Artapp 4 il viaggio

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nuovi appetiti?

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sommario 2 Editoriale

architettura

di Edoardo Milesi

4 Luoghi di carattere, luoghi toscani di Alessandra Francesca Ferrari

9 Il caso di Pava in Val d’Asso

pittura 10 fotografia 15 pittura 20 di Stefano Campana, Carlo Pozzi

Al di là dell’apparenza

Incontro con Giuseppe Bartolini di Edoardo Milesi

Sulle rotte di Atlantide di Salvatore Ligios

di Annalisa Montinaro

fotografia storia

27 Luca Conca. Paradisi artificiali di Michele Tavola

30 Il nostro domani

arte

Puglia: Una terra dalle radici di pietra

di Roberto Galante

37 Il viaggio psichedelico

cinema 41 musica antropologia 42 di Saverio Luzzi

Il viaggio della morte di Maria Gabriella Frabotta

Il viaggio verticale

con intervista a Jon Asp di Franca Pauli

46 All’ombra amena del Giglio d’Or

letteratura 50

Gli ultimi nomandi di Luisa Bianco

cronache

teatro

di Elena Rossi

56 Davide Sapienza, esploratore di spazi e parole di Gessica Costanzo

60 L’attesa di Elena Rossi

62 Cronache

Arte - Cinema - Fotografia - Architettura e Design

64 Libri


Art|App Numero quattro - Anno II Registrazione al Tribunale di Bergamo del 29/01/2009 n. 3/2009 Direzione, Redazione, Amministrazione Via Valle del Muto 25 24021 Albino (Bg) Tel +39 035 772499 Fax +39 035 772429 redazione@archos.it www.artapp.it DIREZIONE Direttore editoriale Edoardo Milesi Art Director e direttore responsabile Aurelio Candido REDAZIONE Coordinamento redazionale Elena Rossi Segreteria di redazione Elena Cattaneo Comitato scientifico Massimo Agus, Sonia Borsato Barbara Catalani, Arialdo Ceribelli Giovanni Cutolo, Marco Del Francia Donato Di Bello, Alessandra F. Ferrari Salvatore Ligios, Saverio Luzzi Alfredo Padovano, Gianriccardo Piccoli Michelangelo Pistoletto, Carlo Pozzi, Ilaria Rossi Doria Dino Satriano, Silvana Scaldaferri Benno Schubert, Angelo Signorelli Sandra Fontana Semerano, Michele Tavola

Laboratorio fotografico della lixeira a Maputo. Per qualcuno, sempre meno, il viaggio rappresenta una necessità esistenziale, per altri, sempre più numerosi, un modo per sopravvivere fuggendo

di Edoardo Milesi

Stampa EUROTEAM ADVANCED PRINTING Via Verdi, 8/12, Nuvolera (Bs) e-mail: info@euroteam.eu ©copyright 2010 Edizioni Archos È vietata la riproduzione totale o parziale del contenuto della rivista senza l’autorizzazione dell’Editore

aul Bowles, autore del libro Il tè nel deserto, descrive la differenza tra turista e viaggiatore: turista è colui che si reca a visitare un luogo e poi torna a casa, il viaggiatore raggiunta la meta ne sceglie subito un’altra e poi un’altra ancora. Forse nessuno fu più amante del viaggio di Paul Morand che si augurava: “Vorrei che dopo la mia morte si facesse della mia pelle una valigia”. Per la beat generation il viaggio (trip) è soprattutto quello della mente. La dislocazione del corpo solo la conseguenza di un viaggio voluto e anticipato dal sogno. In effetti pare che i più grandi viaggi si facciano senza spostare il corpo, sognando senza nemmeno informare la nostra memoria razionale – perché tutto è già successo e dentro di noi – o più semplicemente leggendo vite raccontate da altri. All’interno della stessa specie esistono uccelli migratori che scelgono di diventare stanziali. Nella stessa famiglia ci sono uomini che non si muovono mai perché trattenuti da radici invisibili, altri che non possono stare fermi a lungo in uno stesso luogo. Quando ho lavorato per i rom in Albania – il progetto di una scuola realizzata per e con il popolo nomade – ho avvertito la loro sofferenza per la precarietà dei rapporti umani, per la diffidenza nei loro confronti e la certezza di voler appartenere a quella terra anche se segregati, odiati e maltrattati. Il bisogno di “appartenere” probabilmente è più forte del bisogno di viaggiare. E allora qual è il senso del viaggio?

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Hanno collaborato a questo numero Luisa Bianco, Stefano Campana, Gessica Costanzo, Roberto Galante Mariaelena Ghisleni, Maria G. Frabotta Leonardo Milesi, Franca Pauli, Associazione culturale Rotta dei Fenici

Si ringraziano per le immagini Atelier Robert Doisneau, Giacomo Badiani Marco Brescia Teatro della Scala Mario Ciampi, Marco Curatolo, Paolo Da Re Michel Denancé, Carlo Di Paquale, Laura Ferrari, Oreste Ferriero, Paolo Garrisi, Dario Mitidieri Davide Sapienza, Francesco Squeglia Studio Amati Ricciardi Studio Ambrosini di Riccardo Angelotti

Il viaggio

In copertina: Giuseppe Bartolini Lambretta olio su tela, 2008, cm 75 x 90 La lambretta, che Giuseppe Bartolini ci propone in esclusiva per il quarto numero di ARTAPP, rappresenta, per almeno due generazioni, il simbolo del viaggio rubato. In grado di trasformare un passaggio nel traffico cittadino in un viaggio romantico fuori porta, una breve trasferta in una fuga d’amore, è stata più di ogni altro mezzo complice di viaggi improbabili.


Celui qui a des ailes s’envole et n’est l’esclave de personne Chi ha le ali vola via e non è schiavo di nessuno Rola Yaunes

La mia vecchia nonna, per giustificare quell’intimo senso di disagio che noi bambini provavamo alla partenza da casa per le vacanze al mare, un malessere in grado di coprire la gioia, la festosità di una partenza attesa e desiderata a lungo, sentenziava: “partire è un po’ morire”. Lo scrittore sardo Salvatore Niffoi nel suo ultimo libro Il bastone dei miracoli affida la vita alla morte o meglio alla memoria, l’unica in grado di mantenere eterno il nostro viaggio in questo mondo. I giapponesi chiamano il culto del tè cha-do - la via del tè, il concetto taoista di “sentiero” - conferendogli una dignità filosofica fatta di cerimonie in grado di progredire la nostra mente. Eraclito, più di 2500 anni fa garantiva che “nessun uomo può entrare due volte nello stesso fiume perché né il fiume né lui stesso saranno mai uguali”. Che dire del viaggio evolutivo di ogni essere vivente, dai primordi a oggi e poi chissà fino a dove. E perché poi le varie specie, costrette a evolversi per sopravvivere, garantiscono contemporaneamente, con i loro mutamenti, anche la sopravvivenza dei loro predatori in una complessa ma rigorosa complementarietà? Come riuscire a credere o a non credere nel disegno complessivo che guida questo viaggio infinito? Ma forse il vero viaggiatore è il pellegrino. Quello che più di ogni altro si adatta agli usi e ai costumi dei luoghi, della gente che li abita perché da questi vuole accrescere la propria cultura, la propria conoscenza. Al contrario il missionario è in generale colui che vuole conoscere per proporre, ma più spesso per imporre il proprio costume, la propria religione. I fenici furono veri viaggiatori interessati al dialogo e all’apprendere più che alla conquista. A differenza degli altri popoli dell’epoca, tenevano pacificamente rapporti commerciali lungo tutte le coste del Mediterraneo. A loro dobbiamo l’alfabeto e molte delle tecniche artigianali e di produzione agroalimentare ancora in uso come la navigazione notturna, la raccolta del sale marino, la pesca del tonno. I romani furono viaggiatori moderni e conquistatori anomali, a questo si deve la loro fortuna. Nati da un complesso miscuglio di popoli italici ed etruschi, sentivano il bisogno di una propria identità culturale. Evitarono sempre di imporre la propria religione, al contrario la arricchirono con una grande quantità di nuove divinità e questa fu probabilmente la vera forza della loro tecnica conquistatrice. È forse grazie alla coscienza della necessità di assimilare anche un sapere umanistico, per rafforzare la

propria potenza, che praticarono quella tolleranza che li portò a un vero innamoramento per la cultura greca, tanto da spingerli ad adottare, assieme alle divinità dell’era ellenistica, quella formidabile civiltà. Una civiltà che era riuscita attraverso la mitologia – quindi l’arte – a coniugare un grande fervore sociale assieme alla passione politica, a un’economia fiorente e a un’invidiabile stabilità sociale. È assimilando il sapere dei popoli orientali che incontrarono sul cammino di conquista che si civilizzarono, aprendo al loro interno quel dibattito sociale (allora tra magistrati e militari) che sarà l’idea stessa di progresso per tutto l’occidente e gettando contemporaneamente le fondamenta di tutta la nostra cultura dal Rinascimento italiano in poi. Al contrario la precarietà del nostro sistema sociale è responsabile di un nuovo nomadismo, quello urbano. Nella nostra società si è insinuata da tempo una nuova necessità, un desiderio di mobilità e di flessibilità che corrisponde a una richiesta di anonimato, di rinuncia alle responsabilità imposte anche dai luoghi di lavoro, ma anche dell’abitare. Una specie di passione per i non luoghi, per i luoghi privi d’identità, ambienti spogli dove perdersi, abbandonarsi al nulla, forse alla ricerca di nuove frontiere dove tutto può succedere e quindi dove ricominciare. ARTAPP dedica questo numero al viaggio. Un percorso attorno ai siti archeologici incrocerà civiltà che lì hanno convissuto (a Pyrgi, nel Lazio, 2500 anni fa, etruschi e fenici veneravano ognuno i propri dei nello stesso tempio) o che si sono sovrapposte in una stratificazione che assieme ad altre tappe nell’alto Medioevo, nel Rinascimento e nell’Illuminismo dovrebbero giustificare la matrice d’interventi contemporanei sul territorio, o comunque attivarne un dibattito, a dimostrazione che il rispetto della storia e della tradizione può risiedere solo nell’essere contemporanei. Del resto, come spiegava molto bene Bergson: “Il tempo non è come una collana, ma come un gomitolo. In esso il passato convive con il presente, gli fa da supporto, lo alimenta continuamente di sé”. Ancora una volta la comunicazione artistica come modo per comprendere differenze culturali che, affatto estranee tra loro, devono coesistere e convivere per accelerare quel processo evolutivo il cui obiettivo è di aa pace e di equità sociale. ●

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architettura

Luoghi di carattere, luoghi toscani di Alessandra Francesca Ferrari con la consulenza di Associazione Culturale Rotta dei Fenici, Marco del Francia, Mariaelena Ghisleni

i dice che i toscani pecchino di toscocentrismo ma basta un rapido sguardo alla storia e all’evoluzione degli insediamenti umani in questo territorio per confermarne la centralità. Già tra il X e l’VIII secolo a.C la civiltà villanoviana lo scelse per la ricchezza di materie prime e di metalli. È archeologicamente provato che i sardi, popolo forse ancor più avanzato di quello etrusco, abbiano colonizzato le coste toscane. I fenici si mossero dalle loro terre d’insediamento (l’odierno Libano) spinti dalla ricerca soprattutto di metalli ed ebbero come partner privilegiati gli etruschi. I primi fenomeni strutturali insediativi della centuriazione romana avvengono a partire dalla riforma agraria di Tiberio Gracco (II sec. a.C.) con l’assegnazione di piccoli appezzamenti di terra – circa 2,5 ha. – ai coloni, essenzialmente nell’area meridionale di Vulci e in particolare di Cosa (Ansedonia) e di Heba (Magliano in T.), dopo la distruzione dei precedenti insediamenti etruschi (Ghiaccioforte, Doganella, Caletra ecc.). Nel periodo imperiale (I secolo d.C.) si passa progressivamente da un sistema di fattorie medio-piccole a una maglia di fattorie superiori ai 50 ha. (II-III secolo d.C.), ove si assiste alla formazione del latifondo con le ville imperiali delle grandi famiglie patrizie. Una grande trasformazione del paesaggio che passa da un sistema minuto di piccoli campi a grandi aziende di decine e decine di ettari, caratterizzate da colture molto simili a quelle odierne (oliveti, vigneti e cereali). Lo sviluppo e la crescita socio-economica, legata alla ripresa dell’attività agricola, avviene solo con lo stato lorenese che incentivò, dopo le grandi bonifiche idrauliche dell’’800, il formarsi del latifondo e successivamente dell’appoderamento. Con cinque secoli di ritardo, la mezzadria ridisegna tra la fine del ’700 e l’inizio dell’’800 l’attuale campagna delle aree interne. Le fattorie, espressione di questo periodo, erano spesso vecchi castelli recuperati e ristrutturati con casali sparsi secondo schemi insediativi legati alle

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La ricchezza che una comunità eredita non è fatta solo di musei, monumenti, sculture, dipinti, ma soprattutto delle relazioni con il contesto territoriale e ambientale

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Guardare i segni lasciati dall’uomo . stratificati nello spazio e nel tempo. . Segni umani che si sono interlacciati . con l’ambiente e che sono storia . e carattere peculiare della Toscana. . Ascoltare il genius loci per conservare . e valorizzare il territorio .


A lato, il Pensatoio di NuvolaB, Scarlino (Gr), Jan De Clercq e Camilla Curzio. Al centro, residenza Sanitaria Assistenziale di Ipostudio, Poggibonsi (Si) Sotto, podere 43 di Labics, Albinia (Gr) M. Gavric, A. Greti, A. Savino.

matrici morfologiche della zona. Strutture imponenti di forte presenza, che controllavano il territorio con un sistema di appoderamento studiato e ben progettato, e che tuttora lo caratterizzano. Il paesaggio rurale toscano, apprezzato e considerato in tutto il mondo, è quindi frutto di stratificazioni storiche. Il concetto di heritage (da herede) definisce la ricchezza che una comunità eredita, fatta non solo di musei, monumenti, sculture, dipinti, ma soprattutto delle relazioni che si intrattengono con il contesto territoriale e ambientale. Parlare di salvaguardia del patrimonio storico artistico significa spesso rischiare di salvaguardarlo da chi in realtà ne è figlio. È soprattutto questo il dibattito innescato da alcune architetture contemporanee, che rifiutando l’omologazione alla “toscanità” dell’immaginario collettivo, valorizzano il territorio adeguandosi alle sue differenti e molteplici identità, rifiutando il mimetismo a ogni costo e il falso storico. Architetture che la Soprintendenza ai Beni Archeologici e Ambientali di Siena ha inserito in una catalogazione di beni contemporanei sparsi nella campagna toscana da assoggettare a tutela: tra i più recenti la Cantina La Rocca di Frassinello a Giuncarico progettata da Renzo Piano, la Cantina di Collemassari a Cinigiano progettata da Edoardo Milesi, il podere 43 ad Albinia progettato da Labics, Casa Vacanze, ‘Il pensatoio’ a Scarlino progettato da Nuvola B, la Sopra a sinistra, Cantine la Rocca di Frassinello, Renzo Piano © Michel Denancé

Centrale Geotermica ERGA di Boeri Studio, Studio FASE, Bagnone S. Fiora (Gr)

Cantina Collemassari, Edoardo Milesi © Paolo Da Re

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architettura

A Gavorrano lo sfruttamento intensivo da parte dell’industria mineraria ha lasciato sul territorio segni paesistici rilevanti

Centrale Geotermica a S. Fiora progettata da Stefano Boeri , la Rsa a Poggibonsi di Ipostudio e le miniere di Gavorrano descritte più sotto . E non è un caso se il Pritzker Jean Nouvel parla del recupero del centro storico di Colle Val d’Elsa come di un progetto cui tiene molto perché pensato per “una piccola città della Toscana con così tanta storia”, posta non solo nel centro d’Italia, ma anche nel centro del mondo, in cui l’approccio non può non essere quello di guardarsi attorno e di “ascoltare e capire il luogo per reinterpretarlo con architetture che parlino il linguaggio contemporaneo.” Bisogna inoltre riconoscere alla Toscana il merito di saper relazionare mediante la ricerca, la conservazione e la promozione, il consistente patrimonio archeologico dagli albori della sua civiltà fino a dopo il Rinascimento creando centri di sviluppo dell’economia locale. A Gavorrano lo sfruttamento intensivo da parte dell’industria mineraria ha lasciato sul territorio segni paesistici rilevanti. Il progetto del Parco Minerario Naturalistico è nato con la finalità di non cancellare questi segni, bensì di trasformarli, conservando la memoria storica del lavoro dei minatori. All’interno di questo progetto s’inserisce l’efficace recupero e sistemazione a parco della miniera di Ravi Marchi, condotto da Massimo e Gabriella Carmassi, dove l’aspetto più rilevante del progetto è costituito dal percorso trattato come un antico sito archeologico, che possa offrire le suggestioni che solo i reperti autentici sanno emanare. Il teatro delle rocce, a opera di David Fantini, nato dalla conversione di una cava utilizzata dalla miniera per il riempimento delle gallerie sottostanti, mette in evidenza la forma semicircolare del fronte di cava, predisposto naturalmente a ospitare un teatro con lo sfondo del centro storico di Gavorrano, naturale quinta scenica. Infine il museo del Parco delle Rocce – Gabetti & Isola, Gabriella Maciocco, Leonardo Brogioni – collocato tra le strutture del centro accoglienza del parco, si distingue per il suo caratteristico ingresso: una forma a tronco di cono con il rivestimento di zinco laminato che costituisce un elemento quasi avveniristico. A Follonica da circa un decennio è iniziato il recupero delle ex fonderie leopoldine e delle aree limitrofe. Attualmente sono in via di progettazione e di realizzazione la riconversione della ex fonderia n.2 – a opera di Vittorio Gregotti – in spazio teatrale polivalente; il fabbricato ex Forno San Ferdinando – Marco Del Francia, Barbara Catalani – da adibire a Museo del Ferro e della Ghisa; la fonderia n.1 – Politecnica Architettura e Ingegneria – come area fieristica; più il recupero dell’ex ippodromo adiacente alla cittadella industriale per la formazione di un

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parco urbano all’interno del quale si inseriscono una nuova area mercatale e l’arena concerti col progetto di Gonçalo Byrne. Tra le colline che circondano la Valle dell’Ombrone, gli scavi ‘case nuove’ di Cinigiano (Il “Roman Peasant Project” nato nel 2009 con lo scopo di scavare le abitazioni, le aree produttive e gli altri spazi vissuti dalla classe contadina romana) rappresentano il primo tentativo di comprendere l’architettura, le abitudini alimentari, l’uso del territorio, il paesaggio abitato dalla classe sociale che rappresentava circa il 90% della popolazione romana. Il progetto, che vanta la collaborazione internazionale di archeologi, storici, geologi e biologi, è arrivato a ipotizzare che si trattasse di una sorta di piccolo “Consorzio” dove i contadini portavano il prodotto grezzo da sottoporre a lavorazione, oppure una piccola area produttiva gestita dalla villa stessa, una versione in scala minore della moderna azienda agricola Colle Massari che le è sorta attorno. A distanza di più di 2000 anni il genius loci ispira all’uomo gli stessi usi di allora. ● aa In alto, Teatro delle Rocce di David Fantini, Gavorrano (Gr) © Giacomo Badiani Sopra, Museo minerario Parco delle Rocce, Gavorrano (Gr) di Gabetti & Isola, G. Maciocco, L. Brogioni, Gavorrano (Gr)

Parco miniera Ravi Marchi di Massimo e Gabriella Carmassi, Gavorrano (Gr) © Mario Ciampi

Sopra e a destra, Scavi di Case nuove, direttori M. Ghisleni, K. Bowes, Cinigiano (Gr)

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Foto Paolo Da Re

La fondazione operativa dal 2009 si occupa statutariamente della promozione del territorio della maremma grossetana mediante contributi nel mondo dell arte, del recupero ambientale, dell archeologia, dell architettura contemporanea sostenibile. Ad oggi la fondazione ha partecipato alla programmazione e ha fornito sostegno economico all attuazione dei progetti socio? sanitari svolti dalla confraternita di Cinigiano, a quelli musicali dell Amiata Festival, alla ricerca scientifica agroenologica svolta dall Universit di Pisa, ai programmi del comune di Cinigiano rivolti alla riqualificazione del centro storico di Poggi del Sasso, all organizzazione e al coordinamento dei convegni di architettura presso il Monastero di Siloe, allo svolgimento di workshop residenziali del teatro stabile di Grosseto con la scuola d arte drammatica Paolo Grassi, all attivit archeologica svolta dall Universit di Siena con University of Pennsylvania in Loc. Case Nuove.

F o n d a z i o n e S o c i o - C u l t u r a l e M o n t e c u c c o C i n i g i a n o , G r o s s e t o , I t a l i a w w w. f o n d a z i o n e m o n t e c u c c o . i t


Il viaggio archeologico

A lato, resti di sepolture in Val d’Asso (Si)

Il caso di Pava in Val d’Asso

Sotto, vista aerea del territorio prima e dopo gli scavi

di Stefano Campana, Carlo Pozzi el convegno internazionale “Remote sensing in archaeology” (Thirachirapally, India, agosto 2009) sono stati presentati i ritrovamenti archeologici in Val d’Asso, individuati grazie alle nuove tecniche di rilevamento satellitare: si tratta dei resti di una pieve intitolata a San Pietro che ha avuto un arco di vita di alcuni secoli (dal V all’XI d.C.), successivamente abbandonata in seguito a crollo. Dagli scavi emerge un complesso impianto a doppia abside, frutto di ampliamenti e/o sovrapposizioni, che rendono raro e prezioso il ritrovamento, a ridosso della strada provinciale Traversa dei Monti. La piccola Val d’Asso si trova al limite meridionale della provincia di Siena, a est della più nota Val d’Orcia dove, nei pressi di Montalcino, il torrente Asso si unisce appunto all’Orcia, in paesaggi che rendono celebre il Senese e le sue aspre Crete. La peculiarità di questa valle sta proprio nella sua marginalità rispetto a contesti territoriali più noti, che ha determinato l’involontaria conservazione di paesaggi naturali e umani stratificatisi nei secoli, dai primi insediamenti etruschi fino ai mutamenti che sono arrivati a plasmare quel paesaggio di poderi e piccoli borghi castrensi che ne costituisce ancora oggi l’elemento più caratteristico. Nasce a questo punto l’esigenza di valorizzare lo scavo, ampliandolo, proteggendone la parte più significativa, inserendolo in un progetto che prevede la realizzazione di un parco naturalistico progettato su base storicoscientifica, in cui la scelta del “verde” sia finalizzata non solo all’integrazione con il paesaggio esistente, ma anche al recupero e alla riproduzione di contesti naturalistici antichi. L’ipotesi progettuale di protezione dello scavo è la più possibile minimalista calvinamente leggera, con la copertura della sola navata centrale e delle due absidi, con carattere analogico che appena allude alla tipologia volumetrica originaria, stilizzandola. Le passerelle per i visitatori sono all’aperto, pensate come la continuazione di un percorso che arriva dal parcheggio e relativa “camera di compensazione”: il passaggio da un contesto veloce, come è quello della società contemporanea, attraverso un limite astratto, una soglia che dà accesso a un’epoca storica di molto precedente. La struttura primaria è realizzata con profilati d’acciaio su fondazione con micropali; il telaio strutturale di copertura è in profili di alluminio, mentre il manto di copertura è realizzato con teli di gore-tex traslucido. Le passerelle hanno struttura a sbalzo in profilati d’acciaio e impiantito in legno multistrato e sono arricchite da un sistema di illuminazione e dalla sequenza di pannelli informativi. Questi spiegheranno che i ruderi costituiscono un tesoro antico necessario alla cultura moderna, da esplorare con meticolosa pazienza, con il rispetto che si ha per i propri antenati e l’ascolto per i suggerimenti che ci hanno tramandato: innanzitutto quelle scelte che sono durate per secoli, come le tipologie distributive, spaziali, formali, quelle degli spazi di relazione. Senza compiacimenti romantici o nostalgie ecologiste, i ruderi possono suggerire valori perduti ancora necessari alla aa progettazione delle città contemporanee. ●

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Sopra, rendering delle passerelle e della copertura; a lato prospetto e sezione Progetto: Carlo Pozzi, Alessandro Buongiovanni Consulenti: Guido Camata, Stefano Campana, Edoardo Milesi Visualizzazioni 3d: Milena Ciamarra, Francesco Girasole

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incontro pittura con giuseppe bartolini

Galletto rosso, 2001 olio su tela, cm 62 x 92

Esponente del realismo . esistenziale negli anni ‘60, . oggi Bartolini dipinge . carcasse d’auto invase . dalla ruggine e dalla vegetazione . con lo stesso rigore di allora . di Edoardo Milesi

Al di là dell’apparenza on vedo Giuseppe Bartolini da 26 anni, ne ha 72, so che è un uomo schivo, certo delle sue convinzioni, che ha voglia di parlare di pittura e architettura, ma non ama essere frainteso. Piuttosto rinuncia a parlarne. Preparo l’incontro mandandogli via e-mail cinque domande che devono sciogliere la sua nota riservatezza e scelgo la strada della provocazione.

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Giuseppe Bartolini nel suo atelier di Pisa

La pittura è insostituibile per comunicare certi valori. Il pericolo è il compiacimento di se stessi, sempre, anche se è un compiacimento verso il basso

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Ho letto la tua intervista di Carla Benedetti, ne esce il tuo compiacimento di essere un artista di altri tempi, come non ce ne sono più. Non sai quante volte, parlando con persone che vengono a sapere che guido questa rivista, mi sento dire: l’arte non esiste più, non è più quella di una volta, è finita, arriva al massimo agli anni ’60. Noi con ARTAPP sosteniamo e vogliamo dimostrare che l’arte non è altro che un modo per comunicare, che se è vera arte è in grado di emozionare e coinvolgere, non è decorativa, ma descrittiva, narrativa, formativa ed evolutiva. Tutti possono arrivarci a patto che si lascino coinvolgere. All’arte ci si educa. L’arte, in tutte le sue

forme, è necessaria per alimentare il nostro spirito e la nostra cultura, senza arte non c’è comunicazione, non c’è evoluzione. Detto questo ti chiedo: 1) Ritieni che il nostro momento storico abbia rinunciato all’arte o più semplicemente l’evoluzione della cultura implica nuove forme di espressione? 2) Forse la pittura figurativa non è più attuale perché sostituita dalla fotografia e dal cinema? 3) Mi piace quando dici che il colore che componi sulle tue tele non è quello reale, ma quello della memoria che è dentro di te e come tale è una stratificazione di emozioni. È chiaro che in tutto questo la materia trascende la forma e allora perché inseguirla in modo così verista? 4) Ti ho conosciuto quasi trent’anni fa quando Arialdo Ceribelli mi chiese di pensare alla copertina del catalogo della mostra Metacosa dove tu eri con Biagi, Ferroni, Luino, Luporini, Mannocci, Tonelli.


A lato, Lambretta, 2008 olio su tela, cm 75 x 90 Sotto, E 402, olio su cartone su tavola, cm 29,5 x 28

chi è | Giuseppe Bartolini

Littorina ferma, 1997 olio su tavola, cm 49 x 47

In copertina misi provocatoriamente il portale di Palazzo Paolina a Viareggio, dove si teneva la mostra, con un passaggio di stampa di colore in meno ottenendo un effetto piatto di colori vuoti, esattamente all’opposto del vostro scrupoloso lavoro sulla cromia della materia e della luce che la colpisce. La mia copertina non piacque a tutti, non ebbi modo di spiegarla e si insinuò in me il sospetto che per qualcuno di voi, nonostante il dichiarato rifiuto del confronto con l’iperrealismo americano, si trattasse di pittura di maniera più che di poesia, capricci accademici, esercitazioni eleganti e virtuosistiche più che voglia di farsi sentire e mettersi in gioco. Il giorno dopo mi chiama. Una laconica telefonata nella quale mi dice che preferisce non rispondere alle mie domande, ma se sono veramente interessato a incontrarlo ci possiamo vedere nel suo studio a Pisa. Ci incontriamo a Piazza del Duomo dove è in corso un raduno di moto d’epoca, mi ricordo della sua passione per le motociclette e dei suoi baffi neri. Baffi e capelli sono bianchi, ma mi pare più

Nasce a Viareggio il 6 giugno 1938. Inizia a dipinge a olio al liceo artistico di Carrara e nel 1959, diplomato, si trasferisce a Milano dove conosce Gianfranco Ferroni, Giuseppe Guerreschi, Giuseppe Banchieri, Bepi Romagnoli, Sandro Luporini, un gruppo di artisti legati al realismo esistenziale. Nel 1960 si iscrive alla facoltà di architettura di Firenze, che abbandona dopo due anni per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Ma la passione per il territorio sia naturale che metropolitano sarà sempre, nelle sue opere, analizzata con approccio e occhio da architetto. Alla fine degli anni ’70 Bartolini aderisce al gruppo La Metacosa con Giuseppe Biagi, Gianfranco Ferroni, Bernardino Luino, Sandro Luporini, Lino Mannocci, Giorgio Tonelli, pittori accomunati da una tecnica figurativa realista che per gran parte di loro prenderà evoluzioni anche molto diverse. Bartolini resta ancora oggi rigoroso interprete della realtà anche se sempre mediata da un’interiorità critica e al contempo compiaciuta che la fa vibrare di intenso lirismo a volte anche drammatico.

Piccola casa ANAS, 1997 olio su tavola, cm 25,5 x 24,5

Giuseppe Bartolini trae ispirazione dalle auto abbandonate

La pittura, figurativa e non, non potrà mai essere sostituita da qualsiasi altra invenzione! Teatro e cinema, video, sono specifici, diversi

alto anche se è impossibile. Dopo pochi passi entriamo attraverso un cancello cieco, in ferro, nel giardino della sua casa. Mi pare di entrare in uno dei suoi quadri, quelli degli orti botanici (1979/80), con le palme colpite da una luce speciale che c’è solo sul litorale toscano. Il suo studio dà sul giardino, entriamo. I miei due figli più giovani, che mi accompagnano, sono estasiati, restano senza parole. Tele ovunque, grandissime e piccolissime, dalle quali escono, materializzandosi con la luce che le colpisce, automobili arrugginite e lambrette senza tempo. E poi fotografie, immagini, oggetti, pennelli e colori. Ma quanto tempo ci vuole per un quadro così? Dipende, non lo so, lavoro tutto il giorno. Ci impiego tanto anche perché l’olio è lungo ad asciugare. In questi ultimi quadri che sto facendo ho eliminato il contesto. Si vede solo attraverso i vetri delle macchine. Si vedono le altre macchine che sono abbandonate lì vicino. Sono stato recentemente in Svizzera, vicino a Berna, in un parco di automobili abbandonate.

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Fiat 1100/103, 2006, olio su tela, cm 130 x 165

Sopra, Pisa: Case, albero e Battistero, 1978 olio su tela, cm 42 x 45

Fiat 500, 2004 olio su tela, cm 60 x 60

pittura

A lato, Pisa San Rossore, olio su tavola, cm 25,5 x 24

Sopra, Scuola di equitazione, 1974, olio su tela, cm 110 x 135 A sinistra, Falconara Marittima, stazione ferroviaria, 1981 olio su tela, cm 77 x 61

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Esisteva una vita sociale attorno all’arte, si formavano gruppi e poi scambi con il mondo del cinema, del teatro, della letteratura

È un posto fantastico. Ce ne sono a centinaia con gli alberi che ci crescono dentro. Ma adesso devono portare via tutto a causa dell’inquinamento. Abbiamo raccolto le firme per chiedere di lasciarlo lì. Ma non c’è stato niente da fare. Parla dell’architettura, degli architetti, che lì a Pisa hanno sbagliato tutto di un progetto per un nuovo museo di arte. L’unico posto dove un mio quadro, quello della 1100 grigia, era veramente ben illuminato, è stato a Firenze nel 2006. Una personale in una carrozzeria. Il mio quadro era esposto nel forno, lì la luce ti deve permettere di vedere qualsiasi difetto. Dice che gli piace la Fondazione Beyeler di Renzo Piano e come lavorano Herzog e DeMeuron, e intanto guardo i dettagli della lambretta, il filo rosso del freno di dietro. Tu sei un architetto, gli dico, e i suoi occhi si illuminano. I tuoi sono progetti di design, di architettura, situazioni precise,


Fiat 1100, 2005, olio su tela, cm 76 x 74,5

Fiat 600 Multipla, 2003 olio su tela, cm 70 x 120

Alfa Romeo - Giulietta, 2004

tutto è sotto controllo. Ho fatto due anni a Firenze, poi ho lasciato, volevo dipingere e non ho più smesso. La pittura è insostituibile per comunicare certi valori. Il pericolo è il compiacimento di se stessi, sempre, anche se è un compiacimento verso il basso.Quando ricevo un’emozione la voglio restituire, come è possibile al di fuori della realtà? Ma il concettuale? L’arte povera? Scuote la testa. Restiamo assieme quasi due ore, poi devo ripartire e mi accompagna alla macchina promettendomi un giro critico tra le architetture contemporanee pisane. Quando arrivo in studio a Bergamo trovo la sua mail. “Proverò a risponderti in generale ai quesiti che mi hai proposto, ma prima voglio precisarti quanto io sia veramente un artista di altri tempi, ma senza esserne compiaciuto. Per me dipingere – da un certo momento della vita – è stata una vera necessità. Non pensavo proprio che potesse diventare una professione. Era la fine degli anni ’50,

Fiat 600, 2004, olio su tela, cm 60 x 60

l’inizio dei ’60. Fu una vera urgenza interiore quella che spinse me, insieme a tanti altri giovani a dipingere con rigore e con un’etica precisa. Esisteva una vita sociale attorno all’arte, si formavano gruppi e poi scambi con il mondo del cinema, del teatro, della letteratura. La critica era motivata e responsabile, quindi più autentica rispetto a oggi. Il collezionista era il collezionista. Nessuno lavorava per apparire. Oggi che tutti questi valori sono venuti a mancare, si privilegiano forme d’arte solo in apparenza innovative e per me poco durevoli. La pittura, figurativa e non, non potrà mai essere sostituita da qualsiasi altra invenzione! Teatro e cinema, video, sono specifici, diversi. Mi poni domande sull’iperrealismo: per quel che riguarda la corrente pittorica americana l’ho sempre seguita, anche con ammirazione, ma ho sempre dipinto considerando il vero più come una necessità per indagare al di là dell’apparenza piuttosto che per competere con la aa fotografia!”●

Lambretta I, 2002 olio su tela, cm 80 x 60

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fotografia

L’occhio di un fotografo . spazia sui miti . e i popoli del Mediterraneo,. raccogliendo per noi . frammenti.di immagini . e di storie nel tempo .

Dario Coletti, Ulivo secolare, Villa Adriana, Tivoli (Roma) 2007

Sulle rotte di Atlantide di Salvatore Ligios

ono un fotografo stanziale e faccio fotografie solo all’interno dell’isola dove sono nato e vivo. Non mi manca la curiosità di esplorare altri luoghi – fin da ragazzo mia madre diceva che a me la muffa non mi attaccava perché sempre in giro –, ma fermare in un fotogramma terre e persone fuori dall’orto di casa lo trovo uno spreco, mi sembra quasi di rubare. Tempo fa un fortunato incontro con un libro fotografico mi ha riconciliato con questo cruccio, Atlante di Luigi Ghirri (1973): “L’atlante è il libro; il luogo in cui tutti i segni della terra, da quelli

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naturali a quelli culturali, sono convenzionalmente rappresentati: monti, laghi, piramidi, oceani, città, villaggi, stelle, isole. [...] Le isole felici, care alla letteratura e alle nostre speranze, sono ormai tutte descritte, e la sola scoperta o viaggio possibile sembra quello di scoprire l’avvenuta scoperta...”. Una libreria fotografica dà la possibilità di esplorare, comodamente seduti su un divano, le terre che fanno da corona e confine al Mare Nostrum. E se dovessi scegliere un simbolo comune a tutti i popoli che si affacciano sul

Mediterraneo non avrei dubbi, metterei al primo posto l’albero dell’ulivo. Credo non abbia rivali perché la storia di questa pianta s’intreccia intimamente con il mare che fin dall’antichità l’ha alimentata e la nutre. Il Mediterraneo è il mare del “viaggio”, da sempre, per tutte le comunità che con questo elemento naturale sono venute a contatto fin dai primordi della storia. Esplorazioni, scoperte, avventure, commercio, invasioni, sconfinamenti, guerre, viaggi della pace, della speranza o della disperazione,

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Wilhem Hammerschmidt, Grande piramide di Cheope, 1860 circa (in Il Mediterraneo dei fotografi)

Sopra, copertina del libro Luigi Ghirri, Università di Parma, 1979

La storia dell’ulivo s’intreccia intimamente con il mare che fin dall’antichità l’ha alimentato e lo nutre

A lato, Atlante di Luigi Ghirri, Edizioni Charta, 2000

Luca Campigotto, Tre piramidi, 1996 (in Le pietre del Cairo, Peliti editore, Roma 2007)

Luigi Ghirri, da Atlante, 1973 (in Luigi Ghirri. Vista con Camera, Motta Editore, 2004) Copertina del libro Il Mediterraneo dei fotografi: passato, presente, F. lli Alinari, Firenze 2004 Giampaolo Catogno, Settimana santa a Bonifacio (Corsica), 2005

“Le isole felici care alla letteratura e alle nostre speranze sono ormai tutte descritte, e la sola scoperta o viaggio possibile sembra quello di scoprire l’avvenuta scoperta...”

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hanno caratterizzato nei secoli la sua storia. La prima traccia di questa idea di esplorazione ce la suggerisce la Bibbia, nel racconto sul diluvio: “Noè [...] attese altri sette giorni e di nuovo fece uscire la colomba dall’arca e la colomba tornò a lui sul far della sera; ecco, essa aveva nel becco un ramoscello d’ulivo” (Genesi 8.12). La coltivazione degli ulivi è attestata da circa 6000 anni fa, in territorio palestinese; da qui si è espansa sulle terre bagnate dal Mar Mediterraneo.


Giampaolo Catogno, Bosco d’ulivi (isola di Maiorca), 2004

Dai primi albori sino a oggi le storie dei tanti popoli che si sono affacciati su questo universo si intrecciano così velocemente che diventa difficile privilegiarne qualcuno. Tra storia e mito le rotte di navigazione e gli scambi continuano e chissà quali sorprese riserveranno ai nostri posteri. Lo sguardo fotografico ha di volta in volta privilegiato l’aspetto geografico e storico ma più assiduamente quello antropologico e culturale. Sin dai primi anni della scoperta della fotografia l’industria ha investito sui

reportages “per famiglia” con immagini bellissime e straordinarie di luoghi così vicini ma altrettanto diversi dal mondo “civile” allora conosciuto. Il fascino dura intatto anche ai nostri giorni, tanto che l’anno scorso l’Archivio Alinari, pioniere delle più importanti e diffuse campagne fotografiche realizzate tra metà Ottocento e i primi decenni del Novecento, ha editato Il Mediterraneo dei fotografi. Passato e presente, un volume che raccoglie una piccola parte di quel vasto materiale dove si coglie – con una certa nostalgia,

occorre riconoscere – la ricchezza di realtà tanto diverse quanto affascinanti. Nelle immagini c’è tutta la fotografia di viaggio accumulata nel tempo. Passando dagli scatti di Delessert del 1854 sul paesaggio brullo della Sardegna, a quelli di Bonfils, che nel 1880 circa riprese i cedri del Libano con la neve, per passare alla grande piramide di Cheope di Hammerschmidt, del 1869 circa, o alle spiagge di Tangeri di Cavilla, del 1900 circa. Un viaggio iniziato con le carte salate

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Massimo Mastrorillo, Istanbul (Turchia), 2008

Lo sguardo fotografico ha di volta in volta privilegiato l’aspetto storico ma più assiduamente quello antropologico e culturale

Ziyah Gafic, Libano, 2006

monocromatiche del bianconero per arrivare agli sgargianti colori digitali dell’attualità. La lista dei luoghi documentati è lunga e i paesi citati sono tanti: Italia, Algeria, Tunisia, Malta, Libia, Egitto, Israele, Palestina, Giordania, Siria, Libano, Turchia, Cipro, Grecia, Albania, Serbia e Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Slovenia, Francia e Spagna. Anche i racconti sono davvero infiniti. Da Ulisse a Enea per arrivare alle invasioni musulmane e alle Crociate medievali. Dalle rotte commerciali delle repubbliche

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marinare sino ai pattugliamenti delle navi da guerra durante i conflitti mondiali. In questa selezione per frammenti mi piace qui ricordarne uno per tanti: il viaggio o meglio la fuga avventurosa cui prese parte Emilio Lussu, condannato dal Tribunale speciale fascista a 5 anni di confino a Lipari, la più grande delle isole Eolie: riuscì a evadere insieme a Carlo Rosselli e Francesco Fausto Nitti, nel 1929, e raggiungere prima Tunisi e poi Parigi. In seguito narrerà le sue peripezie nel libro Le nostre prigioni e la nostra evasione.


Il Mediterraneo è il mare del “viaggio”, da sempre, per tutte le comunità che con questo elemento naturale sono venute a contatto fin dai primordi della storia

Giovanni Chiaramonte, Coppia, Atene, 1988

Nella sovrapposizione di strati di storia e di storie che continuamente si accumulano sul nostro mare fa sorridere l’antico tabù secondo il quale il viaggio non doveva oltrepassare le colonne d’Ercole; dopo quel limite si trovava Atlandide, ovvero l’ignoto, in pratica un viaggio senza ritorno. Il tempo ha digerito completamente questi miti. A leggere sui rotocalchi o sentire per Tv le cronache dell’oggi c’è da perderci la testa per il via vai di navi da crociera, le passerelle dei mega yacht all’ancora nelle località turistiche e le immagini

Giovanni Chiaramonte, La donna e il pesce, Barcellona, 1996 In alto, Giovanni Chiaramonte, Nave greca, Venezia, 1998

drammatiche delle carrette del mare con a bordo disperati in cerca di una nuova terra dove provare a vivere meglio. Nel gioco delle idee e delle visioni di chi prova a immaginare cosa ci riserverà la storia futura, qualche tempo fa l’artista milanese Vanessa Beecrof, alla domanda del giornalista che le chiedeva “Come vede il futuro dell’arte in Europa?”, rispondeva: “Immagino i bianchi sbarcare sulle coste africane e una situazione di caos dove vecchie e nuove povertà si aa confondono”. ●

Fotografie di Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Dario Coletti, Massimo Mastrorillo, Giampaolo Catogno, Ziyah Gafic, Archivio Alinari, Archivi vari. Le immagini che appaiono in questo servizio, escluse quelle richiamate nei libri citati, sono realizzate da fotografi che hanno esposto o collaborato con Su Palatu, il museo per la fotografia presente in Sardegna. La foto di Dario Coletti è tratta dal progetto “L’ulivo nel Mediterraneo”, le foto di Giovanni Chiaramonte da “Abitare il mondo. Europe”.

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arte

Da sinistra: la cripta bizantina della “Madonna di Coelimanna” a Supersano (Le); un particolare dell’affresco. I leoni stilofori del portale del duomo di Bitonto . Villaggio “Matine” ad Alessano (Le). Particolare del barocco leccese.

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Le “chiancole” grigie, segno del tempo che passa, il bianco candido della calce e la purezza del cielo. Questa è Alberobello (Ba), in una suggestiva veduta dall’alto, con le sue

caratteristiche abitazioni, i trulli, che hanno portato alla bellissima cittadina pugliese il meritato riconoscimento di Patrimonio Mondiale dell’Umanità da parte dell’Unesco

Puglia La pietra come protagonista di un paesaggio. segnato da straordinarie architetture rurali, grotte. naturali, cripte bizantine e maestose cattedrali,. massima espressione della decorazione barocca.

Una terra dalle radici di pietra di Annalisa Montinaro fotografie di Oreste Ferriero

a Puglia è un po’ come l’Italia. Nella verticalità della sua geografia, paesaggistica, politica e culturale, è difficile trovare un elemento comune. Ogni dominazione ha lasciato il segno del suo passaggio, ogni epoca il monito del suo andare. Dall’armonia dell’arte greca all’imponenza di quella romana, dalla presenza musulmana ai calogeri bizantini, fino alla venuta dei normanni e alle magnificenze dell’Impero di Federico II, è un continuo fiorire di forme d’arte e di scienza, di modelli amministrativi ed effervescenze culturali. Eppure, a pensarci bene, un elemento comune si trova: è la pietra. La pietra è dappertutto. Sopra, sotto, durante. Percorre il tempo e lo spazio senza tregua. Si svela “dentro”, nell’intimità dello spazio religioso, vigorosa ed essenziale. Si esibisce “fuori”, nello spazio urbano, nell’espressione narcisistica delle sue infinite potenzialità. Attraversa la terra come una radice. Abita il pensiero come un’idea. Scorre

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Sotto, Villaggio “Matine” ad Alessano (Le). Un vero e proprio villaggio di “Zigurrat” in pietra a secco. Alcune di esse raggiungono dimensioni monumentali

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con la facilità di un liquido. Si esprime e si sprigiona con la libertà di un gas. In Puglia la pietra viene prima di tutto. Basta attraversare la murgia barese o la serra salentina per accorgersi che da queste parti la terra, spesso, è soltanto un sottile strato di polvere, dolorosamente strappato alla roccia che affiora dappertutto e si propaga come un contagio. A osservarla oggi la campagna pugliese, così addomesticata e geometricamente suddivisa attraverso il rigore di prodigiosi muretti in pietra a secco, verrebbe facilmente da pensare che sia sempre stata così, che sia nata con le pietre

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tutte a posto, cui mani accorte e sapienti, nel tempo, hanno saputo trovare il giusto incastro. Nonni, padri e figli, per secoli, pur di piantare un seme, hanno “sbancato” e dissodato, faticosamente, per sottrarre alla pietra uno spazio vitale. Trasformare coraggiosamente il paesaggio o pietrificarsi insieme con lui. Non c’era alternativa. Sono nate così le straordinarie architetture rurali in pietra a secco, pronte a servire le esigenze di un’agricoltura tutta da inventare. “Furnieddhi”, “pajare”, “lamie”, umili unità abitative e di lavoro, che ancora oggi mappano la campagna pugliese come costellazioni. Pietre povere e soluzioni ardite

dotate di volte e massicci portali d’ingresso; nicchie, camini, forme e misure tra le più svariate: circolari, quadrangolari, a tronco di cono. La pietra, tufacea e porosa, pronta a cambiare cromie col passare delle ore di un giorno, racconta la fatica del “pane quotidiano” e la pulsione, nei secoli, verso la divinità, stabilendo da subito con la religione un rapporto archeologico e singolare. Il carsismo, tipico di questi luoghi, e la particolare duttilità della pietra salentina hanno consentito “lo scavo” di alternativi percorsi di sopravvivenza di una religiosità sempre in fuga da qualcosa e alla ricerca


Sopra, particolare di “Zigurrat” A lato, gregge al pascolo nella pittoresca campagna salentina con particolari delle architetture rurali in pietra a secco

A lato, interno della cripta bizantina di San Salvatore a Giurdignano (Le) VIII-X sec. È costituita da tre navate, divise da quattro pilastri a pianta cruciforme, terminanti con absidi semicircolari contenenti altari addossati al muro dida

chi è | Annalisa Montinaro Annalisa Montinaro è una “penna sciolta”, impegnata a valorizzare la scrittura come strumento di conoscenza di sé e a portare alla luce il suo profondo potere terapeutico. Da circa dieci anni si occupa di promozione del territorio e di scrittura di viaggio. Lo fa attraverso una rivista, Sciabiche e tramagli - viaggiare a sud, che racconta il sud dell’Italia con taglio antropologico e a tempo di mare. Crede profondamente nella grande funzione evocativa del linguaggio e lavora per restituire alla narrazione il suo potere di “costruzione di identità”. Il linguaggio evocativo e la narrazione sono per lei le due coordinate fondamentali su cui costruire l’incontro tra gli uomini e le civiltà e sono le due uniche armi contro quel marketing che non “serve” la cultura e svuota di significato ogni cosa. Annalisa Montinaro è operaia della cultura, editore e meridionalista convinta. Da dieci anni racconta il “Bello” e racconta il “Sud” attraverso tutte le arti possibili. La sua ultima fatica è Lo Sguardo di Omero, un Festival di narrazioni filmiche per raccontare luoghi, culture e identità. È nata a Lecce 37 anni fa e vive sull’Adriatico.

Particolare dei trulli di Alberobello

Furnieddhi, pajare, lamie, umili unità abitative e di lavoro, ancora oggi mappano la campagna pugliese come costellazioni

continua dell’oltre. Dalle grotte naturali alle cripte bizantine, senza trascurare lo splendore delle cattedrali romaniche, ascetiche ed essenziali, fino alle inquietudini orgiastiche e vitalistiche del barocco salentino, la Puglia è un tappeto musivo di un percorso religioso che non ha saltato una tappa. Da Oriente a Occidente, tutte le croci, la greca prima e la latina poi, ordinarono lo spazio del vivere civile e religioso, tra nuove centralità urbane e antiche periferie, delineando di volta in volta un’idea di “spazio” e di “tempo”. Dall’Oriente, intorno alla prima metà del sec.VIII, spinti dal furore iconoclasta,

giunsero in Salento i monaci seguaci di San Basilio che scavarono grotte ipogee, dette “lauree anacoretiche”, dove vissero, secondo la loro formula ascetica, il rapporto con Dio. Le cripte bizantine, ricche di affreschi pregiati, ancora oggi attraversano il Salento come fiumi sotterranei, mistici formicai di credi religiosi e di saperi che, sin da allora, hanno segnato alla radice questa terra crocevia di tanti mondi. Le grotte più ampie furono adibite a chiese mentre quelle più anguste a miseri rifugi dove i Basiliani vissero contemplando l’aldilà e mortificando la carne. Scavarono granai, depositi per le derrate alimentari e trappeti ipogei. La loro

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Imponente facciata della basilica normanna di san Nicola di Bari edificata sull’area della residenza del catepano, il governatore greco-bizantino dell’Italia Meridionale, tra il 968 e il 1071

Il bestiario medievale narrato sulle pietre delle cattedrali è simbolo dell’irrazionale che insidia la natura umana e attenta allo splendore della creazione divina

A sinistra, particolare della Basilica di San Nicola di Bari Sopra e a destra, Castel del Monte (Andria-Ba), costruito da Federico II di Svevia intorno al 1240, con la sua originalissima forma ottagonale che connota la pianta del cortile interno e delle torri che lo circondano

presenza incrementò notevolmente la coltivazione dell’olio e della vite in questa straordinaria regione di frontiera, nel cuore inquieto del Mediterraneo. Nell’XI secolo, poi, da Occidente, giunsero i normanni. Avevano una missione precisa: “latinizzare”. È il periodo della nascita della civiltà europea che coincide con la nascita dell’arte romanica. Un bianco mantello di chiese ricoprì tutta l’Europa, attraversata da

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un anelito verticale verso Dio che connota la religiosità dell’Occidente romanico. La Puglia non solo non si sottrasse a questo carosello ma raggiunse con le maestose cattedrali di Bari, Bitonto, Bitetto, Ruvo, Troia e Trani, livelli di eccellenza più unici che rari. L’architettura, solenne, sfiora il misticismo perché mistica è la luce che emana dalla pietra chiara. Il bestiario medievale magistralmente narrato sulle pietre delle cattedrali, in un alternarsi armonico tra


Attraversato l’equilibrio del periodo rinascimentale, i furori della controriforma tornano a infiammare gli animi e Lecce, “bella e gentile”, si orna di eccessi

A lato, Duomo di Lecce, ricostruito nel XVII sec. Sotto, altri esempi del barocco leccese

mostri ridicoli e belle deformità, è simbolo dell’irrazionale che insidia la natura umana e attenta allo splendore della creazione divina. Le pietre raccontano il fermento delle manovalanze, la babele degli incontri, il mistero degli intenti all’interno di una sintesi, architettonica e religiosa, dove “Oriente” e “Occidente” sono diritto e rovescio e ogni elemento compositivo, nella sontuosità delle forme e dei materiali, è un gradino del “pellegrino” nella sua scalata

verso Dio. Poi, attraversato l’equilibrio del periodo rinascimentale, i furori della controriforma tornano a infiammare gli animi e Lecce, “bella e gentile”, si orna di eccessi. Lo scalpello di Giuseppe Zimbalo e il pastorale del vescovo Pappacoda cambiano il volto e lo spazio della città che trasuda da ogni poro i segni dell’incontestabile ortodossia religiosa. Il barocco leccese, unico nel suo genere per la lucentezza e l’“obbedienza” della sua pietra, non

recepisce la rivoluzione dello spazio ma si concentra sulla decorazione, che prorompe sulle facciate delle architetture civili e religiose. La pietra gronda da tutte le parti in un carosello gioioso di simboli e di aneliti: angeli, riccioli, viticci e festoni, capitelli di foglie d’acanto e collane di melograni; cariatidi seducenti e grotteschi telamoni, ghirlande di fiori, maschere e puttini, mostri sacri ed eccessi pagani. La pietra consegna aa Lecce all’eternità.●

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pittura

Luca Conca Paradisi artificiali In una lucida “iconografia della finzione”, il pittore . valtellinese riproduce luoghi reali, privati della loro . storia e omologati alle esigenze del turismo di massa . di Michele Tavola uale forma di perversione, quale assurdo stimolo spinge una persona non affetta da particolari patologie psichiche a preferire una piscina di cemento con acqua al cloro alle onde di un mare incontaminato e a splendide spiagge di sabbia bianca? Come è successo che il desiderio di paradisi artificiali si sia insinuato al punto da renderli più appetibili di quelli naturali? Quali sortilegi, quali filtri della maga Circe hanno dato origine alla stupefacente metamorfosi che trasforma uomini pensanti in turisti acritici non appena si avvicinano a luoghi di vacanza? Luca Conca, giovane pittore che vive a lavora in Valtellina, a Morbegno, lungo le sponde dell’Adda, ha osservato e registrato le conseguenze di questo strano ma ormai diffuso fenomeno, dando forma a una vera e propria “iconografia della finzione”. Quelli che, a un primo sguardo, possono sembrare paesaggi riconducibili a una consolidata tradizione pittorica, condotti con abilità e virtuosismo, sono in realtà una lucida analisi della nuova morfologia del territorio. Fuor di metafora, mostrano come l’industria del divertimento abbia cambiato luoghi straordinari dalla storia plurimillenaria. Le “cartoline estive” spediteci da Conca ritraggono angoli di Sicilia, ma potrebbero venire da qualsiasi luogo del bacino del Mediterraneo, dai Caraibi o da qualsiasi villaggio vacanze sparso per il globo terrestre. Spersonalizzazione e omologazione fanno sì che si trovino gli stessi bungalow, le stesse attrezzature balneari e gli stessi cocktail nei bar, arredati più o meno allo stesso modo, a Taormina come a

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Paesaggio artificiale, 2009, olio su tela, 24x33 cm

Santorini, a Sharm El Sheik come a Ibiza. Tutto questo è tranquillizzante, è rassicurante, dà certezze. Il Mediterraneo di Ulisse, che dagli stretti del Bosforo e dei Dardanelli alle Colonne d’Ercole riservava infinite sorprese e avventure, mostri marini e creature fantastiche, non esiste più non solo nella realtà ma nemmeno in quello spazio mentale che è l’immaginario collettivo. Scilla e Cariddi non spaventano più nessuno e i nomi dei due scogli non evocano più le terrificanti creature che decimarono l’equipaggio di Ulisse, ma fanno piuttosto pensare ai traghetti che ogni mezz’ora, pieni di turisti, salpano da Reggio Calabria a Messina. Senza retorica, evitando accuratamente operazioni nostalgiche e, al contrario, con la volontà di descrivere e di farsi interprete della contemporaneità, Luca Conca rappresenta con sguardo chirurgico una piccola porzione del nostro mondo, con tutte le sue storture, le sue contraddizioni e le sue aberrazioni, senza moralismi e senza patetici elogi dei bei tempi andati, ma con freddezza e imparziale distacco. Ma se le si guarda con attenzione, quelle vedute dall’alto apparentemente così piacevoli e accattivanti, risultano inquietanti e innaturali. Conca in Sicilia ci è stato e ha visto da vicino i luoghi che ha dipinto, ma in realtà non aveva nessun bisogno di viaggiare per creare le sue opere: sarebbe bastato sfogliare qualche depliant di agenzia o visitare siti di operatori turistici. Un viaggio virtuale nel mare magnum della rete sarebbe stato più che sufficiente. È così che si spiega l’“iconografia della finzione” affrontata e codificata da Luca. E le sue immagini fanno eco, con sorprendente precisione, alle parole che lo scrittore Giuseppe

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Luca Conca rappresenta con sguardo chirurgico una piccola porzione del nostro mondo, con tutte le sue contraddizioni e le sue aberrazioni

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Genna ha speso per presentare la fenomenologia dei non luoghi del turismo di massa. Genna, come Conca, avrebbe potuto descrivere qualsiasi villaggio vacanze del pianeta, poiché sono più o meno tutti uguali. Ma Genna, come Conca, ha scelto un esempio siciliano, contenuto nel libro dal titolo emblematico: Italia De Profundis. “È alle mie spalle fosforescente il mare incontenibile del Capo, nella punta più tempestuosa della Sicilia. Qui il re Federico II si salvò ammarando, salvò la testa, che in greco antico si diceva kéfalon, e di qui prese nome il luogo, Cefalù. [...] Disteso sulla sdraio, dopo avere calcolato le traiettorie e averla separata di metri dalle altre molte sdraio, perché tra nemmeno un’ora gli Altri scenderanno. È terribile, se non

fosse comico: ma non è comico. Sono disteso in un brivido, solo. Quando caricheranno gli Altri, come mufloni, sarò ancora più solo. La furia delle acque implode, io digrigno i denti. [...] Sono approdato in questo catino impensabile soltanto dieci ore fa e tutto era imprevedibile. Sono nell’occhio del ciclone Deformazione. Sono nello spazio templare dove si recita il De Profundis italiano.” È l’introduzione a pagine di irresistibile ironia in cui viene raccontata la vita del villaggio, dai tratti vagamente fantozziani. Ma anziché ridere, si viene progressivamente colti da un’ansia crescente perché, di fatto, questo è lo specchio di un tessuto sociale radicalmente mutato, in cui è la finzione ad avere preso irrimediabilmente il sopravvento.


chi è | Luca Conca

Sotto, a sinistra, Blu club, 2008 olio su tela 33x52 cm A destra, Summernight, 2007 olio su tela 70x100 cm

Come è successo che il desiderio di paradisi artificiali si sia insinuato al punto da renderli più appetibili di quelli naturali?

E i quadri di Conca sembrano le ideali scenografie alle storie narrate da Genna. C’è rimedio a tutto questo? Lo scrittore si immagina un incendio catartico che ponga definitivamente fine alla finzione che fagocita e trasforma la realtà. “Quindi, mentre mi accingo ad acquistare il giornale, ho già deciso: un’esplosione pone fine alla vita del villaggio, smembrati i corpi degli ospiti, una strage, non esplicata, senza matrice, una pura esplosione che annuncia esplosioni di scala infinitamente più vasta, le teste staccate dai corpi, il sangue ovunque, tra braccia, brandelli di carne e pezzi di cervello sulle foglie secche affocate delle palme nella zona bar, e l’anfiteatro finto greco ridotto a rovine, poiché lì era posizionata la bomba, e le rocce del promontorio disgregato crollate sui bagnanti, a divorare la stretta lingua di sabbia e a devastare l’ecomostro del bar, le rocce e i frammenti del promontorio si allungano nel mare tempestuoso, non uno sopravvive, i soccorsi tardano ad arrivare, la deflagrazione incendia, le pietre bruciano [...]” Conca no. Non risolve la situazione con un colpo di scena finale. I suoi paesaggi, inquietanti e imperturbabili a un tempo, rimangono come monito: il Mediterraneo è cambiato, il viaggio non è più quello dei tempi di Ulisse. Il mondo, socialmente e fisicamente, si è trasformato e ha preso la sua direzione. Che a noi piaccia o no, che questo corrisponda o meno alla nostra aa sensibilità, è solo un dettaglio di nessuna importanza.●

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Gemelle, 2007 olio su tela 200x250 cm

pittura

Sopra, Chiara, 2006 acrilico su tela 92x135 cm

Nato a Gravedona (Co), si diploma in Pittura all’Accademia di Brera nel 1998. La prima personale, Personaggi e Paesaggi, è del 2004, alla Galleria Jannone di Milano; seguono Luca Conca, a Villa Sirtori, Olginate (2005) e Doppio sguardo, alla Galleria del Credito Valtellinese, Sondrio (2008), in cui indaga il tema del doppio attraverso i ritratti di cinque coppie di gemelli, tra cui il pittore stesso e il fratello. Nello stesso anno realizza per il Credito Valtellinese due grandi tele da collocare nell’ingresso della sede di Morbegno, che interpretano la vista delle Alpi Retiche e Orobiche. Alle montagne è dedicato anche il progetto In cima, in cui, insieme al fotografo Vincenzo Martegani, mette a confronto pittura e fotografia. L’interesse per l’interazione fra diversi mezzi artistici traspare anche da uno degli ultimi lavori per la collettiva Cross Painting, al Superstudio Più di Milano (2010), dove la pittura si confronta con disegno, foto, video e animazione.

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fotografia Folate di sabbia fine e tagliente accompagnano il vento, si mischiano al fumo denso e oleoso, penetrano nel fondo degli occhi fino al cervello

A Mundzuku Ka Hina (Il nostro domani)

di Roberto Galante

Autori e protagonisti di questo crudo reportage sono. i ragazzi che vivono nella discarica di Maputo.dove è stato allestito. un laboratorio di foto, video ed elaborazione grafica.. Queste immagini.raccontano le storie e i personaggi della lixeira,. le dinamiche umane e quelle di potere ma anche. gli amori, gli eccessi e i fili sottili che legano i protagonisti. Il gusto pieno del mangiare e assaporare voracemente contrapposto alla visione del cibo catturato, spesso putrefatto

Un'umanità stracciona ma viva, pulsante e allegra, quando è allegra

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fotografia Una microeconomia fatta di essenziale si è sviluppata intorno alla lixeira: piccoli gruppi economici prendono vita, gruppi solidali si consorziano, si autoproteggono e si riproducono

I ragazzi raccattano la sopravvivenza nella lixeira, nuovi e inconsapevoli operatori ecologici all’interno di una microeconomia che nulla getta ma tutto ricicla Mangiano con gusto conviviale nei loro vestiti dalle fogge e dagli accoppiamenti più assurdi, a loro modo originali e non stereotipati

aputo, Mozambico, 1 milione, forse 2 milioni di abitanti. I quartieri benestanti arroccati nel centro della città e man mano che si va verso la periferia per lo più distese di case capanne senza servizi dove si strappa la sopravvivenza quotidiana con le unghie e con una serena e lenta forza della disperazione. Metafora planimetrica delle geometrie economiche del nostro pianeta. A Maputo, non proprio in centro città ma neanche in periferia, c’è un quartiere, il Bairro di Hulene, chiamato il quartiere della discarica poiché sorto intorno alla grande discarica della città. Montagne di spazzatura stratificata sovrastano l’abitato e cominciano a strabordare sulle case, abitazioni costruite con i materiali più vari e disparati. Circa settecento famiglie ogni giorno scavano in queste nuove miniere del

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Povertà e consumismo, tecnologia e arretratezza, la lixeira è il luogo dove gli opposti si incontrano e coincidono

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I camion continuano a entrare, i ragazzi scappano, a loro il bottino più grasso. Ai vecchi e ai bambini la briciole delle briciole

modernismo. Raccattano plastica, bottiglie, tappi di metallo, pezzi di corda, avanzi di cibo spesso putrefatto, qualsiasi cosa che possa fruttare alla fine della giornata una stentata sopravvivenza per sé e i propri cari. Il riverbero del sole, il baluginio che si sprigiona dai riflessi dei vetri e della plastica o di quant’altro, le silhoutte che, caratteristica di questo popolo quasi etereo, si muovono leggere in controluce dietro la cortina di fumo e polveri, creano uno scrigno surreale nella sua dimensione di cruda e nauseante bellezza. Scenario metafisico, immagine traslata del nostro mondo asetticamente moderno, una sorta di utopia rovesciata del nostro destino. Dove la vita, contro ogni aspettativa, pullula, la creatività esplode e l’amore dilaga. Seppur nella miseria e nella privazione, lungo percorsi

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fotografia La lixeira è popolata di personaggi a volte estremi, comunque colorati e unici nel loro incedere lungo i percorsi della vita, secondo modalità non codificate dalle mode

Sciami di mosche che ronzano alla rinfusa e un odore indefinito. La plastica brucia e con essa materia organica di varia natura. A gruppi stanno cucinando

Si dividono il cibo raccattato, cucinato in barattoli anch'essi raccattati su degli improvvisati falò alimentati da buste di plastica e residui di copertoni

Hanno tutti gli occhi e l’animo marchiati dal fumo. Si muovono nel fumo, ridono nel fumo, aspettano nel fumo, amano nel fumo, si riproducono nel fumo

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chi è | Roberto Galante Nato a Matera nel 1956, si è laureato in Architettura a Firenze e lavora come filmmaker, artigiano, fotografo e scrittore. Ha collaborato a diversi livelli alla realizzazione di video, cortometraggi, documentari, videoart e spot pubblicitari. Dal 2008 segue, affiancato da maestri volontari, il progetto A Mundzuku Ka Hina con il sostegno dell’Associazione Basilicata Mozambico di Matera.

comunque lastricati di dolore e troppo spesso di sopraffazione. A Mundzuku Ka Hina (Il nostro domani in lingua shanghan) è il nome di un laboratorio di foto, video ed elaborazione digitale delle immagini condotto all’interno della lixeira, la discarica di Maputo in Mozambico. Ci siamo dati un tema: “I sogni, i desideri che attraversano il Bairro e il popolo della discarica. Il confronto con la quotidianità.” Attraverso le foto, i video e i racconti, all’interno di un percorso di apprendimento e di formazione professionale, abbiamo cercato di svilupparlo. I ragazzi raccontano storie della loro vita, descrivono i personaggi che popolano la lixeira, le dinamiche umane, quelle di potere. Gli amori e gli eccessi, descrivono i sottili fili che legano i protagonisti, mimano il loro aa incedere nel mondo. ●


Altre storie d’Africa di Graziella Cormio

Gibril pensa sempre al suo villaggio dove faceva il saldatore e tutti lo rispettavano perché era impegnato in politica e faceva discorsi per cambiare il mondo e farlo più giusto senza fare più soffrire i poveri e i diseredati e diceva che bisogna che ognuno abbia qualcosa da mangiare, un lavoro, una casa, una scuola per i bambini e ora le sue bambine non ci sono più perché quell’incendio per dargli un avvertimento che la doveva finire di occuparsi di politica se le è inghiottite e così e fuggito dalla sua terra in un altro posto dove fa sempre il saldatore ma non è come a casa sua e gli occhi dolcissimi si riempiono di lacrime ogni volta che si parla di africa

Hèléne aveva voglia di studiare ed era anche molto brava ma una mattina la sua amica del cuore le disse che andava a un incontro dove si diventava ricche, una specie di lotteria e andarono nella città vecchia in una bella casa dove c’erano altre ragazze come loro e comparve a un tratto una signora elegante e profumata che offrì da bere e da mangiare e disse che se facevano come lei sarebbero diventate ricche e che le avrebbe portate in aereo in delle città grandissime dove avrebbero fatto le commesse in negozi bellissimi e mentre la signora parlava la testa di hèléne girava forte forte e non capiva niente e anche la sua amica non capiva niente e si trovarono a giurare che avrebbero seguito la signora e le avrebbero dato i soldi del viaggio e del passaporto con il loro lavoro e se ciò non fosse avvenuto sarebbe stato fatto del male ai loro parenti e hèléne pensò alla nonna che l’aveva allevata e fatta diventare grande e le raccontava le favole e che amava teneramente e pensò che non poteva permettere che le facessero del male e partì con la signora quando la venne a prendere e pensava sempre alla sua nonna quando voleva smettere con quella vita di notte sui viali delle periferie di città di cui non si parlava nei suoi libri di scuola

Sufiya è più piccola e nervosa dopo che le hanno tolto la sua bambina che ama ma la disturba tanto quando piange e fa i capricci dei suoi tre anni e lei si dispera perché non riesce a fare capire agli altri che la ama moltissimo anche se non la coccola e non le compra i vestitini costosi e i giocattoli della pubblicità durante i cartoni animati ma lei come fa a essere tranquilla se non sa che fine hanno fatto suo marito sua mamma le sue sorelle suo padre le sue bestie dopo che quella brutta notte hanno distrutto il suo villaggio sugli altopiani e lei da sola a piedi si è messa a camminare senza meta con la sua piccola al collo e ha camminato fino a scorticarsi i piedi e ha trovato dei mercanti di uomini che l’hanno imbarcata con la sua bambina sempre in braccio e dopo un viaggio su un’acqua che lei non aveva mai visto l’hanno messa su una strada dove uomini vestiti come mai aveva visto prima e che parlano una lingua che lei non capisce la violentano continuamente e i soldi che le danno servono a pagare il viaggio suo e della sua piccola su quell’acqua strana e grande che chiamano mare Queste, insieme a tante alte storie di violenza, immigrazione e speranza, sono state raccolte nel libro Africa pubblicato (e ormai esaurito) dall’Associazione Tolbà – Associazione Medici Volontari per Lavoratori Stranieri. Nata nel 1992 a Matera, in un primo tempo per sostenere gli immigrati presenti sul territorio, Tolbà è sempre più impegnata in progetti di solidarietà, cooperazione e sviluppo in Italia e all’estero. aa www.associazionetolba.org ●

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THE SPEED FACTORY Anni a quaranta, dopo guerra, A nni q uaranta, ssecondo econdo d opo g uerra, lla ricostruzione, Italia in bicicletta. E papà Battista PPolini olini torna tor na d al fronte, fronte, iinizia nizia a ccostruirle, ostruirle, llee dal biciclette: ce n'è bisogno, si vendono. Biciclette per i lavoratori, solide, da andare sulle strade in terra battuta, sul riso, sul pavè. Il telaio por ta lo porta stemma dell'ariete, non il segno zodiacale, ma il battaglione dove papà ha detto ciao alla gioventù. Poi siamo arrivati noi: Carlo, Franco e poi Piero. E, giovinetti, anche noi giù in bottega ad aiutare, il lavoro, il nostro mestiere; così ci è entrata dentro la passione delle due ruote e della meccanica. Quando alla fine degli anni cinquanta, col boom, la gente ha cominciato a comprare i primi motorini, la vespa e la lambretta noi eeravamo ravamo già pronti, pronti eravamo davanti, d davanti noi lambretta, e il papà con noi. Non c'è niente da fare: se hai qualcosa nel sangue, prima o poi torna torna e continuo aggiornamento. aggiornamento. La progettazione si realizza con l'aiuto di sofisticati programmi CAD (Computer Aided Design). I test avvengono su banchi prova a controllo elettronico e con l'impiego della telemetria. Le materie prime vengono attentamente selezionate in base a parametri qualitativi e sempre alla ricerca di quanto più per fezionato il mercato perfezionato può of frire. Le lavorazioni sono effettuate effettuate esclusivamente mediante sistemi offrire. produttivi robotizzati e a controllo numerico. La nostra sede POLINIMOTORI è ad Alzano Lombardo e si estende su 20.000 metri quadrati, dei quali 8.800 di magazzini e 3.000 tra uffici uffici e repar to corse. A Bergamo reparto abbiamo la POLINI-RICAMBI, fornitissimo fornitissimo centro attrezzato su 2.500 metri quadrati. Abbiamo impostato una rete commerciale dinamica, più di 3200 tazioni in oltre 64 Paesi. Assicuriamo quindi punti vendita in Italia ed espor esportazioni un altissimo livello di qualità anche nell'assistenza: perchè il buono lo mettiamo non solo nei nostri pezzi, ma anche nel modo in cui ve li diamo.

fino tradito le moto per fuori. Col tempo ci eravamo dispersi, avevamo per perfino l'automobile, ma questo non era possibile. Il desiderio era là, la moto, la passione, tutta la nostra esperienza. Uno di noi, Piero, ha cominciato a correre, primi anni settanta, musica rock, minigonne, maxigonne, moto rapporti. Ancillotti, il motore Sachs non poco modificato, cambio a sette rapporti. Vinse,"il Piero", tre titoli italiani "Enduro" e da allora contare le vittorie è Vinse,"il cosa impossibile: duecento, trecento trecento, forse più più. L'entusiasmo, impossibile: duecento L entusiasmo l'esperienza L'entusiasmo ll'esperienza, esperienza il continuo lavoro di per fezionamento ci hanno dato tante soddisfazioni. perfezionamento Con pazienza siamo riusciti a scoprire i segreti di molti motori. Li abbiamo migliorati, potenziati e perfezionati. perfezionati. Li abbiamo resi vincenti, sicuri e af fidabili. Sono modifiche per rendere più personale la propria moto, tanto affidabili. per il pilota che fa spor timento e il piacere del turista sportt come per il diver divertimento o dei ragazzi che si muovono in città. I nostri prodotti sono caratterizzati dalla straordinaria qualità, che nasce dalla sintesi di passione, esperienza


Jimi Hendrix Flower Power di Bernie Boston, 67 scattata nel 19 a un e nt ra du la ro nt co ta protes m guerra in Vietna

no il piano I Provos lanciaro bianche e tt le ci delle bi mezzo di e m co e iv collett to o trasport gratui

All’insegna di peace and music, oltre 400 mila giovani accorsero a Woodstock

dstock si Il festival di Woo 69 svolse nel 19 a Bethel, N.Y.

Woodstock, 1969

Allen Ginsberg

s William Burrough

Il viaggio psichedelico In cerca dei segni . lasciati nell’arte . e nella cultura . da un viaggio . mentale collettivo . che voleva . allargare “le porte . della percezione” . di Saverio Luzzi

arte

l pomeriggio del 19 aprile 1943, in un laboratorio della Sandoz di Basilea, il ricercatore 37enne Albert Hofmann volle ingerire 0,25 microgrammi di dietilamide 25 dell’acido lisergico (LSD) in una soluzione d’acqua. Da tempo stava cercando, senza successo, di mettere a punto un medicinale che fungesse da stimolatore per la circolazione sanguigna ricavandolo dall’ergot. Pochi giorni prima alcune gocce della sostanza gli erano cadute sul palmo della mano, provocandogli annebbiamento visivo, lievi giramenti di testa ed euforia. Incuriosito, volle vedere cosa potesse succedere assumendola. Si verificò così il primo trip della storia: un viaggio effettuato a livello cerebrale, senza muoversi. Dopo quell’esperienza, negli anni ’60-’70 i trip mediante l’assunzione di LSD o di altri allucinogeni caratterizzarono modi ed espressioni della controcultura occidentale. Nel suo Percezioni di realtà (Stampa Alternativa 2006), Hofmann ha parlato di sé come di una persona affascinata fin dall’infanzia dall’idea che potesse esistere una dimensione altra rispetto a quella normalmente percepibile. Durante la sua lunga esistenza (è morto 102enne nell’aprile del 2008), egli assunse più volte l’LSD, mantenendosi però estraneo rispetto alla cultura dello sballo. Ad Antonio Gnoli e Franco Volpi che lo intervistarono per il loro Il dio degli acidi (Bompiani 2003), Hofmann disse che solo chi aveva un ego strutturato poteva

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assumere l’LSD, in quanto persone affette da turbe avrebbero potuto vedere aumentati in modo irreversibile i loro problemi. Venute a conoscenza delle proprietà euforizzanti della sostanza, le autorità militari americane cercarono di sperimentare l’LSD come arma bellica, ma abbandonarono il progetto per l’impossibilità di produrre l’acido in grandi quantità. Negli anni ‘50, tuttavia, si fecero usi più nobili dell’LSD, impiegato con buoni risultati quale mezzo terapeutico di varie malattie mentali. In quegli anni, Cary Grant ammise di fare uso di LSD e di aver avuto, grazie ad esso, netti miglioramenti caratteriali. Furono poi lo scrittore Aldous Huxley (1894-1963) e lo psicologo Timothy Leary (1920-1996) a propagandare l’uso universale degli allucinogeni per ampliare le proprie capacità percettive. A Leary, che per la sua posizione pro-LSD fu licenziato dall’università di Harvard, si deve il libro High Priest (1968) in cui sedici persone – tra cui William Burroughs, Allen Ginsberg, Charles Mingus e Ralph Metzner – narrarono i loro trip seguiti all’assunzione di LSD. A Huxley e allo psichiatra Humphry Osmond (1917-2004) si deve l’aver coniato il termine psichedelia, unione delle parole greche psyche (anima) e delos (visibile), che in pratica significa “tutto ciò che promuove l’espansione della coscienza”. Il fenomeno si rifletté sul sociale. I provos, celebre movimento

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Copertina di Full Circle dei Doors, ultimo album registrato in studio nel 1972

Il DVD che raccoglie i filmati del tour europeo del 1968, uscito nel 2004

Manifesto della mostra dedicata ai poster di Wes Wilson, Springfield 2010

funghi allucinogeni al fine di rendere, per così dire, più memorabile l’evento. Secondo Matteo Guarnaccia (Provos. Amsterdam 1960-1967. Gli inizi della controcultura, AAA 1997), fu proprio l’operato provocatorio dei provos a far decidere alle autorità olandesi di proibire l’uso e la commercializzazione dell’LSD, avvenuto proprio nel 1966, più o meno in contemporanea con il resto del mondo.

Disegno di Victor Moscoso, 1968

Locandina di Easy Rider, 1969

hippy olandese, nei loro happening impiegarono e presero spesso come punto di riferimento l’LSD: si pensi a Bart Huges, che nel 1964 eseguì un’autoperforazione con trapano da dentista della scatola cranica al fine di creare un terzo occhio che avesse reso permanente lo stato di coscienza allargata di chi meditava e/o “viaggiava” assumendo LSD. Nel 1966, i provos annunciarono l’intenzione (in realtà una mera provocazione) di immettere LSD nell’acquedotto di Amsterdam in occasione del matrimonio della principessa Beatrice. L’idea prese spunto dal fatto che in occasione dell’incoronazione di Montezuma i sacerdoti aztechi distribuirono al popolo dei

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La messa al bando dell’LSD non fermò la stagione della psichedelia. Numerosi furono i film da essa influenzati. Il trip cinematografico più famoso è quello presente in Easy Rider (1969), in cui Peter Fonda si reca in un cimitero e, sotto effetto dell’LSD, entra in un trip allucinato e spaventoso. Non possono però essere dimenticate opere visionarie come Chappaqua di Rooks (1966), Il serpente di fuoco di Corman (1967) e Zabriskie point di Antonioni (1970). Anche la pittura e le arti grafiche espressero il bisogno della ricerca di una dimensione altra, psichedelica. Peculiari sono i capolavori della Optical art firmati da Victor Moscoso (grafico statunitense nato nel 1936): qui l’accostamento di colori sgargianti genera nell’occhio dello spettatore la sensazione di trovarsi in un mondo irreale, amplificata dalla vertigine che il contrasto cromatico sapientemente scelto provoca in chi guarda i manifesti. Molto usate furono le spirali e le forme avvolgenti, capaci di dare illusioni ottiche in chi le fissa. In


The Art of Rock, poster di Wes Wilson

La copertina di 24 Hours, del gruppo Ant Trip Ceremony, 1968

A sinistra, manifesto di Wes Wilson e Bill Graham, 1967 A destra, sopra, biglietto di Wilson per un concerto di Captain

La copertina di Axis: Bold as Love, 1967, di Jimi Hendrix

Beefhart; sotto, locandina del film di Hy Averback Suppose They Gave a War... 1969

queste opere, le parole non venivano disposte su linee rette, bensì incastonate in figure sinuose e scritte con caratteri di dimensioni variabili appositamente deformati. Chi guarda si trova così in una dimensione insolita e misteriosa, in cui è necessario un forte sforzo di immedesimazione (un dover andare al di là del consueto) per capire i contenuti. Su registri simili a quelli di Moscoso si espressero Richard “Rick” Griffin (1944-1991, famoso per l’uso di simboli esoterici come l’occhio), Wes Wilson (nato nel 1937, abilissimo nel lettering sinuoso), Simon Posthuma e Marijke Koger. La vicinanza tra arte grafica, letteratura e musica fu tipica del periodo psichedelico: le copertine dei dischi di Jimi Hendrix, Grateful Dead, Jefferson Airplane, Doors, Pink Floyd, Led Zeppelin e altri musicisti rock coevi ne rendono conto. Ancor più, chi ascolta quella musica ha la sensazione di un’immersione in un mondo diverso. Esemplare a tal proposito è l’esecuzione dell’inno nazionale statunitense che Jimi Hendrix fece sul palco di Woodstock nel 1969. Le note distorte e dilatate del chitarrista allo stesso tempo celebrarono il mito americano e ne sancirono la morte perché “videro” e illustrarono l’ipocrisia perbenista di un paese che mandava i suoi figli a morire in Vietnam. Tralasciando i Beatles di Lucy in the sky with diamonds (di cui è stato smentito l’intento

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Due diverse raffigurazioni di Jimi Hendrix; a sinistra, un dipinto di Martin Torsleff

A sinistra, biglietto di Wes Wilson per un concerto a San Francisco 1966; a destra, locandina del film Taking Woodstock di Ang Lee, 2009

Negli anni ‘50 si fecero usi nobili dell’LSD, impiegato con buoni risultati quale mezzo terapeutico di varie malattie mentali

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apologetico dell’LSD), furono i Doors a dare grande popolarità alla musica psichedelica per merito in primo luogo del frontman Jim Morrison (1944-1971). Tuttavia, furono forse i Grateful Dead, attivi tra il 1965 e il 1995, a interpretare lo spirito psichedelico con maggior convinzione, trasformando i loro concerti in autentici trip collettivi. I Grateful Dead dilatavano ogni loro canzone riproponendola ogni volta in modo diverso, lasciando che confluisse nella successiva senza interruzioni. Essi cercarono anche di abbattere la separazione tra artista e pubblico, consentendo ai fan di registrare, riprendere e ridistribuire i brani senza poterne però ricavare denaro (un creative commons ante litteram). Ai concerti dei Grateful Dead i fan si ritrovavano diverse ore prima dell’evento per socializzare e portare avanti piccole attività commerciali legate alle attività del gruppo. Solo la morte dell’esponente più carismatico dei Grateful Dead, Jimmy Garcia

Copertina della compilation The Best of the Doors 1985

(emblematicamente detto Captain Trip), avvenuta nel 1995, pose di fatto fine alla loro attività. Quella della psichedelia fu vera gloria? Lo scopo con cui essa si manifestò fu effettivamente lodevole e sincero, ma nel tempo quel desiderio di ricerca interiore e si trasformò troppo spesso in spirito autodistruttivo. Tutto venne ritenuto lecito: alcool, farmaci, droghe. Le giovani vite di Hendrix e Morrison (oltre a quella di Janis Joplin e di tanti altri protagonisti del rock psichedelico) si spensero sacrificate sull’altare della ricerca di una dimensione alternativa che aveva smarrito ogni coordinata. Biografie come quella del pittore Mario Schifano (1934-1998) ne sono ulteriore testimonianza. L’implosione di questo fenomeno fu l’anticamera della fine del più grande viaggio della controcultura e della contestazione, minato da aa limiti intrinseci e dalla macchina della mercificazione.●


storia

Un’opera scritta in un campo . di concentramento, che mette in scena . un duello tra l’Imperatore e la Morte, . simbolizza la perversione psichica che . viene dalla scissione tra Eros e Tanatos .

Il viaggio N della morte di Maria Gabriella Frabotta

chi è | Maria Gabriella Frabotta Psicanalista a formazione lacaniana, svolge da anni attività clinica in qualità di membro titolare della S.I.Ps.A (Società Italiana di Psicodramma Analitico). Ha anche collaborato a progetti orientati a una pedagogia dell’ascolto, con interventi di formazione e prevenzione del disagio giovanile. Conduce ricerche sui gruppi, nel tentativo di coniugare femminismo e psicanalisi, con particolare interesse alla formazione dell’identità di genere nella relazione tra madre e figlia. Ha collaborato al centro culturale del Virginia Woolf Università delle Donne di Roma.

ei miei ultimi viaggi a Berlino, città che sta sempre più tentando di uscire dal palcoscenico tragico della sua storia, ho scoperto quanti costi si possono pagare nel tempo, quando la violenza diventa collettiva. Freudianamente la guerra è considerata una pulsione primaria e ambivalente della nostra specie, con una carica libidica non inferiore a quelle pulsioni opposte che la contrastano. Amore e solidarietà nelle loro cariche di idealizzazione hanno storicamente partorito effetti e conseguenze spesso opposti. La legge, la repressione e il controllo quando collassano come sistema mostrano la loro faccia di più oscena irrazionalità. In una recente rappresentazione a Berlino del Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (“L’Imperatore di Atlantide, ovvero il rifiuto della morte”) di Viktor Ullmann, mi sono ritrovata, a opera finita, con miei amici italiani e tedeschi, tra cui una delle più giovani interpreti di questo testo operistico. Viktor Ullmann, allievo di Schomberg, venne arrestato a Praga e trasportato a Terezin dove divenne uno degli artisti che insegnò musica ai bimbi di questo lager modello. I figli morirono prima del padre e l’artista morì ad Auschwitz nel 1944 in uno degli ultimi convogli. Per me il nome di questo lager era da sempre legato ai bambini e sapevo che questi fogli musicali, sparsi e nascosti dall’autore prima di avviarsi alla morte, erano stati ritrovati a guerra finita. L’opera che avevo da poco ascoltato nella sua tragica tensione utopica era legata a tutto ciò. Il libretto scompaginato e senza una vera sequenza con la sua partitura musicale è stato più volte rappresentato. Ma l’oscena irrazionalità del potere veniva rappresentata ancor prima del viaggio verso la morte. L’arte veniva utilizzata non solo a copertura dell’olocausto di fronte al mondo, ma si accompagnava alla sottile crudeltà del progetto di alta didattica di cui i bimbi erano allievi e protagonisti. È bene ricordare che la perversione psichica è una scissione psichica, una faglia che tiene separati Eros e Tanatos. Per i greci Eros rappresentava la gioia dell’amore e quell’energia creativa che nella sublimazione freudiana permettono l’aspetto più creativo della persona. Tanatos aa non solo diventa nella sua scissione la distruzione bellica, bensì l’annichilimento dell’individuo.● “...devo sottolineare che Theresienstadt è servito a stimolare, non a impedire, le mie attività musicali; che in nessun modo ci siamo seduti sulle sponde dei fiumi di Babilonia a piangere; che il nostro rispetto per l’Arte era commensurato alla nostra voglia di vivere. Ed io sono convinto che tutti coloro, nella vita come nell’arte, che lottano per imporre un ordine al Caos, saranno d’accordo con me.” Viktor Ullmann

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cinema Richard Linklater e il suo stupefacente Waking Life. Tutto vibra in questa animazione che ha il coraggio della sperimentazione scientifica in un quadro tutto artistico e profondamente spirituale

Discendente di una stirpe di viaggiatori,. una donna sceglie la sua base spaziale. per lanciarsi in viaggi della mente e dello. spirito: suo carburante il cinema.

Wallace Shawn e André Gregory in My Dinner With André di Louis Malle. Un film che è quasi un solo piano-sequenza, un unico respiro, un fermento di pensiero infinito, tra razionale e spirituale

Dersu Uzala, dell’omonimo film del maestro Kurosawa. Lui e il capitano Arseniev sono due poli opposti nella società, nella cultura, nel potere, e due fratelli vicinissimi nello spirito

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Exodus di Otto Preminger, 1960

di Franca Pauli

Il viaggio verticale l ramo ebraico del mio albero genealogico comincia nel 1723. Ne esamino ogni biforcazione e immagino ogni storia, incontro e viaggio – con o senza destinazione – ma dal 1723 a oggi non trovo un antenato che morì nel luogo in cui nacque né due membri dello stesso nucleo familiare nati nella stessa città. Non fosse per la sua struttura verticale, a caduta, questo mio albero sembrerebbe una sorta di metafisico orario ferroviario, senza numeri, ma con molti luoghi dal nome sconosciuto – di partenza, non d’arrivo – che mai riuscirei a visitare tutti. Volenti o nolenti, gli ebrei hanno camminato sul pavimento del mondo intero e ne hanno imparato le lingue, i costumi, le musiche, i climi, gli amori, le cucine e gli infiniti misteri. Se il viaggio è esplorazione, conquista o anche solo piacere, il viaggio ebraico, si sa, ha storicamente anche carattere di fuga. Tuttavia, l’esistenza è ineffabile e inevitabilmente perfetta, nell’apparente casualità delle sue vicende, e il viaggio-fuga degli ebrei – come quello di Rom, Sinti, Camminanti e di tutti i popoli di tradizione nomade o errante dei cinque continenti – diviene il viaggio per eccellenza. Geografico, ma meramente esistenziale, in cui l’assenza del conforto di una comunità stanziale e cristallizzata con cui identificarsi e dalla quale farsi proteggere impone prove e confronti incessanti. Infinite folate di venti di sfida spazzano queste genti, le tormentano fino ad annientarle, ma finiscono invece per distillarne un’essenza che tutto conosce e a tutto resiste. Per Alejandro Jodorowsky, ogni genealogia è la trappola che limita pensieri, emozioni e desideri, ma anche lo scrigno che custodisce i valori e la realtà del grande passato che racchiudiamo e può essere alterata o esaltata a piacere fino a diventare mito, a giovamento di chi, come me, tende a sentirsi un po’ sparpagliato e instabile. Seguo alla lettera Jodorowsky e trovo questa pratica liberatoria e rinfrescante. Mi avvalgo della facoltà di manipolare ciò che risiede nel territorio privato della mia famiglia e, nella più totale innocenza, mi pregio di mentire. Discendo, quindi, da una stirpe di viaggiatori, ma non solo, di scienziati, esploratori, sacerdoti, filosofi, acrobati circensi, musici ipnotici e donne dal fascino fatale, da cui mi convinco di aver ereditato una qualche scintilla. È questo il mio modo di viaggiare. Dopo quasi tre secoli di fughe, deportazioni, traslochi e carrozze, treni, navi, barche, aerei, interminabili marce e valigie molte, io mi arrogo il diritto di restare ferma, nella comodità della mia casa. Per me, la Terra Santa è tutta la Terra e io sono scesa da una giostra che per molti continua

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“Ogni genealogia è la trappola che limita pensieri, emozioni e desideri, ma anche lo scrigno che custodisce i valori e la realtà del grande passato che racchiudiamo” Alejandro Jodorowsky

a girare. Da qui, mi muovo giusto dove mi porta il lavoro o qualche raro e convulso desiderio di viaggio cui non so sottrarmi. Qui, ferma, osservo gli infiniti verdi dell’albero sotto il quale siedo, guardo le sue migliaia di foglie che si sovrappongono e vibrano nell’aria e me ne ubriaco fino a dover decidere se partirmene per un viaggio quantico e smaterializzarmi o tornare alla realtà contingente con un sussulto. Infiniti tesori e beautidine si possono trovare scavando piano nell’immobilità del momento presente. Il viaggio verticale è infinito, immenso, gratuito e trascende il tempo e lo spazio per riaccompagnarci, nuovi e più forti, nel caos quotidiano. Un momento anche breve di stacco, di meditazione, cambia gli eventi a venire sempre per il meglio. Il rurale rifugio in cui vivo, quindi, è la capsula spaziale dei miei viaggi verticali e il cinema è il carburante che prediligo. Il cinema, forma d’arte contemporanea incisiva, motrice di cambiamento, inietta germi di riflessione in dosi massicce in 90 minuti che sono pure d’intrattenimento. Alcuni film sono passatempo, altri incontro, l’essenza più pura del viaggio. Se funzione dell’incontro è aggiungere elementi alla ricerca, arricchire, disturbare, dissolvere l’inessenziale e fare nuovo spazio alla comprensione, il cinema è un ideale veicolo concentrato in pillole. Chi guarda un film spia le storie degli altri, ma l’immedesimazione che il film provoca è formidabile perché permea ogni senso. Ne sono la prova le lacrime, le risate, la rabbia, il batticuore che il cinema sa dare, per quanto racconto immaginario. Come se fossimo lì, al tavolo con Christopher Walken mentre si punta la pistola alla tempia o a guardare la vetrina di Tiffany con Holly Golightly, mentre l’alba sorge su Fifth Avenue. Reazioni emotive, ma perfino fisiologiche dei generi cinematografici estremi come il porno o l’horror. Due filoni sempre meno sommersi, legati da un leitmotiv interessante quanto inquietante, dove la persona perde identità spalancando le porte dell’inconscio, diventa oggetto relazionante con altre persone/oggetto in una specie di viaggio verticale a ritroso. Sei ciò che mangi e sei i film che vedi. Il cinefilo sviluppa una sorta di apparato digerente che assume ed elabora il materiale per separare la crusca dai nutrienti nobili e rimanere in salute. Alcuni film abitano nel mio organismo e alcune immagini si rievocano a tratti richiamate dalle immagini della realtà che vivo. Emergono, ispirano nuovi viaggi, nuove azioni e comprensioni della mia vita e poi si ritirano discrete dietro lo specchio della mia immaginazione.

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Persona, di Ingmar Bergman. L’infermiera Alma insegue l’attrice Elisabeth Vogler sulla spiaggia di Fårö. Due donne identiche e opposte si incontrano, dialogano, si specchiano fino a fagocitarsi e superare i confini stessi dell’io

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L’editore e produttore della Fondazione Ingmar Bergman parla del grande regista svedese, che solo dopo la morte è stato pienamente conosciuto e apprezzato in patria

Intervista a Jon Asp Ingmar Bergman può essere considerato un maestro del viaggio verticale. Quali dei suoi film ritiene rappresentino al meglio l’idea di viaggio? Certamente Il Posto Delle Fragole, uno dei road movies per eccellenza nella storia del cinema. Il film narra la storia di Isak Borg e racconta, in un certo senso, la vita stessa di Bergman, suggerendo anche una sua appartenenza primariamente artistica radicata in una tradizione nordica che va da Strindberg a Victor Sjöström. Allo stesso tempo, Bergman trascende però questa eredità per ricollegarsi e partecipare a una tradizione essenzialmente universale. Consideri che Bergman è stato riconosciuto in Svezia solo quando era già famoso a livello internazionale. Si pensa solitamente che siano stati i francesi a scoprire Bergman, ma il paese che veramente lo abbracciò per primo fu l’Uruguay, all’inizio degli anni ’50. Già questo prova l’abilità di Bergman a comunicare con il mondo, abilità che lui aveva, nonostante fosse così integrato nel costume scandinavo e così spesso legato a un certo folklore eccentrico, già prima di arrivare al dialogo con le altre culture, in un suo personale scenario che non ha comunque mai avuto confini. Eccetto i primi viaggi d’ispirazione in Francia, Bergman viaggiava poco. Non perché non amasse viaggiare, ma in quanto, io credo, si sentiva estremamente al sicuro a casa. Sentiva che non sarebbe stato altrettanto produttivo in

Fondazione Ingmar Bergman Scopo della Fondazione Ingmar Bergman è preservare e diffondere la conoscenza dell’opera di Ingmar Bergman e la sua intera produzione artistica. Le principali attività della Fondazione si articolano su tre direttive: le collezioni donate da Bergman nel 2002; il sito www.ingmarbergman.se; la gestione dei diritti teatrali di Bergman, il quale, accanto a Lars Norén e August Strindberg, è tuttora il commediografo più prodotto in Svezia. Il contenuto dell’archivio della Fondazione comprende l’intero contributo di Bergman come cineasta, regista teatrale e scrittore, dalla prima infanzia all’età adulta e comprende anche una delle più estese e complete collezioni di manoscritti monografici al mondo. In una nota Bergman scrive all’età di vent’anni: “Da qualche parte nella profondità della mia stupida anima, nutro un pensiero presuntuoso: un giorno, forse… un giorno qualcosa di luminoso e bello verrà fuori da tutta questa miseria. Come una piccolissima perla da una brutta cozza, grossa e nera. E se un giorno qualcosa di bello potrà venire da me, allora avrò risposto alla chiamata della mia vita”.


Liv Ullmann in ... But Film Is My Mistress, realizzato con riprese dietro le quinte di Bergman che dirige i suoi attori e materiale girato ex novo, presentato a Cannes nel 2010 Sotto, Fanny e Alexander, 1982

chi è | Franca Pauli Nata a Milano nel 1967, vive nella zona collinare a nord di Treviso. Grafica, traduttrice, amante del cinema e delle scienze esoteriche, lavora fin da giovanissima, ma non ha mai smesso di studiare. Le sue prime memorie cinematografiche – i classici dei Fratelli Marx e di Frank Capra – si intrecciano fittamente con la sua trama personale per infonderle un senso del cinema acuto ma innocente, che va diritto alla fragranza originaria di ogni opera. Ama sgominare i luoghi comuni per costruire ponti di nuovo dialogo tout court, specie tra i poli culturali più distanti. Tra le esperienze passate più significative: la produzione grafica di 10 numeri storici di Colors Magazine; il Depop, o libero concorso di design popolare; la casa editrice Balilla Enterprises; il progetto Kim’s Video, che recentemente ha fatto sbarcare in Italia la storica collezione newyorkese di 55mila opere di cinema indipendente, il carteggio con Devon Lingonberg, di prossima pubblicazione.

In un’epoca così poco spirituale, penso che continuerà a esserci un vero e proprio bisogno di film che riflettono sui temi esistenziali in modo così ampio e oltre il tempo

altri luoghi, legato com’era alla sua cerchia di collaboratori. Il suo lavoro era il territorio entro cui osava ed esplorava il mondo attraverso la sua grande passione per l’arte: i libri, i film, il teatro e, non ultima, la musica. E finì per raggiungere il mondo intero — gli archivi della Fondazione Bergman sono stati iscritti nel Registro UNESCO della Memoria del Mondo, nel 2007. Come sono percepite la persona e l’opera di Bergman nella Svezia contemporanea? Nessuno è profeta in patria, come si suol dire. Parlando di Bergman, il proverbio calza a pennello. È un fenomeno tipicamente svedese, questo, che noi chiamiamo Jantelag. Una specie di modestia forzata, mai credersi troppo importanti… Perfino le persone di buona cultura qui, specialmente le generazioni più giovani, hanno visto pochissimi film di Bergman. Jörn Donner – conoscitore dell’opera di Bergman e produttore di Fanny e Alexander – spiega, a proposito del pervicace interesse collettivo per la persona privata di Bergman: “La gente qui cerca la faccia di Bergman, la sua anima, ma dimentica sempre di guardare il volto che emerge dai suoi film”. Dopo la morte di Bergman, gli svedesi si sono accorti dell’enorme impatto che la notizia ha avuto nel mondo e hanno cominciato a rivalutare il suo nome. Elemento essenziale del viaggio sono gli incontri. Nella vita privata come in quella artistica, Ingmar Bergman ha avuto certamente incontri magici e lunghi e significativi sodalizi. Lei crede che il fatto di

essere stato così profondamente radicato nella cultura svedese abbia aiutato la costruzione di relazioni così preziose? Certamente. Ad esempio, negli anni ’60, essendo uno dei registi più celebrati nel mondo, capo del Royal Dramatic Theatre e direttore artistico della Svensk Filmindustri, Bergman riuscì ad avere un’enorme influenza sulla vita culturale svedese e fu quindi libero di scegliere i suoi collaboratori. E non solo si creò un proprio personale habitat creativo, i suoi film di maggior successo alla fine degli anni ’50 ispirarono il cinema svedese a diversi livelli. Così il pubblico cominciò gradualmente a comprendere che il merito artistico può anche fruttare denari. Il Contratto Cinematografico Nazionale, di cui Bergman fu il vero ispiratore, spianò la strada ai registi svedesi che si affacciarono poi alla scena mondiale: Bo Widerberg, Jan Troell, Vilgot Sjöman, Mai Zetterling e, più tardi, Roy Andersson.

Come pensa che continui, oggi e verso il futuro, il viaggio di Ingmar Bergman? In un’epoca così poco spirituale, penso che continuerà a esserci un vero e proprio bisogno dell’opera di Bergman, di film che riflettono sui temi esistenziali in modo così ampio e oltre il tempo. Io credo che lavorare per preservare il patrimonio bergmaniano non sia poco più che un passatempo ossessivo. Sebbene lo stesso Bergman detesterebbe certi adattamenti contemporanei di opere ispirate alle sue, ciò non è ragione sufficiente a non realizzarle. Anche se egli stesso organizzò le ultime cose della sua vita, il suo epilogo – di cui la Fondazione Ingmar Bergman è un ottimo esempio – nessuno mai può gestire l’eredità che lascia. Come lui stesso disse un giorno: “Il problema dei film è che rimangono e non c’è possibilità di rifiutarne la paternità.” Intendo dire, i film rimangono sempre lì, aa come dei luoghi cui fare ritorno. ●

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All’ombra amena del Giglio d’or

Storia e recupero. di una.delle opere. più.singolari. del Cigno di Pesaro,. dimenticata e perduta. per un secolo e mezzo. e tornata a essere. uno spettacolo cult. di Elena Rossi

L’allestimento del 2009 alla Scala con un cast di grande spicco. Tra i protagonisti Patrizia Ciofi, Annick Massis, Carmela Remigio, Dmitry Korchak, J.F. Gatell Abre, Nicola Ulivieri Foto Marco Brescia © Teatro alla Scala

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uando Gioacchino Rossini compone le musiche del Viaggio a Reims ossia L’albergo del Giglio d’Oro, si trova da poco a Parigi, dove è stato nominato Direttore del Teatro Reale Italiano. Ha 33 anni e all’attivo più di trenta opere liriche, tra cui Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra, Semiramide; quattro anni più tardi, dopo il Guglielmo Tell, lascerà la lirica per ritirarsi nella campagna di Passy, alle porte di Parigi, dove continuerà a comporre ma non più per il teatro. Nel 1825 la Francia è in piena Restaurazione e al trono è appena salito Carlo X, fratello di Luigi XVI, ghigliottinato dalla Rivoluzione. E proprio la sua incoronazione nella cattedrale di Reims è l’occasione per cui viene commissionata la cantata scenica in un atto. Il libretto di Luigi Balocchi era in parte ispirato a Corinne ou l’Italie (1807) di Madame de Staël, un romanzo di stampo autobiografico in cui la scrittrice raccoglie le sue impressioni dell’Italia in un momento in cui l’esilio da Parigi le fa dire che “Viaggiare è uno dei più tristi piaceri della vita”. Ma il viaggio a Reims è in realtà un viaggio mancato perché i protagonisti, bloccati da un contrattempo nella cittadina termale di Plombièrs, non raggiungeranno mai la loro meta per assistere all’incoronazione e, dopo un festeggiamento improvvisato all’albergo del Giglio d’oro, rientreranno a Parigi per il proseguimento delle celebrazioni. La sosta forzata è l’occasione per piccoli incidenti, intrecci amorosi, rievocazioni storiche, liste di oggetti d’antiquariato tra i personaggi provenienti da diverse nazioni europee, che danno vita ad arie, romanze, duetti, un pezzo a sei voci e un vivacissimo pezzo concertato a quattordici voci. La storia della cantata è singolare; essendo un’opera su commissione, venne rappresentata solo quattro volte tra il giugno e il settembre del 1825, a un anno di distanza dall’evento che celebrava. Per l’occasione Rossini volle che tutti

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i maggiori artisti d’Europa cantassero davanti al re, ma naturalmente nessun impresario poteva permettersi di ripetere un evento simile. Com’era usanza comune all’epoca, Rossini utilizzò alcune delle partiture in opere successive, in particolare per Le Comte Ory (1828), opera buffa ironica e maliziosa; vent’anni dopo il Viaggio venne usato anche per la cantata Andremo a Parigi?, che celebrava l’insurrezione operaia e le barricate parigine che portarono alla caduta di Luigi Filippo e alla proclamazione della Seconda Repubblica. Poi se ne persero le tracce e solo alla metà degli anni ’70 le ricerche della musicologa Elizabeth Bartlet permisero di identificare un primo nucleo di manoscritti. Grazie all’accurato lavoro di ricostruzione di Janet Johnson e Philip Gosset per la Fondazione Rossini, nel 1984 il Viaggio tornò in scena in un memorabile allestimento per il Rossini Opera Festival di Pesaro, con la direzione di Claudio Abbado, regia di Luca Ronconi e scene di Gae Aulenti, e venne riproposto l’anno seguente alla Scala. Sull’onda della Renaissance rossiniana che ebbe il suo culmine in occasione del bicentenario della nascita del musicista pesarese (2002), l’opera venne poi ripresa a Vienna nel 1988 con l’aggiunta di altri rinvenimenti, e poi ancora a Ferrara, Pesaro e Berlino nel 2002. Più o meno nello stesso periodo, è la Finnish National Opera di Helsinki, nella figura del direttore Erkki Korhonen, a pensare di inaugurare il Festival Rossiniano 2003 affidando la regia del Viaggio a Dario Fo, come “grande conoscitore di Rossini e dell’humour finnico”. Fo risponde all’appello ma non può fare a meno di cogliere nella figura di uno dei sovrani più reazionari d’Europa lo spunto per una satira sociale che inevitabilmente riporta al presente. Riscrive così parti del libretto originale per dare una connotazione storica al personaggio di Carlo X. Fra trovate brillanti e gag sceniche, lo spettacolo è un grande successo e qualche mese dopo approda al Carlo Felice di


Con sacro zelo da noi serbato ognor, sul verde stelo risplenda il Giglio d’Or: Lo colmi il cielo, degli almi suoi favor. Viva la Francia e il prode regnator.

Sì, quel che importa È che tutto resti ugual. Per noi del coro La musica è cotal; Il regno è tutto Non cambia il gran final! In fondo è il coro Chi conta avanti sta.

Coro finale Dal libretto originale di Luigi Balocchi

Il finale secondo Dario Fo dagli archivi di Franca Rame e Dario Fo (archivio.francarame.it)

Sopra, in alto, La Scala, aprile 2009: il corteo che raggiunge il teatro da piazza S. Fedele. Lo spettacolo venne trasmesso in diretta in Italia e in Europa Foto Marco Brescia © Teatro alla Scala Sopra, in basso, la prima rappresentazione moderna al Rossini Opera Festival del 1984 © Studio Ambrosini di Riccardo Angelotti

A lato, due momenti dello spettacolo del 2001 al Rossini Opera Festival, interpretato dagli allievi dell’Accademia Rossiniana © Studio Amati Ricciardi

Genova, accolto anche qui con entusiasmo di pubblico, anche se una parte della stampa critica quelli che sembrano riferimenti più o meno espliciti al Presidente del Consiglio Berlusconi, allora al secondo mandato. “Non sono io che ho voluto rappresentare Berlusconi” dichiara Fo con il suo spirito graffiante, “è lui che ha voluto assomigliare a Carlo X” (La Nuova Sardegna, 12.10.2003). E in effetti gli attacchi sono a un monarca che mette la scuola nelle mani del clero, inasprisce la censura, chiude i giornali, scioglie il Parlamento, “vieta la satira ed i bordel…”. Sei anni dopo, in occasione di un’altra memorabile rappresentazione del Viaggio a Reims alla Scala, sempre con la regia di Ronconi e le scene di Gae Aulenti, ma con la direzione di Ottavio Dantone, Natalia Aspesi scriveva su Repubblica il 4 aprile 2009: “Se la prima di Viaggio a Reims alla Scala fosse stata domenica scorsa, la coincidenza sarebbe stata sorprendente: perché infatti mentre a Milano si sarebbe rappresentata l’incoronazione ottocentesca di Carlo X re di Francia, a Roma si incoronava sul serio il presidente del Pdl”. È in un certo senso ironico che si presti alla satira politica proprio un’opera del grande Rossini, personaggio dalle molte sfaccettature, forse opportunista, ma che non prese mai una vera posizione politica. Ma a ben guardare le coincidenze con il presente sono solo superficiali: nessuno potrebbe emulare Carlo X, se si pensa che nella sua foga restauratrice tentò addirittura di ripristinare l’antico rito della taumaturgia reale, celebrato nella cerimonia in cui il sovrano guariva gli scrufolosi con l’imposizione delle mani. E la differenza maggiore tra i due personaggi storici rimane il fatto che Carlo X regnò solo sei anni perché le Ordinanze di Saint-Cloud del 25 luglio 1830, con cui tentava di sciogliere le camere, scatenarono una ribellione aa popolare che lo costrinse ad abdicare. ●

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SETTEMBRE ARCHITETTURA

Acqua Ufficiale della Fabbrica della Salute

ORDINE DEGLI ARCHITETTI PIANIFICATORI PAESAGGISTI E CONSERVATORI della Provincia di Bergamo


Claudio Abbado dirige Il viaggio a Reims per il Rossini Opera Festival del 1984. Nelle parti principali i più grandi interpreti rossiniani; nella foto sotto, da sinistra: Leo Nucci, Enzo Dara, Katia Ricciarelli, Lucia Valentini Terrani, Ruggero Raimondi, Dalmacio Gonzales © Studio Ambrosini di Riccardo Angelotti Sotto, due momenti del Viaggio interpretato dai giovani allievi dell’Accademia Rossiniana 2001 - © Studio Amati Ricciardi

L’eredità di Rossini Prima della morte (1868), Gioacchino Rossini nominò erede universale la città di Pesaro, che gli dedicò il Conservatorio e istituì la Fondazione G. Rossini con il compito di amministrare il patrimonio del maestro e farlo conoscere nel mondo. Uno degli impegni della Fondazione è la pubblicazione dell’Opera Omnia in edizione critica, iniziata nel 1971 con un immenso lavoro di studio e ricerca. Dal 1980 il Rossini Opera Festival affianca l’attività della Fondazione mettendo in scena le opere di Rossini a mano a mano che vengono recuperate. “Il nostro compito è quello di restituire al mondo il patrimonio artistico di un autore popolarissimo alla sua epoca ma di cui fino a 30 anni fa si conoscevano solo poche opere” dice il sovrintendente Gianfranco Mariotti. “Da qui l’equivoco che Rossini fosse soprattutto un autore di opere buffe, trascurando il suo spessore drammatico. Il Viaggio a Reims è un fiore all’occhiello per Pesaro perché

era un’opera svanita nel nulla.” Ogni anno, nell’ambito del Festival Giovane, il Viaggio a Reims viene interpretato dai giovani che hanno partecipato all’Accademia Rossiniana, diretta da Alberto Zedda. “Dato che la cantata ha 18 personaggi, di cui 10 prime parti, si presta molto bene come palestra per gli allievi e permette di dosare le qualità artistiche. Usiamo un allestimento molto leggero e divertente di Emilio Sagi, con un’orchestra importante, e per il pubblico è diventato uno spettacolo cult. Fa tutto un altro effetto rispetto alla prima del 1984, quando avevamo chiamato i più grandi artisti e sembrava quasi che il cast fosse più importante della partitura.” Mariotti non è invece convinto della versione di Dario Fo e dei suoi interventi sul libretto, pur essendo amico personale e grande estimatore di Fo. “Sono operazioni che nell’’800 facevano gli stessi autori, non esistevano diritti d’autore e c’era maggior disinvoltura. Ma io ritengo che musica e libretto siano un tutt’uno: questa era una cantata celebrativa per il re, per quanto giocata con molta ironia e distacco; un’opera che prende in giro se stessa. Facendone un’invettiva contro il re se ne tradisce lo spirito.” Anche quest’anno il Viaggio a Reims viene rappresentato per la 31° edizione del Festival che si svolge dal 9 al 22 agosto. Nel programma 2010 compaiono due opere giovanili, restaurate e presentate in prima mondiale: Sigismondo e Demetrio e Polibio. Ormai mancano solo tre opere al recupero completo dell’opera rossiniana: Adelaide di Borgogna, Aureliano in Palmira e Ciro in Babilonia, la cui restituzione è prevista nei prossimi anni. www.fondazionerossini.org www.rossinioperafestival.it

Bozzetti di Dario Fo per le scene e i costumi, 2003 - © Dario Fo

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Gli ultimi nomadi La grande distesa di sabbia dell’Erg Chebbi, unico erg sahariano del Marocco

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a stabilità di sistemi auto-organizzantisi […] consiste nel mantenere la stessa struttura complessiva nonostante i continui mutamenti e sostituzioni di suoi componenti” scrive Fritjof Capra nel suo Il punto di svolta. È proprio questa la sensazione che si ha studiando la struttura sociale dei Tekna, confederazione di tribù dal carattere semi-nomade, che vive in un’area dai confini non perfettamente tracciabili. Orientativamente, nel XIX secolo l’area si estendeva dall’Ouadi Noun (Marocco) fino ad Atar (Algeria) e la sua capitale economico-politica era Laayoune. La zona in cui risiedevano gli stanziali può invece essere delimitata con buona precisione tra il bacino dell’Ouadi Noun e lo Jebel Bani. I suoi confini coincidono con gli Ouadi Draa e Chebika a sud, l’Anti Atlante a nord, l’Oceano Atlantico e il Jebel Bani rispettivamente a ovest e a est. Nella misura in cui i sistemi di cui sopra sono complessi e flessibili, essi rivelano la loro autonomia e capacità di auto-

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organizzazione. Una delle caratteristiche di questa capacità è l’auto-rinnovamento che permette l’adattamento all’ambiente, in costante mutamento per sua natura, e alle circostanze, meglio definite come fluttuazioni o variabili interdipendenti. La forma di organizzazione sociale dei Tekna – citati già nei Kennah (archivi marocchini) del XVI secolo, nonché in fonti europee del XVIII secolo – dipende tanto dalla mobilità spaziale dei nomadi, quanto dall’amministrazione di tipo statale degli stanziali. La confederazione fra i gruppi che ne fanno parte ne garantisce l’autonomia e il costante adattamento alle contingenze ambientali, economiche, sociali e politiche. Presupposto indispensabile a tale autonomia è l’indipendenza territoriale: l’area Tekna, per la configurazione geografica molto varia (che va dalle oasi lungo gli uadi, ai rilievi dell’Anti Atlante, alla vasta area


desertica), necessita dell’intera sua estensione per garantire la riproducibilità delle risorse della terra (in alcune zone resa difficile dalle condizioni climatiche) e della popolazione, frutto della costante interdipendenza dei suoi elementi. Le alleanze come strategia di sopravvivenza La confederazione Tekna diventa particolarmente forte dopo la morte del sultano Saadita Al-Mansour (1603), che determina la perdita di un potere centrale. Il sistema di alleanza è concepito al fine di favorire la cooperazione e non la prevaricazione da parte di chi ha a disposizione più risorse. Il fine protettivo accomuna i due principali tipi di accordo. Il primo avviene fra tribù di uguale potere, è di tipo orizzontale e serve a favorire la transazione dei beni. Il secondo è invece di tipo gerarchico e può avvenire all’interno di ciascuna tribù cui una frazione di altre comunità abbia richiesto protezione.

L’organizzazione sociale dei Tekna non è di tipo piramidale, ma è assimilabile all’“albero sistemico” di cui parla Capra: tutti i segmenti sono di pari importanza a ciascun livello di segmentazione e ciò non comporta alcun tipo di rivalità o divisione di carattere economico e politico. Grazie a questo tipo di struttura in cui tutti i livelli sociali interagiscono in modo armonico, le possibilità di sopravvivenza sono più alte rispetto a un’organizzazione piramidale. Non esiste la concezione di straniero. I nomadi sentono di appartenere a quel territorio in cui trovano approvvigionamento e ospitalità, rappresentati dagli ksour, i villaggi fortificati dell’area maghrebina, la cui funzione primaria è la conservazione delle scorte alimentari per affrontare i lunghi periodi di siccità. I nomadi sono accolti dagli stanziali, consapevoli, questi ultimi, di come la loro sicurezza dipenda proprio dai nomadi. Le alleanze e le relazioni costituiscono, dunque, l’essenza

I Tekna, quando nomadismo e sedentarietà sono complementari e inscindibili per la vita di Luisa Bianco

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tune the light

Quintessence per LED

Una prima per un nuovo programma di downlight all’insegna del comfort visivo efficiente: Quintessence di ERCO. In un sistema che comprende nel complesso circa 1200 strumenti di illuminazione differenziati i LED costituiscono la principale sorgente di luce. Quintessence offre oltre 350 apparecchi da incasso nel soffitto per LED: in diverse grandezze, forme e livelli

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Per un sistema sociale che vive in uno stato di insicurezza endemica, la confederazione appare come il principale mezzo di difesa

MHamid, ultima località raggiungibile su strada asfaltata lungo il confine sudorientale con l’Algeria Sotto, un mercato all’aperto

Merzouga, vicino al confine con l’Algeria, non lontano dalle dune dell’Erg Chebbi

Sotto, dune dell’Erg Chigaga situate a circa 60 km da MHamid

dell’equilibrio interno e del funzionamento della confederazione. Il modo in cui vengono stabilite ne assicura la coerenza e la trasparenza. Modi di vita diversi e complementari Questo sistema veniva adottato anche nella gestione di una delle due principali fonti di sostentamento dei Tekna: il commercio, sia con i paesi europei, sia trans-sahariano. Uno dei grandi capi Tekna fu lo Sheikh Beyrouk, nel XVIII secolo. A causa delle pesanti tasse che il governo marocchino imponeva sui prodotti in commercio, egli richiese rivendicazioni sui mercati europei. L’occasione per avanzare tale richiesta gli fu

data fra il 1790 e il 1806, periodo in cui circa trenta imbarcazioni europee furono affondate e l’equipaggio venduto. Beyrouk ne approfittò per prendere contatti con i commercianti europei che avevano forti interessi economici in Africa. Negoziò prima con gli inglesi, poi con i francesi; sperava nella costruzione di porti lungo le coste e in cambio avrebbe concesso il monopolio su alcune merci (lana, pellame, mandorle, piume di struzzo e avorio provenienti dai traffici trans-sahariani). Tuttavia il sultano Adberrahman, inquieto per le tante trattazioni, preferì stringere lui stesso patti con i Tekna. Ne ridusse la tassazione sulle merci e ottenne da loro il

blocco degli scambi con gli europei. Le trattazioni strategicamente ideate da Beyrouk, in grado di dialogare tanto con gli europei quanto con il sultano, si rivelarono efficaci per ottenere quello che meglio soddisfaceva i bisogni del momento. Con la morte di Beyrouk, il figlio El-Habib non dimostrò di possedere le capacità strategiche del padre. Nel 1882 un altro figlio di Beyrouk, Dahman, ricevette da Moulay Hassan I (1873-1894) il titolo di caïd, determinando così un ulteriore indebolimento dell’indipendenza dei Tekna i quali, da questo momento, non avrebbero più avuto modo di affermarsi. Nel 1886, quando il makhzen, la classe governativa

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Da Merzouga verso il deserto

Le alleanze fra tribù si basano sull’appartenenza a un territorio comune di cui vengono utilizzate le risorse in modo collettivo

Antica Kasba nella Valle del Draa. La tecnica di costruzione nota come pisé, impiega la terra e la paglia reperibili in loco

chi è | Luisa Bianco Nata a Catanzaro nel 1983, ha conseguito la laurea in Culture e Società del Mediterraneo e dell’Oriente presso l’Università La Sapienza di Roma. Attualmente svolge, per il Dottorato in “Società, politica e culture dal tardo medioevo all’età contemporanea”, un progetto di ricerca sul processo migratorio dei marocchini dalla Chaouia-Ouardigha. Grazie alla sua conoscenza dell’arabo e della realtà socio-culturale del Nord Africa, opera come mediatrice inter-culturale e si occupa da tempo di migrazioni e problematiche connesse.

marocchina, attaccò gli stabilimenti degli inglesi, questi cedettero i loro affari al governo marocchino che ne uscì rafforzato, a scapito dei Tekna, antichi detentori del controllo sulle rotte mercantili. Per quanto riguarda i traffici trans-sahariani, l’apice venne raggiunto nel 1860, specie sull’asse Goulimine (Marocco) - Ouadane (Mauritania) - Taoudenni (Mali) - Timbouctu (Mali). La sicurezza delle carovane dipendeva direttamente dai patti stretti con i Tekna. Le principali merci di scambio provenienti dal nord erano orzo, sale, tabacco, cuoio, datteri, tè, rame. Dalle zone a sud del Sahara provenivano soprattutto uomini venduti come schiavi e, insieme a questi, polvere d’oro, piume di struzzo, fucili di provenienza senegalese, cotone, montoni. A fine XIX secolo l’incremento delle rotte marittime provocò un calo del commercio trans-sahariano, che sparì quasi del tutto con la decolonizzazione nella seconda metà del secolo successivo. Questo comportò l’accentuarsi del carattere sedentario dei Tekna, che diede conferma della flessibilità delle tribù. Acquistò, infatti, maggiore rilevanza la seconda principale fonte di sostentamento: l’agricoltura. Tuttavia, privati della mobilità, i Tekna, da allora, non possono esercitare appieno la loro capacità di auto-organizzazione, né riescono a far fronte a periodi di siccità sempre più lunghi. Attilio Gaudio individua tre principali motivi di perdita di potere dei Tekna: la lotta fra i Reguibat e Tadjakant che portò alla rovina lo snodo commerciale di Tindouf nel 1895; la soppressione della schiavitù che fece venir meno una delle principali merci delle rotte trans-sahariane; l’aumento della desertificazione e la conseguente riduzione degli spazi di rifornimento d’acqua, causa di ostilità fra tribù del sud marocchino, algerino e della Mauritania. Le rotte commerciali, specialmente durante il periodo della decolonizzazione, tuttora in atto, vanno scomparendo con conseguente disarticolazione profonda delle dinamiche interne e restringimento del territorio aa tekna. ●

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letteratura

Davide Sapienza, esploratore di spazi e parole Il viaggio di uno scrittore, . traduttore ed. esploratore, che . ha saputo trasformare . una semplice passione . in una ricerca essenziale, . in un rapporto necessario . con l’ambiente . di Gessica Costanzo foto di Davide Sapienza

Questa è la rotta che avrei scelto: avrei deciso di andare dove non sono mai andato e di disinteressarmi di chi vi è già passato

uando viaggiare diventa un motivo essenziale e riempie non solo una professione ma l’intera vita, la propria casa, le proprie passioni, allora si può davvero dire che il viaggio diventa un’esperienza unica, un punto d’arrivo ma anche un punto di partenza, una ricerca inesauribile di quello che siamo, una conoscenza spassionata di quello che ci circonda. Perché quando mettersi in viaggio significa entrare in totale simbiosi con la terra che si attraverserà, questo può diventare un lavoro, ma soprattutto può diventare una maniera di esprimersi, di raccontare, di raccontarsi e di entrare in contatto con gli altri. “Da quando mi sono spostato dalla scena musicale – spiega Davide –, in quanto giornalista di famose testate musicali, all’ambito letterario, nessuno ha saputo classificare i miei scritti. E questo mi piace. Ho voluto scrivere di viaggio fin dall’inizio e di viaggio inteso nel modo più ampio: dal

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viaggio fisico a quello mentale fino ad arrivare alla scoperta di se stessi. Credo che viaggiare e imparare sia il miglior modo per conoscere davvero il genere umano e i nostri limiti.” E così ecco nascere I diari di Rubha Hunish, opera letteraria emblematica, pubblicata nel 2004 da Baldini Castoldi - Dalai Editore, impostata come un diario di viaggio ma senza una continuità cronologica o spaziale: solo l’emozione guida l’autore e il lettore in queste pagine tra luoghi realmente visitati (come l’Islanda, la Norvegia, le Alpi, il Canada) e sensazioni legate alla scoperta del proprio io interiore. “Ho raccontato sei anni di viaggi – spiega Davide – in posti molto diversi tra loro, alcuni più familiari, altri più avventurosi. Ma è la base del racconto, che coincide con la motivazione del perché viaggio, che è affascinante: ovvero il non sapere. Viaggio e scrivo per esplorare e indagare temi e realtà che non conosco. È solo ammettendo di non sapere che uno può davvero vivere e

conoscere posti nuovi; se invece ci riempiamo gli occhi e il cervello di guide turistiche del posto che visiteremo, non conosceremo niente perché non saremo andati alla ricerca di niente di nuovo. È una scelta personale di come impostare la propria vita: c’è chi va avanti con i preconcetti imposti dalla società e chi invece sceglie la strada della ricerca senza pregiudizi, per avere uno sguardo nuovo e autentico su ciò che osserva.” Un viaggio anticonformista quello dei diari, dunque, alla ricerca del vero rapporto tra la gente e la terra, una scoperta di un mondo tutto nuovo da aprire dentro e fuori di sé perché, come scrive Sapienza, “Questa è la rotta che avrei scelto io: avrei deciso di andare dove non sono mai andato e di disinteressarmi di chi vi è già passato. Avrei deciso per Il Viaggio”. Il viaggio diventa così emblema di una forma di scrittura dalla derivazione angloamericana che continua anche nelle due


Cercavo un po’ di me e di noi, come genere umano, nella natura che ci ha creato e che ci circonda. E così sono nati i miei tre scritti: come forma di sperimentazione oltre il romanzo

opere successive dello scrittore monzese, trapiantato da anni nelle Orobie bergamasche: La Valle di Ognidove del 2007, edito da Vivalda Editori e La strada era l’acqua del 2010, edito da Galaad Edizioni. “Quando ho cominciato a scrivere – riflette con un sorriso Davide, come se stesse pensando tra sé e sé – non sapevo bene cosa stessi facendo: mi facevo trasportare dall’istinto, dall’immaginario culturale e geografico di cui avevo letto e che avevo visitato. Non avevo in mente un piano preciso dell’opera che avrei sviluppato, cercavo solo di esprimere l’universalità delle cose e dei valori, che si può ritrovare nelle particolarità che si incontrano nel mondo. È questo che facevo: cercavo un po’ di me e di noi, come genere umano, nella natura che ci ha creato e che ci circonda. E così sono nati i miei tre scritti: come forma di sperimentazione oltre il romanzo.” Non bisogna poi dimenticare i maestri che il giovane Davide ha sempre avuto e che ha

chi è | Davide Sapienza Dopo una carriera come giornalista musicale e consulente discografico, traduttore di testi e curatore di libri sulla musica rock, nel 1998 abbandona il mondo della musica per dedicarsi alla letteratura e ai viaggi. Nel 2004, con la pubblicazione di I Diari di Rubha Hunish, inizia una serie di reportage per diverse riviste (Specchio, Rivista della Montagna, GQ, Diario, Rolling Stone). Nel 2006 la sua passione per Jack London lo porta per la prima volta nello Yukon, a nord del Canada. Dal 2007, anno in cui esce il romanzo-viaggio La Valle di Ognidove, è un susseguirsi di viaggi, conferenze e reportage; nel frattempo continua un intenso lavoro sulle traduzioni di London e altri autori anglo-americani (Dick North, Robert Falcon Scott, Frank Lisciandro). Da ogni viaggio, che sia nei territori artici, negli Stati Uniti o in Canada, nascono appunti e riflessioni che porteno al libri come Tremilachilometri a mano, con le foto di Andrea Aschedamini. L’ultimo romanzo ispirato a un viaggio dalla Svizzera a Istanbul è La strada era l’acqua. Esploratore di vari mezzi espressivi, ha collaborato nel 2008 anche alla sceneggiatura del documentario Scemi di guerra di Enrico Verra per History Channel e la RSI Tv Svizzera Italiana gli ha dedicato nel 2009 un documentario, La sapienza di Davide. Parole in cammino, di Fabio Calvi. Nelle presentazioni è spesso accompagnato da musicisti come il giovane chitarrista Francesco Garolfi, oltre ai saltuari, ma preziosi spettacoli con la cantautrice Cristina Donà, sua compagna nella vita.

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letteratura

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Viaggio e scrivo per esplorare e indagare temi e realtà che non conosco

avuto la fortuna di approfondire nel corso degli anni. Uno su tutti Jack London, lo scrittore statunitense vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Dopo averlo scoperto come molti da bambino con Il richiamo della foresta e Zanna Bianca, Davide l’ha seguito fino a diventarne il maggiore esperto e traduttore italiano. “È stato il mio migliore compagno di viaggio” dice. “L’ho ritrovato negli anni piano piano, soprattutto dopo aver letto una sua opera del 1915 dal titolo Il vagabondo delle stelle e da lì ho capito quanto non fosse solo un autore per ragazzi e quanto avesse ancora da darci.” Da lì la passione per la traduzione di London, che ha reso accessibile al pubblico italiano nella completezza del suo vasto lavoro, fino agli inediti presenti nella raccolta La strada (Castelvecchi 2010). Per tornare alle opere di Sapienza, ne La Valle di Ognidove viene narrata la storia di Ishmael, non a caso omonimo del protagonista di Moby Dick, che attraverso luoghi e stati d’animo sconfinati accompagna il lettore nella sua esperienza di infinito rispetto e amore per la natura, in un mondo in cui niente è soggetto al caso ma tutto è conseguenza di ciò che è già successo. Ishmael diventa allora l’“Ogniuomo” che si trova a rapportarsi con una natura che non gli appartiene ma con la quale deve necessariamente trovare un equilibrio. Un equilibrio che viene cercato anche in La strada era l’acqua, particolare esempio di scrittura in cui un elemento naturale si anima per esprimere il proprio pensiero e le proprie perplessità sul genere umano che da sempre la usa e la sfrutta. Anche qui il racconto si basa su un viaggio, quello fatto da un amico di Sapienza, Dario Agostini, da Saint Moritz a Istanbul in canoa: 3 mesi per 4000 chilometri di puro contatto con l’acqua. E da qui l’illuminazione di Davide: ricevere tutti i giorni un sms da Dario con scritto il luogo raggiunto e una sensazione provata. Detto fatto; il libro si crea da sé in un discorso in cui è l’acqua a parlare e a rivelare le vere debolezze degli uomini i quali “Non accettano lo scorrere delle cose di cui pure fanno parte. Non comprendono che il viaggio comincia nella mente, prima che davanti a una mappa”. Perciò Sapienza ha fatto del viaggio la sua vita e da questo grande viaggio tra paesi, uomini, sensazioni ed emozioni ha raggiunto un traguardo unico per un uomo, ciò che lo riporta sempre a casa dopo un viaggio: il piccolo Leonardo che gattona per casa mentre papà fa l’intervista. Ed è così che aa comincia un altro infinito viaggio. ●

Gli uomini non accettano lo scorrere delle cose di cui pure fanno parte. Non comprendono che il viaggio comincia nella mente, prima che davanti a una mappa

chi è | Gessica Costanzo Esordisce giovanissima con il romanzo breve Questa sono io, (Albatros – Il filo, Roma 2007), tormentato percorso di un’adolescente alle prese con il male di vivere moderno, e dopo la laurea in Lettere Moderne, coltiva la passione per la scrittura, la musica e l’arte in genere, collaborando con L’Eco di Bergamo, cantando nel coro “Legictimae Suspicionis” e partecipando attivamente alla vita culturale del territorio bergamasco. Nel 2009 pubblica con la stessa casa editrice il secondo romanzo, Gli innocenti, in cui affida a una voce maschile un monologo asciutto e spezzato, che tocca i grandi temi della vita rievocando il rapporto assurdo e doloroso con una doppia controparte femminile, inconciliabile e nello stesso tempo irrinunciabile.

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teatro

L’attesa “Si dice che l’attesa sia lunga, noiosa . Ma è anche, in realtà, breve, poiché inghiotte . quantità di tempo senza che siano vissute . le ore che passano e senza utilizzarle.” . Thomas Mann

Due immagini delle pièce teatrali: sopra L’innocenza dei postini, di P. Di Paolo, regia di Sara Sole Notarbartolo © Francesco Squeglia; sotto Assenti di I. Cotroneo, regia di Giorgio Palombi © Laura Ferrari / NTFI 2010

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attesa è la controparte del viaggio, una pausa tra due movimenti, uno spazio tra due parole, un’assenza di idee, di cose da fare… Può essere breve, lunga, noiosa, irritante, rilassata, svagata, piacevole o curiosa. Ma volte fa anche paura perché, non essendo stata da noi riempita, calcolata, voluta, l’attesa è amica dell’imprevisto. E nell’attesa, tutto può accadere a noi, soggetti vulnerabili ed esposti, tutto… o nulla. Dieci pièce teatrali, recitate nei luoghi classici dell’attesa: le stazioni, le fermate degli autobus, gli aeroporti, gli sportelli del Bancomat, gli uffici postali o le code davanti a un cinema o a un ristorante. Questa è una delle idee messe in scena dal Napoli Teatro Festival, che ha concluso la sua terza edizione il 27 giugno scorso, dopo 26 giorni di eventi che hanno toccato 23 luoghi emblematici della città, non solo monumenti e teatri, ma anche il Real Albergo dei Poveri, il Dormitorio pubblico, il Real Orto Botanico, le scale del Petraio o l’ex fabbrica di birra Peroni. Tra gli autori di questi brani, commissionati a cura di Mario Fortunato e interpretati in estemporanea da cinque compagnie teatrali napoletane, ci sono nomi famosi e altri meno noti. Dacia Maraini firma il monologo di un travestito che parla a un bambino mentre tutti e due aspettano il treno da Zurigo, in un’Italia bloccata da un’inondazione. Andrea de Carlo registra il dialogo di due amiche in banca: “Il fatto è che quando cominci a lasciar succedere qualcosa di sorprendente, poi continua a succedere. Davvero. È come rompere la diga a un fiume, si tira dietro di tutto. Di tutto. Non lo fermi più”. Sul Molo di Mergellina, nonna e nipote aspettano l’aliscafo per Procida e ancora non sanno chi delle due partirà. “VECCHIA: Partire, sempre partire, la vita è tutta una partenza… RAGAZZA: Ma non avevi detto che è tutta un’attesa? VECCHIA: E quando parti che succede? Aspetti il treno, il

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Napoli Teatro Festival Italia Nelle intenzioni doveva essere un festival itinerante, da tenersi ogni anno in una città diversa. Ma dopo il successo della prima edizione, nel 2008, Napoli è stata dichiarata sede permanente e così anche quest’anno la città si è trasformata in un grande palcoscenico per accogliere le compagnie internazionali che hanno animato questa manifestazione, promossa dalla Fondazione Campania dei Festival, presieduta da Rachele Furfaro e diretta da Renato Quaglia. Se il teatro è stato il protagonista di questa rassegna, con oltre settanta spettacoli in giro per la città, grande spazio è stato dato anche al settore delle arti visive grazie alla collaborazione con il Museo d’Arte Donna Regina di Napoli, alle videoinstallazioni come Devo partire domani, dell’artista di Singapore Ming Wong, che ha reinterpretato Teorema di Pasolini ambientandolo all’ombra del Vesuvio, e alle contaminazioni tra teatro, cinema e musica, come quelle proposte dalla compagnia cilena TeatroCinema, che ha presentato lo spettacolo L’uomo che dava da bere alle farfalle. Non poteva mancare la danza, presente con Claire Cunningham, che fa delle sue stampelle elementi di incredibili coreografie, il tango argentino di Rodrigo Pardo, che quest’anno si esibisce in una toilette allestita nella vetrina di un negozio e quello napoletano di Giancarlo Sepe.

Sopra, la ballerina Claire Cunningham; a destra due momenti di Tango Toilet di Rodrigo Pardo © Laura Ferrari / NTFI 2010

pullman, la nave…” (Elisabetta Rasy). Maria Pace Ottieri segue la storia – ispirata a una tragica realtà – di due coniugi rumeni, lui che suona l’organetto in piazza e lei, col piattino, che osserva le persone che passano: la ragazza elegante col telefonino (“appena arrivata forse l’attesa le sembrava dolce, bianca, una pagina vuota che poteva riempire di sogni e desideri…”), una madre con il bambino obeso, due vecchi… mentre, da un momento all’altro, un colpo di pistola può mettere fine alla musica, ai sogni. E poi ci sono i dialoghi tra morti di Ivan Cotroneo, l’incomunicabilità di due vecchi coniugi di Vincenzo Consolo, le tre vite che si incrociano nelle pause di uno spettacolo teatrale (Sandra Petrignani). I giovanissimi Paolo di Paolo e Pulsatilla ci portano rispettivamente in un ufficio postale, dove assistiamo alla storia d’amore tra un postino e la direttrice, e alla fermata dell’autobus di Piazza Garibaldi, tra una folla in attesa sul marciapiede, in mezzo al viavai di gente, dove ognuno fa la fila per qualcosa di diverso. L’attesa è un topos classico del teatro: basti ricordare Samuel Becket e il suo capolavoro Aspettando Godot, ma vite d’attesa sono anche quella di Ellida, la Donna del mare di Ibsen che aspetta il suo Straniero, quelle

delle Tre sorelle di Checov, Olga, Mascia e Irina che, insieme al fratello Andrej, sognano il ritorno a Mosca, o quella del tenente Drogo nel Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, riproposto anche in teatro. Ma qui la novità è proprio l’ambientazione; in omaggio all’anima teatrale della città partenopea e alla tradizione del teatro di strada, le scene sono quelle popolate tutti i giorni da cittadini normali; nessun preavviso annuncia l’inizio dello spettacolo. Gli attori sono in mezzo al pubblico, l’azione teatrale si inserisce in gesti quotidiani, in brevi incontri anonimi, in scambi di battute banali, fino a confondersi con la realtà. Una realtà a volte tragica, a volte assurda, che si può leggere da tanti punti di vista quanti i sono i protagonisti che la vivono. Le azioni sceniche sono interpretate da Maniphesta teatro con la regia di Giorgia Palombi; Taverna Est con la regia di Sara Sole Notarbartolo; Teatringestazione, regia di Anna Gesualdi; Calone/Laieta, regia di Nicola Laieta e Teatro Bellini Fondazione teatro di Napoli, a cura di Daniele Russo. I dieci brani del progetto saranno raccolti in un libro curato da Mario Fortunato, edizioni aa Bompiani.●

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cronache arte

A Perugia Galleria Nazionale dell’Umbria Teatro del Sogno da Chagall a Fellini (fino al 9 gen.) un intreccio tra simbolismo di inizio Novecento, arte contemporanea e cinema surrealista

cinema

PRATO MILANO

LECCE

fotografia MILANO

Pecci raddoppia

Festival Lo sguardo d’Omero

Da Parigi alla Californiano

n concomitanza all’ampliamento della sede storica del Centro Pecci di Prato, affidato allo studio olandese NIO architecten, il prestigioso museo ha inaugurato a Milano una nuova sede, situata in una ex cartotecnica in zona Navigli. È un’occasione per la capitale lombarda di conoscere una collezione che vanta oltre 1350 opere di arte contemporanea, esposte a rotazione in una serie di eventi, mostre e incontri che culmineranno nell’Expo del 2015. Pausa estiva dopo l’installazione multimediale Dark Matter di Maurice Nio che ha inaugurato lo spazio milanese, mentre a Prato saranno in mostra fino al 9 gennaio 2011 le sculture di Thom Puckey e i wallpainting di Jan Van der Ploeg, in un progetto studiato dai due artisti olandesi appositamente per Prato.

È

stata scelta la bella cornice delle marine di Melendugno (Le), sulla costa orientale del Salento, per la prima edizione del Festival Lo sguardo d’Omero, dedicato ai luoghi, alle culture e alle identità della regione euro-mediterranea. La manifestazione è aperta a cinque diversi linguaggi audiovisi: documentari paesaggistico-antropologici; spot di promozione territoriale; film che raccontino il delicato rapporto tra l’uomo, il suo ambiente e la sua civiltà; report sulle condizioni ambientali di un luogo; servizi televisivi turistico/culturali. Ogni anno sarò protagonista simbolico uno dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, raccontato con un’opera fuori concorso: a inaugurare, l’Italia.

opo le mostre dedicate all’olandese Erwin Olaf e all’americano Phil Stern, aperte fino al 12 set, arriva negli spazi di Forma il più parigino dei fotografi, Robert Doisneau, che ha saputo immortalare con sguardo divertito le strade e le banlieue della capitale francese.

I

Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci viale della Repubblica 277 - Prato Museo Pecci Milano Ripa di Porta Ticinese 113 - Milano

MILANO

dal 2 al 5 set. Anfiteatro comunale di Torre dell’Orso Porto di San Foca - Melendugno (Lecce) www.losguardodiomerofestival.org

Artisti Rock on solo musicisti come li conosciamo sul palco, dodici artisti di fama internazionale espongono le loro opere figurative a dimostrare che l’arte è un percorso personale che può esprimersi in diversi linguaggi. Se Patti Smith coglie rapide istantanee con la sua Polaroid, le foto dei Kills diventano un gigantesco murale. Il ritratto è il mezzo scelto da Alan Vega, leader del gruppo punk Suicide, mentre Devendra Banhart evoca attraverso il disegno le atmosfere incantate delle sue canzoni. A rappresentare l’Italia, Andy dei Bluevertigo ritrae le icone del XX secolo – da Jim Morrison a Kate Moss, alla Vespa – con colori fluorescenti illuminati da luci al neon. Curatore di It’s not only Rock’n’Roll, Baby! è Jérôme Sans, egli stesso musicista e direttore del Centro Ullens per l’Arte Contemporanea di Pechino, che aveva già proposto una mostra simile al Bozar di Bruxelles nel 2008; ma la mostra milanese non è un replay, semmai una continuazione, mai uguale a se stessa come i concerti che fanno corona all’evento.

Dal mestiere all’opera, che raccoglie un centinaio di stampe originali in bianco e nero, corredate da documenti e testimonianze, verrà presentata in contemporanea a un inedito in Italia: Palm Springs 1960, dove si potranno ammirare le insolite foto a colori scattate per la rivista Fortune. dal 22 set. al 17 nov. Fondazione Forma per la Fotografia P.za Tito Lucrezio Caro 1 – Milano www.formafoto.it

VERONA

Uno sguardo sull’Italia e sul mondo ono 47 i fotografi italiani premiati dalla World Press Photo Foundation negli oltre cinquant’anni della sua storia. Nomi non sempre famosi in Italia, che vengono riuniti in Testimoni del nostro tempo, una mostra già proposta a Roma, organizzata da 10b photography e curata da Daniele Protti, direttore dell’Europeo, rivista che ha dedicato un numero monografico all’evento. Centodue scatti che testimoniano la storia del fotogiornalismo italiano, da Gias Carobbi, premiato nel 1965, ai vincitori del riconoscimento più prestigioso, il World Press Photo of the year, vinto da Francesco Zizola nel 1996 e da Pietro Masturzo nel 2009 con una foto scattata sui tetti di Teheran poco dopo la rielezione di Ahmadinjead. E.R.

S

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fino al 26 settembre Triennale Bovisa via R. Lambruschini 31 - 20156 Milano

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Faraglioni delle Due Sorelle presso la baia di Torre dell’Orso a Marina di Melendugno (Le) © Paolo Garrisi

fino al 5 settembre Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri Cortile del Tribunale - 37121 Verona www.comune.verona.it/scaviscaligeri

La voiture fondue, 1944 ©Atelier Robert Doisneau

3° Premio World Press Photo © Dario Mitidieri Getty Images, 2003

Inaugurazione Museo Pecci Milano © Carlo Di Pasquale

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True Blue - Andy dei Bluevertigo acrilico fluo su tela, cm 120x100


cronache

A un secolo di distanza, Fiesole ricorda il soggiorno di Frank Lloyd Wright con una mostra al Museo civico archeologico (fino al 30 ago), che espone i progetti elaborati dopo il 1919, e un convegno internazionale a ottobre

design

architettura

MILANO

ROMA

Macro-Maxxi

Brasile-Milano

oma si arricchisce di due musei di Arte Contemporanea, su progetti di due architette: francese della Bretagna Odile Decq, irachena che vive e lavora a Londra Zaha Hadid. Il Macro di Decq è in realtà un ampliamento di un preesistente museo, incastonato all’interno della ex fabbrica Peroni. “Mantengo le facciate e lavoro dietro le quinte. Tolgo tutto quello che sta dietro e ci creo un altro mondo” dice l’architetta francese. Un mondo dominato da vetro e acciaio, che si stende su 10.000 mq di nuovi spazi espositivi e di servizi caratterizzato da un tettogiardino percorribile dai visitatori su un’area di 2.500 mq. Se il Nuovo Macro tende a integrarsi con il complesso architettonico e il quartiere in cui è inserito, offrendo dall’interno visuali inedite della città, il Maxxi di Hadid domina un’ex area militare, rigenerando dinamicamente un pezzo di città senza eccessive preoccupazioni alle relazioni con la vecchia Signora. “Uno spazio fluido in cui i visitatori raggiungono le 5 gallerie come andassero alla deriva e non attraverso un percorso lineare.” Così lo studio descrive il progetto commissionato dal Ministero per i Beni culturali. Se il Maxxi si può definire fluido come una strada, il Macro è piuttosto labirintico e meccanico come una macchina urbana. Entrambi sono in grado di suscitare emozioni e creare occasioni di comportamento. In entrambi, nel bene e nel male, non sono riconoscibili aspetti più femminili rispetto ad architetture simili di illustri colleghi. Inaugurato vuoto, il Macro aprirà al pubblico a settembre 2010. Al contrario, il Maxxi offre un assaggio delle collezioni di arte e architettura con una varietà di eventi, tra cui spicca la mostra Spazio (30 mag. - 23 gen.), un percorso con circa 90 opere di artisti contemporanei – Alighiero Boetti, Anish Kapoor, William Kentridge, Sol Lewitt, Giuseppe Penone, Grazia Toderi, Francesco Vezzoli e altri – alternate a installazioni di 10 studi di architettura internazionali tra cui Diller, Scofidio e Renfro, Lacaton & Vassal Architetcs, West 8. All’interno di Spazio anche la videoinstallazione Geografie italiane di Studio Azzurro e Net inSpace, a cura di Elena Giulia Rossi. E.M.

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MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo via Guido Reni, 4 A - 00196 Roma www.fondazionemaxxi.it MACRO FUTURE Piazza Orazio Giustiniani 4 - 00153 Roma www.macro.roma.museum

Sopra, l'allestimento intitolato “1:1” del gruppo di architetti Romina Grillo, Ciprian Rasoiu, Liviu Vasiu, Matei Vlasceanu, Tudor Vlasceanu per il Padiglione della Romania alla XII Biennale di Venezia www.unulaunu.ro

ue appuntamenti autunnali al Triennale Design Museum: sostenibilità, artigianato tradizionale e recupero di materiali industriali sono il punto di partenza dei due fratelli brasiliani Fernando e Humberto Campana al MoMA di New York e in altri musei internazionali. Antibodies espone una selezione di progetti realizzati per il loro studio di San Paolo e per importanti aziende di design quali Etra, Fontana Arte, Alessi. La seconda mostra è dedicata a uno dei protagonisti del design italiano: Marco Ferreri. Allievo di Munari, svolge a sua volta attività di docenza in Italia e all’estero e spazia dal disegno industriale alla grafica, dall’architettura agli allestimenti, con uno stile personale che gli ha valso numerosi riconoscimenti, tra cui la selezione per il Compasso d’Oro con la sedia “Less” prodotta da Nemo e il “Libroletto” (progettato con Munari), il premio Design Plus 2000 per la scopa “Titi”. Antibodies - dal 15 ott al 15 gen 2011 Marco Ferreri – da ott a dic Triennale Design Museum, Via Alemagna 6 – Milano

VENEZIA

Biennale non solo per architettio opo undici edizioni al maschile, per la prima volta sarà una donna, l’architetto Kazuyo Sejima, a dirigere la XXII Biennale d’architettura di Venezia. Luci, colori e sensazioni uniti da una mano sapiente, premio Prizker 2010, occuperanno l’Arsenale, i Giardini, le Corderie e tutti gli spazi dove da più di quarant’anni la biennale apre le sue porte. People meet in architecture sarà il titolo della mostra che vedrà partecipi grandi nomi, non solo architetti ma anche artisti come Michelangelo Pistoletto. “Questa mostra sarà l’occasione per sperimentare le potenzialità dell’architettura, per comprendere in che modo essa esprima nuovi modi di vivere e per mostrare che è il frutto di valori e approcci differenti” spiega Sejima. La mostra sarà organizzata in spazi più che in oggetti, ogni partecipante si curerà del proprio spazio. L’evento sarà arricchito da incontri, discussioni e conversazioni settimanali con architetti e critici; i “Sabati dell’Architettura” ripercorreranno la storia della mostra negli anni. G.M.

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dal 29 ago al 21 nov Giardini Arsenale - Venezia www.labiennale.org/it/architettura

NAPOLI

Progettare hotel giunta alla 54° edizione Exposudhotel, che quest’anno avrà al centro Hotel and Spa Design, mostra espositiva itinerante del design e dei materiali del benessere, affidata a My Exhibition di Carlo Matthey. Cinque installazioni – firmate da Alberto Apostoli, Maurizio Favetta, Marco Vismare e Andrea Viganò, Diego Granese, Davide D’Agostino – riprodurranno una vera e propria hall di un albergo, una Spa, Camere e Suite, un Outdoor design, il Ristorante e la Sala congressi, per dare ai visitatori l’atmosfera di un ambiente reale, costruito impiegando nuove tecnologie, materiali inediti e soluzioni originali di design. La scelta di Napoli vuole valorizzare le potenzialità del Sud Italia in un settore, quello turistico alberghiero, in cui si impone con il 34,5% del totale nazionale.

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E.R. 14-18 nov Salone Mediterraneo dell’ospitalità Mostra D’Oltremare Napoli

Uno degli ambienti ricreato per Hotel and Spa Design

Macro, Roma

Triennale Design Museum ©2010marcocuratolo.com

Maxxi, Roma © Michele Milesi numero 4

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libri Gad Lerner, Scintille. Una storia di anime vagabonde, Feltrinelli Filo conduttore del libro è la nostalgia per un fallito rapporto col padre. Quasi imbarazzante per il lettore questo esibire il desiderio di punire un padre ancora in vita, tanto ingombrante quanto deludente nella sua goffa interpretazione della vita che non ha voluto tener conto dell’intensità storica in cui si colloca. Due frasi di Lerner riassumono il senso della sua disincantata ma appassionata analisi dell’ideale sionista: “le anime dei morti ci aprono strade che da soli non avremmo mai intrapreso”. E ancora: “la memoria va onorata con la dovuta cautela”. Esule, apolide con la consapevolezza del profugo, Gad Lerner, ebreo di origini polacche, galiziane e ucraine, nasce in Libano. Grazie al passaporto italiano segue una galleria di familiari scomparsi nelle città di Beirut, Aleppo, Boryslaw, Sidone e Israele, tracciando con invidiabile spirito autocritico una lucida analisi della storia contemporanea; ripercorrendo gli ultimi 50 anni, accomuna il massacro di Sabra e Chatila in Libano alla Aktion nei boschi dei Carpazi, che 40 anni prima inaugurò lo sterminio degli ebrei a Boryslaw. Continuamente ispirato da un principio di contraddizione coltivato nell’esilio, l’autore farcisce con spontanea maestria banali accadimenti familiari con eventi storici e note giornalistiche, rivelando un forte senso di appartenenza alla stirpe ebrea misto a un senso di mutilazione per una memoria interrotta da una famiglia disunita. Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli, Baldini e Castoldi Dalai Un libro che tutti dovrebbero leggere, subito. Racconta il viaggio vero del piccolo Enaiatollah Akbari. Un viaggio obbligato durato otto anni fatto da solo clandestinamente dall’Afghanistan all’Italia. Ad accompagnarlo le tre promesse che la madre gli chiede prima di addormentarlo la notte in cui, per salvarlo da una brutta storia di schiavitù, lo abbandona senza spiegazioni in un campo profughi. Non usare droghe. Non usare per nessuna ragione armi. Non rubare, né truffare, sarai ospitale e tollerante con tutti. Principi da noi talmente ovvi da non insegnarli più e non praticarli. Talmente radicati in Enaiatollah, bambino di nove anni, da consentirgli di attribuire la causa delle atrocità dei talebani (uccidono davanti ai suoi occhi il suo maestro e chiudono la scuola) soprattutto alla loro brutale ignoranza. Di descrivere con un’ironia lucida e distaccata il mare di miserie umane nel quale inconsapevole è stato gettato, ma che mai riescono a sfuocare quella nobiltà d’animo che ritrova in alcuni uomini anche nelle situazioni più critiche e disumane. Bruce Bégout, Luoghi senza identità, Giunti Edizioni “La sorpresa migliore è l’assenza di sorprese” recita la pubblicità della catena Holliday Inn. È ciò che viene chiesto a un motel, è questo il tema di Luoghi senza identità. Un libro di architettura, antropologia e design quello scritto dal filosofo Bruce Bégout, con lucidità e cinismo, rivolto a tutti coloro che disprezzano i

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luoghi comuni, ma ne sono attratti e vogliono capire perché è così facile cedervi. Bégout elabora un’ironica e tecnica disamina del motel americano come luogo di rinuncia e di libertà nella solitudine dell’uomo moderno. E.M. Jack London, La Strada. Diari di un vagabondo, Castelvecchi Editore Una raccolta di nove tra articoli e racconti di Jack London, apparsi su Cosmopolitan tra il 1906 e il 1907, che fornisce le coordinate di un percorso artistico ed esistenziale ancora poco conosciuto dell’autore. Questa pubblicazione, mirabilmente tradotta e curata da Davide Sapienza, ospita per la prima volta l’inedito Diario del Vagabondo, scritto durante i mesi di vagabondaggi tra Stati Uniti e Canada che segnarono la vita giovanile dello scrittore americano nella primavera del 1894. I protagonisti sono senzatetto – hobo – che vivono una vita da diseredati in un’America colpita in quegli anni di fine secolo da una delle crisi economiche peggiori della sua storia. Per gli hobo il viaggio sui treni è un rischio mortale in ogni singolo momento del giorno: oltre al pericolo dato dalla velocità, è la caccia da parte dei ferrovieri e della polizia l’elemento di sfida che non risparmia alcuna violenza. London descrive una realtà cui è stato legato in prima persona, quella degli emarginati di vagabonlandia, che si negano all’America, rifiutando l’imposizione delle regole e della morale comune senza nascondere tratti polemici, “Andate dai poveri a imparare, poiché è il povero che davvero conosce la carità. Non danno e non trattengono nulla di ciò che è superfluo. Non sanno cosa sia il superfluo”. Il suo stile narrativo, asciutto e giornalistico, rientra a pieno titolo nella corrente del realismo americano, ispirando scrittori come John Steinbeck e George Orwell e anticipando di cinquant’anni i grandi vagabondaggi di Sulla Strada di Jack Kerouac. K.B. Cormac McCarthy, La strada, Einaudi Padre e figlio in viaggio attraverso paesaggi desolati e inceneriti di un mondo postapocalittico percorso da orde di uomini sopravvissuti a un cataclisma imprecisato. Macilenti e cenciosi, uomini privati di ogni umanità, divenuti cannibali per soddisfare bisogni insopprimibili. È un viaggio su un groviglio di strade senza origine e senza meta di un mondo tradito, svuotato, ridotto a guscio inerte. Sterile. Il romanzo di McCarthy, composto di paragrafi di svariate lunghezze quasi fossero strofe di un lungo poema, diviene canto funebre per la Terra morente e per “il sacro idioma, privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà”. Registro lirico, elegiaco e narrazione dei fatti si fondono, movenza poetica e realismo costituiscono così uno straordinario connubio. Uomo e bambino diventano ogni Uomo e ogni Bambino, mossi dai sentimenti più puri. In un universo ormai spento e freddo dove tutto è invertito, ogni morale svanita, un bambino porta il fuoco e un uomo lo protegge. Il libro premio Pulitzer di Cormac McCarthy è, per questo, prima di tutto un libro di speranza. L. M.


Custodire il creato per coltivare la pace sabato 28 agosto 2010, convegno:

sabato 11 settembre 2010, convegno:

CANTI DI PIETRA

ELOGIO DEL PAESAGGIO

Le chiese monastiche del ‘900 Dalle 10 alle 17 relazioni di: Maria Antonietta Crippa, Luigi Leoni, Domenico Bagliani, Stefano Mavilio, Giulia De Lucia, Luigi Leoni, Flavio Bruna coordina: Giovanni Gazzaneo domenica 29 agosto 2010

Le chiese monastiche del ‘900 dalle 10 alle 12 tavola rotonda con: Maria Antonietta Crippa, Edoardo Milesi, Giovanni Gazzaneo, i padri della Comunità di Siloe venerdì 10 settembre 2010

SILOE FILM FESTIVAL ore 18 Rassegna di cortometraggi presenta Viviana Carlett ore 21 Presentazione del premio Siloe Film Festival a cura di Franca Pauli ore 21,30 proiezione esclusiva in prima europea del film: Citizen Architect: Samuel Mockbee e lo spirito del Rural Studio

Il viaggio, l’archeologia, un’architettura sostenibile dalle 10 alle 13 relazioni di: Carlo Pozzi, Stefano Campana, Ludovico Micara, Ettore Vadini, Franco Farinelli, Barbara Catalani, Marco Del Francia, Edoardo Milesi, Alfredo Padovano coordina Carlo Pozzi dalle 15,30 alle 18,30 tavola rotonda con: Emanuela Carpani, Gianni Bullian, Pietro Pettini, Cristina Scaletti, Pinuccio Sciola coordina Marco Del Francia domenica 12 settembre 2010 ore 10

Il viaggio Presentazione del quarto numero della rivista ArtApp col comitato scientifico della rivista ore 12 Visita alla cantina Collemassari, brunch e degustazione vini Montecucco

Le Giornate di Siloe per la Custodia del Creato 14 agosto - 25 settembre 2010



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