 98); e) l’ambiente virtuale, con l’ennesima “sindrome cinese” che ha richiamato qualche tempo fa l’attenzione dei giornali americani ed europei: la distruzione via Internet della reputazione altrui «che inizia in forma di notizia casuale con nomi di fantasia, e gradatamente si solidifica come una diffamatoria maschera di ferro intorno a una persona fisica accusata di qualcosa di grave, che diventa oggetto dell’immenso “mobbing” a cui può dar luogo la rete […] [;] una sindrome rivelatrice di effetti collaterali ancora non notati della vita in cui virtuale e reale e dunque fittizio, vero e verosimile, 28


facilmente si incrociano dando luogo a un genere ibrido di finzione (fiction) e notizia, finora mai conosciuto» (Colombo 2007); f) l’industria editoriale, con il self publishing: lanciato nel 2002 da http://lulu.com, è approdato in Italia per iniziativa dello stesso sito, ultimamente affiancato da uno analogo del Gruppo L’Espresso (http://www.ilmiolibro.it) arricchito dalla presenza di una vivace community di appassionati di lettura. Si tratta di una forma particolare di vendita on demand, ormai in grado di soddisfare un’ampia serie di richieste d’acquisto, da una borsa griffata a un’automobile, per un mercato sempre più a misura di consumatore. È lo stesso autore a scegliere liberamente formato, impaginazione, grafica, tipo di carta, copertina della sua creatura (un saggio, un romanzo, una raccolta di poesie, un libro di ricette…), che può pubblicizzare e distribuire come meglio crede e di cui decide liberamente prezzo e tiratura. Si vuole una sola copia, stampata gelosamente per sé (copertina morbida, formato tascabile), di un racconto di una quarantina di pagine rimasto troppo a lungo in un cassetto? L’impresa è fattibile: il contributo richiesto all’utente italiano, fissato dai due siti indicati, è dell’ordine di una manciata di euro. Da non dimenticare, per la centralità della questione nella teoria e nella prassi contaminatoria, il coinvolgimento di sistemi e comportamenti di scrittura e di varietà linguistiche. Che i vari dialetti italiani, ribattezzati per questo neodialetti, si stiano in molti casi imbastardendo (quelli metropolitani, in parte, “bastardi” lo sono già) è un dato incontestabile; che l’inglese, la nuova lingua veicolare mondiale, abbia ultimamente acquistato posizioni scendendo spesso a patti con le lingue incontrate è un altro dato incontestabile: dal japlish al chinglish, dall’englog (l’inglese parlato nelle Filippine) al taglish (che mescola inglese e tagalog), dallo spanglish al globish di un fortunato libro di un esperto di marketing internazionale, il francese Jean-Paul Nerrière (2004), è ormai tutto un fiorire di designazioni il cui comune denominatore è la presa d’atto di una sostanziale ibridazione. 29


Persone Sono termini centrali della semiotica più avvertita dinamismo e relazionalità. Una semiotica che «ha da tempo abbandonato il segno come specifico ed esclusivo oggetto di indagine, preoccupandosi semmai di studiare la significazione, ossia quelle forme significanti che, sottostando al segno come unità di superficie, permettono la produzione e la circolazione del senso umano e sociale. Già da tempo la semiotica si occupa di tutti quei fenomeni (narratività, passioni, forme di vita, discorsività, enunciazione, contratti comunicativi, testualità e intertestualità, traduzione, etc.) che trascendono e al tempo stesso fondano l’esistenza del segno, e che […] sono anch’essi, ben più del segno, di stretta pertinenza del processo complessivo del branding» (Marrone 2007: 255 e ss.). Il discorso di marca, quindi, come sistema dinamico di relazioni che sostituiscono ai vecchi segni “isolati” e “autonomi” dello strutturalismo «elementi testuali che, collegandosi fra loro in un insieme coerente di senso, si caratterizzano per essere la punta dell’iceberg di un flusso discorsivo e una narratività soggiacenti» (ivi: 256). Chiamata in causa da questo discorso, inevitabilmente, anche l’identità della marca, che si configura a sua volta come relazionale: gli esperti d’economia e di marketing, di sociologia dei consumi o di comunicazione pubblicitaria […] ritengono che la semiotica debba occuparsi degli aspetti cosiddetti “immateriali” della marca, dunque di quegli svariati fenomeni simbolici, immaginari, narrativi etc. che essa promana; laddove invece il core “materiale” di essa, il suo hardware razionale ed economico, resterebbe di pertinenza di chi si occupa di cose concrete e pratiche, di beni e servizi reali, di denaro insomma. L’attuale prospettiva teorica degli studi semiotici supera però questo genere di aprioristiche distinzioni fra economia e comunicazione, funzionale e simbolico, reale e immaginario, hardware e software, contesti produttivi concreti e testi fittizi che metonimicamente li rappresentano. E lo fa in nome 30


dell’idea (costitutiva della disciplina) secondo la quale i segni, i linguaggi, i testi, i discorsi sono per loro natura modi socioculturali diversi di mettere in relazione significanti e significati, espressioni e contenuti, forme e sostanze, dunque cose e idee, materie e pensieri, corpi e cognizioni, economia e simboli, facendoli in tal modo sussistere come tali (ivi: 4).

Anche nel pensiero antropologico attuale la teoria dell’identità concede molto più che in passato all’ipotesi del mutamento e della trasformazione e fonda anzi in molti casi proprio sull’identità “di flusso”, piuttosto che su quella “strutturale”, le sue teorie più convincenti e affascinanti. L’identità: è spesso (quasi inevitabilmente) concepita come qualcosa che ha a che fare con il tempo, ma anche, e soprattutto, come qualcosa che si sottrae al mutamento, che si salva dal tempo. L’identità di una persona, di un “Io”, è considerata come una struttura psichica, come un “ciò che rimane” al di là del fluire delle vicende e delle circostanze, degli atteggiamenti e degli avvenimenti, e questo rimanere non è visto come una categoria residuale, bensì come il nocciolo duro, il fondamento perenne e rassicurante della vita individuale. A pensarci bene, non è rigorosamente necessaria la stabilità perché si possa parlare di identità: la stabilità aiuta a identificare; ma più importanti sono i contorni, le delimitazioni e – proseguendo su questo piano – le denominazioni (Remotti 20054: 4).

Nelle scienze umane nel loro complesso ormai «tende a imporsi sempre più l’idea secondo cui gli esseri umani non possono essere intesi come entità isolate che soltanto successivamente, e per così dire gradatamente, scoprono la vita sociale (con i suoi vantaggi e con i suoi ostacoli). È significativo che anche una disciplina come la psicoanalisi, dedita per vocazione all’analisi della psiche individuale, abbia rinunciato, almeno in certi suoi rappresentanti [i relazionalisti], all’impostazione freudiana» (ivi: 13). Lo scrittore gerosolimitano Amos Oz, affrontando i temi scottanti del 31


fanatismo religioso e del sanguinoso conflitto tra israeliani e palestinesi, ci ha restituito indirettamente, in una assai bella immagine, una delle migliori definizioni di identità: nessun uomo e nessuna donna è un’isola, siamo invece tutti penisole, per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla tradizione e al paese e alla nazione e al sesso e alla lingua e a molte altre cose. Mentre l’altra metà chiede di essere lasciata sola, di fronte all’oceano. Credo che ci si debba lasciare il diritto di restare penisole. Ogni sistema sociale e politico che trasforma noi in un’isola darwiniana e il resto del mondo in un nemico o un rivale, è un mostro. Ma al tempo stesso ogni sistema sociale, politico e ideologico che ambisce a fare di ognuno di noi null’altro che una molecola di terraferma, non è meno aberrante. La condizione di penisola è quella congeniale al genere umano. È quello che siamo e che meritiamo di essere. Così, in un certo senso, in ogni casa, famiglia, in ogni relazione umana, stabiliamo un contatto con un certo numero di penisole, e faremmo meglio a rammentare tutto questo, prima di tentare di foggiare l’altro, di farlo voltare e pretendere che imbocchi la nostra strada quando invece ha bisogno di trovarsi di fronte all’oceano, per un certo tempo. Ciò vale per gruppi sociali e culture e civiltà e nazioni […]. Nessuno […] è un’isola e nessuno […] potrà mai amalgamarsi completamente con l’altro. […]. [L]’immaginare l’altro, il riconoscere la nostra comune natura di penisole possono rappresentare una parziale difesa dal gene fanatico, che tutti abbiamo insito in noi (Oz 2002/2004: 54 e ss.)

È il tramonto di ogni opposizione, di ogni bipolarismo, di ogni geografia di luoghi distinti. È la fine dell’io e dell’altro e l’ascesa dell’io che è anche un altro. Un modo per superare quella «logica del discreto […] che nel logos strutturale funzionava in relazione a una visione statica dello scarto» (Benoist 2003: 301). Esso aiuta a considerare differenze e scarti, identitari o di altro genere, come limiti (nel senso matematico del termine), poli ideali di uno dei 32


tanti tragitti “discorsivi” possibili, scorporabili dagli oggetti delle loro applicazioni e ricollegabili fra di loro in modi sempre diversi lungo itinerari sempre nuovi. Si svela così, di quegli oggetti, la sintassi piuttosto che la semantica. Alla visione statica ed essenzialista dell’io sono io e a quella speculare ed antagonistica, ma ugualmente discreta, del rimbaudiano io è un altro, subentra la visione dinamica e probabilistica dell’io è anche un altro, in cui l’identità cessa alfine di essere ídion senza però annullarsi nel koinón; dando così l’impressione di muoversi senza posa, scivolosa e incerta, tra il sé e l’esterno da sé. A cadere, alla fine, è il più resistente e insidioso fra tutti i limiti, tutti i confini, tutte le frontiere possibili: quello che divide le persone.

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