Parson

Page 1

Talcott Parsons

Professioni e libertĂ A cura di Marco Santoro

ARMANDO EDITORE


Indice

Presentazione di Marco Santoro

7

Nota alla traduzione

67

Professioni e struttura sociale di Talcott Parsons

69

LibertĂ accademica di Talcott Parsons

93

Nota bio-bibliografica

120


Presentazione

Parsons e la sociologia delle professioni “liberali”

L’interesse di Talcott Parsons per le “professioni”1 è tutt’altro che occasionale. Ci sono anzi buone ragioni per ritenerlo, com’è stato più volte notato, costitutivo del suo pluridecennale programma di ricerca2. Come una sorta di agenda non del tutto esplicitata ma mai davvero nascosta, esso ha attraversato carsicamente l’intera sua opera, dalla metà degli anni Trenta sino alla metà degli anni Settanta (cfr. Nota bio-bibliografica). La rilevanza di tale agenda emerge chiaramente quando si considera che attorno al tema delle professioni è possibile riannodare alcuni dei fili più significativi della sua prestazione intellettuale, tra i quali: a) il problema, direttamente ereditato da Weber, della razionalità negli affari umani; b) il problema del rapporto tra teoria economica e teoria sociologica; c) il problema dei limiti del capitalismo e del marxismo come, rispettivamente, cifra e chiave interpretativa della modernità; d) il problema della burocrazia e del confronto con Weber; e) il problema dei fondamenti di una società liberale e democratica; f) last but not least, 7


Presentazione

il problema della stessa identità personale e sociale del sociologo. Probabilmente, chi ha colto con maggior lucidità ed enfasi critica (e anche qualche perversione interpretativa) la centralità del tema delle professioni per la costruzione insieme teorica e politica parsonsiana nel suo complesso è Alvin Gouldner, che ha individuato in esso il pilastro non solo della visione dell’ordine sociale di Parsons, ma anche della sua costruzione (ideologica) del ruolo del sociologo nella gestione di quell’ordine3. Secondo una più benevola interpretazione, la teoria parsonsiana delle professioni sarebbe invece parte centrale e nevralgica di una più generale teoria delle istituzioni sociali, edificata sulla base di una visione normativa della società critica tanto nei confronti del sistema capitalista quanto nei confronti dell’autoritarismo di stato, i cui effetti perniciosi erano storicamente resi palpabili proprio dalla Germania nazista – uno dei più significativi e ricorrenti interessi di Parsons negli anni compresi tra il 1938 e il 19454. Limitare a questo pur rilevante aspetto la produzione sociologica parsonsiana sulle professioni è però riduttivo. Per quanto non sia mai facile stabilire paternità in campo intellettuale, non è azzardato dire che è infatti proprio con Parsons che la “sociologia delle professioni” si è costituita come campo specializzato, e riconosciuto, della teoria e della ricerca sociologica. O almeno, è con Parsons che si avanza il progetto di una sociologia delle professioni distinta da una più ampia sociologia del lavoro e delle occupazioni, di cui a Chicago si stavano contemporaneamente gettando le fondamenta, grazie soprattutto a Everett C. Hughes5. Di questo progetto intellettuale i due scritti qui raccolti costituiscono, sia per ordine temporale che per 8


Marco Santoro

contributo intellettuale, tappe fondamentali e fondative. Ma essi hanno un significato analitico che – come vedremo – trascende questo circoscritto ambito di ricerca, rivelandosi come vere e proprie chiavi ermeneutiche con cui penetrare l’intera opera sociologica parsonsiana e discutere, più in generale, un segmento importante della stessa tradizione sociologica novecentesca.

Alle origini della sociologia delle professioni Come si spiega storicamente questo interesse duraturo per un fenomeno tutto sommato circoscritto in termini quantitativi e di apparentemente minore rilievo intellettuale? È lo stesso Parsons a descriverci, con una certa precisione seppure a distanza di oltre un ventennio, le circostanze che portarono alla stesura e quindi alla pubblicazione, nel 1939, di Le professioni e la struttura sociale, illuminante almeno quanto solitamente trascurato scritto giovanile che qui si ripubblica in una nuova traduzione6. Le sue parole costituiscono, mi sembra, la migliore introduzione a questo testo e al suo significato non solo nella biografia intellettuale dell’autore ma nella storia della stessa sociologia, e le presentiamo perciò qui con un certo respiro, salvo naturalmente poi riprenderle e rileggerle criticamente alla luce degli sviluppi sia di quel ramo dell’impresa sociologica noto appunto come “sociologia delle professioni” – che trova in questo testo uno dei suoi riferimenti insieme più classici e controversi7 – sia, e soprattutto, della stessa letteratura critica parsonsiana. Una letteratura, dobbiamo aggiungere, che ha conosciuto negli ultimi tre decenni una vera e propria rivoluzione ad opera di studiosi come Jeffrey Alexander, 9


Presentazione

Charles Camic, Richard Münch, Bryan S. Turner, Uta Gerhardt e – in qualche misura – lo stesso Habermas, che ad una rilettura di Parsons avrebbe dedicato come noto un capitolo cruciale della Teoria dell’agire comunicativo, anche lui così contribuendo alla riabilitazione di una figura intellettuale il cui declino negli anni Sessanta poté essere letto autorevolmente come il segno della incipiente crisi della stessa sociologia (occidentale)8. Così scrive dunque Parsons: Nel 1936 stavo finendo le ultime pagine della mia prima opera importante, The Structure of Social Action, e pensavo naturalmente agli sviluppi futuri del mio lavoro di studio e di ricerca. Sul piano della ricerca empirica, il mio interesse era principalmente, anche se non esclusivamente, macro-sociologico, diverso cioè dall’interesse microsociologico di molto lavoro di ricerca che feci in seguito, in particolare nel campo medico; tuttavia esso si occupava anche dell’imputazione di motivazioni a livello individuale. Il centro di questo interesse era stato il problema della natura del “capitalismo”, anzitutto nelle analisi di cui era stato oggetto nella sociologia tedesca. Questo mi aveva portato ad affrontare certi problemi della situazione generale della teoria economica, in particolare la posizione occupata in quel corpo di pensiero dal postulato (o dottrina) dell’“interesse personale” (self-interest)9.

Durkheim, con le sue celebri tesi sulle funzioni morali delle corporazioni professionali esposte nella Prefazione alla seconda edizione della Divisione del lavoro sociale, ha indubbiamente aiutato Parsons a mettere a fuoco il 10


Marco Santoro

problema in termini congruenti con la sua prospettiva teorica. Come è ben noto, Parsons avrebbe fatto del sociologo francese il fulcro della sua ricostruzione sintetica della teoria sociologica, consegnata alle classiche pagine di The Structure of Social Action, il ponderoso libro pubblicato non a caso solo due anni prima sia di The Professions and Social Structure, che di Academic Freedom, saggio incompiuto e rimasto a lungo inedito, che qui si traduce per la prima volta in italiano10: un testo che, come vedremo, a dispetto del titolo, è da considerare a tutti gli effetti un contributo di primo piano – sebbene praticamente ancora semisconosciuto – alla teoria parsonsiana delle professioni, che anticipa tra l’altro temi e idee su cui il sociologo americano sarebbe ampiamente tornato negli ultimi anni della sua vita11. Ma se Durkheim costituisce una sicura fonte intellettuale della focalizzazione parsonsiana sui gruppi professionali come portatori di moralità, le coordinate teoriche per l’analisi delle professioni come componente cruciale della modernità sono chiaramente ricavate da Weber. L’analisi storico-concettuale dell’idea luterana di Beruf contenuta nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, seminale testo weberiano tradotto in inglese dallo stesso Parsons nel 1930, costituisce anch’esso un importante precedente intellettuale delle riflessioni sulle peculiarità normative del professionismo svolte nei due saggi del ’39. Peraltro, non era questa la prima volta che Parsons si concentrava sul tema delle professioni liberali. In quello stesso 1937 che avrebbe segnato una tappa cruciale per la storia della sociologia, oltre che per la sua biografia intellettuale, Parsons aveva pubblicato infatti su una rivista di etica anche un breve ma denso intervento (dal titolo Remarks on Education and the Professions) a proposito 11


Presentazione

di un libro da poco uscito sul sistema universitario americano, firmato dall’influente presidente dell’Università di Chicago R. Hutchins12. Già allora Parsons aveva inoltre iniziato a lavorare a quella ricerca sulla pratica medica a cui fa spesso riferimento nei saggi qui tradotti, e dai cui risultati il sociologo americano avrebbe almeno in parte ricavato, a distanza di anni, il decimo capitolo del Sistema sociale, appunto dedicato come è noto al rapporto tra medico e paziente inteso come sistema di ruoli. Le ragioni squisitamente teoriche di questo interesse empirico per la professione medica sono state così esplicitate dallo stesso autore in quello che resta uno dei documenti più significativi, e anch’esso inedito, per la conoscenza di questo aspetto ancora poco noto (o almeno non così noto come la sua rilevanza storica suggerirebbe) della biografia intellettuale parsonsiana. Si tratta dell’abbozzo – steso presumibilmente nel ’36 – del progetto di ricerca sulla professione medica, da Parsons poi effettivamente svolta al Massachussetts General Hospital di Boston nella seconda metà del decennio. In esso, l’autore della Struttura dell’azione sociale rende esplicito il nesso tra questo apparentemente circoscritto oggetto di studio e il più generale problema teorico – il classico “come è possibile l’ordine sociale?” – da lui affrontato nella grande monografia da poco conclusa: Long preoccupation with the problems of economic individualism and laissez-faire both from an economic and a sociological point of view had led me to the tentative view that an “individualistic” order, that is one in which the activities of individuals ostensibly in pursuit of their own interests, are relatively free from formal control by the state and such agencies, 12


Marco Santoro cannot be understood in a state of smoothly functioning order in terms of the interplay of these individual interests alone. On the contrary such an order is dependent for its existence and stability on the existence of a framework of essentially normative and controlling rules of a basically different order of reality than “interests” and of entirely different causal origin. This framework of normative rules regulating social relations I call institutions. Only within such a framework is the pursuit of individual interest compatible with the stability and prosperity of society. This general position toward “economic individualism” is one of the most striking outcomes of some of the most important developments of recent sociological theory, notably in the work of Durkheim and Max Weber13.

Parsons era ben consapevole che una tesi di così vasta portata richiedeva per la sua validazione empirica un immenso lavoro di ricerca – e considerava questo «uno dei più urgenti e probabilmente gratificanti compiti della sociologia». Ma era anche del parere che, quando adeguatamente selezionato e costruito su basi teoriche, un singolo caso avrebbe potuto offrire molto in questa direzione. Le ragioni della scelta della professione medica per lo studio del problema teorico di fondo (quello, ricordiamo, del controllo istituzionale dal punto di vista del funzionamento di un ordine sociale di tipo “individualistico”) erano ricondotte dal giovane sociologo a due insiemi di fatti tra loro presumibilmente correlati. Il primo era che la struttura formale della professione era, negli Stati Uniti, quella dell’individualismo competitivo («That is, the typical physician is a man who sells 13


Presentazione

his services in competition with his fellows on an open market to a consumer who is free to leave him and choose others. In this respect it is strikingly like the structure of the competitive business»). D’altro canto, era chiaro che qualche forma di controllo doveva comunque esistere poiché il medico offre molti servizi che non possono considerarsi imposti solo dagli interessi individuali. Ad esempio, faceva notare Parsons, gran parte del lavoro svolto dai medici non è remunerato o, se lo è, lo è in misura inferiore rispetto al tempo, alle spese o allo standard generale di vita. I medici, in generale, e a differenza degli uomini d’affari, non rifiutano inoltre di curare i pazienti incapaci di pagare. Più di altri essi deliberatamente operano per ridurre il mercato dei loro servizi, ad esempio consigliando ai pazienti cosa fare per curarsi e prevenire le malattie. Infine, i medici godono di privilegi, molti dei quali facili a generare abusi – come, ad esempio, il diritto di far pagare i pazienti sulla base delle loro disponibilità economiche, alla stregua di un sistema privato di tassazione. Qualcosa deve esistere, ipotizzava Parsons, perché tutto ciò non degeneri in arbitrio. Come avrebbe ancora ricordato a distanza di anni: i medici insistevano nel sostenere che il “benessere del paziente” dovesse essere la preoccupazione dominante del medico, e che ad esso andava sistematicamente subordinato il suo interesse personale, di carattere finanziario o altro. Il mio primo scopo fu quindi di indagare cosa stava alla base di questa impostazione, diversa da quella dell’attività economica, intervistando i medici sulle concezioni che essi avevano dei loro ruoli professionali, e, per quanto possibile, osservandoli al lavoro14. 14


Marco Santoro

È chiaro quindi il ruolo strategico svolto dal tema (empirico) delle professioni nell’agenda di ricerca parsonsiana, agenda eccezionalmente – soprattutto rispetto ai canoni della sociologia americana dell’epoca – orientata alla riflessione teorica e alla discussione concettuale, secondo quel modello epistemologico denominato “realismo analitico” che Parsons aveva tratto dalla lettura degli scritti del filosofo Alfred N. Whitehead, da lui profondamente stimato. Parsons era molto esplicito sul punto: l’elemento analitico non ha alcun diretto referente empirico e credere il contrario significherebbe cadere in quella Fallacy of Misplaced Concreteness (“l’errore accidentale di confondere l’astratto con il concreto”) su cui aveva insistito proprio Whitehead15. Come mostra proprio la sua analisi delle professioni, la tendenza (che Parsons etichetta come “positivista” e “empiricista”) dominante nella letteratura era invece precisamente quella di confondere l’elemento analitico della teoria (economica) con il mondo empirico, riducendo in particolare l’elemento dell’interesse personale ad una motivazione concreta, invece di trattarlo come un fattore analitico di un sistema di interazioni che include anche altri fattori. Parsons aveva chiarito la sua posizione al riguardo sin dal ’35, in un saggio specificamente dedicato all’identificazione dell’elemento sociologico nella teoria economica. Benché la “vita umana” sia essenzialmente una sola, essa può venire «come ogni fenomeno complesso, scomposta a fini di analisi in fattori differenti». E per quanto ciascuno di questi possa essere «predominante […] in qualche insieme concreto di attività, esso non è mai presente ad esclusione completa degli altri»16. Come avrebbe sostenuto in un testo scritto anni dopo con l’allievo 15


Presentazione

Neil Smelser, e specificamente dedicato all’integrazione della scienza economica con la teoria sociale, non esistono empiricamente processi cosiddetti “economici” che non siano «risultanti di fattori [analitici] sia economici che non-economici»17. Allo stesso modo, non esistono processi sociali empirici che non presuppongano l’operatività, in termini analitici, anche di fattori economici. Se la teoria economica doveva dunque essere la scienza generale ed astratta dell’elemento (analitico) dell’interesse personale razionalmente perseguito, la sociologia doveva essere invece la scienza dei valori ultimi comuni, o delle istituzioni, o meglio dell’aspetto normativo dell’azione sociale. Il caso delle professioni, con la loro finalizzazione al benessere del cliente o del paziente, era da questo punto di vista assolutamente strategico «per mostrare l’operatività del “fattore sociologico” congiuntamente al “fattore economico” (e altri fattori analitici) allo scopo di fornire una comprensione complessa delle attività concrete associate al “mondo degli affari”»18. Ma altre ragioni, di ordine meno squisitamente intellettuale e più legate alla biografia dell’autore e ai suoi condizionamenti istituzionali19, sono all’origine del persistente interesse parsonsiano per una considerazione sociologica delle professioni. Ricordarle aiuta a contestualizzare e a comprendere questa parte importante della sua opera, e con essa i due testi qui tradotti. Una prima fonte estrinseca, ambientale, dell’interesse del giovane Parsons per la questione è certamente il suo soggiorno di studio, tra il 1924 e il 1925, alla London School of Economics (LSE), un’istituzione di insegnamento e di ricerca che rappresentò per tutti gli anni Venti e Trenta una eccezionale incubatrice di idee e stimoli per lo sviluppo di uno specifico pensiero socio16


Marco Santoro

logico sulle professioni, grazie agli studi e alle riflessioni di Beatrice Webb, Richard Tawney, Harold Laski, A.M. Carr Saunders e T.H. Marshall20. In particolare, con The Acquisitive Society, del 1920, Tawney avrebbe offerto una prima sistematica architettura di teoria sociale entro cui inserire, facendolo risaltare, il tema della peculiarità o meglio dell’eccezionalità storica delle professioni nella società (acquisitiva) moderna in quanto portatrici di un modello di organizzazione sociale capace di contrastare l’avanzata del mercato21. Non solo Parsons seguì i corsi di Tawney alla LSE, ma chiese allo stesso di stendere la prefazione per la sua successiva traduzione in inglese della weberiana Protestantische Ethik, pubblicata nel ’30. Giunto ad Harvard di ritorno dall’Europa, Parsons divenne membro, in qualità di istruttore, del Dipartimento di Economia, dove insegnava tra gli altri Schumpeter. Il primo progetto di ricerca a cui venne chiamato a partecipare, intorno al 1930, quindi proprio negli anni precedenti l’avvio del New Deal, fu nel campo dell’economia sanitaria (medical economics): un programma commissionato dal Committe on the Cost of Medical Care che prevedeva la stesura di 35 rapporti di ricerca22. Questa esperienza è stata indicata dallo stesso Parsons come il punto di partenza non solo della sua carriera di sociologo della medicina ma del suo stesso “impegno per lo sviluppo di una sociologia delle professioni”23. L’ambiente di Harvard era comunque favorevole ad un impegno della sociologia in questa direzione. Qui insegnavano W. Lloyd Warner ed Elton Mayo che allora stavano sviluppando un influente orientamento di ricerca nell’ambito della sociologia delle organizzazioni alla Harvard Business School. Proprio Mayo fu il primo ad incoraggiare Parsons ad addentrarsi nel pensiero di 17


Presentazione

Freud, un interesse che egli sviluppò nei tardi anni Trenta e Quaranta dopo aver terminato La struttura. Secondo la sua stessa testimonianza24, fu anzi proprio Mayo a spingere il giovane teorico sociale ad intraprendere una ricerca empirica sulla pratica medica negli ospedali, utilizzando sia l’osservazione partecipante sia tecniche di intervista – strumenti allora in via di perfezionamento proprio ad Harvard grazie appunto a Mayo e Warner. Sempre ad Harvard, Parsons sarebbe inoltre entrato in stretto contatto con Lawrence J. Henderson, un biochimico dai forti interessi sociologici, che oltre a scrivere un libro sulla sociologia generale di Pareto – altro autore europeo esaminato da Parsons, come è noto, nella Struttura – e a guidare un seminario sull’economista e sociologo italiano, aveva analizzato la relazione medicopaziente come sistema sociale in un breve ma originale articolo che avrebbe avuto in seguito una grandissima influenza sulla sociologia della medicina tramite l’impatto che esso ebbe innanzitutto su Parsons25. Ma un quarto fattore contingente deve aggiungersi a questa genealogia di interessi intellettuali: un elemento squisitamente biografico ed anzi, appunto, letteralmente genealogico. Quella di Parsons era, a tutti gli effetti, una famiglia di professionisti. Il padre era un ministro protestante e amministratore di collegio, il fratello maggiore era un medico. Lo stesso Parsons aveva pensato di dedicarsi alla medicina da ragazzo. Il fatto che proprio la pratica professionale medica abbia costituito il primo fuoco empirico della ricerca parsonsiana sulle professioni lascia pochi dubbi sull’importanza di questa influenza biografica, resa ancora più significativa dalla sfortunata vita del fratello, morto ancora giovane per gli eccessi dell’alcolismo (e va ricordato che al tema dell’alcolismo, 18


Marco Santoro

oltre che della malattia, Parsons dedicò molte energie intellettuali parallelamente a quelle spese sul tema del professionismo)26. Gli esempi del padre e del fratello maggiore non indirizzarono peraltro solo gli interessi intellettuali del neosociologo, ma influenzarono anche i suoi orientamenti specificamente professionali. In un certo senso, possiamo dire che Parsons si è sforzato, seguendo gli esempi che la sua vita familiare gli offriva, di fare della sociologia stessa una professione liberale come la teologia e la medicina. Per questo la sua sociologia delle professioni è inestricabilmente anche una sociologia della sociologia. Una sociologia normativa della sociologia, secondo i suoi critici (da Gouldner a Bourdieu), più che una vera e propria sociologia riflessiva disposta a mettere in discussione criticamente i propri fondamenti. Che Parsons sia stato guidato da un ideale normativo nelle sue analisi delle professioni (e non solo in queste) è fuori discussione. Da lui stesso denominato individualismo istituzionale, questo ideale costituisce la cifra della sua peraltro ingente prestazione intellettuale27. Ma non coglie l’autentico motivo ispiratore dell’opera parsonsiana chi si ferma alla constatazione di un soggiacente pregiudizio ideologico, senza considerare le radici insieme biografiche e storico-istituzionali di quell’ideale normativo e insieme riconoscere l’eccezionale sforzo parsonsiano per trascenderle sul piano intellettuale. Come ha notato Alexander: Parsons si è barcamenato in questo delicato percorso tra moralità individualiste e collettiviste, razionaliste e normative sin dagli inizi della sua carriera. In un certo senso, questa lotta ha preso la forma di 19


Presentazione un ininterrotto dibattito tra Parsons e la sua eredità cristiana. Le radici familiari di Parsons affondano nel movimento del Social Gospel dell’America del Midwest, una tradizione che di fronte agli abusi del primo industrialismo ha rifiutato l’individualismo e il privatismo dell’originario protestantesimo americano per accentuare l’attivismo politico e il riformismo28.

L’ideale normativo di Parsons si è forgiato al confronto con le principali tradizioni politico-culturali dell’Occidente: se dal liberalismo utilitarista ha tratto il motivo dell’autonomia individuale e dell’autocontrollo cosciente, dalle tradizioni collettiviste – materialiste o idealiste (comprese quelle cristiane) che siano – ha ricavato la piena consapevolezza delle forze sociali con cui questa autonomia individuale deve in ogni caso confrontarsi. A differenza degli utilitaristi, Parsons non credeva che l’individuo potesse essere realmente indipendente dall’ordine collettivo. Quello della libertà era quindi per lui un problema di natura esclusivamente qualitativa: esso riguardava la natura dei vincoli collettivi ed istituzionali, non la loro presenza (considerata inevitabile). È appunto ad una discussione analitica di queste forze sociali, e della loro possibile integrazione con il requisito ideale della libertà individuale, che sono dedicati i due saggi sulle professioni qui raccolti.

Professioni e libertà secondo il giovane Parsons Quando, nel ’39, Parsons pubblica The Professions and Social Structure e scrive Academic Freedom, il suo è 20


Marco Santoro

dunque un interesse di ricerca già piuttosto definito, e che infatti avrebbe ancora prodotto ulteriori significativi risultati nel corso degli anni, costituendo una sorta di leitmotiv della sua intera opera almeno sino a The American University del 1973, secondo alcuni interpreti il suo più importante libro dopo La struttura29. Come avrebbe scritto in un saggio di poco successivo dedicato appunto al problema della motivazione delle attività economiche, in cui avrebbe ripreso il confronto tra professioni e business inquadrandolo in una cornice teorica diversa, più direttamente centrata sui caratteri e le aporie della teoria economica: «l’essenza del professionismo consiste in una serie di limitazioni allo smodato perseguimento di fini egoistici». Si pensi, dice Parsons, ai codici di etica medica che proibiscono qualsiasi forma di pubblicità professionale, obbligano ad occuparsi del paziente indipendentemente dalla probabilità di essere pagati e vietano la riduzione dei prezzi per farsi concorrenza. È vero, riconosce Parsons, che i medici infrangendo il codice professionale potrebbero ottenere un vantaggio finanziario diretto, loro negato dall’osservanza a quelle norme; ma – e questo è il punto analiticamente più delicato – ciò non significa che, aderendo al codice, essi agiscano contro i propri interessi, che è quanto naturalmente cercano di evitare gli uomini d’affari. «Al contrario – fa notare Parsons –, le prove emerse da uno studio della pratica medica [non ancora pubblicato] suggeriscono una conclusione del tutto diversa, vale a dire, che uno degli elementi principali di disparità [tra professioni e business] è la differenza sul piano istituzionale, anziché, come comunemente si ritiene, quella sul piano della motivazione». Ciò non vuol dire, precisa Parsons, che non vi siano anche differenze sotto il profilo moti21


Presentazione

vazionale, riconducibili a meccanismi di socializzazione più o meno anticipata30, ma questo non riduce la rilevanza della mediazione garantita dal “fattore istituzionale”. In entrambi i casi, l’egoismo dell’individuo è imbrigliato per preservare il codice istituzionale vigente nella sfera lavorativa in questione. È vero che valendosi di espedienti pubblicitari, rifiutando di curare persone povere, o in talune circostanze abbassando i prezzi, un medico potrebbe conseguire vantaggi economici immediati. Ma è dubbio, nel caso che la struttura istituzionale sia efficiente, che da un punto di vista più generale ciò corrisponda al suo interesse effettivo. La cosa, infatti, provocherebbe una reazione nociva nei suoi confronti, sia fra i colleghi professionisti, che fra il pubblico. Perdurando egli in tale atteggiamento, la sua posizione professionale finirebbe per soffrirne e con ogni probabilità si avrebbe la perdita o una notevole diminuzione di vantaggi più tangibili, come le raccomandazioni di pazienti da parte di altri dottori. Non si vuol dire che di solito il sanitario la pensi in questi termini, poiché in genere è improbabile che gli capiti di considerare la possibilità di allontanarsi dal codice. Ma i sottostanti meccanismi di controllo sono comunque presenti31.

Il sociologo Parsons è molto attento a non lasciar credere che dietro questo contrasto – altruismo nel caso delle professioni, egoismo in quello del commercio e degli affari – ci siano motivi psicologici o disposizioni caratteriali. Ciò che qualifica il comportamento professionale è una struttura normativa istituzionalizzata su cui si fon22


Marco Santoro

dano le aspettative del cliente come quelle del professionista, e che ha origine – secondo il nostro autore – nella natura stessa del sapere professionale, la cui acquisizione implica un prolungato addestramento specialistico ed una socializzazione entro la struttura stessa organizzativa ed istituzionale della professione32. Infrangendo i codice di comportamento, i professionisti potrebbero forse conseguire un vantaggio economico diretto, loro negato dall’osservanza delle norme etiche; ma questo non significa che, aderendo al codice, essi agiscano contro i propri interessi. Un atteggiamento di aperta violazione delle norme professionali infatti provocherebbe, se la struttura istituzionale è efficiente, una reazione nociva nei suo confronti, sia da parte dei colleghi, che dal pubblico (nella misura in cui il pubblico riesce a cogliere il comportamento professionalmente deviante). In sintesi, la natura esoterica del sapere di cui le professioni sono depositarie è tale da impedire che altri possano controllare il comportamento dei loro membri. Questi ultimi sono così istituzionalmente dotati, sia come gruppo che come singoli (ma pur sempre in quanto membri di una collettività istituzionalizzata), di un potere-dovere di autocontrollo ed autodisciplina, che si esprime nella duplice forma di un codice etico e di una organizzazione di tipo collegiale, al quale spetta garantire la sussistenza di quello che era visto da Parsons e dai suoi allievi come il principale elemento identificante e qualificante delle professioni in quanto occupazioni speciali, e cioè il loro orientamento all’interesse pubblico e la subordinazione a questo dell’interesse personale dei singoli professionisti33. Per queste loro caratteristiche, le professioni si distinguerebbero nettamente dalle altre occupazioni di 23


Presentazione

tipo commerciale o amministrativo. Il professionismo costituirebbe anzi proprio una forma istituzionalizzata di controllo sociale, tipica delle occupazioni ad alto contenuto cognitivo, alternativa al mercato ed alla gerarchia amministrativa e capace di neutralizzare le conseguenze potenzialmente distruttive – dell’ordine sociale come della persona – di entrambi34. Le professioni trattano questioni che hanno un significato emotivo profondo ed una rilevanza pratica cruciale – non solo la salute e la vita (che è materia dei medici), ma anche la libertà e la proprietà (di cui si occupano gli avvocati), il controllo della natura (appannaggio di scienziati ed ingegneri), o i valori ultimi (di cui si occupano i sacerdoti). Poiché questi campi sono di cruciale importanza, e poiché i clienti o i pazienti sono incapaci di giudicare la qualità e la natura dei servizi prestati, le professioni sono caratterizzate da un orientamento fiduciario o al servizio, tale per cui ci si aspetta che il benessere del cliente o del paziente venga prima dell’interesse del professionista. La protezione di chi usufruisce del servizio dal potenziale sfruttamento del professionista esperto è affidata normalmente a un codice etico che regolamenta il comportamento professionale e a cui ci si attende che i professionisti si attengano. È questa un’indispensabile caratteristica del rapporto cliente-professionista, che contrasta con il modello tipico delle occupazioni commerciali, nelle quali ci si attende che chi vende un bene o un servizio cerchi comunque di massimizzare il proprio interesse alle spese di chi lo acquista. L’uomo impegnato in attività professionali non è considerato dedito alla ricerca di un profitto perso24


Marco Santoro nale, bensì alla prestazione di servizi nei confronti di pazienti o clienti, oppure a valori impersonali come il progresso della scienza35.

Se, con il loro ideale di servizio postulante la prevalenza dell’interesse del cliente e del pubblico su quello dell’esercente, le professioni si presentavano a Talcott Parsons come uno dei pilastri dell’ordine sociale, che né il mercato né la burocrazia avrebbero potuto da soli garantire, esse non erano – nonostante le apparenze – semplici sopravvivenze di un mondo in via di sparizione, soffocato dalla progressiva commercializzazione e burocratizzazione. Esse erano anzi un ingrediente fondamentale dell’ordine sociale specificamente “moderno”, basato su valori come la razionalità, la diffusione della tecnica e il progresso della scienza. Non a caso, nella sociologia parsonsiana le norme che governano il servizio professionale, istituzionalizzate in quella che potremmo concettualizzare come una sorta di idealtipica “cultura professionale”, sono quelle che forse meglio illustrano le cosiddette pattern variables, le “variabili-modello” (o anche, secondo una traduzione che ha lasciato il segno, le “variabili strutturali”), vale a dire i modelli di aspettativa e di orientamento normativo che Parsons enucleò per la prima volta proprio nel saggio su “professioni e struttura sociale”, chiaramente riprendendo e sviluppando il classico schema tipologico elaborato da Ferdinand Tönnies per rendere conto delle differenze tra società tradizionale (sussumibili nella categoria di Gemeinschaft) e società moderne (classificate come Gesellschaft). Ogni variabile strutturale rappresenterebbe, nella proposta analitica parsonsiana, un dilemma che l’attore deve risolvere prima di intraprendere un’azione: 25


Presentazione

secondo il modello sviluppato nella teoria volontaristica dell’azione, le scelte di un attore non sono infatti mai arbitrarie né strettamente determinate dal calcolo utilitaristico, ma poggiano sempre e necessariamente su norme sociali, la cui identificazione e applicazione appropriata non è che l’esito finale e quasi automatico di un riuscito processo di socializzazione36. Vediamo dunque come questi dilemmi vengono analiticamente rappresentati da Parsons, muovendo proprio dal saggio del ’39. Nella loro struttura istituzionale, le professioni esigono dai loro membri, nota Parsons, orientamenti normativi specifici, che sono essenziali alla definizione della società moderna, come neutralità affettiva (il professionista, ad esempio il medico, non è, o meglio non deve essere, emotivamente coinvolto nei problemi del suo paziente); universalismo (il professionista tratta tutti allo stesso modo); specificità funzionale (il professionista si interessa solo di ciò che è di sua competenza); status acquisito (il professionista è tale per i suoi meriti intellettuali, per il suo talento e non per ereditarietà). Tuttavia, a differenza del tipico orientamento normativo moderno in vista dell’individuo agente, di cui il tipo dell’uomo d’affari (o dell’imprenditore) è esemplare o paradigma ben noto, il professionista è client-oriented: collettivismo (il professionista lavora per il bene comune) e non individualismo (cioè egoismo, o autoreferenzialità) impone la struttura istituzionale, cioè normativa, del tipo professionale, che lo distingue perciò dal tipo dell’imprenditore, istituzionalmente profit-oriented37. Antidoto alla diffusione di motivazioni d’azione egoistiche e unicamente orientate al profitto, che hanno nella figura sociale dell’imprenditore – e cioè nel modello classico del “borghese” così come definito da Sombart, 26


Marco Santoro

Schumpeter, per taluni aspetti anche Weber – la loro espressione idealtipica38, le professioni corrispondevano in tal modo ad un intimo bisogno cognitivo dello stesso Parsons, direttamente ereditato dai classici del pensiero politico e dai suoi immediati predecessori sociologi, che era poi quello della soluzione del classico problema di “come è possibile l’ordine sociale”39. Ma i sociologi non sono solo risolutori di puzzle analitici ed eredi di tradizioni intellettuali: essi vivono in un mondo storico che è anche fonte di preoccupazioni politiche e morali, oltre che di stimoli culturali e ideali. Ciò vale per il sociologo mosso da preoccupazioni di riforma sociale e tutto proteso alla raccolta di materiale empirico utile alla progettazione di interventi di policy come per il teorico sociale, persino per un “inguaribile teorico” come lo stesso Parsons si definiva. Riportando il sociologo nel mondo sociale e storico in cui si trova ad esercitare la sua immaginazione e tensione analitica, le “professioni” acquistano quindi nuova luce in quanto antidoti istituzionali (e istituzionalizzabili) a due delle tendenze storicopolitiche più impetuose e preoccupanti per un intellettuale attivo negli anni Trenta, e cioè l’espansione potenzialmente anomica del capitalismo (all’origine della crisi del ’29 e della successiva Depressione che colpì pesantemente l’economia e la vita sociale e culturale americana), e l’ascesa in Europa del fascismo e del nazismo, delle due forze cioè che più direttamente sembravano mettere in discussione i pilastri della tradizione culturale occidentale su cui si reggono istituzionalmente le professioni. Il saggio Academic Freedom è in questo senso esemplare per cogliere le motivazioni insieme analitiche e politiche dell’analisi parsonsiana delle professioni. La connessione allo stesso tempo storica e concettuale fra 27


Presentazione

professioni e tradizione culturale occidentale era stata enfatizzata da Parsons sin dal breve saggio del ’37 su professioni e educazione: Le professioni moderne sono emerse dalla grande tradizione della cultura europea […]. È ovvio che una professione è un gruppo occupazionale specializzato – un gruppo che possiede, inoltre, una competenza speciale. Ma questa competenza non è consistita solamente in abilità pratiche […] ma ha coinvolto, alla base stessa di queste abilità, una forma di conoscenza […] di carattere generalizzato. Questo è ciò che giustifica il titolo di professioni colte o intellettuali (learned). Una professione in questo senso ha, contrariamente ad un mestiere (trade), un contenuto intellettuale genuino della sua tradizione – un contenuto che in generale forma una parte integrale della grande tradizione della cultura nel suo complesso […]. Questo ideale di intellettualità (learnedness) contiene in sé una componente che può essere chiamata “liberalità”. Perché per padroneggiare questo contenuto intellettuale della tradizione professionale è essenziale lo spirito liberale […]. La valorizzazione del sapere fine a se stesso è una parte necessaria dello spirito liberale. Ma c’è al contempo un altro aspetto della liberalità. Il professionista ideale non è solo un tecnico esperto nel senso che trascende abilità specializzate; in virtù della sua padronanza di una grande tradizione egli è un uomo educato in modo liberale, vale a dire un uomo di cultura (education) generale. Nella grande tradizione europea, sottostante il sapere specializzato caratteristico di ciascuna delle varie professioni, c’è 28


Marco Santoro [sempre] stato un comune sostrato. Questo è stato, naturalmente, la tradizione umanistica; i professionisti (professional men) sono stati uomini educati in senso umanistico, uomini di cultura liberale40.

È in questo sostrato, conclude Parsons, la base del rapporto privilegiato, se non necessario, delle professioni con l’università: «perché le università sono, nella grande tradizione europea, i depositari per eccellenza del sapere (learning) – le agenzie responsabili della sua perpetuazione, trasmissione, e avanzamento»41. In quanto specifica professione del sapere, dedicata specificamente alle funzioni dell’apprendimento, della trasmissione e dell’avanzamento della conoscenza, la professione accademica non solo era dunque una professione a pieno titolo, pur mancando del carattere, per alcuni essenziale, dell’applicazione pratica, ma poteva persino godere di uno status privilegiato entro il complesso dei gruppi professionali42. Cruciale per lo svolgimento di questa professione, così essenziale per il complesso di tutte le professioni, è per Parsons la ricerca disinteressata della verità, avvenga questa ricerca secondo i canoni del metodo scientifico o secondo quelli dell’indagine umanistica (dalla teologia, alla storiografia, alla critica d’arte). Osservazione, verifica dei fatti, ragionamento logico su quei fatti non sono privilegi epistemologici della sola scienza, ma caratteri necessari di ogni “componente della tradizione culturale occidentale” che abbia acquisito “status accademico”: “accuratezza nella formulazione, chiarezza e ragionamento logico” sono “norme vincolanti”43 colui che esercita la professione accademica, norme che definiscono per Parsons, weberianamente, un tipo specifico di razionalità oggettiva. 29


Presentazione

Un campo di studi, e la sua applicazione pratica sotto forma di professione, può dirsi “liberale” solo quando questa razionalità può dispiegarsi senza interferenze illegittime – essendo la liberalità dunque, per Parsons, la specifica situazione di libertà e indipendenza in cui si trova ad agire chi si lascia guidare, o meglio vincolare, nella sua “ricerca della verità” dalle sole norme tecniche della razionalità oggettiva. Se libertà di ricerca e libertà di insegnamento sono le due manifestazioni più immediate di questa libertà accademica radicata nella tradizione culturale occidentale, che aveva prodotto insieme università e professioni e resa necessaria dai requisiti stessi di una efficiente performance accademica, al professionista (docente) accademico spettano però anche obblighi, primo fra tutti quello di utilizzare i suoi privilegi per fini strettamente accademici ed entro i confini stabiliti dalle norme tecniche stesse. Sono queste norme, e questi fini, a definire anche i contorni della specifica autorità professionale di cui si avvale la professione accademica, come ogni altra professione: una autorità fondata su basi squisitamente tecniche e circoscritta ad un campo specificamente tecnico di competenze44. Il che non vuol dire però, si affretta a precisare Parsons, che al professionista manchino riferimenti etici o morali, tutt’altro. Ma questa moralità professionale, da cui dipende appunto lo svolgimento adeguato delle attività professionali, consiste precisamente nell’operare all’interno del codice morale così definito, e non ultimo nell’osservanza dei limiti che esso impone. Diventa così una questione di obbligazione morale astenersi, nella propria funzione di professionista, dal pretendere un’autorità morale invece che tecnica45. 30


Marco Santoro

E non è tutto: essendo il professionista, anche il professionista accademico, vincolato nel suo esercizio al rispetto di norme tecniche di razionalità oggettiva, il loro rispetto e anche la loro difesa diventano per lui impegni morali, in altre parole valori. Lungi dal presupporre indifferenza ai valori e neutralità assiologica, le norme della razionalità oggettiva possono diventare pienamente operative e funzionali solo quando esse si trasformano per il professionista in oggetti di continuativo impegno morale. Perché il disinteresse che fonda la ricerca della verità dell’uomo accademico sia davvero possibile, esso deve fondarsi su un preciso interesse, da parte dell’accademico stesso, al sostentamento e alla difesa del sistema di valori che fonda la possibilità stessa di un perseguimento disinteressato della verità46.

Le professioni nella teoria funzionalista Prototipo dell’attore sociale razionale, per questo “moderno”, il professionista si caratterizza insomma nella concezione parsoniana soprattutto per una serie di aspetti normativi che lo rendono esemplare di quella interdipendenza di interessi e valori su cui si fonda nella teoria funzionalista l’ordine sociale. Lo specifico funzionale delle professioni – che spiega tanto la loro origine quanto il particolare involucro istituzionale in cui esse operano – sta infatti precisamente nel soddisfacimento di cruciali bisogni sociali, come la salute e l’integrità personale, o la giustizia, che richiedono da un lato precise garanzie verso la società e dall’altro un sistema di incentivi e gratificazioni tali da ricambiare il maggior impegno (in termini di preparazione intellettuale e di rischio) che 31


Presentazione

l’esercizio delle funzioni professionali presuppone47. È a questo punto che la teoria delle professioni poteva integrarsi con quella della stratificazione sociale – un compito che Parsons lascerà in gran parte ai suoi allievi48, ma che egli stesso ebbe occasione di perseguire in una serie di scritti dedicati all’analisi di specifiche professioni, o meglio ruoli occupazionali. Il legame tra questi saggi focalizzati su specifici oggetti empirici e i testi, più noti, orientati verso l’edificazione di quella teoria generale dell’azione che ha costituito il nucleo principale della ricerca parsonsiana non è sempre esplicito né chiaramente evidente49, anche se è indubbio che la concezione delle professioni abbozzata nei saggi della fine degli anni Trenta sarebbe stata negli anni successivi – grosso modo nel corso degli anni Quaranta e cinquanta – integrata in uno schema teorico di vasta portata che metteva in relazione i due concetti cruciali della sociologia parsonsiana, quello di azione sociale (messo a fuoco sin dal libro del ’37) e quello di sistema (architrave del volume omonimo del ’51). A fare da tramite tra le due categorie, con specifico riferimento al nostro oggetto, è il concetto di ruolo: Io concepisco una professione come una categoria di ruolo occupazionale che è organizzata intorno alla padronanza di ed alla responsabilità fiduciaria di qualche importante segmento di tradizione culturale di una società, compresa la responsabilità della sua perpetuazione e del suo sviluppo futuro. Inoltre, una professione può avere la responsabilità dell’applicazione del suo sapere a situazioni pratiche50.

32


Marco Santoro

Così Talcott Parsons, nel 1959, in un lavoro relativamente tardo dedicato proprio alla professione del sociologo, riprende a distanza di vent’anni le sue prime riflessioni teoriche sull’idea di professione, enunciate originariamente in The Professions and Social Structure. Come si evince dal brano, la definizione avanzata originariamente da Carr Saunders e Wilson era per Parsons insufficiente. Non era solo la “tecnica intellettuale”, cioè l’applicazione di un sapere, a rilevare, ma anche la sua trasmissione ed il suo sviluppo in una tradizione culturale. Parsons concepiva infatti le “professioni” come occupazioni che presuppongono il possesso di un sapere altamente generalizzato da applicare a problemi che sono rilevanti per il buon funzionamento del sistema sociale, in quanto connessi a valori a cui la società attribuisce una particolare importanza. Parsons ha probabilmente sviluppato questa idea nel modo più ampio discutendo la professione medica nel decimo capitolo di The Social System. La professione medica è orientata in vista della lotta contro i disturbi alla salute dell’individuo, cioè contro la malattia o infermità. […] La salute è inclusa tra i bisogni funzionali del singolo membro della società per cui, dal punto di vista del funzionamento del sistema sociale, un livello generale di salute troppo basso, cioè un’alta incidenza di malattia, risulta disfunzionale. […] La professione medica, nel senso prima definito, costituisce un meccanismo del sistema sociale per far fronte alle malattie dei suoi membri [ed] è organizzata sulla base dell’applicazione della conoscenza scientifica ai problemi della malattia e della salute, cioè al controllo della malattia51. 33


Presentazione

Ricordiamolo. I sociologi che si riconoscono nell’approccio funzionalista spiegano le disuguaglianze sociali come l’effetto della disuguale ricompensa che la società riconosce ai suoi membri in funzione dell’importanza delle loro competenze ai fini del mantenimento ordinato della società medesima. La teoria funzionalista concepisce dunque la stratificazione sociale come un «espediente inconsapevole attraverso il quale le società si assicurano che le posizioni più importanti siano responsabilmente occupate dalle persone più qualificate»52. Attraverso l’elevato status sociale e gli alti redditi, coloro che hanno talento sono incentivati a svilupparlo sottoponendosi ai lunghi anni di formazione teorica e pratica che l’esercizio di una professione intellettuale richiede. La stratificazione sociale si risolve dunque in un gigantesco meccanismo di selezione del talento, incentivazione al suo sviluppo e allocazione in ruoli cruciali per la società, di cui quelli professionali costituiscono la quintessenza. Come ha scritto W.J. Goode, «il reddito dei professionisti è mediamente più elevato di quello di altre occupazioni perché c’è bisogno dei loro servizi (essi hanno le cognizioni per risolvere un problema) e non ci sono alternative»53. In termini di uno schema di domanda e offerta, ciò significa che le professioni hanno un monopolio su un prodotto di valore, che essi hanno ottenuto perché hanno persuaso la società che nessun altro può fare meglio quel lavoro ed è pericoloso permettere ad altri di provare. Non mancava dunque, soprattutto nelle discussioni più tarde come questa di Goode, una consapevolezza della base politica del reddito, del prestigio e dell’autonomia professionali. Caratteristico della teoria funzionalista è, però, fino all’ultimo, l’assenza di una considerazione specifica circa 34


Marco Santoro

la collocazione del professionista nella struttura sociale. Laddove i sociologi marxisti istituiscono una netta separazione tra classi in funzione di un unico criterio di distinzione ed opposizione (tipicamente, la proprietà dei mezzi di produzione), i funzionalisti scorgono invece una serie di differenze continue lungo numerose variabili, comprese il reddito, l’occupazione, l’istruzione. Da qui l’enfasi posta sull’eterogeneità delle professioni e dei loro membri in termini di estrazione sociale, formazione professionale, clientela, reddito e orientamento politico, e sulla loro “posizione interstiziale” nella struttura sociale, che Parsons ha in particolare concettualizzato in riferimento alla figura dell’avvocato: La posizione della professione legale è una posizione, diciamo, “interstiziale”. In primo luogo essa è non solo “orientata verso”, ma – ad un livello più alto – “integrata” con la struttura politica. In secondo luogo la professione legale è organizzata attorno al ruolo di “garante” parzialmente indipendente della tradizione giuridica rispetto alla quale essa ha delle prerogative di indipendenza e di monopolio interpretativo riconosciuto a livello formale e informale. […] Infine la professione ha così stretti rapporti con i privati, individui o enti, ed è intimamente legata ai loro affari e interessi da diventarne mero “strumento” con tutti i costi del caso. [… Ma] l’avvocato ricopre una posizione di responsabilità sempre restando indipendente, cosicché egli non può essere considerato né al servizio del cliente, benché ne rappresenti gli interessi, né tanto meno al servizio di qualsiasi altro gruppo sociale che rappresenti la pubblica autorità54. 35


Presentazione

In quanto membro di una categoria professionale che svolge funzioni cruciali per la società l’avvocato deve mantenere la sua integrità, e la sua posizione nella società mette chiaramente in risalto, dice Parsons, questa responsabilità che grava su di lui. La sua funzione rispetto ai clienti non è solo garantire loro ciò che desiderano, ma anche sapere resistere alle loro pressioni. È in questo senso che l’avvocato svolge una funzione di “cuscinetto” tra le pretese illegittime dei suoi clienti e gli interessi sociali, così rappresentando la legge – cioè la società – più che il suo cliente e, potremmo aggiungere anche se Parsons non lo dice, il suo gruppo professionale e il milieu sociale a cui pure appartiene55. Così, seppure gli attributi del prestigio e dello status speciale che i funzionalisti riconoscono al professionista rimandano immediatamente alla sua collocazione nel sistema di stratificazione, la strategia analitica adottata dal funzionalismo tende – in particolare secondo i critici marxisti – a separare queste categorie speciali del sistema di divisione sociale del lavoro dalla struttura delle disuguaglianze di classe in cui pure sono inseriti56. Ad accomunare ruoli e figure sociali così diverse non è dunque una comune posizione nella struttura del sistema sociale ma, ancora una volta, la dimensione cognitiva e normativa propria del tipo istituzionale professionale. Bene integrato nella concezione funzionalista dell’azione e dell’organizzazione sociale, divenuto negli anni Cinquanta e Sessanta il paradigma di base della sociologia americana (e non solo di quella), lo sforzo analitico parsonsiano non fu tuttavia sufficiente a risolvere il problema di una definizione del termine capace di rispondere ai molti dubbi che continuamente insorgevano circa 36


Marco Santoro

gli esatti criteri di applicabilità del concetto nella realtà empirica. Il problema di una delimitazione precisa del concetto era, come è chiaro, ben presente al sociologo di Harvard, che in più occasioni nel corso della sua lunga attività di studioso tornò sulla questione57. Chi fossero i professionisti, a quali gruppi fosse possibile assegnare il nome di “professione” in modo da non contraddirne il concetto analiticamente sviluppato con tanta precisione, Parsons non chiarì però in fondo mai, se non in termini negativi: I professionisti non sono né “capitalisti” né “lavoratori”, né sono tipicamente amministratori pubblici o “burocrati”. Certamente non sono contadini indipendenti o membri dei gruppi dei piccoli proprietari urbani. Come per tante categorie di status sociale, i limiti del sistema dei gruppi che noi chiamiamo in genere professioni sono fluidi e indistinti58.

Alla ricerca di questi confini, i sociologi che si sono mossi sul solco della concezione parsoniana si sono ingegnati ad escogitare i criteri definitori più stringenti, quelli definiti come “essenziali” o “originari”, cimentandosi anche nella costruzione di scale di “professionismo” (professionalism) con cui misurare i gradi di scostamento di un’occupazione dal modello ideale di professione così congegnato. Così, in un celebre articolo del 1963, un allievo di Parsons, Bernard Barber, provò a sintetizzare il cammino sino a quel momento compiuto al fine di identificare con precisione la differentia specifica del comportamento professionale, ciò che lo rendeva tale e non altro. Scartate nozioni quali stile di vita, solidarietà corporativa, socializzazione, che erano comuni a tutti i 37


Presentazione

gruppi sociali, Barber metteva l’accento su quattro attributi considerati “essenziali”: un alto grado di conoscenza generale e sistematica; un orientamento fondamentale verso l’interesse comunitario piuttosto che verso l’interesse individuale; un alto grado di autocontrollo nel comportamento attraverso codici di etica interiorizzati nel processo di socializzazione al lavoro e attraverso associazioni volontarie organizzate e dirette dagli specialisti stessi del lavoro; infine un sistema di riconoscimenti (monetari e onorari) che è fondamentalmente una serie di simboli dei successi raggiunti nel lavoro, che sono fini in se stessi, non mezzi per giungere a soddisfare un interesse individuale59.

Negli stessi anni, un altro allievo, W.J. Goode, provava a fare ordine nelle numerose liste di caratteristiche usate sia dai sociologi sia dalla gente comune per fare distinzioni di valore tra occupazioni, riconoscendo in primo luogo la loro comune derivazione da una concezione idealtipica la cui più forte approssimazione nella realtà storico-sociale restava il complesso definito dalla medicina e dal sacerdozio, quindi astraendo da queste liste quelli che potevano considerarsi a ragione gli elementi centrali, quelli originari, da cui gli altri erano generati, ancora una volta individuandoli in “un corpo basilare di conoscenza astratta”, e nell’“ideale di servizio”. Riconoscendo che entrambi in realtà contengono molte dimensioni, e che a sua volta ogni subdimensione si risolve in un continuum, ne derivava che una data occupazione può avvicinarsi in misura variabile al polo professionale: per questo sarebbe stato sensato chiedersi «dove lungo 38


Marco Santoro

quel subcontinuum possa trovarsi ciascuna occupazione, anche se chiaramente non debba considerarsi una professione»60. Se i risultati di questa linea di ricerca sono stati riconosciuti dagli stessi sociologi come “ampiamente infruttuosi”61, non può però tacersi che la crisi della concezione parsonsiana della società esplosa negli anni Settanta si è manifestata anche sotto forma di una netta presa di distanza rispetto al più specifico programma di ricerca funzionalista sulle professionii, facendo salire alla ribalta correnti di matrice weberiana e marxista da un lato, ed interazionista (e in genere microsociologiche) dall’altro che erano rimaste nell’ombra62, e che proprio nel concetto tassonomico di “professione” di origine parsonsiana hanno identificato il loro più tipico bersaglio critico. I problemi dell’analisi sociologica delle professioni condotta da Parsons nel corso degli anni non sono in fondo diversi dai più generali problemi della sociologia parsonsiana – né potrebbero esserlo, considerata la centralità che la riflessione sulle professioni ha per la più generale prestazione intellettuale del sociologo di Harvard. Mi limito qui a segnalarne due. Primo: Parsons ha disseminato il suo modello teorico-analitico di numerose potenziali contraddizioni, come tali suscettibili di produrre tensioni e conflitti, senza mai svilupparne sino in fondo le implicazioni. Il sistema delle variabili strutturali è in sé un sistema di tensioni, perché le variabili sono per loro natura in contraddizione: l’universalismo è in contraddizione con il particolarismo, la specificità si oppone alla diffusività, ecc. Come ha notato Guy Rocher, però, «Parsons trascura il fatto che la predominanza di un polo di una variabile in un sistema concreto di azione non esclude mai completamente 39


Presentazione

l’altro polo. C’è sempre del particolarismo là dove regna l’universalismo, resta l’espressione affettiva là dove domina la neutralità. In ogni sistema d’azione, questa presenza del polo opposto è una fonte latente di scontro e conflitto»63. Non è un caso che Parsons non sia mai davvero riuscito ad integrare teoria e ricerca empirica nei suoi studi, persino in quelli sulle professioni che pure presupponevano, come abbiamo visto, uno sforzo di ricerca empirica e un percorso concreto in questo senso. Parsons è troppo attento alla pulizia dei suoi modelli analitici per accogliere in tutta la loro valenza cognitiva le ruvidezze del fieldwork, della ricerca sul campo, che pure ha per qualche tempo condotto. Come sappiamo, Parsons non era particolarmente interessato a sviluppare quelle teorie di medio raggio tanto care al suo allievo e amico Merton, non era dunque interessato alla costruzione di teorie controllabili empiricamente, o verificabili come si diceva un tempo: il suo compito è sempre stato un altro, cioè approntare un sistema di classificazioni e tassonomie analiticamente anche sofisticato, ma sempre – si direbbe – focalizzato sul piano della modellistica istituzionale a scapito di quello delle pratiche, delle condotte situate, delle tensioni organizzative, delle deviazioni istituzionalizzate (oggetto prediletto, quest’ultimo, del chicagoano Hughes, semmai). Così, per fare giusto un esempio tratto dal primo dei saggi qui inclusi, pur riconoscendo la presenza anche operativa di “cricche” nelle organizzazioni professionali, ciò che Parsons ne trae è solo una tensione a livello di singolo membro della professione, che deve trovare una soluzione tra la sua fedeltà al gruppo informale e lo spirito di servizio pubblico iscritto nel modello istituzionale 40


Marco Santoro

del tipo professionale, e non una potenziale distorsione del modello istituzionale stesso, al punto da renderlo una semplice facciata o una maschera ideologica dietro a cui, e grazie alla quale, il gruppo professionale e le sue interne articolazioni possono agevolmente perseguire i propri interessi di parte, anche a scapito del pubblico. Secondo: la sociologia parsonsiana considera per lo più (anche se non sempre) come data l’esistenza di norme e valori, senza troppo interrogarsi sulla loro origine64, sui meccanismi e processi della loro creazione, e ancor meno su quelli del loro utilizzo da parte degli attori sociali in concrete situazioni. Il sistema culturale è, in effetti, insieme il più cruciale nell’economia generale del sistema dell’azione, e il più trascurato – effetto questo della divisione del lavoro tra sociologia e antropologia culturale che Parsons stesso aveva codificato in un influente articolo scritto con un decano della disciplina antropologica come Alfred Kroeber65. Paradossalmente, il sociologo che è stato accusato di sposare una concezione ultrasocializzata dell’attore in cui sono i valori e le norme a guidare l’azione, e che ha fatto dei valori il motore stesso dell’evoluzione sociale (o il livello dominante nella gerarchia cibernetica dei controlli) non si è mai troppo soffermato sull’analisi del loro universo. Così, la cultura professionale finisce spesso per essere, nell’analisi parsonsiana, un sistema di norme statico e autosufficiente, e non un complesso di significati immersi nella storia da interpretare sulla base degli usi che ne fanno concreti attori alle prese con sistemi normativi che sono sempre insieme incompleti ed eccedenti (rispetto ai piani di azione, rispetto alle strategie, rispetto talvolta alle stesse competenze cognitive). 41


Presentazione

L’eredità di Parsons Non è questa la sede per un resoconto della sociologia delle professioni, che si sarebbe sviluppata con vigore tra gli anni Settanta e Ottanta in direzioni ostinate e contrarie rispetto appunto alla teoria funzionalista, chi seguendo Marx chi Weber chi, infine, attingendo almeno dichiaratamente alle radici della scuola di Hughes (come avrebbe fatto Andrew Abbott in un importante libro degli anni Ottanta)66. Piuttosto, vale la pena concludere questa presentazione con una rilettura di quella teoria alla luce degli sviluppi critici interni alla stessa tradizione parsonsiana, per quanto arricchita dei molti possibili riferimenti anche critici che la storia intellettuale ha offerto negli ultimi due decenni. Il riferimento ad Alexander e alla sua proposta neofunzionalista è qui inevitabile. Del resto, è in un libro da lui curato che troviamo quella che sin dal titolo si presenta come una sistemazione critica interna alla teoria della sociologia parsonsiana delle professioni. Il suo autore, Bernard Barber, non è solo un allievo tra i più noti di Parsons, ma anche l’autore di uno dei saggi teorici più citati in questo settore disciplinare. Secondo Barber, che scrive – si badi – alla metà degli anni Ottanta, Parsons ha costruito una teoria delle professioni che era in linea di principio come la sua teoria generale della società, cioè «una miscela di elementi razionali e strumentali da una parte e di elementi normativi e di valore dall’altra»67, ma in pratica, negli scritti di Parsons sulle professioni come in quelli dei suoi allievi (tra cui lo stesso Barber), questa teoria multidimensionale restava latente e l’analisi dei valori veniva troppo direttamente tradotta in proposizioni empiriche, a spese di una adeguata considerazione delle componenti autointeres42


Marco Santoro

sate del comportamento professionale68. Se Parsons definiva le professioni come «quelle occupazioni che posseggono e applicano sapere altamente generalizzato» ed esoterico, egli non ha mai però specificato, nota Barber, cosa intendesse per sapere generalizzato o in che senso quello delle professioni fosse esoterico69. Un corpo di conoscenze professionali non è solo complesso, come afferma il modello funzionalista, ma è anche frammentato e in cambiamento continuo70. Inoltre, esistono diversi tipi di conoscenza oltre a quella razionale e scientifica, che resta alla base del modello, che hanno conseguenze diverse sul gap tra professionisti e cliente71. Non specificata è rimasta anche la misura di autocontrollo richiesta da questo sapere esoterico, e il tipo di rapporti tra i meccanismi formali ed informali di autocontrollo professionale e le più generali forme di controllo sociale e politico. Soprattutto, la teoria funzionalista ha trascurato di prestare attenzione alle condizioni di efficacia di questi controlli, in primo luogo quelli che passavano attraverso i meccanismi della collegialità72. Solo i membri di una professione sono in possesso del corpo di conoscenze – per definizione esoterico – su cui si fonda la loro pratica, per cui solo ad essi può spettare il controllo del suo uso responsabile, cioè per il bene della società. Peraltro, raramente è stato studiato in quale misura si realizzi questo comportamento disinteressato73. La posizione tipica del funzionalismo è quella di assumere la sua esistenza, e studiare piuttosto le minacce all’autonomia professionale, specialmente visibili e reali quando il professionista si trovi ad esercitare entro una organizzazione. Attraverso questa concezione ingegnosa, sostanzialmente basata su un ragionamento logico, la professione «assume la forma di una comuni43


Presentazione

tà come organizzazione socioculturale che garantisce la pratica applicazione del sapere esoterico: essa ignora lo stato, la politica, il mercato, per non dire la storia»74. Molte caratteristiche che sono state considerate specifiche delle professioni in quanto tipi occupazionali dai teorici funzionalisti, Parsons incluso, sembrano in effetti essere elementi della subcultura e dello stile di vita delle classi superiori. L’autonomia sul lavoro e molti elementi dell’etica professionale sembrano conseguenze o correlati non solo e forse non tanto delle norme professionali, ma anche e soprattutto dello status sociale del professionista, delle sue origini sociali, della posizione di classe (elevata) dei suoi maggiori e migliori clienti75. Eppure, nonostante questi limiti ampiamente discussi nella letteratura critica e riconosciuti in parte dagli stessi sociologi di tradizione funzionalista, il contributo parsonsiano alla comprensione sociologica delle professioni non può liquidarsi oggi come una semplice curiosità storica o erudita. È un fatto storico che Parsons abbia colto nel fenomeno professionale (nel Professional Complex) uno degli assi portanti della società contemporanea, in qualche modo anticipando temi e motivi che sarebbero stati acquisiti dalla sociologia solo molti anni dopo, con l’elaborazione di categorie epocali come “società postindustriale” o “società della conoscenza”. È altrettanto sicuro che a Parsons si debba quella che tuttora resta una delle analisi più sofisticate e complete, ancorché non sempre soddisfacenti, del modello istituzionale che qualificherebbe le “professioni” come tipi di organizzazione sociale e di condotta sui generis, pilastri istituzionali di una logica sociale specifica, la “logica professionale”, che si aggiungerebbe come terza (e più efficace) a quelle 44


Marco Santoro

più note e però anche logorate del mercato e della burocrazia76. Per quanto il senso della storicità non sia in Parsons particolarmente forte, almeno nel senso di un riconoscimento della complessità non lineare della storia intesa come temporalità del processo sociale, pure è indubbio che non gli siano sfuggite le connessioni di lunga durata tra sviluppo storico delle professioni liberali e storia della cultura, dell’educazione e della scuola nel contesto specificamente europeo77. Nessuno più di Parsons ha saputo elevare le “professioni”, in termini almeno di questioni se non di soluzioni, al rango di oggetti sociologicamente interessanti, sia in sé e per sé – le professioni insomma come istituzioni fra le più significative e consequenziali della società moderna e contemporanea – ma anche, e forse soprattutto, per i puzzle analitici e le sfide concettuali che esse propongono allo sguardo sociologico. La codificazione teorica, “sempre empiricamente orientata” (così almeno sostiene Alexander), del “complesso professionale” lasciataci in eredità da Parsons come esito di oltre quarant’anni di riflessioni analitiche e almeno in parte di ricerche sul campo, è un edificio certo incompleto e a tratti pericolante, che tuttavia può ancora offrire, allo studioso contemporaneo avvertito, stimoli intellettuali e indicazioni per il lavoro futuro78.

45


Presentazione NOTE 1 Su questo termine, sulla sua storia semantica, sul suo valore sociologico e sulle questioni di traducibilità dell’inglese profession – tipicamente riferito ad un sottoinsieme di occupazioni generalmente dall’alto contenuto intellettuale e dal superiore prestigio – nel nostro più generico e meno esclusivo “professione”, rimando a M. Santoro, Professione, in «Rassegna Italiana di Sociologia» (1999) 1, pp. 115-128, e Id.,“Professione”: origini e trasformazioni di un termine e di un’idea, in D. Zardin (a cura di), Corpi, fraternità, mestieri nella storia d’Europa, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 117-158. 2 Così ad es. D. Sciulli, Talcott Parsons (1902-1979), in «International Encyclopedia of the Social and Behavioral Sciences», pp. 11063-11068. Ma la lettura degli scritti autobiografici di Parsons non lascia dubbi al riguardo: cfr. in particolare T. Parsons, On Building Social System Theory: A Personal History, in «Daedalus», 99, 2, in cui il tema delle “professioni” e di quello che Parsons chiamava il “complesso professionale” viene a più riprese segnalato per rendere conto delle linee di continuità nella sua pur complessa carriera intellettuale. 3 A. Gouldner, The Coming Crisis of Western Sociology, New York, Basic Books, 1970; trad. it. La crisi della sociologia, Bologna, il Mulino, 1980. Sociologo radicale (“marxista fuori legge”, come egli stesso si definiva) che era però anche allievo prediletto di un allievo tra i maggiori – se non il maggiore – di Parsons come Robert K. Merton, Gouldner aveva gli strumenti adatti per sviscerare quello che potremmo chiamare l’“inconscio politico” della teoria sociologica funzionalista parsonsiana e forse più in generale americana, avendo lavorato al contempo dentro e fuori quella teoria, e sviluppato in tal modo una sorta di “doppia coscienza” sociologica che – come il nero americano teorizzato da Du Bois – poteva fargli vedere ciò che agli altri restava confuso o del tutto nascosto: cfr. W.E.B. Du

46


Marco Santoro Bois, Le lotte del popolo negro, a cura di M. Santoro, in «Studi Culturali», I (2004), 2. 4 U. Gerhardt, Introduction: Talcott Parsons’s Sociology of National Socialism, in Talcott Parsons On National Socialism, a cura di U. Gerhardt, New York, Aldine de Gruyter, 1993. L’interesse di Parsons per una teoria (post-durkheimiana) delle istituzioni sociali è parallelo (e funzionale) a quello, di certo più visibile, per una teoria (post-weberiana) dell’azione: cfr. C. Camic (a cura di), Talcott Parsons: The Early Essays, Chicago, University of Chicago Press, 1991, e l’introduzione storica, dello stesso Camic, alla pubblicazione postuma di un saggio composto nel ’36: T. Parsons, Prolegomena to a Theory of Social Institutions, in «American Sociological Review», 55 (1990), 3, pp. 319-333; trad. it. Prolegomeni a una teoria delle istituzioni sociali, Roma, Armando Editore, 1995 (nella traduzione italiana non compare l’introduzione di Camic). 5 Per la figura di Hughes, e in particolare per la tradizione di studi sociologici sulle occupazioni che da lui ha avuto origine, mi permetto di rimandare a M. Santoro, Introduzione. L’immaginazione sociologica di Everett C. Hughes, in E.C. Hughes, Lo sguardo sociologico, Bologna, il Mulino, 2010, e a Id., Postcript. “Hughesian Sociology” and the Centrality of Occupation, in «Sociologica», 2/2010. 6 Pubblicato originariamente su «Social Forces», l’articolo riproduceva il testo di una conferenza tenuta da Parsons nel dicembre 1938 al congresso annuale dell’American Sociological Society – ciò che presumibilmente spiega l’assenza di riferimenti bibliografici e di note critiche. Esso sarebbe stato ripubblicato dallo stesso Parsons in una voluminosa raccolta di suoi saggi uscita per la prima volta nel 1949, e riedita, con aggiunte ed integrazioni, cinque anni dopo. Cfr. T. Parsons, Essays in Sociological Theory Pure and Applied, Glencoe, The Free Press, 1949, pp. 185-199, nuova edizione aumentata 1954, pp. 34-50. La prima e sinora unica edizione italiana del saggio, a cura di Alberto Pasquinelli, risale al “lontano” 1956,

47


Presentazione come primo capitolo di Società e dittatura (Bologna, il Mulino, pp. 14-34), il primo libro ad essere pubblicato in Italia di un Parsons che aveva già acquisito lo status di massima autorità della sociologia mondiale, e soprattutto già autore di almeno due fondamentali opere per lo sviluppo della disciplina, che solo successivamente saranno però tradotte nel nostro Paese: alludo naturalmente alla Struttura dell’azione sociale, uscita originariamente nel 1937, e a Il sistema sociale, del 1951 (cfr. Nota bio-bibliografica). Vale la pena ricordare che Società e dittatura è una raccolta selezionata di saggi tratti appunto dalla seconda edizione degli Essays in Sociological Theory. 7 I numerosi riferimenti alla storia della sociologia delle professioni che compariranno in questo testo sono tratti dal mio Sociologia delle professioni. Un’introduzione storica, di prossima pubblicazione, a cui sin da ora rimando per più precisi ragguagli bibliografici. Sulla specifica produzione parsonsiana in questo campo vedi comunque anche P. Almondo, Le professioni o della razionalizzazione: la tesi parsonsiana, in R. Prandini (a cura di), Talcott Parsons. La cultura della società, Milano, Bruno Mondadori, 1998, pp. 152-181. 8 L’allusione è chiaramente al già citato The Coming Crisis of Western Sociology. Per discussioni del revival parsonsiano degli anni Ottanta cfr. J.C. Alexander, The Parsons Revival in German Sociology, in «Sociological Theory», 1984, vol. 2, pp. 394-412 e D. Sciulli e D. Gernstein, Social Theory and Talcott Parsons in the 1980s, in «Annual Review of Sociology», 11 (1985), pp. 369-387. Per più recenti messe a punto sullo stato della questione cfr. invece B. Barber e U. Gerhardt (a cura di), Agenda for Sociology. Classic Sources and Current Uses of Talcott Parsons’s Work, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 1999; B.S. Turner (a cura di), The Talcott Parsons Reader, Oxford, Blackwell, 1999; A.J. Treviño (a cura di), Talcott Parsons Today. His Theory and Legacy in Contemporary Sociology, Lanham, Rowman & Littlefield, 2001; R. Fox, V.M. Lidz e H.J. Bershady (a cura di), After Parsons. A Theory of Social Action

48


Marco Santoro for the Twenty-First Century, New York, Russell Sage Foundation, 2005; G. Sciortino, Introduction, in T. Parsons, American Society: A Theory Of Societal Community, Boulder, Paradigm, 2008; S. Segre, Talcott Parsons. Un’introduzione, Roma, Carocci, 2009. Ma cfr. anche M. Bortolini, L’immunità necessaria. Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005 – che, pur non sensibile al tema delle professioni, si segnala come contributo tra i più meditati ed informati sulle ragioni storico-intellettuali dell’opera parsonsiana e sui suoi legami con una teoria della modernità liberale. 9 T. Parsons, Considerazioni teoriche intorno alla sociologia della medicina, in «Quaderni di Sociologia», XI (1962), p. 244. Il saggio è stato pubblicato in traduzione italiana prima di essere raccolto in T. Parsons, Social Structure and Personality, New York, Free Press, 1964. 10 Il saggio, scritto nel 1939, è stato per la prima volta pubblicato in Talcott Parsons on National Socialism, a cura di U. Gerhardt, New York, Aldine de Gruyter, 1993, pp. 85-100. Ma cfr. anche per informazioni sul manoscritto, conservato nei Parsons Papers depositati ad Harvard, U. Gerhardt, Talcott Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, p. 67. 11 Il riferimento è qui al voluminoso The American University (Cambridge, MA, Harvard University Press, 1973), scritto con l’allievo Gerald M. Platt, ed esito di un programma di ricerca anche empirico avviato da Parsons in modo indipendente nella seconda metà degli anni Sessanta, e sostenuto dal 1969 dall’American Academy of Arts and Sciences, in particolare dalla sua Assembly on University Goals and Governance, come parte dei propri lavori. 12 R. Hutchins, The Higher Learning in America, New Haven, Yale University Press, 1936. Cfr. T. Parsons, Remarks on Education and the Professions, in «International Journal of Ethics», 47, 3, pp. 365-369. In quella occasione, il giovane studioso aveva avanzato «una difesa dei principi sottostanti l’attuale

49


Presentazione organizzazione dell’educazione professionale», basandosi su una disamina delle «connotazioni dei due aggettivi che sono comunemente applicati alle professioni», e cioè “liberale” (liberal) e “colto” (learned). Sulla figura di Hutchins e il suo ruolo a Chicago, nel quadro di una più generale riflessione sulla natura e le trasformazioni dell’università americana, e in particolare sui destini dell’educazione liberale, vedi D.N. Levine, Powers of the Mind. The Reinvention of Liberal Learning in America, Chicago, University of Chicago Press, 2006, specialmente pp. 84-86. 13 Cfr. Sketch of a proposed study of the informal functioning of social institutions as an agency of control over the individual interests and activities of members of the medical profession, in Parsons Papers, Harvard Universities Archives, Talcott Parsons, 15.2, box 14. Ringrazio Giuseppe Sciortino per avermi cortesemente procurato una copia del manoscritto approfittando delle sue ricerche nelle carte parsonsiane. 14 T. Parsons, Considerazioni teoriche intorno alla sociologia della medicina, cit., pp. 245-246. Pochi anni dopo, in un altro scritto autobiografico, Parsons avrebbe descritto il suo studio della pratica medica come «concepito nel quadro della tradizione antropologica dell’osservazione partecipante e dell’intervista», definendo peraltro senza mezzi termini come «un grande fallimento della mia carriera» il non essere stato capace di «pubblicare uno studio monografico di ampie dimensioni sulla pratica medica», “avventura” da cui “aveva ottenuto moltissimo”, ma da cui sarebbe stato distolto a causa del crescente interesse per «gli aspetti più sottili del controllo sociale e la genesi dei problemi nei processi di socializzazione fuori dal contesto professione». Cfr. T. Parsons, On Building Social System Theory, cit., rispettivamente p. 863 e p. 840. Vale la pena notare che la ricerca di tipo etnografico a cui evidentemente Parsons pensa in questa riflessione retrospettiva era negli anni Trenta praticata non solo al Dipartimento di Sociologia e Antropologia di Chicago (sotto la guida di Robert K. Park e dei suoi primi allievi e collaboratori) ma anche alla Business School di Harvard, dove insegnava Elton

50


Marco Santoro Mayo e dove si sarebbe diretta la famosa ricerca sullo stabilimento Hawthorne della Western Electric Company. Cfr. per una ricostruzione storica R.P. Gillespie, Manufacturing Knowledge: A History of the Hawthorne Experiment, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Alla sua frequentazione con Mayo, particolarmente intensa negli anni Trenta, Parsons attribuisce anche la sua personale scoperta della psicoanalisi (cfr. ancora Id., On Building Social System Theory, cit., pp. 835 ss.). 15 Cfr. A.N. Whitehead, Science and the Modern World, New York, Macmillan, 1925, 74. Su questo aspetto dell’opera di Parsons vedi in particolare T. Burger, Talcott Parsons, the Problem of Order in Society and the Program of an Analytic Sociology, in «American Journal of Sociology», 83 (1977), pp. 320-334, e, nella prospettiva di una storia (sociale) – o sociologia storica – delle idee, C. Camic, The Making of a Method: A Historical Reinterpretation of the Early Parsons, in «American Sociological Review», 52 (1987), 4, pp. 421-439. 16 T. Parsons, Sociological Elements in Economic Thought, in «Quarterly Journal of Economics», 49 (1935), poi in T. Parsons, The Early Essays, a cura di C. Camic, Chicago, University of Chicago Press, 1991, pp. 223-224. 17 T. Parsons e N. Smelser, Economy and Society, New York, The Free Press, 1956, p. 6. Il libro, peraltro, è stato presentato dallo stesso Parsons come una rottura rispetto alla concezione analitica avanzata nella Struttura dell’azione sociale e ancora considerata valida nel successivo Sistema sociale, del ’51. Per una discussione su questo punto rimando al citato T. Burger, Talcott Parsons, the Problem of Order in Society, pp. 330-332. 18 J. Holmwood, Economics, Sociology, and the “Professional Complex”. Talcott Parsons and the Critique of Orthodox Economics, in «American Journal of Economics and Sociology», 65 (2006), 1, p. 145. 19 L’importanza di questi condizionamenti istituzionali (nello specifico: reputazionali) su Parsons è stata sottolineata da Charles Camic, che ha messo in luce l’effetto che i network

51


Presentazione intellettuali di Harvard hanno avuto sulla selezione compiuta da Parsons dei suoi predecessori intellettuali (a favore di studiosi europei come Marshall, Pareto, Durkheim e Weber in questi network apprezzati e a scapito degli istituzionalisti americani con cui pure aveva studiato ad Amherst): cfr. Reputation and Predecessor Selection: Parsons and the Institutionalists, in «American Sociological Review», 57 (1992), pp. 421-445. Per una critica a questa rilettura storicista e insieme istituzionalista della biografia intellettuale parsonsiana cfr. J.C. Alexander e G. Sciortino, On Choosing One’s Intellectual Predecessors: The Reductionism of Camic’s Treatment of Parsons and the Institutionalists, in «Sociological Theory», 14 (1996), 2, pp. 154-171, seguita dalla risposta dello stesso Camic, il cui titolo, Alexander’s Antisociology (ivi, pp. 172-186), è di per sé eloquente. 20 A T.H. Marshall si deve la pubblicazione, contemporanea a quella di Parsons, di un altro dei testi fondativi della subdisciplina come La storia recente del professionismo in relazione alla struttura sociale e alla politica sociale (1938), in Id., Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976. È ad A.M. Carr-Saunders, professore di demografia alla LSE dal ’37, che si deve però la prima autentica trattazione generale, di taglio storico e sociologico, delle professioni in quanto comparto speciale del sistema occupazionale (nello specifico britannico), in un testo ancora oggi classico. Cfr. A.M. Carr-Saunders e P.A. Wilson, The Professions, Oxford, Clarendon Press, 1933, preceduto peraltro da Professions: Their Organization and Place in Society, Oxford, Clarendon Press, 1928, del solo Carr-Saunders, che riproduceva il testo di una Herbert Spencer Lecture di quell’anno. I due autori avrebbero poi firmato insieme la voce Professions dell’Encyclopedia of the Social Sciences (1934), trad. it. Professioni, in Sociologia delle professioni, a cura di W. Tousijn, Bologna, il Mulino, 1979. 21 R. Tawney, The Acquisitive Society, New York, Harcourt Brace and Howe, 1920; trad. it. La società acquisitiva, in Id., Opere, Torino, UTET, 1968. Tawney aveva insegnato anche

52


Marco Santoro ad Amherst nel periodo in cui Parsons frequentava il college. Laddove Tawney accostava professioni e business per sostenere la trasformazione di quest’ultimo in una struttura eticamente responsabile, Parsons li accostava per evidenziarne il comune fondamento razionale e moderno. Di pochi anni successivo è l’intervento sul tema di Harold Laski, di cui vedi tra gli altri The Decline of the Professions, in «Harper’s Monthly Magazine», 1935, pp. 656-685. 22 Il reclutamento di Parsons per uno dei progetti di ricerca avvenne molto probabilmente su raccomandazione di William Hamilton, l’economista istituzionalista che fu suo professore di college ad Amherst. 23 Come avrebbe ricordato Parsons a distanza di un trentennio, «quando cominciai a interessarmi dell’argomento [verso la metà degli anni Trenta], il legame più importante fra medicina e scienze sociali era costituito dall’“economia della medicina”, e non dalla sociologia medica». Cfr. T. Parsons, Considerazioni teoriche intorno alla sociologia della medicina, cit. 24 P. Hamilton, Talcott Parsons, Bologna, il Mulino, 1989 (ed. or. London, Tavistock, 1983), p. 45. 25 L.J. Henderson, Physician and Patient as Social System, in «New England Journal of Medicine», 212 (1935), pp. 819-823, poi in L.J. Henderson, On the Social System. Selected Writings, a cura di B. Barber, Chicago, University of Chicago Press, 1970, pp. 202-213. Per la figura di Henderson rimando alla densa introduzione di Barber – egli stesso allievo di Henderson oltre che Parsons – al volume citato. 26 Per queste notizie sulla vita del fratello e le conseguenze sugli interessi di ricerca di Parsons cfr. H. Brick, Talcott Parsons’s “Shift Away from Economics”, in «The Journal of American History», 87 (2000), 2, pp. 500-501. 27 Cfr. per un’interpretazione della sociologia di Parsons (e non solo) a partire da questa posizione intellettuale F. Bourricaud, L’individualisme institutionnel. Essai sur la sociologie de Talcott Parsons, Paris, PUF, 1977.

53


Presentazione 28

J.C. Alexander, The Modern Reconstruction of Classical Thought: Talcott Parsons, Berkeley, University of California Press, 1983, p. 131. Si tratta, come noto, dell’ultimo volume di una tetralogia (le cui prime tappe sono focalizzate sui tre classici: Marx, Durkheim e Weber) intesa tra l’altro ad una riabilitazione di Parsons e della teoria struttural-funzionalista in un’ottica post-positivista e appunto neofunzionalista che attribuisce un primato alla multidimensionalità come strategia di costruzione teorica. 29 Così D. Sciulli, Parsons, cit., p. 11066. Una ricostruzione di questo testo – in sé piuttosto complesso – ci porterebbe troppo lontano. Basti qui dire che esso portava a compimento una riflessione avviata appunto con i primi saggi sulle professioni intellettuali, e arricchita non solo dagli sviluppi della teoria generale dell’azione, ma anche dalla conoscenza delle trasformazioni della vita accademica (americana) occorse negli anni Sessanta, grosso modo nel periodo compreso tra le prime rivolte studentesche a Berkeley (1964) e la crisi scatenata dalla critica radicale alla guerra del Vietnam. Questi motivi informano l’analisi condotta nel libro del sistema accademico americano, ma non sono mai oggetto di esplicita analisi, come non sono oggetto di analisi i dati che Parsons e Platt avrebbero raccolto nel ’67 tramite una survey su un campione di professori di college e università. Il libro è a tutti gli effetti un lavoro di teoria sociologica, ancorché focalizzato su un sistema istituzionale empiricamente esistente. Vedi sul punto anche le osservazioni di P. Hamilton, Talcott Parsons, cit., p. 172. Per una lettura parzialmente alternativa del libro, finalizzata ad una revisione della tradizionale critica della teoria parsonsiana dei valori come deterministica e idealistica, e nel quadro di una più generale reinterpretazione dell’opera parsonsiana come “sempre empiricamente orientata”, vedi J.C. Alexander, The Modern Reconstruction, cit., pp. 104-109. 30 Il concetto di socializzazione anticipata si deve come noto a Robert K. Merton (Parsons non lo utilizza direttamente, ma la sua analisi va in questa direzione).

54


Marco Santoro 31

Questa e le citazioni precedenti sono tutte da T. Parsons, La motivazione delle attività economiche, in Id., Società e dittatura, cit., pp. 51-52 (ed. orig. The Motivation of Economic Activities, pubblicato nel 1940). 32 Come avrebbe scritto nel saggio specificamente centrato sul problema della motivazione delle attività economiche, «l’essenza del professionalismo consiste in una serie di limitazioni allo smodato perseguimento di fini egoistici»: cfr. T. Parsons, Società e dittatura, cit., p. 51. 33 Vedi, per una ricostruzione critica della teoria funzionalista delle professioni, D. Rueschemeyer, Doctors and Lawyers: A Comment on the Theory of the Professions, in «The Canadian Review of Sociology and Anthropology», 1 (1964), pp. 17-30; Id., Professional Autonomy and the Social Control of Expertise, in R. Dingwall e R. Lewis (a cura di), The Sociology of the Professions, cit., pp. 38-58; B. Barber, Beyond Parsons’s Theory of the Professions, cit. I testi di base a cui in particolare Rueschemeyer si riferisce nella sua ricostruzione sono, oltre a quelli di Parsons, diversi lavori di W.J. Goode, tra cui anche quello scritto con R.K. Merton e M.J. Huntington, The Professions in American Society, e rimasto inedito. Per maggiori notizie su quest’ultimo progetto, nel quadro della più ampia analisi mertoniana delle professioni, rimando al mio Sociologia delle professioni, cit. 34 Per il confronto tra professionismo e burocrazia, oggetto di una specifica letteratura nel senso della sociologia delle professioni e di quella delle organizzazioni, rimando al mio Sociologia delle professioni, cit. 35 T. Parsons, The Professions and Social Structure, trad. it. in questo volume. 36 Rimando, per una presentazione articolata di questo schema, a R.A. Wallace e A. Wolf, La teoria sociologica, cit., pp. 38-46, che usano appunto il caso della professione medica come esempio. 37 Vedi per questo punto in particolare B.S. Turner, Talcott

55


Presentazione Parsons, Universalism and the Educational Revolution: Democracy versus Professionalism, in «British Journal of Sociology», 44 (1993), 1, pp. 1-24; P. Almondo, Le professioni, cit., e T. Brante, Sociological Approaches to the Professions, in «Acta Sociologica», 31 (1988), 2, pp. 119-142. 38 Per questo concetto rimando tra le altre alle utili considerazioni di R. Romanelli, Borghesia/Bürgerum/Bourgeoisie. Itinerari europei di un concetto, in J. Kocka (a cura di), Borghesie europee dell’Ottocento, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 69-94. 39 B. Barber, Beyond Parsons’sTheory, cit. 40 T. Parsons, Remarks on Education and Professions, cit., pp. 365-366. 41 Ivi, p. 366. Come nota Gerhard, «l’interesse di Parsons per l’educazione liberale deriva da un impegno nei suoi confronti originato ai tempi della sua educazione al college», tra il 1920 e il 1924, e nello specifico ambiente di Amherst, dominato dalla concezione pedagogica squisitamente liberale del suo presidente Alexander Meiklejohn (cfr. U. Gerhardt, Talcott Parsons, cit., pp. 63-64). 42 Parsons svilupperà la sua concettualizzazione della professione accademica qui abbozzata in The American University, cit., che per molti versi può considerarsi la prosecuzione, con altri mezzi analitici, di spunti e idee originariamente contenuti in questo saggio rimasto incompiuto e a lungo inedito. 43 T. Parsons, Libertà accademica, in questo volume, p. 93. 44 Il concetto di “autorità professionale” – in quanto distinto dalle altre forme di autorità legittime definite da Max Weber – sarà elaborato e quasi scolpito, con parole divenute classiche ancorché molto dibattute dalla ricerca successiva, nella introduzione parsonsiana alla traduzione inglese della prima parte di Wirschaft und Gesellschaft: cfr. T. Parsons, Introduction, in M. Weber, The Theory of Social and Economic Organization, New York, The Free Press, 1947, pp. 59-60. 45 T. Parsons, Libertà accademica, in questo volume, p. 93. 46 Paradossalmente, si intravedono qui motivi di integra-

56


Marco Santoro zione fra la teoria parsonsiana ed una delle teorie sociologiche contemporanee che con più forza hanno ribadito la loro distanza critica da Parsons, quella del francese Pierre Bourdieu, di cui vedi in particolare, con riferimento al motivo dell’“interesse per il disinteresse”, Ragioni pratiche, Bologna, il Mulino, 1995 (ed. or. Paris, Seuil, 1994). Il dibattito sociologico sulla professione accademica e sulle sue “libertà” è molto avanzato dai tempi in cui Parsons sviluppava queste sue, per molti versi, pionieristiche riflessioni analitiche, trovando negli ultimi decenni – anche con la supposta crisi dell’educazione liberale classica e più in generale delle istituzioni universitarie a seguito prima dell’espansione della scolarizzazione anche al livello superiore, quindi della crescente “commercializzazione” della ricerca – nuovi motivi e stimoli. Tra i molti, oltre ai “classici” studi di L. Wilson, The Academic Man: Sociology of a Profession, New York, Oxford Universty Press, 1942, e T. Caplow e R.J. McGee, The Academic Marketplace, New York, Basic Books, 1958, ricordo qui C. Jencks e D. Riesman, The Academic Revolution, Garden City, Doubleday, 1968; E.C. Ladd e S. Lipset, The Divided Academy. Professors and Politics, New York, McGraw-Hill, 1975; P. Bourdieu, Homo academicus, Paris, Minuit, 1982; B.R. Clark (a cura di), The Academic Profession: National, Disciplinary and Institutional Settings, Berkeley, University of California Press, 1987; S. Aronowitz, The Knowledge Factory: Dismantling the Corporate University and Creating True Higher Learning, Boston, Beacon Press, 2000; S. Brint (a cura di), The Future of the City of Intellect, Palo Alto, Stanford University Press, 2002, nonché il recente contributo di A. Abbott, Academic Intellectuals, in The Dialogical Turn: New Roles for Sociology in the Postdisciplinary Age. Essays in Honor of Donald N. Levine, a cura di Ch. Camic e H. Joas, Lanham, Rowman & Littlefield, 2004, pp. 115-137. Negli anni Ottanta questa letteratura si sarebe spesso intrecciata con quella più ampia sulla “New Class”: cfr. ad esempio R. Eyerman et al. (a cura di), Intellectuals, Universities and the State, Berkeley,

57


Presentazione University of California Press, 1987. Tra i testi pionieristici che precedono le analisi parsonsiane sulla professione accademica e i rapporti tra università e business – peraltro riconducibile a quella stessa tradizione di analisi istituzionalista in cui Parsons si era formato prima del viaggio in Europa – è da ricordare il piccolo “classico” di T. Veblen, The Higher Learning in America. A Memorandum on the Conduct of Universities by Business Men, New York, Huebsch, 1918, al quale non può però non affiancarsi il classico saggio weberiano sulla “scienza come professione” (cfr. M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Milano, Comunità, 2001), nonché gli altri scritti weberiani sull’università, raccolti in E. Shils (a cura di), Max Weber on Universities, Chicago, University of Chicago Press, 1974. Insomma, al tema il giovane Parsons era stato accompagnato per mano, si potrebbe dire. 47 Al concetto di professione erano così legate due diverse teorie, una statica l’altra dinamica. La teoria statica era parte della teoria funzionalista della stratificazione sociale e dava conto della posizione sociale elevata dei professionisti. La teoria dinamica era invece parte della più generale teoria funzionalista dell’evoluzione sociale, cui Parsons sarebbe approdato negli anni Sessanta. Con il loro sapere razionale ed efficace, con il loro autocontrollo e il loro orientamento verso il pubblico (e dunque universalistico) le professioni erano un portato esemplare ed un fattore essenziale di questo cammino verso la modernità. 48 K. Davis e W.E. Moore, Alcuni principi della teoria della stratificazione sociale, in R. Bendix e S.M. Lipset (a cura di), Classe, potere e status, vol. I, Venezia, Marsilio, 1969, p. 19. 49 Sottolinea questo punto P. Hamilton, Talcott Parsons, cit., p. 172. 50 T. Parsons, Some Problems Confronting Sociology as a Profession, in «American Sociological Review», XXIV (1959), 4, p. 547. Questo saggio (insieme ad altri analoghi, scritti non solo da Parsons) sembra confermare l’accusa rivolta successivamente da Pierre Bourdieu alla sociologia delle professioni

58


Marco Santoro angloamericane: essere null’altro che una costruzione ideologica per la legittimazione dello status professionale e accademico della sociologia stessa. Cfr. P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri, 1992 (ed. or. Paris, Seuil, 1992). Per quanto eccessiva e ingenerosa, questa critica coglie uno dei punti deboli della letteratura sociologica sulle professioni – e cioè il suo ambiguo statuto epistemologico. Per una posizione critica nei confronti dell’applicazione del concetto di “professione” (e più in generale di strategie di “professionalizzazione”) alla disciplina sociologica vedi anche E.C. Hughes, L’occhio sociologico, cit. 51 T. Parsons, The Social System, Glencoe, The Free Press 1951; trad. it. Il sistema sociale, Milano, Comunità, 1971, p. 438 e 440. In un saggio di poco successivo Parsons avrebbe applicato lo stesso modello di analisi al caso della professione legale. Cfr. infra. 52 Secondo la classica formulazione di K. Davis e W.E. Moore, Alcuni principi della teoria della stratificazione sociale, in R. Bendix e S.M. Lipset (a cura di), Classe, potere e status, vol. I, Venezia, Marsilio, 1969, p. 19. 53 W.J. Goode, The Theoretical Limit of Professionalization, cit. p. 279. 54 T. Parsons, A Sociologist Looks at the Legal Profession, in Id., Sociological Essays, New York, The Free Press, 1954; trad. it. La prospettiva sociologica della professione legale, in A. Giasanti e V. Pocar (a cura di), La teoria funzionale del diritto, Milano, Unicopli, 1981, p. 108 e 116. 55 T. Parsons, La prospettiva sociologica, cit., p. 119. 56 M.S. Larson, The Rise of Professionalism, Berkeley, University of California Press, 1977, p. XIII. 57 Cfr. la Nota bibliografica che chiude questo volume. 58 T. Parsons, Professions, in International Encyclopaedia of the Social Science, New York, Macmillan & Free Press, 1968; trad. it. in W. Tousijn (a cura di), Sociologia delle professioni, cit., 73.

59


Presentazione 59

B. Barber, Some Problems in the Sociology of Professions, in «Daedalus» XCII (1963), 4, pp. 669-688; trad. it. in W. Tousijn, Sociologia delle professioni, cit., p. 95. 60 W.J. Goode, The Theoretical Limits of Professionalization, in A. Etzioni (a cura di), The Semi-Professions and Their Organzation. Teachers, Nurses, Social Workers, New YorkLondon, The Free Press, 1969, pp. 276-277. Ma si trattava di una riflessione già svolta anni prima: cfr. Encroachment, Charlatanism and the Emerging Profession: Psychology, Sociology, and Medicine, in «American Sociological Review», XXV (1960), pp. 902-914. 61 T. Johnson, Professions, cit., p. 513. 62 La più celebre testimonianza della crisi della teoria funzionalista maturata nel corso degli anni Sessanta – al contempo testo di analisi e di denuncia – resta il citato libro di A. Gouldner, The Coming Crisis of Western Sociology; trad. it. La crisi della sociologia, Bologna, il Mulino, 1980. Rimando per una descrizione ed una analisi di questo mutamento nella più generale teoria sociologica, tra i molti, a R.A. Wallace e A. Wolf, La teoria sociologica contemporanea, Bologna, il Mulino, 1985 (e varie edizioni successive). 63 G. Rocher, Talcott Parsons e la sociologia americana, Firenze, Sansoni, 1975 (ed. or. Parigi, PUF, 1972), p. 214. 64 A dire il vero, questa affermazione, spesso ribadita nella letteratura critica su Parsons, potrebbe contraddirsi proprio prestando attenzione agli studi sulle professioni, che in più riprese tornano sulle profonde radici storiche dei valori liberali di cui le professioni appunto liberali sono portatrici. La stessa nozione di educational revolution (rivoluzione dell’istruzione), discussa nel libro sull’università del ’73 e ancora prima sviluppata nello studio sull’evoluzione della società moderna (T. Parsons, The System of Modern Societies, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1971; trad. it. Le società moderne, Bologna, il Mulino, 1973) presuppone il riconoscimento di una struttura storica. È vero però che l’adesione ad un modello di tipo

60


Marco Santoro evoluzionista e l’assenza di adeguati riferimenti a fonti storicamente documentate riduce molto le potenzialità euristiche di questo riconoscimento. 65 Cfr. T. Parsons e A. Kroeber, The Concepts of Culture and Social System, in «American Sociological Review» (1958), trad. it. I concetti di cultura e sistema sociale, in «Studi Culturali» IV (2007), 1, traduzione a cui rimando anche per la prefazione, a cura di chi scrive. A sviluppare il concetto di sistema culturale sarebbero stati comunque altri allievi di Parsons, tra cui David Schneider e soprattutto Clifford Geertz, di cui vedi in particolare il classico Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino, 1983 (ed. or. New York, Basic Books, 1973). Per una rilettura critica della nozione parsonsiana di cultura come sistema di normi e valori “finali”, e della value analysis che ne è la derivazione in chiave di ricerca empirica, si veda A. Swidler, Culture in Action. Symbols and Strategies (1986), trad. it. in M. Santoro e R. Sassatelli (a cura di), Come funziona la cultura, Bologna, il Mulino, 2009. 66 Rimando, per queste vicende, ancora al mio Sociologia delle professioni, cit. 67 B. Barber, Beyond Parsons’s Theory, cit., p. 213. 68 Su questo aspetto è da vedere la lunga analisi della teoria parsonsiana della professione medica svolta da J. Berlant, Profession and Monopoly, Berkeley, University of California Press, 1975. 69 Cfr. B. Barber, Beyond Parsons’s Theory, cit., p. 215. A sottolineare questo aspetto, in chiave ironica, è stato a suo tempo soprattutto E. Freidson, The Profession of Medicine, New York, Dodd, Mead & Co., 1970: nella teoria di Parsons non è mai detto quanto lunga, quanto teorica, o quanto specializzata debba essere la formazione professionale per essere tale, precisazioni che sarebbero importanti dal momento che ogni percorso formalizzato di formazione richiede tempo, è in qualche modo specializzato, e implica qualche sforzo di generalizzazione.

61


Presentazione 70

W.G. Rothstein, Engineers and the Functionalist Model of Profession, in R. Perrucci e J.E. Gerstl (a cura di), The Engineers and the Social System, New York, Wiley & Sons, 1969, pp. 73-98. 71 D. Rueschemeyer, Doctors and Lawyers, cit. 72 B. Barber, Beyond Parsons’ Theory, cit., pp. 215-217. Su questo punto resta fondamentale E. Freidson, Profession of Medicine, cit. 73 Un’analisi puntuale del modello della comunità professionale e della sua (limitata) adeguatezza a descrivere la realtà della professione di ingegnere è quella di W.G. Rothstein, Engineers and the functionalist model of profession, cit. Ma su questo punto sono fondamentali le osservazioni critiche svolte all’interno dell’interazionsimo simbolico, da E.C. Hughes (cfr. The Sociological Eye, New Brunswick, Transaction Press, 1983; trad. it. parziale Lo sguardo sociologico, a cura di M. Santoro, Bologna, il Mulino, 2010), e dalla sociologia critica di matrice marxista e (neo)weberiana: cfr. in particolare M.S. Larson, The Rise of Professionalism, Berkeley, University of California Press, 1977; R. Collins, The Credential Society, New York, Academic Press, 1979. Vedi anche, per una precisa disamina critica (e prima ancora per un’esplicita definizione del modello funzionalista) D. Rueschemeyer, Professional Autonomy, cit., anche con riferimento alla logica della spiegazione funzionalista di Merton. Con la sua idea di professional ambivalence, tuttavia, nonché forte della sua stessa critica al concetto di funzione, Merton era meglio attrezzato di Parsons per cogliere e soprattutto trattare quegli elementi conflittuali e “politici” – nel senso di controllo del potere – del complesso professionale su cui si sarebbe abbattuta negli anni Settanta e Ottanta la scure della critica neoweberiana e neomarxista. Vedi in particolare R.K. Merton, Sociological Ambivalence and Other Essays, New York, The Free Press, 1976. 74 Così L. Karpik, Les avocats entre l’État, le public et le marché XIII-XX siècle, Paris, Gallimard, 1995, p. 15. Fonda-

62


Marco Santoro mentale in questa prospettiva è stato il contributo del sociologo inglese T. Johnson, che in un breve ma denso volume del 1972 ha individuato la causa dell’inadeguatezza della concettualizzazione funzionalista e tassonomica delle professioni nella «confusione tra le caratteristiche essenziali di una occupazione e le caratteristiche di una forma istituzionalizzata storicamente specifica del suo controllo»: confusione pericolosa dal momento che una professione non è un tipo speciale di occupazione ma appunto una forma storicamente condizionata di controllo istituzionale di un’occupazione, che si realizza quando il produttore di servizi ha il potere di definire autonomamente i bisogni del consumatore. Cfr. T. Johnson, Profession and Power, London, Macmillan, 1972, p. 27. Come si può intuire, è soprattutto a Marx che Johnson si ispira nella sua analisi, per quanto non manchino spunti weberiani. 75 Cfr. ancora D. Rueschemeyer, Doctors and Lawyers, cit.; T. Johnson, Profession and Power, cit. L’immagine che Parsons e i suoi seguaci avevano in mente quando elaboravano le loro distinzioni e definizioni concettuali era poi soprattutto – anche se non esclusivamente – quella del (piccolo) professionista indipendente con una propria personale clientela, inserito in un mercato concepito – nella tradizione neoclassica e nella stessa ideologia imprenditoriale americana – come spazio concorrenziale astratto, privo di significative fratture interne in termini di potere ed interessi. Anche per questo aveva senso parlare di “comunità professionale” e intenderla come una comunità di eguali e disinteressati (che comunque può darsi anche in un contesto organizzato, configurando così il tipo della organizzazione professionale o collegiale). Peraltro, anche con riferimento a questa figura, del resto di lì a poco sempre più rara soprattutto negli Stati Uniti, la tesi di una tensione tra professioni e burocrazia è stata nel tempo sottoposta ad una critica penetrante, di ordine tanto concettuale quanto empirico, da parte sia di sociologi dell’organizzazione che di studiosi delle professioni.

63


Presentazione 76

E. Freidson, Professionalism: The Third Logic, Chicago, University of Chicago Press, 2001. Vale la pena forse ripercorrere brevemente in questa nota la storia della sociologia delle professioni negli anni Settanta e Ottanta, cioè dopo la crisi conclamata del paradigma funzionalista. Se per i funzionalisti il concetto di “professione” valeva sostanzialmente ad individuare un tipo occupazionale qualificato dal possesso di un sapere esoterico essenziale per il funzionamento del sistema sociale, per i sociologi di ispirazione interazionista, marxista e weberiana che hanno occupato progressivamente la scena della ricerca sociologica negli anni Settanta ed Ottanta il concetto di “professione” indicava piuttosto un tipo storicamente condizionato di organizzazione occupazionale che si realizza quando il produttore di servizi ha il potere di definire autonomamente i bisogni del consumatore, e che presuppone uno sforzo organizzativo (un progetto professionale) da parte di un gruppo occupazionale corporativizzato – ma sempre diviso in segmenti tra loro in competizione, a dispetto dell’armonia suggerita dall’ipotesi della comunità professionale (Bucher e Strauss) – proteso alla conquista (alla occupazione, appunto) di nicchie di mercato da sfruttare monopolisticamente in un determinato contesto strutturale (Larson, Berlant, Parkin, Collins). In questo modo, la nuova sociologia delle professioni – definita di volta in volta come radicale, critica, conflittuale – poteva far suo, sviluppandolo, l’invito di Everett C. Hughes a passare «dalla falsa questione “questa occupazione è una professione?” a quella ben più importante “quali sono le condizioni in cui i membri di una occupazione cercano di trasformarla in una professione e di trasformare se stessi in professionisti?”». E tuttavia, il cambiamento di prospettiva non portava a rigettare gli elementi definitori del concetto di “professione” in senso funzionalista ma piuttosto a riconcettualizzarli come fattori strategici per il conseguimento e la conservazione di posizioni di monopolio economico e di privilegiamento sociale. Cambiava l’uso del concetto, ma questo, in fondo, restava lo stesso.

64


Marco Santoro 77

Sfugge in generale a Parsons la complessità del processo storico, il suo sottrarsi ad una modellistica di tipo evolutivo, il suo essere puntellato da contingenze e conflitti, che incidono sulla dinamica delle idee non meno che su quella delle istituzioni. Per rendersene conto, basta consultare gli studi che gli storici hanno dedicato alla stessa vicenda dell’educazione liberale e alle complesse relazioni tra discipline, saperi, gruppi occupazionali e intellettuali che la innervano: cfr. in particolare B.A. Kimball, Orators and Philosophers: A History of the Idea of Liberal Education, New York, Teachers College Press, 1986, e, con riferimento specifico ad un settore delle arti liberali ma con implicazioni più generali, L. Shiner, The Invention of Art. A Cultural History, Chicago, University of Chicago Press, 2001 (trad. it. L’invenzione dell’arte, Torino, Einaudi, 2010). Ma vedi anche, più in generale, D.N. Levine, The Powers of Mind, cit., e D.J. Gless e B. Herrnstein-Smith (a cura di), The Politics of Liberal Education, Durham, Duke University Press, 1992. 78 Il sociologo contemporaneo che più ha insistito sulla validità e attualità del contributo parsonsiano è il da poco scomparso David Sciulli, il quale in una serie di saggi ha cercato di recuperare, in chiave neofunzionalista appunto, il lascito del sociologo di Harvard – in primis il suo insistere sul ruolo insieme politico e morale delle professioni nella società civile e sull’autonomia del momento analitico nella teoria sociale – giocandolo contro la riduzione insieme economicista (le professioni cioè come forme di controllo del mercato) e storicista (le professioni come istituzioni esclusivamente angloamericane) di molta sociologica critica. Vedi in particolare D. Sciulli, Professions before Professionalism, in «Archive européennes de sociologie», XLVIII, 1 (2007), pp. 121-147; e Id., Paris Visual Académie as First Prototype Profession. Rethinking the Sociology of Professions, in «Theory, Culture & Society», 24 (2007), 1, pp. 35-59. Per quanto spesso eccessiva nei toni e sostenuta da materiale empirico non sempre adeguatamente interpretato, la proposta di “ripensamento” della teoria del-

65


Presentazione le professioni avanzata da Sciulli è meritevole di attenzione, e invita il sociologo contemporaneo delle professioni ad un lavoro di affinamento analitico e revisione critica della critica alla sociologia funzionalista su cui si è retta gran parte della recente sociologia delle professioni. Paradossalmente, Sciulli è però indotto dalla sua analisi a criticare Parsons proprio su uno dei punti più importanti se non fondativi della riflessione di quest’ultimo, e cioè l’idea che le professioni si fondino sulla tradizione liberale occidentale e da questa traggano non solo legittimazione ma anche linfa vitale.

66


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.