Mirabella

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Michele Mirabella

LO SPETTATORE VITRUVIANO Appunti per migliori visioni

Con un contributo di Luca Zanchi

ARMANDO EDITORE


Sommario

PARTE PRIMA: QUANT’È GRANDE LA CITTÀ Apologo con elefante 1. Ab urbe condita 2. L’orlo del futuro 3. Il villaggio è piccolo e la gente mormora 4. Qui ci vorrebbe un tecnico 5. Il foro, l’agorà, la piazza e i labirinti PARTE SECONDA: LA PIÙ BELLA DEL VILLAGGIO Favola con specchio 1. Il Senato e il popolo globale 2. Grida, gridi e altre urla 3. Guerra dei mondi e mondi in guerra 4. Il Grande Fratello ha una telecamera puntata alla nostra tempia 5. Una bella giornata: Dio fa la pubblicità subliminale 6. La gente e la “ggente”. Forse Italia 7. Cesare va in onda al foro 8. Guerra e pace e TV 9. Ti darò la Luna

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PARTE TERZA: EMERODROMO 2.0 di LUCA ZANCHI Elefanti, spettatori e messaggeri 1. Nulla si distrugge, tutto si trasforma. Quasi sempre 2. In principio era Napster 3. Prosumer beta

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LO SPETTATORE VITRUVIANO

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PARTE PRIMA QUANT’È GRANDE LA CITTÀ


Apologo con elefante

Nel Canone buddista Pāli, ma si può leggere anche nel corpus aneddotico e sentenzioso di altre religioni, si narra di un re dell’India che riunì tutti i ciechi dalla nascita del suo reame per avere da loro una descrizione dell’elefante. Furono fatti accomodare nel serraglio e furono liberi di toccare il paziente bestione. Ogni cieco diede la sua versione a seconda della parte dell’animale che aveva potuto esaminare e, sprovvisto della categoria di “elefantità”, lo descrisse mettendo in relazione le proprie sensazioni e percezioni con i ricordi della sua personale esperienza. Ci fu chi disse che somigliava ad un pestello, per via del fatto che gli aveva tastato la coda, un altro riconobbe una scopa da un ciuffo di peli, un altro lo paragonò ad una colonna, per avergli accarezzato una zampa, un altro riferì, avendogli toccato le spaziose terga, che era un mortaio, l’ennesimo affermò che sembrava l’asse di un aratro, dopo avergli palpato la proboscide. Forse quel re dell’India, dopo i resoconti dei ciechi, trasse due conseguenze: la prima dovette essere una riflessione sulla relatività della percezione e la seconda, probabilmente, sulla mole dell’elefante. Qual è il significato della parabola? Se addomestichiamo la comunicazione nella metafora dell’elefante, per cominciare a studiarla è necessario evitare i punti di vista parziali e limitati: le carezze, i massaggi e i pizzichi dei ciechi che raccontano scope, pestelli e colonne. È indispensabile la visione d’insieme, quello sguardo della logica che ci costringe alla valutazione, alla descrizione per noi stessi che è la condizione decisiva per definire l’idea che potremo comunicare con una adeguata informazione. 9


Un messaggio, per essere recepito, deve prevedere sufficienti strumenti di conoscenza in comune fra chi lo emana e chi lo riceve. Un’immagine artificiale, non, cioè, l’aspetto naturale delle cose che percepiamo, è decifrabile se è stata concepita e realizzata secondo un sistema di segni comune a chi elabora il messaggio ed al suo destinatario. In questo caso, conosciamo in quanto riconosciamo secondo le nostre convenzioni e le nostre precedenti esperienze che costituiscono il repertorio conoscitivo a cui facciamo riferimento ogni volta che percepiamo una realtà o un concetto. È l’esperienza che ci guida, quindi, non le idee innate. Un messaggio non è solo detto o scritto nelle parole di una lingua o segnalato in un codice, ma è presente in tutto ciò che in natura ci circonda: tutti gli esseri viventi, in quanto tali, intenzionalmente o no, comunicano, perché non c’è vita senza comunicazione. Una quantità di messaggi può essere di proposito diretta non a noi come interlocutori prescelti, ma ad altri percettori, quelli naturalmente coinvolti in cicli biologici, legati a necessità socio-economiche, alle pulsioni fondamentali per la prosecuzione della specie. Il fiorire di un gelsomino nella sua primavera ha un significato preciso, indiscutibile per l’ape fecondatrice avida di polline e un bouquet di altri significati per una fanciulla destinataria di un omaggio floreale. È prerogativa dell’essere umano farsi interlocutore dei diversi ambiti della comunicazione, capace di decifrarne i codici, constatarne l’efficacia e armonizzarli con la propria storia. Ad ispirare il mito fondativo della Creazione può esserci, pertanto, lo scenario archetipo dell’assegnazione del Creato alla giurisdizione di una coppia di esseri umani intatti dal peccato e inermi, ma capaci di dare nomi alle rose ed intendere il canto degli uccelli. A peccato di superbia commesso, tutto sarà più difficile e faticoso: solo all’arte il mitografo anonimo attribuirà la capacità di comunicare supremamente con la natura tutta e Orfeo1, girovago e musico, emozionerà col suo canto tutto il Creato. Compresi gli elefanti indiani. 1

La rilettura del prezioso epillio virgiliano nel IV libro delle Georgiche (vv. 453527) trasmette al mondo moderno la tragica vicenda del cantore tracio.

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Un messaggio, trasmesso senza servirsi dei media, ma con gli strumenti empirici della natura, comporta esiguità del rapporto fra mittente e destinatario. L’amplificazione del messaggio, al contrario, è una possibilità caratteristica della massmedialità. Lo sforzo dell’umanità nella sua storia è sempre stato quello di concepire ed usare strumenti del comunicare via via più funzionali, rapidi, coinvolgenti. Il cammino è stato lungo, alle volte impervio, e ha coinvolto ed emozionato miliardi di uomini che si sono prodigati nel trasmettere e nel tramandare usando i più diversi sistemi, dalla mimica narrativa dello scabro prototeatro dell’uomo cavernicolo alla commutazione di pacchetto della telematica. Il futuro promette forme di comunicazione ancora più evolute e veloci, capaci di interessare masse sempre più numerose di individui in grazia di nuovi statuti multilinguistici. Questi sono garantiti dalle nuove tecnologie che consentono il dialogo a moltissime voci tra i viaggiatori loquaci di un mondo reso più piccolo nel senso di accessibile e più capace, quindi, di guardarsi dentro e di guardare dentro la sua storia. Ulisse, protointellettuale mitologico, ingannò Polifemo e sostò alla reggia di Eolo per placare la sete di “canoscenza” e condividere un nuovo Sapere con la sua comunità d’origine. Oggi sarebbe bastata una connessione Internet. E, per il canto maliardo delle sirene, un lettore Mp3. Per i netizen2 virtuali è imperativo comprendere e padroneggiare i codici e gli strumenti del III millennio, attivare e controllare il funzionamento dei sensi per riconoscere l’elefante mediatico del proprio tempo. Un’esigenza espressiva, a ben vedere, che, seppur già pulsante nei “writers” delle spelonche, si è fatta improrogabile con la comparsa del moderno homo videns3. Permane, comunque, la stessa urgenza ontologica di fruire delle risorse contemporanee per emergere e spandere la facoltà di cogliere i nessi reconditi del reale. Pablo Picasso, che ha saputo condurci oltre la superficie delle cose, ripeteva: “Copiare gli altri è necessario, ma copiare se stessi è 2 Così, in un ircocervo linguistico della modernità, è stato battezzato l’abitante della società della Rete. 3 Rimandiamo alla lettura di G. Sartori, Homo videns, Laterza, Bari 2000.

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patetico”. La curiosità perenne verso l’uomo e le sue opere produce segni al di là delle mode transitorie e dei giudizi aprioristici sul mondo esterno che perpetrano la massificazione culturale. Nello scenario contemporaneo il televisore, oltre a restare quello che già è, vale a dire strumento di informazione unidirezionale e piramidale, potrà diventare, potenziato dalle tecnologie messe a disposizione dall’industria, la centrale di smistamento, ricezione e trasmissione di tutti i segnali necessari alla vita di relazione, alla gestione della casa e dell’ambiente di lavoro, alla comunicazione multimediale. La comunicazione televisiva è, mentre scrivo queste pagine (non scommetterei che sia ancora così mentre qualcuno le legge), organizzata su di una capillare diffusione planetaria di network, ovvero una rete di stazioni trasmittenti associate tra loro che “illuminano” la parte più grande possibile di territorio attraverso ripetitori opportunamente dislocati sia sul pianeta che sui satelliti artificiali che ruotano in orbita. A questo reticolo bisogna aggiungere la trasmissione di segnali audiovisivi via Internet. In Italia soltanto da un quarto di secolo è stata consentita legalmente la trasmissione in contemporanea e in diretta anche ai network privati. Legalmente perché prima, comunque, era effettuata lo stesso, in assenza di una qualsiasi legge o normativa, con effetti devastanti per il futuro ordinamento che, nato in ritardo, è stato fortemente condizionato dallo status quo. E questo ritardo nel procedere a regolare l’etere è stato grave e pericoloso per la democrazia italiana. L’intera politica nazionale, il costume, i consumi culturali, gli stili di vita sono stati segnati da un approccio perverso al problema urgentemente epocale come quello della comunicazione. Oggi, come tutti sanno, per la televisione generalista in Italia vige una situazione di duopolio sostanziale, benché mitigata dall’ansimante sgomitare di soggetti meno forti. Domani, in tutto il mondo, inevitabilmente, accanto ai grandi network, figureranno altre voci, perché con i mezzi tecnologici offerti dalla ricerca qualsiasi soggetto potrà, anzi, può già elaborare, produrre, pubblicare in Rete un complesso di messaggi, film, notiziari, fiction, pubblicità. Un insieme di segnali modulando i quali non 12


potranno non essere concepiti nuovi assetti estetici, format, moduli espressivi oggi solo sperimentali. Ognuno di noi, dunque, può addirittura “fare” la televisione, nel senso che le immagini scelte ed elaborate si possono trasformare in file ipertestuali che è possibile mettere a disposizione di tutti i naviganti mandandoli in onda in Rete. Ed ecco: tutto il mondo si può collegare al sito e può vedere, raccogliere e immagazzinare quel complesso di informazioni che può comprendere testi, grafici, suoni, musiche, perfino un individuo che parla. I soggetti della comunicazione non sono più solo i giornali, i potenti gruppi editoriali o radiotelevisivi, i grandi produttori cinematografici. Il futuro prevede una disabilitazione dei network ad essere solitari protagonisti dell’immane agorà televisiva e mediatica. Sarà sempre più facile e praticabile per la moltitudine di netizen produrre suoni, elaborare immagini, costruire comunicazioni articolate, codici, organizzare ipertesti e confezionare veri e propri programmi. Lo scalpiccìo nelle innumerevoli piazze dei social network annuncia una folla che chiede dialogo e confidenze, conoscenza reciproca e “canoscenza” culturale. Se non si lascerà ammutolire dal bercio vano e dal cicaleccio assordante delle parole in libertà, vincerà la sfida di affidarsi al prossimo suo sconosciuto e di lui fidarsi. L’esplorazione globale della Rete, ormai usuale, si traduce nella possibilità di attingere informazioni presso archivi sempre più grandi che aprono alla ricerca e al sapere nuove visioni sconfinate. Conviene che certe riflessioni prendano le mosse, almeno per l’“elefante italiano”, dopo il 3 gennaio 1954, quando l’Italia spense il camino ed accese il televisore, oracolo domestico a 24 pollici. Uno ieri così vicino che mette sgomento leggere le pagine di diario che hanno portato il pianeta a veder cadere così in fretta i confini che lo dividevano in province e reami per scorgere l’orizzonte globale di un nuovo villaggio. Il “Corriere della Sera”, con understatement poco lungimirante, inserì la notizia dell’inizio ufficiale delle trasmissioni tra le cronache locali, ma la televisione era destinata a divenire la più bella del villaggio. E, come nella più classica delle tradizioni popolari, anche la più chiacchierata. 13


1. Ab urbe condita

La fatidica contemplazione leopardiana di quella “donzelletta che vien dalla campagna” nel pacifico tramonto, in un pugno di case chiuso sull’esigua piazzetta, basterebbe per confermarci una sbrigativa certezza della modernità: il villaggio non è che un paese piccolo. Anzi, nella lirica disperazione leopardiana, un paese piccolo e anche molto noioso. Nell’immaginario sostenuto dal buon senso popolare, il villaggio colora della frugalità della sua urbanistica panorami di quiete e di arcaismi soavi in un’arcadia convenzionale. Altro genere di poesia ispirò la speculazione intuitiva di McLuhan quando, negli anni ’60, concepì la memorabile locuzione “villaggio globale”. McLuhan preferì il “villaggio” alla “città”, retrodatando l’apparentamento simbolico e individuando nella sua dimensione elementare, non solo dal punto di vista demografico, ma, anche, complessivamente sociale, la comodità e funzionalità del paradosso ottenuto con quell’aggettivo “globale”. L’aggettivo è usato, sì, per anticipare il concetto di globalizzazione, ma, soprattutto, per significare che al villaggio succederà la città globale. L’avvento dei media elettrici, infatti, aveva ridimensionato la comunicazione planetaria ad un ambito esplorabile virtualmente quasi fosse un modesto centro rurale. Ironica, dunque, la sorte della parola, sopravvissuta al suo referente originario di prima comunità di produttori per rinascere in veste di ossimoro, un ossimoro che diventerà proverbiale: l’idea di villaggio ai tempi di Internet rimanda all’interconnessione affrancata da recinzioni e confini geografici tra i suoi abitanti postmoderni. Il villaggio, ad ogni modo, rappresenta una forma elementare dell’abitato umano stabile e si differenzia, come tale, dall’accampa15


mento, sede transitoria delle genti nomadi. Il grado di addensamento delle case, la disposizione di queste entro il villaggio e gli altri caratteri dell’abitato variano con le generali condizioni ambientali e culturali. Nel fluire dei secoli la nozione è cambiata naturalmente: si è evoluto il concetto adeguandosi ai mutamenti culturali, economici, produttivi, il villaggio si è anche munito di difese e di mura o recinzioni, ma la dimensione ridotta resta definita. Ove non si sia trasformato in paese, borgo e città, resta legato alle realtà contadine o pastorali. Col suo toponimo antico intagliato nella corteccia di un albero o graffito su di una pietra di stazzo o di casa. La pletora di fondatori di villaggi non ha fornito archivi da solennizzare, ma un catalogo solo esile di eroi eponimi, a paragone dei fondatori di città che riempiono una risma di lunga consultazione. Il concetto di villaggio, antenato della città, benché connaturato all’uomo perché azionato dalla sua naturale propensione alla socialità, alla convivenza con i simili, alla constatazione dell’utilità del mutuo aiuto, si afferma diffusamente solo con la “barbarie neolitica”1, con quell’età più comunemente nota come “della pietra levigata”. Gli approssimativi e provvisori insediamenti comuni dei cosiddetti “selvaggi paleolitici”, generati dal nomadismo o dall’attività di raccoglitori-cacciatori, si trasformano in veri e propri comuni agglomerati antropici con i caratteri connotabili come evoluto sistema sociale preistorico. Si instaura un modulo abitativo fondato su di un’evoluzione del sistema della produzione e su di un’economia di scambio interno che accentua la mutualità dei rapporti tra gli abitanti. La facilità della comunicazione consentita dalla topografia, studiata accortamente, consolida il balbettio fonetico primario e consente il generarsi di vere espressioni linguistiche. Il limite consiste nell’autarchia sostanziale dell’economia, ma, anche, del patrimonio culturale. Gordon Childe, da cui preleviamo alcune precisazioni, ricorda: L’accrescimento della popolazione neolitica fu limitato da contraddizioni della nuova economia. L’espansione numerica implicava espansione spaziale. Famiglie aggiunte potevano essere mantenute 1

La definizione è di V. Gordon Childe e sta in Il progresso del mondo antico, Einaudi, Torino 1963.

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soltanto coltivando i terreni freschi e trovando pascoli novelli per mandrie e greggi in crescita. I produttori di cibo entro i limiti della barbarie dovevano, a tutti i costi, diffondersi. Ogni villaggio autosufficiente deve continuare a fondare dei villaggi figli.

E tutti devono cominciare a munirsi a difesa. In pratica, i produttori di cibo si espandono, spesso, a spese dei raccoglitori. Alla lunga, le comunità in espansione finiscono per incontrarsi e per contendere tra di loro sul territorio e sul proprio spazio vitale. Non è, evidentemente, pensabile l’obbligatorietà di rapporti amichevoli. Anzi, è innegabile che la conflittualità debba essere aspra, visto che tutti, e ognuno, sono in rissa per la stessa specie di terra e i rifornimenti non sono illimitati. Ne nascono lotte e sopraffazioni, ma, anche, ibridazioni e contaminazioni e, elemento decisivo nell’accelerazione dello sviluppo culturale, scambi, relazioni e arricchimenti reciproci, soprattutto linguistici. La comunicazione si rafforza e moltiplica le sue potenzialità e i suoi codici con la trasmissione reciproca di esperienze e conoscenze. Infatti un cambiamento di cultura non implica necessariamente l’estinzione della società più antica soccombente. Il risultato può essere una cultura mista in cui sopravvivano le voci dell’attrezzatura più antica in armonia utilitaristica con le nozioni della cultura sopravveniente. Ma la virtuale funzionalità del villaggio come modulo comunitario e sociale ha il suo limite nell’autarchia replicante in altre autarchie generate dall’incremento demografico. Sarà la rivoluzione urbana attivata dal mutamento, anzi dall’evoluzione dell’economia, a risolvere la contraddizione. Il villaggio, comunque, incunabolo della città, ne possiede gli elementi significativi sociali, economici, culturali e i retaggi simbolici. A confermare l’importanza di questi ultimi basti ricordare i simboli connessi alla leggenda “storica” della fondazione di Roma da parte dei fatidici gemelli con tutte quelle procedure rituali dense di valori apotropaici: la consultazione del volo degli uccelli, la traccia del sacro solco, la attribuzione del nome e, infine, il dramma ineluttabile del fratricidio. Il villaggio da fondare conteneva già, a sentire gli scrittori che hanno raccontato quella storia a cominciare da Tito 17


Livio, significati potenti ed eloquenti come, del resto, ne ebbe la fine dell’immenso Impero, o la caduta, come preferite, che fu un evento epocale non solo sul piano politico, economico, sociale e culturale. Il dissolversi di quel potentissimo soggetto di storia che fu la Roma dei Cesari sconvolse i contemporanei e li atterrì con interrogativi drammatici. Un fatto era certo: finiva, è vero, la potenza imperiale di quella città installata tanti secoli prima come un modesto villaggio di pastori sulle rive fangose di un fiume, ma nasceva un’altra storia di portata inimmaginabile. Riflettiamo. Il sacco di Roma, perpetrato diligentemente dai Goti di Alarico nel 410 d.C., aveva ridato attualità alla vecchia tesi che la sicurezza e la forza dell’Impero romano fossero legati al paganesimo e che il cristianesimo rappresentasse, per esso, un elemento di debolezza e di dissolvimento. Contro questa tesi e contro la paura, da parte dei cristiani, di essere sommersi dalla catastrofe storica, S. Agostino compose, tra il 412 e il 426, La città di Dio. Egli afferma che la vita dell’uomo singolo è dominata dall’alternativa fondamentale tra vivere secondo la carne o vivere secondo lo spirito. La stessa alternativa che domina la storia dell’umanità è costituita dalla lotta di due città o regni: il regno della carne e il regno dello spirito, la città terrena o la Babilonia del diavolo che è la società degli empi e la Gerusalemme celeste o città di Dio che è la comunità dei giusti. Le due città non dividono mai nettamente il loro campo d’azione nella storia: nessun tempo, nessuna istituzione sono dominati esclusivamente dall’una o dall’altra. Esse non si identificano mai con i particolari elementi da cui la storia degli uomini è costruita, giacché dipendono soltanto da ciò che ogni singolo uomo decide di essere: L’amore di sé portato fino al disprezzo di Dio genera la città terrena; l’amore di Dio portato fino al disprezzo di sé genera la città celeste. Quella aspira alla gloria degli uomini, questa mette al disopra di tutto la gloria di Dio testimoniato nella coscienza […] I cittadini della città terrena sono dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale. 18


Nessun contrassegno esteriore distingue le due città che sono mescolate insieme sin dall’inizio della storia umana e lo saranno sino alla fine dei tempi. Solo interrogando se stesso ognuno potrà scorgere a quale città appartenga. La città, dunque, assurge a metafora del rapporto dell’uomo con il proprio ambiente e con i propri simili. In effetti, le implicazioni sociologiche, filosofiche ed antropologiche dell’urbanesimo conducono ad interpretazioni che conciliano l’opportunità storica della libera associazione con il “simbolismo dell’esplicazione del sé” dell’uomo. Ma esistono anche città, innumerevoli, fondate dal potere dispotico, espressioni ed epifanie del volere dell’autocrate in cui si incrociano i destini dell’“uno” regale e della sua volontà con la moltitudine delle vite delle genti. Queste, a loro volta, incrociano il pulviscolo delle proprie esistenze con le ascese ai troni e le edificazioni di ennesime Ninive. Le reificazioni urbanistiche dell’universo simbolico, ma, anche, delle necessità pragmatiche del potere, magnificano il valore cratofanico della città, corona dell’autocrazia. Sarebbe un errore, però, non incastonare anche le Babele profane degli imperi nella vicenda della storia e nella traccia socioeconomica del cammino dell’umanità. Solo per fare un esempio, è la città di Parigi che alleva i citoyens dell’Assemblea Nazionale e gli assedianti della Bastiglia, è il gonfalone di Parigi che colora la bandiera degli “Enfantes de la patrie”. E, infatti, le città, intese come realizzazione della prassi economica e dispositivo del corpo sociale, raccontano lo sviluppo della storia dell’uomo. Magistralmente Max Weber ne avvia una lettura meticolosa e puntuale in questa chiave2. E i più recenti studi non possono non riflettere sulle sue pagine. A sua volta, Gert Mattenklott3 suggerisce che Non ci sarebbero le città costruite, se esse non fossero già da sempre state importanti come possibilità dell’uomo di rapportarsi a se 2

M. Weber, La Città, tomo V del vol. XXII del suo Economia e società, Donzelli, Roma 2003. 3 G. Mattenklott, Città, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, Bruno Mondadori, Milano 2002.

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stesso e ai propri simili. Di converso, sapremmo a stento qualcosa del potenziale antropologico di costruzione di città, se non si fosse data quella pragmatica storica dalla quale si sono sprigionate e dalla quale sono state determinate le sue forme culturali ed epocali. Le città reali sorgono da un incrocio di coordinate. Un asse delle quali è il simbolismo dell’esplicazione di sé dell’uomo, l’altro asse è quello della opportunità e della praticità storica. Se si estingue uno di questi assi, decade la città.

Non si può non pensare alla struttura ortogonale archetipa della città primigenia italica insediata sull’incrocio tra il cardo e il decumano. Mattenklott riporta il mito della città sorta a seguito di un celebre fratricidio quale paradigma dell’abbandono della società agricola e dei suoi legami con la crescita naturale. Il fratricida fondatore, però, questa volta non è Romolo: si tratta di Caino, l’assassino di Abele di cui la Genesi tramanda le imprese, tra cui la fondazione della città di Enoch durante il peregrinare da reo contumace al di là dell’Eden. Se fu così che la categoria di “cittadino” affiancò quella di “agricoltore” e “allevatore”, si palesa un significativo parallelismo con la nascita di Roma, con alcune cronache della tradizione fenicia e con altri racconti babilonesi. La persistenza di costanti mitografiche è evidente. Nella mitologia letteraria, pertanto, può scorgersi quasi un’universale connessione tra urbanità e delitto, ulteriore conferma dell’inconciliabilità tra l’organicità dell’agricoltura e la “temporalità astratta” ed inorganica della civilizzazione, foriera della modernità e dei suoi tratti proteiformi. Si pensi, adesso, alle cinta murarie nell’antichità che, come ricorda Lewis Mumford, non erano edificate solo ai fini della difesa militare e del controllo politico, ma esercitavano anche la funzione di demarcazione tra le città ed il regime puramente agricolo della campagna. La città è natura “di secondo grado”, il prodotto dell’arbitrio di un uomo in fuga che progetta liberamente, e modernamente, se stesso al prezzo dell’omicidio del fratello. Da qui l’uomo come animale multiforme e cangiante, il Proteo che per Pico della Mirandola4 è 4

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Il riferimento è all’orazione De hominis dignitate del 1486.


nato nella condizione di essere ciò che vuole e, aggiungiamo noi, conserva la “ribellione alla natura” del “primo architetto” Caino. L’urbanesimo, quindi, non può essere ridotto alla praticità della concentrazione tra istituzioni economiche, amministrative e culturali; alle coordinate storiche e sociali della fondazione di ogni città, piuttosto, soggiacciono le contraddizioni della modernità: Nel racconto biblico la città è un movimento in stato di quiete. Il movimento è la caduta da Dio che si compie colpevolmente, la sua forma è la vita sfrenata, la sua traccia il delitto. Nella città questo movimento non perviene ad acquietarsi; nessun luogo di pace quindi, ma semmai il riparo nel quale il movimento di fuga acquista una qualità di esonero temporaneo: l’urbanità. Le estetiche della città offrono accoglienze momentanee ai fuggitivi metafisici5.

E la città del III millennio? È l’erede di Roma imperiale, della città di Dio o la rifondazione di una Babilonia confusa e smarrita? È un immenso villaggio di una smisurata piccolezza in cui vive e fatica una nuova umanità di cui non conosciamo che i primi, sgomenti balbettii? Una folla che si avvia a parlare un linguaggio unico, che comunica sempre meglio e più velocemente, ma i cui individui si capiscono sempre meno? Di certo la città del futuro pagherà, ma già paga, il pedaggio ad Internet, se non altro per quanto concerne la sua fisicità. È evidente che lo sviluppo della comunicazione, che abbrevia tempi e accorcia le distanze tra gli individui, avvicina i soggetti e rimpicciolisce lo spazio. Allo stato attuale, la Rete è la risultante di una complessa interconnessione tra tecnologie, contenuti e utenti, all’interno di un sistema che il senso comune colloca nell’astratto cyberspazio postmoderno. In realtà, in controtendenza alla virtualità delocalizzata ordinariamente attribuita all’universo telematico, nella materialità dei server e nella capacità degli hard disk possiamo rinvenire la concretezza del bit ed i suoi limiti spaziali, seppure, ovviamente, in senso lato. D’altronde già espressioni quali homepage (letteralmente pagina5

G. Mattenklott, op. cit.

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casa), dominio o at (congiunzione che generalmente è chiamata “chiocciola”, traducibile in italiano con “presso”) rimandano ad una localizzazione che, per quanto risemantizzata, non può che riconoscersi come persistente. Non è nello spazio, o per lo meno non nella sua abolizione, che possiamo rintracciare l’apporto rivoluzionario di Internet all’urbanità del III millennio. La Rete, infatti, oltre a ridefinire la fisicità dei luoghi della comunicazione, ha clamorosamente contratto il tempo di trasmissione dei messaggi sino ad abbatterlo: gli abitanti dell’odierna “città globale” si incontrano nella piazza telematica in real time. A prescindere dalle motivazioni dei naviganti, che variano da una sorta di parrhesia 2.0 alla simulazione on line della vita quotidiana, l’istantaneità dell’accesso alla comunicazione è la maggiore conquista dell’“urbanità digitale”. Non a caso le unità di misura con cui incessantemente, talvolta inconsapevolmente, ci confrontiamo, dalla velocità delle connessioni al funzionamento dei microprocessori, rinviano ad una percezione del tempo del tutto post-industriale. Paul Virilio, urbanista, filosofo ed esperto di nuove tecnologie, argutamente squaderna: oggi è l’attimo che conta e non il luogo. […] Il cellulare, la televisione satellitare, Internet: organizziamo la nostra vita intorno a un nuovo tempo reale che ha soppiantato lo spazio reale, che poi era la dimensione che avevamo conosciuto fin dal Quattrocento6.

La cittadinanza virtuale si esercita nel paradosso dell’“immediatezza mediale” del cybertempo, categoria che forse dovrebbe sostituire la più consueta concezione del cyberspazio. Si è aperta un’era che, probabilmente, sarà detta dagli storici del futuro “era della globalizzazione”. L’equazione è chiara: meno tempo necessario per coprire lo spazio è uguale a meno spazio e più tempo a disposizione per coprire altro spazio destinato ad una più larga ed efficace comunicazione. 6 La citazione è tratta dall’articolo Ecco l’immaginario che ha preso il potere pubblicato il 15 novembre 2005 in “Diario”, inserto di “la Repubblica”. Nell’occasione Paul Virilio, intervistato da Anais Ginori, presentava il libro L’arte a perdita d’occhio.

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I fenomeni che stiamo vivendo, però, sono stati determinati e condizionati nel loro verificarsi dai media e dal loro perfezionamento sempre più evoluto già prima della postmodernità digitale. È con l’avvento dei media elettrici che si avvia quella demolizione delle distanze abilitata ad oggetto di gran parte della ricerca sociologica del Novecento. Le differenze e le peculiarità custodite dalla difficoltà delle comunicazioni crollano e si tende ad assomigliarci tutti, tanto siamo vicini, con vantaggi e svantaggi: vantaggi per le scienze, le arti, il sapere; svantaggi, alcuni, per i rischi che può correre la democrazia. Ortega y Gasset pensa che sia lo sviluppo tecnico a determinare condizioni di vita uniformi ed uniformità di idee. Viene a profilarsi all’orizzonte sociale l’“uomo-massa”, un uomo plurale, non unico: un “uomo-folla”. L’uomo-massa ha un destino escatologicamente determinato. È un uomo che ha rinunciato alle differenze e si è omologato a causa soprattuto del processo del consumismo, dinamica sociale che è variante estrema del deterioramento del liberismo e del mercantilismo capitalista. L’uomo-massa, cittadino della moderna metropoli globale, assume i suoi connotati culturali dalla rassegnazione alla crisi dell’utopia, quella del socialismo reale, che ha svolto, pure, una funzione benefica nell’immaginario collettivo. Oggi lo smascheramento scettico di ogni utopia e qualche “Bastiglia” di troppo, data alle fiamme del ribellismo generico, hanno condotto a rinunciare alle differenze e alle distanze. Differenze e distanze che sono un valore, una forza dell’identità ove, naturalmente, non marchino i confini dello sfruttamento o dell’egemonia etnocentrica che valori non sono. Nelle società industriali del dopoguerra si è accentuato il modello fordista della distribuzione del lavoro in cui si è arrivati ad una parcellizzazione delle mansioni tale da infliggere condizioni estreme nelle quali ognuno ha il proprio compito produttivo senza sapere a cosa serva e quale sia la sua destinazione finale7. 7 Henry Ford (1863-1947). Industriale statunitense fondatore della Ford Motor Company. Con l’introduzione delle prime catene di montaggio rivoluzionò la produzione automobilistica. Il Fordismo è metodo dell’organizzazione della produzione e dell’economia, più in generale, basato sulla produzione in serie, sulla divisione del lavoro e sulla riduzione dei costi unitari.

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L’icona più efficace della produzione in serie la compila Charlie Chaplin che, nel film Tempi moderni del 1936, ambienta nella Grande Crisi la storia satirica di Charlot alle prese con l’ingranaggio, vero e metaforico, della società industriale. Memorabile la sequenza dell’operaio alle prese con i bulloni della catena di montaggio che finisce per impazzire e vedere bulloni da avvitare dappertutto. Anche sulla mise della morosa. Creando e fomentando i bisogni in maniera occulta, bisogni veri e bisogni futili o inventati, falsi bisogni, anche i mezzi dell’industria culturale attivano un processo di alienazione. Questo si attua non solo attraverso il bombardamento pubblicitario, sarebbe riduttivo affermarlo, ma, anche, per il tramite di una cultura del consumo diffusa in diverse congerie di linguaggi che non risparmiano messaggi non direttamente ed immediatamente percettibili con i sensi. Non si arriva al fotogramma intruso della pubblicità subliminale, ma si pratica largamente la tattica dell’implicito, dello scontato, del “non ne possiamo fare a meno”. Il paradosso di Oscar Wilde diventa una seria istigazione: “Niente è più indispensabile del superfluo”.

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