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Marina Pizziolo
“Dobbiamo parlare agli uomini le parole della vita”
Ennio Morlotti, Studio per la copertina di “Uomini e no” di Elio Vittorini, 1945
La giovinezza non è mai un’esperienza facile. Nutrita da un passato troppo breve e bruciata da un’aspettativa di futuro, avvertita prepotentemente come legittima, che confonde desiderio e realtà, in un’improponibile, ma vantata equivalenza di volontà e possibilità, destinata purtroppo il più delle volte a misurarsi con il metro corto degli anni e le realizzazioni approssimative che la vita ci concede. Gli eroi non dovrebbero essere longevi. Se essere giovani non è mai semplice, l’esperienza dei ragazzi che si ritrovarono attorno alla redazione di “Corrente” a combattere sulla barricata della modernità era complicata dall’oggettiva difficoltà e pericolosità dei tempi. “[…] in una strada senza vento inoltri / la giovinezza che non trova scampo”, aveva scritto Vittorio Sereni, in una poesia che poi sarebbe stata pubblicata nella silloge Frontiera, dalle Edizioni di Corrente1. Era il 1941 e la rivista “Corrente” aveva già cessato le sue pubblicazioni, dopo soli due anni di vita: dal gennaio 1938 al giugno del 1940. La sua virata, dall’iniziale ortodossia alla fronda e quindi a una posizione di rifiuto ideologico, per quanto nelle forme ammesse dalla censura, era stata tollerata dal regime, anche grazie all’intercessione politica del senatore Giovanni Treccani degli Alfieri, padre del giovanissimo fondatore della rivista. Era stata però giudicata inammissibile la pubblicazione sulla prima pagina di “Corrente” di un brano di Carlo Cattaneo che argomentava sull’inutilità di ogni guerra, anche se vinta2. Era il 31 maggio 1940. Dieci giorni dopo l’Italia entrava in guerra. Su quale avrebbe potuto essere l’esito della Seconda guerra mondiale, se Mussolini avesse accolto l’idea di Giovanni Treccani degli Alfieri, vale la pena aprire una parentesi. Treccani, infatti, nel 1923 aveva proposto al duce di istituire a Roma una cattedra per tale Albert Einstein, che si stava affermando in Germania. Ma Mussolini non volle, giudicando lo scienziato “un senza patria”3. Ma se Giovanni Treccani, partito come operaio per la Germania e in pochi anni divenuto proprietario di un impero tessile che dava lavoro a quasi quindicimila operai, mecenate, fondatore dell’Istituto Enciclopedico che ancora porta il suo nome, è stato senza dubbio
1 V. Sereni, Compleanno, in Frontiera, Edizioni di Corrente, Milano 1941. 2 C. Cattaneo Della milizia antica e moderna, in “Corrente”, 31 maggio 1940. 3 La vicenda è narrata in uno scritto di Giovanni Treccani, conservato negli archivi della Fondazione Corrente, a Milano.
un uomo geniale, non da meno è stato suo figlio Ernesto. Quella di Ernesto Treccani, infatti, è stata un’avventura culturale straordinariamente precoce. A sedici anni è già iscritto al Politecnico, alla facoltà di ingegneria, dopo aver fatto i tre anni del liceo in uno solo. A diciassette anni, come regalo per i successi scolastici, chiede al padre i mezzi per aprire un giornale. Fonda così il quindicinale “Vita Giovanile”, che assumerà poi il titolo di “Corrente”: rivista che sarà la palestra culturale di un’eccezionale élite intellettuale. Sul foglio la successione di firme ha, infatti, dell’incredibile. Da Giulio Carlo Argan ad Alberto Lattuada, da Antonio Banfi a Luigi Comencini, da Carlo Emilio Gadda a Salvatore Quasimodo, da Vasco 11
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Pratolini a Umberto Saba, da Alfonso Gatto a Giancarlo Vigorelli, da Enzo Paci a Elio Vittorini. “Bisogna pensare alla situazione assurda in cui mi trovavo”, dichiarerà Treccani, “diciassettenne direttore di giornale, a capo di una redazione e di una rosa di collaboratori preparatissimi: praticamente ogni giorno imparavo qualcosa e mi trovavo già nella condizione di doverlo scrivere”4. “Corrente”, comunque, non sarà solo il luogo privilegiato del risveglio politico di tutti questi giovani eccellenti. Non conoscerà solo una virata ideologica, numero dopo numero. La peculiarità di questo giornale è proprio la riconoscibilità al suo interno di una profonda diversificazione di tracciati ideologici. In una nota redazionale apparsa sul secondo numero si legge: “La nostra parola d’ordine è ‘migliorare sempre’. Come la vita, il giornale che la riflette è un continuo divenire”5. E sul quinto numero, in una nuova nota, questo intento viene ribadito: “Non bisogna però tacciare di vuoto eclettismo questa disparità di giudizi: il nostro giornale deve creare un movimento che andrà a poco a poco maturandosi: è dall’urto delle opinioni che uscirà la ‘tendenza equilibrio’ che noi cerchiamo e che adotteremo, sempre tuttavia rifiutandoci di sottoporre i collaboratori a uno schema mortificante di modi di pensare ammessi”6. Sulle pagine di “Corrente”, dunque, i percorsi dei singoli autori si intersecano, si sovrappongono, spesso in una reciproca elisione di contrapposte tensioni ideali. Del resto, il segreto della durata di “Corrente” è non solo nella protezione politica offerta dal padre di Ernesto Treccani, ma anche in questa polifonia culturale. Su “Corrente” trova spazio sia Eugenio Curiel7, allora dirigente del Centro Interno Socialista, sia un esponente del patriziato lombardo come Gian Paolo Melzi d’Eril. E vi si può leggere sia un articolo del senatore Treccani sulla Funzione sociale della ricchezza8, dai toni liberali, sia un articolo di Raffaele De Grada su L’U.R.S.S. e le democrazie occidentali9 che temerariamente arriva a rimproverare ai governi democratici l’errore di aver appoggiato il nazifascismo in funzione antibolscevica, sottovalutando “il pericolo fascista”. L’ortodossia politica di facciata, garantita dalla presenza fino all’ultimo numero del redattore capo Antonio Bruni, si incrina con l’ingresso in redazione, a partire dal sesto numero, di Raffaele De Grada, già collegato al partito comunista, di Vittorio Sereni e Dino Del Bo che, a metà del 1939, avvierà una riflessione profondamente critica sulla necessità di mediazione tra cattolicesimo e fascismo. Questo mentre, numero dopo numero, Ernesto Treccani, giovane esponente dell’alta borghesia, compie la sua maturazione politica, che lo porterà nel giro di poco più di due anni a rinnegare il fascismo, in cui aveva sinceramente creduto, per entrare nelle fila del partito comunista. Se nel gennaio del 1939 Treccani rivendica ancora la possibilità di essere fascista senza abdicare alla propria libertà di pensiero, affermando “Mussolini ha detto: ‘Ubbidire. Credere. Combattere’; ora, tutti ubbidiscono, parecchi credono, pochi combattono. Vi dirò cosa intendo per ‘combattere’: sarà l’equazione eguagliata al termine ‘pensare con la propria testa senza pregiudizi’”10, un anno più tardi, sull’ultimo numero del giornale, dovrà amaramente riconoscere: “A quei tempi credevo ancora alla libertà della mia testa: grossa ingenuità!”11. E sarà proprio Treccani, nei suoi corsivi, ad avviare una severa critica dell’Italietta fascista, che sarà l’espressione più viva del suo avvenuto distacco dall’ortodossia dei suoi esordi giornalistici: “Perché a volte si sente che così non può andare innanzi: che si ha voglia di ridere, di piangere, di parlare con parole comuni dello stupore di un cielo troppo azzurro, di dire ‘sì’ e ‘no’ e non sempre ‘forse che sì forse che no’, e poi di sbagliare, ma di slan12
4 Corrente e oltre. Opere dalla Collezione Stellatelli: 1930-1990, a cura di M. Pizziolo, Charta, Milano 1998, p. 89. 5 Nota senza titolo e firma in “Vita Giovanile”, 1 febbraio 1938. 6 Nota senza titolo e firma in “Vita Giovanile” 31 marzo 1938. 7 Eugenio Curiel, con lo pseudonimo di Pangloss, pubblicò La funzione rivoluzionaria del sindacato sul numero di “Corrente” del 15 maggio 1939. Poco dopo la pubblicazione dell’articolo fu mandato al confino a Ventotene. Durante la Resistenza creerà il Fronte della Gioventù e nel 1945 sarà ucciso a Milano. 8 In “Corrente”, 31 maggio 1939. Nell’articolo si legge: “L’industria, nobilmente esercitata, non è un semplice affarismo, ma elemento di progresso e di benessere, perché applica i ritrovati della scienza rendendoli utili all’umanità e organizza il lavoro rendendolo efficiente come forza nazionale. […] Le cose grandi richiedono grandi rischi e gradi sforzi: la ricchezza privata è la più adatta ad affrontare tali sforzi e tali rischi. Il suo intervento può essere provvidenziale, specie nel campo della cultura e dell’assistenza”. 9 Radeg (pseudonimo di Raffaele De Grada) in “Corrente”, 15 ottobre 1939. “La coalizione liberale-socialista pensò in un primo tempo che il Fascismo fosse la migliore arma antibolscevica. Questo atteggiamento continuò fino a quando costoro non si accorsero del ‘pericolo fascista’ il che sul piano interno avvenne quando il potere era già virtualmente in mano del giovane movimento”. L’articolo metteva in guardia contro il pericolo di un’egemonia nazifascista sull’Europa, domandandosi se il patto russo-tedesco non fosse in
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effetti che il tentativo di Hitler di “cambiare tattica per tentare di realizzare sul piano internazionale ciò che i conati rivoluzionari non gli hanno ancora dato”. 10 E. Treccani, Nostri scopi presenti e futuri, in “Corrente di Vita Giovanile”, 31 gennaio 1939. 11 E. Treccani, Commenti, in “Corrente”, 31 maggio 1940 12 E. Treccani, Gusti polemici, in “Corrente”, 15 novembre 1939. 13 R. De Grada, Molti astratti e un surrealista al Milione, in “Vita Giovanile”, 15 aprile 1938. 14 A. Trombadori, Spagna nel cuore, in “Il Contemporaneo”, n. 29, 21 luglio 1956. 15 In “Vita Giovanile”, 30 aprile 1938. 16 Vedi: A. Bruni, Il riconoscimento di Franco, in “Vita Giovanile”, 1° gennaio 1938 e C. Belingardi, Il nuovo nazionalismo spagnolo, in “Vita Giovanile”, 30 aprile 1938. 17 F. García Lorca, Canzone della morte piccina, traduzione di L. Panarese, in “Corrente”, 15 gennaio 1940. 18 Guttuso racconta l’importanza simbolica che Guernica rivestì per tutto il gruppo di Corrente: “Nel 1938 Brandi mi inviò una cartolina con la riproduzione di Guernica. La tenni nel mio portafoglio sino al ’43, come una tessera ideale di un ideale partito”, in Guttuso, Mestiere di pittore: scritti sull’arte e la società, De Donato, 1972, p. 62. Ricordando le serate passate in casa De Grada negli anni di guerra Vedova scriverà: “C’erano con noi, già grandi e sviluppate, le fotografie di ‘Guernica’, e ‘Guernica’ veniva a far parte della storia italiana. A ‘Guernica’ ci ispirammo, a ‘Guernica’ domandammo le parole più forti, l’impeto più
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cio, come una macchia improvvisa, come uno squarcio non rattoppato! E poi odiare le convenzioni, i grandi idoli di cartapesta, di cui non si può parlar male per tema di scomunica, i grandi piccoli nomi che si puntellano a quelli con grandi genuflessioni e copiano, ricopiati, i correligionari, di reale valore, il tutto in un bisbiglio di giudizi appena iniziati per paura di mostrarsi contrari all’interlocutore, in un acre odore di sacrestia”12. Una delle battaglie di “Corrente” sarà quella della libertà dall’ossequio ai miti culturali nazionali. La scelta della modernità che, come sostiene appassionatamente De Grada, “non è argomento di forza di una minoranza faziosa, ma argomento etico di una minoranza progressiva”13, è una scelta che, come esclude la possibilità di isolare in circoscritti moti regionali la dialettica delle arti – secondo la politica delle mostre sindacali – esclude quella di restringere l’orizzonte culturale all’Italia. “Per la prima volta guardammo in modo nuovo all’Italia”, scriverà Antonello Trombadori, “isolata dal resto del mondo, tristemente percossa da uragani di retorica, tristemente ancorata alle sue viltà borghesi, tristemente benedetta dai suoi aspersori papali”14. Guardare all’Europa è una necessità che troverà su “Corrente” una difesa coraggiosa, a tratti temeraria. Come quando Raffaele De Grada arriverà a sostenere che la capitale della cultura italiana era Parigi e non Roma, insorgendo contro la campagna di “autarchia intellettuale” intrapresa da alcuni scrittori perché il governo ponesse una limitazione di legge al numero delle traduzioni pubblicabili in Italia, in modo che tale numero fosse adeguato alla produzione intellettuale italiana. De Grada stila un lungo articolo, Autarchia intellettuale… e altre cose15, in cui prende posizione contro questa campagna “viziata alla base da uno spirito d’oscurantismo così scandaloso, da far rabbrividire”, e avverte che “pestare i piedi e rumoreggiare e tuonare non valgono a nulla contro lo spirito stesso, il quale valica le frontiere in barba a tutti e a tutto, e reagisce solo se gli si opponga altro spirito”. Le idee si combattono con le idee “e non c’è da far assegnamento su una politica doganale che non può portare se non all’acrimonia e all’isolamento”. De Grada proseguiva quindi nel dimostrare non solo l’inutilità, ma addirittura la dannosità di una protezione legale del pensiero: perché il problema per gli scrittori italiani era quello di trovare la via per arrivare al cuore del pubblico che, non certo in ragione della semplice presenza sul mercato librario, continuava a preferire la letteratura straniera. Per dare nuovo respiro alla letteratura italiana occorreva, invece spalancare le finestre e far entrare il canto dei poeti: anche di quelli che erano stati ridotti al silenzio. Sulle pagine di “Corrente” arrivano così in Italia le prime traduzioni di García Lorca. Se sulla questione della guerra di Spagna il giornale non aveva che riecheggiato le posizioni del regime, con due articoli perfettamente allineati16, come non dare un significato politico alla pubblicazione dei versi del poeta spagnolo fucilato dai franchisti: “Prato mortale di lune / e nella terra sangue. / Prato di sangue antico”17? O dei versi di Jiménez o di Machado, che aveva dovuto abbandonare la Spagna allo scoppio della guerra civile? E allo stesso modo, come non dare un significato politico alla pubblicazione delle poesie di Eluard, Eliot o Yeats, proprio mentre era in corso una feroce campagna denigratoria contro Francia e Inghilterra, indicate come bieche “plutocrazie occidentali”? Certo, non era una presa di posizione politicamente esplicita, che del resto la censura avrebbe subito represso, ma era la provocatoria affermazione delle ragioni di un pensiero che ci si ostinava a volere libero. Difendere la libertà della cultura era il mezzo per assaporare la libertà: che poteva vestire il lutto squarciato di luce di Guernica18, l’acqua delle parole di Hemingway, la nuova musicalità di Béla Bartók. 13
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A un regime che aveva esteso la trama del suo controllo fino a invischiare qualsiasi manifestazione della vita sociale, a un regime che voleva declinare ogni espressione del pensiero – perché in un’Italia fascista non poteva esistere altro che un’architettura fascista, una letteratura fascista, una pittura fascista – gli artisti di “Corrente” oppongono un’arte libera. L’arte non può essere lo schermo della verità rivelata dal regime, deve saper trovare la verità in un confronto appassionato con il reale. L’aveva argomentato il filosofo Antonio Banfi, sulle pagine della rivista: “L’arte non conosce altra norma, altra tradizione che la sua vita […]. L’arte è oggi in crisi, come è in crisi la cultura tutta; ma crisi è vitalità più intensa che percorre – come a primavera – le radici stesse dell’essere. L’arte vuol vivere e la vita è una cosa sola con la libertà”19. L’equivoco della vita: quante volte questo termine, in apparenza apodittico, è stato assunto da sistemi ideologici ansiosi di arrogarsi l’assolutezza dell’essere. Anche l’ideologia fascista inizialmente si era proposta come vitalistica: ma in un regime totalitario la retorica della vita affoga fatalmente nella retorica dello Stato, in cui l’individuo si annulla. Non a caso, al di là della sua nebulosa mistica, quando il fascismo parla di vita, chiama la vita fisica, la vita come luogo del corpo, sportivo perché forte, forte perché militare. Così come il mito della salute è il corridoio mentale per giungere alla sanità della razza. La vita rivendicata dai cantori di “Corrente” è, invece, la vita come luogo del sentimento, accadimento breve che si nutre del tempo. Non il tempo sovrumano delle realizzazioni collettive, non il tempo politico, ma il tempo etico. Non il tempo della presunzione della ragione, ma il tempo dell’audace irragionevolezza della passione. Dunque, libertà è anche la possibilità di accordare la propria vita, la propria arte, alle ragioni del cuore. Se l’edificio crociano dell’unità spirituale aveva continuato a tenere severamente distinte l’etica dall’estetica, la logica dalla pratica, è ora il tempo della passione della ragione, della bellezza morale, perché “in arte, come altrove, il problema è un problema d’etica. Bisogna rivalorizzare la persona umana. La qualità dell’invenzione stessa è a questo prezzo”. Davanti al “dramma quotidiano” non è più possibile abbandonarsi a un beota ottimismo “senza dimetterci dalla nostra posizione di uomini”20. La contestazione della “pattuglia di Corrente”, salita sulla barricata della modernità, non può dunque fermarsi al dato formale. Perché le ragioni di questa contestazione “non sono ragioni di pura forma o colore”, ma riguardano invece “prima di tutto un’evoluzione di sentimenti”21. Il problema linguistico, che aveva fino ad allora monopolizzato l’attenzione critica, minacciando “di fossilizzare quei contenuti umani di cui il linguaggio è l’unico interprete ma non l’unico pacificatore”22, mette in guardia De Grada, davanti alla volontà di rapportare il discorso artistico alla vita, scade a strumento del dire. “Quando l’arte sia veramente creazione e non mestiere”, continua De Grada, “quando creazione sia necessariamente novità e novità d’arte, rivoluzione spirituale; allora preoccupiamoci, oltreché dei mezzi di linguaggio per rivelare noi a noi stessi, per conoscere noi stessi attraverso le immagini della nostra fantasia, anche del processo civile nella sua complessità, perché i rapporti del fatto arte col fatto totale siano più chiari, per acquistarne piena coscienza”23. Questo è il neo-romanticismo degli artisti di Corrente: questo loro guardare alla storia non come mito in divenire, secondo l’alibi neoclassico di Novecento, ma come realtà che il ritratto può modificare, in un coinvolgente gioco di specchi. Il fascismo non sapeva che farsene di un’arte chiusa nel suo imperterrito solfeggio formale, come non sapeva che farsene di un’arte persa nel dedalo cerebrale dell’astrazione, dove la vita si era prosciugata. Voleva 14
deciso” in E. Vedova, Pagine di diario, Galleria Blu, Milano 1960, p. 23. 19 A. Banfi, Per la vita dell’arte, in “Corrente”, 28 febbraio 1939. 20 M.G., Arte e pubblico, in “Vita Giovanile”, 30 aprile 1938. 21 G. Ferrata, Bartolini, Cézanne e gli ermetici, in “Vita Giovanile”, 31 maggio 1938. 22 R. De Grada, Invito alla discussione, in “Corrente”, 31 gennaio 1940. 23 Ibid.
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un’arte realista: ottenne un’arte che elevò il quotidiano alle gelide soglie del mito o un’arte di scadente illustrazione. Un’arte realista, capace di attingere al reale non per proporne una banale riproduzione, ma per modificarne la visione, riuscì invece agli oppositori che, al riparo dagli “uragani di retorica” del regime, respiravano avidamente il vento delle cose. Un aggressivo realismo L’aspirazione della generazione di “Corrente”, come scrive Morosini, è dunque a un “aggressivo realismo”24. De Grada puntualizzerà che l’idea unificatrice dell’esperienza di “Corrente” è stata la convinzione “che la rivoluzione romantica non fosse ancora conclusa definitivamente; che i contenuti di libertà che l’avevano animata erano ancora da esaurire; e che quella rivoluzione, per continuare e concludersi, doveva essere ricondotta alle origini. Il processo verso l’astrazione era stata la sua involuzione. Il progresso verso il realismo sarebbe stata la sua evoluzione”25. Il realismo di Corrente, inteso come pensiero pittorico del vero, liberato dalle pastoie del naturalismo e del provincialismo che avevano segnato tanta arte dell’Ottocento italiano, deve però fare i conti con il fatto che in Italia, dal 1926, un’opera apertamente antifascista non solo non si poteva esporre, ma costituiva reato. Sarà questa la ragione che impose a chi aveva abbracciato una poetica che pretendeva di saldare l’etica all’estetica di servirsi del traslato simbolico, quando il contenuto avrebbe rischiato di far calare sulla sua opera il velo della censura. La religione e il mito, con la loro figurazione fortemente evocativa, forniranno quindi i codici di accesso alla dimensione dell’opposizione ideologica. Come però sottolinea De Grada, Corrente ha il grande merito di aver tolto “il mito alle imbolsite metafisiche del novecentismo ponendolo al servizio dell’uomo”26. L’opzione realistica, per gli artisti di Corrente, è comunque qualcosa di molto lontano dalla piatta traduzione veristica. Già nel primo numero di “Vita Giovanile”, il titolo con cui la rivista appare per la prima volta in edicola, Arnaldo Badodi aveva confutato il presupposto naturalistico di un vero oggettivo: “Cos’è questo vero che si richiede all’artista, altro che una banale espressione che vorrebbe richiamarlo a un ordine apparente? Essendo i rapporti esistenti tra la natura e gli uomini tanti quanti sono gli uomini, giacché ogni individuo riceve emozioni particolari relative alla sua complessità morale, è evidente che non è possibile ammettere in arte un vero categorico ed unico. Ma se non possiamo ammettere un vero assoluto possiamo bensì parlare del mondo reale dell’artista. Ma la realtà dell’artista, che è la natu24
D. Morosini, Appunto su Soffici, in “Corrente”, 15 febbraio 1940. 25 De Grada, Il movimento di Corrente, Edizioni di Cultura Popolare, Milano 1975, p. 25. 26 Introduzione di R. De Grada in Erhard Frommhold, Arte della Resistenza. 1922 - 1945, La Pietra, Milano 1970, pp. 12 e 13. 27 A. Badodi, Pittura e Pubblico, in “Vita Giovanile”, 1° gennaio 1938. 28 Ibid.
ra da lui sognata e quindi espressa, non è altro che ciò che egli rappresenta su una tela od attraverso una scultura: è quindi ciò che egli fa. Ne deriva che la deformazione è un principio fondamentale dell’arte; e la deformazione – come volgarmente su usa dire oggi – non equivale ad abbrutimento”27. Il ritorno all’ordine, invocato dai sostenitori di un’arte tesa ad esibire “una evidenza estetica” era quantomeno sconcertante: “L’arte è un’ascesa (e non un ritorno)”28, concludeva Badodi. All’inconfutabile evidenza formale dei depositari della verità, gli artisti di Corrente oppongono quindi la vibrazione della linea, lo sfarfallio del colore. All’ottusa plastica muscolare dei titani chiamati dal dittatore, oppongono l’antiretorica delle loro forme umane abbreviate. All’orbace nera oppongono il fremito della pelle nuda. I maestri a cui guardare sono gli espressionisti tedeschi, capaci di flettere il reale con l’esuberanza dell’emozione, e gli impressionisti, con il loro insegnamento di “moralità e di libertà espressiva”29. De Grada, in 15
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una lunga recensione della Biennale di Venezia del 1938, enuncia il suo credo realista: “Se l’arte ‘bella’ è morta, secondo la profezia di Hegel, non per questo è morta l’arte che si è armata e si sta armando per dare una forma eterna ai nuovi dilaganti contenuti di vita. E che questa vita dilaghi, che questo fiume in continuo divenire per il fluire stesso delle acque straripi e rompa gli argini, questa è la nostra continua speranza, e ci bagni della sua acqua sempre nuova. Soltanto quando avremo assaggiato la sua acqua noi lo conosceremo e lo sapremo di nuovo arginare senza più temerlo con la paura del selvaggio più o meno bene educato. Che i chierici tradiscano e si sprofondino nei nuovi contenuti di realtà forti del diritto di arbitrio che non può essere se non libero. In questo senso noi crediamo che il realismo presieda al rinnovamento dei popoli e delle civiltà e la astrazione alle decadenze. Ma la nostra vuole essere la realtà profonda, quella che alla macchina è muta e che risponde soltanto all’evocazione dell’uomo”30. Il rapporto tra critici e artisti, nel caso di Corrente, è stato singolare. L’implicazione degli uni e degli altri, la partecipazione a qualcosa che con lucidità era avvertito in divenire, rende oggi difficile capire se l’affermazione del credo realista ha preceduto o seguito l’affiorare dalle opere di un’identità linguistica nel segno della realtà. Sono stati i critici a instillare negli artisti l’esigenza di un’appassionata coerenza tra arte e vita, che non poteva che esprimersi nel linguaggio della realtà? O sono stati gli artisti con i loro quadri “pregni, scottanti e abbandonati”31, come li definirà Ennio Morlotti, con le loro opere, “bolle crepitanti da una lava colorata”32 secondo le parole di Treccani, a suscitare una riflessione critica dal valore propositivo, fondante? Certo è che il movimento di Corrente non è nato dalla promulgazione di un manifesto. La più compiuta espressione della poetica del gruppo è affidata, infatti, ai numeri speciali della rivista, usciti in occasione delle due grandi mostre organizzate a Milano, nel 1939, proprio per fornire una serie di immagini di riferimento alla polemica avviata in campo artistico33. La finalità della prima esposizione, volta a esplorare con un taglio dichiaratamente tendenziale la scena artistica milanese, viene indicata nella volontà di evidenziare uno scopo morale “di protesta contro quanti si trastullano in un impossibile idillio, contro quanti guardano all’antico con la compiacenza del pigro che si sente lusingato nella sua pigrizia e finge la enfasi del forte a ragion veduta, contro quanti infine guardano alla realtà con gli occhi di tutti per compiacere tutti”34. Ma sarà la seconda mostra, questa volta a carattere nazionale, a offrire la possibilità di una precisazione di intenti. Una lunga nota redazionale, posta sotto il titolo Continuità, chiarisce le ragioni dell’insistenza sul realismo, che era a base della polemica artistica intrapresa dalla rivista. “[Il realismo], questo sì, era un problema che soprattutto preoccupava noi giovani, perché condizione delle nostre certezze spirituali era un libero esame di quella ‘realtà’ che si andava creando intorno a noi, ‘realtà’ che noi dovevamo conquistare con le nostre forze per sentirla veramente nostra, senza incertezze”35. Sempre in prima pagina, un articolo di De Grada ha valore di manifesto estetico: “Di fronte poi alle eventuali accuse di eclettismo o di faziosità invitiamo a considerare il nostro concetto di una aristocrazia spirituale che non può pretendere d’incidere aprioristicamente su una cultura, ma deve da questa stessa cultura nascere siccome il fiore dalla terra per germinazione spontanea. Con ciò si rientra nel naturale concetto di un superiore ‘realismo’ che accoglie per esempio tutte queste diverse forme di interpretazione spirituale che noi qui abbiamo raccolte. È questa la nostra Corrente, quella che si deve formare spontaneamente per un naturale 16
29 R. De Grada, L’arte contemporanea in Italia alla XXI Biennale di Venezia, in “Vita Giovanile”, 30 giugno 1938. 30 Ibid. 31 E. Morlotti, Ci si riconobbe tra i tanti, in “Realismo”, numero monografico dedicato alla Resistenza, n. 2, marzoaprile 1955. “Ripensandoci ritengo che la cosa più importante di allora fosse il principio corale. C’erano giovani che stavano insieme e si stimavano, credevano all’autonomia di una generazione, avevano la coscienza della minoranza. Disprezzava la burocrazia e l’ufficialità, si opponeva all’indecenza e alla menzogna, premeva sulle regioni della poesia e stimolava la dignità individuale . Era “Corrente” contro corrente. […] Io non pensavo neanche allora che tutto fosse oro colato, però ognuno di questi giovani avrebbe dato anche la camicia a chi non l’aveva e aveva veramente uno sprezzante disinteresse. […] i loro quadri erano pregni, scottanti e abbandonati”. 32 E. Treccani, Arte per amore, Feltrinelli, Milano 1978, p. 224. “La nostra pittura della generazione antifascista, in tutti gli anni dal ’30 al ’45 ha fatto bolle crepitanti da una lava colorata al cui fondo stava la rivoluzione, guerra e morte anche se poi i colori erano di tenere colline o di luci fredde sui vetri”. La nota è datata 1965. E cfr. la testimonianza di Treccani, ivi, pp. 35-36: “Nel pomeriggio Morosini viene a vedere la Fucilazione, l’autoritratto ecc. Trova della retorica, specie nella parte di sinistra del quadro grande e nell’autoritratto. Evitare la magniloquenza: attenzione al michelangiolismo. Molta altra gente vede il quadro; i giudizi sono diversi, tutti
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mi sembrano disorientati. I disegni invece piacciono molto. Aspetto il giudizio di Bruno [Cassinari] e di Ennio [Morlotti], specie di Ennio”. La nota è datata luglio 1943. 33 La prima si aprirà il 18 marzo, al Palazzo della Permanente, sulla scelta della sede influì il fatto che il conte Giovanni Treccani era in quegli anni Presidente della Permanente, la seconda, si aprirà invece il 15 dicembre alla Galleria Grande al numero 2 di via Dante. Sarà proprio questa seconda mostra a illustrare il fronte artistico che era andato formandosi attorno alla rivista. Il nucleo storico formato da Birolli, Cassinari, Migneco, Badodi, Cherchi, Valenti, si arricchisce di alcuni elementi romani come Guttuso, Mafai e Franchina. A questi fanno corona alcuni dei vecchi compagni di strada, Genni, Manzù, Mucchi, Cantatore, Tomea, Panciera, Tallone, ai quali si aggiungono i nuovi: Fontana, Broggini, Hiero Prampolini, Antonio Filippini, Aldo Salvadori, Mauro Reggiani, Santomaso, Pericle Fazzini, Afro, Mirco (sic), Domenico Caputi, Pirandello, Luigi Montanarini, Orfeo Tamburi. 34 N.d.R., Finalità e propositi della nostra mostra, in “Corrente”, 31 marzo 1939. 35 N.d.R., Continuità, ivi. 36 R. De Grada, Avvio alla mostra, ivi. 37 Di R. Birolli “Corrente” pubblicherà una serie di quattro interventi sul tema della città: Città: con riferimento all’amore, 31 luglio - 15 agosto 1939; Città: con riferimento alla pittura, 30 settembre 1939; Città con riferimento all’uomo, 15 gennaio 1940 e Città con riferimento a un’esperienza, 15 maggio 1940. Da Città: con riferimento alla pittura: “L’uomo - però - quando
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impulso storico alla successione spirituale della cultura nelle sue diverse manifestazioni. Essa ripudia l’equivoco morale (‘giocare’ all’arte e alla cultura è redditizia funzione della maffie dello spirito), così come ripudia l’astensionismo egoistico di chi vorrebbe un monachesimo moderno con sacrilego rinnegamento dei valori della vita”36. Ormai l’urlo che aveva infranto la linea baldanzosa dell’arte imperiale in una vibratile esperienza delle forme deve giungere al cuore delle cose. Se l’arte si è ricongiunta alla vita, deve abbandonare il suo silenzio scontroso. Lo annuncia la riproduzione, nel numero catalogo della seconda mostra, di due opere che non saranno invece esposte. L’impiccato di Domenico Caputi, dove il messaggio è blandito dall’identità del martire, un gallo, e una Fantasia di Mafai, con l’accanirsi armato di uomini scuri contro corpi nudi, inermi. L’urgenza espressiva di Corrente, dopo aver corroso le forme, intacca la sostanza delle cose, il racconto della realtà. L’esigenza contenutistica, che assume accenti sentimentali nelle parafrasi di Birolli sulla città37, viene argomentata coralmente sulla rivista dagli interventi di Cantoni, Morosini, De Grada38, Bini, Formaggio, che si susseguono nei mesi precedenti la seconda mostra. Se Sandro Bini, in una nota su Courbet, indica il realismo come la “prima conversione storica” della rivoluzione romantica “in un risultato civile”, per aver saputo opporre “al carattere eroico del romanticismo” “un programma di nuove aderenze alle responsabilità della
Locandina dello spettacolo d’arte realizzato nel 1941 a Milano dal gruppo di Corrente. Tra gli attori c’è Giorgio Strehler, mentre la regia è di Paolo Grassi
vita quotidiana”39, Dino Formaggio allarga la corresponsabilità morale del fatto artistico a tutti, giacché “tutti, fatti uomini di buona volontà, dobbiamo lavorare con coscienza ed intransigenza insieme all’instaurazione dei veri valori spirituali”40. Le coordinate di un’identità Ma nemmeno sull’identità di Corrente come matrice stilistica c’è parere unanime. De Grada, ad esempio, ha sempre sostenuto il primato del contenuto su quello della forma. Affermazione che si salda alle ragioni morali di un movimento che si identifica in un reale progetto di rinnovamento della società. “Il richiamo alla vita, alla concretezza del reale era per noi continuo”, scriveva nel 1975, “con tutte le contraddizioni che essa tuttavia comportava (le esaltazioni e le viltà, la prospettiva del domani e lo scoraggiamento dell’oggi, l’idea della moralità assoluta e la falsa coscienza del fascismo)”41. D’altra parte, al di là delle presunzioni teoriche, un esame delle opere non può che confermare la sua tesi. Non è sicuramente lo sti17
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le il mastice di opere quali Gabbia bianca e foglie di Guttuso, I ragazzi sotto il fico di Migneco o Il caos II di Birolli. Il comune denominatore è piuttosto un gradiente di ansia, inquietudine, sofferenza, ira che si esprime nel racconto di storie che hanno il valore di parabole, dipinte nel linguaggio della realtà, o meglio della percezione del suo disegno, che ovviamente è un’espressione del sentire del singolo autore. Uno dei messaggeri riconosciuti di Corrente, Scipione, aveva scritto: “Le civette gridano, tutto si muove /e l’angoscia riempie l’aria /di inquietudine”42. In che misura è stata l’immane portata del dopo a gettare sul movimento di Corrente un faro destinato a creare una lettura delle cose in un drammatico e perentorio bianco e nero? Senza possibilità di mezze tinte? In che misura, sull’interpretazione della portata del movimento, ha inciso la dimensione irrimediabilmente ideologica degli anni del dopoguerra? La visibilità è un concetto strano, in ambito storico. Nel senso che, spesso, più un evento è lontano meglio si riesce a leggerlo, come se la distanza temporale fosse una lente d’ingrandimento, capace di mettere a fuoco quanto era distorto dal vento delle passioni. Una considerazione che, riferita a un movimento come Corrente, frutto di un’ardente passionalità, civile prima che politica, morale prima che culturale, rivela tutta la sua verità. Anche perché, trattandosi di un movimento che, limitando qui il discorso al settore figurativo, investì l’arte e la critica, offrì per anni nel dopoguerra l’insolito scenario di ex-attori nel ruolo di esegeti. Infatti, il connubio strettissimo che vissero critici e artisti, spesso complici nell’elaborazione di un messaggio che doveva essere criptato nei segni e nei colori, per evitare la censura, se da una parte offrì ai critici un ravvicinato, privilegiato osservatorio, dall’altra, negli anni successivi, rappresentò il limite invalicabile per offrire una lettura del movimento scevra di condizionamenti. Ma chi avrebbe potuto vantare una libertà incondizionata nel secolo scorso? Quando i concetti diventavano inevitabilmente grimaldelli per accedere al terreno della politica, dove lo scontro non era tra idee ma tra ideologie e tutto era esasperato nella logica di uno scontro che si voleva di classi, quindi legato a una logica ineluttabile? Ma, prima di addentrarci in una disamina critica delle opere, è opportuno tracciare delle precise coordinate al fine di individuare il nostro obiettivo. Coordinate nominali e temporali. Procediamo, dunque, innanzi tutto all’identificazione dei protagonisti del movimento: operazione non banale, dal momento che non è possibile individuare gli artisti tramite una firma in calce a un manifesto. I criteri identificativi sono, invece, molteplici. Nemmeno il criterio storico fornisce, infatti, indicazioni immediatamente univoche, in quanto l’attività della rivista fu continuata dalla Bottega di Corrente e poi dalla Galleria della Spiga43, e sfuma nell’attività editoriale collegata. Limiteremo il gruppo agli artisti che hanno partecipato alle due mostre organizzate dalla rivista? Con la possibilità di includere o meno quelli che già all’epoca venivano indicati come “compagni di strada”. O lo estenderemo agli artisti presentati alla Bottega? Oppure adotteremo un criterio storiografico, ossia vorremmo tenere conto dell’identificazione fornita in occasione delle rassegne ordinate da testimoni privilegiati, come De Grada e De Micheli, o dell’esplicita dichiarazione di appartenenza fornita dagli artisti aderenti a iniziative celebrative del movimento? Appare evidente la necessità di applicare più di un criterio. Infatti, se l’indicazione storiografica non è per sua natura univoca, dipendendo dalla lettura dei diversi curatori, l’applicazione di un criterio rigidamente storico non consentirebbe, ad esempio, l’inclusione di Sassu, che non poté collaborare alla rivista o partecipare alle due mostre programmatiche per la sua condizione di sorvegliato 18
le chiacchiere di quartiere o d’ufficio o di studio o di salotto non lo ripiegano sull’infimo; l’uomo - però - quando non vive come il pappagallo in gabbia (padrone della gabbia); quando non scambia il tragico limite per sazietà: involontariamente è vòlto a ritrovare il fondamento di tanti fattori di vita rimasti inevasi, meglio inattuati e sotto sotto pressanti; ma attorniato com’è da romantiche concezioni che gli promettono la conquista dei complementari di vita, non può accorgersi che una volta spacciate per complementari le cose fondamentali, egli vi può di volta in volta rinunciare, diventando esigentissimo nel richiedere le sciocchezze”. 38 Cfr.: R. Cantoni, Per gli artisti e con gli artisti. Contro i retrogradi, in “Corrente”, 15 settembre 1939; D. Morosini, Appunti su Fontana, in “Corrente”, 15 ottobre 1939; R. De Grada, Mostre d’arte, in “Corrente”, 30 novembre 1939. 39 S. Bini, Courbet (nota sociale), in “Corrente”, 30 settembre 1939. 40 D. Formaggio, Figure dell’estetica francese contemporanea. Henry Delacroix di fronte al problema dell’arte, in “Corrente”, 30 novembre 1939. 41 R. De Grada, Il movimento di Corrente… cit., p. 27. 42 Scipione, Le civette gridano, Milano 1938. 43 I progetti espositivi della rivista verranno ripresi dalla Bottega di Corrente, aperta a Milano, al numero 9 di via della Spiga, che verrà inaugurata il 12 dicembre del 1940 con una personale di Birolli. Nel 1941, tra gennaio e maggio, la Bottega di Corrente ospiterà le personali di Migneco, Paganin, Cassinari, Badodi, Sassu, Broggini, Cherchi, Valenti, e
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chiuderà in giugno con una collettiva a cui, oltre a questi, saranno invitati Birolli, Fontana, Gauli e Lanaro. La progettata mostra di Guttuso si svolgerà invece alla Galleria Barbaroux, con il sostegno economico del collezionista e mecenate Alberto Della Ragione. E sarà Della Ragione a permettere l’apertura della nuova Galleria della Spiga, che assumerà poi il nome di Galleria della Spiga e Corrente, al primo piano dello stesso edificio che, a piano terra, aveva ospitato la Bottega di Corrente. La nuova galleria verrà inaugurata il 28 marzo del 1942 con una mostra di disegni inediti di Scipione, alla quale seguiranno le personali di Birolli, Santomaso, Prampolini, Savelli, De Felice, Migneco, Bartolini, Maccari. Nel febbraio del 1943 sarà la volta di una mostra a tre – Cassinari, Morlotti e Treccani – mentre in marzo si terrà una personale di Vedova. Proprio durante quest’ultima mostra un’irruzione della polizia politica porrà termine all’attività della galleria. L’attività editoriale progettata dalla rivista si realizzerà, intanto, in quelle Edizioni di Corrente che tra il 1940 e il 1942 daranno vita a una serie di pubblicazioni organizzate in distinte collane: di letteratura, d’arte, di teatro, di musica. 44 Nel marzo del 1941, quando ormai la pubblicazione della rivista era stata vietata, Sassu ordinerà però la prima mostra dei suoi Uomini rossi alla Bottega di Corrente. 45 Vedova così scriveva in una litografia per una cartella edita nel 1967, in occasione della mostra Trent’anni di Corrente, realizzata alla Galleria Trentadue di Milano. Corrente. Litografie. A. Badodi, R. Birolli, B. Cassinari, S. Cherchi, L.
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speciale, seguente alla detenzione di oltre un anno per motivi politici44. La rosa di artisti individuati, con tagli inevitabili, allarga il nucleo storico più accreditato del movimento – Badodi, Birolli, Cassinari, Cherchi, Guttuso, Migneco, Morlotti, Sassu, Treccani, Valenti e Vedova – alle personalità che, in una dialettica molto viva, contribuirono a creare la poetica di Corrente. O come precessori, nel caso di Scipione, o come “compagni di strada”, nel caso ad esempio di Manzù o Tomea, o come riconosciuti artisti di riferimento nella definizione del nuovo ideale di realismo, come Fontana, Pirandello o Santomaso. Corrente, ad ogni modo, fu tutt’altro che un’esperienza di accettata concordia sui modi del fare arte. “Una dimensione di scontro. Uno spazio di avvenimenti. Una caduta di miti imperanti”: questa la definizione che ne darà Vedova45. “Corrente fu soprattutto un luogo di incontro e di scontri tra alcuni giovani che avevano idee originali ed anche il coraggio delle loro idee”, testimonierà Guttuso. “Niente era pacifico in Corrente”46. “Un movimento contraddittorio”, scriverà Treccani: “vi erano tra noi delle differenze, non soltanto di età e di temperamento, ma di propositi e di prospettiva”47. Mentre De Grada riconoscerà al movimento il merito “di non aver soffocato gli apporti individuali e originali di ognuno in una coralità che stava diventando nuova visione del mondo”48. Così, all’appassionato realismo di Guttuso che guardava a Picasso, scagliandosi contro “il mito della ‘pittura’, un astratto regno, staccato dall’uomo e dai suoi pensieri e dalle sue azioni”49, Birolli, che con il suo espressionismo lirico si era riconosciuto nell’insegnamento di Ensor e Van Gogh, aveva opposto un sentimento meditato delle cose: “Essere naturali in arte è una fatalità dell’artista, non è un ricordo del vero”50. Questo mentre Morlotti con il suo antivangoghismo e il suo dichiarato richiamo a Cézanne e alla lezione cubista “era partito come una specie di ‘anticorrente’ (in questo caso di ‘anti-Birolli’) in Corrente”51. E Sassu traeva dallo studio dell’Ottocento francese, dalle opere di Delacroix, Courbet, Renoir, il fuoco per far divampare i suoi quadri di denuncia. All’interno del gruppo le tensioni sono riconducibili, comunque, a due poli: Birolli e Guttuso, alfieri di quella contrapposizione tra formalismo e contenutismo, ricomposta solo dall’urgenza etica di costituire un fronte unico negli anni della guerra: “Poi vennero ad insegnarci il ‘tono’ e la ‘materia pittorica’ e ci fornirono la stolida polemica dei calligrafi e dei contenutisti con l’obbligo di scegliere o di qua o di là”52. Se consideriamo poi il problema in una prospettiva diacronica, le cose si complicano ulteriormente. Corrente, infatti, conoscerà, anche in campo prettamente artistico, non solo una sovrapposizione di tracciati ideologici, ma anche una rapidissima evoluzione. Il viraggio, sincopato in un periodo brevissimo, tra il 1938 e il 1943, è da un dissenso che si limita alle forme del linguaggio artistico sostenuto dal regime, dalle prime manifestazioni antinovecentesche, a una pittura concepita come inderogabile impegno morale e civile. A quell’urlo “con la pittura vogliamo innalzare bandiere”53 che si alzerà dalla barricata dell’arte eretta contro la barbarie. E veniamo alle coordinate temporali. Quale periodo prendere in considerazione? Quello della durata della rivista, dal 1938 al 1940? O fino al 1943, in modo da includere l’esperienza espositiva della Bottega e della Galleria della Spiga, nonché le indicazioni desumibili dal catalogo delle Edizioni di Corrente? Oppure fino al 1945, considerando questa data un’ideale cesura storica? Per quanto riguarda il primo termine, poi, è utile anticiparlo al 1930, in modo da cogliere il lievito di opere che precorrono Corrente, anticipandone lo spirito polemico? In effetti, Corrente è il centro dove convergono vettori di un’op19
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posizione, culturale e politica, provenienti da un area geograficamente e ideologicamente vasta. Un’area che nella stratigrafia del tempo comprende sia la Torino dei Sei, sia la Roma della Scuola di via Cavour, fino alla Milano di Edoardo Persico54, la Milano dove Sassu, Birolli e Manzù intorno alla metà degli anni trenta vivono la loro prima stagione. Mario De Micheli, uno dei teorici del movimento di Corrente, lo conferma: “La rivista di Corrente ebbe il merito di raccogliere e in qualche modo di tenere insieme, organizzare queste spinte culturali d’opposizione, offrendo ad esse una piattaforma d’incontro e di dibattito. Quando si dice quindi movimento di Corrente, tale denominazione va intesa solo in questo senso, non già nel senso che sia stata la rivista a suscitare il movimento stesso: la rivista medesima diventò importante solo perché in essa, ad un certo punto, si riversò una corrente di pensiero e d’arte, che già scorreva per vene diverse nel corpo della cultura più viva e sensibile di quegli anni”55. Anticipare il primo termine al 1930 permette, in effetti, l’analisi delle opere degli artisti che, per motivi anagrafici, a quell’epoca avevano già affinato un loro linguaggio e, quindi, di cogliere eventuali filiazioni stilistiche. Birolli, sicuramente uno dei leader del movimento, non a caso è il più anziano, essendo nato nel 1905. Tra lui e Treccani, il più giovane, ci sono quindici anni di differenza: un lasso di tempo davvero importante negli anni della formazione. Se, dunque, per l’inizio dell’esplorazione si può stabilire un argine temporale fluttuante tra il 1930 e il 1938, per il termine ultimo l’oscillazione può essere tra il 1940 e il 1945: un termine non procrastinabile, dato che la fine del conflitto determina un vero salto epocale. La decisione, nell’ordinare questa mostra, è stata quella di allargare la nostra indagine al periodo 1930-1945, in modo da cogliere alcuni antefatti emblematici e seguire il severo riverbero della guerra nelle immagini degli artisti. Altra direttiva di lavoro, nel comporre il percorso espositivo, è stata quella di privilegiare le opere pubblicate su “Corrente”, esposte alle due grandi mostre organizzate dalla rivista o a quelle ordinate nelle gallerie che ne continuarono l’attività. Questo per ricostruire il più fedelmente possibile le reali indicazioni estetiche e il clima dell’epoca. Si è voluto poi attingere in larga misura alle opere conservate nei musei milanesi: memoria dell’attenzione a un movimento la cui storia si interseca in maniera così significativa con la storia di Milano. Il coraggio della discordia “Non vi può essere forza se non c’è il consenso e il consenso non esiste se non c’è la forza”56. Questo uno degli enunciati della pratica di governo di Mussolini. Se il fascismo, infatti, ha bruciato chi ha avuto l’ardire dell’aperta eresia politica, non ha commesso l’errore di reprimere sempre la cultura dissidente. In alcuni casi – e in questo senso la progressiva lucidità critica che percorre le pagine di “Corrente” ne è la prova – ha tollerato. Se all’arte italiana è stata risparmiata l’infamante epurazione che subì invece l’arte tedesca, vittima dell’operazione Entartete Kunst, arte degenerata, è perché il regime fascista non riuscì mai a risolvere l’equivoco della sua politica culturale: risultante del dissidio interno vissuto dal regime tra la sua linea ortodossa e quella revisionista. Così, mentre il 20 marzo 1939, a Berlino, in un cortile della Köpenicker Strasse, si accendeva il rogo delle opere d’arte messe all’indice57, in Italia in quello stesso anno aprivano i battenti a distanza di tre mesi le mostre del filonazista Premio Cremona e del filomodernista Premio Bergamo: il primo vetrina del più retrivo realismo fascista, il secondo virtuale galleria dell’arte secondo Bottai. E, proprio 20
Fontana, R. Guttuso, G. Migneco, E. Morlotti, A. Sassu, E. Treccani, I. Valenti, E. Vedova, Teodorani, Milano 1967. 46 AA.VV., Belvedere, Bollettino Galleria Gian Ferrari, n. 4, Milano 1960. Cfr. R. Guttuso, Mestiere di pittore… cit., pp. 47-74. 47 E. Treccani, Arte per amore… cit., p. 108. Nota datata 1950. 48 R. De Grada, Il movimento di Corrente… cit. p. 32. 49 R. Guttuso, Un mondo concreto di oggetti e di uomini, in “Prospettive”, gennaio 1942. 50 R. Birolli, Storia di cento pittori più uno, in “Il Ventuno”, marzo 1935. 51 E. Treccani, Arte per amore… cit., pp. 108-109. Nota datata 1950. 52 R. Guttuso, Appunti, in “Il Selvaggio”, nn. 9 e 10, 30 novembre 1939. 53 Primo manifesto di pittori e scrittori, in “Numero”, nn. 8 e 9, settembre 1947, p. 12; anche in T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra (1945-1957), Schwarz, Milano 1957, pp. 221-222. Sotto il titolo di Manifesto di pittori e scrittori 1943 riprodotto parzialmente in E. Treccani, Arte per amore… cit., pp. 33-35. “Il quadro deve essere per noi un modo come un altro di comprometterci. Vogliamo impostare il discorso pittorico in funzione rivoluzionaria: che tenda cioè alla agitazione degli uomini e a provocare dirette domande e risposte. […] Domandiamo non una pittura per la pittura, secondo la prosopopea di certe ultime esperienze; ma pittura come relazione comune, comune modo di identificarsi. Noi ci riconosciamo solamente nella generosità del nostro sangue. […] Ci premono i termini popolari come immagini prime per un nostro linguaggio che vuole riaffermare le possibilità di un dialogo ridotto ai minimi termini
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espressivi. […] Siamo contrari alla metafisica che invita allo stupore e al mistero. Siamo contrari al surrealismo poiché esso, nello scavo di una dimensione oltre il nulla, ha perduto di vista scheletro, carne, cuore. Siamo contrari all’espressionismo a sfondo di interiorità, isolamento, convulsione. Di questo movimento non sappiamo salvare che il carattere di profonda urgenza delle sue parole. Siamo contrari alla pittura della domenica, dei contemplativi (naturalisti e candidi). Con la pittura vogliamo innalzare bandiere”. 54 Cfr. per approfondire la figura di questo personaggio chiave della cultura italiana tra gli anni venti e trenta, Edoardo Persico e gli artisti. 19291936. Il percorso di un critico dall’impressionismo al primitivismo, a cura di E. Pontiggia, Electa, Milano 1998. 55 M. De Micheli, Consenso, fronda, opposizione. Intellettuali nel ventennio fascista, CLUP, Milano 1977, p. 81. 56 B. Mussolini, discorso del 24 marzo 1924, in Benito Mussolini. Opera omnia, a cura di D. ed E. Susmel, 44 voll., La Fenice, Firenze 19511963 e 1978-1981. Il tema della compenetrazione tra forza e consenso attraversa la riflessione politica degli anni venti. “Forza e consenso”, scrive Croce nel 1924, “sono in politica termini correlativi e dove c’è l’uno non può mai mancare l’altro”: Elementi di politica, Laterza, Bari 1966, p. 17. Sullo stesso tema riflette diffusamente Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, passim ma in particolare Quaderno n. 10, vol. 1, tomo II. 57 “Nella primavera del 1938, mentre veniva emanata una Legge sulla
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per questa insanabile ambiguità ideologica del fascismo, accanto all’oltranzismo dei vari Farinacci, Interlandi, Pensabene potrà convivere il revisionismo di Bottai, come accanto alle sue riviste, “Critica fascista” e poi “Primato”58 – dove troveranno uno spazio aperto anche i protagonisti di “Corrente” – verranno date puntualmente alle stampe riviste antisemite come “Quadrivio” o “Il Tevere”. Riguardo la politica culturale, la distanza ideologica che separa la Germania dall’Italia è enorme. Se Goebbels nel 1936, in una riunione del Reichskultursenat, afferma che: “Il Terzo Reich vuol salvaguardare la libertà dell’artista, ma questa s’ha da contenere nei limiti assegnatile da un concetto d’indole politica e non da un concetto d’indole artistica”59; Fausto Brunelli, nella “chiarificazione” premessa al catalogo della seconda edizione del Premio Bergamo, potrà invece affermare perentoriamente che: “La gerarchia militare è di valori militari. La gerarchia politica è di valori politici. La gerarchia ecclesiastica è di valori ecclesiastici. La gerarchia artistica è di valori artistici”60. Premessa per la compatta partecipazione del drappello degli artisti di Corrente alla quarta edizione del Premio Bergamo, nel 1942, e all’affermazione di Guttuso con la sua Crocifissione laica. “Questo è tempo di guerra e di massacri: Abissinia, gas, forche, decapitazioni; Spagna; altrove”, scrive Guttuso nel suo diario. “Voglio dipingere questo supplizio del Cristo come una scena di oggi. Non certo nel senso che Cristo muore ogni giorno sulla croce per i nostri peccati… ma come simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio, carcere, supplizio, per le loro idee… le croci (le forche) alzate dentro una stanza. I soldati e i cani – le donne scarmigliate discinte piangenti –. Al lume di candela (la candela di Guernica?)”61. Il mondo rappresentato dai pittori e dagli scultori di Corrente è un mondo inquieto. Preda del silenzio senza tempo che allaga i ginecei, simbolo di un’umanità segregata. Spettatore di una battaglia che divampa solo nei territori del mito. Greve scenario degli oggetti che affollano le nature morte, irte di teschi, candele, gabbie aperte: relitti sbattuti sulla riva dalla tempesta immane. Profonde sono spesso le analogie che si evidenziano tra le opere dei vari artisti. A volte si tratta di analogie dettate dall’identità di intenti e dall’urgenza del messaggio. Come quando Treccani e Cassinari nel 1941, per denunciare un delitto politico, si ispirano a una poesia di García Lorca e dipingono così due opere d’identico soggetto, impianto compositivo e titolo: Colombi assassinati. Altre volte le analogie sono di scelte poetiche, dettate dalla profonda comunione che vivono gli artisti. Come accade nei paesaggi dipinti nel 1944 da Cassinari, Morlotti e Treccani, a Mondonico, la località della Brianza dove i tre erano sfollati. La collina verde, di Treccani, il Paesaggio a Mondonico di Cassinari e Dossi di Morlotti, tutte e tre presenti in mostra, rivelano infatti singolari analogie compositive e linguistiche. Nelle tre opere, una collina invade lo spazio del quadro, fino a spingere l’orizzonte in alto, mentre il cielo, plasmato quasi nella stessa sostanza della terra, è ridotto a una minima porzione dello spazio. La collina è inquieta presenza: un magma in espansione, di cui il colore mette a nudo dolorose nervature, in Morlotti e Cassinari, o pericolosi vortici, in Treccani. La visione ha comunque la stessa valenza, quella di uno sbarramento semantico opposto al reale, che rende lo spazio del quadro schermo di una situazione esistenziale. La collina è la cosa che è cresciuta, fino a impedire di vedere oltre. E i rimandi, gli incroci, gli echi potrebbero continuare. L’avventura di Corrente non portò, dunque, all’elaborazione di uno stile, inteso come cancello formalistico, ma all’elaborazione di un accorato linguaggio della realtà, che seppe ac21
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cordare i suoi toni a quello della personale poetica dei suoi protagonisti. Così la cadenza formale di Arnaldo Badodi è quella di un lirismo visionario, che lo pone in assonanza con Birolli e che trova la sua più genuina espressione nella tessitura di assorte metafore. Il dipinto L’armadio era stato esposto alla mostra organizzata da “Corrente”, nel marzo del 1939. Una presenza femminile è solo evocata dall’intimità violata di quell’armadio spalancato. Gli abiti sono i costumi di scena, indossati da un personaggio invisibile. L’arte è la chiave tentata per aprire un universo incomprensibile, rigorosamente privato. L’eco della guerra giunge come sotteso spleen, nel frequente racconto di vite relegate in una sospensione temporale. L’atmosfera di dipinti come Gineceo è, infatti, quella di una solitudine che si fa metafora del dramma esistenziale. Il gineceo, per Badodi, è il luogo della nudità avvilita dalla mancanza di desiderio, il luogo dell’attesa vana: non è né il bordello di Grosz o Dix, né l’universo orgogliosamente separato di Birolli, nella cui intimità si consumano arcani riti femminili. La sontuosa definizione spaziale degli harem di Delacroix si sfalda in effusione tonale, nel tormento di una scrittura pittorica che tenta senza convinzione i labirinti del segno. Il cappotto grigio è una sorta di presagio. Sui libri, strumento della ragione, estremo baluardo contro la barbarie, si apre la ragnatela dei guanti, a terra. La sfida lanciata dalla storia all’artista, che dovrà partire per il fronte russo. Fragile poeta volato fuori da quel cappotto, abbandonato in una stanza che rimarrà vuota62. “Io posso essere eroe soltanto dipingendo una tela”63, aveva scritto Badodi qualche mese prima di morire sul fronte russo. Renato Birolli è stato un intellettuale finissimo, un uomo che ha saputo dispensare il sale delle sue idee anche con una scrittura straordinaria. Come testimonia Ernesto Treccani, nel 1940 “egli era senza dubbio il pittore più autorevole del gruppo”64. Chiarendo le origini di un dipinto fortemente connotato come San Zeno pescatore, Birolli spiegava: “È un quadro di origini, un paese del sentimento. Il colore-spazio lo fa sentire; la leggenda romanico-veronese anche. […] Potremmo chiamarla il primo segno della conoscenza implicita nell’uomo e con più esattezza l’integrità collettiva giacente nell’individuo”65. Nell’arte milanese degli anni trenta, quando la realtà è incupita dalle pesanti ombre di Novecento o bruciata dall’abbacinante visione dei chiaristi, la cognizione del reale di Birolli si esprime come vibrante esperienza del colore. Un colore che si qualifica non come materia, ma come “nucleo emozionale”66. “Nessun colore soggiogato da una forma a priori. Se mai una tensione universale e tutte le forme”67. E interessantissime sono le annotazioni che si susseguono nei Taccuini a chiarire come per Birolli il pensiero del reale si risolva sempre in pensiero cromatico68. Un capolavoro come I Poeti del 1935 mostra splendidamente come Birolli riesca a formare la realtà nel crogiolo del colore. E il colore, virgolato, vangoghiano, tesse sulla tela la trama di un ineffabile racconto. Centro gravitazionale del dipinto è il vortice del sole, che raddoppiandosi nello specchio del fiume riesce a bilanciare il nero delle figure. La lettura di questo quadro proposta più volte da Mario De Micheli, che riconosce nei poeti i giovani cospiratori antifascisti che a metà degli anni trenta si ritrovavano nella periferia milanese, è una lettura poetica più in sintonia con le asserzioni contenutistiche di De Micheli, che con il lessico cromatico di Birolli: come testimonia d’altra una lettera che l’artista scrive a Sassu subito dopo aver terminato il quadro, “Ho finito il quadro dei Poeti che tu vedesti abbozza22
confisca dei prodotti dell’arte degenerata, fu quindi costituita una commissione per la stima di queste opere, le principali delle quali furono trasferite all’estero e vendute contro valuta pregiata. Il resto fu ammassato in un magazzino di Berlino; per necessità poi di usare altrimenti questo magazzino, fu chiesto a Goebbels il consenso alla distruzione di queste opere; consenso che Goebbels infine diede pur con qualche esitazione. Così il 20 marzo 1939 nel cortile dei vigili del fuoco di Berlino sulla Köpenicker Strasse, si procedette al rogo del ‘fondo non valutabile’: erano 1004 tra dipinti ad olio e opere grafiche, tra i quali numerosi lavori di Nolde, e inoltre di Schmidt-Rottluff, Jankel Adler, Schwitters, Fritsch, Troschel, Heckel, Kallmann”. E. Crispolti, Il mito della macchina e altri temi del futurismo, Celebes, Trapani 1969, p. 658-659. 58 Su “Primato” saranno chiamati a esprimersi in grande libertà i maggiori esponenti della cultura e dell’arte del tempo, cui non sarà mai chiesta la tessera del partito. Tra i collaboratori ricordiamo: Mario Alicata, Antonio Banfi, Renato Birolli, Bruno Cassinari, Dino Del Bo, Renato Guttuso, Mario Luzi, Giuseppe Migneco, Eugenio Montale, Enzo Paci, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Aligi Sassu, Vittorio Sereni. 59 Il brano è riportato da G. Sommi Picenardi in Organizzazione, controllo e disciplina dell’arte in Germania, in “La Vita Italiana”, a. XXV, fascicolo CCLXL, maggio 1937, pp. 573-583. 60 Secondo Premio Bergamo. Mostra nazionale di pittura. Anno XVIII, Bergamo 1940. 61 Da una pagina di diario
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di Guttuso, datata ottobre 1940. Pubblicata in R. Longhi, F. Russoli e G. Testori, Renato Guttuso. Mostra antologica dal 1931 ad oggi, Soprintendenza alle Gallerie, Comune e Provincia di Parma, Parma 1963, p. 69. 62 Mario De Micheli, ricordando l’artista, scriverà: “era un uomo privo di ostentazioni, dotato di un garbo naturale, di una finezza gentile. Una sera capitò alla Bottega di Corrente, scambiò qualche parola con gli amici, poi cavò dal taschino del panciotto la sua ‘cipolla’, la guardò e disse: ‘Tra due ore parto per il militare’. Partì e finì sul fronte russo; non ritornò”. Corrente: il movimento di arte e cultura di opposizione. 1930-1945, a cura di M. De Micheli, Vangelista, Milano 1985, p. 104. 63 Da una lettera ad Anita, del 27 ottobre 1942, in M. Falciano, Arnaldo Badodi e “Corrente”, El Ma, Roma 1995, p.125. 64 E. Treccani, Arte per amore… cit., p. 109. Poco prima, a p. 107, si legge: “Birolli era un combattente. Per questo si attirò amore e odio e ora ci parve e fu amico e compagno carissimo, ora un uomo capace di infliggere delusioni scottanti; ora ci fu maestro e ora dubitammo della sua stessa vocazione pittorica. Dovrei adoperare il singolare, eppure mi viene quel ‘noi’, tanto Birolli è mischiato e partecipe, in primissima linea, alla vicende di una generazione e di un movimento, tanto la sua figura e la sua opera sono determinanti non per l’uno o per l’altro che gli è vissuto e gli ha lavorato accanto, in amicizia e in contrasto, ma per tutti indistintamente”. 65 R. Birolli, conferenza al Gabinetto Vieusseux, in Pittura d’oggi, a cura di M. Masciotta, Vallecchi, Firenze 1954. Ora in
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to a tempera. Come pittura farà girare i coglioni a Milano e fuori. L’ho disegnato con violenza ma con amore. Ho ottenuto quattro neri fenomenali e tutto il paesaggio è travolgente. L’acciaio è temprato. Non c’è che da sbudellare i cialtroni”69. Ma la tenzone di Birolli è sempre squisitamente intellettuale. I giovani in smoking70, che il nero dei vestiti stacca irrimediabilmente dal fondo per trasportarli in un pensoso altrove, hanno perso l’ingenuità dei nudi dell’Eldorado. Oppongono al festoso scorrere della natura – di brezza, di acqua, di terra molle – la gravità del pensiero. Nel Ritratto delle signorine Rossi – esposto alla prima mostra di Corrente e pubblicato sulla rivista – come nel Ritratto del poeta Quasimodo, dopo la mareggiata di colore della seconda metà degli anni trenta, le cose ritrovano l’argine di un profilo più definito. Il racconto abbandona i percorsi allusivi e sperimenta la cronaca, l’indicativo presente. La forma non è più la provvisoria apparizione tra i flussi cromatici che attraversavano le tele di pochi anni prima. Negli anni della guerra, il precipitare degli eventi sconvolge la ricerca di Birolli, che non può restare indifferente alla tragedia che si consuma attorno a lui. Eppure tenta disperatamente di salvare le ragioni della ragione. “Inferociti, convergiamo la violenza al quadro”, scrive nel 1943. “So quanto danno ciò rechi all’arte del dipingere. L’arte d’essere responsabile di tutte le nostre responsabilità. […] Temo l’involuzione della coscienza, la perdita del controllo sulla mia stessa storia. Per caso, così dipingendo (quel poco che è possibile oggi) non perpetueremo nelle forme quel gesto di violenza malvagia, contro la quale lottiamo? […] Violenza delle ultime opere. Le falci scintillanti nel cielo pieno lombardo. I contadini spenti e senza ombre, chiari come meduse. La loro forma bruciata dalla luce. Il loro essere in quanto sono agglomerati, impasti convulsi di luce e di colore dissolvente. La loro mancanza di volto. […] Le falci scintillanti, bianche-verdi, bianche violetto. Falci d’erba e Renato Birolli nel suo studio milanese di piazzale Susa, nel 1933. A sinistra è visibile il dipinto San Zeno pescatore, esposto in questa mostra
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di fiori magri. Magre falci assottigliate dal consumo. Ma sempre alte, contro il cielo. Come 71
un grido. Come noialtri. Ma portate dalla rassegnazione di chi le regge. Contrasto” . Questa la temperie morale che presiede all’esecuzione di un’opera come Il contadino nei girasoli, del 1945. Ma Birolli resiste all’urlo. “L’azione del pungo, espressa come una dottrina, è l’origine dell’impossibilità del mondo a pensare e – pensando – ad essere intesi”72. Il colore è ancora, seppur concitata, scrittura delle forme, ma di lì a poco arriverà una tregua dolorosa. “Ho cominciato a disegnare, ho interrotto il dipingere. Tregua di colori. Giorni e giorni di segni neri?”73. Nei lunghi mesi della guerra civile Birolli potrà solo affidare al sussulto del nero il racconto del silenzio del dopo, in una serie di drammatici disegni che verranno poi raccolti sotto il titolo Italia 44. “Il caldo è molto forte. Il calore avvicina l’idea di morte. Odori e fetore di morte. Gli obitori sono pieni. È un via vai nero di feretri sconosciuti. Un corruccio virile è nell’aria. Anche le donne odiano. La Muti canta canzonacce per le strade. È un paese in decomposizione. Si celebrano riti di morte. Un immenso lavoro sotterraneo. Le mandibole pronte a mordere. Solo il morso. La parola è morta”74. All’avanzata dei titani chiamati dal dittatore, esaltati dalla scultura monumentale dell’epoca, Luigi Broggini oppone l’inquieto stare delle sue figure femminili. Lo scultore aveva saputo coniugare la lezione di Degas, Maillol, De Fiori, la loro attenzione anticlassica al tempo del vivere, e l’impressionismo lombardo di Giuseppe Grandi e Medardo Rosso, con quanto in quegli anni andava sostenendo a Milano Edoardo Persico. Alla sintesi volumetrica degli scultori di Novecento, alla loro plastica aggressivamente muscoleggiata, Broggini oppone così un disegno delle forme che indugia in minuti rilievi, con un modellato ceroso capace di catturare e riflettere la luce, assecondando le instabili movenze dei suoi morbidi corpi femminili, la danza accattivante che le sue donne eseguono sulle note del tempo che passa. Il tempo declinato dalle sue figure è quello del presente, in sintonia con l’urgenza vitalistica dei pittori di Corrente. La sua Donna chinata, la sua Ragazza allo specchio – esposta alla seconda mostra di Corrente e pubblicata sulle pagine della rivista – il suo Nudo rosa non aspirano a una retorica eternità, ma protestano con il loro agire la loro appartenenza a un tempo breve, che appartiene alla quotidianità del vivere. Elio Vittorini, presentando la personale di Bruno Cassinari alla Bottega di Corrente nel 1941, aveva parlato del bisogno dell’artista di “frugare, scavare nel mondo, sudando anche sangue stesso, per strappargli grida di colore”75. Tre delle opere che erano esposte alla Bottega sono oggi in questa mostra. Natura morta con conchiglie, Il tappeto sulla sedia e Paesaggio d’agosto. La Natura morta in giallo, invece, era stata esposta alla mostra di Corrente del marzo del 1939. È un universo gioioso, plasmato con un colore che indugia in una scrittura ridondante delle cose, quello delle nature morte che Cassinari dipinge intorno al 1939. Le forme urgono in un colore che pulsa la propria aderenza alle ragioni del sentimento. Per Cassinari il colore è il canto delle sirene: “Il colore è un canto continuo, non esiste il buio, la notte”76. La necessità di una puntuale connotazione psicologica spinge Cassinari ad approdare nel Ritratto di vecchia signora a una pittura più solida, dove il colore non serpeggia più in fluenti arabeschi, ma si accontenta di disporsi entro gli argini della forma. Superando l’aneddotica fisionomica, il ritratto si pone come sintesi poetica dell’idea di madre, per la 24
AA.VV., Renato Birolli, catalogo della mostra, Università di Parma – Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Dipartimento Arte Contemporanea, quaderno 34, Parma, 1976, pp. 106-107. 66 R. Birolli, Taccuini. 1936-1959, a cura di E. Emanuelli, Einaudi, Torino 1960, p. 23. “Il colore non è materia, è nucleo emozionale”. 67 Ivi p. 42, nota n. 5. Cfr. ivi pp. 108-109. “Scoperta dei rapporti e dei significati delle cose. […] O misura dello stupore! Un occhio sobrio ma che guardi a lungo e non si stanchi di guardare. Crescerà la sua luce con l’accendersi delle cose e non si spegnerà quando essi si spengono, perché non c’è ombra mediatrice del giorno e della notte che allenti la virtù del colore. I colori si faranno più cupi e noi vedremo chiaramente che sono cupi. Chiameremo viola, grigia o azzurra la notte, ma non vi sarà ombra. sono sempre leciti i cieli stellati di Van Gogh . Esclama e urgi alle cose e ai loro colori”. 68 Cfr. ivi p. 24 nota n. 3, p. 31 nota n. 2, p. 111 nota n. 3 e pp. 217-218. 69 Lettera di Birolli ad Aligi Sassu del 18 gennaio 1935, Archivio Centrale dello Stato, Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, busta 578. 70 “Ho dipinto una composizione di giovani in smoking (i poeti)”: lettera di Birolli a Giuseppe Marchiori del 22 gennaio 1935. La lettera è pubblicata in Renato Birolli 1935, a cura di F. Lanza Pietromarchi, Galleria dello Scudo, Verona 1996, p. 31. 71 R. Birolli, Taccuini… cit., pp. 207-208. Nota datata 22 settembre 1943. 72 Ivi, p. 183. Cfr. anche pagina seguente. 73 Ivi, p 173. 74 Ivi, p. 231. 75 E. Vittorini, Bruno Cassinari, catalogo della
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dolcezza della figura, per l’accorata rappresentazione delle mani, la cui vecchiaia nodosa non è vinta dalla grazia del ventaglio, per il tentativo di alleggerire la dimessa offerta di sé con il tracciato di un foulard, che però riesce solo a far colare sull’abito il grigio dei capelli, il pallore terroso del viso. La conduzione del colore anticipa, negli ideali tasselli dello sfondo e nella minuta sfaccettatura dei piani che compongono al figura, quella frantumazione dello spazio che sarà l’esito della ricerca di Cassinari. Il traslato simbolico, come abbiamo detto, era negli anni della dittatura uno dei mezzi per aggirare il veto della censura. Nell’iconologia di Corrente, il Vitello squartato è il luogo poetico ricorrente di una violenza consumata, additata in segno di commossa protesta. La pazza, di Sandro Cherchi, è senz’altro la scultura che meglio esprime il clima morale di Corrente, di cui è una sorta di emblema plastico. Pubblicata sulle pagine della rivista ed esposta alla personale che Cherchi terrà alla Bottega di Corrente nell’aprile del 1941, esprime nel suo dolente modellato, mostra, Bottega di Corrente, Milano 1941. 76 B. Cassinari, Scrivere di mattina in G.A. Dell’Acqua e G. Anzani, Cassinari, catalogo della mostra, Palazzo Farnese, Comune di Piacenza 1983, pp. 51-52. 77 Sandro Cherchi. Opere 1932-1987, a cura di P. Dragone, A. Gelli e M. Rosci, Fabbri, Milano 1987, p. 30. 78 T. Scialoja, Sandro Cherchi, in “Beltempo”, Edizioni della Cometa, Roma 1942. 79 D. Morosini, Lucio Fontana, in “Corrente di Vita Giovanile”, 31 gennaio 1939. 80 D. Morosini, Lucio Fontana. 20 disegni con una prefazione di Duilio Morosini, Corrente, Milano 1940.
nella mutilazione degli arti, una struggente condizione di impotente isolamento. “La Pazza è la lontananza da casa, la fame, la disperazione, soprattutto la disperazione perché non essendo inquadrato nel regime fascista ero completamente isolato e non avevo amici se non quei pochi che facevano parte di Corrente”77, scriverà lo scultore. Una prova poe-
Monografia realizzata per la collana d’arte delle Edizioni di Corrente
tica importante, preceduta da un’inquietante Ritratto familiare. Toti Scialoja, nel 1942, aveva registrato l’apparizione di certi ritrattini “dai visi esili dissanguati in una plastica avara e divorati da enormi occhi a caverna”. Queste “maschere di malinconici insetti”78 erano l’antitesi della fiera romanità imperiale che si affermava nelle piazze d’Italia. “Degli artisti contemporanei Fontana è tra i pochi a trasporre spiritualmente nell’opera – nel modo più sensibile e comunicativo – i temi di probabilità e di dramma ricavati dalle stesse divergenze e compensazioni della vita”79. Così scriveva Morosini nel 1939. Lucio Fontana parteciperà alla seconda mostra organizzata da “Corrente” e alla collettiva alla Bottega di Corrente. Per le Edizioni di Corrente uscirà anche una piccola monografia sui suoi disegni80. Tuttavia Fontana non poteva far propria l’eticità esistenziale di Corrente, né la sua fe25
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de realista. Il 1934 è l’anno della creazione di una scultura come Signorina seduta, presente in mostra, che sarà pubblicata sulle pagine di “Corrente”. Una scultura che sembra testimoniare l’adesione di Fontana al movimento milanese. Ma il 1934 è anche l’anno delle sculture astratte che Fontana presenterà l’anno successivo in una straordinaria mostra alla galleria del Milione. Per Fontana la forma o l’immagine sono solo l’esito temporaneo del moto inventivo che le genera, inteso come flusso fenomenologico vitale, per sua natura irriducibile in dogma ideologico. L’artista deve essere libero di raccogliere le suggestioni della materia, il suo farsi cosa nello spazio, al di là di qualsiasi preconcetto formale. Morosini, uno dei primi esegeti dell’artista, era ben consapevole di questa “impossibile coerenza”81 di Fontana. La prosaica ieraticità della splendida Signorina seduta – oggi conservata nella Civiche Raccolte d’Arte del Comune di Milano, fondo dell’irrealizzato Museo del Novecento – si copre di colore. “Effettivamente l’adozione del colore ha segnato un momento decisivo nella scultura di Fontana”, scrive Morosini. L’artista si è servito “di una trasposizione cromatica come dell’elemento più astratto, di un valore lontano tanto da un naturale rapporto, quanto da una convenzione decorativa. Così per un legame tra l’esperienza sensibile e l’invenzione: qualcosa di più che un colore riferito, una superiore allusione spaziale”82. È un colore che pulsa la sua fortissima tensione emotiva la cifra della ricerca di Piero Gauli. Il piccolo Gineceo, nella sua scrittura abbreviata delle forme, fonde figure e spazio in un crogiolo incandescente che diviene misura di una percezione tragica del tempo, che tutto divora con le fauci della luce. Anche nella Composizione con le spighe le forme sono modulate da una vibrante conduzione cromatica. La scrittura pittorica plasma i contorni delle cose, fiammeggiando. Sul piano, luogo del buio, si accendono il bianco della brocca, dell’oca, dei piatti: termini primi di una riflessione sulla realtà che accorda i suoi toni con l’intimità del vedere. Jenny Wiegmann o Genni, come decide semplicemente di farsi chiamare quando, allontanatasi dalla Germania hitleriana, sposa il pittore Gabriele Mucchi ed entra nella costellazione degli artisti e degli intellettuali di Corrente, rappresenta un’occasione per riflettere sul significato di un’insistente indagine plastica sul nudo. È la grande lezione di Barlach e Lehmbruck, contaminata dall’incontro con la nuova mitologia dell’umano di Corrente. Quel respiro europeo che, secondo Guttuso, Genni ebbe il merito di portare nella Milano degli anni trenta. E sarà la travolgente esperienza umana della guerra a sciogliere il suo linguaggio plastico dall’iniziale ieraticità arcaicizzante, per portarlo a una stupita narrazione del vero: dove la mensura non è mai la bellezza, non è mai un’anacronistica calligrafia figurativa, ma una lucida ricerca della forma forzata fino al limite, sentito da Genni come invalicabile, del dato naturalistico. La scelta di Renato Guttuso è quella di una pittura che non rinuncia mai all’esaltato racconto delle forme della realtà, plasmate da una pennellata sensuale, che assegna alle cose il profilo aggressivo della linea. Le nature morte, che negli anni quaranta rappresentano il fulcro della sua ricerca poetica, sono lontanissime, dal punto di vista linguistico, dalle indagini morandiane sulle possibilità di forme ripetute. Sono parate bellicose di oggetti pronti a colpire. 26
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D. Morosini, Appunti su Fontana, in “Corrente”, 30 settembre 1939. 82 Ibid.
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Ordigni di un pensiero della realtà destinato a farsi azione. “Perché un’opera viva, bisogna che l’uomo che la produce sia in collera ed esprima la sua collera nel modo che più si confà a quell’uomo”, scrive Guttuso nell’estate del 1941. “Un’opera d’arte è sempre la somma dei piaceri e dei dolori dell’uomo che l’ha creata. Intendo dire che non è necessario per un pittore essere d’un partito o d’un altro, o fare una guerra, o fare una rivoluzione, ma è necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione. Come chi muore, insomma, per qualche cosa”83. Ecco le ragioni che presiedono all’elaborazione di dipinti come Gabbia bianca e foglie. La lezione cubista non arriva a cancellare la scrittura della realtà, ma imprime agli oggetti una sfaccettatura nervosa, una sorta di dolorosa slogatura che si fa misura di un urlo tratte-
Birolli e Guttuso, in divisa da ufficiale, nella caserma di Sant’Ambrogio a Milano, nel 1936
nuto. Gli oggetti schierati sono simbolo di una violenza annunciata. “L’arte non si fa per ‘grazia’ di Dio o per rivelazione ecc.”, scriverà Guttuso in una lettera a Morlotti. “Dio non c’entra, né la grazia, ma solo la quantità di noi stessi, come sangue, intelligenza e vita morale che ci si butta dentro”84. Questa lezione di collera è la lezione di Picasso. Guttuso che, ha già dipinto La fuga dall’Etna, drammatico esodo invocato per sfuggire al fascismo, guarda ormai a Guernica: intende la pittura come professione appassionata di fede nella realtà. Se numerose nature morte eseguite nella primi anni quaranta sono gremite di simboli di una violenza annunciata, La finestra blu, accostando la bottiglia a spirale di opaline, citazione dell’universo morandiano, simbolo dell’aventinismo, con la prosa di due fiaschi di vino, dichiara la necessità di uscire dalla torre eburnea per abbracciare la vita. Interrompono la sequenza di nature morte, due ritratti: il Ritratto di Mario Alicata e il Ritratto di Antonino Santangelo esempi di quella galleria testimoniale che Guttuso compose attraverso gli anni, ritraendo i compagni di una vita. La ricerca di Dino Lanaro è centrata fin dagli esordi sulla suggestione del colore. Sulle pagi83
R. Guttuso, Pensieri sulla pittura, in “Primato”, 15 agosto 1941. 84 Da una lettera a Ennio Morlotti, datata luglio 1943, pubblicata in M. De Micheli, Arte Contro. 1945-1970 dal realismo alla contestazione, Vangelista, Milano 1970, p. 282. 85 R. Birolli, Dino Lanaro, in “Corrente”, 31 marzo 1939. 86 R. De Grada, Avvio alla mostra, in “Corrente”, 15 dicembre 1939.
ne di “Corrente”, in occasione della prima mostra organizzata dalla rivista alla quale Lanaro partecipa proprio con il dipinto Piante bianche esposto in questa mostra, Renato Birolli scrive: “Bilingue ieri tra realismo ed espressionismo, questo artista si è risolto da qualche tempo in un modo liricamente evocativo che si propone di conciliare il suo temperamento positivo al bisogno morale di congiunzione – sé e la natura – fino al limite più avanzato dalla fantasia consentitogli”85. Nel Paesaggio con nudi, dipinto nel 1942, lo sfarfallio del colore cede il posto al livido racconto di un’umanità che vorrebbe farsi terra. Presentando la seconda mostra organizzata da “Corrente”, nel dicembre del 1939, De Grada parla “dell’unità di quel gruppo romano, che si nutre di memoria e di ripensamento d’immagini”86. Mario Mafai ha il merito di aver portato nella pittura di paesaggio il lievito mentale di una riflessione sul senso della storia. In una lunga recensione della XXI Biennale 27
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di Venezia, ancora De Grada sulle pagine di “Vita Giovanile” sottolinea che “pochi hanno la finezza di sfiorare come Mario Mafai un mondo decadente”. E prosegue: “i suoi fiori, i suoi paesaggi romani arrivano a chiarire il problema espressivo di questo pittore che ripensa criticamente le immagini nell’atto di esprimerle e ci offre così un’aria di paradiso perduto dell’arte bella”87. Occorre possedere una bussola potente per tentare ancora la via di un tramonto. Mafai non indulge a quella “fattura moderna di sentimenti ruminati” che potrebbe rendere le sue opere piacevoli. E invece assapora e ripropone una Roma “borrominiana e berniniana, di fasti notturni e silenziosi”88. Interessante il confronto tra il Tramonto sul Lungotevere del 1929, con la sua limpidezza descrittiva, e il Tramonto su Roma del 1941, congestionata parafrasi di un tempo difficile. Testimonianza preziosa dell’humus culturale antinovecentista che nutrirà la crescita di “Corrente”, è un bassorilievo di Giacomo Manzù. La Deposizione, uno sbalzo in rame argentato eseguito nel 1933, esprime nel suo sintetismo formale quel “gusto dei primitivi”89 che la riflessione di Lionello Venturi aveva richiamato in quegli anni all’attenzione del mondo artistico. L’arcaismo sembrava allora l’antidoto più efficace contro la magniloquenza dell’arte di regime, la chiave per ottenere una ripresa del reale antiretorica. La purezza lineare, la semplicità del disegno erano il filtro intellettuale che consentiva di recuperare un dialogo con il vero, senza perdersi nelle secche del naturalismo. Il bassorilievo di Manzù, esempio di una serie di sbalzi a soggetto religioso che l’artista eseguì nella prima metà degli anni trenta, affronta il tema della deposizione con assorta commozione. La sua opera non è devozionale, né lo saranno, nel senso deteriore del termine, le successive importanti prove: la morte di Cristo è la morte di un uomo tra gli uomini, raccontata con lo sgomento di chi ha assistito a un fatto e vuole tramandarne memoria. Se il nudo è sempre stato utilizzato in arte come medium per superare i confini di una banale, circostanziata temporalità, Manzù procede all’opposto e, rivestendo alcuni personaggi degli abiti del suo tempo, trasferisce la scena in un drammatico hic et nunc. Il suo diventa allora uno straziante lamento laico davanti alla morte, che non attiene all’eterno, ma è solo umana. Diventa l’eco del pianto di un uomo che già avverte il sinistro memento mori dei tamburi di guerra. Sono delle fiabe livide quelle che dipinge, tra il 1939 e il 1940, Giuseppe Migneco. Ragazzi sotto il fico, opera capitale, subito esposta alla seconda mostra organizzata da “Corrente”, annuncia questa splendida stagione. Il colore ha acquistato una grafia corsiva, si contorce alla maniera vangoghiana, ma in un’originale, acida dimensione tonale. L’implosione delle figure, che si chiudono su se stesse, è accentuata dal serpeggiare del colore, che pone le loro forme in vibrazione con lo sfondo, al punto che braccia, gambe, teste hanno lo stesso andamento tortuoso dei misteriosi tracciati che solcano la terra secca, delle piante che in basso allungano i loro tentacoli, dei rami del fico chi si allungano quasi a ghermire i ragazzi. Joppolo, sulle pagine di “Corrente”, dichiarava di trovare nella pittura di Migneco “i segni di una colluttazione diretta col mondo”90. De Grada scriverà che Migneco “Feriva con il macabro proprio di certi antichi Trionfi della Morte, con l’ossessione delle grottesche di una cattedrale protogotica”, riconoscendo che l’artista “aveva portato a Milano un mondo di disperazione ancestrale, di origine sicula, dalla quale egli trovava requie in una cabala di segni e colori”91. 28
87 R. De Grada, L’arte contemporanea in Italia alla XXI Biennale di Venezia, in “Vita Giovanile”, 30 giugno 1938. 88 R. De Grada, Mario Mafai, in “Corrente”, 29 febbraio 1940. 89 Cfr. L. Venturi, Il gusto dei primitivi, Zanichelli, Bologna1926. 90 B. Joppolo, Il pittore Migneco, in “Corrente”, 15 marzo 1940. 91 R. De Grada, Il movimento di Corrente… cit., p. 32.
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Sempre del 1939 è Caffè, dipinto pubblicato l’anno successivo su “Corrente” ed esposto nel gennaio del 1941 alla personale che Migneco che tenne alla Bottega. La scrittura pittorica è la stessa dei Ragazzi sotto il fico. Figure e cose sono deformate da una vibrazione tellurica, che fonde i contorni dell’essere, idea e segno, in un’allarmata condizione di attesa, alla quale soli si oppongono gli occhi della donna: non perché hanno ancora il coraggio di guardare, ma perché, annoiati, sembrano non vedere. Poi il delirio delle Massaie ubriache. L’ordine naturale delle cose sovvertito dal precipitare nel gorgo di un’irrazionalità ancestrale, che avvinghia le donne alla terra, ne deforma le membra, le mani che graffiano l’aria. La dannazione degli Amanti sulla panchina, espressione di un dolor vitae che non ammette tregue. Fino all’ammonimento occulto dell’Uomo dal dito fasciato, enigmatico autoritratto che, nella devastazione del presente, vale come appassionata dichiarazione di speranza: quei fiori rossi che spuntano nonostante tutto dal petto dell’uomo. Ennio Morlotti vive intensamente la magica stagione di Corrente. Tra l’espressionismo lirico, vicino a Ensor, Soutine e van Gogh, di Birolli e Sassu, e quello drammaticamente realistico di Guttuso, che aveva trovato in Guernica il proprio manifesto, Morlotti si ostina a guardare a Cézanne. È ribelle tra i ribelli. “Non c’è un violento simile ad un passionale che sfoga se stesso tutto in un campo: che, per Morlotti, è quello della pittura”92, scrive De Grada. Paesaggio a Monticello è un esempio di quella serie di paesaggi “spogli, carichi, geologici, incandescenti”93, che Morlotti dipinge nella prima metà degli anni quaranta in Brianza. La tensione espressionista ormai divelle, con la sua scrittura emozionale, la razionale tessitura che Morlotti aveva desunto da Cézanne. La tavolozza sperimenta nelle terre la declinazione di un sentimento di sconvolta naturalità. Cielo e colline sono saldate da un segno pittorico ora sinuoso, ora rabbiosamente ritornante. Perno del paesaggio è la casa al centro, da cui Renato Birolli, Ernesto Treccani e Duilio Morosini nella Bottega di Corrente, durante la personale di Birolli che si svolse nel dicembre del 1940
92 R. De Grada, Il movimento di Corrente, Edizioni del Milione, p.33 93 La definizione è di Morlotti, tratta da La vita, la pittura: e il rifiuto del progetto, intervento letto a Milano il 17 febbraio 1981, nella sede della Fondazione Corrente, in occasione del dibattito sul tema Il mio progetto di intellettuale: poi pubblicato in “Nuova Rivista Europea”, n. 2, 1981.
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s’irradia il racconto allucinato di una visione che non risponde ai toni pacati della memoria, ma a quelli drammatici del presentimento. Per Morlotti, già dichiaratosi in un’accesa discussione “gappista sì, ma solo con la pittura”94, l’impegno morale non può comunque trasformare i dipinti in una cronaca della tragedia. Il dramma esistenziale può solo esprimersi in forme traslate. Nelle sue tele non c’è l’urlo, ma l’agghiacciante silenzio del dopo. Questa la chiave per penetrare nell’assorto mistero delle nature morte dipinte nel 1942. Di quei Gessi, baluardo della classicità, eretto contro il nero che avanza. Di quegli oggetti tetri, che hanno perso il nitore morandiano per esibire la loro concitata presenza di concrezioni terrose. Ma già la suggestione picassiana s’impone prepotentemente a deformare la trama del reale in un dolente reticolato, che nella Natura morta con bucranio del 1943 si libra sul rosso allarmante di un drappo, mentre nella Figura con gesso diviene labirintico percorso di linee forza che assimilano la presenza umana a quella del busto sullo sfondo. Preludio a quella trasformazione della suggestione cubista in aperta rivolta linguistica che Morlotti porterà a compimento nel dopoguerra. La Ragazza in riposo ritratta da Gabriele Mucchi è la scultrice Genni, sua moglie. “Vi si riconosce fra l’altro l’anello che portava, con la grande pietra verde”, scrive l’artista nella sua autobiografia95. Mucchi, nel panorama di Corrente, è la figura atipica dell’eclettico: pittore, architetto, designer, illustratore, scrittore, traduttore. Un percorso originale il suo che, in pittura, da un novecentismo dalle cadenze intimiste lo conduce a Corrente e quindi a un appassionato atto di fede nel realismo, inteso come linguaggio di comunicazione politica. È proprio verso la metà degli anni trenta che matura il suo distacco da forme pittoriche avvertite ormai come intellettualistiche. Nel 1939, sulle pagine di “Corrente” Giuseppe Marchiori saluta il pagamento del debito di Mucchi all’avventura formalista e metafisica attraverso un raffinato lirismo coloristico96. Solo cinque anni separano l’apparizione angelica del Viandante stanco dal ritratto di Genni, eppure la distanza tra le due opere è enorme. La metafora è liquidata dalle forme calde della vita. Era il 23 gennaio del 1941. A Milano, nel piccolo spazio della Bottega di Corrente, si apriva la prima personale di Giovanni Paganin, presentata da Duilio Morosini. Otto piccoli gessi, ancora umidi – Nudo accoccolato, fuso successivamente in bronzo, è presente in questa mostra – che tentano lo spazio con un’insospettabile forza. Perché, anche se le donne rappresentate sono colte in gesti istintivi di difesa, si capisce che non è la paura a piegarle, ma il vento del tempo, cui impareranno a far fronte. Nei corpi pieni pulsa un’energia primordiale: è la terra verso cui si piegano che darà loro la forza di resistere. Lo scultore, dal 1938, aveva lasciato le montagne native perché sapeva che in quegli anni Milano era la città dove avrebbe potuto verificare la legittimità delle proprie intuizioni formali, contrarie all’imperante teorema dei Valori Plastici. Le sculture che espone alla Bottega di Corrente esprimono potentemente la sua fede nell’identità ritrovata tra arte e vita. Le pose delle sculture, fissate da un modellato che esibisce la memoria del fremito delle dita, della febbrile ansia a finire, non raccontano però gesti che appartengono alla quotidianità del vivere. A Paganin non basta opporre, alla retorica imperiale di un tempo sovraumano, la minuta temporalità di gesti qualsiasi. Le sue donne, a differenza ad esempio di quelle di Broggini, non danzano, non si tirano su le calze, non si guardano allo specchio: non indu30
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Ibid. G. Mucchi, Le occasioni perdute. Memorie 1899 1993, L’Archivolto, Milano 1994, p.253 96 G. Marchiori, Gabriele Mucchi, in “Corrente”, 15 febbraio 1939. 95
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giano in un tempo che nega la retorica dell’eternità per dissiparsi in un agire che non sfiora nemmeno le ragioni dell’essere. Paganin cerca il confronto con il tempo inteso come squarcio rabbioso dell’esistere. Le sue figure non sono donne-che, non sono tese al compimento di un gesto: ma donne colte nell’essenzialità del vivere, che inevitabilmente ha una connotazione di dramma. Ogni scultura è un vibrante affondo esistenziale. La realtà come forma di favola esopica. Una favola che non si perde nei labirinti allegorici, ma procede con il racconto pacato di una storia qualsiasi. La spiaggia di Fausto Pirandello è l’osservatorio privilegiato di cui l’artista si serve per penetrare il mistero di un’umanità al di fuori delle convenzioni sociali. Uomini e donne nudi, tutti insieme. I corpi si toccano, si sormontano, senza erotismo. È una nudità non allusiva, pura, un po’ come accade oggi nelle fotografie di Spencer Tunick. C’è il senso dell’attesa, il senso di un tempo inutile. Ma l’indagine di Pirandello affonda le sue radici in un tempo che non è storico. Il suo dolor vitae non è mai contingente. A proposito dei suoi quadri, De Grada aveva parlato di “un’apparente calma tonale dove il surreale è sfiorato con tenerezza”97. L’ascendenza espressionista del linguaggio pittorico di Giuseppe Santomaso si modula sulle suggestioni dei grandi maestri francesi, grazie anche all’intenso sodalizio che l’artista stringe con il critico Giuseppe Marchiori, aggiornato riguardo le più avanzate ricerche europee. Proprio sulle pagine di “Corrente” Marchiori riconosce nella ricerca di Santomaso l’importanza della matrice veneta “per il gusto atavico della pittura tonale e in ispecie della materia cromatica sensibilmente elaborata”98. Già ai tempi della sua prima personale a Parigi, nel 1939, Santomaso dimostra di essersi affrancato dai rischi di una pittura dialettale tardo ottocentesca. Il colore, come accade nei Pesci su fondo verde, è vibrazione luminosa, misura della densità delle cose. Dal crogiolo in cui ardevano gli uomini rossi Aligi Sassu, trae una pittura nuova, dove il colore è forma di un’idea che si dispone in un complesso ordito narrativo. Il pensiero pittorico, che nella breve parentesi futurista vissuta dall’artista era stato sintesi concettuale, torna a farsi parola e, quindi, possibilità di racconto. È quello che accade in un opera come La strada, di istanza realista. All’inizio degli anni quaranta, la questione del colore è ormai centrale nella ricerca di Sassu. Nel segno di un cromatismo dall’accento quasi fauve è Nu au divan vert, dominato dall’aggressiva proposta di un corpo rosso di donna. Per Sassu, il mito o la storia non rappresentano l’espediente per una mistificazione favolistica di un messaggio politico, ma l’occasione per aggiungere a un sotteso appello civile l’enfasi della vicenda esemplare. La 97 G. De Grada, La pittura italiana alla III Quadriennale romana, in “Corrente”, 28 febbraio 1939. 98 G. Marchiori, Santomaso, in “Corrente”, 30 aprile 1939. Dalla prefazione al catalogo della mostra alla Galerie Rive Gauche, inaugurata il 14 aprile a Parigi.
sua non è mai una fuga nella classicità o in tempi remoti, la fuga insomma in un improbabile altrove, per allontanarsi dalle colpe del suo tempo, ma un modo per elevare la miseria del quotidiano alla dignità di un’epoca o di una favola memorabile. I suoi cavalieri, le sue persone togate, le sue dee non hanno mai un’eterea presenza simbolica, ma la vibrante carnalità di figuranti chiamati a recitare un dramma che sta per compiersi. Ecco perché il paradiso mitico si tramuta spesso nel teatro di uno scontro armato a cui Sassu vorrebbe in realtà chiamare gli uomini del suo tempo, come accade nella Rissa di cavalieri. In opposizione alla declamazione novecentista del mito di una nuova classicità, Sassu inventa dunque 31
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l’ossimoro di una realtà mitica, non per dare forma a una sua visione, ma per raccontare il sogno di tutti: quella disperata “aspirazione all’epica”99 di una gioventù che si sognava libera. Il messaggio di speranza che Sassu dipinge nel 1944 si rifà al mito della joie de vivre, il mito di un’umanità che nella natura vive una magica età dell’oro. Il vorticoso girotondo delle ninfe, ritratte nella Danza di Matisse, diventa la virile stretta di mano a tre della Primavera: un’intesa che ha per sfondo, però, una geometria del naturale che è misura dell’impossibilità di fornire le coordinate di quel luogo mitico. Ogni movimento ha i suoi messaggeri. Artisti che annunciano quello che sarà e le cui opere hanno il portato di una premonizione ragionata. Uno dei messaggeri riconosciuti di Corrente è Gino Bonichi, Scipione. Quando nel marzo 1942 la Galleria della Spiga, la galleria che raccoglie l’eredità di “Corrente” inaugura i suoi spazi con una mostra dedicata ai disegni inediti di Scipione, l’artista non ancora trentenne è già morto da nove anni. “Se si vuole dare un senso lirico alle cose, bisogna avere un’anima che ci risponda e sia pronta a vibrare”, aveva scritto all’amico fraterno Mafai, poco prima di morire100. Nella morbosa sensibilità di Scipione, nel suo avido affondare nell’afrore delle cose alla ricerca del respiro della vita c’è una potente anticipazione della poetica di Corrente. Un’opera come La piovra (I molluschi, Pierina è arrivata in una grande città), dove il titolo troppo lungo rispecchia il gusto di certe tavole della rivista parigina “Bifur” e di alcuni feuilleton che i surrealisti avevano reso di moda, si presta ovviamente a una lettura simbolica. Anche se spesso è soprattutto una sensuale tattilità a decidere gli impropri accostamenti degli oggetti che affollano il tavolo rosso, scenario di tante nature morte dell’artista. C’è già il silenzio del dopo nei quadri di Fiorenzo Tomea dipinti verso la fine degli anni trenta. L’inquietudine della sua epoca dà corpo alle forme grottesche de Il bestione, il mostro che si erge a sbarrare la strada per il mare. Anche se il mare, più che una via di fuga, è antro sommerso, pronto a scagliare sulla riva i relitti di una Tempesta che è stata. Per un pittore che, come lui, ha sempre aborrito sopra ogni altra cosa le trame intellettualistiche dell’arte, queste visioni hanno il valore della genuina espressione di un’inquietudine che affonda le sue radici in un sentire collettivo. Le forme della sua pittura sono le forme di una paura antica. Le opere dipinte dal ventenne Ernesto Treccani manifestano una forte sinteticità. La sua pittura percorre i profili delle cose con una linea severa, che non si concede brividi emozionali. Se confrontiamo due opere eseguite nel 1940, l’Autoritratto e I tetti di Genova, notiamo comunque l’inevitabile altalena scritturale degli esordi. L’Autoritratto, infatti, pur nella severità dell’impianto, dichiara la sua ascendenza vangoghiana nella stesura virgolettata del colore e negli scarti cromatici attraverso i quali si costruisce un’immagine saldamente plastica. Nei Tetti di Genova, invece, la volumetria urbana è ridotta a trama di piani, a reticolato dello spazio. “La vita che sta dietro ad ogni realizzazione d’arte, ci deve spingere a una essenzialità di linee e di piani”, scrive Treccani. “Uno spietato ‘conflitto’ di angoli e rapporti in maggiore”101. La volontà di aderenza al reale non è infatti, nel suo caso, patto naturalistico, anzi. L’esito è quello di una sublimazione della realtà nella sua traduzione segnica. La pittura è la lente capace di mettere a fuoco la trama convulsa dell’essere, di una “città folta della vita di molti uomini”102. 32
99 Cfr. E. Persico, Al Mokador, articolo scritto per “L’Ambrosiano” il 28 o il 29 settembre 1931 ma non pubblicato. Ora nel volume che raccoglie tutti gli scritti sull’arte e sull’architettura di Edoardo Persico. Tutte le opere (1923 - 1935), a cura di G. Veronesi, Edizioni di Comunità, Milano 1964, vol. I, p. 134. 100 M. Mafai, In morte di Scipione, in “L’Italia letteraria”, 19 novembre 1933. 101 E. Treccani, Arte per amore… cit., p. 21. Nota datata 28 giugno 1943. 102 M. De Micheli, Ernesto Treccani, Edizioni del Milione, Milano 1962, p. 8. “Si può indicare un quadro da mettere all’inizio della carriera artistica di Treccani, un quadro che abbia un vero significato di inizio? Penso di sì. E penso che il quadro sia quello che egli dipinse a Genova nell’estate del ’40: un quadro dipinto all’aperto. Ricordo che fui io ad accompagnarlo sul posto. Egli voleva dipingere un paesaggio di tetti, di case addossate le une alle altre, una città folta della vita di molti uomini. Il luogo dove l’accompagnai era una terrazza della villetta Di Negro, da cui si dominava Genova che digrada, grigia di ardesia, sino al mare”.
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Negli anni di guerra, la volontà dichiarata di far diventare i dipinti le bandiere alzate per guidare il popolo alla conquista della libertà spinge raramente gli artisti ad abbandonare le forme del traslato simbolico. Un’opera che è simbolo di una rivolta disperata, di una violenza che non nasce dall’odio, ma dall’amore, è Violette e coltello. Un fiore è speranza, rinascita. Un fiore viola è il segno di una nascita già sporcata da un lutto: la perdita della leggerezza della giovinezza schiacciata dalla necessità della lotta. Sono versi di Treccani del 1940: “Cantano gli operai, / occhi neri e cuore rosso / Sulla strada di Milano / ho ucciso un uomo / non posso cantare”103. Se Corrente è il luogo dove la vita incontra l’arte, la pittura di Italo Valenti rappresenta il luogo dove la poesia incontra la vita. Verso la fine degli anni trenta, è Valenti infatti a comporre delicate metafore oniriche, popolate di figure esili che depongono la loro materialità per diventare segni di una presenza magica. I suoi personaggi tentano puntualmente la fuga dai tempi storici, ma l’altrove a cui approdano è una sorta di isola che non c’è, come quella dell’Isola dei cani, uno dei dipinti di Valenti esposto alla seconda mostra di Corrente, nel 1939. Joppolo l’anno dopo, sulle pagine di “Corrente”, sottolineava la presenza nelle opere dell’artista “di figure umiliate da forme e da colori sottili, l’incessante incalzare di persone che chiamano in aiuto un’atmosfera trasognata di colori perché si possano fisicamente staccare dal suolo ed essere portate in un volo che è senza ali”104. Come quello dei Giovani greci, che all’inquieto stare sulla riva aggiungono il volo di uno di loro. Un volo, però, che è più un precipitare senza speranza, la prova dell’impossibilità di fuga. Il rimando agli uomini rossi di Sassu è inevitabile. Un’altra volta la locuzione esistenziale è quella dell’attesa. Un’attesa su cui saetta quel volo inutile. L’uomo albero non è solo il racconto del miracolo di una metamorfosi, l’atmosfera non è quella di tante altre opere dipinte da Valenti in quegli anni, dove il territorio dell’assurdo in cui si svolge la storia assegna un’assoluta normalità all’incredibile: come quando enormi barche di carta navigano un mare tempestoso. Qui l’evento dirompe nella realtà con la forza sconvolgente di un miracolo avvertito come tale: un miracolo che non ha giustificazioni favolistiche, ma si nutre dell’assurdo della storia. L’anno prima, nel 1937, Carlo e Nello Rosselli erano stati assassinati e Valenti compone un’allegoria magica: l’albero che cresce dalla morte dell’uomo è l’albero della libertà. L’orologio surreale, rotolato a terra, colloca la vicenda nel tempo della storia. Forse per i modi in cui si è svolta la sua formazione, al di fuori degli omologanti insegnamenti accademici, fin dagli esordi Emilio Vedova esibisce una fiera personalità stilistica. La sua presa sul reale adotta le forme drammatiche di un potente bianco e nero. Le sue tele sono colate di segni brulicanti, che si contorcono dolorosamente. “Sempre esaminan103
E. Treccani, Poesie, Edizioni del Leone, Venezia 1986, p. 104. 104 B. Joppolo, Il pittore Valenti, in “Corrente”, 15 aprile 1940. 105 E. Vedova, Un pittore giudica l’architettura, in “L’Architettura”, n. 10, agosto, Roma 1956.
do le mie preferenze di pittore, m’interessa rilevare come l’arabesco trova la sua radice nel barocco”, scriverà Vedova. “Ma sia chiaro: arabesco come segno astratto, libero sismografo di un sentire che va oltre la realtà naturalistica. Un impeto di sensibilità che mi portava a segnare con la saliva, col dito, con uno stecco, in modo immediato: ‘espressionista’ si direbbe oggi; ma che con l’aspra, corrosiva coscienza espressionistica, in quel momento, non aveva niente a che fare. Un segno non decorativo, una registrazione tesa, un’immersione, direi”105. 33
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Una visione anomala, che riesce ad avere la meglio anche sull’abusata pittoricità di una città come Venezia. Il Caffè alle Zattere è ridotto così al tracciato nervoso, zigzagante della vibrazione del segno. Il fraseggio descrittivo in un’allarmata concitazione si spezza, seguendo l’urgenza dell’emozione. Questa segmentazione del tratto, questa frattura della linea secondo angoli imprevedibili, è la cifra stilistica del dipinto, che rivela la matrice del primo linguaggio di Vedova, nella contaminazione del dinamismo boccioniano con l’inquietudine espressionista.
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