il cammino delle
certose napoli | capri | padula
ora che la mostra è ‘finita, consumata e distrutta’ resta questo volume che in trasparenza, come il cristallo, consentirà di rileggerla...
napoli certosa di san martino capri certosa di san giacomo padula certosa di san lorenzo
Ente Provinciale per il Turismo di Salerno
i percorsi dell’anima Certosa di San Martino, Napoli Certosa di San Giacomo, Capri Certosa di San Lorenzo, Padula 21 luglio - 21 ottobre 2017
Mario Grassia, Commissario Unico degli EE.PP.TT. Ciro Adinolfi, Dirigente Responsabile della promozione
SocietĂ campana beni culturali Organizzazione mostra
Regione Campania Vincenzo De Luca, Presidente Corrado Matera, Assessore allo Sviluppo e Promozione del Turismo Rosanna Romano, Direttore Generale per le Politiche Culturali e il Turismo Colomba Auricchio, Dirigente Responsabile del progetto
Antonio Bottiglieri, Presidente Teresa Armato, Vice Presidente Nicola Oddati, Consigliere Francesca Maciocia, Direttore Generale Alfonso Pagano, responsabile progetto
Polo museale della Campania Anna Imponente, direttore
Napoli Certosa di San Martino Capri Certosa di San Giacomo Padula Certosa di San Lorenzo Anna Imponente
curatrice della mostra e del catalogo Fernanda Capobianco coordinatrice della mostra e del catalogo
comitato scientifico Anna Imponente direttore del Polo museale della Campania Rita Pastorelli direttore della Certosa e Museo di San Martino, Napoli Patrizia Di Maggio direttore della Certosa di San Giacomo, Capri Emilia Alfinito direttore della Certosa di San Lorenzo, Padula Fernanda Capobianco direttore Ufficio mostre del Polo museale della Campania Mario Grassia dirigente di staff della Direzione Generale della Programmazione Economica e il Turismo Colomba Auricchio dirigente della UOD 09 della Direzione Generale della Programmazione Economica e il Turismo e responsabile del procedimento Ciro Adinolfi dirigente dell’Ente Provinciale per il Turismo di Salerno staff tecnico Vincenzo Agostino, Roberto Acampora, Domenico Anania, Angelo Auleta, Eufemia Anna Baratta, Claudia Borrelli, Antonio Brambilla, Annunziata Cafaro, Antonio Criniti, Ciro Cutillo, Maria Teresa D’Alessio, Alessandra De Luca, Martina Fiorentino, Roberto Fiorentino, Serena Iaccarino, Michele Iodice, Chiara Mercogliano, Giuseppe Minopoli, Marisella Moscarella, Annamaria Nocera, Michele Pagano, Simone Russo, Eloisa Saldari, Francesco Scazzari, Andrea Staiano, Antonia Tafuri, Francesco Tufano, Veronica Vitolo
apparati didattici Ileana Creazzo, Annalisa Porzio, Eloisa Saldari ufficio stampa Simona Golia referenze fotografiche Fototeca del Polo museale della Campania Lucio Fiorile, Mena Patruno Laboratorio fotografico del Polo museale della Campania Luciano Basagni, Alessandra Cardone, Fabio Speranza altre referenze fotografiche Archivio Maria Dompè, pp. 50, 51, 126/127 Amedeo Benestante, pp. 32/33, 34 Salvino Campos, p. 41 Galleria Fineartlab di Mauro Monfrino, pp. 26-27 Alessandro Minervini, pp. 38/39, 48/49, 72/73, 150-153 eventi musicali a cura di Teatro di San Carlo, Coro femminile diretto da Marco Faelli Accademia Musicale Napoletana Massimo Fargnoli si ringraziano per i prestiti Bologna, Pinacoteca Nazionale Brescia, Galleria Massimo Minini Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi Firenze, Galleria degli Uffizi Intesa Sanpaolo, Servizio attività culturali Napoli, Collezione Fondazione Morra e Museo Hermann Nitsch Napoli, Galleria Alfonso Artiaco Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte Napoli, Società Napoletana di Storia Patria Pescara, Galleria Vistamare Roma, Archivio Generale Giacinto Cerone Roma, Michele de Luca studio d’artista Roma, Galleria Nazionale di Arte Moderna Roma Museo Bilotti Roma, Vittorio Pavoncello Roma, Sandro Sanna studio d’artista Terzigno, Museo Salvatore Emblema Torino, Paolo Mussat Sartor
e inoltre Vanessa Beecroft, Sylvain Bellenger, Massimiliano Campi, Teresa Carnevale, Elena Cerone, Mario Codognato, Cristiana Collu, Bruno Corà, Gianfranco D’Amato, Renata De Lorenzo, Maria Dompè, Radu Dragomirescu, Laura Feliciotti, Silvia Foschi, Mina Gregori, Anish Kapoor, Maria Teresa Incisetto, Peter Lynch, Giuseppe Morra, Hermann Nitsch, Luca Maria Patella, Sara Pozzato, Ilma Reho, Elena Rossoni, Mario Scalini, Francesco Scoppola, Eike Schmidt, Benedetta Spalletti, Anna Maria Traversini, Laura Trisorio, Andrea Viliani, Mauro Zammataro si ringraziano per la collaborazione Markus Stockausen le Pro Loco, le Associazioni Culturali e gli Istituti Scolastici del Vallo di Diano che hanno partecipato alla perfomance di Vanessa Beecroft e tutto il personale delle Certose
sommario
presentazioni vincenzo de luca corrado matera
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il cammino delle certose anna imponente
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certosa di san martino giuditta e oloferne la certosa di san martino “sopra napoli� rita pastorelli
certosa di san giacomo lo studio delle sacre scritture i colori della certosa, i colori di capri patrizia di maggio
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certosa di san lorenzo meditazione e contemplazione la materia della certosa di san lorenzo emilia alfinito
150 154 165
i concerti le opere in mostra nota bibliografica
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vincenzo de luca
presidente della regione campania
Napoli, Capri, Padula. Tre Certose. Tre luoghi simbolo tra storia e religione. San Martino, San Giacomo e San Lorenzo sono emblema plurisecolare della nostra civiltà, capitali monastiche, tesori d’arte ineguagliabile. Tra le proposte turistico culturali della Regione Campania, Il Cammino delle Certose - I percorsi dell’anima si è rivelato un itinerario di grande fascino in grado di unire in un unico percorso culturale tre simboli di straordinaria spiritualità. È stato un percorso unico, un viaggio guidato nella storia, nell’arte e nell’architettura accompagnati dalla sacralità e dalle suggestioni dell’immaginario religioso. Con questa mostra abbiamo voluto compiere un altro passo deciso verso il rilancio dei nostri beni culturali,
valorizzandone la conoscenza e segnando un ulteriore passaggio decisivo in quella che resta la nostra convinzione e la direttrice guida: dare un’organizzazione al sistema del turismo in Campania, cosa che finora è mancata nonostante l’enorme patrimonio di cui disponiamo. Una proposta straordinaria che si è resa protagonista di una stagione da record per il turismo culturale della nostra Regione. Un progetto con il quale abbiamo portato all’attenzione del grande pubblico nazionale e internazionale un altro grande circuito che merita prospettive nuove, e tre Certose degne della eredità di valori spirituali, economico-sociali e civili che ancora custodiscono.
VINCENZO DE LUCA 11
corrado matera
assessore allo sviluppo e promozione del turismo della regione campania
Napoli, Capri, Padula. Tre Certose. Tre complessi monumentali che diventano un unico percorso turistico tra storia e religione. Una proposta turistica che, partendo dall’identità religiosa di questi siti offre ai visitatori un viaggio di visioni, emozioni e sensazioni, praticabile tutto l’anno. La scoperta e riscoperta di tesori d’arte, che un tempo sono stati luoghi religiosi, è parte di una iniziativa più ampia I percorsi dell’anima, che punta ad incrementare la presenza di pellegrini, di visitatori e di turisti che alla conoscenza delle bellezze storiche ed artistiche accompagnano la ricerca del silenzio, della meditazione e della preghiera. Si lavora per una Campania con una capacità attrattiva poliedrica che non dimentica le identità dei luoghi, le tradizioni secolari e le eccellenze dei prodotti. Con Il Cammino delle Certose si è inteso potenziare l’offerta turistica della Campania valorizzando meraviglie architettoniche che non possono essere più considerate monadi, ma devono essere sempre più parte di un insieme che dal Sud e per il Sud d’Italia è motore di sviluppo. La visita alle Certose di San Martino, di San Giacomo e di San Lorenzo, complessi adornati da straordinarie opere d’arte antiche e contemporanee, è un itinerario di emozioni da promuovere sempre sui mercati turistici nazionali ed
internazionali. Il progetto risponde alla volontà di questa amministrazione regionale di rendere la Campania una meta turistica competitiva, da scegliere in ogni stagione e da ammirare nei suoi molteplici volti. Per questo abbiamo messo in campo strategie precise, una programmazione di lungo periodo ed iniziative di respiro internazionale. Il viaggio proposto è, inoltre, accompagnato da una App che con una piattaforma digitale offre spunti di approfondimenti, di conoscenza e di promozione. Questi strumenti digitali sono di supporto anche agli operatori della filiera ricettiva che possono offrire innovative proposte di soggiorno collegate al Cammino delle Certose. Il progetto è una iniziativa che conferma la programmazione regionale come promozione di tutti i territori, dei siti d’arte, dei luoghi marini, delle aree interne, delle produzioni d’eccellenza e dei percorsi religiosi, cioè dell’intero patrimonio turistico della Campania. Un programma che punta a sviluppare una attrattività diffusa all’interno del “sistema Campania”, integrando i grandi attrattori con le aree interne, sviluppando così l’immagine di una Campania tradizionale ed allo stesso tempo innovativa. La Campania, una terra da visitare tutto l’anno.
CORRADO MATERA 13
il cammino delle certose anna imponente
Nel nostro Paese sensibilmente pervaso, nelle differenti realtà regionali, da testimonianze stratificate riferite a un fenomeno affascinante e centrale nella storia della Chiesa, le antiche tracce del monachesimo occidentale, frequente e consueto è imbattersi in questo sterminato patrimonio religioso, per ragioni conservative, di studio o di promozione sollecitate dal riuso a fini museali. È il prezioso lascito della esplosione dei movimenti spirituali fondati nei secoli XII e XIII, diffusi localmente e in tutta Europa, con zone di influenza e di irradiamento in continua espansione dai primi insediamenti, legate a complesse ragioni economiche e sociali. Nello scenario italiano si contano le architetture conventuali di ordini religiosi soppressi per le politiche anticlericali, nei diversi contesti storici dell’Ottocento, successivamente ridimensionate ma presenti, vivificate dall’attualità del messaggio spirituale di cui sono portatrici o, infine, adeguate a destinazioni e trasformazioni museali che hanno ceduto il passo. L’incipit alla Soprintendenza del Lazio agli inizi del 2010, era stato la riscoperta dei dipinti realizzati per le Chiese Cappuccine della Tuscia, tra la fine del Cinquecento e il Settecento. Si voleva dar conto dei restauri eseguiti su opere celebri come l’eclatante pala d’altare dell’Immacolata di Scipione Pulzone che rischiarava di luce lunare la chiesa di Ronciglione, e di altre immerse nel calore oscuro e penitenziale delle aule conventuali, che figurano in mostra nella Sala del Conclave nel Palazzo dei Papi di Viterbo. Un vasto progetto contenitore dei luoghi del sacro, aveva poi
condotto alle origini dell’ordine, nei santuari della Valle Santa cardini dal medioevo del pauperismo francescano ancora rinnovantesi, e a Rieti. La mostra sui capolavori dedicati al Santo, da Cimabue fino a Mimmo Paladino, con le testimonianze del suo passaggio e l’influenza anche in quei luoghi, si era aperta nel 2012 prima dell’onda lunga di rinnovate celebrazioni dell’umile Francesco. La Soprintendenza aveva promosso nella Certosa di Trisulti i restauri della Farmacia affrescata, munifica di carità, per tradizione, verso gli indigenti, e un documentario che voleva favorire la conoscenza di un monumento nazionale di inattesa e sublime vastità, isolato sulle colline del Frusinate e ancora animato dagli ultimi monaci depositari della sapiente distillazione di liquori medicamentosi. L’avvio al Polo nello scorcio del 2016, è stato dato dall’opportunità di estendere l’attenzione alle grandiose e magniloquenti sedi museali certosine del territorio campano, comprese nel contesto delle oltre duecentosessanta nel resto d’Europa. Conclusi gli improrogabili restauri delle coperture ondeggianti della Certosa di San Giacomo a Capri, l’intento era proporre un circuito espositivo, il Cammino delle Certose, che le unisse in un percorso legato ai contesti, dalla sede napoletana a Capri e a Padula, con la novità di un filo conduttore aperto e fluido, con rimandi tra una sezione e l’altra. Si è confermata una consuetudine all’accoglienza, anche permanente, dell’arte contemporanea. Gli ambienti della antica Spezieria e del Museo di San Martino a Napoli sono stati investiti per la prima volta dallo shock del nuovo, IL CAMMINO DELLE CERTOSE 15
collegato, con incursioni nel passato, al tema biblico della Giuditta e Oloferne, il programma iconografico che i colti padri priori avevano assegnato a Luca Giordano agli inizi del Settecento per gli affreschi della volta nella cappella del Tesoro Nuovo. Le scene del Vecchio Testamento a rapide pennellate si confrontano con altri riferimenti codificati nel Seicento, dal dipinto di Artemisia Gentileschi in cui l’artista partecipa, emotivamente coinvolta, a quelli di Jacopo Ligozzi, Carlo Saraceni, Giovanni Francesco Guerrieri e Guido Cagnacci. Hanno trovato confronti a distanza e richiami con la drammatica necessità del gesto di maestri del Novecento quali Lucio Fontana e Alberto Burri, e dei contemporanei Louise Bourgeois, Luca Patella, Anish Kapoor, Giacinto Cerone e Paolo Mussat Sartor. I tagli, i buchi, l’aggressione della materia, i giacigli come sudari, le reliquie, i resti di eventi luttuosi, le immagini fotografiche tagliate nette di scorcio, trasferiscono nella dimensione attuale, una riflessione più estesa sul tema della violenza. L’interno della chiesa di San Giacomo nella Certosa caprese, è stato il contesto ideale per la percezione della spiritualità certosina, l’esercizio della lettura delle Sacre Scritture per ascendere un gradino della scala claustralium. Lo studio assorto conduce alle certezze della sapienza racchiusa nei libri, fondamenti di conoscenza. L’attualità dell’invito è contenuto nel Levitikus, nella versione di Hermann Nitsch che si confronta per dimensioni con l’altare; è accolto , in una cappella, dalle illustrazioni della Bibbia ebraica di Vittorio Pavoncello. Parte del misticismo certosino si alimenta nel connubio con la bellezza della natura: Karl Wihelm Diefenbach, negli spazi attigui del museo a lui dedicati, aveva colto il mistero panico dell’isola, dall’orizzonte vicino sui Faraglioni e l’orografia delle colline coltivate a vigna, non ancora assediate dai recenti scenari. Le conformazioni plastiche dell’ intero perimetro dell’ “isola d’argento” o dell’ “isola d’oro” mutuate da Vettor Pisani dialogano con le visioni dell’artista simbolista. Anche in altri siti museali del Polo sono stati attivati progetti che valorizzano la ricchezza culturale del lungo tempo storico che custodiscono, evidenziandone l’identità o, come in questo caso, eventi che lo attualizzano, senza pretese di colonizzazioni culturali fuori contesto. A rendere palpabile la tensione verso il più alto stadio della vocazione certosina, la meditazione e contemplazione del divino, premio a un difficile quanto necessario isolamento, concorre a Padula la sequenza ipnotica delle architetture dilatate, come quella del chiostro grande, che prefigurano lontananze illimitate. Nella ricerca artistica contemporanea stanno a indicare una inclinazione all’assoluto affidata al solo potere dell’arte, l’esaltazione dell’ebbrezza della pittura o della scultura che rivisitano l’astrattismo, senza negare la relazione con lo spazio naturale. Risulta percepibile nelle testimonianze di Salvatore Emblema, Ettore Spalletti, Claudio Palmieri, Michele de Luca e Sandro Sanna. Lucilla Catania affianca ai 16 ANNA IMPONENTE
volumi di cristallino nitore della Certosa, i suoi ruderi di terracotta stesi in frammenti. A evocare i muti fantasmi delle presenze certosine concorrono la performance di Vanessa Beecroft in cui la immobile materialità dei corpi dei protagonisti trascende il tempo presente, e l’installazione permanente di Maria Dompè che plasma uno spazio desueto per tracciare un percorso connotato da un’invocazione al silenzio con il tono di accorata preghiera. Si voleva che oltre il periodo effimero delle mostre permanesse il senso di una rinnovata stagione espositiva. Il percorso di visita nelle assolate certose campane conosceva le macchie refrigeranti dei prati che integrano il perimetro dei chiostri, e gli antichi frutteti. Recuperando alcune campionature degli “orti dei semplici” si è voluta offrire, con la varietà delle piante medicinali, non solo memoria dell’allegoria del paradiso, ma il senso di una produzione autarchica in una terra generosa grazie al lavoro dei frati. Nel delineare i programmi espositivi c’è stato l’impegno personale per curare le tre mostre. Non sarebbe stato possibile senza il pieno sostegno di Fernanda Capobianco, e la partecipazione competente delle direttrici delle Certose, Rita Pastorelli, Patrizia Di Maggio e Emilia Alfinito; e di Eloisa Saldari, collaboratrice da lunga data. Il benevolo accoglimento dei direttori della Galleria degli Uffizi di Firenze Eike Schmidt, della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, Cristiana Collu, del presidente della Fondazione Burri di Città di Castello, Bruno Corà, assieme ai direttori degli altri musei, ha consentito il prestito di opere indispensabili in mostra. La decisiva volontà espressa da Vincenzo De Luca, Presidente della Regione Campania, da Rosanna Romano, Direttore Generale per le politiche culturali e il turismo, da Corrado Matera, Assessore al Turismo e il serrato dialogo e il supporto gestionale e amministrativo di Colomba Auricchio e di tutto lo staff della Regione hanno consentito di realizzare i tre progetti. “Quando la mostra è finita, distrutta e consumata” mutuando un’espressione dell’artista Radu Dragomirescu, resta questo volume, che in trasparenza, come il cristallo, consentirà di rileggerla.
Pietro Bernini San Martino divide il mantello col povero, 1596-1598 Napoli, Certosa e Museo di San Martino, dal portale della certosa
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Il Cammino delle Certose Il fortunato titolo della trilogia echeggia i mitici itinerari percorsi a piedi da ogni parte, che unificavano l’idea di Europa, fin dall’alto medioevo, per raggiungere Roma sulle diramazioni della via Francigena. E riporta alle peregrinazioni a tappe di santi, vescovi, regine, cavalieri e contadini verso Santiago de Compostela in Spagna, tra le più frequentate del mondo cristiano. Le esperienze ricorrenti dell’umanità sembrano racchiuse in una rete di cammini che per secoli hanno traversato il Mediterraneo seguendo emblemi e motivi religiosi. Tra le grandi migrazioni dei popoli del passato e del presente, connota l’identità ebraica il viaggio nel deserto del “popolo del sogno” in eterno cammino dalla patria verso un paese sconosciuto, dopo la chiamata di Dio rivolta ad Abramo; e le mete degli emigranti in esodo in terra straniera, con la lacerazione del distacco per una via senza ritorno. L’idea di un cammino può unire credenti e laici, nell’ansia dei profughi di ritrovare una terra promessa e transitati a nuove povertà. Il viaggio, nella modernità opulenta, si è trasformato in un pellegrinaggio laico e i percorsi alternativi sono segnati da una diversa ritualità: gli ingenti trasferimenti di massa per eventi spettacolari, le maratone colossali, gli appuntamenti espositivi internazionali per mostre imperdibili, rispondono alle tante tipologie dei nuovi cammini. Se per traslato, seguire la via significa, anche secondo le filosofie orientali, percorrere la strada del grande viaggio della vita, siamo chiamati a interrogarci sul senso del nostro cammino, in un mondo percorso da un panico sotterraneo, senza appigli fermi e certezze per mancanza di pesi religiosi e per l’assenza di direzioni spirituali. Un edonismo istantaneo e transitorio appaga il nostro continuo nomadismo e ansia di ubiquità. Mancando il senso del sacro si diventa turisti di elezione, in un’epoca definita, a ragione, secondo l’analisi di Marco D’Eramo, “l’età del turismo”. Con ricadute assai positive coinvolge il consumo dei beni culturali, aspettative, successi e leadership museali. L’industria più redditizia sembra la capacità di coinvolgere e muovere flussi, produrre numeri di persone, di capitali, creare infrastrutture, modificare e ridisegnare l’architettura e, in sua funzione, persino la topografia delle città. Nel sistema globale dell’industria turistica le masse umane costituiscono il mercato spesso invasivo che i centri urbani si contendono. Si tratta di un fenomeno sociale che si affianca alla convivenza con la pubblicità e con lo sport, non esaurientemente elaborato da chi lo genera. Può sembrare una affermazione controcorrente, ma incoraggiando un’industria monoturistica che sfrutta il valore di mercato dell’autenticità delle città d’arte, si rischia di occupare tutto lo spazio vitale dei suoi abitanti. L’impatto e le conseguenze paradossali potrebbero essere che lo scenario delle tradizionali attività urbane perdano consistenza e si trasformino, 18 ANNA IMPONENTE
ove sopravvivono, in fondale da teatro. Se il turista, come categoria antropologica è chi viaggia e anche un modello di comportamento da soddisfare, all’occorrenza, con la realtà virtuale in sostituzione di una realtà alterata, significa che il tessuto del pensare e delle offerte culturali, all’apparenza variate e complesse, sono divenute più grezze. La panoramica degli eventi espositivi che ripropongono gli stessi autori considerati i soli protagonisti confermano una attitudine al dominio monoculturale. Mentre, invece, il patrimonio artistico si alimenta di stratificazioni e scuole regionali cresciute spesso all’ombra dei grandi maestri, a volte minori perché tale ne è la conoscenza diffusa. L’Homo saecularis sembra essersi sbarazzato del bagaglio di quello sacer e delle religioni, ma resta credulo e non completamente al riparo dal dominio di una potenza economica dirompente e da statistiche prefigurate sotto la guida di una intelligenza artificiale. A rimanere escluso sembra un aspetto che contraddistingue l’individuo, la consapevolezza e l’unicità della coscienza critica. Quando la cultura viene accostata solo all’utile, la superficialità offusca la cultura più autentica: il cammino diventa una metafora della condizione attuale, la meta di speranze a volte deluse, una fortezza limitata, su una via senza ritorno. La visita delle certose campane è solo sfiorata dal turismo di massa del nostro presente: la loro condizione d’uso originaria resta percepibile, nonostante le spoliazioni e le trasformazioni subite. Può ricondurre a una esperienza rigeneratrice il senso di partecipazione intima e emotiva, preservato come un valore museale aggiunto. La scelta dei temi delle mostre è racchiusa in un discorso aderente ai luoghi, modulato su registri diversi che rispondono essenzialmente alla ricerca di un rapporto con la religione, la filosofia e al ripensamento di un’arte che esprima il senso di vicinanza a una spiritualità laica. Il Cammino delle Certose ricompone l’idea di una visione allargata, in grado di mettersi in relazione e di forzare i limiti dei propri orizzonti: implica un coinvolgimento fisico che unisce un’esperienza tra percorsi che si intrecciano, fatti di rimandi tra opere accostate per associazioni tra argomenti diversi e non separati. La stessa architettura certosina è caratterizzata da lunghi attraversamenti rettilinei, e la passeggiata o “lo spaziamento” scandiva il tempo, ogni settimana, in cui i monaci camminando a coppie rompevano il silenzio e si scambiavano alcune parole: era il momento della socialità nel desertum. Forme di vita certosina Nel sipario aperto sulle forme di vita certosina queste appaiono vigorosamente legate a una sovranazionalità di portata europea: ispirate da Brunone di Colonia alla regola di San Benedetto e in vicina consonanza in Francia, con i Cistercensi di Bernardo di Clairveaux. Il monachesimo rappresentò la soluzione sociale per arginare una condizione endemica di
angoscia, insicurezza e un diffuso sentimento di crisi. Offriva garanzie concrete di vita tranquilla e condivisa, in antitesi con la decadenza di città dalle architetture disordinate espressione di disparità sociali, dalle strade infide che favorivano le imboscate, e l’impoverimento delle campagne per gravi carestie, continue invasioni e terribili pestilenze. In contrapposizione alla confusione morale e istituzionale, al modo di vivere e allo sfarzo cerimoniale della corte pontificia soccorrevano esempi ispirati alla semplicità degli umili. Nel XII secolo, in un contesto di rinnovamento spirituale, le certose configuravano nel pensiero cristiano un universo simbolico, non il luogo geografico ma la Gerusalemme celeste in terra, a immagine della città di Dio. Idealizzando la città storica dalle alte mura nacque una architettura religiosa strutturata secondo una distribuzione spaziale che le contraddistingueva come realizzazioni del modello della città rifugio, anticipatrice di quella, solo immaginata come utopia, secoli dopo, da Tommaso Campanella con la Città del Sole nel 1602. L’estetica medioevale non negava l’innovazione, ma la nascondeva sotto forma di visione e di momento metafisico, secondo i moduli della ripetizione della armonia architettonica, simile a specchi dai tanti riflessi, e con l’attrazione per una sistematica razionalità di impianto, articolata con forme squadrate simili a pietre preziose. La certosa è una città fortificata che ubbidisce a regole e a costumi. Nella autonomia delle comunità, realtà economiche e spirituali, l’esistenza veniva trasformata in una serie di prescrizioni di tecniche ascetiche. Il programma estremo di realizzare la forma di vita certosina era scandito da una liturgia incessante, dall’esaltazione del faticoso e costante esercizio dei quattro gradi della scala claustralium, lectio, oratio, meditatio, contemplatio e dai lavori manuali, incluso quello degli scriptores nelle biblioteche per il recupero delle fonti classiche. Segregato dal mondo nel complesso della cittadella monastica, necessaria “come l’acqua per i pesci, o l’ovile per le pecore” secondo le Consuetudines del 1127, il certosino all’interno della cella, luogo di spogliazione, riceveva il vitto da una piccola finestra, coltivava l’hortus, il giardino privato come riflesso dell’anima. In una vita di continua preghiera, la contemplazione lo riportava all’eden e all’incontro con Dio. Il paradiso terrestre, vertice della vita spirituale era raggiunto nel completo isolamento e la separazione l’uno dall’altro, era necessaria alla salvezza per “migrare con la mente da cose visibili a invisibili”. La volontà di controllo di tutti gli aspetti di un’esistenza radicalizzata in cui la coscienza sviluppava una dimensione spirituale sotto il peso di regole austere, può farla apparire oggi una condizione gravosa, se equipariamo quella del silenzio a una forzata condizione di reclusione. Ma per i monaci l’officium aveva senso solo se diventava modello di vita integrale. Ogni gesto del monaco, a partire dalla più umile attività manuale, si configurava come atto spirituale e in questa liturgia di uffizi
diurni e notturni era la sfida e la novità del monachesimo. Nella scelta del bianco per l’abbigliamento di lana grezza trattenuto in vita da una cintura di cuoio, con scapolare e cappuccio, descritto, ad esempio, nelle tele del pittore tardo seicentesco Nicola Malinconico nel Museo di San Martino, tra teorie estetiche e foreste di simboli, prevale il significato del colore dell’apparizione, o di un non colore, l’immediatezza della luce che si avvicina allo splendore e alla perfezione divina. Anche la musica è dimensionata al solo canto corale liturgico, poiché il suono degli strumenti era considerato un lusso inutile e puro piacere dei sensi. In Campania, alla semplicità dei primi conventi dai nitidi impianti di fondazione trecentesca, seguirono le trasformazioni nel Cinquecento, poi l’enfasi dei trionfi barocchi, le opulente tarsie marmoree a San Martino a Napoli, la dovizia di stucchi e di pietre lavorate da maestranze locali a Padula, grazie alla crescente disponibilità finanziaria di potenti benefattori e l’influenza temporale dei priori.
Antonio Zaballi Pianta della Certosa di San Martino, 1776-1779 Napoli, Certosa e Museo di San Martino
alle pagine 18/19 Chiostro Grande fine XVI-prima metà del XVII secolo Napoli, Certosa e Museo di San Martino
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Il cammino nella Certosa di San Martino: Giuditta e Oloferne tra passato e presente Lo stato di confusione e provvisorietà che l’arte oggi affronta deriva dal suo apparire sospesa sul bivio del tempo. Le possibilità aperte sono, da una parte, il ritorno alla tradizione, a una rilettura del moderno e dell’antico, per una modifica creativa dei loro fondamenti come confronto dialettico con la storia dell’arte. Dall’altra parte, una estetica e una tecnica che si definiscono contemporanee, celebrazioni di differenze, temporaneità e del caos. L’opposizione si muove tra il moderno e il “contemporaneo” che vuole l’indipendenza delle forme e una idea della libertà come assenza di fondamenti, quasi che la contemporaneità corrisponda solo ad una preoccupazione di carattere estetico. Attitudine praticabile è percepire i limiti della propria epoca, trovare le regole di combinazione di una tradizione consolidata, prendere e scomporre il reale perché l’arte sia resa nuovamente fluida e i veli rimossi. L’artista produce il nuovo con valore antropologico recuperando e smontando, costruendo differenze, con una libera e discontinua ripresa dei modelli del passato. La prospettiva di inforcare gli occhiali della storia mette al riparo dai rischi di una contemporaneità appiattita sul qui e ora. A parte le raffigurazioni tratte dai martirologi, l’iconografia rivisitata e variata dell’episodio di Giuditta e Oloferne, si colloca nel novero delle più cruente. Agisce da richiamo ad una attualità di violenza ricorrente, e può calarsi in una riflessione finanche su quella della natura, se un terremoto distrugge, in una manciata di secondi, tracce di secoli. Per un paradosso critico, le testimonianze del passato diventano chiare, leggibili ed efficaci in un certo momento della loro storia, quando si sono tragicamente dissolte. Le divagazioni sul tema di Giuditta e Oloferne, tra passato e attualità, rendono omaggio all’ affresco di Luca Giordano sulla volta della cappella del Tesoro nella chiesa di San Martino a Napoli che anticipa di pochi decenni e amplifica nel soggetto, il tema di uno dei tesori sconosciuti di Amatrice, andato distrutto il 24 agosto 2016. Dopo il terribile e devastante sisma del 1703, nella Chiesa di Sant’Agostino eretta a fine Trecento, col tetto a travature e il portale tardogotico scolpito con la teoria di monaci in preghiera, gli esuberanti apparati decorativi dell’altare maggiore “privilegiatum” confermavano che il post terremoto aveva prodotto, allora, considerevoli lavori di ricostruzione. Terse colonne binate e paraste addossate sorreggevano su volute architettoniche, due angeli affrontati che indicavano come figure segnaletiche, un medaglione raffigurante in candido stucco a bassorilievo, l’episodio biblico di Giuditta e Oloferne. Aveva posto l’attenzione su questa insolita raffigurazione Don Luigi Aquilini, indomito parroco ottuagenario, memoria appassionata della cultura locale, durante l’incontro ad Ama22 ANNA IMPONENTE
trice per presentare il libro Forme e Immagini del territorio, voluto dalla Soprintendenza a conclusione dei restauri sui beni conservati in questo nascosto lembo di Italia. Sotto un cielo stellato, e un fascio di luce divina a giustificare l’azione, Giuditta sovradimensionata dominava al centro sull’accampamento nemico, con la spada in pugno, mentre calava nel sacco sorretto dalla fida ancella, la testa di Oloferne. Nella tenda il corpo adagiato sotto il lenzuolo, grondante sangue dal collo acefalo: la città turrita a destra, modellata su quella reale circostante, sarebbe stata finalmente liberata. Questa testimonianza avrebbe ben figurato tra gli inediti del Settecento nella stessa chiesa, come la tela del reatino Giuseppe Viscardi con La Madonna della cintola con sant’Agostino e san Nicola di Bari. Il terremoto doveva segnare, un mese dopo, con la perdita di un prezioso quanto sconosciuto patrimonio d’arte un inesorabile spartiacque. La storia di Giuditta contenuta nell’omonimo Libro della Bibbia e non accolta in quella ebraica, segna l’accesso nella società arcaica, ai tempi del re assiro Nabucodonosor nel VII secolo a.C, di una figura femminile piuttosto atipica. Una giovane e ricca vedova interviene, dato lo scarso coraggio degli uomini della sua comunità ridotta allo stremo, con le armi della seduzione e dell’inganno, per sconfiggere l’oppressore Oloferne che l’aveva invitata al banchetto, illudendosi di poterla possedere. La donna entrata nell’accampamento nemico rappresenta la giustizia, la potenza del Signore e di conseguenza il trionfo della Chiesa. Appartiene all’iconografia cristiana, con tutta la sua fosca teatralità fin dal Medioevo. Climax dell’azione è il momento in cui lasciati soli, con Oloferne steso sul giaciglio ubriaco, questi viene colpito dalla sua stessa arma rivelatasi fatale. La scena celebra una autentica apologia della lama che, nelle raffigurazioni, attrae chi la vede e diviene il focus, assieme alla protagonista determinata a usarla. Seguendo le riflessioni di Alexandre Dumas sono state coniate parole diverse per identificare un assassinio, a seconda che sia perpetrato su un individuo o su un despota. L’omicidio si distingue dal tirannicidio: il primo è la morte data da un individuo a un altro, mentre il tirannicidio è l’assassinio del tiranno da parte di un comune cittadino. L’educazione classica glorifica l’assassinio politico che la coscienza e la pietà del singolo tuttavia, tendono a riprovare. Con una operazione di “chirurgia politica” ci si arroga il diritto civile di sopprimere un rappresentante negativo e dannoso del corpo sociale, tanto più se è un nemico e si agisce per mandato divino. Nella decapitazione dell’oppressore di Betulia, nel dipinto a Capodimonte, Artemisia Gentileschi enfatizza il peso della volontà dell’eroina, con le vesti di gentildonna e i modi spicci di una popolana del Seicento. Portatrice di un’idea di moralità avvia un tragico gioco che rivolta le gerarchie dell’universo femminile. Uccide Oloferne nel sonno, dopo che la fredda lama della scimitarra immersa nel collo lo ha
Luca Giordano Trionfo di Giuditta, 1704 Napoli, Certosa e Museo di San Martino Cappella del Tesoro Nuovo
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destato per un attimo, mentre fiotti di sangue vermiglio si riversano dal cuscino. La parte della carnefice sarebbe potuta risultare imbarazzante se, con una flagrante teatralità caravaggesca, la smorfia di strazio della vittima non fosse compensata dal gesto di chi agisce consapevolmente nel nome di Dio. L’attrattiva dell’opera consiste proprio nella meraviglia di un gesto feroce e cruento che si riscatta raffinandosi in una autocontemplazione della stessa protagonista. Alla rappresentazione naturalistica del sangue fa riscontro l’intonazione rosata fluorescente grondante lungo la parete, dal “coltellaccio piantato nel muro” nell’installazione ideata da Luca Patella. Un’opera fronteggia l’altra: al grido “Arte mi sia!”, invoca la pittrice per inserirsi come parte concatenata di un discorso con il quadro antico e poi demitizzarlo. Patella ascolta i suggerimenti del dipinto di Artemisia e ci chiede di stare al gioco. Il suo pensiero visivo nasce da un dialogo frammentato con gli aspetti che lo compongono, poiché l’arte si innesta come generatrice di altre forme. A distanza le opere si aprono al rapporto con la contemporaneità, in un riciclo continuo di oggetti e forme simboliche. Il tabernacolo affiancato, elemento che racchiude una conchiglia è trasmigrato di senso da un precedente lavoro: c’è un passaggio di saperi, sia tra oggetti relazionati tra loro che con le opere di altri maestri. Cogliendone il significato Patella le promuove, con prensile immediatezza, facendosi coinvolgere dal concetto di ambiguità, ricreazione e adattamento. La scrittura, oltre che come riflesso del pensiero, riveste, come grafia, un ruolo espressivo. L’antica arte della scrittura, capace di curare l’anima con l’esercizio della calligrafia resiste ricordandoci che, nello scriptorium, il dono più prezioso del lavoro dell’amanuense era il silenzio. Mentre nelle immagini sanguinarie descritte da Francesco Guerrieri o da Carlo Saraceni, Guido Cagnacci e Iacopo Ligozzi, per comporre la scena, la tela veniva accarezzata dal pennello intriso di vernici e pigmenti colorati, nei tagli di Lucio Fontana che incidono, squarciano o bucano le super24 ANNA IMPONENTE
fici, come già nelle prime ceramiche, è la stessa determinazione di Giuditta, con la sua lama affilata e mortale ad avere il diretto sopravvento. Durante l’esecuzione dell’opera il taglierino da grafico agisce per la volontà di rompere ogni schema e legame con il passato, procurando lacerazioni asettiche e precise, come si trattasse di uno strumento da taglio in mani chirurgiche. La meccanica gestuale è simile, ma il fine è il ribellarsi all’oppressione delle convenzioni, per la conquista di una visione spaziale pluridimensionale. Il senso della violenza dovuto allo strazio dell’arma da fuoco come approccio comportamentale, necessità di aggredire e dare sfogo al il più riposto istinto, traspare nel percorso di Alberto Burri. Nel Grande Ferro (1961) emula con una finzione mimetica le lacerazioni e contraddizioni della vita. L’attenzione si concentra sulle qualità espressive della materia, la opacità della superficie di metallo consunto e la bellezza semplice e tranciante di una fenditura rossa che lacera il bordo della superficie di metallo, slabbrandola per portarla verso una nuova forma di incandescenza. Anche la battaglia fisica e interiore di Giacinto Cerone sembra quella di un duellante che, con una metafora, riveste simultaneamente il ruolo implacabile di Giuditta travolta, nello sconfiggere Oloferne, dal peso della sua stessa velocità distruttrice e forza ribelle. Come in lei, tutta l’eclatante energia si concentra nel gesto pronto a fendere il colpo: rimane il giaciglio di coltri scomposte su cui resta adagiato Oloferne, nella vana lotta. Tra le sculture di Cerone, allo stesso modo, i sudari sono costruiti come volumi orizzontali in gesso o in ceramica che mantengono i segni di colpi, fori, torsioni necessarie a piegare le forme al suo volere. Per portare la materia in vita, per darle una struttura, in un processo inverso, occorre ferirla. Che l’artista si sentisse legato alla tradizione, e che il suo sentimento fosse di resistenza al sistema dell’arte, per difendere come “martelli che spaccano i vetri per far entrare il vento nelle case” una manualità sostituita sempre più dalle tecnologie, è documentato
dal perfetto accostamento con il bozzetto in terracotta di Antonio Corradini (1750-52) per il Cristo velato di Giuseppe Sanmartino (1753) nella stessa sala del museo, in cui sembra di leggere un possibile antefatto. Se vengono meno l’essenza del mito e il lato oscuro della religione che nell’era cristiana hanno occupato un posto, l’artista mettendo a nudo i più riposti desideri di una esistenza laica, coglie sul filo dell’ambiguità, la celebrazione del puro sadismo che si nutre del dolore fisico e dell’animo. La forza del taglio, l’urlo della sofferenza dei corpi sezionati sono ciò che resta nelle concrezioni in silicone di Anish Kapoor. La presenza del sangue, di lembi di carne mutilata invadono tutto lo spazio senza possibilità di riscatto, come invece nelle operazioni altrettanto destabilizzanti di Hermann Nitsch. L’arte non fa più da mediatrice tra immanenza e trascendenza, coglie il mistero della vita nella inquietante fisicità della morte. La scultura condivide con la pittura la funzione di cinica freddezza imitativa di un corpo dilaniato e mortificato, tra bendaggi intrisi di umori e ferite purulente. Le reminiscenze di torture agiscono sull’inconscio, accendono i sensi e il desiderio morboso del voyeur, tra attrazione e repulsione del macabro. L’immagine del coltello come sintomo e filosofia del fare, perché il subconscio trovi nella pratica dell’arte una terapia e una nuova forma di redenzione, permane nella bambola di pezza, la Femme couteau di Louise Bourgeois, dove la dissezione del corpo con il taglio, libera la mente da demoni nascosti nelle pieghe dell’anima. Il coltello affonda senza ferire oltre, in un contesto in cui la parola s’è fatta più tagliente della lama. L’artista sembra raccogliere e fare sua la terribile lezione del silenzio della bambola, un automa in balia di un corpo vivo che gioca con lei: l’età dell’innocenza può nascondere una autentica ferocia. La Bourgeois insegna che il nostro passato non farà altro che tacere, come una bambola tra le braccia di una bambina o in un museo delle cere, anche se in quel tronco di pezza sembra di poter udire lamenti, urla terribili, una storia agghiacciante celata sotto un assemblaggio grottesco. Le bambole non si ribellano alle contorsioni e amputazioni subite, sono vittime della violenza poiché non oppongono resistenza, e con il loro silenzio colgono uno stereotipo femminile non del tutto superato. Il taglio di un frutto, che ha la sua sezione ideale nella precisa metà, agisce da stimolo nelle Nature di Paolo Mussat Sartor alla scoperta, con l’obiettivo fotografico, delle strutture del mondo vegetale analoghe a quelle degli esseri viventi come forme frattali. Lo squarcio fa apparire all’interno dei frutti, grazie alle loro esistenze ingrandite, la meraviglia quasi artificiale delle polpe cangianti per qualità luminose, fertili promesse di altri semi e cicli di frutti, che serbano la dignità di sistemi vascolari, la complessità di apparati nervosi, la memoria di sessi o di un cuore. Sono i
frutti proibiti di un eden perduto, colti da un occhio avvezzo a mediare con le categorie estetiche del bello e a ricostruire nello studio fotografico il piacere dell’intelligenza della vista. Il taglio, nell’accezione di generoso gesto di offerta, si può assimilare a quello che compare nel bassorilievo (1596-1598) di Pietro Bernini sul portale della Certosa che rappresenta San Martino a cavallo nell’atto di dividere con la spada il suo mantello per donarlo al povero ignudo ai suoi piedi. Nella serie delle Gambe si impone solo una parte del corpo femminile, un’immagine ritagliata che ritrae un particolare che noi continuiamo, immaginandone il busto e la testa. La spaccatura inibisce la composizione ordinaria del reale, senza tuttavia manifestare l’idea di una limitazione castrante. Le foto rivelano un aspetto separato particolare, colto da uno sguardo estetizzante che recupera con una tavolozza dei colori ridotta all’essenziale, la bellezza acromatica variante dal nero al bianco, il fermo immagine di un incontro amoroso non ancora consumato.
Amatrice, chiesa di Sant’Agostino, XV secolo prima e dopo il sisma del 24 agosto 2016 (courtesy Maurizio Occhetti)
Decorazione in stucco con Giuditta e Oloferne prima metà del XVIII secolo Amatrice, chiesa di Sant’Agostino prima del sisma del 24 agosto 2016 (courtesy Maurizio Occhetti)
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Antonio Corradini Cristo velato, bozzetto, 1750-1752 Giacinto Cerone Settembre nero, 1994
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sullo sfondo Guido Cagnacci Giuditta con la testa di Oloferne 1645 circa allestimento della mostra Napoli, Certosa e Museo di San Martino
Lucio Fontana Concetto spaziale, 1949 Giovanni Francesco Guerrieri Giuditta e Oloferne, 1615-1618 allestimento della mostra Napoli, Certosa e Museo di San Martino
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Paolo Mussat Sartor Gambe, 1992-1993
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Paolo Mussat Sartor Nature, 1973
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Luca Maria Patella Bozzetto per l’installazione dell’opera in mostra Arte mi sia
Artemisia Gentileschi Giuditta decapita Oloferne, 1612 Luca Maria Patella Arte mi sia, 2017 allestimento della mostra Napoli, Certosa e Museo di San Martino
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Il cammino nella Certosa di San Giacomo La preghiera e la lettura articolano minuziosamente ogni aspetto della vita nel cenobio certosino, e secondo la scala claustralium lo studio delle scritture sacre rende performativa e presente la realtà di ciò che viene letto e che suscita le domande rivolte dal priore ai monaci. La Bibbia funziona da palestra intellettuale e la costante erudizione sulle pagine dell’Antico Testamento e la ricerca della sapienza portano all’interrogazione infinita dei libri, selve di allegorie da decifrare per alimentare la fede e l’esperienza contemplativa. In una generale epopea del deserto, la meditazione dell’eremita nell’arido paesaggio orientale o nella certosa, giardino cristiano, non trova differenze. Pesa come le tavole della legge il Levitikus, il libro dei libri, e libro d’arte nell’edizione di Hermann Nitsh, con le grafiche, obbedienti alla non figuratività della bibbia ebraica, per definizione non traducibile in immagini. In assenza di oggetti, il linguaggio astratto sollecita la distruzione delle forme e raggiunge una concretezza materica interna, una pienezza e autonomia, ripetendo in sé un processo vitale e generativo. Nella storia delle civiltà, le più distanti per tradizioni religiose e antropologiche, sono state accumunate in modo diverso, dalla pratica del sacrificio che segna il distacco dal comportamento animale aderente alla dimensione naturale del solo bisogno fisico. Per il presupposto teologico che il sacrificio libera l’essere umano da una colpa di cui sarebbe marchiato dall’origine, tale logica si afferma nella celebrazione della messa, intesa come memoria del sacrificio nell’enigma sublime della croce, e contatto simbolico con l’invisibile. Legati a un aspetto specificamente religioso e al momento performativo del sacrificio sono i Relitti di Hermann Nitsch, riscritture sensuali degli eventi del Teatro delle Orge e dei Misteri, e divenuti opere autonome sulla passione di Cristo. Le tracce di sangue che imbrattavano i materiali coinvolti nell’azione, vicini ai paramenti sacri, portano nel presente la flagranza degli eventi trascorsi. L’abside della chiesa di San Giacomo diventa arena ideale per uno sguardo sulla ciclicità del sacrificio. La pratica della ritualità, espunta come inattuale, dopo aver posto termine alla sua storia violenta, torna sotto forma di opera d’arte totale. Attraverso il sacrificio simbolico Nitsch fa accrescere l’esperienza, sperimenta i limiti e le mancanze, conosce la potenza della lacerazione insegnando a gestire le proprie pulsioni. L’idea del sacro genera “una energia incomprensibile, che ha una importanza eminente sulle emozioni degli individui” (R. Caillois). L’urgenza di spiritualità avvicina intimamente alla sfera del sacro, e l’arte soccorre questa necessità cercando di adeguarsi al compito. Vittorio Pavoncello, nelle incisioni della Bibbia ebraica, accoglie la sfida di una rappresentazione per accenni disposti per tracciare una iconografia 32 ANNA IMPONENTE
mentale che colma l’assenza voluta di figure riconoscibili. Le grafiche propongono una sintesi tra il testo, lo spessore dei suoi significati, e l’immagine che suggerisce un modo nuovo di riferirsi a questo. Usa la scrittura per citare versetti in cui ogni parola ha il peso di un imperativo categorico. Dissemina le scene di guizzi di luce in bianco, di squarci di buio in nero e sfumature di grigio. Il riferimento a un’idea sacrificale tirannica per imporre il proprio dominio, può richiedere di assoggettare la vita dell’altro. Il rilievo determinante del sacrificio come prova di fedeltà incondizionata e elogio della ubbidienza riscattate dalla compassione divina, si evince nell’episodio della Genesi ripreso da Pavoncello in cui Abramo “stese poi la mano e prese il coltello per scannare il figlio” Isacco. La sapienza antica per la sua aderenza all’oggi vivifica il racconto biblico in termini moderni. Nelle parole di Mosè “interroga i tempi trascorsi”, l’appello a guardare indietro, non per ripetere il passato, ma per introdurre un cambiamento sulla scorta della memoria, è il monito accolto per una visione dell’arte speculare sull’oggi.
Chiostro Grande, XVI secolo Capri, Certosa di San Giacomo
alle pagine 32/33 Hermann Nitsch Levitikus, 2010 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo chiesa
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Hermann Nitsch Relitti, 2010 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo chiesa
Vittorio Pavoncello Esodo 20,13 Non uccidere Genesi 22,10 Stese poi la mano e prese il coltello per scannare il figlio
alle pagine 36/37 Vettor Pisani L’isola d’oro, 1989 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo
alle pagine 38/39 Vanessa Beecroft VB82, 2017 perfomance Padula, Certosa di San Lorenzo Chiostro
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Il cammino nella Certosa di San Lorenzo La polemica che animava nel XII secolo i Certosini oltre che i cistercensi, era contro il lusso e l’uso di mezzi figurativi nelle decorazioni, allontanati proprio perchè se ne riconosceva la forte attrazione.terr Una delle caratteristiche della disciplina ascetica. Secondo le parole di Umberto Eco, del rigorismo e della mistica medioevale resta la capacità di analizzare con estrema precisione tutto quello che cercano di rimuovere. Convinzione dell’epoca, a differenza del concetto moderno di estetica separata dalla morale e dall’etica, era che la bellezza dell’anima fosse concatenata alle categorie di bene e di utile, e l’arte servisse da strumento della spiritualità e da supporto al processo di intellegibilità del reale. L’uomo medioevale era convinto di non poter vedere ancora “direttamente”, ma “oscuramente come attraverso uno specchio”, in un paesaggio popolato da significati nascosti e da un senso segreto del mondo. Perché una coscienza potesse formarsi era necessario fuggire la vita terrestre e cogliere lo splendore metafisico del bello in una tensione verso il soprannaturale. La gioia della visione, anche se l’atto del vedere non era al primo posto nel contatto con il sacro, per il corpo mortificato dall’asceta, era una libera contemplazione, paga della bellezza lontana da desideri materiali. L’esercizio della meditazione rendeva potenzialmente ininterrotta la lectio delle Scritture, e la contemplazione della Bibbia era il gradino spirituale più alto. Il complesso monastico di Padula, il primo costruito in Campania e reggia ispiratrice di silenzio voluta dal signore di Teggiano, si era ampliata col chiostro grande negli ultimi anni cinquecento, e per le nobili origini dei padri, poté contare come le altre Certose campane, sulle visite di personaggi politici illustri, e sulla presenza di pregevoli opere d’arte negli spazi collettivi. Secondo un anonimo certosino, nel rapporto tra micro e macrocosmo, tra gli archetipi matematici, il numero quattro è quello dei venti principali, delle stagioni, della perfezione morale e delle facoltà dell’ascesa dell’anima seguendo la scala claustralium. A Padula si puntò a raggiungere la claritas, la celebrazione dello splendore della luce, favorita dalla vastità ispiratrice degli spazi. Nonostante la sua antica dimensione spirituale, come le altre Certose accoglie oggi una diffusa afonia rispetto al sacro, in un occidente afflitto dal silenzio del divino. L’incantesimo del silenzio illuminato cercato dai mistici Certosini era quello di cui Dio si serviva per dare un tocco della sua presenza e sentire il soffio dello spirito. Ma il silenzio compare anche quando non si trova in nulla o in nessuno l’aura della sacralità e prevale lo scetticismo nei riguardi di ciò che è impercettibile e resiste ai metodi di conferma, un silenzio vuoto di Dio, opposto a quello sperimentato anche dai monaci zen come vuoto immobile. Tra suono e suono c’è da distinguere: il senso che più viene sollecitato è quello dell’udito,respiro e suono antico. 42 ANNA IMPONENTE
Quando a marcare il territorio del chiostro piccolo sono state le sonorità del concerto di Markus Stockhausen, silenzio e suono si sono combinati in una ricerca autentica di dialogo con la natura, nel rispetto dell’infinitamente altro che lascia uno spiraglio aperto al senso di spiritualità, accresce il valore di un’esperienza sincera in cui si ricongiungono in armonia, suono e silenzio del sacro. In un’epoca rivoluzionata dalla iperconnessione che accorcia ogni distanza, si fugge e si ha timore di un silenzio che può ricordare la condizione di sottomissione e punizione del prigioniero. Ma si può cogliere anche lo stringente valore e la necessità della solitudine nelle pieghe più riposte dei sentimenti, per riscrivere oggi le pagine di un diario certosino. Il bisogno di silenzio resiste come disciplina per allontanare i rumori della civiltà, nel tempo del suono assordante e dell’inquinamento acustico. La meditazione e la contemplazione inseguono la fragile e utopica sospensione dei pensieri: sembra la condizione ideale per un senso di non abbandono, ma per riacquistare il dono dello stupore, una sensazione appagante che arricchisce la meraviglia dinanzi alle opere d’arte portate con questa mostra nella Certosa, e scelte per aiutare a coltivarla. Il fine ultimo è rendersi inaccessibili, perché un silenzio assordante possa parlare attraverso il brusio del lavoro degli artisti che ci mettono in grado di sopportare meglio quello del mondo: nulla di ciò che raccontano, come per i frati Certosini, è privo di significato. Se il connubio tra silenzio e spiritualità, nelle pratiche religiose suggeriva che ogni azione era elevata a forma di preghiera, l’aspetto centrale è la consapevolezza della potenziale ricchezza di ogni istante. Per Salvatore Emblema l’idea di trasparenza assume il ruolo di categoria visiva, di filtro per dilatare con la “detessitura” delle superfici di juta la dimensione dell’ambiente e dell’architettura circostante. Da trappole rarefatte, reti a maglie larghe, inquadrano varchi prospettici il cui sviluppo si attesta sull’orizzonte naturale e trova ulteriori sbocchi nella profondità della coscienza di chi guarda. Con un lavoro di forme minimali identificantesi nel colore, Ettore Spalletti crea modelli puri, geometricamente perfetti e taglienti come lame. Seziona orizzontalmente i paesaggi con un colpo netto che indica una ricerca di campo e la esteticità di uno spazio interiore, in quanto per lui “la bellezza è come una lama. Taglia come taglia una donna bella che attraversa una piazza.” Il linguaggio è costretto a tacere in un paesaggio calmo che suggerisce una quiete indisturbata. La proiezione di Giovanni Anselmo con la scritta Particolare che illumina con un fascio di luce frammenti di realtà o il corpo dello spettatore o viene puntato su elementi vicini, apre un dialogo tra le forme sensibili visibili e altre dilatate, invisibili. Ogni processo meditativo parte dall’osservazione concentrata su un punto particolare e l’invito a cogliere gli oggetti di cui abbiamo conoscenza può ricordare l’aneddoto dell’ebreo attento e curioso che si recò al villaggio più che per
ascoltare il discorso del predicatore per vedere in qual modo avesse legato i calzari. Tutto doveva apparire di esempio in quel maestro, persino i suoi gesti quotidiani e particolari. La capacità di contemplare l’oggetto più umile, come nella proiezione di Anselmo, non si riferisce ad una materialità ossessiva, ma esalta una rigorosa ricerca di infinito. Le tele di Michele de Luca, sfidando lo spazio con un’enorme carica di energia, racchiudono il senso di una macchina del tempo di un mondo oramai cancellato. Nell’Infanzia del cosmo si potevano glorificare uomini capaci di vivere tra cielo e terra, in preda a una vertigine di pensiero da far impallidire la percezione attuale del mondo, e farci sentire sempre di più e ancora una volta, rispetto al passato, “nani sulle spalle di giganti” secondo la celebre espressione del filosofo francese del XII secolo, Bernardo di Chartres. Il silenzio raggiunge la sua massima espressione nella natura e, “vita silenziosa” è la traduzione di “natura morta” nella pittura di genere olandese del XVII secolo. Claudio Palmieri nelle Nature alchemiche che irradiano colori fosforescenti, riprende un concetto emerso allora, la creazione di un bouquet impossibile creato dall’artista, una fantasia di piante e composizioni di fiori che in natura non potranno mai sbocciare nella stessa stagione e area geografica. Questa fantasia viene materializzata con diverse sfumature e intensità di colori mentre l’aspetto minimalista suggerisce il piacere derivante dallo stesso gesto artistico, un procedimento lento e meditativo in cui la forma ascendente richiama la struttura di un oggetto o di un’architettura, con un linguaggio poetico che celebra la gioia della vita. Il paesaggio induce alla meditazione e l’intimo mistero della pittura è di formularsi come poesia silenziosa. Sandro Sanna coglie nel quadro la dimensione di pala d’altare, un bagliore che costringe l’occhio allo sforzo di concentrarsi su ogni singola tacca geometrica luminosa e a considerare l’opera come un rebus da ricomporre mentalmente, un racconto in cui le ombre mobili e illusorie confermano che un’opera astratta si associa al silenzio e rivela la natura profonda della realtà. L’installazione di Lucilla Catania fa da diaframma tra lo spazio del chiostro piccolo e quello grande con i suoi frammenti terrosi a contatto con i calchi monumentali dei volti dei Certosini, effigiati in originale nel chiostro grande. Le terracotte, materiali plasmati in riccioli e volute si estendono nello stretto passaggio consentendo una veduta frontale o di coda, a onde decrescenti e impennate improvvise. I valori formali, la compattezza della materia in contrasto con la sinuosità del movimento, la sua sensibilità alla luce naturale restituiscono ai singoli componenti, archetipi di eternità, la dignità di elevazione di un capitello o di una modanatura classica ricomposte in un assemblaggio variato e imprevedibile, inno al valore e ai fondamenti della scultura. La performance simile a un rituale terapeutico conferma una aspirazione al sacro, pratica messa in scena dagli inizi del XXI 44 ANNA IMPONENTE
secolo, che tuttavia devia verso una forma di religiosità atea. Quella di Vanessa Beecroft resta la più tangibile espressione della immensità e vacuità del tempo, nient’altro che il trascorrere della vita come riempimento e sospensione, non più in opposizione al passato e al futuro. Il silenzio dei protagonisti è l’abiura della parola, una strategia per raggiungere la perfezione. Secondo Wittgestein, possiamo mostrare le cose che non riusciamo a esprimere a parole, “ciò che può essere mostrato non può essere detto”, in quanto tracciano confini, sono insufficienti e possono distruggere l’incanto, servono a condividere esperienze importanti, ma possono anche allontanarcene. Animata da una visione interiore, Maria Dompè costruisce un punto di svolta in cui coniuga il desiderio di meditazione, richiamandosi con Altum silentium a diverse filosofie, in particolare a quella buddista. L’intervento artistico riutilizza le rovine del passato per sanare le ferite del presente, con un tono che non esclude il dialogo tra i materiali. Definisce un territorio come margine e contorno fluido che stimola il contatto tra l’opera dell’artista e il percorso dei visitatori. Mettendo in relazione esperienze differenti permette che si contaminino a vicenda, creando un luogo che stimola il pensiero e l’incontro tra le persone che sperimentano uno spazio dove poter ancorare le proprie esistenze. Maria Dompè contribuisce ad alimentare un movimento di rigenerazione dell’arte che parte dalle relazioni tra gli uomini, gli oggetti e la natura. In un racconto indù, un alunno chiese al suo maestro di spiegargli cosa fosse l’anima del mondo. Il maestro rimase zitto. L’alunno insistette con la domanda alcune volte, senza ricevere risposta. Il maestro alla fine disse: “te lo sto insegnando ma tu non mi segui”. Può essere un improvviso, sottile silenzio a risvegliarci, renderci capaci di ascoltare, con una mente aperta e in attesa.
a pagina 41 Salvino Campos Lo scalone della Certosa di Padula, 2001
alle pagine 44/45 Michele De Luca Principio stabile- Infanzia del cosmo, 2015
a pagina 43 Salvatore Emblema Senza titolo, 1974 allestimento della mostra Padula, Certosa di San Lorenzo Portale della cappella del priore
Claudio Palmieri Danza e Natura alchemica, 2014 allestimento della mostra Padula, Certosa di San Lorenzo Appartamento del priore
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a pagina 46 Lucilla Catania Scatole e Scarpe con Maniglie, 2013-2017 allestimento della mostra Padula, Certosa di San Lorenzo corridoio attiguo alla cappella del Fondatore
alle pagine 48/49 Vanessa Beecroft VB82, 2017 performance Padula, Certosa di San Lorenzo Sala del Refettorio
a pagina 50 Corte dei granai prima dell’installazione permanente di Maria Dompè
Maria Dompè Altum silentium, 2017 Padula, Certosa di San Lorenzo Corte dei granai
a pagina 47 Sandro Sanna aMare, 2015 allestimento della mostra Padula, Certosa di San Lorenzo appartamento del Priore, archivium
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avvicinatosi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: “dammi forza, signore dio di israele, in questo momento”. e con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa... [antico testamento, libro di tobia, 13,4-8]
certosa di san martino giuditta e oloferne
la certosa di san martino “sopra napoli” rita pastorelli
È il premio per chi arriva sul colle di Sant’Elmo, una delle zone più alte della città, sfidando un tempo scalinate impervie, oggi traffico e mezzi pubblici. La splendida bianca Certosa, ai piedi della imponente mole tufacea del Castello spagnolo, descritta con amore in tutte le antiche guide, da Capaccio (1631), a Sarnelli (1685) e Celano (1692), da Parrino (1700) a D’Aloe, De Simone (1845) e altri, ma ancora di più magnificata dai tanti viaggiatori, poeti, artisti e letterati che tra Sette e Ottocento percorsero l’Italia e la Magna Grecia per conoscere le testimonianze dell’arte classica. Tuttavia, a differenza della maggior parte degli autori delle antiche “Guide” che descrivono i capolavori artistici e la profusione dei raffinati marmi che ornano la chiesa, i chiostri e il “Quarto del Priore” in una prosa, il più delle volte, asciutta e compilativa, le parole che trasmettono le forti emozioni provate dinanzi a tanta bellezza sono quelle che si leggono nei “Diari” dei viaggiatori stranieri. In entrambi i casi, invece, domina l’incanto per la straordinaria posizione della Certosa, che regala vedute mozzafiato. Panorami decantati già dal Cinquecento da poeti e letterati quali Annibal Caro, che in una lettera del 1538 esclamava: O Sig. Molza, che loco è quello! In che sito è egli posto! che morbidezza e che agi vi sono! Nello stesso secolo, la Certosa, dominando l’intera città dall’alto, diventa riferimento essenziale per le “Guide”, che devono confrontarsi con lo sviluppo urbanistico di Napoli. Così Giovanni Tarcagnota, nel 1566, in Del sito e lodi della città di Napoli, sotto forma di dialogo, invita l’interlocutore a godere della bellezza del panorama e a scorgere in esso le trasformazioni del tessuto urbano volute da don Pedro de Toledo che, proprio in quegli anni, Antonio Lafréry delinea nella sua famosa pianta. In piena Età dei Lumi, Charles De Brosses, storico e geografo, nel 1739, è affascinato dai dipinti della chiesa. Primo fra tutti, la Deposizione di Ribera, sull’altare della Cappella del Tesoro, che egli definisce la migliore opera del pittore spagnolo, “ma – aggiunge – se volete vedere un quadro ben più stupendo di tutti questi, affacciatevi alla finestra, caro il mio bene, e ditemi cosa pensate di questa visione”. 58 RITA PASTORELLI
La fatica impiegata per arrivare sulla sommità del colle di Sant‘Elmo, lamentata dai più, appare sempre poi compensata dall’incantevole panorama che la Certosa offre in virtù della sua particolare collocazione, la cui scelta era stata affidata dagli angioini all’architetto senese Tino di Camaino, che pur rispettando l’isolamento della comunità richiesto dalla rigida regola dell’Ordine, fa in modo che, come scrive Mario De Cunzo, “negli spazi più aperti – nei terrazzi, nelle passeggiate, nei balconi – si sente in lontananza, ma solo in lontananza, il brusio della città. Oggi il brusio è rappresentato dal traffico caotico. Questo giunge a San Martino ovattato da un ‘desertum’che non è soltanto un ‘desertum’ fisico ... ma è un ‘desertum’ acustico” (1988, p. 140). Ed è, senza dubbio questa, l’unicità del sito! “Il convento – annota il marchese De Sade, figura di intellettuale certo non facile, nel 1776 – riunisce tutto ciò si possa desiderare in quanto a vedute, aria e attrattive. E non sarebbe difficile abbandonarsi a condividere una tale solitudine ... Anche se in questa mole non vi fosse nulla di interessante, bisognerebbe salirci appositamente con l’unico scopo di esaminare il pittoresco contesto in cui è situata. La città che si domina e che si vede distesa ad anfiteatro sulle rive del golfo, il mare a destra, il Vesuvio di fronte, tutti quegli oggetti ai vostri ordini e ai quali si ha l’impressione di comandare fanno nascere contemporaneamente due sentimenti assolutamente contrastanti e che tuttavia si susseguono con estrema rapidità: l’orgoglio e l’umiltà...”.
alle pagine 54/55 Prospetto orientale della Certosa con Castel Sant’Elmo e la “passeggiata dei monaci” Loggia angolare, inizi XVII secolo Quarto del Priore
I sotterranei gotici Questo è il luogo dove, più di ogni altro, la Certosa si racconta con un pizzico di mistero ma è soprattutto uno dei più strabilianti brani di architettura e ingegneria del XIV secolo a Napoli, ancora in corso di studio. Attraverso la suggestiva sequenza di imponenti archi a ogiva e volte tufacee, che evocano il fascino e il senso di vertigine di una cattedrale gotica, il luogo racconta, infatti, della sua fondazione, allorché il 4 maggio del 1325, con un atto notarile, il ventisettenne Carlo, duca di Calabria, detto l’Illustre, figlio di Roberto d’Angiò e Jolanda d’Aragona, destinò dei fondi per l’edificazione di una “Casa” per i monaci dell’Ordine certosino, forse per emulare il gesto del padre, fondatore con la regina Sancia di Maiorca del monastero di Santa Chiara o semplicemente per favorire un Ordine monastico nato nella Francia meridionale, quale recupero della matrice culturale originaria della propria casata. L’area designata fu un verdeggiante pianoro appartenente al demanio regio, sul colle di Sant’Erasmo (poi Sant’Elmo), dove, oltre a qualche piccola struttura difensiva, vi era una cappella dedicata a quel Santo. Morto prematuramente il giovane Carlo, nel 1328, il progetto che, come si legge nelle carte, era stato affidato a Tino de Senis o Cino de Senis – identificato con Tino di Camaino, architetto e scultore ma soprattutto imprenditore, senese, artista di punta della corte napoletana angioina, qui trasferitosi già affermato e grande interprete del gotico toscano nei celebri monumenti funebri tra Pisa e Siena – e Francesco de Vico (o di Vito), continuò, sotto Roberto d’Angiò, con la direzione dei lavori di Mazzeo di Malocco (o Malotto). Le stesse maestranze, qualche anno dopo, attesero alla costruzione dell’attiguo palazzo fortificato, il Castello di Belforte, antico nucleo di Castel Sant’Elmo. I lavori per la Certosa si protrassero per molti anni; i primi monaci vi furono immessi nel 1337, anno di morte dell’architetto senese, il cui incarico di “protomagister” del cantiere passò a Atanasio (Attanasio) Primario. Diverse le problematiche che Tino si era trovato a dover risolvere nel progettare la Certosa, sia di natura tecnico-costruttiva, per la morfologia della collina, che per la particolare articolazione da conferire alla struttura monastica nel rispetto della regola. A quest’ultimo scopo gli architetti furono inviati presso la Certosa di Trisulti per alcuni mesi, per comprendere quali fossero gli spazi richiesti dalla vita della comunità, sia nel preminente aspetto eremitico che in quello, altrettanto importante, cenobitico. A dettar legge in questa organizzazione degli spazi conforme alla rigida regola certosina era la Casa Madre dell’Ordine di San Bruno, la Grande Chartreuse, di Grenoble, con cui tutti i priori erano in stretto contatto, e dove si recavano in media una o due volte l’anno. 60 RITA PASTORELLI
Su tutto valeva, poi, la stretta osservanza della regola redatta, verso il 1127, da Guigo I di St Romain, quinto priore della Chartreuse, nelle Consuetudines Cartusiae. Per realizzare una struttura corrispondente a questi dettami, il genio di Tino e le maestranze napoletane che lo affiancarono con straordinaria perizia, dopo aver sfettato parte del tufo della collina, a sostegno dell’impianto architettonico, crearono una solida piattaforma, di cui i sotterranei costituiscono le fondazioni; “opere di sostegno al terrapieno, di contrafforti, di speroni, di gallerie di passaggio, ancora visibili, e degni della grandiosità di Roma imperiale”, così li descriveva, nel 1901, Vittorio Spinazzola, primo grande studioso della Certosa e delle sue trasformazioni nei secoli, nonché tra i primi direttori e ordinatori del Museo Nazionale di San Martino, a cavallo tra Ottocento e Novecento. Proprio nell’intrigante intreccio delle alte ogive gotiche con i poderosi contrafforti di epoca posteriore, nella penombra a tratti interrotta da qualche bagliore di luce, la Certosa continua il racconto della sua storia, del suo ampliamento e delle successive modifiche che, dalla fine del Cinquecento al Settecento, la resero uno dei più importanti e ricchi monumenti del Barocco. Oggi i sotterranei, da poco aperti al pubblico, custodiscono le raccolte lapidee del Museo di San Martino, con ben 144 opere tra sculture ed epigrafi, databili dal Medio Evo al XVIII secolo.
Tino di Camaino Sotterranei gotici, secondo quarto del XIV secolo (attuale sezione delle collezioni lapidee del Museo)
Il Chiostro Grande Rappresenta il centro ideale dei tre nuclei architettonici collegati fra loro e conformi ai dettami della regola certosina: la chiesa, il piccolo chiostro con la sala capitolare e il refettorio e, naturalmente, il chiostro grande con le celle. Erano anche le strutture principali della domus superior, dove aveva luogo la vita eremitica e cenobitica dei padri, differenziata e distanziata dalla domus inferior, destinata ai conversi. Dal chiostro grande, che nei paesi più caldi è sempre ampio e porticato, si accedeva alle singole celle, di norma non meno di 12 unità. La cella, per i Certosini, è il luogo più importante per l’esperienza spirituale del monaco, dove egli vive la maggior parte del tempo in assoluto isolamento dedicandosi, per lo più, alla preghiera, alla lettura dei testi sacri e alla meditazione anche se non mancano momenti dedicati ad attività manuali, quali piccoli lavori di ebanisteria. Lavorare il legno – in un apposito laboratorio di cui è dotata ogni cella – intagliando arredi sacri, utensili e piccoli mobili, ricordava certo che Cristo stesso era stato falegname. Il monaco esce dalla cella solo in tre momenti della giornata per recarsi in chiesa a pregare, mentre i pasti, a eccezione dei giorni di festa, gli vengono serviti attraverso una piccola apertura, posta ai lati della porta d’ingresso, a cui due sportelli precludono la visione dell’interno. La dieta dei monaci Certosini è piuttosto povera ma soprattutto è rigorosamente di magro e prevede un giorno settimanale a pane e acqua. La cella, quasi sempre a pianta quadrata con copertura a volta, si compone di un cubiculum per il riposo, la lettura e la scrittura, con accanto la Stanza dell’Ave Maria – cosiddetta per la presenza di un’immagine della Vergine, dinanzi alla quale il monaco si inginocchia e recita un Ave – un piccolo oratorio, un servizio, un laboratorio, l’orto e un passeggiatoio scoperto. Quest’ultimo, come appare nella Tavola Strozzi (prezioso riferimento iconografico, esposto nel Museo, per comprendere l’aspetto della Napoli del XIV secolo), nell’assetto trecentesco della cella di San Martino doveva essere un terrazzino chiuso verso valle da un alto muro. Gli Statuti raccomandano al certosino di amare e curare la propria cella, il luogo più importante, quello in cui egli raggiunge l’ideale della sua vocazione e dove, dimorando nel silenzio, è in continuo dialogo con Dio. A tal proposito, ammonisce Guigo: “conviene che l’abitatore della cella stimi questo luogo così necessario alla sua salute e alla sua vita come l’acqua ai pesci e l’ovile alle pecore” (cfr. Lorenzi 1988, p. 39). I Certosini non temono la morte, anzi, essa rappresenta la nascita alla vera vita. Il giorno della morte di un monaco diventa il suo dies natalis e quindi un giorno di festa. Il chiostro continua a racchiudere, eccezionalmente e per rispetto alla Regola, il cimitero dei padri anche dopo che, in epoca moderna, per motivi igienici, si prescrisse l’allontanamento 62 RITA PASTORELLI
dei camposanti dall’abitato. Fu solo la soppressione definitiva della Certosa, nel 1866, a far trasferire altrove le sepolture. Nell’ambito del programma di rinnovamento della Certosa, iniziato a fine Cinquecento, Giovanni Antonio Dosio intervenne sul preesistente chiostro trecentesco, sostituendo il colonnato ad archi a sesto acuto in tufo, con il tipico capitello “a fior di loto”, con classiche colonne in marmo bianco di Carrara con capitello dorico, di impronta brunelleschiana. Completamente modificato dall’architetto toscano fu, invece, il versante settentrionale, ridotto d’ampiezza, per consentire l’aggiunta del braccio trasversale della chiesa. Al centro del chiostro, il pozzo eseguito da Felice de Felice (1575), forse su disegno dello stesso Dosio, sormonta una grande cisterna ovoidale raggiungibile, attraverso una scaletta, a tre quarti di altezza per attingerne direttamente l’acqua da un ballatoio. È questa una straordinaria opera di ingegneria idraulica di fine Cinquecento che, grazie a un complesso sistema radiale di cisternine di decantazione, assicurava ai monaci l’approvvigionamento idrico. Altro importante intervento strutturale, nell’area del chiostro, riguardò le celle che aumentarono di numero, occupando un secondo livello. Ciò comportò una sostanziale trasformazione delle celle trecentesche con l’abolizione dell’orto e la trasformazione del passeggiatoio scoperto in logge (cfr. Pezzullo 2000, pp. 50-53). A rompere il rigido impianto classicistico dosiano fu ‘l’irruzione’, nel 1623, di Cosimo Fanzago che alleggerì l’intera struttura sovrapponendo una decorazione architettonica che parte dall’eleganza della bicromia del marmo bianco e del bardiglio del pavimento e arriva a quegli autentici capolavori che sono i busti di Santi e beati dell’Ordine certosino con festoni fitomorfi, sovrapporte ai tre angoli del Chiostro (nel secolo successivo Domenico Antonio Vaccaro aggiunse San Martino e San Gennaro), in bilico tra naturalismo caravaggesco, filtrato in Certosa da Jusepe de Ribera, e barocco. Oltre al “cimiterino dei monaci”, dove anche il tema della morte incontra la fastosità del decorativismo barocco, l’artista bergamasco sistemò la balaustra del loggiato superiore, alternando a vasi e sfere otto statue, di cui: San Pietro, San Bruno e San Martino, di sua esecuzione, San Paolo e San Giovanni Battista, già sbozzati da Giovan Battista Caccini (1593), Cristo Risorto, di Michelangelo Naccherino, la Vergine, opera di Antonio Perasco, e infine Santa Lucia, marmo di scavo del I secolo a.C. riadattato dallo stesso Fanzago.
Giovanni Antonio Dosio Cosimo Fanzago Chiostro Grande, 1623-1631 particolare
alle pagine 62/63 Cosimo Fanzago “Cimiterino” dei monaci, 1623-1631 particolare
La chiesa Fu la regina Giovanna I, figlia di Carlo l’Illustre e di Maria di Valois, alla presenza del cardinale Bernardo di Bosqueto, di Guglielmo d’Agrifoglio, legato del papa Urbano V e delle massime autorità cittadine civili e religiose e vicine alla corte angioina, a inaugurare la chiesa, il 26 febbraio del 1368. Erano trascorsi ben 43 anni dall’atto di fondazione. La chiesa fu intitolata a Maria Vergine, a San Martino, vescovo di Tours e a tutti i Santi. L’avvenimento è ricordato, nel pronao, da Giovanni Baglione (1591-92) che raffigura Carlo l’Illustre in atto di offrire la chiesa a san Martino e Giovanna I che ne affida la custodia a san Bruno. Già lo Spinazzola, che condusse uno dei primi studi sulla Certosa, nel 1902, descriveva l’antica chiesa in piena corrispondenza con i canoni dell’architettura gotica meridionale; una navata centrale con volta a crociere e costoloni ad archi acuti (perfettamente conservata) e due navate laterali, di altezza minore, con facciata “a salienti”. L’interno, piuttosto spoglio, a fine Quattrocento molto probabilmente recava sull’altare una tavola con la Natività, di cui sono superstiti i due sportelli laterali con Carlo duca di Calabria e Roberto d’Angiò in vesti di re magi – oggi esposti nel Quarto del Priore – mentre nel pavimento della navata centrale (la vede Cesare d’Engenio nel 1624) era interrata la Lapide sepolcrale di Beatrice de Ponciaco (morta nel 1423), anche questa ora visibile nel Quarto del Priore. Ulteriori elementi dell’antica chiesa emersero da restauri effettuati negli anni Sessanta del secolo scorso e dagli importanti studi sulla Certosa che in quegli anni pubblicava Raffaello Causa. Durante la campagna di restauro del pavimento marmoreo della navata, ad esempio, vennero alla luce dei frammenti di “riggiolette” maiolicate del secolo XVI, superstiti, forse, di una pavimentazione in cotto e riggiole risalente a quell’epoca. Fu Causa a notare che in una tarsia lignea del Coro dei Conversi, opera di Giovan Francesco d’Arezzo e Frate Prospero (1510-20) è raffigurata la facciata della chiesa originaria, preceduta da un pentaportico; ipotesi questa confermata dalla successiva chiusura delle ultime due campate del portico, per la creazione delle cappelle settecentesche del Rosario e di San Giuseppe. Il programma di ampliamento e ‘ammodernamento’ della Certosa, promosso dal priore Severo Turboli a partire dal 1581, oltre al necessario incremento e potenziamento degli spazi preesistenti, insufficienti ad accogliere una comunità monastica in crescita a più di due secoli dalla fondazione della Casa, corrisponde anche alla competizione che, in seguito alla Controriforma, si creò tra i vari Ordini religiosi nell’arricchire di capolavori d’arte le proprie chiese e conventi per la glorificazione della Chiesa romana trionfante. Due furono, a San Martino, i protagonisti di questo rinnovamento: Giovanni Antonio Dosio, e Cosimo Fanzago. “Sia 66 RITA PASTORELLI
Dosio che Fanzago hanno entrambi fortissime personalità, ma di segno completamente diverso, forse opposto. Sono però entrambi condizionati dall’architettura preesistente … Sta di fatto che entrambi rielaborano, non demoliscono ma ristrutturano il preesistente” (De Cunzo 1988, p. 142). Dosio, oltre che nel chiostro grande, intervenne anche nella chiesa, ricavando dalle navate laterali sei cappelle, tre per lato, ognuna dedicata a un Santo: a sinistra, le cappelle di San Gennaro, di San Bruno, dell’Assunta; a destra, le cappelle di Sant’Ugo, di San Giovanni Battista, di San Martino. Conservata nelle sue forme architettoniche trecentesche, la volta, intesa quale simbolo della volta celeste, fu affrescata, verso la fine degli anni Trenta del Seicento, da Giovanni Lanfranco, con l’Ascensione di Cristo e Glorie di angeli, tra gli stucchi dorati fanzaghiani che esaltano con eleganza barocca i costoloni gotici. Tra i primi interventi vi fu l’aggiunta del braccio trasversale con gli ambienti adibiti a Parlatorio, Capitolo, Sacrestia – con i preziosi armadi intarsiati di Lorenzo Ducha e Teodoro de Vogel (1600) – e il Tesoro Vecchio. In seguito, nella seconda metà del Seicento, fu aggiunta a questi una nuova sala del Tesoro. Un nuovo coro per i padri era stato creato nel transetto dietro l’altare maggiore, mentre quello di primo Cinquecento fu destinato ai conversi. Nella decorazione architettonica della chiesa e degli ambienti annessi Fanzago, attivo in Certosa dal 1623 al 1656, fu l’unico, grande, ‘regista’, e realizzò, qui, il suo più autentico capolavoro, grazie alla ricchezza dei marmi commessi, del pavimento e delle lesene della navata e del rivestimento marmoreo delle cappelle, con inserti di madreperla e straordinari rosoni di bardiglio. Suo anche il primo ordine della facciata della chiesa, completata, nel secolo successivo, da Nicola Tagliacozzi Canale. La chiesa della Certosa rappresenta, come sottolineò Gino Doria, citando un’espressione un po’ enfatica dello Spinazzola “il più bel museo dell’arte italiana del ’600 che sia al mondo. Senza averla vista non è possibile parlare di questo secolo di arte, come non si può parlare del primo Rinascimento senza aver veduto Pisa e del ’500 senza aver visitato il Vaticano” (Doria 1964, p. 108). Autori dei dipinti che ornano la chiesa sono, infatti, i grandi protagonisti della pittura tardo manierista – come Belisario Corenzio e Bernardino e Giuseppe Cesari, detto il Cavalier d’Arpino – del Seicento – da Battistello Caracciolo a Jusepe de Ribera, da Massimo Stanzione e Simone Vouet a Micco Spadaro, Andrea Vaccaro e Luca Giordano – e del Settecento – da Francesco Solimena a Francesco de Mura.
Cosimo Fanzago Nicola Tagliacozzi Canale Facciata della chiesa primo ordine, 1623-1656 secondo ordine, primo quarto del XVIII secolo
a pagina 66 Giovanni Antonio Dosio Cosimo Fanzago Interno della chiesa, fine XVIprima metà del XVII secolo
Il Quarto del Priore “... da detto chiostro si entra nelle magnifiche stanze del Priore che tengono e quarti di negoziare e di dormire, con fontane, e gallerie per ricevere ogni gran Principe e Personaggio, lastricate per intero di ricchi marmi,e logge coverte, e scoverte, con dipinture a fresco, statue di marmo, colonnate, e scalinate, e giardini pensili per fiori e vigne diverse con ischerzi bellissimi di fontane: A segno che non vi è Principe o Grande, che venendo in Napoli non vadi a godere, a partecipare di dette delizie, che possono veramente dirsi regie”. Le parole di Pompeo Sarnelli (1685), tra le più antiche testimonianze del monumentale appartamento di rappresentanza del padre priore – ossia del superiore della comunità certosina, colui che ne indirizza la vita spirituale e culturale, pur se in stretto contatto con la Grande Chartreuse – rendono tutta la ricchezza della superba decorazione architettonica e pittorica di questi ambienti della Certosa, sorti nell’ambito del rinnovamento tardo cinquecentesco e sontuosamente decorati negli anni della regia fanzaghiana. Allo stesso artista bergamasco appartengono, oltre agli eleganti pavimenti, piccoli brani architettonici tra i quali spicca la celebre “scala a calicò”, nel giardino pensile del priore. In quegli stessi anni, a Domenico Gargiulo, detto Micco Spadaro, particolarmente amato dai monaci, attivo in Certosa dal 1637 e qui introdotto dall’ormai anziano pittoreimpresario Belisario Corenzio, fu affidata, tra il 1642 e il 1646, la decorazione ad affresco del “Quarto” che soprattutto nelle due Gallerie – rispettivamente con il Battesimo di Cristo e angeli (sala 14) e la Veduta di Napoli dal mare con San Martino e i fondatori della Certosa, Carlo di Calabria e sua figlia Giovanna d’Angiò (sala 15) – costituisce la mirabile cornice alla prestigiosa quadreria certosina che, nata dal raffinato collezionismo dei padri, annovera capolavori, oltre al tardo quattrocentesco Trittico di Jean Bourdichon, per lo più del Sei e del Settecento, di Battistello Caracciolo, Jusepe de Ribera, Massimo Stanzione, Andrea Vaccaro, Pacecco de Rosa, Francesco Guarino, Luca Giordano, Francesco Solimena, Domenico Antonio Vaccaro. Dipinti, arredi e sculture – basti pensare alla monumentale Madonna con Bambino e san Giovannino di Pietro Bernini – ammirati dagli illustri visitatori, dalle “Guide” e dai viaggiatori del Grand Tour, che, confiscati nel 1806 dal governo napoleonico, per la soppressione dell’Ordine (la Certosa in quegli anni è trasformata in ospedale militare), vennero trasferiti nel Real Museo borbonico. Grazie al recupero degli antichi inventari di quel museo e all’attento studio di questi ultimi da parte dello Strazzullo e del Fittipaldi, negli anni Ottanta del secolo scorso, fu possibile ricostituire il nucleo della collezione dei padri, oggi esposto negli ambienti originari del Quarto, restituiti alla fruizione nel loro antico splendore, dopo il recente restauro architettonico 78 RITA PASTORELLI
che ha rimosso le alterazioni di fine Ottocento e inizi Novecento. Spazi unici, come la Loggia del Priore che offre un affaccio a dir poco emozionante sulla città e sul suo golfo, con il Vesuvio perfettamente in asse a fare da sfondo; il Vestibolo e la Biblioteca entrambi con pavimenti settecenteschi di cotto e riggiole maiolicate. Quello della Biblioteca racchiude, tra una ricca decorazione maiolicata raffigurante lo Zodiaco, opera della bottega di Leonardo Chiaiese, la complessa meridiana solare di Rocco Bovi (1771). Nelle volte, gli affreschi con Allegorie di mano di pittori della cerchia del Solimena – tra cui si distingue Crescenzo La Gamba – sono impreziositi da elementi in stucco e cartapesta, secondo il gusto coevo delle “cineserie” a testimoniare, ancora una volta, l’attenzione dei Certosini alle ‘novità’ stilistiche nell’arte.
a pagina 67 Giovanni Lanfranco Ascensione di Cristo tra glorie di angeli, 1637-1640 chiesa, affresco della volta della navata alle pagine 68/69 Lorenzo Ducha, Teodoro de Vogel Armadi lignei intarsiati, ultimo decennio del XVI secolo Sulla parete di fondo Massimo Stanzione Ecce Homo, 1644 Sacrestia
alle pagine 70/71 Orazio De Orio, Carlo Bruschetta Stalli lignei, 1627 Sala del Capitolo
alle pagine 74/75 Giovanni Antonio Dosio Chiostro dei Procuratori fine XVI-inizi XVII secolo
Quarto del Priore Galleria (sala 15)
alle pagine 72/73 Nicola Tagliacozzi Canale Biase Cimafonte Refettorio, 1724 circa sulla parete di fondo Nicola Malinconico Le nozze di Cana, 1724
LA CERTOSA DI SAN MARTINO “SOPRA NAPOLI” 79
Crescenzo La Gamba San Martino in gloria e San Bruno che riceve la Regola dell’Ordine dalla Vergine con il Bambino affreschi della volta
Crescenzo La Gamba Il trionfo della Fede cattolica sull’Eresia tra fregi ornamentali e cineserie, metà del XVIII secolo affreschi della volta
Leonardo Chianese (attribuito) Lo zodiaco, 1771 pavimento in cotto e riggiole maiolicate
Giuseppe Massa Pavimento in cotto e riggiole maiolicate Quarto del Priore, Vestibolo
Rocco Bovi Meridiana a “camera oscura” Quarto del Priore, Biblioteca (Sala della meridiana)
LA CERTOSA DI SAN MARTINO “SOPRA NAPOLI” 81
Girolamo Santacroce (rielaborato da Cosimo Fanzago) Monumento a Carlo Gesualdo, secondo quarto del XVI secolo Anish Kapoor Untitled (rosso), 2016 Jacopo Ligozzi Giuditta e Oloferne, 1602 allestimento della mostra Napoli, Certosa e Museo di San Martino, Quarto del Priore
Anish Kapoor Untitled (nera), 2016 Alberto Burri Grande ferro, 1961 allestimento della mostra Napoli, Certosa e Museo di San Martino
alle pagine 82/83 Prospetto meridionale della Certosa di San Martino
LA CERTOSA DI SAN MARTINO “SOPRA NAPOLI” 83
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la sacra scrittura, come un fiume rapidissimo, tanto colma le profondità della mente umana da straripare continuamente; disseta coloro che ne bevono, ma rimane inesauribile. da essa sgorgano gli abbondanti flutti dei sensi spirituali e quando passano gli uni, altri sorgono: anzi, non “quando passano”, dato che la sapienza è immortale, bensì quando emergono gli uni e mostrano la propria bellezza, altri tengono dietro a questi che tuttavia non vengono meno, ma permanendo si susseguono. [gilberto di stanford, XII secolo]
certosa di san giacomo lo studio delle sacre scritture
i colori della certosa, i colori di capri patrizia di maggio
Bianco Vista dall’alto, la Certosa di San Giacomo fa sfoggio di tutti i suoi colori: il bianco, il verde, il blu, l’argento e l’oro, il rosso e la luminosa cromia dei dipinti della chiesa. Il bianco è come il simbolo di un mondo in cui tutti i colori sono scomparsi – sosteneva Kandinsky –, e da quel mondo giunge un grande silenzio che si prolunga all’infinito, quasi fosse, materialmente, un muro insormontabile e indistruttibile. Dal punto di vista musicale il bianco è come le pause che interrompono momentaneamente una frase, ma non ne sono la conclusione definitiva. “Così risuonava forse la terra nei bianchi periodi dell’era glaciale” (Kandinsky 1981). Il bianco, in varie sfumature, tinge il monumento all’interno e all’esterno: bianco è il viale di accesso, con le pareti scrostate e segnate dal tempo e dalle intemperie; bianchi sono i corridoi di snodo tra ‘casa alta’ e ‘casa bassa’; bianco è il Refettorio, sede del Museo Diefenbach; bianco è il Chiostro Piccolo; bianca è la Sala del Capitolo; bianco è il Chiostro Grande; bianco è il Quarto del Priore; bianca è la Cappella delle donne, fuori dal recinto claustrale; bianca è la movimentata distesa delle coperture estradossate dalla ruvida superficie a lapillo, che accomuna la Certosa ai fabbricati rurali dell’isola (Pane 1962, pp. 280-281) nella fantasiosa tettonica delle volte, caratterizzate dalla “grande varietà di gonfie superfici, tra loro diverse per dimensione e per sagoma: a botte, a sesto acuto, a gáveta, a crociera” (Di Stefano 1982, p. 60). Bianchi erano gli abiti dei Padri che dal 1373 cominciarono a popolare il monastero e, metaforicamente, bianco era lo spazio della mente dedicato alla lettura e allo studio dei testi sacri, che impegnava molta parte della vita monastica. E se le storie e le leggende avessero un colore, bianco sarebbe il racconto di Svetonio sulle ossa degli animali preistorici custodite da Ottaviano Augusto nella sua casa di Capri (Svet. 2, 72; in realtà si trattatva dei resti di giganteschi mammiferi estinti riconosciuti e catalogati da Ignazio Cerio a seguito degli scavi effettuati tra il 1905 e il 1906 nell’area dell’Hotel Quisisana). E bianca sarebbe anche l’immagine del priore della Certosa, che Bouchard si figurò intento a tagliare “con le sue braccia una strada per scendere alla Marina” e a scavare nella roccia stanze e gallerie segrete (Bouchard 1632, pp. 18-20). 88 PATRIZIA DI MAGGIO
Il complesso ripete l’impianto generale dei conventi dell’Ordine: si snoda tra percorsi coperti e spazi aperti e sorge in un luogo lontano dall’abitato, il deserto, per i Padri lo spazio dedicato alla meditazione e all’ascesi (“Chi mi darà ali come di colomba per volare nel deserto?” recita il Salmo 54), per i residenti una zona ‘di rispetto’, interdetta al passaggio degli armati, delle truppe e delle donne, con divieto alla caccia e alla pesca (Di Stefano 1982, p. 25; nel monastero caprese il deserto è costituito in parte dal mare e, dal lato di terra, il confine è segnato dalla murazione del centro abitato). L’Ordo cartusiensis, uno dei più rigorosi della Chiesa cattolica, si distingue per la convinta scelta della solitudine e per la sua gioiosa condivisione tra i membri della comunità: “ogni Certosa è un ‘deserto’, un luogo da dove i rumori del mondo sono esclusi. Questo deserto prende realtà e forma concreta nella custodia della cella. L’ideale della nostra professione consiste principalmente nell’attendere al silenzio e alla solitudine della cella. Questa è la terra santa e il luogo dove il Signore e il suo servo conversano spesso insieme” (Statuti, 4.1). Una vita, come facilmente si comprende, per spiriti fortemente inclini all’introspezione, che si arricchiva della ‘dottrina’ acquisita nel percorso indicato dai quattro gradini della Scala claustralium: lectio, meditatio, oratio e contemplatio. Se si volessero descrivere e valutare con la terminologia del presente le principali caratteristiche dell’Ordine fondato da san Bruno si farebbe ricorso, necessariamente, a concetti quali strutturazione verticistica, organizzazione centralizzata, scala gerarchica, controllo del territorio. E, infatti, la ferrea disciplina fu codificata per iscritto da alcuni personaggi di spicco, tra cui Guigo I – quinto priore della Grande Chartreuse, che governò fino alla morte nel 1136 –, autore delle norme per la costruzione dei monasteri dell’Ordine, e Guigo II – nono priore della casa madre, morto nel 1188 –, autore della Lettera sulla vita contemplativa, nella quale illustrava il percorso della Scala claustralium (Certose e Certosini 1990). Temi e caratteri della vita monacale rappresentavano uno standard di comportamenti, personali e collettivi, diffuso da una vera e propria ‘rete’ che controllava tutte le scelte, comprese quelle relative all’edificazione delle singole Certose, simili e/o identiche nella struttura, fatte salve le differenze originate dalle caratteristiche e dalle tradizioni del territorio su cui sorsero.
La peculiarità dell’Ordine, e la sua forza, fu l’estrema coesione interna e la capacità di mantenere sempre una posizione intermedia nei diversi equilibri politici derivati dagli avvicendamenti dinastici che caratterizzarono le complesse vicende storiche successive alla fondazione dell’Ordine, in Europa e in Italia. A Capri la sua lunga storia si concluse nel 1808, data del decreto di soppresssione, del quale il monastero dedicato a San Giacomo rappresenta il simbolo e l’eredità. Verde Oltre che di bianco la Certosa si tinge di verde, il colore dato dall’unione del giallo e del blu. Richiamando ancora le teorie di Kandisky, il verde assoluto è un colore ‘calmo’, che non ha note di gioia, di tristezza o di passione, non esprime desideri o aspirazioni. Il verde è il colore dell’estate, quando la natura ha superato la primavera e si immerge in una quiete soddisfatta di sé, e musicalmente può essere paragonato ai toni quieti, ampi, di media profondità, del violino (Kandinsky 1981). Verde è la cosiddetta Quercia dell’Imperatore, la pianta millenaria visibile nel Parco, che secondo la leggenda narrata da Svetonio rifiorì quando Ottaviano sbarcò a Capri nel 29 a.C., e gli piacque interpretare il prodigio come segno beneaugurante (Svet. 2, 92); verde è il rivestimento erboso del costone che delimita da un lato il convento, prima di scomparire nel mare; verde è la chiazza disegnata dagli aranci amari nel Chiostro Piccolo; verde è il prato a disegni geometrici del Chiostro Grande; verde è l’intreccio di piante medicinali e di spezie nell’Orto dei semplici e verde è la rigogliosa macchia mediterranea che cresce nel Parco e nei terreni confinanti, un tempo di pertinenza del monastero. In quei terreni e tra quei fiori, amorevolmente curati dai Certosini, nacque il primo profumo di Capri. Secondo la storia locale, nel 1380 il priore raccolse i fiori più belli dell’isola per accogliere degnamente la regina Giovanna I d’Angiò in un’inaspettata visita; dopo alcuni giorni si accorse della fragranza emanata dall’acqua, dovuta al Garofilum Silvestre Caprese, e ne utilizzò l’aroma per realizzare un’essenza. Nel 1948 furono ritrovate le antiche formule dei monaci, furono riprodotte e, con licenza del papa, fu creato un piccolo laboratorio di profumeria battezzato ‘Carthusia’, che ebbe una prima limitata produzione. Oggi quel marchio, nato tra le mura del monastero, è noto per i profumi e per altri prodotti artigianali locali. Uno degli elementi distintivi e qualificanti dell’isola è lo stretto rapporto tra architettura e paesaggio, un rapporto che nel tempo si è andato sviluppando e ampliando di significati ed è diventato una caratteristica peculiare anche della Certosa. Il legame con la natura era infatti un nodo importante nella Regola certosina: la maturazione dello 90 PATRIZIA DI MAGGIO
spirito era assimilata a quella delle piante e la resurrezione era collegata al risveglio del creato in primavera e si concretizzava, in particolare, attraverso la cura del giardino claustrale, l’hortus conclusus a cui ciascun padre attendeva di persona, che metaforicamente rappresentava il Paradiso terrestre da riguadagnare. La natura era per i Certosini fonte di letizia e occasione per condividere gli spazi comuni, ma era anche il mezzo di sussistenza che consentiva loro di essere autosufficienti nei bisogni primari. Le zone messe a coltura agricola erano inoltre l’occasione per un moderatissimo rapporto con l’esterno poiché i prodotti venivano venduti agl’isolani, che si servivano in particolare delle erbe mediche raffinate nella spezieria del convento. Mutatis mutandis, il rapporto ‘speciale’ con la natura e l’insegnamento relativo alla cura del verde furono raccolti e sviluppati nel Primo Convegno Internazionale per la tutela del Paesaggio, del 1922, che rappresentò l’affermazione di una nuova consapevolezza indirizzata alla sua tutela e al riconoscimento del legame esistente tra monumenti e bellezze naturali. Di tali idee si fece portavoce Edwin Cerio, sindaco di Capri dal 1920 al 1923. Richiamandosi agli studi del padre, il quale aveva esplorato, oltre alle antichità, “ogni prodotto, ogni fiore, ogni pianta, ogni essere vivente della nostra terra, del nostro mare” (Cerio 1923, p. 7, in Catalano 2016, p. 140), Cerio sottolineò la necessità di tutelare i beni paesaggistici al pari dei monumenti e rimarcò anche il forte legame tra natura e architettura. La fusione dei due termini rappresentava nell’isola “il prodotto di una misteriosa commistione organica autoctona” (Catalano 2016, p. 140), dove “‘l’architetto ed il mastro fabbricatore’ riuniti in un’unica figura demiurgica di plasmatore potevano realizzare, ... ‘un’opera sentita e non soltanto eseguita’, spontanea come il manto vegetale di lentischi, mirti, eriche, filliree, elci, cisti, ginepri e corbezzoli” (Clavel 1923, pp. 70-73, in Catalano 2016, p. 144), piante tuttora presenti in Certosa, nell’Orto dei Semplici di recente rimesso a dimora.
a pagina 87 Torre dell’orologio Chiostro Piccolo Torre di guardia, XVI secolo viale di accesso
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Blu, argento e oro La natura, che allietava la severa vita dei monaci ed entra prepotentemente nelle mura del convento, si colora anche di blu, d’oro e d’argento. Blu è il mare dominato dai Faraglioni nel panorama che si apre sul versante opposto alle celle dei monaci; blu è il cielo che al mare si congiunge nella magnifica veduta che si gode dai belvedere del Parco e dalla Loggia del Priore, di fronte all’Orto dei semplici; blu è il colore prevalente nei dipinti dei posillipisti e di molta pittura dell’Ottocento, che ritrae i luoghi più consueti dell’isola, e blu è il colore dominante di Diefenbach, che racconta una Capri misteriosa e visionaria, abitata da inquietanti presenze. Non a caso per Kandinsky il blu, che è il colore del cielo, sviluppa nell’osservatore il sentimento della quiete, ma, quanto più è profondo, tanto più forte suscita il desiderio d’infinito e l’attrazione verso il sovrasensibile. Interessante, nella comparazione suono-colore, la corrispondenza dell’azzurro al flauto e del blu scuro al violoncello, al contrabbasso e ai toni gravi dell’organo (Kandinsky 1981). Nella Capri di Diefenbach compaiono anche siti che in qualche caso non sono più visibili, ma sono celebrati dalla leggenda. Tra questi, la Grotta Oscura – la cui localizzazione precisa non è stata ancora individuata –, occlusa fin dal 1808, come riporta una rara testimonianza, del 1828: “verso la marina di Mulo, osservammo … il luogo detto la Grotta oscura … [ora chiusa per] un inopinato avvenimento nel dì 15 maggio 1808, essendo mancato il suolo superiore, su cui era piantata un’alta e solida torre costruita dà Certosini di questa isola in tempo delle incursioni barbaresche” (Vitale 2008, p. 123). I paesaggi di Diefenbach sono alquanto insoliti rispetto alla tradizionale rappresentazione dell’Isola Azzurra, a stento riconoscibile nella sequenza dei dipinti esposti, che tuttavia seducono e avvincono il visitatore per una strana malia che lo costringerà, prima o poi, a tornare nei magici luoghi ritratti. Al pittore tedesco, che in Certosa ebbe l’atelier nella Cappella delle donne, è dedicato l’omonimo Museo, un omaggio quasi dovuto a quell’anima inquieta che aveva scelto l’isola per trovare l’agognata pace e tradurre con l’arte i propri ideali esistenziali. Diefenbach è ricordato più spesso per la vita, tutta ‘genio e sregolatezza’, che per il lascito artistico, mentre su di lui molto ancora c’è da dire, in particolare sul suo vedutismo, caratterizzato dalla forte carica emotiva capace di trascendere i luoghi reali, ai quali pure si riferisce, individuando scenari di totale bellezza, perfetti nella visione ‘metafisica’ che naturalmente esprimono (Fusco 1980, scheda 76). Si tratta di paesaggi alterati per la ripresa da una particolare angolazione, o del tutto trasformati dal gioco della luce o dal desueto cromatismo. Il mare di Capri, che diventa d’argento nelle notti di luna 96 PATRIZIA DI MAGGIO
e brilla come oro nel sole, ha sedotto anche Vettor Pisani, che nel 1989 le dedicava L’isola d’argento e L’isola d’oro, con i picchi rocciosi diventati la più famosa icona di Capri trasformati in tre gemme preziose affondate nell’argento e in tre piccoli blocchi rossi, rotondi e perfetti, fluttuanti nel mare d’oro: il ‘Faraglione di Terra’, unito alla terraferma, il ‘Faraglione di Mezzo’ e il ‘Faraglione di Fuori’, abitato dalla leggendaria lucertola azzurra. Il tema dell’isola, affrontato in varie opere con protagonista la ‘sua’ Ischia e ispirato da L’isola dei morti di Böcklin, nei due lavori esposti per la mostra sulle Certose, guarda, forse, anche all’omonima opera di Diefenbach. Come di consueto, la citazione da altre fonti è utilizzata per “riallacciare i legami profondi con artisti eletti, prescelti, amati” (Cherubini 2016, p. 37) e, come di consueto, l’isola rimanda alla simbologia di uno spazio concluso ed eremitico, è metafora della rigenerazione e del passaggio alchemico da uno stato fisico ad un altro, è un percorso d’iniziazione, un cammino ermetico e rituale, tratteggiato dai rilievi e dalle alture. Il mare che circonda l’isola e si offre allo sguardo anche dalla Certosa, è depositario di antichi messaggi e custode di segreti e leggende: sarà del tutto naturale immaginare lo Scoglio delle Sirene abitato dalle mitiche creature, come le descrisse Virgilio nell’Eneide; sarà facile condividere i timori degli isolani riguardo alla presenza di spiriti maligni nella Grotta Azzurra, riscoperta a inizio Ottocento e fino a quella data accuratamente evitata nei loro percorsi; sarà spontanea la commossa partecipazione alla toccante storia d’amore tra Capri e il Vesuvio, frutto della brillante penna di Matilde Serao. A causa di quel legame, osteggiato dalle famiglie, nel punto in cui la giovane Capri si tuffò in mare per la forzata separazione dall’innamorato nacque l’isola, e Vesuvio pianse lacrime di fuoco per la morte dell’amata e si trasformò nella ‘montagna’, tuttora ribollente del fuoco della passione.
alle pagine 90/91 Chiostro Piccolo, seconda metà del XIV secolo alle pagine 92/93 Le coperture del complesso della Certosa
alle pagine 95 e 96/97 Veduta dei Faraglioni dal Parco della Certosa
alle pagine 98/99 Museo Diefenbach già Refettorio della Certosa fine XIV-prima metà XV secolo
a pagina 103 Niccolò di Tommaso Jcopo Arcucci offre la Certosa alla Madonna, 1371 chiesa, lunetta del portale
alle pagine 100/101 Vettor Pisani L’isola d’argento, 1989 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo
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I colori del Barocco La chiesa di San Giacomo si riveste all’interno dei colori del Barocco, nei residui frammenti della decorazione muraria, negli affreschi e nei dipinti, che rappresentano quel che resta dei lavori effettuati tra Seicento e Settecento. L’attuale configurazione risale all’intervento di Gino Chierici del 1926, che eliminò il tetto, forse risalente al secolo XVIII, e rimise in vista nelle tre campate le volte a crociera ritmate da mezzi pilastri e centine ad arco. Aprì, inoltre, la grande trifora sul fondo dell’abside, in sostituzione del finestrone rettangolare ottocentesco, e ricollocò il marmoreo portale d’ingresso: ripristinò così, almeno nelle linee generali, la visione del poderoso impianto medioevale, sul quale conservò le tracce degli interventi successivi. Nel pronao, l’affresco di Niccolò di Tommaso nella lunetta del portale è tra le poche testimonianze artistiche del XIV secolo, e racconta della fondazione della Certosa, che rientrò nel clima di favore di cui godeva l’Ordine presso la dinastia angioina. Nel 1325 Carlo l’Illustre, duca di Calabria, acquistò il terreno per la sua edificazione; nel 1337 vi giunsero i primi padri e nel 1365 il nobile Giacomo Arcucci onorò il voto espresso alla Madonna per la nascita dell’erede maschio e, con il favore della regina Giovanna I d’Angiò, su quel terreno dette inizio alla costruzione del nuovo monastero, che nel 1373 risultava quasi completato. L’affresco, citatissimo, è datato 1371 ed è un importante documento storico, artistico e iconografico che ritrae Arcucci nell’atto di offrire la Certosa alla Madonna, accompagnato dai figli Jannuccio e Francesco e, dal lato opposto, da Muretta Valva e Margherita Sanseverino, la prima e la seconda moglie, al fianco della sovrana di Napoli (l’atto di offerta è raffigurato anche nel Monumento funebre di Giacomo Arcucci, nella chiesa di Santo Stefano a Capri, eseguito nel 1612 da Michelangelo Naccherino in sostituzione di quello trecentesco della chiesa di San Giacomo, andato distrutto). Nei primi anni del Novecento fu ipotizzato il distacco del dipinto e la collocazione, con l’intero portale, al Museo di San Martino, ma l’intervento, caldeggiato da alcuni artisti e da Benedetto Croce (Croce 1903, pp. 125-126), fu evitato da Adolfo Avena, che all’epoca valutò inammissibile “spogliare un monumento per arricchirne un altro” (Avena 1903, p. 144; Catalano 2016, Archivio Centrale dello Stato: AA.BB.AA., IV vers., I Div., 1920-1924, b.1347), e oggi consente di apprezzare l’opera nel proprio contesto, di cui suggerisce la storia e i tratti originari, visibili solo in minima parte a causa delle tormentate vicende del sito e dell’Ordo cartusiensis. La luminosa gamma cromatica articolata sul verde e sull’azzurro pallido, sul rosa, sul violetto, sull’ocra e sull’oro, caratterizza le opere di Diodato Vespiniani e Francesco Mottola: l’affresco con San Giacomo alla battaglia del Clavijo, del 1699, sormontato dal monogramma d’oro CAR (Carthusia), coronato, che qualifica il monastero caprese come 104 PATRIZIA DI MAGGIO
Real Certosa, gli Episodi della vita di san Giacomo e di san Bruno nelle campate, nelle vele e nelle cappelle laterali, e l’affresco del catino absidale, San Bruno appare in sogno al conte Ruggero II d’Altavilla durante l’assedio di Capua, del 1710 (per la ricostruzione dell’attività dei due artisti cfr. Tafuri, De Martino 2017 e bibliografia precedente). Gli affreschi celebrano i più significativi esponenti dell’Ordine e raffigurano più volte il Santo titolare, Giacomo detto il Maggiore, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo e di Salomè, sia come apostolo, barbato e con la spada del martirio, sia come pellegrino, con il cappello, il bastone, la bisaccia e la conchiglia dei viandanti per il santuario di Compostela, sia come cavaliere in armi. In linea con la Propaganda Fide e con la determinata autocelebrazione dei Certosini, gli affreschi raccontano alcuni eventi prodigiosi accaduti per intercessione dei santi a tutela della dinastia regnante, ma dedicano scarsa attenzione alla religiosità e alle credenze dei ‘semplici’, che al contrario sono molto presenti nella cultura popolare di Capri. Qui, ad esempio, una delle più radicate leggende riporta dell’apparizione di san Michele al povero pastorello, al quale donò la miracolosa campanella per preservarlo dal pericolo ed esaudirne ogni desiderio: oggi la ‘campanina’ è uno dei simboli portafortuna dell’isola. Nelle tele di Nicola Malinconico, l’Adorazione dei magi e la Conversione di santa Caterina, ai lati dell’altare (1706-1708), e in quelle collocate sulle pareti laterali della navata, con figure di Santi e Profeti, prevalgono il grigio, in varie tonalità, il bruno e il rosso. E rosso è il colore del Levitikus, il grande volume di Hermann Nitsch, esposto in Italia per la prima volta in occasione della mostra sulle Certose, insieme a quattro ‘Relitti’ che compongono Installazione Berlino 2013. L’opera/volume affronta gli aspetti rituali e misterici del cattolicesimo e rappresenta l’anello di congiunzione tra Il Teatro delle Orge e dei Misteri e i ‘Relitti’. Le tele serigrafate illustrano gli scritti dell’omonimo libro della Bibbia, dedicato ai riti sacrificali del sommo sacerdote, trascritti in lingua originale e tradotti in tedesco da Nitsch, e rappresentano gli strumenti rituali in cui e su cui la pittura – rossa, come rosso è il sangue – subisce la transustanziazione e diventa carne. Il rosso, colore tipicamente caldo, vivace, acceso e inquieto, genera una forte energia. Ogni tonalità richiama un’immagine e un’emozione diverse e, secondo Kandinsky, è paragonabile anche a differenti suoni: il rosso caldo chiaro (rosso di Saturno) ricorda, ad esempio, il suono delle fanfare per il tono ostinato, forte; il rosso cinabro suona come la tuba e può essere paragonato a forti rulli di tamburo; il rosso freddo, se chiaro, ricorda i toni alti e melodiosi del violino (Kandinsky 1981). Gli elementi che compongono Installazione Berlino 2013 hanno subito la definitiva trasformazione operata dall’artista dopo le azioni performative e sono diventati ‘altro’: i grandi
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Veduta dell’interno della chiesa
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Diodato Vespiniani, Francesco Mottola San Giacomo alla battaglia del Clavijo, 1699 chiesa
alle pagine 106/107 Hermann Nitsch Levitikus, 2010 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo chiesa
alle pagine 108 e 109 Hermann Nitsch Berlino 2013 Relitti, 2010 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo chiesa
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Vittorio Pavoncello Il popolo del sogno, 2004 allestimento della mostra Capri, Certosa di San Giacomo chiesa, cappella di San Bruno
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Vittorio Pavoncello Genesi 1,3 Sia luce, e luce fu, 2004
Vittorio Pavoncello Deuteronomio 4,32 Interroga i tempi trascorsi, 2004
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teli, sporchi di sangue e di altri liquidi corporei, sono quadri, le barelle assolvono alla funzione di altari, il camice è simbolo della toga sacrale e i paramenti liturgici esprimono il valore celebrativo del gesto artistico. I colori sono quelli della Chiesa: ocra, verde, azzurro, bianco, a colloquio con l’architettura che li ha accolti e fatti suoi come opere antiche, nel segno di una continuità estetica ed etica con il monumento. A integrare e sottolineare il tema della lectio, le incisioni di Vittorio Pavoncello, esposte in mostra nella cappella di San Bruno, rappresentano la profezia rivelata al popolo ebraico attraverso il sogno, inteso come enigmatico momento della vita dell’uomo in cui Dio si manifesta, ma anche come base fondante della realtà. Traducendo in immagini i versetti della Bibbia, le opere richiamano il senso di mistero, di sospensione e di attesa della profezia, e cercano di svelare/interpretare la dimensione del dubbio nel rapporto tra umano e divino attraverso il segno (dell’artista) e la parola (dei testi biblici, utilizzati come didascalie delle opere). La Certosa tra passato e presente La Certosa di San Giacomo, ricca di sette secoli di storia, ha ancora molto da raccontare. Simbolo di Capri e culla del vasto patrimonio di esperienze spirituali, di arte e di cultura, dovute alla presenza dei Certosini e, in tempi più recenti, alle numerose personalità che hanno frequentato l’isola, vive oggi una stagione abbastanza felice, dopo due secoli complessi e difficili. La sua vita seguì le sorti dei monaci, che a Capri conservarono i privilegi acquisiti ab antiquo grazie alla protezione degli angioini, e mantennero costantemente una posizione di prestigio, nonostante le alterne fortune del monumento e dell’isola. Nel corso del Cinquecento e del Seicento ampliarono e adeguarono il monastero alle accresciute esigenze della comunità (i lavori riguardarono in particolare il Chiostro Grande, comprese le celle dei padri e il Quarto del Priore, e la chiesa, dove si protrassero fino ai primi anni del secolo XVIII); nel Settecento godettero del favore dei Borbone e non furono avversati dai francesi fino al citato Decreto del 1808, che mise fine alla loro lunga storia sull’isola. A partire dai primi anni dell’Ottocento iniziò per il monumento un periodo di progressivo e inarrestabile degrado, nonostante Capri fosse al centro di interessi di varia natura, tra cui la scoperta del paesaggio e dei siti archeologici, in parte già esplorati dai voyageurs del Settecento alla ricerca di ‘antichità’, la valorizzazione delle zone più caratteristiche dell’isola e la proliferazione di locande, residenze e alberghi, con la conseguente modifica del territorio. In quel contesto la Certosa perse gli originari significati religiosi, ma non guadagnò l’appeal di altri siti storici, e fu trascurata negli itinerari di visita dell’isola, mortificata e degradata dallo 114 PATRIZIA DI MAGGIO
sciagurato utilizzo, dapprima come alloggio e ospedale per la cura degli invalidi delle truppe francesi, poi come bagno penale e infine, dal 1860 al 1898, come sede della V Compagnia di Disciplina. Nel 1838 Francesco Alvino ne descriveva malinconicamente i tratti, a quella data ancora leggibili nonostante lo stato di abbandono: “giace nel centro della valletta e fa bella mostra di sé per colui che la guarda da Tragara. … ben fabbricata con portici di marmo che ne formano il chiostro, posta a mezzodì nel luogo più riparato in tutta Capri … circondata da vasti e ameni giardini”. Lo stesso Alvino si soffermava sulle rovine delle ‘Sellarie’, di cui l’attuale via Camerelle conserva il toponimo: “un muro continuato che per un buon tratto fiancheggia la via, sul quale sono addossati archi e muri formando quella continuazione di camere che ha dato il nome a queste rovine” (Alvino in Causa 1980, schede 47 e 48). Nei primi anni del Novecento passò al Demanio dello Stato, depauperata degli attuali Giardini di Augusto – nel 1901 il terreno era stato ceduto dal Comune all’imprenditore tedesco Friedrich Alfred Krupp per l’apertura dell’omonima strada – e seriamente a rischio di essere venduta a un gruppo di privati. L’operazione fu fortunatamente sventata dalla Direzione Generale Antichità e Belle Arti, che l’acquisì nel 1922, e nel 1925 ne fu finanziato il restauro che riguardò la chiesa, il Refettorio e il Chiostro Piccolo. Nei decenni successivi, a parte occasionali e circoscritti interventi manutentivi, i problemi del monumento non furono affrontati in maniera complessiva e omogenea, né dal punto di vista conservativo né da quello della destinazione d’uso, e dopo molti anni, nel 1973, i fondi stanziati bastarono solo ad avviare il parziale ripristino della Cappella delle Donne e del Parco, ma non a risanare i gravi danni creati dall’occupazione delle truppe americane e dall’adeguamento ad aule scolastiche di un’ala del Chiostro Grande. Oggi il monumento è protagonista di una nuova storia, tutta da scrivere, che richiede un’attenta ricerca, più ampia e forse un po’ insolita. Una ricerca che riesca a snidare il genius loci che ancora l’abita e di certo si nasconde nei più appartati angoli. Una ricerca che richiede di ascoltare le voci e i suoni che riecheggiano tra le antiche mura, mescolati nel vento ai suoi profumi. Una ricerca che richiede maggiore attenzione alla bellezza, alle suggestioni e alle emozioni suscitate dal candido monastero. Una ricerca che ne restituisca l’immagine, straordinariamente affascinante e inconfondibilmente unica.
Chartreuse de Capri. Dioc. de Capri. Ile de Capri. Royaume de Naples, in Maisons de l’Ordre des Chartreux. Vues et Notices, Imprimerie et Phototypie Notre Dame des Prés, Chartreuse de Saint Hugues, Parkminster. Sussex, Tome troisiéme, 1916, p. 33
Achille Vianelli La Certosa di Capri e il Monte Solaro Napoli, Certosa e Museo di San Martino, collezione Ferrara Dentice
Giacinto Gigante La Certosa vista dall’alto e il Monte Solaro, 1823 Napoli, Certosa e Museo di San Martino, collezione Ferrara Dentice
Giacinto Gigante Il Chiostro Grande, Capri, Certosa di San Giacomo Napoli, Archivio Soprintendenza ABAP Napoli alle pagine 114/115 Torre di guardia, XVI secolo dalla Loggia del Priore
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la bellezza del mondo è tutto ciò che appare nei suoi singoli elementi, come le stelle in cielo, gli uccelli nell’aria, i pesci in acqua, gli uomini sulla terra [guglielmo di conches, glosae super platonem, prima metà del XII secolo]
certosa di san lorenzo meditazione e contemplazione
la materia della certosa di san lorenzo emilia alfinito
Nel 1306 Tommaso Sanseverino aveva acquistato dai monaci di Montevergine un podere occupato in origine da una chiesetta e forse un piccolo convento intitolati a San Lorenzo e qui decise di costruire, per i monaci di San Bruno, un grande monastero. Il territorio, però, era estremamente paludoso a seguito delle continue piene del fiume Tanagro, per cui la presenza dei Certosini in zona avrebbe assicurato la realizzazione della vasta opera di bonifica, grazie alle loro conoscenze e capacità in questo campo. A Padula i monaci costruirono la loro casa articolandola secondo il rigido schema consolidatosi nel corso dei secoli, fin dal 1084, anno della costituzione dell’Ordine a Grenoble, voluto da san Bruno di Colonia. Nel cenobio si manteneva netta la distinzione tra la zona destinata ai contatti sociali, all’attività amministrativa, agricola e artigianale, detta Casa Bassa e quella dedicata invece alla clausura e alla vita ascetica dei padri, detta Casa Alta. La costruzione del convento fu realizzata in maniera sapiente, utilizzando in gran parte la magnifica pietra “di Padula”, ricavata dalla vicina cava del Tempone, località posta al di sotto della cittadina. La pietra, di ottima qualità, resistente al rigido clima locale, fu lavorata da numerosi maestri scalpellini sin dall’inizio e, in particolare, dal XVI secolo quando cominciò l’intensa stagione di lavori durante i quali vennero realizzati i portici, la loggia a ed il chiostro della foresteria, nonché la loggia del giardino del priore, il prospetto della chiesa delle donne, la torre degli armigeri e l’impianto della facciata. Durante i lavori settecenteschi, grazie all’opera del maestro Andrea Carrara, coadiuvato da numerosi aiutanti, la lavorazione della pietra toccò altissimi vertici nella Certosa di Padula e nell’intero Vallo di Diano. A tal proposito monsignor Antonio Sacco, nella sua monumentale opera sulla certosa così ben sintetizzava: “S. Lorenzo e la pietra, la pietra e S. Lorenzo, non so a chi si debba la priorità, furono i due fattori, i due creatori in Padula di una gloriosa schiera di artisti, scalpellini e muratori. Senza la scuola, la pietra sarebbe rimasta priva d’arte; la Certosa somministrò l’arte con la scuola e il lavoro con le grandi opere compiute” (Sacco 1980, I, p. 214). L’intenso lavoro degli scalpellini è testimoniato negli elementi 120 EMILIA ALFINITO
costitutivi dei pavimenti dei chiostri, nei corridoi, dalla presenza di sigle o piccoli simboli incisi nella pietra, quale riscontro per la contabilizzazione della produzione di ognuno di essi. Lo stile, i materiali, i colori utilizzati nel monumento, ebbero un immediato riflesso nel territorio circostante, dove numerosi edifici, per lo più appartenenti alla Certosa (le grancie, le chiese, i palazzi) erano riconoscibili grazie alla qualità dei materiali e alla presenza della raffigurazione della graticola, simbolo del martirio di san Lorenzo. Il parco recintato, ampio oltre 20 ettari, costituiva l’orto comune del complesso ed era originariamente coltivato a vite e cereali. Lungo i viali ortogonali si alternavano siepi ed alberi da frutto, mentre nei punti di intersezione si trovavano slarghi circolari delimitati da elci, allori e cipressi. Nel corso del ventesimo secolo è stata avviata la coltivazione di foraggi e prato, a cura degli orfani di guerra, ospitati in Certosa fra le due guerre. È stata impiantata una vigna, messi a dimora alcuni alberi da frutto e realizzato un giardino all’italiana nei pressi dello scalone monumentale. Il complesso crebbe di dimensione e di importanza nel corso dei secoli, fino al dominio napoleonico, quando gli ordini monastici vennero soppressi e la Certosa di San Lorenzo fu spogliata di gran parte dei tesori accumulati nei secoli: i quadri, gli ori, gli argenti, i preziosi paramenti, le statue ed i volumi della ricchissima biblioteca andarono dispersi. Al termine del periodo francese i Certosini tornarono nel monastero, ma nel 1866 si giunse alla definitiva soppressione. Nonostante fosse stata dichiarata Monumento Nazionale già dal 1882, la Certosa è stata trascurata per decenni ed utilizzata come carcere, lazzaretto, caserma, orfanotrofio, scuola e, addirittura, come campo di concentramento durante le due guerre mondiali. Dal 1982, all’indomani del tragico sisma che sconvolse le province di Salerno e di Avellino, con l’istituzione della Soprintendenza territoriale, ebbe inizio il lungo e complesso lavoro di restauro e rifunzionalizzazione degli spazi che ha ricondotto l’antica struttura all’originario aspetto, tanto che nel 1998 il monumento è stato dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’Umanità.
La corte esterna La maggior parte delle attività produttive della comunità religiosa si svolgevano nella corte esterna, vasto spazio rettangolare, chiuso su tutti i lati da locali di servizio, dalle abitazioni dei monaci conversi e dei pellegrini. È facile immaginare il fervore dei tanti artigiani e dei lavoratori salariati che andavano dal frantoio alle cantine, dai granai ai forni, fino alle stalle e ai depositi; insomma la Corte era il luogo in cui si svolgevano tutti gli scambi con la comunità esterna. Su questa si apriva anche l’appartamento del caciaro con l’ampia corte, che includeva le bufalare, le stalle e i fienili; Sempre sul lato sinistro della Corte esterna era collocata la Spezieria, “adorna di galanterie più rare e provveduta di ogni sorta di medicamenti forestiera” (Salmon 1763, p. 166 ) articolata su due piani, con spazi destinati al pubblico, l’abitazione dello speziale, quasi sempre un laico al servizio del Monastero, che elaborava le piante officinali, in un primo tempo solo per i monaci, ma in seguito anche per i pellegrini e l’intera popolazione del Vallo. All’imbrunire, ogni giorno, la corte esterna veniva chiusa e gli armigeri si disponevano a protezione dell’ingresso, in una torre ubicata lungo il muro di cinta del complesso. Nei pressi era la Cappella delle donne, luogo in cui era consentito partecipare alle funzioni religiose, in quanto nella chiesa della certosa non erano ammessi gli estranei, né tanto meno le donne, alle quali era riservata questa cappella. Tra il 1810 ed il 1881, le varie inondazioni del torrente Fabbricato, che scorreva proprio davanti alla Certosa, determinarono l’interramento della Corte; l’acciottolato originario è stato riportato alla luce solo negli ultimi anni, quando la quota antica è stata riconquistata rimuovendo oltre due metri di terriccio di riporto (Miccio 2010, pp. 226-235; Baratta 2017). La facciata del complesso monastico, che si staglia sul fondo della corte, era l’accesso alla Casa Alta e segnava il limite invalicabile per la maggior parte degli estranei. La sua costruzione, in pietra locale, fu avviata nel Cinquecento arricchita con statue di santi e pinnacoli realizzati dallo scultore Andrea Carrara e dai suoi esperti scalpellini agli inizi del XVIII secolo e completata nel 1723, come riporta il cartiglio sul fastigio che sovrasta la scala d’ingresso. La Foresteria La Foresteria, che si sviluppa intorno al chiostro cinquecentesco, era il luogo in cui venivano ospitati i pochi eletti – religiosi, politici, regnanti, rappresentanti di nobili famiglie – ammessi nel complesso conventuale. Il chiostro, dominato dalla Torre dell’orologio, è realizzato su due livelli; quello superiore è caratterizzato da un loggiato decorato con scene di paesaggio risalenti ai secoli XVII-XVIII, alla maniera del 122 EMILIA ALFINITO
pittore napoletano Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro, nonché dalle allegorie rinascimentali dipinte sulle lesene esterne del porticato oggi purtroppo ridotte a labili monocromi. Sul chiostro si aprivano le stanze per i forestieri illustri e la Cappella di Sant’Anna a loro riservata, riccamente adornata da vistosi stucchi dorati della fine del XVII secolo. Entrando nella Cappella si ha la percezione, già provata in altri ambienti, di come in questo monumento la materia sia stata dominata fino all’illusione della trasformazione della sua stessa essenza: la pietra si modula a seconda dell’ esigenza del costruttore o della fantasia dell’artista, la calce si fa spuma solida per ammorbidire ed ingentilire la rigidità delle pareti, la polvere di gesso variamente colorata e, in alcuni casi, arricchita da madreperla ruba la scena al marmo nei preziosi paliotti degli altari. Al pianterreno erano collocati gli uffici di rappresentanza interamente affrescati intorno alla metà del Settecento con soggetti sacri e profani, attribuiti al pittore locale Francesco De Martino, nato a Buonabitacolo nel 1681. Dal chiostro si accede alla corticella dei granai, lungo corridoio esterno, su cui si aprono numerosi ambienti, un tempo dedicati alla vita giornaliera del monastero: i forni, i deposti delle conserve e delle derrate alimentari, tra cui il grano, che veniva conservato nell’ampio salone al primo piano. In questo luogo l’artista Maria Dompè ha realizzato la sua opera a verde dal titolo Altum Silentium valorizzando lo spazio esterno che corre lungo le pareti delle cappelle laterali della chiesa, finora utilizzato quale deposito dei reperti lapidei accumulatisi durante le numerose trasformazioni dell’edificio. La zona cenobitica I fasti dell’epoca rinascimentale importati dalla Capitale ad opera della famiglia Sanseverino si concretizzano nel portale d’ingresso della chiesa di San Lorenzo, realizzato da un artista a conoscenza dell’opera dei Malvito, autori della Cappella del Succorpo nel Duomo di Napoli, o Cappella Carafa. Un forte riferimento va anche al sepolcro di Orso Malavolta, preziosa opera conservata nella Cattedrale di Teggiano, datata 1488. La notevole porta, datata 1374, è realizzata in cedro del Libano, composta da formelle che raffigurano il Martirio di san Lorenzo e l’Annunciazione. Essa, insieme alla trecentesca struttura architettonica della chiesa con volte a crociera e ad una lastra in pietra murata lungo le scale di accesso alla loggia della Foresteria, rimane esigua traccia dell’originario impianto gotico della Certosa. Arricchita da stucchi dorati nel corso del XVIII secolo, la chiesa è suddivisa in due zone che separavano i monaci conversi dai padri di clausura. Solo in questo modo la rigida Regola certosina consentiva ai conversi la partecipazione alle funzioni religiose
a pagina 119 Gaetano Barba Scalone monumentale, 1779 circa particolare
La corte esterna della Certosa
a pagina 123 Chiostro della Foresteria nobile XVI secolo
alle pagine 124/125 Loggia della Foresteria nobile XVI-XVIII secolo alle pagine 126/127 Maria Dompè Altum Silentium, 2017 installazione permanente Corridoio dei Granai
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dei padri. I due ambienti conservano quasi intatti i preziosi cori a tarsia lignea che ben si inseriscono nella temperie culturale sviluppatasi in Italia centro-settentrionale in epoca rinascimentale. Essi furono realizzati all’inizio del XVI secolo, come indicato nella scritta posta sul Coro dei Conversi: “Si cupis opificem miro decore Joannes Condidit en Gallus intus et extra 1507” (“Se cerchi un artista capace di mirabile bellezza [questi] è Giovanni Gallo che costruì i cori esterni e interni 1507”). Il Coro dei Conversi conta ventiquattro stalli con raffinati intarsi raffiguranti interessanti scorci architettonici, Santi, Vescovi, Martiri e Evangelisti, mentre il Coro dei padri, datato 1503, composto da trentasei stalli, decorati con scene del Nuovo Testamento e Storie di Martiri. Anche qui il genio dell’artista ha sapientemente abbinato le diverse essenze del legno, utilizzate come una tavolozza per creare ardite prospettive architettoniche, modellare volti e corpi e narrare importanti brani della vita dei Santi e di Cristo. Lateralmente alla chiesa si succedono le cinque cappelle: intitolate a San Giovanni Battista, all’Ecce Homo, al Crocifisso, alle Sante Reliquie e una utilizzata come Capitolo dei conversi. In quest’ultima è situato il trono ligneo destinato al priore, opera di gusto manierista delicatamente intagliata con puttini, volute e foglie d’acanto. In questi ambienti, come in altri dell’edificio, sono evidenti i segni delle numerose campagne decorative che nei secoli hanno più volte trasformato il suo aspetto. Come una stratigrafia archeologica, in particolare nella cappella di San Giovanni, trasformazioni pittoriche ed architettoniche testimoniano il trascorrere dei secoli ed il piacere del rinnovamento, adeguandosi al gusto artistico del momento. La zona della chiesa riservata ai monaci di clausura è rivestita da un pavimento settecentesco, in cotto e maiolica, che costituisce un ennesimo elemento dello stretto legame che legava Padula alla colta capitale. I Certosini, infatti avevano scelto la bottega napoletana dei Massa, autori dei celebrati rivestimenti del chiostro di Santa Chiara a Napoli per la decorazione del loro tempio. Il suo ricchissimo aspetto è dovuto al fastoso impianto decorativo realizzato con stucchi dorati che corrono lungo le pareti e la volta, dove inglobano il racconto evangelico con le Scene del Vecchio e del Nuovo Testamento, opera del pittore siciliano Michele Ragolìa del 1686. Nella ricca decorazione delle pareti laterali affiorano le cornici in stucco tristemente vuote, unica traccia del cospicuo patrimonio pittorico presente nel cenobio, disperso dal un frettoloso e poco attento trasferimento nella capitale dei numerosi dipinti, opere di artisti famosi quali Luca Giordano, Paolo De Matteis, Giacomo Farelli. Le tre tele che oggi adornano il presbiterio vennero commissionate nel 1857 al pittore napoletano Salvatore Brancaccio dai Certosini che, per ristrettezze economiche e per l’incombente definitiva soppressione, 124 EMILIA ALFINITO
non ebbero la possibilità di ripristinare il complesso decorativo della chiesa. L’imponente altare maggiore, la cui struttura bifronte è impreziosita dai paliotti e dalle lastre in scagliola, pietre dure e madreperla, dalle sculture in marmo, fu realizzato nel XVIII secolo su disegno di Giovan Domenico Vinaccia e Bartolomeo Ghetti. Gli spettacolari decori ottenuti con la tecnica della scagliola sono presenti in quasi tutti i paliotti d’altare che si susseguono nei vari ambienti del cenobio e in quelli recuperati e collocati in più punti del percorso di visita, per favorirne la fruizione. Di sicuro questo particolare tipo di decorazione ben si confaceva al gusto dei Certosini che l’avevano ampiamente preferita alla tarsia marmorea. Alle spalle dell’altare maggiore si apre la Sacrestia con la sua ampia volta a botte ribassata, ornata da stucchi settecenteschi e arredata da preziosi armadi in noce ed acero, opera del 1686, eseguita da monaci esperti nell’arte dell’intaglio. Sull’altare si ammira il Ciborio bronzeo, opera attribuita a Jacopo del Duca, allievo di Michelangelo. Anche il prezioso manufatto fu trasferito a Napoli nel 1813 ed acquisito al Pubblico Demanio e per l’occasione, per consentire un trasporto più agevole, fu smontato in vari pezzi. In una relazione del 1873, l’allora Soprintendente Generale del Museo e degli Scavi di Napoli includeva il tabernacolo nell’elenco delle opere d’arte più pregevoli presenti tra le collezioni: “… era ornato di colonne in lapislazzuli, ed aveva intorno moltissime gemme, che ora più non vi esistono. Fu disegnato da Michelangelo, e secondo il Vasari, ‘gettato gran parte da maestro Jacopo Ciciliano, eccellente gettatore di bronzi, che fa che vengono le cose sottilissimamente senza bave, con poca fatica si rimettano; che in questo genere è raro maestro, e molto piaceva a Michelangelo’” (Fiorelli 1873, III, p. 55). Il ciborio è rientrato in Certosa nel 1988 e la sua collocazione sull’altare della Sacrestia è stata determinata dalla presenza di una base di pietra ad esso perfettamente corrispondente e testimoniata dal visitatore inglese Thomas Salmon che lì lo vide e lo descrisse nel 1763. Il manufatto è giunto fino a noi con numerose mancanze, che sono state integrate da alcuni elementi in metacrilato che non ne alterano la leggibilità e ne assicurano la stabilità. Il prezioso cimelio è stato sottoposto ad un delicato intervento di restauro, durante il quale è stato evidenziato il simbolo che lega il Ciborio alla Certosa di Padula, la graticola, nonché le incisioni con le date della fusione del bronzo: 1572-1574. La Sala delle Campane, dove ancora oggi sono visibili gli alloggiamenti per le corde che scendevano dal campanile, costituisce un ambiente disimpegno su cui si aprono la Cappella del Tesoro e la Sala del Capitolo, e da cui si può accedere al chiostro del Cimitero Antico. Qui ancora si conserva la tabella mobile su cui erano riportati i nominativi e i turni dei monaci durante le funzioni religiose.
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La Cappella del tesoro, scelta per l’installazione di Giovanni Anselmo Particolare, nell’ambito della mostra Il Cammino delle Certose, è arredata con grandi armadi in noce, intarsiati con radica di ulivo. Qui venivano custoditi gli oggetti più raffinati e pregevoli dell’arredo sacro della chiesa: avori, ori e argenti, andati dispersi. La sala è arricchita da grandi stucchi che raffigurano cherubini, martiri, l’Eterno Padre, possenti angeli che in volo, nella volta, circondano l’affresco risalente al XVIII secolo raffigurante La caduta degli angeli ribelli. Anche il Capitolo si apre sulla Sala delle Campane, consiste in un’ampia aula decorata con stucchi settecenteschi, in cui campeggia l’imponente altare, realizzato in pietra di Padula, presumibilmente eseguito dallo scultore Andrea Carrara. Sulle pareti sono presenti quattro sculture, in pietra di Padula, recentemente attribuite a padre Domenico Lemnico, certosino, allievo di Lorenzo Vaccaro. Le fastose cornici in stucco sono ora prive di tele, ad esclusione di quella alle spalle dell’altare, raffigurante San Bruno e San Lorenzo ai piedi della Vergine con il Bambino, attribuita ad Ippolito Borghese. Il Capitolo era il luogo in cui si riunivano i Certosini presieduti dal priore, per affrontare i problemi della comunità religiosa, per l’ammissione dei nuovi membri, per discutere delle pene da infliggere ai trasgressori e così via. L’area del Cimitero antico Il Cimitero antico, così definito perché precedente a quello che oggi occupa parte del giardino del Chiostro Grande, si trova nel cuore del complesso, racchiuso da un chiostro cinquecentesco che risente, nelle forme e nella decorazione dei capitelli, dei modi di Domenico Antonio Vaccaro. Le dimensioni del cimitero sono piuttosto ridotte in quanto la regola certosina prevedeva la sepoltura dei corpi direttamente nella terra, con una croce anonima e senza bara. Il braccio est di questo Chiostro era, per i monaci di clausura, il luogo di transito tra le celle e la chiesa, con accesso dal lato sud del Chiostro Grande attraverso il corridoio su cui si apre la Cappella del Fondatore istituita alla metà del XV secolo, oltre un secolo dopo la morte di Tommaso Sanseverino avvenuta nel 1324. In questo corridoio sono collocati i calchi di alcune metope che costituiscono, insieme ai triglifi, il fregio dell’architrave che corre lungo i quattro bracci del Chiostro Grande e che, in occasione della mostra Il Cammino delle Certose, sono state messe in relazione ideale con l’opera di Lucilla Catania Terrecotte. La cappella è occupata dal monumento sepolcrale di Tommaso Sanseverino in pietra di Padula, in cui il fondatore è raffigurato come un guerriero dormiente, sovrastato dall’altorilievo con la Madonna con Bambino, attribuito a Domenico Napo132 EMILIA ALFINITO
letano. La decorazione della cornice della cona che riquadra la Madonna, alla maniera delle grandi pale d’altare cinquecentesche, rimanda all’artista che realizzò il portale della cappella di Sant’Anna, e che potrebbe far collocare l’opera intorno agli anni Venti del Cinquecento. Sul chiostro del Cimitero antico si aprono la Cucina e il Refettorio, quest’ultimo realizzato tra il 1734 e il 1739. La sua costruzione richiese l’eliminazione di alcuni ambienti apportando all’edificio una notevole trasformazione. La grande sala è caratterizzata dalla presenza dei 61 stalli in legno di noce intagliato, dove i Certosini, esclusivamente nei giorni festivi, in tempo di Quaresima e in occasione di visite speciali, prendevano posto, mentre un monaco recitava le letture dall’alto del bellissimo pulpito in marmo commesso posto sulla parete di destra. In pietra e marmi colorati, invece sono i portali dei tre accessi: alla scala del pulpito, al chiostro del cimitero antico e al chiostrino del Refettorio. Purtroppo le mense sono andate disperse o bruciate durante le sere di gelo, come è avvenuto per tanti degli arredi lignei di cui era fornita la Certosa. Sulla parete di fondo risalta il grande dipinto, olio su muro, raffigurante le Nozze di Cana, opera di Alessio D’Elia (1749), sormontato dall’altorilievo in stucco con gli angeli che reggono la croce. Anche in quest’ambiente grande spazio è dato alla decorazione a stucco, ma l’ampiezza della sala rende più leggero l’apparato decorativo. Spiccano le cornici vuote dei dipinti che vennero acquistati nel 1738 e di cui non abbiamo alcuna notizia. Il pavimento in origine doveva essere realizzato in maiolica, come quelli della chiesa e della biblioteca, ma, in corso d’opera si preferì realizzalo in marmi commessi (De Cunzo, De Martini 1985, p. 83). Il refettorio è stato scelto da Vanessa Beecroft per la realizzazione della sua performance VB82, in occasione della mostra Il Cammino delle Certose. In una delle cornici vuote viene proiettato il video girato in occasione dell’evento. La Cucina, un ampio ambiente con volta a botte, è frutto anch’essa dell’imponente campagna di lavori di ristrutturazione del convento nel corso del Settecento. Fu realizzata utilizzando un ambiente precedentemente usato per altra funzione, come testimonia l’affresco sulla parete di fondo di argomento sacro. Esso, infatti, datato 1652 e firmato Anellus Maurus raffigura la Deposizione di Cristo tra san Lorenzo e i Certosini e, al momento della realizzazione della Cucina, fu nascosto da una spessa scialbatura. Il dipinto fu riscoperto, insieme ad altre tracce di dipinti murali, durante i lavori di restauro degli anni ’80 del Novecento quando la scialbatura delle pareti fu rimossa, per consentire il consolidamento degli intonaci. L’austero arredo, costituito da tavoli in pietra, vasche, cucine e forni, e dall’enorme cappa posta sopra la cucina principale su cui ancora è posto l’antico bollitore, è ravvivato dalle squillanti mattonelle gialle e verdi che ricoprono le
pareti. Gli allegri colori delle maioliche, forse provenienti da una cupola e riutilizzate insieme alle mattonelle che ricoprono il grande piano di cottura, caratterizzano, insieme alla cappa, l’ambiente considerato uno dei luoghi simbolo della Certosa. Nei pressi della cappa si apre l’accesso alle sottostanti cantine, ambiente molto vasto dove si conserva un torchio risalente alla fine del Settecento. Qui erano custoditi, oltre alle derrate alimentari, bottiglie e barili per la conservazione del vino, il cui consumo in maniera moderata era ammesso dalla Regola una volta al giorno. La Regola invitava anche a pranzi frugali, senza carne, che venivano consumati in solitudine nelle celle, tranne che nei giorni festivi e in particolari occasioni. Si ricordano, tuttavia, alcuni ricchissimi pranzi, preparati in occasione della visita di personaggi illustri; tra tutti, quello organizzato per Carlo V al ritorno da Tunisi (1535), per il quale la leggenda vuole che sia stata cucinata una frittata di mille uova. Il Chiostro dei Procuratori e l’Appartamento del Priore I procuratori, nominati direttamente dal priore, costituivano il necessario ponte tra la stretta clausura certosina ed il mondo esterno. Numerose erano le proprietà dei monaci di Padula sparse tra la Puglia, la Basilicata e la Campania la cui gestione richiedeva la fattiva presenza di esperti amministratori. Questi occupavano un intero quarto collocato nella foresteria, fuori dalla zona della clausura. L’appartamento si affacciava sul Chiostro, per questo detto dei procuratori, articolato su due livelli e comunicante direttamente con il Quarto del Priore e con la Biblioteca. A pianterreno, lungo il portico si apriva il Refettorio dei Conversi, attualmente utilizzato come sala per riunioni, mentre al piano superiore un corridoio finestrato conduceva agli alloggi; Il Chiostro, presumibilmente rimaneggiato in epoca settecentesca, è ispirato a motivi sanfeliciani ed è arricchito dall’ampia fontana in pietra locale, con vasca polilobata adornata da un tritone e tre delfini. Al di sotto del porticato sono attualmente collocati reperti archeologici, provenienti dal territorio circostante, di competenza del Museo Archeologico Provinciale della Lucania Occidentale, ospitato in parte nell’appartamento dei procuratori e in una delle sale del Quarto del Priore. Il priore era una figura fondamentale per la Regola certosina: si occupava di tutte le questioni spirituali e materiali connesse alla vita del monastero. La sua cella era costituita da numerosi ambienti, tra i quali la ricca cappella privata dedicata a San Michele Arcangelo, patrono di Padula e molto venerato nell’intero Vallo di Diano. Attualmente l’appartamento è costituito da cinque grandi ambienti che solo in parte restituiscono l’idea della fastosità dell’intera dimora. È stato prescelto quale sede idonea per gran parte 134 EMILIA ALFINITO
delle installazioni della mostra Il Cammino delle Certose, perfettamente armonizzate con gli ambienti certosini: Danza e Natura alchemica, di Luigi Palmieri, la grande tela di Michele De Luca, Principio stabile - infanzia del Cosmo, gli interessanti lavori di Sandro Sanna aMare, le opere di Salvatore Emblema e di Ettore Spalletti, Senza titolo. L’Archivium, sala un tempo dedicata a conservare le numerose pratiche amministrative relative alla vita della Certosa, come ricorda il ricco cartiglio in stucco al di sopra della porta di accesso, è destinato ad accogliere una serie di dipinti e di sculture appartenenti alla certosa, miracolosamente salvate nel corso dei secoli. Nella saletta che ospitava il Cubiculum del priore, è esposta una piccola collezione, formata da quattro dipinti settecenteschi attribuiti a Nicola Malinconico, provenienti dalla Certosa di San Martino, ma di fatto realizzati per la Certosa di San Lorenzo. L’originaria provenienza è stata suggerita delle ambientazioni delle scene, in cui i padri Certosini, colti in vari momenti di vita comunitaria, si muovono tra architetture facilmente riconducibili al cenobio padulese, e tra esse, una in particolare, ne riproduce fedelmente la maestosa facciata. L’attribuzione trova ulteriore conferma nel verbale di consegna delle opere alla Certosa di San Martino redatto nel 1824 in cui si afferma che le tele “… forse appartenevano a S. Lorenzo la Padula” (Baratta 2012, p. 52). La cappella privata, è decorata con stucchi dorati che incorniciano quattro dipinti, olio su muro, raffiguranti le storie dell’Arcangelo, realizzati nel XVIII secolo da Alessio D’Elia, autore del grande dipinto del Refettorio. Saggi effettuati durante i restauri hanno evidenziato che l’opera di D’Elia è andata a sovrapporsi ad altri dipinti di simile soggetto, realizzati non molto prima di questo intervento. L’altare in marmi policromi è sovrastato dalla grande cona marmorea che racchiude la scultura lignea con San Michele Arcangelo opera di Michele Feriello del 1649. L’elegante loggia, affrescata con paesaggi marini, di mano dell’autore dei dipinti della loggia della Foresteria si affaccia sul grande giardino privato, all’italiana, collegato direttamente al parco attraverso una imponente cancellata. Dal suo appartamento, attraverso una scala interna, oggi utilizzata dal Museo provinciale, il priore aveva accesso diretto alla Biblioteca. Oggi vi si accede solo attraverso la celeberrima scala elicoidale, posta accanto all’ingresso della cella del priore, ardita opera di ingegneria realizzata intorno alla metà del Quattrocento. Attraverso i 38 gradini monolitici, che si svolgono lungo un cordolo in pietra, si accede all’antisala e quindi alla spettacolare sala della Biblioteca, luogo un tempo riservato esclusivamente al priore sia per la scelta dei libri di cui dotarla che per la lettura e il prestito da concedere ai monaci. Anche qui è presente, come nella chiesa, un pavimento settecentesco maiolicato, opera di
a pagina 128 Decorazioni in stucco, XVIII secolo Loggia della Foresteria, cappella di Sant’Anna
Coro dei Padri chiesa
a pagina 129 Portale, XVI secolo Loggia della Foresteria, cappella di Sant’Anna a pagina 131 G. Gallo Coro dei Conversi, 1507 chiesa
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Giovan Domenico Vinaccia Bartolomeo Ghetti Altare maggiore, XVIII secolo chiesa
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Jacopo Del Duca Ciborio bronzeo, 1572-1574 sacrestia
alle pagine 136/137 Giovanni Anselmo Particolare, 1972 allestimento della mostra Padula, Certosa di San Lorenzo Sala del Tesoro
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Giuseppe Massa. La tela posta al centro della volta a padiglione, firmata da Giovanni Olivieri, risale al 1763 e rappresenta scene allegoriche. I preziosi armadi in noce, un tempo contenevano decine di migliaia di volumi e manoscritti. I libri erano contenuti in ventisei scaffali in noce disposti sulle pareti, ordinati per materia, come indicano i ventitré cartigli che sormontano le librerie. La scelta dei libri di cui dotare la Biblioteca spettava al priore ma sempre secondo le indicazioni della Regola. Per almeno cinque secoli l’incremento del patrimonio librario procedette in maniera incessante, soprattutto a seguito dell’introduzione del libro a stampa. Nel corso del XIX secolo, a seguito delle citate soppressioni, la dispersione fu quasi totale, anche se graduale. Parte del patrimonio librario è stato individuato oggi nella Biblioteca Nazionale di Napoli, solo una piccolissima parte è rimasta in Certosa, salvatasi perché ritenuta di poco valore bibliografico. I libri “scartati” formano l’attuale Fondo Storico della Biblioteca della Certosa di Padula. Si tratta di circa 2000 volumi (inclusi i testi incompleti, le raccolte di fogli sciolti e i periodici) secondo l’inventario redatto negli anni ‘80 del secolo scorso. La parte più antica del Fondo contempla alcune edizioni del XV secolo e circa settanta del XVI, che si possono considerare pregevoli poiché edite dai più illustri stampatori del tempo (Baratta 2007). Il Chiostro Grande con lo scalone monumentale Il Chiostro Grande, fondato probabilmente su una precedente impostazione degli inizi del Cinquecento, uno dei maggiori d’Europa, si estende su circa 15.000 metri quadrati, è racchiuso da un loggiato sostenuto da 84 pilastri, sovrastati da un complesso architrave, costituito da una fascia ornata con metope e triglifi. Sul lato Sud è situato un piccolo cimitero stilisticamente vicino a quello progettato da Cosimo Fanzago nella Certosa di San Martino di Napoli. La sua realizzazione si è protratta per quasi due secoli, a partire dal 1583, con alterne vicende economiche e costruttive. L’attività del Fanzago nella Certosa è testimoniata da certificati di pagamento per lavori pagati da priori Certosini della Campania, tra cui vengono elencati i ducati versati nel 1643 e nel 1695 dal priore di Padula. Con ogni probabilità il Fanzago contribuì alla realizzazione del Chiostro su cui si continuò ad intervenire durante tutta la prima metà del Settecento, con l’alternarsi di famosi architetti, che avevano prestato la propria opera anche nella certosa napoletana di San Martino. Furono gli anni in cui il monumento venne completamente rinnovato in tante sue parti: la facciata, le fontane, i chiostri, i vari ambienti creati ex novo, l’architrave del Chiostro Grande. Il disegno di quest’ultimo è stato attribuito a Nicola Tagliacozzi Canale e l’esecuzione fu a cura degli esperti scalpellini guidati dal famoso Mae140 EMILIA ALFINITO
stro Andrea Carrara (Restaino 2004, pp. 57-58). La struttura del Chiostro Grande si articola su due livelli: al piano inferiore l’ingresso alle celle dei padri, al piano superiore la galleria coperta, detta la passeggiata coperta. Il maestoso scalone ellittico a doppia rampa, eseguito intorno al 1779, collega i due piani del Chiostro e si affaccia sul paesaggio circostante. Autore di quest’opera, ispirata alle esperienze napoletane di Ferdinando Sanfelice, è Gaetano Barba (1730-1806), allievo del Vanvitelli. Quando nel 1736 venne costruito al di fuori del monastero il Monumento a san Bruno, questo divenne il limite dell’immaginario asse perpendicolare che iniziava con lo scalone posto al limite ovest e che segnava, insieme alla galleria superiore, l’itinerario che i monaci percorrevano durante lo spaziamento, unica occasione per interrompere la clausura e pregare insieme, passeggiando (Restaino 2004; Miccio 2010). Sul Chiostro Grande si aprono le celle che costituivano il luogo in cui i monaci Certosini trascorrevano la maggior parte del tempo, dediti allo studio e alla lettura, oppure raccolti in preghiera e meditazione. Quattro sono le tipologie architettoniche delle celle, più che altro veri e propri appartamenti, mediamente composti da due ambienti e da una piccola loggia coperta che dava accesso all’orto dove i Certosini coltivavano piante officinali, fiori e verdure per integrare la loro austera dieta. Alcune di esse sono dotate di un laboratorio, posto al piano superiore. Accanto all’ingresso era posizionata una piccola apertura attraverso la quale venivano consegnati i pasti nei giorni feriali. Attualmente si contano 26 celle che corrono lungo tre lati del grande chiostro, mentre, sul lato est, zona molto rimaneggiata durante la creazione del refettorio, restano solo alcune porticine murate testimonianza delle celle soppresse per la realizzazione del nuovo Refettorio. In occasione della mostra Il Cammino delle Certose, nella cella 5 è stato realizzato un orto dei semplici per rinnovare quella che era una delle consuete attività dei Certosini, dediti allo studio e al lavoro. La Certosa, diversamente utilizzata dopo le soppressioni, ha anche rivelato di poter convivere armoniosamente con l’arte contemporanea. La mostra Il Cammino delle Certose non è la prima esperienza in questo senso, infatti, già negli anni Novanta, è stata dedicata una certa attenzione al contemporaneo mediante una sapiente contaminazione tra opere di arte antica e moderna durante la realizzazione delle numerose mostre realizzate nel monumento. Con le manifestazioni Le Opere e i Giorni e Fresco Bosco, curate da Achille Bonito Oliva e realizzata tra il 2002 e 2008, il monumento ha ospitato artisti che hanno operato direttamente in Certosa, facendo del monumento un vero museo di arte contemporanea. Durante gli eventi le celle dei monaci ed alcuni ambienti particolari (per esempio i forni) sono divenuti laboratori di creatività in cui artisti di fama internazionale
Chiostro dei Procuratori XVIII secolo
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e nuovi talenti hanno prodotto opere d’arte site specific ispirandosi alle suggestioni degli antichi ambienti claustrali. Nelle ventiquattro celle dell’imponente edificio, nel Desertum, il grande spazio verde che circonda la Certosa, è raccolta la collezione di arte contemporanea, creatasi a seguito della manifestazione, che comprende circa cento opere tra dipinti, sculture, installazioni, fotografie e video. Inoltre, le installazioni di giardini contemporanei, allestite nei chiostrini delle stesse celle durante la manifestazione Ortus Artis, sono finalizzate alla creazione di un continuum tra lo spazio chiuso e quello aperto del monumento, diverse forme creative e nuove suggestioni estetiche, in una innovativa lettura del paesaggio.
Refettorio, XVIII secolo
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alle pagine 142/143 Vanessa Beecroft VB82, 2017 Refettorio
a pagina 144 Cucina, XVIII secolo Biblioteca, XVIII secolo
a pagina 145 Cappella di San Michele, XVIII secolo Appartamento del Priore
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Cosimo Fanzago Nicola Tagliacozzi Canale Chiostro Grande e Cimitero nuovo XVII-XVIII secolo
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i concerti
Capri, Certosa di San Giacomo 22 luglio 2017 Luigi Esposito Inchiostro su carta performance musicale, a cura dell’Accademia Musicale Napoletana, con brani per pianoforte preparato composti dall’artista, selezionati in analogia con il carattere azionista delle opere di Nitsch esposte per la mostra Il Cammino delle Certose
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Napoli, Certosa di San Martino 15 settembre 2017 Coro femminile del Teatro di San Carlo L’esperienza del Sacro tra Medioevo e Novecento
I CONCERTI  153
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Padula, Certosa di San Lorenzo 16 settembre 2017 Coro femminile del Teatro di San Carlo L’esperienza del Sacro tra Medioevo e Novecento
Capri, Certosa di San Giacomo 22 settembre 2017 Ensemble femminile “Bilitis” dell’Accademia Musicale Napoletana Soirèe Debussy, voce recitante Catherine Spaak omaggio al compositore francese Claude Debussy, tra i protagonisti del simbolismo musicale, e alle
opere di Diefenbach esposte in Certosa; per la serata sono stati eseguiti alcuni brani che celebrano il fascino e la poesia dell’Isola Azzurra: Syrinx, Clair de lune, Les Collines d’Anacapri, Sonata, Les Chansons de Bilitis su testi del poeta Pierre Louys
I CONCERTI 155
le opere in mostra
Napoli, Certosa di San Martino
Nella versione Couteau la donna nuda realizzata come una bambola di pezza, priva di una gamba e acefala ha un coltello che le esce dal petto. Posizionata orizzontalmente al corpo, la lama del Couteau difende da una minaccia misteriosa, probabilmente nascosta nell’irrisolto passato ancora carico di paure. [Eloisa Saldari]
teria che contiene in sé una gamma cromatica di luce spenta, di consonanza tonale, di nuova spazialità. La materia è un equivalente del pigmento, è colore-non colore, che libera e rappresenta solo se stessa. Con la potenza della fiamma l’artista salda lastre di ferro e sfrutta le sfumature della materia arrugginita. Superando il confine tra pittura e scultura, Burri crea uno “spazio di materia” dominato da toni cupi e tenebrosi, da cromie enigmatiche nate dalla trasformazione chimica del ferro. [Eloisa Saldari]
1] Louise Bourgeois (Parigi 1911 - New York 2010) La Femme Couteau, 2002 tessuto, acciaio e legno Napoli, collezione privata Artista controversa e di indiscusso fascino, Louise Bourgeois raggiunge notorietà e riconoscimento artistico negli anni Ottanta, seppur stimata da artisti di fama internazionale, quali Marcel Duchamp, Joan Mirò e Andy Warhol. Tra le più amate e celebrate del XX secolo, lavora sul confine della provocazione e dell’esasperazione di contenuti per trasformare lo spaventoso in grottesco. Tutt’altro che convenzionale, la sua arte diverge da qualsiasi vincolo estetico o morale. Lontana dalle convenzioni sociali, la Bourgeois crea opere enigmatiche, rebus difficili da decifrare che disorientano volutamente creando disagio e sbigottimento, per esorcizzare la paura della morte. Fin dalle prime opere rivolge l’attenzione al corpo e alla memoria, al passato e ai traumi familiari che sfoga sulla tela. Mentre negli anni Sessanta sperimenta l’uso di plastiche, gomme e lattice in opere dove compaiono chiari riferimenti ai genitali maschili e femminili. La drammaticità della fanciullezza si palesa nel ciclo dei Ragni, simbolo della madre-tessitrice degli intrighi di famiglia. L’infanzia dell’artista, “che non ha mai perduto la magia, il mistero e la sua drammaticità” rivive nella serie Femme di cui fa parte l’opera in mostra. Femme Couteau riprende il principio delle Femme Maison: figure femminili nude, bianche come statue classiche, che al posto del capo hanno la forma di una casa.
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2] Alberto Burri (Città di Castello 1915 - Nizza 1995) Grande ferro, 1961 Città di Castello, Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri La portata rivoluzionaria della ricerca di Alberto Burri destabilizza il mondo dell’arte della seconda metà del XX secolo, ancora legato alla pittura “tradizionale” quando, con lucida intenzione, sceglie di usare per le sue opere materiali inusuali. Le prime sperimentazioni con i sacchi di juta, presentati alla Biennale d’Arte di Venezia del 1955 suscitano scandalo e dissensi nel mondo politico e artistico. La juta lacerata e ricucita sostituisce i materiali classici della pittura per le sue doti cromatiche e per la sua riluttanza a riflettere la luce. Preceduti da radicali sperimentazioni materiche come i Catrami e le Muffe, ai Sacchi seguono i Legni, i Ferri e le Combustioni su carta, legno o su tessuto, fino ad arrivare alle Plastiche, momento di “massima violenza verso la materia”, i Cretti e i Cellotex, che segnano il passaggio a materiali tecnologico-industriali e artificiali. In Grande ferro Burri porta alla luce le qualità segrete della ma-
3] Guido Cagnacci (Sant’Arcangelo di Romagna 1601-Vienna 1663) Giuditta con la testa di Oloferne Bologna, Pinacoteca Nazionale Nella Certosa di San Martino l’autore emiliano viene a ritrovarsi nei pressi di due suoi maestri: Guido Reni nell’abside della chiesa, con l’Adorazione dei pastori, e Simon Vouet nella Sala del Capitolo, per la quale realizzò La Vergine che appare a san Bruno, presa a modello da Cagnacci. A differenza della Giuditta di Luca Giordano nel Tesoro della Certosa, la sua Giuditta con la testa di Oloferne non ha i caratteri di una rappresentazione sacra, è un quadro da stanza e da galleria aristocratica. La composizione a figure di tre quarti poste sullo stesso piano – Giuditta e l’ancella Abra – è inquadrata da un tendaggio verde, baldacchino di un letto antico, che funge da quinta teatrale. Giuditta, come Davide figura “cefalofora” al femminile, regge con forza per i capelli la testa bellissima del guerriero sconfitto, che depone in un sacco tenuto dall’ancella con una torsione sottolineata dagli ornati preziosi della veste, ma guardando in alto. Nel suo volto messo in evidenza nel buio da una luce chiara, gli occhi arrossati
e la bocca semiaperta quasi in un sospiro riassumono il dramma avvenuto, con una commozione ispirata. Il tema biblico non è interpretato con la forza simbolica di un gesto epico, ma con pathos melodrammatico, che accomuna la Giuditta ad altre eroine amate dal collezionismo aristocratico seicentesco, Lucrezie e Cleopatre che non mancano nella produzione di Cagnacci. L’opera infatti proviene con molta probabilità dalla Galleria del palazzo veneziano della famiglia Sagredo, ed è riferita al 1645 circa, qualche anno prima del soggiorno a Venezia del pittore. Può ritenersi tipica del modo di Cagnacci di adattare la cultura postcaravaggesca – e in particolare le forme di Guercino – con una sua particolare versione sensibile delle tenerezze di Guido Reni. [Annalisa Porzio]
4] Giacinto Cerone (Menfi 1957 - Roma 2004) Settembre nero, 1994 gesso Roma, collezione privata courtesy Archivio Generale Giacinto Cerone Ofelide, 2004 ceramica bianca Bologna, collezione Luigi Ghirlandi Senza titolo (serie Ofelia im Traum), 1994 grafite, tempera acrilica e vernice spray su carta da scena Siena, collezione Zammataro Giacinto Cerone sceglie la ceramica per esprimere i cambiamenti organici degli esseri viventi e il disfacimento della struttura fisica. “Non mi interessa se quello che faccio è bello o brutto” ha affermato, “mi interessa essere libero”. E sovrane sono anche le sue opere, prive di qualsiasi dipendenza da suggestioni o limitazioni provenienti dal mondo esterno. Non a caso per Cerone “la scultura deve stare male ovunque” perché “non ha spirito di adattabilità”, non deve adeguarsi all’ambiente e a questo uniformarsi, in quanto “lei stessa è lo spazio”. Giacinto Cerone eleva il gesso, generalmente usato in scultura per bozzetti e calchi, a materia nobile, come in Ofelide e Settembre nero. La verticalità tipica della scultura, che Cerone abbraccia nelle opere monumentali degli anni Ottanta, viene qui annullata dalla forza di gravità. La materia scultorea si modella parallela al terreno, come si volesse abbandonare al suo peso. Il gesso si fa su-
dario, un brandello di memoria che porta con sé le tracce dell’animo umano, i segni di un tempo remoto e arcaico. Abbandonate a terra come vite spente e vinte, Ofelide e Settembre nero conducono lo spettatore nel limbo che esiste tra memoria e vita futura, nell’incertezza e nell’inquietudine che reca in sé l’esistenza. [Eloisa Saldari]
5] Lucio Fontana (Rosario de Santa Fé 1899 - Comabbio 1968) Concetto spaziale, 1949 tempera su tela con buchi Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea Nel 1946 Lucio Fontana scrive il Manifiesto Blanco, introduzione allo Spazialismo quale sintesi psico-fisica tra colore, suono, movimento, tempo e spazio. Fin dagli Ambienti spaziali degli anni Cinquanta, crea opere che superano il concetto di scultura, fondendosi con lo spazio e coinvolgendo i sensi in nuove percezioni. La ricerca spazialista di Fontana si rivela nei Concetti spaziali, in cui perfora la tela con un punteruolo. Questa serie, nota come Buchi, non deve essere considerata come un gesto di distruzione, ma al contrario di costruzione. Preludio dei futuri Tagli, introduce al concetto di tridimensionalità e introduce nell’opera la quarta dimensione: il tempo. L’atto deciso e apparentemente violento della foratura, apre nello spazio finito della tela il concetto di spazio- tempo. I fori raggruppati sulla superficie pittorica, rimandano a spazi interstellari e disegnano un’immaginaria costellazione celeste. “La scoperta del cosmo è una dimensione nuova”, afferma l’artista, “È l’infinito: allora io buco questa tela, che era alla base di tutte le arti e creo una dimensione infinita”. [Eloisa Saldari]
6] Artemisia Gentileschi (Roma 1593- Napoli dopo il 1654) Giuditta decapita Oloferne olio su tela; 159 x 126 cm Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte La scena, autentico “bagno di sangue”, come qualcuno l’ha definita, presenta una Giuditta particolarmente procace ed avvenente, assistita dalla fedele ancella Abra – qui anch’essa giovane e determinata, complice della sua padrona – mentre afferra con decisione la scimitarra del generale Oloferne, colto nel sonno profondo dell’ebbrezza, per reciderne il capo. Il dipinto, a lungo ritenuto nelle guide ottocentesche opera del Caravaggio, nel 1827 entrò, con questa attribuzione, nelle collezioni del Real Museo Borbonico. Si deve a Roberto Longhi, nel 1916, la sua assegnazione ad Artemisia Gentileschi mentre in anni più recenti, grazie ad indagini diagnostiche effettuate da Mary Garrard (1999), la tela, prima versione di un soggetto più volte ripreso dall’artista, è stata ascritta al 1612 , datazione oggi comunemente accettata. Fu quello un anno determinante per la carriera di Artemisia, alla vigilia della sua partenza dalla casa paterna di Roma – dove, come è noto, era stata vittima di uno stupro da parte di Agostino Tassi, pittore della cerchia di Orazio Gentileschi – e del trasferimento a Firenze, sotto la protezione della granduchessa di Toscana, Cristina di Lorena. Il tema di Giuditta che decapita Oloferne, ripresa per i particolari del sangue e della violenza da Caravaggio (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica) e da Rubens, o meglio dall’incisione trattane da Cornelius Galle, fu più volte interpretata da Artemisia – si ricordi la versione realizzata a Firenze verso il 1620, conservata agli Uffizi – rivestì un significato particolare nella sua produzione artistica, in cui, oltre a vendicare se stessa per la violenza subita, attraverso il gesto coraggioso dell’eroina biblica, metafora
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della sfida della donna attiva e positiva, sostenuta da Dio, contro il potere dell’uomo ma più in generale del trionfo del bene sul male, rappresenta la piena affermazione artistica della pittrice nel proprio contesto storico, quale “donna attiva che può fare arte” (Pollock 1999). [Rita Pastorelli]
7] Luca Giordano (Napoli 1634-1705) Affreschi della volta del Tesoro Nuovo, documentati tra il 1703 e il 1704 nella “scodella”: Trionfo di Giuditta, Scoperta del cadavere di Oloferne da parte dei suoi soldati, la figlia del Faraone (Termutide), Debora , Seila, Giaele, il Padre Eterno tra cherubini e angeli; nelle semilunette: Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia, la Caduta della manna, Isacco e Abramo salgono sul monte per il sacrificio, i tre compagni di Daniele sono gettati nella fornace dal re Nabucodonosor; nel catino: Adorazione del serpente di bronzo e il Sacrificio di Aronne davanti a Mosè; nelle fasce laterali in monocromo: Allegorie di Virtù e Gruppi di angioletti Napoli, Certosa di San Martino, chiesa, Tesoro Nuovo L’ultimo importante lavoro di ampliamento nella Certosa di San Martino nel secolo XVII fu la creazione negli anni ’70 e ’80 del Tesoro Nuovo, un ambiente che chiude a sinistra il braccio trasversale della chiesa ed è attiguo al Tesoro Vecchio, la piccola sala che aveva raccolto fino ad allora i più preziosi arredi sacri dei monaci e che non bastava più a contenerne la quantità sempre crescente. Intorno al 1685 il Tesoro era pronto, arricchito dagli armadi lignei che ne rivestono le pareti e dai reliquiari, ma mancava ancora la decorazione pittorica (con la relativa doratura) della volta; nel 1697 il contemporaneo Sarnelli testimonia che i padri erano “perplessi” riguardo alla personalità a cui assegnare l’incarico poiché non si trovavano artisti degni di stare al pari dei pittori che avevano lavorato fino ad allora nella chiesa. Finalmente, nel maggio 1703 venne pagato un
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primo acconto di 500 ducati all’artista prescelto, il celeberrimo Luca Giordano, appena ritornato dal fortunato ed impegnativo soggiorno in Spagna (1692-1702) che era stato per lui ricco di onori e riconoscimenti. Il tema che era stato scelto per decorare la ‘scodella’ della volta deriva dal Vecchio Testamento e viene tradizionalmente indicato come Trionfo di Giuditta: in realtà, tale definizione è troppo sintetica per descrivere appieno l’abbondanza di spunti iconografici e religiosi (la fede, la preghiera, il coraggio dei credenti in Dio) che l’affresco propone. La scena cruciale con Giuditta che mostra ai suoi concittadini di Betulia la testa mozza del generale nemico Oloferne è posta al centro, in corrispondenza dell’altare, mentre dal lato opposto (quello dell’ingresso) il racconto si completa con la scena della scoperta del suo cadavere da parte dei soldati, che fuggono sconvolti. Troppo ardito per l’austero Ordine certosino potrebbe sembrare, a prima vista, l’aver scelto a protagoniste della nuova decorazione a fresco varie figure femminili, riservando per di più il ruolo primario al personaggio ricco di sfaccettature di Giuditta. Invece, la scelta dell’argomento fatta dai padri rientrava a pieno titolo nella spiritualità del tempo. Infatti, se fino dai primi secoli la Chiesa cattolica aveva visto nell’eroina l’immagine di se stessa e anche quella di Maria vittoriosa sul male, fu soprattutto nel Seicento che, seguendo i dettami del Concilio di Trento, Giuditta – insieme ad altre eroine bibliche quali Ester, Debora e Giaele – divenne un personaggio importante nell’insegnamento della dottrina cristiana e, di conseguenza, anche il soggetto della produzione artistica, letteraria e musicale. L’interpretazione seicentesca di Giuditta come “vincitrice altiera” era stata sottolineata da Federico della Valle nella sua famosa tragedia sacra Judit (pubblicata nel 1627) ed è proprio questo l’aspetto che Giordano dà alla sua eroina: inquadrata in un ripido sott’in su, la donna mostra la testa di Oloferne tenendola con la mano destra per i capelli. D’altra parte, mai Luca Giordano, profondamente religioso, avrebbe accettato di dipingere un tema lontano dall’ortodossia: in quanto artista, egli non rivendicava per sé altra libertà se non quella di dare sfogo alla sua inventiva sempre fresca e sfavillante (ad onta dei settant’anni di età), corredata da una tecnica prodigiosa. In quello che fu il suo ultimo suo lavoro ‘a fresco’ Giordano (che sarebbe morto nel gennaio 1705) raggiunse infine il risultato di smaterializzare le figure e di privare d’ogni violenza il racconto sacro, che pure ne è intriso, creando un mondo luminoso e leggiadro, l’anticipo del rococò. [Ileana Creazzo]
8] Giovanni Francesco Guerrieri (Fossombrone 1589 - Pesaro 1657) Giuditta e Oloferne, 1615-1618 olio su tela; 128 x 106 cm Pesaro, collezione IntesaSanpaolo L’episodio raffigurato è quello di Giuditta, assistita dall’ancella Abra qui anziana e decrepita, che taglia la testa al generale assiro Oloferne, colto nel sonno dopo essere stato sedotto ed irretito, secondo il racconto biblico, dalla giovane e ricca vedova giudea. Mentre nel tardomedioevo e nel Rinascimento l’iconografia dell’eroina riguardava, per lo più, il momento successivo alla cruenta azione, ossia la fuga dal campo nemico delle due donne – si ricordino le sublimi interpretazioni di Mantegna e Botticelli, nonché l’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina – nel Seicento, Caravaggio e la sua scuola colgono, in maniera più o meno drammatica, l’atto determinante di quel trionfo della forza della donna ispirata da Dio sul potere dell’uomo, che proprio in epoca controriformata alludeva al trionfo della Chiesa sull’eresia. La tela del Guerrieri, databile al 1615-1618, presenta strette analogie compositive con quella di analogo soggetto di Artemisia, qui esposta, a cui è probabile che il pittore s’ispirasse, ma se ne discosta per un linguaggio da essa diverso e più eclettico, dal gusto per i dettagli (intagli lignei del letto, abiti e monili di Giuditta) di origine nordica al senso della forma dell’arte toscana. [Rita Pastorelli]
9] Anish Kapoor (Bombay 1954) a] Untitled (rosso), 2016 b] Untitled (nera), 2016 silicone, fibra di vetro e garza Brescia, Galleria Massimo Minini Star dell’arte contemporanea a livello mondiale, Anish Kapoor, indiano di nascita e londinese di adozione, firma un linguaggio inedito nel quale forte è la matrice extraterritoriale della sua arte che si muove su una linea di confine tra cultura occidentale e indiana. Le sue opere, in bilico tra scultura e architettura, seguono il principio di sconfinamento e della dicotomia tra maschile e femminile, tangibile e intangibile, materiale e immateriale, interiore ed esteriore, luce e ombra, negativo e positivo. Come un moderno alchimista trasforma pietra e metalli, plastiche, tessuti, gesso, modificando la loro natura e rendendoli trasparenti, riflettenti, incorporei. Alla materia aggiunge il colore, che come una nuova pelle, riveste sculture che diventano parte integrante dello spazio circostante. Le sue opere, forme primigenie, superfici specchianti o enormi buchi inghiottenti, si muovono tra il mito e il simbolo, l’archetipo della storia e della vita, raccontando la costante metamorfosi dell’universo. Kapoor media tra la potenza del mito e la contingenza della realtà, tra l’esperienza
individuale dell’uomo e la ricerca di una maturità collettiva. Dietro la perfezione della forma Anish Kapoor saggia la fragilità della materia, della superficie esterna. La “pelle” delle opere è per l’artista il posto dell’azione e il luogo nel quale avviene e si avverte il cambiamento. Ben lo dimostrano i lavori in mostra Untitled (nera) e Untitled (rossa) nelle quali il silicone assurge a ruolo di materia organica, di tessuto epidermico. Sono brandelli di carne viva, destabilizzanti resti umani intrisi di sangue di cui sembra di poter sentire ancora l’odore acre. Sono metafora di un’umanità lesae violata. Untitled (rossa) è un enorme coagulo, un brandello di carne viva abbandonata a terra e avvolta con garze che tamponano il sangue e ne sono intrise. Al contempo Untitled (nera) è segno e memoria di morte: massa informe, è ormai un irriconoscibile elemento in decomposizione che emana un’aura lugubre. Le due opere in corrispondenza, come in un rispecchiamento speculare, esibiscono entrambe la mutata immagine del corpo, evocando storie funeste. Sono opere urlanti che lacerano le coscienze, portando brutalmente all’attenzione la violenza efferata e disumana inflitta alle genti in ogni tempo e in ogni dove. Anish Kapoor costringe a guardare la carne agonizzante, metafora non edulcorata di denuncia sociale, e a non ignorare gli orrori della guerra e le barbarie di cui la nostra società civile e progressista è ancora capace. [Eloisa Saldari]
ritratto, alza il braccio impugnando la scimitarra per colpire Oloferne, riverso su un cuscino e addormentato in basso in primo piano. A destra, nell’ombra, si scorge la fantesca che con una mano sembra voler schivare la crudezza del gesto. I bordi della camicia di Giuditta recano tracce di un’iscrizione, da ricondurre a un passo del Vangelo di Luca (I,51): ferit potentiam in brachio suo et dispersit superbos, a connotare l’iconografia biblica in senso cristiano. Identificato Oloferne con il diavolo, Giuditta diventa per la cultura monastica, in particolare per san Bonaventura, prefigurazione della Vergine che schiaccia la testa del Maligno. Un’immagine identica al dipinto esposto, con esclusione dell’ancella, si ritrova in un’opera della Galleria Nazionale di Sicilia, attribuita a Giuliano Bugiardini, che segnala l’esistenza di un prototipo comune. Secondo una testimonianza documentaria coeva a Ligozzi, questi avrebbe riprodotto una Giuditta di Raffaello temporaneamente a Firenze: nella lettera di un corrispondente fiorentino del duca di Mantova, a proposito di alcune “cose degne portate da Roma” da Lorenzo Salviati – opere di Andrea del Sarto, Raffaello da Urbino, del Correggio, Leonardo da Vinci, Pontormo, Sodoma – si racconta che “Ligozzi aveva fatto una Juditta, copiata da una di Raffaello di Urbino, e la vede S.A.S. e la volle e la pagò scudi 40”. Più precisamente, poiché la copia della Giuditta era stata commissionata dal Granduca Ferdinando de’ Medici, il pittore ne rifece un’altra per Vincenzo Gonzaga ( “me la rifà e sarà più bella che vi agiunga cosa di largo”). Con l’inserto dell’ancella, Ligozzi reinventa l’opera, la firma e la data. Non si conosce l’originale ritenuto di Raffaello se non attraverso la copia del Ligozzi – nella quale il modello femminile ricorda la Fornarina – e l’esemplare di Palermo. Il primo dipinto ha conservato nelle raccolte granducali fiorentine la funzione di quadro da galleria, copia di un capolavoro, l’altro proviene dal monastero di San Martino alle Scale a Palermo, dove aveva significato devozionale. [Annalisa Porzio]
10] Jacopo Ligozzi (Verona 1547 - Firenze 1627) Giuditta e Oloferne, 1602 olio su tela; 97 x 79 cm Firenze, Galleria Palatina di Palazzo Pitti Giuditta, raffigurata al centro del dipinto con lo sguardo verso il riguardante come per un
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sinuose gambe di modelle, enfatizzati con l’aggiunta di pigmenti, diventano un’opera nella quale la presenza della pittura conferisce una maggiore e inaspettata profondità di sapore “caravaggesco” alle sfumature del bianco e nero. [Eloisa Saldari]
da parte di un artista, amico del padre anche lui pittore. La sua biografia si intreccia con l’arte: il tema della Giuditta nell’atto di uccidere Oloferne è ossessione e metafora del vissuto. Con riferimento simbolico e semiologico, Luca Patella crea un tempio dorato del tempo e della memoria, un luogo di derivazione alchemica che rimanda al pensiero junghiano ed esoterico. Il tempio di Patella è custode di una conchiglia delicatamente illuminata. Eretta a mostrare il suo incavo, è simbolo della femminilità e della purezza, di una purezza violata. [Eloisa Saldari]
11] Paolo Mussat Sartor (Torino 1947) a] Nature, 1973 stampe a getto d’inchiostro su carta vegetale b] Gambe, 1992-1993 pigmenti colorati su stampa fotografica b/n Torino, collezione Paolo Mussat Sartor La storia e l’arte di Paolo Mussat Sartor è intimamente legata alla sua città natale, Torino, dove inizia a dedicarsi alla fotografia dal 1966. Prodigioso autodidatta, vive gli anni ruggenti di sperimentazione intellettuale che hanno per protagonista la città della Fiat, al fianco di quelli che poi sono diventati i più influenti galleristi in Italia e nel mondo. Frequenta gli artisti, poi confluiti nel gruppo dell’Arte Povera, uno dei più importanti movimenti internazionali nato in Italia, che ritrae con “intelligenza intuitiva”. Considerato uno dei più acuti fotografi italiani, si è dedicato a temi specifici tra cui Viaggi, Città, Pigmenti, Pietre. Tra le serie citate anche le due in mostra: Nature del 1973 e Gambe del 1992-93. In Nature Paolo Mussat Sartor riproduce come fossero dei “ritratti” i frutti della terra in una dimensione altra rispetto a quella classica della Natura morta. Con occhio scientifico, quasi clinico, la macchina fotografica si avvicina ai soggetti svelandone l’intimità. Pere e castagne, melograni, kiwi e arance mostrano il loro cuore, le loro viscere. Appaiono metafora di anime divise che, come Platone scrive nel Simposio, trascorrono l’esistenza alla disperata ricerca dell’altra, unica e sola metà che amano e dalla quale sono state separate. In Gambe, come nelle serie Pigmenti e Rose, Paolo Mussat Sartor cede al fascino della pittura e la unisce alla fotografia creando un unicum di grande fascino. Alle cinque del mattino di una notte trascorsa in casa a parlare con un amico, decide di compiere un gesto. Con l’uso di pennelli, colori, spatole e delle mani interviene sull’immagine fotografica alterandola. Gli scatti delle
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12] Luca Maria Patella (Roma 1934) Arte mi sia, 2017 installazione site-specific Roma, proprietà dell’artista Le esperienze artistiche che Luca Maria Patella inizia negli anni Cinquanta e Sessanta hanno influenzato il panorama dell’arte contemporanea, fino alle attuali generazioni. Artista colto, filosofo, scienziato, uomo di lettere e poeta, amante della psicologia, scultore non convenzionale, fotografo, videomaker e performer. Con acume abbatte le distinzioni tra le discipline, con quella che lui stesso battezza Arte-Scienza: stretto, quasi inscindibile, legame tra la pratica artistica e la dimensione scientifica, le teorizzazioni filosofiche, linguistiche e in particolare psicoanalitiche. Patella ama l’ironia e i paradossi che trovano espressione in installazioni che mettono in scena sconfinamenti tra realtà e finzione. La presenza di elementi multisensioriali richiedono il coinvolgimento del pubblico e la partecipazione attiva dei suoi sensi. L’artista invita ad un viaggio nella sfera del conscio e dell’inconscio alla scoperta di una zona archetipica che rimanda al viaggio dell’eroe, e quindi dell’Io, “nel regno oltremondano e alla sua successiva ri- uscita”. Arte mi sia crea un dialogo tra la dimensione immaginativa e di sfrenata creatività, con riferimenti alla storia dell’arte. Trova punti di contatto e compromessi tra scontri concettuali ed emotivi, crisi sociali ed etiche. Evidente è il gioco di parole che rimanda ad Artemisia Gentileschi, vittima di violenze
13] Carlo Saraceni (Venezia 1579-1620) Giuditta con la testa di Oloferne olio su tela; 95,8 x 77,3 cm Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi Carlo Saraceni. Un veneziano tra Roma e l’Europa è il titolo di una recente mostra (RomaVenezia, 2013) che ben sintetizza la storia di questo pittore, nato a Venezia ma trasferitosi ventunenne a Roma, dove tra la fine del ’500 e gli inizi del ’600 il crogiuolo di artisti, provenienti dalle più varie località d’Italia e d’Oltralpe, contribuiva a creare in campo artistico e culturale un fermento a dir poco febbrile. In quel contesto, com’è noto, fondamentale fu la personalità di Michelangelo Merisi da Caravaggio che sulla base dell’originaria, robusta cultura figurativa lombarda innestò lo studio dell’arte classica e la conoscenza delle più moderne teorie filosofiche e scientifiche arrivando, infine, a creare una sua personalissima cifra stilistica, assolutamente unica, innovativa e sconvolgente. Molti artisti, soprattutto i più giovani, rimasero “folgorati” dal nuovo linguaggio e Carlo Saraceni fu tra questi: conservò in tutta la sua produzione elementi ripresi
dal maestro, elaborandoli e ricomponendoli variamente, senza rinnegare tuttavia la parte della sua cultura figurativa d’ascendenza nordica, evidente soprattutto nelle scene paesaggistiche o in certe composizioni “visionarie” di soggetto sacro. Si espone qui una Giuditta con la testa di Oloferne della Fondazione Longhi di Firenze, versione più tarda (1615 circa) dell’analoga e più celebre tela del Kunsthistorisches Museum di Vienna, che molto successo ebbe presso i contemporanei, come dimostrano le numerose copie e derivazioni che si conoscono. Se Caravaggio (nel dipinto di Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica) aveva raffigurato Giuditta con tutta la sua carica di violenza nel gesto cruciale della decapitazione del generale nemico (riprendendo il minuzioso racconto del Vecchio Testamento), Saraceni preferì descrivere in questa sua versione un momento successivo, quando l’eroina biblica e la sua anziana nutrice a lume di candela si affrettano a fuggire, nascondendo nella bisaccia la testa recisa di Oloferne prima che faccia giorno. L’ampia messinscena teatrale violentemente illuminata del prototipo caravaggesco lascia il posto quindi ad una composizione raccolta, che si gioca tutta “a lume di notte”sui piani ravvicinati dei tre personaggi del dramma; a sinistra, la nutrice vecchia e brutta che regge la bisaccia riprende, capovolta, quella di Caravaggio e, a destra, sempre dal maestro – ma stavolta da un altro dipinto, il Davide con la testa di Golia della Galleria Borghese di Roma- deriva il gesto di Giuditta che trattiene la testa del generale invasore immergendo la mano nella sua capigliatura. Ovviamente, il punto focale è la giovane eroina che guarda ammiccando lo spettatore, ben conscia della sua bellezza – sapientemente aiutata dai gioielli e dall’elegante camiciola con corpetto – che, come ella stessa aveva chiesto a Dio, aveva sedotto e reso inerme l’odiato nemico. [Ileana Creazzo]
Capri, Certosa di San Giacomo
14] Hermann Nitsch (Vienna 1938) Levitikus tecnica mista, tela su tavola; stampa serigrafica Terra-Graph Napoli, Museo Hermann Nitsch, Fondazione Morra L’oscillazione tra performance e pittura è il focus del Levitikus che Hermann Nitsch realizza nel 2010 su invito dall’editore israeliano HerEl: un’opera-volume dedicata al terzo libro del Levitico. Scritto da Mosè, come vuole la tradizione, questo contiene leggi religiose e sociali destinate ai sacerdoti e, in particolare, si riferisce ai riti sacrificali che avevano luogo a Gerusalemme. Alle regole, scritte in tedesco ed ebraico, Nitsch ha affiancato dodici tele il cui colore è reso con particolare ricchezza grazie alla stampa serigrafica detta Terra-Graph, che nel processo di stampa aggiunge all’inchiostro la sabbia. Le tele pubblicate nel Levitikus sono la rappresentazione di un’esperienza ritualistica e trascendentale in cui la pittura non è solo oggetto di autoriflessione, ma simbolo del rapporto tra Dio, l’uomo e la carne. Le tele sono il risultato di una cerimonia di iniziazione, di una profezia che riconduce ad un processo di sublimazione di fenomeni sociali e di slittamento tra corporeo e incorporeo. [Eloisa Saldari]
15] Hermann Nitsch (Vienna 1938) Installazione Berlino 2013 tecnica mista su tavola e tela, portantine, paramenti sacri Napoli, Museo Hermann Nitsch, Fondazione Morra Hermann Nitsch, protagonista assoluto dell’Azionismo Viennese, movimento nato a Vienna negli anni Sessanta del Novecento, è autore di performance che portano alle estreme conseguenze comportamenti violenti, sadomaso e autolesionistici. La sua personale forma d’arte totale, Il Teatro delle Orge e dei Misteri, è un’esperienza sinestetica nella sua residenza al castello di Prinzerdorf, che con odori, suoni, colori, coinvolge i sensi degli spettatori. Nitsch vuole risvegliare l’uomo contemporaneo auto-censurato e anestetizzato dalle convenzioni sociali; lo fa bruscamente, in modo traumatico, attingendo al valore del sacrificio della ritualità cristiana con riferimento alla potenza catartica della tragedia greca. Come il sacerdote di una cerimonia, dirige azioni performative che sono riti di espiazione nei quali gli “attori” distesi su tavoli e tele di grande formato, vengono cosparsi di sangue e di liquidi corporei. Il colore dominante è il rosso vermiglio che scorre sulle tele bianche, simbolo dell’estasi, del sacrificio, della carne e della passione di Cristo. Così nascono i “relitti”, come l’installazione Berlino 2013, che è composta da elementi superstiti dalle azioni, rielaborati dall’artista. Grandi velari intrisi di sangue diventano quadri, barelle assolvono alla funzione di altare, il camice indossato durante i riti è simbolo della toga sacrale e l’aggiunta di paramenti della liturgia cattolica simboleggia il valore celebrativo del gesto artistico. [Eloisa Saldari]
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Padula, Certosa di San Lorenzo
16] Vittorio Pavoncello (Roma 1958) Il popolo del sogno, 2004 13 incisioni, acquaforte, punta secca, acqua tinta su carta Roma, proprietà dell’artista La storia del popolo ebraico è il tema dell’opera: una selezione di tredici incisioni delle cinquanta realizzate da Vittorio Pavoncello ne Il popolo del sogno dove illustra per immagini e simboli la Torah, ossia i cinque libri, Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, che raccontano le vicende degli ebrei. Fondamento delle incisioni è la luce che diventa mezzo di espressione del sogno, quale enigmatico momento della vita dell’uomo in cui Dio si manifesta. Il tratto sottile crea un linguaggio asciutto; molteplici i significati sulle diverse religioni e sulla laicità, sulla cultura e sulla storia, ognuna con “la propria fede o sistema di valori”. Nella libertà compositiva, fortemente immaginativa e visionaria, le incisioni esaltano la dimensione del sogno come base fondante della realtà. Il segno a tratti näive, e di forte carica simbolica, crea un’iconografia inedita che unisce sperimentazione, attualità e tradizione, anche per la presenza dei versetti biblici, usati quasi come didascalie delle opere. Con Il popolo del sogno Vittorio Pavoncello mette in scena la libertà della parola, del gesto, del segno e l’incontro dialettico tra culti e discipline scientifiche e umanistiche. Svela con discrezione e con rispetto la dimensione “del dubbio, e fa riemergere, oltre al divino, l’umano che è in noi, della parola, come dell’immagine, rifiutando di farsi idolo”. [Eloisa Saldari]
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17] Vettor Pisani (Bari 1934 - Roma 2011) a] L’isola d’argento, 1989 argento, zaffiri, palissandro b] L’isola d’oro, 1989 calco, legno, vernice e lamine d’oro Napoli, collezione Maria Teresa Incisetto Vettor Pisani si concentra, fin dagli anni Settanta, sullo sconfinamento dei linguaggi, alla ricerca di un’opera d’arte totale che unisca letteratura e teatro, musica e architettura, arti visive e filosofia, poesia e scienza intrecciata alle discipline olistiche ed occulte. Anticipatore di temi controversi per i tempi, Pisani ha portato all’attenzione del mondo dell’arte e dell’opinione pubblica ricerche biologiche come la tecnologia del DNA e l’ingegneria genetica, e argomenti sull’ambiguità e la violenza come l’androginia, l’anti-natura, il plagio, l’investimento, il controllo, l’anti-eroe, le sopraffazioni dell’arte e delle ideologie. Attento alle contraddizioni della società contemporanea, analizza e ricerca lo stretto rapporto tra arte e vita che mette in scena con uno spiccato senso della rappresentazione teatrale. L’isola d’argento e L’isola d’oro, dedicate a Capri e all’opera di Diefenbach, diventano metafora della trasformazione: il colore oro che riveste le protuberanze e gli andamenti di queste piccole terre circondate dal mare indica un percorso di iniziazione, un cammino ermetico quale rituale di passaggio alchemico da uno stato all’altro. L’esoterismo e il mistero si intrecciano al racconto biografico dell’artista, che la leggenda vuole figlio di un ufficiale di Marina. [Eloisa Saldari]
18] Giovanni Anselmo (Borgofranco d’Ivrea 1934) Particolare, 1972/1991 proiezione Napoli, Galleria Alfonso Artiaco Torino, Archivio Anselmo È uno dei padri dell’Arte Povera, lavora sul recupero di materiali essenziali e semplici, una via per investigare l’energia che è alla base di un momento, di un’azione specifica. Le sue opere sono la manifestazione fisica della forza di un gesto, di un avvenimento, di una determinata condotta. Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1990, Giovanni Anselmo sperimenta materiali concettualmente e tecnicamente distanti, che associa per alcune loro caratteristiche, la duttilità, la freddezza, la durezza, la deperibilità. Giocando con gli opposti e i contrasti, l’artista crea inaspettate interazioni che evidenziano il dinamismo insito nella materia e negli elementi che la compongono. Anselmo è artista che cerca l’infinito, un dialogo tra visibile e invisibile e lo fa attraverso frammenti infinitesimali di materia “che si incagliano nella struttura infinitamente mobile dell’esistenza”. L’idea di manifestare le forze cosmiche e di “per-formarle” ritorna in Particolare. L’opera in mostra è l’immagine di una mano che porta sovrimpressa, con un neon luminoso, la parola che torna nel titolo. A prima vista spaesanti, le immagini proiettate rimandano al significato latino di separare, dividere. Inoltre il termine “particolare” è la radice della parola “particella”, che in fisica sta ad indicare gli elementi infinitesimali, considerati i componenti dell’universo. Ed è così che la mano indirizzata e rivolta nello spazio, come l’ago di una bussola, parla di un universo mobile, delle sue energie, delle confluenze di forza e vitalità. “Mentre la mano indica,” dice Anselmo, “la luce focalizza, nella gravitazione universale si interferisce, la terra si orienta, le stelle si avvicinano di una spanna in più…”. [Eloisa Saldari]
21] Michele De Luca (Pitelli, La Spezia, 1954) Principio stabile - Infanzia del cosmo, 2015 acrilico su tela
19] Vanessa Beecroft (Genova 1969) VB82, 14 luglio 2017 performance alla Certosa di Padula Italiana da parte di madre e inglese da parte di padre, Vanessa Beecroft, nata a Genova, vive a New York. Prima di lasciare l’Italia studia all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove in occasione della tradizionale esposizione di fine anno, presenta il Libro del cibo 1985-1993. L’opera è un diario intimo delle abitudini alimentari dell’artista, accompagnata da un gruppo di circa trenta ragazze. Per la prima volta donne reali, sono chiamate ad incarnare un preciso modello femliveminile, ossessionato dal controllo del peso e fino a quel momento restituito solo in appunti, schizzi e disegni minimali. L’opera è il preludio delle performance future che rendono inconfondibile il suo stile. La componente autobiografica si palesa nella scelta del titolo composto dalle iniziali dell’artista e da un numero progressivo che contraddistinguerà le performance negli anni, come ancora oggi: da VB01 fino alla presente VB82. Evidente è l’influenza del cinema e della moda, a partire dalla citazione di personaggi di film, a modelle professioniste, prevalentemente nude, preparate da truccatori e acconciatori, e con indosso solo pochi accessori di tendenza, mentre fotografi professionisti e videomaker documentano il live su un set allestito da scenografi e tecnici delle luci. Vanessa Beecroft sceglie la veste patinata del fashion world per denunciare problematiche sociali tra i quali, l’anoressia, lo sterminio in Darfur, lo sfruttamento dell’Africa, la difficile condizione degli immigrati. A Padula l’artista crea una performance pensata appositamente per la Certosa di San Lorenzo: VB82. Si tratta di un tableaux vivant messo in scena nel refettorio, una composizione con tredici uomini in piedi, seduti o sdraiati, con i capelli lunghi e la barba, nudi ed avvolti solo da un velo che rimanda al sudario, come vuole l’iconografia di Cristo. In perfetto equilibrio tra tempo, spazi ed elementi compositivi, VB82 dialoga con il settecentesco affresco Le nozze di Cana della sala, mentre una processione di trecento personaggi, vestiti con il saio certosino, dall’ingresso della Certosa raggiunge il refettorio. [Eloisa Saldari]
20] Lucilla Catania (Roma 1955) Scatole e Scarpe con Maniglie, 2013/2017 terracotta refrattaria, ossido di ferro rosso, vinavil Fin dagli anni Ottanta Lucilla Catania segue un percorso di ricerca che rifiuta qualsiasi convenzione, moda e tendenza dominante. Le prime sculture in terracotta lasciano subito comprendere l’autonomia stilistica che ancora oggi connota il suo lavoro. Guarda alla scultura antica e alle rovine del Foro romano nei pressi del suo studio, rielaborando e restituendo il principio di classicità in una visione contemporanea e inedita. Sia che modelli la terracotta o che scalfisca con energia calibrata il marmo o la pietra, Lucilla Catania lavora per sottrazione formale, eliminando qualsiasi superflua ampollosità, alla ricerca di una tridimensionalità, espressione di una nuova classicità che riporta i valori della forma, dello spazio e del senso, quali elementi dell’opera stessa. Siano in travertino romano, in marmo, in pietra di fiume, striscianti o divise in più elementi accostati o conficcati gli uni negli altri, le sculture di Lucilla Catania sono concepite nel principio armonico della Natura. In Scatole e Scarpe con Maniglie si coglie quanto Lucilla Catania crei le sue sculture e ponderi l’equilibrio tra materia e forma in relazione allo spazio. In questo caso l’opera è composta da centoventiquattro elementi unici, diversi gli uni dagli altri. Disposte lungo il corridoio, queste sculture nella scultura, rimandano al cammino quale momento di preghiera e di contemplazione dei monaci Certosini. Mentre la terracotta rossa crea un corto circuito con le policromie marmoree della Certosa. Contemporaneamente Scatole e Scarpe con Maniglie si confronta, da un punto di vista formale e stilistico, con gli altorilievi in pietra disposti lungo le pareti del corridoio e raffiguranti volti di religiosi, con un conseguente effetto di disorientamento e di inaspettata ironia. [Eloisa Saldari]
Michele De Luca, artista poliedrico, concilia l’attitudine per le arti visive alla potenza delle parole. Dopo aver firmato scenografie per il cinema e il teatro, da anni si dedica ad una pittura astratta che trova nella rappresentazione della luce il suo focus. Il segno del pennello sulla tela e il ritmo dei suoi versi sono uniti da un legame inscindibile e tendono entrambi alla scomposizione delle forze primarie e a ridare ordine al caos. La luce entra a far parte delle opere di De Luca a partire dagli anni Ottanta, quando abbandona una pittura di eco espressionista, nella quale la materia cromatica e il bitume si coagulano in grumi occludenti. Le tele diventano il luogo del riflesso luminoso per la presenza di inserti metallici di forma geometrica inchiodati alla tela e dipinti. “L’ossessione della luce” è compiuta nella compresenza tra la “luce reale” della lamiera riverberante e quella “virtuale” proveniente dalle illusioni cromatiche. Principio stabile - Infanzia del cosmo è un’opera gigantesca, ambientale, nella quale è in atto il conflitto tra tenebre e splendore, tra ombre e luminosità. Le linee confluenti in un punto lontano, all’infinito, si accendono come tubi al neon turbando il silenzio del nero più profondo. Repentina si manifesta la luce, una scintilla dilagante come il fuoco primigenio dal quale ha avuto origine l’Universo. Michele De Luca ci rende spettatori di una dimensione atemporale, agravitazionale con il fascino delle teorie sulla genesi, in emozionante sospensione. [Eloisa Saldari]
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22] Maria Dompè (Fermo 1959) Altum Silentium, 2017 opera al verde, reperti lapidei, corten, terra, grano, limonium, suono, essenze profumate installazione ambientale
23] Salvatore Emblema (Terzigno 1929-2006) Senza titolo/Porta/Structura, 1974 porte, strutture lignee, telai autoportanti Terzigno, Museo Emblema, collezione eredi Emblema
Maria Dompè guarda lo spazio come a un luogo da modellare: non è scultrice del paesaggio, piuttosto un’anima gentile che con tocco minimale restituisce ai luoghi la poesia della germinazione della natura. I suoi interventi, iniziati negli anni Novanta sono tesi alla ricerca di un equilibrio tra la storia e l’identità del sito e alla tensione verso una ricercata spiritualità. In ascolto, Maria Dompè entra in sintonia con il luogo, ne capta l’energia, si immerge ed entra in contatto con la sua essenza, in armoniosa corrispondenza. Da questo legame nascono le sue opere che si adattano all’ambiente scelto e che solo lì hanno ragione di esistere. Al pari dei precedenti lavori, Altum Silentium è ideata quale opera per la Certosa di San Lorenzo. Il grandioso contesto trecentesco, un tempo luogo di vita dei monaci Certosini, apre uno dei suoi sconosciuti interni, fino ad oggi non visitabile, per mostrarsi. Nel rispetto delle tradizioni certosine e della sua natura ascetico-trascendentale, l’artista ha realizzato un intervento “a verde” in accordo con i principi della vita dei monaci che un tempo meditavano e lavoravano tra quelle mura. Altum Silentium segue un andamento circolare: il cerchio rimanda al divino, alla dimensione celeste. È simbolo cosmico e del mondo spirituale che conduce alla consapevolezza di sé e del senso della vita. Alla circolarità Maria Dompè affianca la potenza meditativa e purificatrice del suono dell’acqua. Il suo fluire richiama alla mente le antiche fontane della Certosa e si somma al mantra del filosofo e mistico cinese Chuang-tzu, inciso sulla pietra, che ognuno è invitato a recitare: the sound of water says what I think (“il suono dell’acqua dice quello che penso”). [Eloisa Saldari]
Fin dagli anni Quaranta, Salvatore Emblema, conduce ricerche materiche usando elementi naturali, quali foglie essiccate, pietre e minerali provenienti dalle pendici del Vesuvio che usa in collage e ritratti. A New York, frequenta gli studi di Rothko che lo influenza nella scelta cromatica e nell’uso delle trasparenze, e di Pollock, che lo impressiona per l’audacia e la forza del gesto creativo. Emblema inizia a lavorare per “sottrazione”, eliminando il colore e agendo solo sulla tela nuda che disfa per aprire fessure e spiragli che rivelano la vocazione attiva del quadro, oltre i suoi confini. Riduce, sintetizza, toglie e “quando la tela non è più solo superficie e forma, ma volume, allora esce dalla bidimensionalità, e collabora con la luce”. Le sue opere hanno una forte carica emotiva che si manifesta nel segno, nel gesto e nella luminosità. Sono strutture autoportanti a metà tra scultura, pittura e architettura in dialogo con il paesaggio esterno, con la natura. “La vera pittura è nella Natura”, dice Salvatore Emblema, “il segreto non consiste nel riprodurre su tela la natura quale si presenta ai sensi, ma nell’utilizzo della natura, per essere essa stessa creazione e composizione nel momento in cui viene percepita”. [Eloisa Saldari]
24] Claudio Palmieri (Roma 1955) a] Danza tecnica mista su tela b] Natura Alchemica tecnica mista su tavola Natura Alchemica tecnica mista su tavola Roma, proprietà dell’artista L’esordio di Claudio Palmieri avviene alla metà degli anni Ottanta nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini a Roma, una delle più influenti
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del panorama locale ed italiano. Con i suoi quadri nei quali il pigmento si rapprende in vedute bucoliche, distese di fiori di campo e di girasoli, Palmieri risponde pienamente al mood artistico di quegli anni che vede nel ritorno alla tradizione e in particolare alla pittura, la sua attitudine precipua. Tra gli esponenti della Nuova Scuola Romana, l’arte di Palmieri si è snodata nel tempo in un percorso articolato, nel quale la curiosità e la sperimentazione sono le linee guida di una ricerca artistica anticonvenzionale. La ricerca di Claudio Palmieri si muove tra la sperimentazione materica e l’attaccamento alla Natura, come nelle opere in mostra quali Danza e Natura Alchemica (2014). Con il nuovo millennio la Natura si manifesta nelle opere di Palmieri sia come materia che come soggetto. Gli elementi naturali, rami, foglie, fiori, vengono prelevati dal mondo reale e portati fisicamente nella dimensione virtuale e conclusa della tela. Ma la loro identità empirica viene occultata dall’intervento della materia pittorica, che tenta di mimetizzare e di ridurre a presenze artificiose. Uno strato sottile di cera invischia fili d’erba e fiori ad un fondale color della pece, creando un corto circuito tra naturale e non, tra illusionistico e reale. E come abbagliato dalla violenta accensione di un flash fotografico, gli elementi naturali si illuminano di una cromia fosforescente in una splendente antinomia ed equilibrata armonia del contrasto. [Eloisa Saldari]
25] Sandro Sanna (Macomer 1950) aMare tecnica mista su multistrato dimensioni ambientali Roma, proprietà dell’artista Sandro Sanna ha sempre combinato l’arcaica tradizione sarda, nella quale affondano le sue origini e i primi anni di formazione e la profondità dell’arte della Roma antica. Nei suoi lavori coglie lo scintillio dell’acqua del mare che riflette la luce del sole in tante scaglie e il suo movimento di flusso continuo incessante. Sanna ci riporta ai tempi dei megaliti preistorici, svettanti tra il giallo oro dei campi di grano o mimetizzati tra la vegetazione mediterranea e i mirti. L’artista ha sempre cercato l’equilibrio tra forma e percezione, come nell’opera aMare: una “pittura” astratta, un’installazione di giochi di luce. La geometria e i metalli cangianti raccontano la storia di tanti uomini, donne e bambini che ogni giorno cercano di raggiungere via mare la terra, ma scompaiono inghiottiti dalle acque e dall’indifferenza. Sanna, maestro di “metamorfosi di luce”, tesse una superficie che evoca il movimento incostante del mare come luogo di unione, anziché confine di separazione tra mondi ed individui. Per usare le sue parole: “Da sempre l’artista subisce l’influenza del contesto sociale in cui opera, ma ciò non altera la sua capacità di proposta, di analisi, la necessità di trasmettere attraverso l’arte, la personale visione del mondo, che si concretizza in un atto che riflette in modo critico patologie e pregi sociali, a volte dando forma a un’aspra denuncia, altre offrendo in alternativa ad essa un universo parallelo, capace di affermarsi con un sublime gesto poetico”. [Eloisa Saldari]
26] Ettore Spalletti (Cappelle sul Tavo 1940) a-d] Carte di azzurro verso il mare impasto di colore su tavola Pescara, Galleria Vistamare Sempre fedele al luogo natio, non lontano da Pescara, Ettore Spalletti trova nel paesaggio una inesauribile fonte di ispirazione. La sua ricerca artistica trasla la profondità del mare e l’amenità delle montagne abruzzesi, la bellezza del panorama mutevole e l’amore per la storia dell’arte italiana, da Beato Angelico a Masaccio. Spalletti crea un ponte tra la realtà e la poesia opere nelle quali il colore lieve apre spazi inaspettati. La storia delle sue superfici è un po’ come quella del cielo, dice l’artista: “per scoprire il cielo e il suo azzurro, bisogna bucarlo, entrarci dentro”, lo stesso vale per le sue opere, “bisogna entrarci dentro e non si sa mai se la superficie si muove in un senso o nell’altro”. I suoi azzurri sensuali e i rosa atmosferici, stesi con pazienza per giorni, incantano e offrono piaceri visivi nei quali immergersi e perdersi. Nelle sue opere c’è la forza e la potenza del racconto nascosta nel colore, come se in esso vi fosse un’immagine segreta e misteriosa. Le sue opere invitano ad una meditazione attiva, per il raggiungimento dell’armonia e di un equilibrio interiore. In Carte di azzurro verso il mare Ettore Spalletti cattura e racchiude il mar Adriatico: una grossa tavola di colore che si rinnova continuamente. “Quando fai una passeggiata sul mare,” dice l’artista, “vedi l’azzurro che diventa sempre più profondo, e, verso sera, diventa tutto d’argento, la linea dell’orizzonte si perde e il mare si congiunge con il cielo.” L’opera è uno spazio-colore apparentemente monocromo, nel quale l’azzurro pervaso di luce, cattura e magnetizza lo sguardo e travalicando la tela, assorbe l’ambiente circostante creando una dimensiona cromatica pura. In un’alchimia cangiante Spalletti crea un senso di bellezza rinascimentale incarnato nel perfetto equilibrio tra spazio e colore. [Eloisa Saldari]
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nota bibliografica
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NOTA BIBLIOGRAFICA 167
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NOTA BIBLIOGRAFICA 169
coordinamento editoriale maria sapio art director enrica d’aguanno grafica franco grieco vincenzo antonio grillo a pagina 6 Corridoio del Granai, XVII secolo Padula, Certosa di San Lorenzo
finito di stampare nel dicembre 2017 per conto di prismi editrice politecnica napoli srl stampa e allestimento officine grafiche francesco giannini & figli, napoli
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