Spreafico

Page 1

Andrea Spreafico

LA RICERCA DEL SÉ NELLA TEORIA SOCIALE

ARMANDO EDITORE


Sommario

Introduzione

7

Ringraziamenti

15

Una molteplicità di termini

17

Concezioni antiche ed al contempo anticipatrici

27

Uno sguardo ai primi classici

35

La possibilità di un sé psichico interiore

47

Primi passi sociologici

53

Attorno agli Stati Uniti. Sociologie dell’interazione

57

Alcune osservazioni intermedie

73

Nel frattempo… Sociologia funzionalista e fenomenologica

81

Avvicinamento al linguaggio. Attorno all’etnometodologia

91

Per ricominciare il lavoro. Dall’idioma mondano allo strutturalismo

113

Difficoltà nell’uscire fuori dagli assunti tradizionali

127

Conclusione. Un soggetto davvero sociologico: l’interazione sociale cooperativa

155

Riferimenti bibliografici

166


Introduzione

Quante volte vi sarà capitato di assistere a una conversazione in cui – discutendo, come si usa dire, “del più e del meno” – gli interlocutori sono stati pronti a dichiararsi membri di un qualche insieme descrivibile grazie a un qualche previo processo di categorizzazione, o hanno attribuito ad altri individui una certa appartenenza descrivibile con una specifica espressione linguistica connessa a una determinata categoria? O meglio, quante volte si considera naturale la possibilità di essere descritti mediante una connessione linguistico-concettuale come se essa rappresentasse la “realtà” dell’individuo descritto? Tutto ciò, poi, operando magari anche dei confronti. Ad esempio (semplificando ed estremizzando fino al luogo comune e riassumendo): «io mi sento romano, non potrei mai essere milanese, tutto preso dal lavoro e sempre arrabbiato»; o «come sono snob i francesi… e che dire degli americani, così poco raffinati; invece noi italiani amiamo piangerci addosso, ma siamo dei cittadini del mondo; è proprio il nostro essere cosmopoliti il motivo per cui mi sento italiano». O ancora: «mi sento appartenente al mio comune, ma anche all’Europa» o «guarda, quello lì è un vero vincente, ed il suo amico è il classico uomo d’altri tempi, mentre la sorella è il tipo della sportiva». Oppure, sempre più considerando gruppi: «i giovani di oggi sono post-materialisti, ma anche consumisti»; o «la classe politico-partitica nazionale si distingue per il suo particolarismo». Se mettiamo da parte gli stereotipi, a incuriosirci è la tendenza a descriverci e a descrivere gli altri come portatori di una qualche caratteristica che ne costituirebbe non solo un elemento identificativo, ma una parte consustanziale, la sostanza del nostro o del loro essere, in ogni occasione e luogo. I primi esempi riportati sono fin troppo evidenti, ma in quasi tutto ciò che viene detto sembra essere sempre all’opera 7


la tendenza ad attribuire un’identità (A = B, cioè A è B) essenziale a ciò che ci sembra di vedere o di aver osservato. Sembra un modo per affrontare la complessità dell’esistente, di semplificarla per gestirla a partire dalle nostre razionalità limitate: se l’individuo A ha la caratteristica B, sarà poi più facile spiegare perché ha fatto ciò che ha fatto. Pare entrare in gioco la preoccupazione di trovare le cause di ciò che ci sembra essere avvenuto. In ogni ambito di interazione vi è uno sfondo di senso comune in cui si trovano associazioni, date per scontate, naturali, tra determinate categorie e certi tipi di azioni, che sono considerate caratteristiche di coloro che sono ritenuti “appartenere” a tali categorie. Il punto è che, nella quotidianità ma spesso anche nell’ambito della discussione politico-giornalistica ed in quella scientifico-accademica, si è poi persa consapevolezza del fatto che tale “identità attribuita” in realtà non costituisce in alcun modo la natura dell’individuo, ma è solo un’etichetta semplificatrice – frutto di processi di categorizzazione che potrebbero invece essere approfonditi – assegnata nell’illusione che esista all’interno di quest’ultimo un nucleo fondante permanente che lo caratterizzerebbe, un “sé” di alcuni linguaggi sociologici (o ciò che altri chiamano autocoscienza, altri io, altri mente, altri personalità, altri anima, o spirito e così via), forse localizzato nel cervello. Tutto questo fondandosi sull’ulteriore, e poco discusso, presupposto che l’elemento di partenza sia un soggetto che abbia, ora come nel passato e nel futuro, confini ben chiari e un’interiorità su cui fare affermazioni evidenti. Si finisce per dare per acquisito un elemento dopo l’altro e, così, oggi identità, sé e soggetto sono termini con cui si costruiscono riflessioni ed interpretazioni semplificate, ed a volte distorte, di problemi complessi, che dal singolo finiscono poi per coinvolgere collettività diversamente immaginate (nel momento in cui egli si attribuisca o gli vengano attribuiti caratteri in comune con altri, che lo distinguerebbero così in maniera significativa da certi altri ancora in diverse situazioni): solo a titolo di esempio si possono ricordare i dibattiti sugli scontri di civiltà, sulla convivenza multiculturale, l’integrazione degli immigrati, l’identità nazionale1, l’identità europea e molti altri. Ma cosa è allora l’identità 1 Persino studiosi del calibro di Bateson (1972/2008, 124-143), seppur in base a riflessioni più sofisticate ed articolate di altre, finiscono per ricadere in una visione ingenua riguardo alla realtà di un “carattere nazionale”. Ma ancora oggi, anche nei ri-

8


del sé di un soggetto? E questo sé? È davvero ciò che intendono coloro che fanno affermazioni quali: «io sono un liberale, ateo, europeista»? O assomiglia maggiormente a quella che sembra emergere nel Leonard Zelig di Allen2? Vi sono singoli “instabili” che interagiscono ed al contempo collaborano alla produzione di identificazioni temporanee frutto di categorizzazioni che affondano le radici in descrizioni inconsapevolmente radicate in sensi comuni condivisi? O forse è meglio pensare che non vi sia addirittura niente al di sotto di tali identificazioni temporanee? O che sia meglio ragionare come se così fosse? Qui si proverà a parlarne. O almeno si proveranno – pur senza fornire alcuna soluzione certa – a mettere in luce alcuni degli elementi che possano contribuire a stimolare un dibattito approfondito sull’argomento, un dibattito che dia sempre meno cose per scontate, che non si accontenti di semplificare per poi adagiarsi nel mito dell’identità, ma che accetti il dubbio e la possibilità che le affermazioni nette, come quelle sopra ricordate, possano essere fatte senza dimenticare che si fondano su una grande quantità di condizioni e sul timore per ciò che muta, per ciò che non permane e si mescola (come è invece naturale che sia) con un’alterità che lo costituisce inevitabilmente. correnti dibattiti sull’identità italiana o europea, si crede che un certo percorso storicoculturale, e le scelte fatte al suo interno, abbiano dato luogo a una specifica identità, sulla quale si continua a indagare come se, una volta costituita/ricostruita nei suoi tratti essenziali, essa potesse rimanere la medesima nel tempo (ad esempio, ciascuno di noi “italiani” sarebbe in fondo fatto in questo modo: “avremmo”/possederemmo un’identità nazionale debole ed eterogenea, costituita di più componenti che si amalgamano attorno a un substrato storico comune, che va dalla bellezza del paesaggio a quella delle espressioni artistico-culturali, dal retaggio antico romano a quello cristiano, dall’ingegnosità dei singoli al valore della democrazia; non è chiaro, poi, come si coordini il riconoscimento-recupero di questi elementi generali provenienti da passati differenti – e di cui bisogna anche stimolare la consapevolezza – con un’ideale progettualità condivisa, con aspirazioni e trasformazioni supposte comuni; così come non è chiaro cosa debbano essere i “nuovi italiani”, o gli “italiani all’estero”, a cui vengono di volta in volta applicate nuove etichette allo scopo di forzare i singoli in definizioni collettive, magari più ampie ma sempre discutibili). Nel momento in cui si afferma l’esistenza di un’identità, si sostanzializza ed eternizza ciò che si sosteneva essere il risultato di un processo storico, più o meno lungo e che si tratti di un singolo o di una collettività, così come si sia deciso di pensarli e distinguerli. È bene dunque fermarsi a riflettere e capire cosa si stia dicendo, così che scopi ed illusioni non si alimentino reciprocamente. 2 Nel film Zelig, di Woody Allen, del 1983.

9


In questo libro, dunque, verrà affrontato nell’ambito della teoria sociologica il tema del sé del soggetto – qui con il termine “sé” genericamente inteso come espressione equivalente a “identità dell’individuo”. Se molti approfondimenti utili provengono dagli Stati Uniti, recentemente anche in Paesi come Francia, Gran Bretagna ed Italia vi è stato un ritorno di interesse della sociologia per questo argomento. Precedentemente, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, “identità” era divenuto progressivamente un termine sempre più usato nei titoli di libri ed articoli delle scienze umane, non sempre a proposito: si trovano ancora, solo per fare un esempio, identità negate, violate, rubate, autonome, ricche, multiple, composte, sovrapposte, subordinate, scisse, deviate, sotto attacco. Sui motivi del suo impiego massiccio, riferito a singoli o ad entità collettive, si è scritto e si scrive; ma il fiorire di lavori non ha sempre contribuito a chiarire cosa si possa intendere con “identità”, almeno quando ci si riferisca a una singola persona. Il termine risulta tuttavia oggi accettato nel linguaggio scientifico ed impiegato spesso come se il suo significato fosse evidente, scontato e oggettivo, così come il suo referente. Del resto, spesso le teorie sociologiche dell’azione non hanno tematizzato approfonditamente la soggettività: l’interiorità viene considerata un dato di fatto originario, indipendente, su cui non soffermarsi troppo, a parte il postulare razionalità, utilitarismo, intenzionalità nel soggetto3. Identità e sé sembrano fare tuttora lo stesso effetto di parole come “potere” o “valori”: fatti sociali già costituiti, variabili “naturali”, che agiscono in maniera non direttamente visibile sulla realtà sociale, che influenzano in modo non visibile l’agire sociale, ed al di là della consapevolezza che ne hanno gli attori sociali. Questo volume, allora, lo si torna a sottolineare, si propone di provare a chiarire meglio cosa si possa dire quando si impiegano i termini “identità” o “sé”: non intende fornirne una definizione, ma mostrare anzi, alla fine, che ciò che sarebbe realmente interessante per la sociologia è descrivere come funziona nella pratica ciò che viene chiamato “identità”, è descrivere l’ordine visibile di questo “fenomeno sociale”, senza dover supporre che dietro vi siano altri fattori nascosti a cui sia necessario rifarsi per 3 Non rientra tra gli scopi di questo libro quello di approfondire e sviluppare il pur importante tema del rapporto interiorità-identità-azione-condizionamenti sociostrutturali.

10


“renderlo” chiaramente. La stessa idea diffusa di un sé sembra del resto rappresentare qualcosa di nascosto dentro di noi, che ci condiziona e su cui possiamo fare solo ipotesi discutibili e discusse senza fine. Quella di “identità”, in fondo, è solo una parola che viene impiegata nella descrizione di interazioni sociali, utilizzata come uno strumento di semplificazione utile a tali descrizioni, mentre, come si vedrà nell’ultima parte, non vi è niente di concreto, fuori dal linguaggio, che corrisponda al termine “identità”. Il percorso espositivo adottato, nel confrontarsi criticamente con alcuni aspetti delle differenti proposte della letteratura sociologica, dopo una premessa dedicata a una ricognizione preliminare della pluralità di termini che costituiscono l’ambito semantico generale del tema in questione, muove da una breve descrizione dell’itinerario storico-concettuale delle idee di sé, seguita da un denso e sintetico percorso di ricostruzione dell’evoluzione della riflessione sociale sul sé e l’identità individuale, passando dai classici ai contributi di esponenti di correnti interazioniste, funzionaliste, strutturaliste, fenomenologiche, etnometodologiche, in loro diverse declinazioni (ad esempio, quella dell’Analisi della Conversazione), ramificazioni ed interrelazioni, fino a giungere a una conclusione in cui si auspica da parte della sociologia uno spostamento di attenzione, a quel punto più consapevole, dal soggetto e dalla sua interiorità alla descrizione dell’interazione cooperativa. Oltre a una serie di importanti complementi filosofici, ci sì è talvolta trovati a dover ricordare anche quelli psicoanalitici ed antropologico-linguistici del discorso condotto – giungendo in un caso fino a discutere la suddivisione tra queste discipline e la sociologia. Inutile dire che si tratta comunque di un itinerario selettivo tra i diversi che potevano e possono essere compiuti all’interno di un tema la cui attualità torna oggi a rinnovarsi più frequentemente e che è attraversato da una letteratura vastissima (ad esempio in filosofia, alla quale si è in alcuni punti accennato). Anche per questo si rende necessario fin d’ora precisare che si è potuta meglio cogliere la complessità dei concetti in campo solo con un approccio aperto all’interdisciplinarietà e dunque secondo una più ampia prospettiva, capace di considerare anche contributi affini a quelli della sociologia. Una seconda importante precisazione riguarda il fatto che qui non ci si interesserà né degli eventuali specifici contenuti di un ipotetico 11


sé nell’epoca in cui viviamo, né di come oggi tale sé venga ridefinito, descritto, vissuto e formato in maniere diverse rispetto al passato, ad esempio in termini postnazionali, sulla spinta della simultaneità e delle interconnessioni globali o delle pressioni individualizzanti o atomizzatrici che caratterizzerebbero la nostra contemporaneità, così come delle spinte di fattori interagenti quali riferimenti etnici, sessualità, genere, età, condizione sociale e politica, ambiente economico dominante, teorie sociali influenti, narrazioni diffuse, linguaggio e simboli disponibili. Ciò che ci interessa, invece, è solo cosa si possa intendere con le espressioni “sé” o “identità” riferite a un soggetto umano. Questo nella convinzione che solamente chiarendo questo ultimo passaggio sia possibile affrontare, in altri saggi specifici, gli aspetti che qui sono stati esclusi. Messa da parte è anche la questione dell’identità collettiva, tema che, pur strettamente interconnesso con quello qui trattato, ed affrontato in una vasta letteratura (che si spinge anche a toccare concetti contigui come quelli di comunità, etnia, nazione, movimento e così via), necessiterebbe di una discussione a parte, anch’essa rivolta ad evidenziare i limiti ed i paradossi di un’ulteriormente “scivolosa” costruzione metaforica, espressa attraverso lo stesso costringente termine “identità”. Il criterio con cui sono state selezionate le argomentazioni discusse è stato quello dell’utilizzare la letteratura – più che per confrontare approcci differenti e capire quale sia il più convincente o efficace o coerente nella rappresentazione di ciò che ci interessa – innanzitutto per mostrare il complesso delle dimensioni e degli elementi che costituiscono i riferimenti dell’idea di sé. Alla fine, così, almeno una parte dei termini il cui significato viene dato per scontato nei dibattiti che presuppongono il fenomeno identità individuale verranno forse impiegati con maggiore consapevolezza, perlomeno del fatto che non solo la forma, ma anche il contenuto di un’“identità”, se proprio si vuole continuare a utilizzare questo termine, non dovrebbe costituire qualcosa di definibile a priori, in modo da non risultare mezzo di politiche strumentali ad obiettivi ideologico-politici, ma essere considerato la risultante di processi flessibili, frutto di interazioni che continuamente enunciano e ridefiniscono la semplificazione delle proposizioni di sé. Per questo sappiamo che in parte assistiamo a scontri ed incontri di definizioni identitarie differenti – le cui motivazioni si rifanno ad elementi economici, politici, sociali 12


e culturali – tra attori dotati di risorse e obiettivi diversi, che tuttavia interagendo generano una situazione, un ordine sociale a sé, che limita l’influenza di fattori differenziatori interni ed esterni, mentre al contempo produce regole influenti sue proprie. Tale ricerca di approfondimento, oltre a trovare innanzitutto in se stessa la sua spiegazione, è connessa anche al fatto che in questo lavoro si è al contempo provato a dare risposta, a completare, a fornire ulteriore sfondo ed inquadramento teorico, ad alcuni degli interrogativi che di volta in volta erano nati in seguito alla stesura di precedenti pubblicazioni di chi scrive – inerenti argomenti quali la comunità, la differenza culturale, l’integrazione degli immigrati in società d’arrivo –, alle quali si rimanda per ulteriori approfondimenti, anche per quelli di natura bibliografica. Si tratta di argomenti che inevitabilmente finiscono per imbattersi nell’uso della nozione di identità (il modo di concepire la quale influenza, ad esempio, i dibattiti sul multiculturalismo), nei suoi aspetti individuali-relazionali e poi collettivi. Il desiderio che forse emergerà da queste pagine, ma che rimane solo sotterraneo, è così anche quello di provare a costruire alcune fondamenta iniziali grazie alle quali poi passare, in altri lavori, a studiare certe modalità del nostro interagire, non solo in generale ma anche nei contesti or ora ricordati, un interagire complesso e che tocca una vasta pluralità di meccanismi. Anche per questo, invece di seguire il consiglio “poche cose, ma bene”, ho pensato che fosse meglio fornire una visione ampia della complessità del problema. Questo verrà così dimenticato nei suoi dettagli, ma forse ne rimarrà un’idea centrale: quando si parla del sé non ci lasciamo ingannare da chi semplifica eccessivamente e rischia di farci imboccare la strada delle contrapposizioni frontali. Quello che potremmo fare è invece descrivere, meglio che possiamo, come si fa quello che si fa, ad esempio: come facciamo a comportarci da cristiani, musulmani, credenti in una specifica situazione. Ciò vuol dire, ad esempio, che ci si potrebbe concentrare sul modo in cui i parlanti assumono certe “identità/identificazioni proposte” durante gli scambi verbali, cioè su come le attività dei soggetti in interazione costruiscano e usino il fenomeno “identità” (la sua costruzione) nel corso di una conversazione. Per questo il libro si propone di offrire, e si limita ad offrire, un panorama teorico preliminare, allo scopo di suggerire, a chi volesse poi intraprendere 13


una ricerca empirica su come si manifesti nell’interazione concreta ciò che siamo abituati a chiamare “sé” o “identità”, domande, dubbi, alcuni possibili approcci di fondo, ma non ancora consigli operativi o tecniche di osservazione, per le quali si rimanda di nuovo a lavori successivi. L’offerta, infine, non è fatta in maniera neutrale, dato che tende a mettere in risalto il fatto che sia necessario non continuare a contribuire, più o meno passivamente, alla diffusione di profezie che si auto-adempiono – con ripercussioni politiche – come quelle che tutti i giorni ci vedono impegnati a pensare un certo altro come separato e costitutivamente diverso per natura. Oltre a prendere posizione su alcuni dibattiti in corso e oltre a tentare di demistificare la diffusa tendenza essenzializzatrice risultante dalla necessità quotidiana di ognuno di semplificare per agire, il discorso condotto lungo l’itinerario proposto invita dunque ripetutamente la sociologia a ricordare l’utilità che avrebbe il riuscire a fornire descrizioni accurate – cosa per niente scontata – dei fenomeni su cui essa rivolge la propria attenzione (senza dimenticare, però, che tali descrizioni sono a loro volta attività pratiche volte a dare un senso a quei fenomeni attraverso l’uso di categorie), i cui protagonisti sono però interazioni, relazioni, connessioni, in cui si formano e riformano continuamente soggetti diversamente concepibili. Un’operazione per cui è tuttavia prima necessario, come in un processo circolare, disporre di consapevolezza teorico-concettuale e molto meno di definizioni a priori di termini. Sebbene qui si sia tentato di illustrare posizioni diverse, cercando spesso di mostrarne la successione cronologica senza lasciarsi troppo condizionare dalla preferenza per alcuni approcci, quello etnometodologico è progressivamente emerso sopra gli altri – ma non necessariamente in opposizione ad alcuni di essi – e risulterà così chiaro, attraverso il procedere della lettura, che chi scrive ritiene di dover attribuire grande rilevanza all’ipotesi che non vi siano soggetti nucleari in sé, personalità autonome, né che vi debbano essere categorizzazioni di individui che precedano la descrizione del loro interagire; vi sono atti che vengono compiuti, attività pratiche, ed i loro referenti possono essere descritti, e possono descriversi, in modi differenti, attraverso categorie storicamente e socialmente costruite, ma che assumono un senso specifico nell’atto della descrizione, categorie costituite e disponibili in determinati ambiti spazio-temporali, ove sono intersoggettivamente intelligibili. 14


Ringraziamenti

Premesso che mi assumo ogni responsabilità riguardo ai contenuti e ad eventuali errori, imprecisioni e omissioni, vorrei qui ringraziare tutte le persone che, direttamente o indirettamente, hanno reso possibile la pubblicazione di questo libro e l’attraversamento delle non sempre facili fasi che la hanno preceduta. Un grazie va innanzitutto a Paolo Signorini, da cui non smetto mai di imparare. Ringrazio poi Roberto Cipriani, per aver deciso di accogliere il libro nella collana “Modernità e Società” da lui diretta. Paolo Ceri, per aver letto e commentato una delle versioni finali del libro, indicandomi diversi punti di miglioramento e ulteriori, possibili, vie di sviluppo. Enrico Caniglia, che ha letto e commentato alcune versioni del testo, fornendomi sempre preziosi suggerimenti scientifici, ed in generale per la sua disponibilità alla discussione di questo come di altri temi appassionanti. Tommaso Visone, per aver gentilmente rivisto alcune parti e per i suoi consigli. Fabrizio Franci, che mi ha ascoltato per ore raccontare l’idea di fondo di questo libro e molto altro. Maurice Aymard, Mario Caciagli e Franco Cazzola, per il loro sostegno. Mia madre, Gilberta e Federica, che continuano a sopportarmi. Il libro è dedicato a mio padre. «Mi comporto come chi non ha confini precisi» (F.P.).

15


Una molteplicità di termini

Se si vuole trattare sotto il profilo teorico il tema dell’identità individuale nel campo della sociologia ed in relazione alle discipline affini, con l’obiettivo successivo di giungere a un uso più consapevole dei termini inerenti i fenomeni cui ci si intenda riferire, bisogna innanzitutto constatare che le parole impiegate dagli studiosi per descrivere ciò di cui qui si parlerà sono numerose e con differenze di significato non sempre chiare o rilevanti, fino al punto da poter risultare in più occasioni intercambiabili, a volte intrecciate o parzialmente sovrapposte, oltre che pronte a rinviare a un senso mutevole nel tempo (cfr. Ferrara 2008). Troviamo ad esempio: identità (individuale), sé, me, io, ma anche personalità, carattere, psiche, ego, mente, coscienza, interiorità, animo, anima, spirito, soggettività, individualità, ipseità, ed in alcuni casi pure soggetto, persona, individuo – anche se è possibile pensare che il sé sia solo un aspetto di una persona, come ad esempio il suo auto-presentarsi, e che dunque i due termini non vadano confusi, sebbene si riferiscano a fenomeni strettamente connessi. Le parole sopra elencate, da identità a ipseità, oggi in Occidente sembrano spesso rivolte a manifestare l’idea, o a descrivere la sensazione, che esista dentro di noi, ad esempio in qualche parte del nostro corpo come il cervello, un qualcosa che fondi la nostra supposta percezione di esistere in modo specifico, individuale e distinto, e che dunque ci caratterizzerebbe come una determinata unità di base dell’agire. Non ci interessa qui discutere su quali siano le cause di una tale costruzione, ma solo rilevare che essa comporta la distinzione di un interno da un esterno, attorno alla quale viene prodotto un discorso diffuso – effettuato tramite i termini ricordati, in modo più o meno diverso secondo l’influenza delle discipline (sebbene all’interno di una stessa disciplina si possa poi anche trovare una certa pluralità di 17


impieghi) e delle lingue di riferimento – sulla presunta presenza di certe caratteristiche impalpabili, interne, dei corpi umani: solo ad esempio, la capacità di essere consapevoli del proprio esistere, quella di voler vivere in armonia con dei valori o con una concezione del bene, quella di distinguere e consolidare un proprio modo, supposto specifico, di essere al mondo, attraverso un passaggio incessante per una serie di identificazioni più o meno intense, mutevoli e sovrapponentisi, quella di interpretare dei ruoli, quella di percepire, conoscere, comprendere ed elaborare stimoli, quella di effettuare costruzioni di pensiero, creazioni artistiche, di attivare consapevolmente e/o istintualmente parti del corpo, quella di sentire la supposta influenza di spinte provenienti da un inconscio profondo e da un pre-conscio, di predisposizioni, quella di immaginare di avere in sé qualcosa che possa in qualche modo proseguire dopo la morte e così via. Si tratta di un discorso in base al quale dentro ogni persona vi sarebbe una qualche ipotetica forma nascosta – nel nostro caso un’identità individuale che si costituisce, e ci orienta, nell’interazione – che si riempie di contenuti e che può distinguere un individuo dall’altro (mentre potrebbe essere invece presa a testimonianza dell’idea opposta, cioè che effettuiamo distinzioni artificiali all’interno di un tutto). Detto questo, è necessario tornare a sottolineare come nella letteratura delle scienze umane e sociali le stesse parole sembrino venir impiegate per significare cose più o meno diverse, e termini diversi appaiano rimandare a contenuti molto simili, motivo per cui qui ci si è in buona misura limitati a riportare i termini utilizzati nei testi consultati, rinunciando in anticipo al tentativo di fornire omogeneità e coerenza ai diversi impieghi linguistici di sociologi, psicologi, filosofi, antropologi e così via, così come alla loro costruzione di specifiche sfumature di senso. Tuttavia, dato che, come si è esplicitato nell’introduzione, non vi è qui l’intenzione di proporre definizioni, ma al contempo risulterà utile al lettore disporre di una guida preliminare e provvisoria, grazie alla quale orientarsi tra i discorsi che seguiranno e così appropriarsene in maniera critica, valutandone almeno in parte autonomamente le qualità ed i difetti, compiremo ora una breve ricognizione di alcuni aspetti chiave dell’interiorità umana, seguendo avvertiti contributi, spesso esterni alla sociologia – ma di cui essa potrebbe talvolta, forse, tenere maggiormente conto per fondare le proprie teorie –, che possono essere 18


per il momento considerati come descrizioni, se non dominanti, almeno sufficientemente accurate e diffuse dell’interiorità, e che troveranno più avanti, con il procedere del testo, ulteriori approfondimenti o, in alcuni casi, tentativi di più o meno forte messa in discussione. Si considerino dunque le prossime righe come un modo per cominciare a prendere confidenza con il nostro tema. L’identità del singolo può essere vista almeno sotto due profili. Per il primo essa appare come la descrizione della riconoscibilità sociale di un individuo in modo da poterlo differenziare da tutti gli altri; un’operazione che può essere compiuta descrivendo, ad esempio, caratteri anagrafici, collocazione sociale, aspetto fisico. Si tratta di un modo con cui gli altri possono identificare il singolo dall’esterno. Molte delle caratteristiche a cui ci si rifà per effettuare tale identificazione assumono connotazioni qualitativo-valutative differenti secondo gli ambiti socio-culturali, possono mutare nel tempo o essere percepite in maniera e con rilevanza diverse; forse il passo, il modo di sorridere o di fare alcuni gesti con le mani possono offrire maggiore continuità per chi non abbia accesso ad altre informazioni. Questo modo di vedere l’identità individuale è soggetto al rischio di concepirla come una struttura. Per il secondo profilo l’identità appare come l’auto-riconoscimento soggettivo del proprio esistere4 in un certo modo (la sensazione di esserci come specifica immagine corporea ed affettiva di sé), della propria individualità e distinzione caratteristica, grazie al pur ambiguo e carente ruolo della memoria. Si tratta di un’auto-descrizione (apparentemente basata su un bisogno istintivo di auto-descriversi come esistenza unitaria, solida e consistente – cfr. Jervis 2011, 148) che ci classifica e ci valorizza costantemente – al fine di ottenere accettazione, riconoscimento e di costruire e mantenere autostima – e che si fonda preliminarmente sull’autocoscienza. Tale descrizione è basata anche sul come, interazionisticamente, riteniamo che ci vedano gli altri, su come pensiamo o ci illudiamo più o meno segretamente di essere, tra auto-inganni e progettualità, e la sua validità è continuamente contrattata negli scambi con altre persone: dallo sguardo del genitore in poi, l’identità persona4 Il sentimento di esistere è sempre precario e va costantemente ricostruito in connessione con il mantenimento dell’autostima, dell’altrui riconoscimento ed in parte anche della propria condizione socio-economica.

19


le è legata al «fissare la rappresentazione di sé in relazione a un certo gruppo di riferimento» (Sparti 2008, 105) che reagisce alle nostre azioni, così riconoscendoci. L’interazione di riconoscimento identificativo e riconoscimento estimativo-valorizzativo (presenti nel primo profilo) contribuisce a formare e ad alimentare, come una sorta di ricompensa emozionale, l’auto-descrizione dell’identità personale come storia di successivi riconoscimenti sociali (conferenti considerazione sociale) – per inciso, la sociologia entra maggiormente in gioco proprio nel momento in cui il fenomeno di cui si parla è connesso anche con elementi esterni al singolo. Da questo secondo punto di vista, l’identità (soggettiva/personale) può anche essere chiamata “sé”. Il sé sarebbe dunque l’auto-presentazione dell’esperienza e della rappresentazione che si ha della propria interiorità, l’esposizione dell’autocoscienza. Il sé corrisponderebbe alla descrizione del nostro modo di cogliere introspettivamente ciò che designiamo con termini quali persona, psiche o mente, o loro parti (cfr. Jervis 2011, 36), con le relative supposte caratteristiche distintive. Queste percezioni del proprio vissuto, queste immagini auto-esperienziali, più o meno realistiche, conflittuali, emozionali e diversamente rielaborate, «costituiscono per ciascuno di noi la continuità con noi stessi e col nostro passato, sono […] rappresentazioni e quindi contenuti della coscienza, o più in generale della mente (in parte infatti rifluiscono nell’inconscio)» (ivi, 37). Anche questo secondo modo di vedere l’identità individuale corre però il rischio di reificare l’interiorità della persona in un’entità oggettiva e unitaria (che è a volte descritta con termini come anima, spirito, ma anche mente o altri termini sostanzializzati a significare proprio persona), seguendo una sorta di spontanea tendenza a illuderci che l’essenza dell’individuo ne preceda l’esistenza, o addirittura a concepirci come entità che utilizzano corpi fisici. L’introspezione tende a reificare l’interiorità cosciente, e dell’autocoscienza di sé si tende a produrre una rappresentazione unitaria, mentre il sé sarebbe un concetto esperienziale soggettivo e non essenzialistico (anche se è visto come oggetto della coscienza), oltre che non necessariamente unitario (cfr. Elster 1986/1991). Inizialmente è solo l’ambiente esterno ad essere oggetto dell’attenzione della coscienza. L’autoriconoscimento come consapevolezza che (la rappresentazione del)l’immagine del proprio corpo è la propria, 20


e quindi la prova fondamentale dell’esistenza di una rappresentazione di sé come base dell’autocoscienza, non comincia a verificarsi prima del quindicesimo mese, per giungere a compimento verso la fine del secondo anno di vita. È giustificato ritenere che non si possa affatto parlare di consapevolezza di esistere e di avere un corpo prima che vi sia la capacità […] di rappresentare la propria immagine sapendo che è la propria immagine; ed è giustificato altresì ritenere che l’auto-riconoscimento allo specchio ne sia la verifica appropriata (Jervis 2011, 76).

Prima del quindicesimo mese il bambino non è ancora capace di separare categorialmente una sua mano da altri oggetti di uso domestico (come il suo cuscino) che non fanno parte del suo corpo. L’autocoscienza adulta non si limita alla capacità di effettuare l’operazione cognitiva di costruire un’immagine corporea considerando al contempo questa immagine «come fonte attiva della rappresentazione di sé» (ivi, 78), ma riguarda anche quella di appropriarsi introspettivamente delle proprie azioni, cioè di rappresentarle e riconoscerle come proprie, considerando quindi il loro significato. Per far questo, però, il soggetto deve essere capace di rappresentare non solo le azioni corporee ma anche le intenzioni e gli affetti che egli produce dentro di sé, e quindi deve essere capace di rappresentare le proprie fantasie e il proprio mondo interiore, oggettivando quest’ultimo ma al tempo stesso facendolo proprio. È questa l’introspezione: cioè il sapere che si stanno considerando, “oggettivamente”, i vari aspetti della propria stessa soggettività. Il luogo della riflessività non è qui più solo il corpo come dimensione reale, ma la mente come dimensione virtuale “interna” (ivi, 78-79).

Tra il terzo o quarto anno di vita all’autocoscienza corporea si aggiunge quella relativa alla capacità cognitiva di rappresentazione e descrizione delle proprie produzioni mentali all’interno dello spazio immaginario della mente. Grazie all’autocoscienza introspettiva si ha la capacità di prendere in esame riflessivamente, rendendosene così responsabili, le proprie azioni ed i propri progetti. La coscienza prende 21


consapevolmente per oggetto non più solo il proprio corpo e l’ambiente esterno, ma se stessa (potendo così, ad esempio, descrivere ricordi, pensieri, fantasie). Nell’acquisire tale capacità di auto-monitoraggio psicologico svolge un ruolo importante il linguaggio, la capacità di usare pronomi personali come “io” o “tu” e quella di applicare a sé o agli altri termini utili a descrivere comportamenti e stati a contenuto mentalistico. Tuttavia, Jervis ci ricorda anche come l’acquisizione della coscienza di sé rimanga sempre precaria, carente, spesso parziale – non solo nelle popolazioni preletterate – e come in fondo l’autocoscienza sia in gran parte un’illusione, una costruzione sociale narrativa fatta di dimenticanze, accantonamenti, razionalizzazioni, modificazioni, auto-inganni interessati e malafede (sebbene talvolta utili, come l’entificazione di sé, alla cooperazione, alla reciproca intesa e, nuovamente, all’autostima), e costituisca comunque la coscienza introspettiva di una superficie scambiata per una profondità. L’introspezione come capacità di accedere direttamente all’interiorità – oltre ad essere rara nella sua forma piena (monitoriamo e siamo autocoscienti della nostra interiorità solo di rado: un’osservazione di cui ricordarsi durante la lettura delle pagine che seguiranno) – è in fondo un mito. Infatti, la descrizione della propria interiorità ha una variabilità culturale, si armonizza con le aspettative di altre persone e, a volte, con l’immagine di sé che si ama coltivare; inoltre, invece che al mondo interiore accediamo a una dimensione immaginaria in cui esistono costrutti giustificativi socialmente convenzionali: si può suggerire l’idea che quella che chiamiamo, un po’ approssimativamente, la coscienza umana, invece di consistere in uno stato cognitivo continuativo della mente, consista perlopiù nella capacità di rimotivare ex post le proprie azioni, ovvero nella capacità di “approvare” di continuo ciò che si sta facendo. Secondo quest’ultima ipotesi, i processi mentali sarebbero tutti sostanzialmente inconsci e, per così dire, automatici, ma verrebbero poi parzialmente descritti e correntemente giustificati, in forma narrativa, con l’aiuto di costrutti del tutto convenzionali quali “scelta”, “ispirazione”, “intuizione”, “auto-determinazione”, “volontà” (ivi, 33).

22


L’inconscio sembra così dominare su tutta la vita mentale; pur potendo fare affermazioni sulle nostre intenzioni, qualificandole come deliberate e giustificandole secondo canoni socialmente accettati e sistemi di spiegazione accreditati, non sappiamo davvero quali esse siano. La «più esplicita espressione dell’intenzione non basta, da sola, a fornire l’evidenza dell’intenzione» (Wittgenstein 1953/2009, 216); «sembra che l’“intima esperienza vissuta” del volere scompaia […]. In sua vece ci ricordiamo di pensieri, sentimenti» (ivi, 217). «Si potrebbe dunque dire: l’azione volontaria è caratterizzata dall’assenza di sorpresa» (ivi, 213), è cioè quella che, subito dopo, non ci stupiamo di aver compiuto. Il confine tra conscio ed inconscio è molto incerto, il secondo pare estendersi fino a poter mettere in discussione l’idea stessa di coscienza. «L’autocoscienza in quanto riflessività introspettiva è dunque, essenzialmente, un’attività di riappropriazione narrativa dei prodotti di elaborazioni cognitive inconsce» (Marraffa 2011, XLII). In generale, la coscienza sarebbe un semplice nome, generico ed ambiguo, attribuito a numerose funzioni e fenomeni tra loro eterogenei, a forme variegate di rapporto attivo di un soggetto con l’ambiente. Ma il sé, la coscienza, l’io, la mente non sono fenomeni unitari e ben identificabili, non sono entità o cose di nessun tipo, sono, se non una vera e propria finzione, termini convenzionali ed evanescenti con cui raggruppare, a volte a scopi conoscitivi, fenomeni differenti tra loro, che immaginiamo in buona misura nel cervello; un cervello in cui non vi è alcun vertice funzionale, né alcuna funzione superiore, nessun Autore Centrale (cfr. Dennett 1991/2009). Cominciamo così ad inoltrarci in un dibattito che si articola tra scienze della mente e filosofie della mente (cfr. Di Francesco e Marraffa 2009a5) e che potrebbe offrire anche alla sociologia occasione di riflessione e confronto. Le posizioni in campo sono diverse e non si è ancora giunti ad ampi consensi su quale sia possibile ritenere la più fondata tra quelle che possiamo considerare accurate ipotesi sulla possibile esistenza e qualità dell’io. Secondo Damasio (1999/2000) vi sarebbe prima un livello biologico preconscio, il proto-sé, una collezione coerente di configurazioni neurali che producono momento per momento mappe dello stato della 5

Testo a cui, oltre a quelli citati in questa sezione, si rimanda per ogni ulteriore approfondimento di una letteratura ormai molto ampia.

23


struttura fisica con rappresentazioni di sé di tipo subpersonale; da questo emergerebbe poi il “sé nucleare” dotato di una “coscienza nucleare” di sé preverbale, per immagini (il cervello è capace di produrre immagini dell’organismo che percepisce consapevolmente un oggetto e modifica così il suo stato); da qui, infine, si arriverebbe alla formazione di una coscienza estesa, frutto della capacità di imparare e memorizzare le esperienze passate e di riattivarle, in modo da generare un senso di prospettiva individuale. Il passaggio completo a un io esteso, narrativo, avviene però grazie al pieno possesso di un linguaggio, che offre la capacità di narrazione verbale, di una ricca auto-rappresentazione sociale e culturale della propria soggettività. In questo modo la costruzione dell’io sembra avere sia componenti biologiche e prelinguistiche, sia componenti sociali e culturali. Se queste ultime sono le più evidenti quando osserviamo l’io in azione nelle normali interrelazioni tra individui, e in molti processi mentali descritti dalla psicologia di senso comune, le prime si manifesterebbero in domini quali l’esperienza percettiva, la propriocezione somatica, il dualismo sé-mondo nel ragionamento spaziale, le interazioni psicologiche precoci, e sembrano rappresentare il punto di partenza per il passaggio da una coscienza “nucleare” di matrice biologica a una “estesa” in cui cultura e società hanno un ruolo rilevante (Di Francesco e Marraffa 2009b, 3).

Dennett (1991/2009) ritiene che il suddetto passaggio sia biologicamente previsto, vi sarebbe una continuità naturale tra io biologico e culturale. Inoltre, lo studioso americano ricorda come una serie di abitudini indotte proprio dalla cultura, oltre che dall’auto-esplorazione individuale, abbiano portato i circuiti cerebrali specializzati del nostro cervello – che sarebbero in realtà i veri responsabili del funzionamento cognitivo dell’individuo – a produrre una sorta di presunto comandante virtuale. Ma nel cervello non vi è nessun sistema esecutivo centrale che coordina tutte le operazioni cognitive. Vi è un parallelismo dell’elaborazione neurocognitiva, vi sono processi neurocognitivi inconsci, specializzati, distribuiti e paralleli, che fissano contenuti il cui carattere cosciente è legato al “peso” che riescono ad acquisire nel cervello, alle 24


loro capacità di monopolizzare l’attenzione e di influenzare altre fissazioni di contenuto (non vi è coscienza unitaria). Non vi è dunque un io unitario e continuo nel tempo, la cui finzione è il prodotto di comportamenti linguistici appresi come le forme di auto-stimolazione linguistica (ad esempio, parlare a se stessi), che finiscono per “creare” un io, narrativo ed astratto, ambito virtuale e plurale in cui sembrano incontrarsi le storie che ciascuno racconta di sé e che gli altri raccontano su di lui. All’interno del dibattito si inserisce poi il “modello della mente estesa” (cfr. Di Francesco 2009), per cui la mente non sarebbe all’interno del cervello, ma si diffonderebbe nel corpo e nell’ambiente. La mente non sarebbe un medium interno che mette in relazione un soggetto con la realtà esterna, poiché vi sarebbero processi cognitivi che si estendono oltre i confini del cervello e del corpo, localizzabili nell’ambiente fisico e sociale in cui agisce un organismo. Il veicolo della cognizione umana è così un sistema che comprende cervello, corpo e ambiente, elementi che cooperano, originando un unico flusso causale integrato, per il raggiungimento dei nostri compiti cognitivi. Il linguaggio svolge qui un ruolo centrale, sia nell’influire sulle prestazioni cognitive, sia come strumento per effettuare cambiamenti nell’ambiente – il linguaggio pubblico permette la formulazione di pensieri poi sottoponibili ad ulteriori riflessioni. La mente risulta descrivibile (Clark 1997/1999) come un processo spazio-temporalmente esteso, non limitato all’involucro della pelle e della testa, comprendente sì cervello, corpo, linguaggio, ma anche strutture sociali e tecnologie (strumenti di supporto esterni della cognizione). Si tratta di un modello che porta a un approccio antisostanzialista all’io; una nozione, quest’ultima, vista come usata più per abitudine che per necessità, dato che l’io non sarebbe nella testa degli individui e che ciò che si avrebbe invece di fronte, più che soggetti tradizionalmente intesi, sarebbero coalizioni di fattori-agenti; o soggettientità distribuiti nel mondo sociale e culturale. Diffusa è anche l’idea del carattere composito e plurale della mente, senza che vi sia un sé mentale interno e cosciente che controlli le attività cognitive, che si deve confrontare con l’ipotesi dell’operare fin dalle prime ore di vita di un’auto-consapevolezza individuale minimale, ecologica, pre-linguistica (parte della nostra identità individuale apparterrebbe così a un livello precedente quello dell’acquisizione 25


di una lingua), non concettuale, cui si associa l’auto-consapevolezza corporea permessa dalla propriocezione (cioè la capacità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli anche senza il supporto della vista). Si tratta di un dibattito molto ampio ed in corso, cui si aggiunge quello sulla continuità dell’io. Di Francesco e Marraffa (2009b, 42) ricordano a proposito che se la base «dell’idea di io è quella di un soggetto di esperienza interiore, presente a se stesso in un’esperienza dotata di auto-evidenza e immediatezza, la durata di questo io […] in un singolo flusso di coscienza […] è piuttosto breve (possiamo parlare di pochi secondi)». Strawson (1997) ipotizza, ad esempio, che vi sia una sequenza di brevi selves momentanei che si succedono l’uno all’altro, che esista un io mentale minimale discontinuo, il quale esiste in ogni periodo di coscienza ininterrotto o privo di lacune. Ma si ricordi che l’accesso al mondo interiore è in larga misura accesso a una dimensione immaginaria (cfr. Marraffa 2009), che attinge a sistemi di spiegazione di senso comune, a teorie psicologiche ingenue. Come si è cominciato a vedere, l’“identità individuale” viene descritta secondo diverse dimensioni e differenti declinazioni dell’importanza di ognuna di esse; è utile esserne consapevoli per proseguire in un itinerario che prova a capire cosa possiamo fare con tale espressione.

26


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.