Mestieri d'Arte e Design // Bellezza Italiana

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BELLEZZA ITALIANA

Van Cleef & Arpels is unveiling a collection of 25 unique creations, all of them originating from a single rough diamond weighing 910 carats Combining DIF stones of the highest quality and the emblematic Mystery Set technique, each piece has been crafted in the Maison’s workshops on Place Vendôme, home to all its High Jewelry savoir-faire.

H aut e Joa i l ler ie, place Vendôme since 19 0 6

com - +39 02 36000028
Via Condotti, 15 ROMA Via Montenapoleone, 10 MILANO www vancleefarpels

YIN, HAUTE COUTURE CREATOR, WEARS THE VACHERON CONSTANTIN TRADITIONNELLE.

“I HUMBLY SEARCH FOR THE TRUE, THE GOOD, THE BEAUTIFUL.” YIQING

UNA BELLEZZA TUTTA ITALIANA

Bello, ben fatto e con passione… Le storie dei Maestri d’arte italiani che creano meraviglie affascinano il mondo. Un patrimonio immenso che da secoli caratterizza il nostro Paese, patria

Interrogarsi sulla natura progettuale della bellezza, e sui suoi caratteri di italianità, non richiede un dottorato in filosofia estetica. Richiede uno sguardo consapevole su quello che è il nostro principale vantaggio competitivo; su quello che è l’attributo che da sempre accompagna ogni riflessione sull’Italia; su quei valori che non incarnano un vago sogno o un lontano desiderio, ma una chiara coscienza di chi siamo e di che cosa desideriamo per le nostre vite. E naturalmente, del perché lo desideriamo.

Il talento, così come la forza, l’abnegazione e la costanza nel portare avanti un progetto, e nel trasformare un’idea originale in qualcosa di meraviglioso, sono ingredienti essenziali nella realizzazione di questa bellezza italiana cui questo numero è dedicato. Una bellezza espressa attraverso storie esemplari e vere: storie di artigiani che, ciascuno a suo modo, incarnano e rappresentano quei criteri distintivi che formano il DNA della bellezza italiana. Artigianalità e creatività, innovazione e interpretazione, territorialità e autenticità: leggere il presente della bellezza italiana attraverso il prisma di questi valori significa investire su un futuro davvero sostenibile, perché basato sul coraggio dei sogni, sulla competenza dei gesti, sull’ottenimento di risultati che superano le aspettative e seducono il mondo intero, con la persuasività di una bellezza fatta a mano. Che rende felice chi la crea, chi la ammira, chi la acquista. Bellezza e felicità: un binomio fondamentale per comprendere il valore del Made in Italy. Spesso, raggiungere un risultato che ci eravamo prefissi non porta alla felicità. Le ricerche lo confermano, e la nostra stessa esperienza lo insegna. Al contrario, vivere la situazione che consapevolmente abbiamo deciso di creare, e che con grande determinazione abbiamo messo in piedi, regala un senso di appagamento molto più profondo e duraturo perché concreto. Grazie all’impegno,

tutto sembra possibile, e un progetto può farsi strategia. Come i maestri d’arte da sempre insegnano, e come su questo numero abbiamo voluto raccontare.

Forse intorno a noi ci sono già persone, luoghi o esperienze che ci conducono gentilmente verso una migliore fruizione del nostro tempo: le botteghe, gli atelier, i laboratori, le imprese. Prestiamo loro attenzione, osserviamoli per quello che sono: fucine di bellezza autentica. In questo modo la forza e la volontà che mettiamo nel perseguire un risultato andranno in una direzione ben precisa, in cui non potremo evitare di affrontare difficoltà e dubbi, ma lungo la quale si possono aprire le porte della soddisfazione e della realizzazione con più facilità. Quale messaggio potrebbe essere più suggestivo per le giovani generazioni che dovranno immaginare la bellezza italiana del futuro?

Far convivere slancio creativo e applicazione pratica, la passione del cuore con l’intelligenza della mano, è la sfida che vogliamo e dobbiamo accettare: puntiamo sulla nostra creatività, sul talento e su una nuova cultura del fare che non oscuri le regole dell’etica, la temperanza del buon senso, le suggestioni delle radici.

Perché, in definitiva, sempre di cultura si tratta: dalla cultura, dall’apprendimento, dalla persuasione e dal bello nascono i saperi che da sempre rappresentano la nostra identità, e che hanno la loro radice proprio in quel sapere latino che significa sia “avere sapore” sia “essere savio”. Un sapore che arricchisce e preserva; una saggezza che ha un “sapore” perché è umana, personale, tramandata non solo con le “cose” ma anche con le parole e i gesti.

Ovvero, con quelle esperienze che non si possono acquistare, ma che sono sempre le più preziose.

Buona lettura! •

7 MESTIERI D’ARTE & DESIGN
di un’eccellenza “felice”.

7 EDITORIALE

Una bellezza tutta italiana

Alberto Cavalli

20 Album

Stefania Montani

30 Cattedra di bellezza

Giuditta Comerci

32 La bottega dei sogni

Francesco Rossetti

40 Il suono del talento

Andrea Tomasi

46 La carta vincente

Stefania Montani

54 Meraviglie per la testa

Antonio Mancinelli

62 Non di sola arte… vive l’Italia.

Il grande saper fare e i suoi custodi.

Alessandra de Nitto

70 I costumi dell’anima

Giovanna Marchello

76 Meta-lusso contemporaneo

Alberto Cavalli

84 Nostra signora della ceramica

Ugo la Pietra

90 Olimpiadi del virtuosismo

Alessandro Bardelli

98 Il miracolo del vetro

Jean Blanchaert

106 Pietro fu Stefano, o della gamba

della sedia di Peguy

Andrea Sinigaglia

116 English Version

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indice N°25
SEMESTRALE DELLA FONDAZIONE COLOGNI
32 62 76

MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE

Semestrale – Anno 13 – Numero 25 - Settembre 2022 mestieridarte.it

DIRETTORE RESPONSABILE

Alberto Cavalli

DIRETTORE EDITORIALE

Franco Cologni

DIREZIONE ARTISTICA

Lucrezia Russo

CONSULENTE EDITORIALE

Ugo La Pietra

REDAZIONE

Susanna Ardigò

Alessandra de Nitto

Lara Lo Calzo

Francesco Rossetti

TRADUZIONI

Traduko

Giovanna Marchello (editing e adattamento)

PRESTAMPA E STAMPA

Grafiche Antiga Spa

MESTIERI D’ARTE & DESIGN. CRAFTS CULTURE

è un progetto della Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte

Via Lovanio, 5 – 20121 Milano fondazionecologni.it

© Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte Tutti i diritti riservati.

È vietata la riproduzione, seppur parziale, di testi e fotografie.

PUBBLICITÀ E TRAFFICO

Mestieri d’Arte Srl

Via Statuto, 10 - 20121 Milano

IN COPERTINA:

Trono Pavone di Visionnaire, design Marc Ange. Realizzato come pezzo unico, è una sedia cerimoniale che esplora un’idea di seduzione senza compromessi.

Foto: Courtesy Visionnaire

9 MESTIERI D’ARTE & DESIGN
LE OPINIONI 16 Design territoriale Ugo La Pietra 18 Il senso del lusso Alba Cappellieri
forma della bellezza Franco Cologni 84 98
114 La

Inspiration is around the corner

Want to discover the best craftsmanship across Europe and beyond? Explore 38 countries of craft on the Homo Faber Guide Curated by
homofaber.com/guide
Signe Emdal ©Kristine Funch

Artigiani della parola

I caratteri tipografici fanno parte della collezione della Tipoteca Italiana (www.tipoteca.it)

Responsabile della comunicazione del Museo del Violino di Cremona, si è perfezionato all’Istituto Carlo De Martino per la Formazione al Giornalismo. Gli piace suonare il violino, come e quando può.

Professore Ordinario di Design del Gioiello e dell’Accessorio Moda al Politecnico di Milano. Dal 2014 è direttore del Museo del Gioiello, all’interno della Basilica Palladiana di Vicenza, il primo museo italiano dedicato al gioiello.

Artista, architetto, designer, ricercatore nella grande area dei sistemi di comunicazione e figura di riferimento per l’alto artigianato italiano, di cui è da sempre promotore. La sua sterminata attività è nota attraverso mostre, pubblicazioni, didattica nelle Accademie e nelle Università. Le sue opere sono presenti nei più importanti Musei internazionali.

Cresciuta in un ambiente internazionale tra il Giappone, la Finlandia e l’Italia, appassionata di letteratura inglese, vive e lavora a Milano, dove si occupa da 30 anni di moda. Segue progetti culturali legati ai mestieri d’arte, collabora con alcune fondazioni ed è luxury goods contributor del mensile russo Kak Potratit

Laureato in Lettere alla Cattolica di Milano, ha conseguito un Master in Cultura dell’Alimentazione a Bologna e un MBA presso il MIP. Ha pubblicato: La cucina Piacentina (Tarka, 2016), Gusto Italiano (Plan, 2012) e Il vignaiolo Mestiere d’arte (Il Saggiatore, 2006). Dal 2004 insegna Storia della Cucina italiana presso ALMA, dove dal 2013 è direttore generale.

Gallerista, curatore, critico d’arte e calligrafo, da più di trent’anni conduce la galleria di famiglia fondata dalla madre Silvia nel 1957 e da sempre specializzata in opere contemporanee. Dal 2008 è collaboratore fisso del mensile Art e Dossier (Giunti Editore). È stato curatore della sala Best of Europe di “Homo Faber” 2018 e della sala Next of Europe di “Homo Faber” 2022, alla Fondazione Cini, Venezia.

Ricercatrice e curatrice di eventi culturali, è direttore artistico dell’Associazione Noema per lo studio e la promozione della cultura musicale. È cultore della materia Mestieri d’arte e bellezza italiana al Politecnico di Milano dal 2015 e coautrice de Il valore del mestiere (Marsilio, 2014).

Giornalista professionista dal 1991, è stato caporedattore di Marie Claire fino a luglio 2021. Ora collabora con Repubblica , D-La Repubblica delle Donne , Amica , Amica.it , Il Foglio e altre testate editoriali. Attento osservatore della moda come riflesso della società e dispositivo politico atto a spiegare le mutazioni culturali, ha insegnato e insegna in atenei pubblici e privati.

Giornalista, ha pubblicato tre guide alle botteghe artigiane di Milano e una guida alle botteghe artigiane di Torino. Ha ricevuto il Premio

Gabriele Lanfredini dalla Camera di Commercio di Milano per aver contribuito alla diffusione della cultura e della conoscenza dell’artigianato.

Laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo a Bologna, inizia la sua carriera come critico cinematografico. Dopo aver lavorato come caporedattore per diversi settimanali, nel 2018 inizia la sua collaborazione con la Michelangelo Foundation per la realizzazione della prima edizione di “Homo Faber”. Dal 2020 dirige la Homo Faber Guide , una piattaforma online che consente di scoprire artigiani d’eccellenza in Europa e nel mondo.

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Giuditta Comerci Jean Blanchaert Giovanna Marchello Antonio Mancinelli Stefania Montani Alessandro Bardelli Alba Cappellieri Ugo La Pietra Andrea Sinigaglia Andrea Tomasi

COS'È LA BELLEZZ A ?

ACCADEMIA TEATRO ALLA SCALA TALENTO, DEDIZIONE, IMPEGNO.

TERRITORIO, IMMAGINAZIONE, POSSIBILITÀ.

POST DISASTER ROOFTOPS ARTE SELLA ARTE, ISPIRAZIONE, NATURA. LA RIVOLUZIONE DELLE SEPPIE COMUNITÀ, PARTECIPAZIONE, FUTURO.

La Fondazione che promuove e rimette al centro il valore della Bellezza, vero talento dell’Italia

Fare della Bellezza l'identità competitiva dell'Italia è la mission della Fondazione che, con un approccio inclusivo e “dal basso”, promuove le iniziative che si distinguono per la loro capacità di valorizzare i territori, trovando una nuova chiave di lettura e di fruizione del patrimonio materiale e immateriale del Paese.

La Fondazione porta avanti un bando per le attività di valorizzazione della bellezza in Italia, selezionando e premiando i progetti più meritevoli e nanziando in particolare le attività relative alla comunicazione, alla promozione e al branding.

Scopri il nostro Atlante di Bellezza!

www.patriadellabellezza.it

A cavallo tra tradizione e innovazione, gli oggetti d’alto artigianato artistico italiano sono funzionali e sentimentali al tempo stesso. Profondamente legati alla cultura del territorio e alla sua diversità, resistono al tempo grazie ai valori che racchiudono.

Design territoriale

Abbiamo sempre avuto bisogno di bellezza (e oggi ne abbiamo bisogno più che mai, dati i tempi che corrono). L’abbiamo cercata ovunque: nello sguardo di un bambino, nel canto di un uccello, nel candore delle vette innevate… e abbiamo sempre cercato in ogni modo di portarla con noi, nella nostra mente e nel nostro cuore, ma anche con qualcosa di tangibile, capace di rievocarla. Abbiamo così realizzato oggetti capaci di esprimere questa bellezza (o almeno capaci di ricordarla) e li abbiamo portati nelle nostre case. Li abbiamo collocati sulle mensole, nelle vetrinette, sulle consolle… e li abbiamo chiamati “oggetti di bellezza”. Una definizione che voleva significare che non avevano una particolare funzione, qualche volta alludevano ad un uso, ma quasi sempre erano carichi di valori affettivi e che ci ricordavano un luogo, un territorio, una persona, un’esperienza. Ancora oggi, come ieri (si pensi ai viaggiatori del Settecento e Ottocento che intraprendevano il Grand Tour), chi proviene da altri luoghi, Paesi e città, continua ad avere il desiderio di cercare negli oggetti tutta la bellezza che l’Italia ha saputo e sa ancora offrire. Una bellezza che attraverso gli oggetti può entrare nella casa, la “casa all’italiana” descritta da Gio Ponti: “una casa variabile, simultaneamente piena di ricordi, di speranze, di coraggiose accettazioni, una casa per viverla nella fortuna e anche nelle malinconie…”. Una casa quindi fatta anche di oggetti capaci di esprimere la nostra più profonda cultura, quella cultura che da secoli ha ricercato la bellezza. Ma oggi quali sono gli oggetti che possono di fatto esprimere questo valore di cui abbiamo tanto bisogno?

Ponti invitava i progettisti suoi coetanei a progettare oggetti senza modestia e senza la paura di usare la parola “bellissimi”; lo stesso Ponti ci indicava una strada: partire dal passato, dal classico, “del resto si comincia sempre in Accademia e si procede verso un’accademia: la propria”. Tutto questo lo ritroviamo negli oggetti “fatti ad arte”, oggetti che “resistono al tempo”, “oggetti di fantasia”… secondo le definizioni di Gio Ponti. Questi valori, capaci di dare senso e bellezza agli oggetti, si ritrovano nella pratica di molto nostro artigianato, un artigianato che negli ultimi decenni ha vissuto proprio questo particolare processo: dalle forme classiche verso le forme “rinnovate” grazie alla creatività del progettista. Oggetti capaci di resistere al tempo in quanto nati dalle opere consolidate dalla tradizione, poi rinnovata. Oggetti che esprimono la nostra italianità perché prendono forma dalle radici (storiche, culturali) dei nostri tanti e diversi territori, dove la bellezza è alla base del più profondo valore della nostra cultura: le diversità. Diversità che spingono a creare opere sempre più eccezionali, spesso uniche, dove l’artigianato ancorato alle sue pratiche tradizionali, per poter avere ancora un ruolo e un’attrattiva nel pubblico, cerca strade nuove nell’uso delle tecniche e dei materiali. Ho sempre definito questa pratica “design territoriale” da quando, nella vetrinetta di mia nonna originaria di Vietri sul Mare, guardavo con simpatia l’asinello in ceramica (color verde ramino e che sorride sempre) che ancora oggi rappresenta il simbolo di quella cultura contadina tipica dei Paesi del Mediterraneo, introdotto nella tradizione ceramica locale da alcuni artisti tedeschi approdatati sulla costa salentina negli anni trenta del Novecento. •

16 OPINIONI
FATTO AD ARTE certifi c ato da ugo l a pietra

REVERSO TRIBUTE

certifi c ato da alba ca p pellieri

Inteso a lungo come ostentazione materialistica, il lusso diventa oggi sinonimo di emozione immateriale, assumendo più la forma dell’esperienze estetica e sensoriale che quella della ricchezza economica.

Il senso del lusso

Lusso è un termine molto usato nella contemporaneità, anzi, decisamente abusato, che al pari di altri stereotipi, assume significati diversi in relazione ai contesti sociali e ai momenti storici. È uno dei riferimenti più ricorrenti: tutte le riviste parlano di lusso, di alto di gamma, di premium, al punto da rappresentare l’ambizione di tutti i brand. Ma il lusso oggi non è soltanto marketing e dopo l’accezione di inutilità, eccesso e spreco cui la gogna moralistica ottocentesca lo aveva relegato, si è spostato dall’opulenza dell’esibizione materiale alla delicatezza dell’emozione immateriale. Nel post Covid sta ritornando a essere espressione di cultura, qualità, bellezza, unicità, un lusso sostenibile ed eco compatibile caratterizzato da un consumo edonistico e consapevole, ed è nella scia di questi valori che vorrei proporvi una riflessione. Cosa è per voi il lusso? Rifletteteci un istante e provate a definirlo. Certo, non è facile racchiuderlo in una definizione univoca perché il lusso attraversa con spensierata disinvoltura territori lontani, li interseca lievemente nella sua scia vaporosa, infrangendo le rigide trincee degli ambiti disciplinari e delle visioni monoculari. È tutto, come afferma Bernard de Mandeville, e al tempo stesso è niente: esclusivo e avvolgente come un abito sartoriale, luminoso e impenetrabile come un diamante, prezioso e sfuggente come il tempo, la libertà o lo spazio. Nonostante la vaghezza lessicale e la complessità concettuale, il lusso costringe a prendere posizioni, genera discussioni, modifica pensieri e stili di vita. È un tema di transito, una terra di nessuno, un altare della bellezza capace di avvicinare uomini e culture tradizionalmente distanti.

Il lusso stabilisce nessi tra il mondo esterno che è quello del commercio, delle relazioni sociali e quello intimo dell’identità di ogni individuo, i suoi desideri, i suoi sogni, la sua immagine. Un’analisi del lusso, quindi, permette di comprendere meglio i misteri della bellezza e della qualità e investe ambiti disciplinari eterogenei. Fin dai tempi antichi l’Italia e la Francia sono i principali creatori di bellezza anche se, contrariamente agli italiani, i francesi considerano l’industria del lusso in termini di identità nazionale, di eccellenza, di capacità di produrre ricchezza e posti di lavoro e, da ministri come Jack Lang fino a economisti come Jean Castarède il lusso è considerato un fenomeno importantissimo sia per lo sviluppo economico che per il progresso culturale e artistico dei francesi. Di contro in Italia il lusso più che a bellezza, a progresso e a cultura rimanda a volgarità e a ostentazione da “neocafoni”, al punto che la celeberrima affermazione di Giorgio Armani “il lusso fa schifo” ben traduce il disagio di chi di lusso se ne intende e lo crea.

Eppure da una ricerca del Dipartimento di Design del Politecnico di Milano sono emersi cinque scenari sull’universo lusso che ne dimostrano la multidisciplinarietà e l’importanza scientifica: quello socio-semiologico, del lusso come costruttore di identità fondato sul rapporto individuosocietà dove il lusso definisce, costruisce e comunica messaggi attraverso il corpo, quello evoluzionistico-tecnologico, come catalizzatore di modernità dove la richiesta di beni dall’alto valore estetico e manifatturiero determina un incentivo al progresso, quello macroeconomico, che considera il lusso come fattore di incremento capitalistico e motore di ricchezza, quello antropologico e microeconomico dove il lusso è un indicatore dei consumi per la sua capacità di mutare i valori delle merci e determinare nuovi scenari di consumo e, infine, quello delle discipline del progetto, che considerano il lusso come un tema di progetto estremo, dalle logiche e dai processi eccezionali come quelli del Made in Italy per la sua capacità di creare armonia e di donare, come affermava Hume: “la massima bellezza nella gratificazione dei sensi”. •

18 OPINIONI PENSIERO STORICO
MOSAICO collection handcrafted in Italy serapian.com

Album

di Stefania Montani

Atelier Crestani

Gli alberi, gli animali, il mare e i suoi abitanti sono la principale fonte di ispirazione del suo lavoro. Da sempre Simone Crestani è affascinato dalla natura e le forme in vetro che fa nascere nel suo luminoso laboratorio di Camisano Vicentino sono meravigliosi alberi curvati dal vento, possenti corna di daino dalle punte palmate, curiose orecchie di coniglio che spuntano dalle bottiglie trasparenti, acrobatici polipi che si avviluppano intorno ai calici. Un mondo onirico, pieno di poesia, dove la trasparenza e la purezza delle linee lasciano ammaliati. «La lavorazione del vetro è un insieme di operazioni molto complesse che richiedono anni di studio ed estrema dedizione,» racconta Simone. «Ho avuto la fortuna di imparare tutte le tecniche quando ero molto giovane, nella bottega del Maestro Massimo Lunardon. Poi dal 2010 ho aperto

un laboratorio tutto mio.» Simone soffia il vetro a bocca, lo scalda col cannello, modella con le pinze le forme. Anche la cottura nel forno ad alta temperatura richiede una grande attenzione perché, se i tempi e le gradazioni non sono rispettati con esattezza, il vetro si “stressa”, cioè si rompe. Crestani lavora il vetro borosilicato in modo più scultoreo rispetto alla tecnica tradizionale, cosa che gli permette di creare opere di grandi dimensioni, curandone però anche i dettagli. «Sono conosciuto per questa mia particolare tecnica e per questo sono spesso invitato a insegnare in prestigiose accademie e scuole del vetro, in Italia e all’estero. Per me le forme naturali sono esempi di equilibrio ed eleganza imperfetta. Nei miei lavori amo vedere la convivenza tra forme fragili e dettagli concreti, ma sempre alla ricerca dell’armonia.» Per il Salone del Mobile di Milano 2022 ha collaborato per un progetto didattico speciale con i giovani talenti di Creative Academy, la scuola di design del Gruppo Richemont, e con Eligo Studio, realizzando una collezione di opere eseguite con la tecnica a fiamma detta “scultura cava”, presentata con molto successo a Palazzo Litta, in un allestimento scenografico di grande poesia.

Bice & Berta

via Santa Margherita 19 Torre Boldone (BG) www.biceeberta.it

Dai vestitini realizzati per le sue bambole alle raffinate confezioni per donna, su misura, apprezzate a livello internazionale: è questo il bellissimo percorso, fatto di coincidenze (come spesso accade nella vita) ma soprattutto di talento,

perseveranza e occasioni colte al volo, che ha dato vita al laboratorio di maglieria Bice & Berta, aperto una trentina di anni fa da Marina Rizzini vicino a Bergamo. «Mia zia Bice era una bravissima sarta che mi faceva sedere vicino a lei, mentre lavorava, e mi insegnava a realizzare abiti per le mie bambole, all’uncinetto e a maglia. Mi ha insegnato anche a ricamare. È stata una maestra straordinaria,» confida Marina, che nel 1992 ha avuto il coraggio di abbandonare il lavoro d’ufficio in un’azienda di combustibili per aprire il suo primo laboratorio.

Il successo arriva in fretta, grazie al passaparola delle amiche, e nel 1998, incoraggiata da suo marito Marco, Marina acquista uno spazio più ampio a Torre Boldone, a pochi chilometri da Bergamo, e fonda il marchio Bice & Berta. Da allora l’attività della creativa designer artigiana non si ferma più: le sue clienti si trovano in Francia, in Gran Bretagna, in Svizzera, perfino in Giappone. «Ho installato una decina

di macchine rettilinee per maglieria dei primi del Novecento, con aghi di diverse dimensioni, dal 3 al 14, e ho iniziato a confezionare capi di maglieria su misura. Maglioni da sci con 10 fili, cappotti, golfini sottilissimi in seta e cachemire, da lavorare con la lente, gonne, abiti da sera in lurex... L’assemblaggio viene fatto a mano, come pure le asole e gli eventuali ricami. Ho dato alla mia società il nome delle mie figlie, e ho voluto ricordare nello stesso tempo mia zia Bice e mia nonna Berta,» racconta Marina. I modelli creati dalla sua vulcanica fantasia sono originali, sia per taglio che per abbinamento di colore. «Abbiamo un archivio di 1400 campioni e ogni anno creiamo una quarantina di modelli nuovi. Tutto può essere personalizzato,» puntualizza la Maestra. «Il segreto del successo sta anche nella selezione dei materiali, che scelgo sempre al top: per realizzare dei modelli di alta gamma è essenziale avere materiali perfetti.» Marina lavora con ineguagliabile perizia e passione con la talentuosa e intraprendente Camilla: di madre in figlia.

Mingardo Design Faber

Via Liguria 3 Monselice (PD) www.mingardo.com

Da quando ha 18 anni, Daniele Mingardo lavora in officina: i metalli sono la sua grande passione. I segreti del mestiere li ha appresi dal padre Ilario, la cui bottega di carpenteria a Monselice è nota dagli anni Settanta per le lavorazioni accurate e per le collaborazioni importanti, come quelle con Carlo e Tobia Scarpa, con Aldo Parisotto, col Teatro Petruzzelli di Bari, col Parco della Musica a Firenze e il Museo del Novecento

a Milano. Grazie alla straordinaria manualità e alla tecnica appresa negli anni di sperimentazione nella fucina paterna, Daniele a 25 anni ha deciso di creare una linea tutta sua, per produrre nuovi complementi d’arredo, anche in collaborazione con i designer. Oggi, a 34 anni, la sua Mingardo Design Faber è un marchio che produce edizioni limitate di design in metallo, anche in combinazione con altri materiali: ferro, rame, ottone, acciaio. «Devo ad Aldo Parisotto, che nel 2013 ha ospitato la mia prima collezione nel suo showroom di Milano durante il Fuorisalone, l’opportunità di farmi conoscere nel mondo del design,» racconta Daniele. «La nostra è un’azienda piccola, siamo in totale una decina, oltre ad alcuni artigiani esterni che collaborano con noi, quindi riusciamo ad avere un rapporto col cliente molto diretto, con uno scambio continuo di energie. Da alcuni anni abbiamo una art director, Federica Biasi, per elaborare dei progetti nostri, originali, oltre a lavorare con designer di fama nazionale e internazionale, come Omri Revesz, Gio Tirotto, Chiara Andreatti, Simone Bonanni,

Valerio Sommella e molti altri. È sempre entusiasmante realizzare le loro idee con il talento dei nostri artigiani.» Il catalogo della Mingardo Design Faber è molto vasto e articolato, ma la cura del dettaglio oltre alla relazione con i progettisti è il suo punto di forza. Le minuziose lavorazioni sartoriali sono rese possibili dalla professionalità e passione di chi lavora il metallo alla Mingardo. «Tutto può essere personalizzato, dalle scale ai mobili, dalle lampade alle sedute e alle librerie. La mia propensione per la continua ricerca, dalla fusione dei materiali alle saldature, dalla trasformazione dei vari metalli nel tempo alla elaborazione della forma, è la molla che mi dà la carica per affrontare con entusiasmo ogni giornata. Perché il lato tecnico e quello umano non possono mai essere scissi,» conclude il talentuoso Daniele.

Tessitura Brozzetti

Via Tiberio Berardi 5/6 Perugia www.brozzetti.com

Un luogo magico, nel cuore dell’Umbria che conserva intatto il fascino della storia, dell’arte, del saper fare italiano. È la Tessitura Brozzetti e la sua “anima” è Marta Cucchia, interior decorator e giovane maestra d’arte, che con determinazione e talento ha saputo portare avanti un sapere antico che le era stato tramandato dalla sua famiglia: la tessitura a mano su telai. Il suo atelier è a Perugia, all’interno della suggestiva chiesa di San Francesco delle Donne.

«Tutto ha avuto inizio con la mia bisnonna, Giuditta Brozzetti, che nel 1921 fondò il laboratorio-scuola artigianale per la produzione di tessuti, prendendo spunto dalla consuetudine femminile perugina di creare in casa i tessuti necessari alla vita domestica, recuperando motivi e disegni tradizionali del territorio umbro. La nostra produzione è tuttora tessuta a mano in lino, cotone, seta, misto cachemire e laminato oro e argento, su antichi telai settecenteschi a pedali e ottocenteschi a jacquard. Realizziamo tende, tovaglie, copriletti, arazzi, tessuti per l’arredo, ma anche alcuni accessori di abbigliamento quali sciarpe, stole, borse. Tutto può essere personalizzato. Oggi, grazie al restauro di un telaio originale, abbiamo anche recuperato una

tecnica di cui si era persa la memoria: la tessitura detta Fiamma di Perugia.» La produzione della Tessitura Brozzetti si ispira ai motivi ornamentali di cui è ricca la cultura umbra: vengono riprodotti tessuti con temi caratteristici ornamentali ispirati alle stoffe etrusche e alle cosiddette ’tovaglie perugine’, punto di forza della grande tradizione tessile medievale locale. «Alcuni motivi decorativi si ritrovano nei quadri di Giotto, del Ghirlandaio, in quelli di Leonardo da Vinci,» precisa Marta Cucchia, che oltre a essere una straordinaria maestra artigiana è anche un punto di riferimento della cultura regionale. Concludendo la visita al laboratorio e al museo tessile, Marta spiega: «Tutte le fasi della produzione sono scandite da tempi e tecniche antichi, l’ordito viene montato come si faceva 500 anni fa e per mettere in opera uno dei nostri telai si impiegano fino a 20 giorni. Ogni singolo filo della trama è passato a mano e in una giornata un tessitore riesce a produrre al massimo 50 cm di tessuto.» Grazie alle sue caratteristiche uniche, l’atelier ha ottenuto nel 2004 l’ingresso nel Sistema museale dell’Umbria.

Vecchia Bottega

Maiolicara Di Simone

Via del Giardino 10 Castelli (TE) www.bottegadisimone.altervista.org

Nonostante abbia ricevuto innumerevoli premi e riconoscimenti, anche dalla Sovrintendenza per i Beni Culturali, e sia stato spesso intervistato dalle televisioni per illustrare le sue opere, Vincenzo

Di Simone ha mantenuto la semplicità, la modestia e il sorriso

che caratterizzano le persone che sono riuscite a vivere in armonia, realizzando con passione i loro talenti. Il suo incontro con la ceramica inizia da bambino per la vicinanza della casa della sua famiglia a un’antica bottega: l’argilla diventa così il suo gioco preferito, in un paese la cui tradizione della maiolica ha origini antichissime. A 17 anni entra nel laboratorio di Luigi De Angelis, un Maestro di quest’arte, finché nel 1970 apre una bottega tutta sua. Qui, dal 1980, lo affianca nel lavoro il figlio Antonio, che ha appreso da lui tutti i segreti del mestiere. L’atmosfera del laboratorio è straordinaria, con le pareti affollate di stampi, alcuni vecchissimi, il tornio a pedale, i tavoli da lavoro, il forno ad alta temperatura. Vincenzo crea da solo anche gli smalti e i colori: il giallo, il blu cobalto, il manganese, il verde ramina e l’arancio “Castelli”, considerati i colori storici del territorio. Cuoce i suoi manufatti nel forno a respiro («perché la legna dei nostri boschi, quando arde, sembra respiri»). «Una caratteristica che

differenzia la ceramica di Castelli da altre è che la terracotta viene prima smaltata e poi dipinta, usando gli strumenti della tradizione,» spiega Antonio, che ha il compito di impreziosire le maioliche. Abilissimo nelle decorazioni, realizza paesaggi dal fascino senza tempo, scene pastorali e mitologiche, rappresentazioni popolari di animali da cortile e galli, con pennelli di crine d’asino, adatti alla precisione del tratto, come vuole la tradizione. Nascono così piatti, brocche, bicchieri, vassoi dalle grandi dimensioni. Una parte della produzione della bottega Di Simone è rivolta anche ai fischietti, strumenti a fiato tipici di un’arte povera, e alle pipe. I Di Simone rappresentano oggi una tradizione familiare attenta all’artigianato abruzzese, che valorizza le tecniche ereditate dal passato, oltre alla conoscenza delle materie prime di cui il territorio è ricco.

Fratelli Levaggi

Via Parma 469 Chiavari (GE) www.levaggisedie.it

Un oggetto di design antelitteram, che da oltre due secoli continua a essere di straordinaria attualità. Parliamo della sedia che Giuseppe Gaetano Descalzi, detto il Campanino, creò ai primi dell’Ottocento.

Un incredibile equilibrio tra forma e funzione, caratterizzato da una struttura essenziale che consente non solo la leggerezza ma anche la stabilità. A produrre queste sedie conosciute ormai in tutto il mondo come Chiavarine sono i fratelli Levaggi, Gabriele e Paolo, che hanno raccolto il testimone dal padre e dagli zii incrementando la produzione. Nel vasto laboratorio ci sono i tradizionali macchinari della falegnameria: seghe a nastro, fresatrici, torni, pialle, levigatrici, oltre agli attrezzi manuali. Alle pareti un’infinità di dime che servono per riprodurre le parti di ogni singola sedia: gambe, schienale, seduta. Tutti i passaggi vengono effettuati a mano e i pezzi assemblati con l’utilizzo di colle animali a caldo, come nel passato. «Le colle naturali hanno il vantaggio di essere non solo atossiche ma anche reversibili, nel caso in cui si dovesse disassemblare un incastro,» spiega Paolo Levaggi, che insieme al fratello e a un team di giovani artigiani dà vita ai diversi modelli.

«Utilizziamo il legno stagionato che proviene dall’entroterra ligure, ciliegio, faggio, frassino. Uno dei tratti caratteristici delle sedie chiavarine è l’impagliatura, che si ottiene intrecciando direttamente sull’intelaiatura sottili filamenti di giunco secondo un disegno di trama e ordito, componendo un vero

e proprio tessuto che contribuisce alla robustezza e alla tensione della struttura stessa. Spesso collaboriamo con architetti e arredatori creando per loro dei modelli personalizzati sia per tonalità delle patine del legno sia per la scelta dei materiali delle sedute. Perché la ricerca è sempre alla base della nostra attività,» continua Paolo. «Noi cerchiamo di comunicare il nostro lavoro, che è indubbiamente tradizionale, con uno sguardo al futuro: per questo siamo presenti sui social network e per questo siamo stati selezionati nel 2015 da Google per essere una delle poche aziende in Italia di eccellenza artigianale che ha saputo aumentare il fatturato,» confida Levaggi. Un’altra particolarità del Laboratorio Levaggi è la composizione del team di lavoro: sono tutti ragazzi tra i 18 e i 30 anni. Una vera speranza per l’artigianato del futuro.

Fabscarte

via Foppa 50/A

Milano

www.fabscarte.it

Emilio Brazzolotto e Luigi Scarabelli sono due straordinari Maestri d’Arte che, affascinati dal mondo del decoro, negli anni Ottanta hanno aperto uno studio per la progettazione e la realizzazione di trompe l’oeil, velature, patinature, finti marmi, finti legni, paesaggi onirici per creare sfondi infiniti alle stanze. Diventano grandi esperti nelle tecniche pittoriche, e nel 2012 danno una svolta alla loro attività iniziando a realizzare carte da parati dipinte e decorate a mano. Diverse da tutte quelle che si possono trovare in commercio. «Gli elementi della natura sono sempre stati la nostra fonte di ispirazione: alberi, foreste, fiori,» confidano gli straordinari artigiani. «Ma anche l’arte contemporanea, oggi, con la sua matericità, è entrata prepotentemente a far parte della linfa che ci ispira per realizzare le nostre pitture.» Forti di anni di esperienza e abili nelle diverse tecniche, hanno dato vita a carte da parati originalissime. «La

nostra partenza è sempre la natura, ma la interpretiamo in maniera informale, sovrapponendo i diversi materiali fino a ottenere effetti tridimensionali. Il nostro intento è quello di esprimere delle emozioni ma anche di far sì che ognuno possa interpretare e percepire quello che ha dentro di sé,» spiega Luigi Scarabelli. Il laboratorio è un ex spazio industriale, luminosissimo, con ampie vetrate verso il cortile interno. Qui, tra un’infinità di fogli da disegno, bozzetti, carte appoggiate sui tavoli e appese alle pareti, i due maestri artigiani, coadiuvati da un team di giovani assistenti, lavorano progettando finiture laccate, striature argentate, effetti nuvolati, motivi geometrici, interventi materici che rendono le superfici tridimensionali. I materiali utilizzati in laboratorio sono i colori ricavati dalle terre, i collanti, gli stucchi naturali, la gommalacca come nell’antichità. «I soggetti sono prevalentemente contemporanei,» sottolineano Emilio e Luigi, che spesso danno vita su carta a opere create da artisti e designer tra i quali Martyn Thompson, Allegra Hicks, Francesco Simeti. Recentemente lo studio Fabscarte ha iniziato a produrre complementi d’arredo decorati, tra cui paraventi, lampade e applique.

Massimo Maria Melis

Via dell’Orso 57

Roma

www.massimomariamelis.com

Gioielli meravigliosi realizzati con maestria. Parliamo delle creazioni di Massimo Maria Melis, storico e Maestro d’arte, che ha saputo trasferire nelle sue creazioni tutta la passione per i monili insieme alla cultura del nostro passato. I suoi riferimenti sono l’antica Roma,

la Magna Grecia, gli Etruschi, il Rinascimento. Anche le lavorazioni speciali, utilizzate nei secoli passati, sono state da lui esaminate e riprodotte con infinita cura. «Ho studiato all’Accademia di Belle Arti scenografia e costume, e ho lavorato nel cinema e nel teatro, facendo anche il fotografo,» ci racconta il Maestro. «La mia passione per i gioielli è nata davanti alla collezione Castellani a Villa Giulia: sono rimasto abbagliato dall’eleganza delle lavorazioni e questo mi ha portato ad approfondire le tecniche dei nostri antenati.» In laboratorio ci sono i minuscoli strumenti degli orafi di un tempo, pinze e lime, oltre alle trafilatrici e alle saldatrici. Tra le tecniche del passato che Melis ha adottato, la fusione dell’oro nell’osso di seppia, la creazione di modelli in cera persa, persino la “granulazione” per saldare delle microsfere a formare disegni, tecnica antichissima nella quale eccellevano gli Etruschi. «Per realizzare i gioielli come nel passato, è essenziale adottare i metodi e le sequenze delle

lavorazioni di un tempo,» sostiene giustamente il Maestro. E i risultati sono incredibili. Straordinarie le sue collane con cammei incisi, i bracciali frutto della lavorazione di diversi materiali, oro, argento e ferro. Per non parlare della ricerca delle monete antiche, tutte con una loro storia, scelte dal Maestro orafo per impreziosire le sue collane lavorate a mano, oppure i frammenti di vetro policromo e le pietre incise. Tra i suoi clienti affezionati annovera molti personaggi del mondo dello spettacolo, della politica e persino teste coronate, tutti affascinati dal suo talento. «Alle mie creazioni affido il compito di trasmettere quel fascino particolare che il gioiello antico ha sempre profuso,» confida il grande orafo. Da alcuni anni con lui in atelier lavora anche sua figlia Valentina, alla quale ha trasmesso non solo tutti i segreti e le tecniche del mestiere, ma anche la sua passione per il bello: una preziosa eredità di famiglia.

Mazzanti Piume

Via

www.mazzantipiume.it

campo. «Grazie all’intuizione di mio nonno, che era un bravissimo progettista, abbiamo meccanizzato i telai in legno per velocizzare la produzione dei boa, passando da 2 a 20 metri.» Tra i clienti di questo laboratorio storico si possono citare le grandi firme della moda italiana e straniera, sartorie del cinema, del mondo dello spettacolo, del cabaret francese. Persino i copricapi con pennacchi delle guardie svizzere prendono vita qui. «Io penso che un bravo artigiano sia colui che conosce il QB: ogni volta l’ingrediente è diverso, per peso o dimensione, è l’artigiano che deve capire la giusta ricetta, il Quanto Basta. Come in cucina.»

Natalina Mazzanti era una straordinaria artigiana che realizzava acconciature e decorazioni con piume e fiori di seta che lei stessa confezionava. La sua abilità era nota anche fuori Firenze, tanto che i creatori dell’Alta Moda parigina si rivolgevano a lei per impreziosire le loro collezioni. Era il 1935. Da allora il suo atelier non ha mai smesso di crescere in creatività e raffinatezza, regalando sogni ai suoi clienti. Oggi il proprietario dell’attività è il nipote Duccio, che coadiuvato dal padre Maurizio e da una decina di artigiani continua ad alternare tradizione e innovazione utilizzando le stesse tecniche artigianali tramandate con passione per tre generazioni. Fin da bambino, dopo la scuola, Duccio Mazzanti trascorreva le sue giornate in azienda, incantato dall’abilità e dalla pazienza con cui venivano lavorate le più diverse tipologie di piume. Da allora ha sempre accresciuto la sua conoscenza e abilità in questo

Dal 2005 i Mazzanti hanno affiancato alla produzione anche il nuovo marchio Nanà Firenze, col quale propongono cappelli seguendo la tradizione iniziata da nonna Natalina. È a lei che l’hanno dedicato. Conclude Duccio: «Una delle nostre preziose fonti di innovazione è la collaborazione con gli studenti dei Fashion Institutes. Dal sodalizio con questi creativi nasce uno scambio reciproco di passione ed esperienza inestimabile.»

Pagliani & Brasseur

Una bellissima storia di famiglia dietro a una straordinaria attività artigianale. È quella che inizia ai primi del Novecento con Giuditta Brasseur, orfana nel Collegio delle Figlie dei Militari di Torino, dove incontra una maestra che insegna alle allieve l’arte di riprodurre i fiori di giardino in stoffa, sia per guarnire abiti e cappelli, sia per abbellire gli ambienti. Grazie alla sua talentuosa manualità, Giuditta inizia a ritagliare le forme dai materiali più vari, a modellare a caldo i petali, a realizzare fiori, boccioli, corolle, tralci. La sua creatività la fa apprezzare presto negli ambienti della moda. Poi l’incontro con Giobatta Pagliani, pittore e scultore che diventerà suo marito, darà la svolta all’attività: Giobatta crea con la creta gli stampi da fondere in bronzo, per realizzare i fiori e le foglie nei materiali prescelti, con assoluta precisione. E il successo sarà conclamato dai negozi e dalle sartorie dell’Alta Moda di tutta Italia, come testimonia il ricchissimo archivio dove sono conservate tutte

le forme e i campioni. A Verona, dove la famiglia si è nel frattempo trasferita, inizia a lavorare anche la figlia Luciana, che sarà a sua volta affiancata, anni dopo, da Anna Tosi, terza generazione di questa famiglia di grandi talenti. «I nostri fiori sono realizzati in seta, velluto, pelle, feltro, con gli attrezzi inventati da mia nonna: le cosiddette bolle che danno la forma ai petali e alle foglie,» spiega Anna Tosi, che già a 17 anni era stata scelta da Valentino per la sua incredibile manualità nel dare vita ai suoi progetti floreali. «Tutte le sfumature vengono poi dipinte a mano con colori alimentari, per rendere reale l’effetto finale. Le tecniche, però, fanno parte dei segreti di famiglia,» confida sorridendo la maestra artigiana. Tra le creazioni più straordinarie uscite dal laboratorio Pagliani & Brasseur c’è un abito realizzato con migliaia di fiori per Dior, oltre agli estrosi abbellimenti ideati per le collezioni di Dolce & Gabbana. «Da alcuni anni abbiamo iniziato a spaziare in altri ambiti, creando decorazioni per l’arredamento d’interni e per il design oltre che per l’abbigliamento,» conclude Anna Tosi mostrando una delle sue lampade appena ideate. Perché la creatività, unita al saper fare, non conosce confini.

Valigeria Bertoni

Via Mulino Trotti 11/13 Varese www.bertonivaligeria.it

Un vecchio mulino ad acqua, fuori dal centro di Varese. Qui, negli spazi abilmente restaurati dalla famiglia Bertoni, prendono vita i modelli più raffinati della valigeria. «La nostra azienda è nata con mio nonno Riccardo, nel 1949, nel centro di Varese. Col passare degli anni, vista la necessità di aumentare gli spazi lavorativi, abbiamo dovuto traslocare e la scelta di questo mulino è stata vincente. Anche se essere dislocati su tre piani può essere a volte complicato. Nel magazzino si vede ancora l’antica ruota,» racconta Gaia che con il fratello Pietro rappresenta la terza generazione di questa famiglia di artigiani di eccellenza. «Il nostro maestro è stato nostro padre, Alberto: oltre al saper fare ci ha trasmesso la sua passione per questo mestiere.» All’interno della fabbrica avvengono tutte le fasi della lavorazione. «Abbiamo una falegnameria interna per realizzare i fusti dei bauli, delle valigie, delle borse e delle cartelle,

un laboratorio per il taglio delle pelli, per assemblare il pellame tagliato su misura, per rivestire i fusti. Un lavoro di precisione e abilità che parte dalle superfici esterne di ogni singolo manufatto, con l’applicazione delle minuterie metalliche, per terminare con i rivestimenti degli interni.»

Il prodotto di punta della valigeria Bertoni è quello realizzato con la lavorazione della pergamena, che li ha resi famosi. Ma anche le lavorazioni con le pelli di alligatore, struzzo, pitone, bovino, e con i tessuti rivestiti in PVC sono tra le loro specialità. «Ultimamente ci siamo perfezionati anche nei prodotti con pelle riciclata. Negli anni abbiamo lavorato per tante case di moda molto note, italiane e straniere, realizzando per loro i modelli personalizzati. Partendo dai bozzetti del cliente o prendendo ispirazione dagli archivi Bertoni Valigeria, il Team Sviluppo e Design può supportare il cliente nella creazione di pezzi unici molto speciali. Dal 2014 abbiamo affiancato una produzione tutta nostra col marchio storico Bertoni 1949: sono prodotti realizzati secondo la nostra lunga tradizione, ma con un look sempre nuovo,» conclude Gaia Bertoni con orgoglio.

Vivian Saskia Wittmer

Via di S. Lucia 24/r

Firenze

www.saskiascarpesumisura.com

Da sempre appassionata di scarpe, Vivian Saskia Wittmer è una delle poche donne calzolaio in Europa e sicuramente una delle pochissime di indiscussa abilità: allieva del miglior creatore di calzature ad Amburgo, che aveva appreso i segreti del mestiere in Inghilterra, è partita dalla Germania giovanissima per trasferirsi a Firenze con il desiderio di continuare a specializzarsi nell’atelier di Stefano Bemer, calzolaio di eccellenza rinomato in tutto il mondo. «Sono stata la sua assistente per tre anni, alla fine degli anni Novanta. Poi, alla sua morte, ho aperto il mio laboratorio, nel centro storico della città. Firenze è una città straordinaria e lavorare qui è uno stimolo al bello,» racconta Vivian. «Fin da bambina sono stata attratta dalle scarpe da uomo, non quelle da donna con i tacchi: io sono per la comodità,» scherza l’artigiana. Il suo atelier è composto da tre stanze, tutte luminosissime e affacciate sulla strada. Vi lavora con l’aiuto di due artigiane. All’ingresso una grande quantità di scarpe

appese alle pareti. Una specie di campionario per aiutare nella scelta. Si passa poi nella seconda stanza dove, all’interno degli scaffali, sono contenute numerose forme. Nel centro una macchina per cucire le tomaie. Nell’ultima stanza che delimita il laboratorio vengono infine montate le scarpe con i diversi pellami. Cuoio, vitello, capretto, galuchat, cocco e altro ancora: ogni cliente può attuare la sua scelta, che viene realizzata su misura. È qui che lavora Saskia: le sue cuciture, che legano le scarpe con migliaia di punti minuscoli, sono davvero raffinatissime. «Per descrivere le calzature che nascono in questo laboratorio io amo dire che la forma è quella elegante delle scarpe italiane, la tecnica è quella della tradizione inglese, mentre la funzionalità delle suole interne, con un leggero supporto che aiuta a camminare bene, è tipicamente tedesca.» In questo atelier è possibile seguire dei corsi per apprendere l’arte di confezionare le scarpe: non è necessario avere un attestato, chiunque purché dotato di manualità e passione può accedere. Saskia modula a seconda delle richieste la durata. In genere il corso base dura un mese o poco più.

© Dario Garofalo per Venezia su Misura

Cattedra di bellezza di

Bellezza italiana e cultura del progetto: elementi essenziali dell’ “Homo Faber” di nuova generazione. Talento, genio creativo e tradizioni si fondono con savoir-faire, artigianalità e innovazione. La bellezza si trasforma in mestieri e in storie di successo.

creatività, innovazione, interpretazione, originalità, talento, territorialità, tradizione. Ogni elemento viene analizzato e definito per comprenderne il significato artistico, culturale e progettuale, al fine di comprendere come questo “codice” sia un vantaggio competitivo che contribuisce a rendere una creazione attraente, desiderabile e di successo.

Dal 2015 il Politecnico di Milano ospita una particolare materia, proposta tra i corsi a scelta degli studenti della facoltà di Design: Mestieri d’arte e Bellezza italiana. Fortemente voluta dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte e affidata ad Alberto Cavalli, la Cattedra ha per finalità quella di instillare nelle giovani menti del nuovo millennio la capacità di riconoscere e rigenerare continuamente il DNA della bellezza italiana, attraverso un percorso di senso. “Senso” così come inteso dal filosofo François Cheng: il bello è infatti autentico quando manifesta una direzione al bene, all’evoluzione costruttiva dell’essere umano e non alla sua distruzione, allo smarrimento; quando è portatore di significato, quando è frutto di un progetto maturo e consapevole; quando colpisce i sensi, perché impressionando l’emozione diventa parte indelebile e profonda dell’uomo. Direzione, significato e sensazione sono il senso complesso di una bellezza di cui l’Italia è portatrice da secoli e dalla quale è possibile trarre un paradigma articolato che ne orienti il riconoscimento da parte dei giovani designers. Riconoscere ed evitare il banale, uscire dalla produzione del superfluo, crescere, formarsi e riconoscersi in ciò che ha valore e infonderlo nella propria creatività, nell’espressione originale della propria, autentica vocazione è il principale obiettivo di un corso che mira a formare le nuove generazioni di “Homo Faber”, ovvero: progettisti consapevoli, formalizzatori della bellezza italiana del domani attraverso la cultura del progetto.

La bellezza italiana viene dunque presentata e studiata come un vero e proprio codice genetico articolato intorno ad alcuni fattori imprescindibili: artigianalità, autenticità, competenza,

La bellezza italiana, infatti, è una componente essenziale della creatività legata all’eccellenza, che nel nostro Paese ha una lunga e prestigiosa storia: ma questa bellezza, lungi dall’essere solo una componente estetica e superficiale, si costruisce e si nutre di lavoro, impegno, tradizione e territorio, arte e mestiere. Diventa ulteriore espressione di un talento e di un’etica, oltre che di un’estetica, che caratterizza l’eccellenza della produzione italiana, e che non può fare a meno dei mestieri d’arte (di tradizione o di nuova generazione) che sono legati al territorio. E che dall’arte, dalla storia e dalla bellezza stessa dei territori traggono forza e identità, in un ideale circolo virtuoso. Comprendere come decodificare la “costruzione” di questa bellezza significa riconoscere nel patrimonio materiale e immateriale italiano un’infinita fonte di ispirazione non solo creativa, ma anche professionale e progettuale.

Per meglio legare il concetto di bellezza a quello di lavoro, cultura e ricerca, le lezioni vengono organizzate in numerosi luoghi significativi della città di Milano – il Museo Poldi Pezzoli, la Palazzina Appiani, la Biblioteca Trivulziana, l’Atelier della Compagnia Marionettistica Carlo Colla & Figli, la Galleria d’Arte Moderna… Ogni lezione è inoltre arricchita dalla testimonianza diretta di esperti come Maurizio di Robilant, Ugo La Pietra, Stefano Micelli, Isabella Villafranca Soissons, Sara Ricciardi, Zanellato/Bortotto, Paolo Ferrarini: ogni incontro con questi maestri aiuta gli studenti a comprendere come la bellezza italiana sia integrabile alla loro capacità progettuale e alle loro scelte di vita. E sia necessaria per permettere loro di trovare un proprio linguaggio formale, rispettoso e interlocutorio rispetto alla bellezza che serve loro da ispirazione. Al principio e alla fine di ogni lezione e dell’intero corso, la domanda che gli studenti pongono a se stessi è quella che Pasolini incastona nel cuore de La recessione, una delle sue liriche più belle: «una domanda che non è di soldi, ma è solo d’amore, soltanto

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d’amore». Per sé, per il proprio Paese, per il proprio destino. Una domanda alla quale risponde bene Massimo Cacciari, tracciando l’ideale continuum tra la mano e la mente che dal Rinascimento giunge sino a noi: «Per bene vivere occorrono industria, consiglio, arte, ma anche mani, piedi e nervi: le ragioni del corpo devono allearsi con quelle della diligenza, della sollecitudine, della cura, per sfidare fato e fortuna. Se anche l’uomo avesse il doppio dell’ingegno e non avesse la mano, ’organo degli organi’, non esisterebbero dottrine, edifici e città.» Ovvero, non esiterebbe il design. E forse, neanche la bellezza. •

QUI: “Il Sogno del Cavaliere” di Raffaello è l’immagine con cui, ogni anno, si apre il corso di Bellezza Italiana presso il Politecnico di Milano. Il giovane condottiero che sogna la sua gloria futura, sotto un albero di alloro, è affiancato da due figure che simboleggiano lo studio, l’impegno e l’abnegazione da una parte; lo splendore, il piacere e la grazia dall’altra. Tutti i doni offerti al giovane sono necessari, perché queste sono le qualità di cui hanno bisogno i creatori di meraviglie del futuro: competenza nel creare e felicità nel fare. Foto: Copyright The National Gallery, London/Scala, Firenze.

31 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

La bottega DEI SOGNI

Nel cuore dell’Umbria, Stefano Conticelli crea capolavori raffinati e inediti utilizzando materiali naturali come cuoio, legno, iuta e ferro. Un autentico universo creativo che trae ispirazione dall’immaginario dei bambini, artefici del bello secondo l’artista-artigiano.

[autenticità]

Camioncino, legno e tela grezza, 1999. L’opera ha una strettissima connessione con il punto IV del Decalogo Conticelli : “Guarda i bambini, i loro gesti, il loro sguardo. Loro sono maestri del bello, tu sarai sempre un allievo”. Foto: Serena Eller Vainicher.

La bellezza, per essere autentica, deve avere senso: lo scrive il filosofo François Cheng, nelle sue “Cinque meditazioni sulla bellezza”. E senso significa sensazione, significato e direzione. Nella produzione artigianale di Stefano Conticelli ritroviamo tutte e tre queste dimensioni. Le sensazioni che nascono dall’accarezzare il cuoio, la pelle, i tessuti che vengono lavorati nella sua bottega di Castel Giorgio nei pressi di Orvieto, in Umbria. Il significato profondo che esprime ogni suo oggetto, pensato per suscitare ricordi, passioni e sogni. E infine la direzione: il talento di Stefano si muove verso la definizione di un mondo più umano, più bello, più a misura d’uomo. O di bambino. Si percepisce subito l’autenticità di quest’uomo schivo, che sa coniugare abilità manuale e talento progettuale restituendo l’anima a una produzione che è espressione del suo sentire, oltre che testimonianza di un territorio, di una cultura, nel cuore verde dell’Italia. Sospesa in un “tempo senza fine”, la sua bottega è un luogo di sperimentazione, dove a contare non è la grande produzione ma l’autenticità e l’unicità dei gesti della mano. E nulla di diverso ci si può aspettare da un Maestro d’arte che sente la necessità di mettere per iscritto il decalogo che riassume la sua visione del valore del lavoro e della vita: come al punto IV di questo decalogo, in cui Stefano invita a guardare i bambini, i

loro gesti, il loro sguardo, perché “loro sono maestri del bello, tu sarai sempre un allievo”.

La rinascita di Stefano Conticelli come artigiano, l’autenticità della sua ispirazione, origina proprio dal mondo dei sogni e dell’infanzia: da un modellino di camioncino in legno povero, realizzato con i passoni delle vigne, con le ruote rivestite in cuoio e rigorosamente fatto a mano (con la capote di tela grezza con la scritta “Tommy Trasporti Palermo-Roma-NapoliMilano-Venezia-Torino”) regalato al nipote Tommaso per il suo compleanno, prendono infatti vita i suoi famosi camioncini, inizio di un lungo viaggio che lo ha portato nelle migliori aziende e nelle case delle famiglie più prestigiose. Veri e propri “pionieri” quelli realizzati per Loro Piana, esemplari unici destinati alle boutique con la scritta “Loro Piana Attenzione Trasporto Cachemire”. Una “rivoluzione” apparentemente semplice ma sostanzialmente eccezionale: un oggetto dell’infanzia muoveva i sentimenti più puri di un bambino e trasmetteva messaggi di primitiva bellezza ai più grandi, in modo autonomo, esprimendo il talento in maniera libera e profonda, come solo l’autenticità sa fare.

Bottega Conticelli nasce nel 2007 e quello che colpisce entrando nel laboratorio, a Castel Giorgio – qua e là i

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PAGINA ACCANTO: SportCar 58 , legno di castagno e selleria in cuoio rosso, 2005. «Un viaggio meraviglioso con i capelli al vento», come ricorda lo stesso Stefano Conticelli.

Foto: Serena Eller Vainicher.

IN ALTO: Bottega Conticelli propone ’giochi e buon umore’ a regola d’arte: si riconoscono, tra gli altri, la dama in cachemire, le linee segnatempo in cuoio pieno, e il domino in camoscio con pedine in cuoio sandwich.

Foto: Serena Eller Vainicher.

A DESTRA: Stefano Conticelli durante la sua partecipazione a Piazza di Siena 2019, a Villa Borghese (Roma), con l’iconico cavallo a dondolo.

Foto: Tommy Della Frana.

35 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

QUI: Vespa, rivestimento in cuoio naturale, 2013. “Nuove Atmosfere di Scuderia” è il progetto con cui Stefano Conticelli partecipa alla Triennale Design Week di Milano.

Foto: Serena Eller Vainicher.

PAGINA ACCANTO: Matt27 Reverso e Classic , cuoio naturale conciato al vegetale, 2018. Questi due manufatti ci insegnano che “Cambiare un punto di vista è sempre una sorpresa”. Foto: Serena Eller Vainicher.

preziosissimi disegni preparatori, essi stessi opere d’arte – non è l’oggetto singolo, ma il mondo che ti si apre davanti, un evanescente emisfero dove tutto è magia. Salire in sella alla mitica Vespa Conticelli significa sperimentare un vero e proprio chef d’oeuvre, le cui linee e forme sono vestite e personalizzate dalla sapiente maestria di Stefano nel trattare il cuoio (quello naturale a concia vegetale, il metodo più rispettoso per l’ambiente): un savoir-faire così prezioso che si traduce in mesi di lavorazione, dalla messa in forma della pelle alla consegna finale dell’iconico mezzo a due ruote in limitatissime edizioni. «Per realizzare la prima Vespa ho impiegato sei mesi tra incolla, taglia, scolla e cuci. Servono la forza del martello e la dolcezza dell’acqua per aprire i pori del cuoio, e il sole e la tramontana per asciugare la pelle», spiega come un fiume in piena, raccontando l’orgoglio di aver portato questa creazione in luoghi destinati all’arte e al design come la Triennale a Milano, Homo Faber a Venezia e Le cabinet des curiosités a Parigi e Bangkok. L’alto artigianato di Bottega Conticelli si traduce in una autenticità che si ritrova nello sforzo creativo dell’artistaartigiano, prende le distanze dall’imitazione e dalla produzione di massa, mantenendo il carattere di unicità e autenticità nelle tecniche, nelle lavorazioni, nell’uso dei materiali, nella

sensibilità estetica di Stefano Conticelli, oggi a capo di un piccolo team di “mani intelligenti”.

Storie inedite e prodotti d’eccellenza per una committenza esclusiva: oltre alle Vespe, ci sono le personalizzazioni delle bici a cui dedica il progetto PedalandoForte a Forte dei Marmi (l’idea di ricoprire di cuoio il mezzo ecologico per eccellenza nasce dalla selleria e recupera l’antica tradizione toscana), borse, arredi per la casa (come i bauli impreziositi da angoliere, cerniere e serrature fatte a mano da un abile artigiano italiano dei metalli) e per il tempo libero. E naturalmente i cavalli, passione viscerale di Stefano, che rappresentano una dimensione “viva” nella sua produzione: dalle sculture eseguite per l’installazione Cheval Résonnant presentate allo CSIO di Roma, a Piazza di Siena, al cavallo a dondolo nel logo di Bottega Conticelli Selleria, impresso su pelle, suo inimitabile marchio di autenticità. Per padroneggiare materiali come la pelle, i tessuti, la lana, la juta e il legno c’è bisogno di un know-how ben definito perché ogni “sogno” per essere tale necessita dell’autenticità.

Evoluzione quasi naturale della Bottega è oggi l’apertura del nuovo spazio espositivo al piano terra di Palazzo Bracci, nel cuore medievale della città di Orvieto. Un invito a mettersi in viaggio, per scoprire l’autentica bellezza made in Conticelli. •

37 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

PAGINA ACCANTO:

Pinocchio, legno di rovere e cuoio, 2019. L’opera è “uno sguardo oltremareoltrecielo”, dedicato al filosofo e drammaturgo Carmelo Bene. Foto: Serena Eller Vainicher.

QUI: Isabelle, legno, feltro e cuoio naturale, 2012. L’inimitabile icona di Bottega Conticelli “dondola” su una delle più recenti creazioni, il Baule dei sogni, realizzato per il resort Villa Passalacqua, sul lago di Como, nel 2022. Foto: Francesco Marano.

Il suono del talento

Nicoletta Caraceni continua la lunga tradizione artigianale della rinomata dinastia di sarti Caraceni che ha vestito diplomatici, dignitari e celebrità. Una missione portata avanti con tenacia da una donna determinata a tenere alto lo stendardo dell’eccellenza su misura.

Fotografie di Dario Garofalo per Italia su Misura

«Senta, senta come suona». Nicoletta Caraceni, figlia di Ferdinando, sarto di industriali e intelligencija milanese ultimo terzo di secolo, prende tra le mani due tagli di tessuto all’apparenza identici e li fa appunto suonare, piegandoli e poi tendendoli tra pollici e indici. «Questo ha un suono pieno, questo è vuoto. Fu una delle prime cose che papà mi insegnò: “Nicoletta, ricordati che i tessuti cantano, impara ad ascoltarli”. E così, ancora oggi, li faccio cantare per capire qual è quello giusto».

Papà è una parola che si rincorre nel racconto di Nicoletta, perché la sua è una storia di amore filiale profondo. Questa donna volitiva che è riuscita a imporsi in un mondo maschile in cui nessuno, a eccezione del padre, sembrava credere in lei, non nasconde la devozione, l’ammirazione, la riconoscenza verso quell’uomo partito da Ortona ragazzino in cerca di fortuna. «Entrato in sartoria bambino, a 16 anni papà era già

un sarto finito. Salì dunque a Milano, dove ad attenderlo c’era Domenico Caraceni, stesso cognome ma una vaga parentela. Caraceni era diventato il più grande dell’epoca inventandosi uno stile che univa la tradizione partenopea con la sartoria inglese, i cui segreti aveva appreso scucendo e rammendando gli abiti che il compositore ortonese Francesco Paolo Tosti, Maestro di canto alla corte della regina Vittoria, regalava ai parenti quando da Londra ritornava in Abruzzo». Ferdinando osserva e impara, ma nel 1943 deve partire per la guerra. Qui la storia assume i contorni del romanzo: dopo l’armistizio, i tedeschi lo fanno prigioniero e lo chiudono in un campo di prigionia da cui lui scappa offrendosi volontario per spegnere un incendio. Rinserrato per settimane in una cantina di Berlino, viene trovato dai russi, che anziché rispedirlo in Italia lo fanno salire su un treno in direzione est da cui lui riesce nuovamente a fuggire grazie a un compagno che si accorge

[artiginalità]

Nicoletta Caraceni, subentrata alla guida dell’atelier fondato dal padre Ferdinando alla fine degli Anni Sessanta, ha saputo portare avanti la fama della prestigiosa sartoria maschile mantenendo inalterato lo spirito di esclusività: ogni anno vengono realizzati solo 350 completi.

dell’inganno guardando le stelle. «Fu in quell’occasione che papà capì l’importanza di una buona istruzione, un punto su cui ha sempre insistito con me e mia sorella». E Nicoletta in effetti studia, laureandosi in Lingue e Letterature straniere alla Cattolica di Milano, dove inizia anche un percorso come assistente. Ma poi… «Poi l’atelier ha avuto la meglio. D’altra parte qui ci sono cresciuta. Il sabato e la domenica seguivo papà in sartoria anche se ogni volta speravo mi portasse alle giostre. Sono venuta su circondata dai tessuti e dal loro canto, guardando papà lavorare, assorbendo per osmosi, anche se all’inizio non consideravo affatto l’idea di intraprendere questo mestiere. Fino a una certa età non mi rendevo neppure conto di cosa stava costruendo mio padre, che per me faceva un lavoro come un altro. La mia percezione cambiò quando mi portò a Parigi per consegnare alcuni abiti a dei clienti. Facemmo il giro di case faraoniche, di fronte a me si presentarono nomi da leggenda: Hélène Rochas, Nicola Caracciolo, Yves Saint Laurent. A casa di quest’ultimo ci fecero accomodare in un salotto, alle pareti un ritratto di Andy Warhol, opere d’arte ovunque. Mi sentivo sopraffatta

dalla bellezza, poi lo stilista entrò nella stanza e abbracciando papà gli disse: “Bonjour Maestro!”. Saint Laurent, il numero uno della moda, stava chiamando mio padre Maestro». Se è troppo tardi per imparare a tagliare e cucire, Nicoletta fa suoi tutti i segreti della sala prova: le differenze di tono, peso e materiale dei tessuti, le diverse lavorazioni, l’arte fondamentale di capire il cliente e come servirlo, anticiparne i bisogni, guidarlo nella scelta di un capo destinato ad accompagnarlo negli anni, oltre ogni fugacità della moda. Nel 2004, alla morte di Ferdinando, la figlia predestinata decide di andare avanti resistendo agli squali che le si stringono intorno. «La sartoria di papà faceva gola a molti, qualcuno mi disse apertamente che dovevo vendere, che non ce l’avrei mai fatta, che quello non era un mestiere da donne. Ma più mi provocavano, più la sfida mi sembrava innovativa, stimolante, femminista. Vent’anni dopo sono ancora qui, a portare avanti una tradizione nel nome di papà: i tessuti e le tecniche di lavorazione sono ancora quelli che usava lui, tutto qui è fatto a mano da noi, dalle trapuntature interne alle spalline. Non sa quante volte mi hanno chiesto di aprire

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un corner a New York, di aumentare la produzione, ma la mia risposta è sempre la stessa: no, grazie. Realizziamo un massimo di 350 vestiti l’anno, oltre questa cifra non sarei più in grado di garantire la qualità che ha fatto la fama di papà. “Devi lavorare per tenere alto il nome Caraceni, non sarà il nome Caraceni a lavorare per te”, mi ripeteva sempre». Diventare più grandi, produrre di più, continua a spiegare Nicoletta, significherebbe non riuscire a seguire da vicino chi lavora in bottega, a guidarli e a stabilire con loro una giusta dimensione professionale e umana. «In sartoria ci sono al massimo dieci persone, tra cui alcuni giovani che dopo aver fatto con noi il tirocinio formativo finanziato da Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte ho deciso di assumere. A chi viene a lavorare qui spiego di avere pazienza, di non aver paura di sbagliare, perché questo è un mestiere che si apprende facendo e disfacendo. Una volta un cliente chiese a papà, già ottantenne, se non si fosse stancato di venire in bottega ogni giorno. Lui lo guardò e rispose: “Come posso stancarmi se c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare?”». •

PAGINA ACCANTO: Tutte le fasi di lavorazione vengono effettuate interamente a mano all’interno dell’atelier. «Mi hanno proposto più volte di espandermi, ma ho sempre rifiutato. Voglio il controllo su ogni aspetto della produzione».

IN ALTO: Una sarta al lavoro. Negli anni, la Sartoria Ferdinando Caraceni ha sostenuto attivamente il programma “Una Scuola, un Lavoro” di Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte dando la possibilità a diversi giovani di effettuare un tirocinio formativo.

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Un suggestivo scorcio della sartoria, che si trova ancora oggi negli stessi locali milanesi in cui Ferdinando aprì la sua bottega dopo essere stato a lungo impiegato da altri due celeberrimi Caraceni, Domenico e Augusto. Parenti alla lontana, i tre grandi sarti provenivano da Ortona (CH).

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45 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

LA CARTA vincente

di Stefania Montani

Il Design Lab di San Patrignano ospita un’officina di carte da parati d’eccellenza. Creazioni nate dalla rinascita interiore di giovani talentuosi che testimoniano la nobiltà del lavoro manuale come antidoto al disagio.

PAGINA ACCANTO: Motivo a ramages , cineseria realizzata con tecnica sac à poche Foto: Margherita Cenni, servizio di Paola Carimati per Elle Decor Italia.

QUI: Decorazione su lino tessuto a mano, utilizzato per tende o, se accoppiato con fibra di vetro, usato come decoro murario. Foto: Margherita Cenni, servizio di Paola Carimati per Elle Decor Italia.

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[competenza]

Impiegare il proprio talento nell’attività manuale e nella creatività, sotto la guida di maestri artigiani, per trasformare le proprie fragilità in una nuova opportunità di vita. E acquisire fiducia in sé stessi. Su queste basi è nato il grandioso progetto di Vincenzo Muccioli, visionario imprenditore che alla fine degli anni Settanta ha dato vita alla Comunità di San Patrignano. Oggi, a quarant’anni di distanza, i laboratori artigiani cresciuti all’interno della Comunità sono diventati delle vere eccellenze riconosciute a livello internazionale.

«Il Design Lab è l’insieme dei laboratori di alto artigianato di San Patrignano che comprende il laboratorio di tessitura, di pelletteria, di falegnameria, della lavorazione dei metalli e della carta da parati,» ci racconta Luca Giunta, responsabile commerciale di SanPa. «Oggi nei laboratori lavorano circa 200 giovani. In oltre 40 anni San Patrignano ha accolto 26mila ragazzi e ragazze e sono oltre 1000 quelli attualmente in percorso nella nostra comunità.»

Uno dei fiori all’occhiello è il Laboratorio di Carta da Parati,

una straordinaria realtà che realizza, progetta e produce per grandi architetti e designer quali Peter Marino a New York, Michael Smith a Los Angeles, Thomas Hamel in Australia, Paolo Moschino a Londra, Piero Castellini Baldissera a Milano... Il responsabile di San Patrignano Design Lab è Sandro Pieri, che segue anche tutte le fasi della produzione delle carte. «Tutto nacque quando Renzo Mongiardino, grande architetto e uomo di straordinario gusto, fu portato a San Patrignano dalla famiglia Moratti, da sempre generosamente impegnata nel sostegno a questa realtà, con un gruppo di artigiani eccellenti che, oltre a realizzare i decori per l’abitazione del fondatore, insegnarono ai ragazzi le tecniche facendo loro un vero apprendistato. Erano gli anni Ottanta: i giovani di allora sono i maestri di oggi. Anch’io ero fra quelli,» confida Sandro, che ha provato in prima persona tutte le fasi del disagio e della rinascita.

Alle pareti del vasto capannone luminoso, attrezzato con lunghi tavoli, sono appese ad asciugare le carte che di volta in

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PAGINA ACCANTO: La preparazione dell’ordito su un telaio nel settore Tessitura. I telai ispirati a quelli dell’Ottocento sono stati realizzati nell’ebanisteria di San Patrignano.

Foto: Gabriele Bertoni.

QUI: Durante il lock down sono state ritrovate, nel vasto archivio del settore Decorazioni Artistiche, delle tessere originali, commissionate da Renzo Mongiardino. I ragazzi del laboratorio hanno pertanto riprodotto il paravento

originale, accettando l’invito di Fondazione Cologni a partecipare all’evento del Salone del Mobile Doppia Firma 2022. Foto: Studio Leon.

volta vengono realizzate: alcune sono nate dalla fantasia dei ragazzi del laboratorio, altre commissionate da grandi marchi dell’interior design.

«Qui i ragazzi interpretano a mano il pensiero dell’architetto,» ci spiega. «Una volta nato il campione, si lavora con lo stencil, con la serigrafia, o con la pittura a mano libera, a olio o acquerello. I modelli spaziano dai disegni contemporanei a quelli classici, dalla riproduzione delle piastrelle portoghesi o napoletane ai motivi geometrici, dai decori floreali a quelli che ricordano la raffinatezza di Mongiardino, fino alle riproduzioni dei tessuti. Abbiamo un grandissimo archivio, custodito in tante cassettiere: sarebbe bello riuscire ad allestire una mostra permanente, con tutti i prototipi, per poterli mostrare agli studenti che vengono ogni anno a visitare i nostri laboratori.»

Il segreto dell’alta qualità delle loro carte sta anche nell’organizzazione della struttura che riproduce un po’ quella familiare, ovvero del passaggio generazionale, con la trasmissione del testimone, dopo 3-4 anni di tirocinio.

«Imparare al meglio una professione è una grande opportunità che offre la Comunità di San Patrignano non solo come antidoto alle dipendenze, ma anche come aiuto a chi è alla ricerca di un futuro, a chi si sente disabituato alla vita,» continua Sandro Pieri. «È attraverso il lavoro quotidiano che ogni ragazzo può mettersi in gioco affrontando i propri limiti e scoprendo o ritrovando le proprie potenzialità. Con perseveranza. Nei mestieri d’arte, la competenza richiede una conoscenza teorica e pratica dei materiali, delle tecniche, nonché delle regole e delle consuetudini rigorose. I ragazzi di SanPa rappresentano una “competenza” che non è solo tecnicismo, ma è anche empatia, talento, impegno personale per migliorare; e soprattutto, è una formazione che permette loro di riprendere in mano le redini della loro vita. Certo l’impegno è notevole, ma se la mattina ci si sveglia con la voglia di fare quel tipo di lavoro, allora, anche se la fatica è grande, la battaglia è già vinta!» conclude Sandro. «Siamo fieri di questo progetto, perché l’artigianato salva i nostri ragazzi

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e i nostri ragazzi salvano l’artigianato.» Recentemente è stato affiancato al lavoro manuale anche un corso per informatizzare l’artigianato. «Vogliamo sempre lavorare con le mani, perché è terapeutico. Ma vogliamo far sì che i ragazzi sappiano anche confrontarsi con la tecnologia: ad esempio per creare rendering con i programmi che vengono dagli architetti e per confrontarsi con il progetto contemporaneo.»

Da alcuni anni, oltre a realizzare ed elaborare i disegni suggeriti dagli architetti e designer, il Laboratorio è incaricato di studiare dei progetti per grandi studi di interni. Tra questi le vetrine di Bulgari in tutto il mondo. Una bella soddisfazione per questi giovani artigiani di eccellenza, e una grande speranza realizzata.

Se è vero che la bellezza salverà il mondo, come crediamo, San Patrignano e i suoi giovani talenti ne sono l’esempio più straordinario e toccante: una realtà d’eccellenza e passione che è anche stata e sarà per tanti la stella di Eärendil di Tolkien: una luce nel buio, quando ogni altra luce si spegne. •

PAGINA ACCANTO: I ragazzi all’interno del settore Decorazioni Artistiche.

Foto: Margherita Cenni, servizio di Paola Carimati per Elle Decor Italia.

QUI: Una carta da archivio storico. Designer di fama internazionale visitano la comunità e chiedono di visionare l’archivio per ispirare i propri progetti di interior. La comunità è alla ricerca di partners per valorizzare questo patrimonio di esperienze.

Foto: Margherita Cenni, servizio di Paola Carimati per Elle Decor Italia.

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Nel laboratorio della lavorazione dei metalli si perfezionano gli ancoraggi dell’arazzo che ha decorato il palazzo di Giardino Corsini nell’ultima edizione di Artigianato e Palazzo (Firenze).

Foto: Margherita Cenni, servizio di Paola Carimati per Elle Decor Italia.

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Meraviglie per la testa

Francesco Ballestrazzi è un artista rigorosamente solitario, un visionario passionale che crea “oggetti da testa” raffinati e fantasiosi, tratto inconfondibile di uno stile tutt’altro che prevedibile e pieno di gioia.

[creatività]

Francesco Ballestrazzi al lavoro nel suo studio nel quartiere di Brera, a Milano, si concentra sulla creazione di una testa di gatto in velluto che verrà applicata a uno dei sui famosi baseball cap Foto: Pietro Lucerni per Michelangelo Foundation.

“Cappellini”. Non c’è parola che Francesco Ballestrazzi detesti in misura maggiore. Insignito, da parte della Fondazione Cologni, del riconoscimento di Maestro d’Arte e Mestiere, ha compiuto un percorso così variegato, lungo e complesso da approdare a volatili sculture cerebrali, “pensieri concreti” come appena fuoriusciti dal capo, ludici complementi del corpo di cui proteggono le idee, che chiamarli “cappellini” – come gli è stato chiesto da un prestigioso department store australiano –, gli è sembrata una diminuzione non solo dell’oggetto, ma del suo stesso estro.

Quarant’anni, nato a Carpi ma di vocazione giramondo, ha la quieta combattività di chi affronta la vita con leggerezza calviniana, cercando di ricavarne ogni volta una bella esperienza. È uno dei pochi a portare avanti in Italia la tradizione dei milliner, cioè quei creatori che, attraverso “oggetti da testa” di grande effetto e di potente spettacolarità «riescono a esprimere sé stessi. Pensi, ho iniziato facendo il ballerino di danza contemporanea, dove parlavo con il corpo.

Poi, un incidente alle caviglie ha stroncato quella carriera ma ne ha fatto nascere un’altra, dove parlo con le mani.» Non senza una punta di civetteria, lui si definisce “modista”: una farfalla dalle ali di seta si è posata, per sempre, su un cerchietto a impollinare pensieri. Le piume, ritagliate una per una nella seta, di un pappagallo tropicale compongono un casco di variopinta leggerezza. Ghirlande fragili e sostenute sono lì, pronte a incorniciare il volto. Lunghe piume vintage trafiggono la struttura Bauhaus di toque destrutturate. Sono esempi di quella «creatività, ovvero la capacità di concepire idee e prodotti nuovi, che ci permette di distinguere un artigiano da un Maestro, un oggetto da un capolavoro, una semplice mansione da una competenza radicata. Nei mestieri d’arte la creatività è una forza dinamica, una mescolanza di visione, passione e competenze eccezionali», come scrive Alberto Cavalli con Giuditta Comerci e Giovanna Marchello ne Il talento del mestiere per la Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, che poi lo ha convocato all’ultima edizione di “Homo Faber”, «un sogno realizzato».

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PAGINA ACCANTO:

Francesco Ballestrazzi

mostra live alcune fasi di lavorazione durante l’evento “Homo Faber” (Venezia, aprile 2022)

nella sala “Next of Europe”, curata da Jean Blanchaert e Stefano Boeri. Foto: Ginevra Formentini per Michelangelo Foundation.

QUI: Copricapo Queen

Bee, composto da due api realizzate con nastri in seta e piume, ali interamente ricamate a mano su tulle di seta.

Foto: Elena Datrino.

Siamo a Milano, nel suo atelier in via dell’Orso, dove troneggia con la calma apparente e studiata di chi ha tutto il tempo del mondo, mentre ha miliardi di impegni da assolvere. Il punto è che, oltre ai suoi umani affetti, ciò che ama di più non è il favoloso e rutilante fashion system con le sue tempistiche demenziali, ma il fare le cose da solo: non ha neanche un assistente. Dunque, ama confezionare ogni modello con tutto il tempo che ci vuole, in un atto che ha del rivoluzionario: rifuggire dalla folle velocità di ricambio dei “prodotti” (altra parola che detesta), anche se appartenenti ad alti sistemi culturali, estetici o artistici, in nome di una pazienza che riporta alla mente la frase di Gustave Flaubert «il talento è una lunga pazienza».

Nel suo caso, poi, oltre alla pazienza c’è stata grande curiosità e molta umiltà: anni di apprendistato prima da Alexander McQueen e poi da Moschino, dove ha chiesto di imparare tutto da zero, lo portano a poter essere un creativo-fattivo, che immagina e porta a termine ogni progetto. «Ho da sempre questo dono,

che avverto come una benevola schizofrenia: da un lato, mi abbandono alle fantasticherie, dall’altro mi appare evidente – come in una subitanea rivelazione – il modo in cui posso o potrei realizzarli fattivamente.» Nel 2011 nasce la Francesco Ballestrazzi Hats & Creations, a cui ora si è aggiunta la dicitura Artisanal a sottolineare la manualità insita in ogni copricapo, «anche nei berretti con la visiera che hanno avuto un grande successo in Giappone, dove però mi hanno contestato alcune impercettibili imprecisioni che sono insite nella lavorazioni a mano.» Peccato non sia stato compreso, perché come scriveva John Ruskin, pensatore del XIX secolo che catturò alcuni dei concetti fondamentali del movimento Arts and Crafts, nel libro I sassi di Venezia, «nessuna opera buona può essere perfetta e l’esigenza della perfezione è sempre segno di un malinteso dei fini dell’arte.» E così anche l’imperfezione per Francesco Ballestrazzi fa sì che da ogni ostacolo tragga un insegnamento per risolvere problemi e superare limiti imposti dai materiali, dalle funzioni e dai desideri dei clienti. •

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PAGINA ACCANTO: Francesco Ballestrazzi alle prese con la modellazione di piume d’oca. Foto: Pietro Lucerni per Michelangelo Foundation.

QUI: Cappello in feltro a tesa larga, ricoperto di piume multicolori tinte a mano. Foto: Elena Datrino.

QUI: Cappello in feltro di lapin con applicazioni che ricreano le piume di un paio d’ali.

Foto: Elena Datrino.

PAGINA ACCANTO: Copricapo con ali di Ara Macao realizzato con piume in raso di seta multicolore.

Foto: Elena Datrino.

Giovane allieva restauratrice impegnata nell’intervento su un manufatto tessile presso la Scuola di Alta Formazione e Studio di Venaria Reale (Torino), uno dei poli di eccellenza del restauro e della conservazione in Italia, il cui primato in questo campo è riconosciuto nel mondo.
di sola
IL GRANDE SAPER FARE E I SUOI CUSTODI [formazione]
Non
arte… vive l’Italia

Diffusione del sapere, tutela del patrimonio e delle tradizioni, innovazione. In Italia le scuole di mestieri d’arte sono numerose. Realtà essenziali per la formazione delle nuove generazioni di maestri d’arte e artigiani, all’insegna del rinnovamento.

di Alessandra de Nitto

Fotografie di Laila Pozzo da La regola del talento. Scuole italiane di eccellenza a cura di Fondazione Cologni, Marsilio Editori, 2014

Non è una strada facile, quella del mestiere d’arte, ma certo una dimensione in cui si ripropone il ruolo dell’abilità e della perizia, la forza dell’esperienza, il forte primato dell’individuo, lo stupore dell’aura, il mistero del bello, la felicità della competizione.

L’Italia fucina di Bellezza, museo a cielo aperto: nessun altro territorio al mondo certamente può vantare una tale concentrazione di tesori d’arte straordinari, e su questo si fonda, lo sappiamo, l’intenso fascino e la grande attrattiva del nostro Paese, amatissimo oggetto del desiderio in tutto il mondo. Ma non soltanto: sempre più viene scoperto, apprezzato e amato da chi visita l’Italia, spesso più che dagli stessi italiani, bisogna dirlo, anche il suo ineguagliabile patrimonio di saperi legati all’alto artigianato, che investe tutti i territori della nostra Penisola rendendola una vera miniera di un saper fare magistrale, legato ai territori, alle

materie prime, alle tradizioni storiche dei luoghi. Questa multiforme ricchezza va preservata, diffusa e tutelata come parte integrante della “grande Bellezza” italiana. Sentinelle del patrimonio sono le molte Scuole di eccellenza presenti sul nostro territorio, garanti della trasmissione dei saperi alle nuove generazioni. A questi Istituti, che spesso vantano una storia secolare, è demandato il ruolo straordinario e il compito non facile di tenere in vita e trasmettere competenze uniche, una necessità fondamentale anche per il sistema economico e produttivo del nostro Paese.

La tradizione è vitale e in continua evoluzione in tutti i settori dell’alto artigianato: dal mosaico (Scuola Mosaicisti del Friuli di Spilimbergo) al vetro (Scuola del Vetro Abate Zanetti di Murano) alla ceramica (con gli storici istituti d’arte di Faenza e Caltagirone); dall’oreficeria (Istituto d’Arte Pietro Selvatico di Padova) all’orologeria (Tarì Design School di Marcianise) all’incisione dei metalli (Scuola dell’Arte della Medaglia di Roma); dalla pelletteria (Alta Scuola di Pelletteria Italiana di Scandicci) alla calzatura (Politecnico Calzaturiero di Vigonza) alla sartoria (Scuola di Sartoria Nazareno Fonticoli

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— CESARE DE MICHELIS

di Penne); dai mestieri della scena teatrale (Accademia Teatro alla Scala di Milano) alla liuteria (Scuola Internazionale di Liuteria, Cremona), fino all’enogastronomia (Alma, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana a Colorno).

Fiore all’occhiello dell’Italia le quattro grandi Scuole di restauro di alta formazione, una specificità naturalmente legata al grande patrimonio artistico, e apprezzata in tutto il mondo, dove i restauratori italiani, noti per competenza e talento, sono chiamati a lavorare ai principali interventi di conservazione pubblici e privati: l’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, l’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario di Roma, l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, il Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale di Torino.

«L’esistenza di queste Scuole costituisce la più valida azione di tutela delle nostre tradizioni artistiche e artigianali e, in alcuni casi, l’unico argine alla perdita definitiva degli antichi saperi della creatività italiana,» scrive Giovanni Puglisi, Presidente Emerito della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco. Le tipologie formative sono variegate e testimoniano una

PAGINA ACCANTO: L’incisione del corallo, presso la Scuola dell’Arte della Medaglia a Roma, all’interno dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato: una scuola laboratorio unica al mondo, che nessun altro Paese ha all’interno della sua zecca.

QUI: Allievi restauratori della Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro: quando l’Italia fa scuola nel mondo e prepara eccellenze riconosciute.

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ricchezza e complessità preziose: vi si trovano istituti pubblici di rilevanza nazionale, scuole di formazione legate alla tradizione e al territorio, realtà volute da lungimiranti aziende private per tutelare e perpetuare un patrimonio culturale e produttivo che non deve andare perduto. In queste Scuole ogni giorno si celebrano i riti della bellezza fatta ad arte: qui direttori, presidi, coordinatori didattici, docenti, spesso destreggiandosi tra non poche difficoltà e non sufficienti riconoscimenti, si assumono quotidianamente la responsabilità di accogliere, motivare, preparare i giovani, plasmarne il talento attraverso la regola, la moralità e la disciplina del lavoro ben fatto, senza cui la più grande passione non porta a nulla. Scuole che non sono, come si potrebbe credere, templi o santuari del sapere ma luoghi vivi, fucine in cui il talento si coniuga ogni giorno con la perizia manuale, la tradizione si rinnova anche attraverso l’uso delle più avanzate tecnologie,

alleate preziose del saper fare, e dove l’insegnamento passa attraverso l’esempio e la pratica laboratoriale, secondo la lezione sempre vitale della bottega rinascimentale, che qui rivive felicemente.

Accanto a questi grandi esempi, sono molte le Scuole impegnate a diffondere e tutelare il sapere, offrendo ai giovani una prospettiva affascinante e praticabile di una formazione professionale basata sulla passione e sul talento. Di questa mappa rende preziosa e utile testimonianza il portale scuolemestieridarte.it, che rappresenta la prima directory di orientamento e informazione, con centinaia di indirizzi di scuole di arti e mestieri, distribuite in tutta Italia, facilmente accessibili a giovani interessati e curiosi, con abbastanza talento e coraggio per intraprendere un mestiere d’arte oggi. In molti casi, speriamo, i nostri maestri d’arte di domani. «Non vasi da riempire, ma fiaccole da accendere.» (Quintiliano) •

PAGINA ACCANTO: La salvaguardia del bene comune, presso la Scuola di Alta Formazione dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario.

A DESTRA: Piccoli grandi chef crescono, imparando l’arte presso ALMA, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana, fondata a Colorno da Gualtiero Marchesi: luogo di saper fare e di delizia.

SOTTO: Sulla Riviera del Brenta, cuore del distretto di eccellenza della calzatura, si apprende l’arte di costruire le più belle scarpe del mondo presso il Politecnico Calzaturiero di Vigonza (PD).

Custode di antichi saperi, fucina di nuove esperienze: è la storica Scuola dei Mosaicisti del Friuli, a Spilimbergo. Una realtà che dal 1922 forma i più grandi mosaicisti, celebri nel mondo, che hanno diffuso questa storica competenza portandola ai vertici dell’eccellenza.

QUI: Gorgiera dall’archivio dei costumi storici di Stefano Nicolao. Nell’atelier di Fondamenta della Misericordia la sartoria si compone di diverse stanze comunicanti, dedicate alla creazione di abiti e accessori e di un archivio di circa duecento pezzi autentici che vanno dalla fine del Cinquecento agli anni Sessanta del Novecento.

Foto: Susanna Pozzoli per Michelangelo Foundation.

PAGINA ACCANTO: Al secondo piano un repertorio stupefacente di oltre quindicimila costumi e accessori, realizzati per produzioni cinematografiche o liriche, che attendono di rivivere durante i fati del Carnevale veneziano.

Foto: Susanna Pozzoli per Michelangelo Foundation.

I costumi dell’anima

Stefano Nicolao, raffinato Maestro costumista veneziano, attinge alla propria sensibilità per tradurre in tagli, forme e colori le sue visioni. Mettendo in scena abiti da sogno, alternando l’anima di artista a quella di artigiano.

di Giovanna Marchello
[interpretazione]

L’interpretazione è uno dei fondamenti di ogni espressione artistica. Senza interpretazione, un brano musicale, un testo teatrale, un soggetto pittorico non si può manifestare in modo originale, generando nel pubblico emozioni sempre nuove e diverse. Come ci ricorda Alberto Cavalli ne Il valore del Mestiere, anche l’eccellenza artigiana non può prescindere dal concetto d’interpretazione: mentre interpreta, infatti, il Maestro artigiano plasma e dà un senso compiuto a un’idea, generando un oggetto che è al contempo bello, originale, personale e utile. Da 50 anni il Maestro costumista veneziano Stefano Nicolao è un interprete raffinato delle visioni dei registi, delle personalità degli attori e dei cantanti. Non esegue. Traduce una visione artistica in un costume che rappresenta un carattere, una sensazione, un’idea.

L’amore per l’arte germoglia presto nel giovane Nicolao, che a soli 13 anni si oppone ai genitori – lo volevano ragioniere – e riesce a iscriversi al liceo artistico. «Mi attirava l’ambiente. Avevo anche un’attitudine, mi piaceva disegnare e creare con le mani. Sentivo che non ero predisposto per la matematica, troppo razionale, fatta di postulati e regole, che una testa pazza come me non poteva seguire.» Una formazione che si

rivela essenziale alla sua futura carriera di costumista, insieme alla passione per il teatro. Durante gli anni del liceo, infatti, Nicolao comincia a fare la comparsa in Fenice. Si iscrive ad architettura, scenografia e costume, e si diletta a realizzare i costumi e dipingere le scene, anche dietro le quinte dei teatri dove viene ingaggiato come attore. Si ritrova così “a rubare con l’occhio” e capisce che quella è la sua strada. Arrivano i primi successi come attore – «Mi voleva Strehler per fare il Campiello» – e una carriera abbastanza importante anche in tv e radio. «Però mi mancava sempre lo stare dietro le quinte» ricorda. «Decisi che quello che volevo fare era il costumista, anche se i miei genitori non erano d’accordo. Mi dicevano che avrei fatto la fame.» Nicolao trova un posto come assistente di sartoria in un teatro di Trieste, sotto la direzione del Maestro Angelo Delle Piane. «Mi affiancò al suo lavoro di tagliatore, a seguire le prove. Come nelle botteghe rinascimentali, mi mostrava come dalle misure si può tracciare un costume.»

Alla fine degli anni Settanta, a 25 anni, subentra al suo vecchio maestro e dopo una serie di stagioni di successo viene chiamato da Enrico Sabbatini per curare, direttamente sulle pendici dell’Himalaya, una parte dello sceneggiato televisivo

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PAGINA ACCANTO: Madama Butterfly, costumista Omachi Shizuko, supervisor Stefano Nicolao, costumi realizzati da Nicolao

Atelier. Dopo il debutto alla Fondazione Teatro La Fenice di Venezia, l’opera è stata rappresentata in diversi teatri, tra cui l’Opera di Montecarlo, il Festival dell’Opera La Coruña, il Teatro Gallo-Romano di Sanxay. Foto: Courtesy Nicolao Atelier.

QUI: Costume in velluto broccato realizzato da Nicolao Atelier per la serenata La Gloria e Himeneo scritta nel 1725 da Antonio Vivaldi, andata in scena al Teatro Olimpico di Vicenza nel 2017. Foto: Susanna Pozzoli per Michelangelo Foundation.

A SINISTRA: Realizzazione dei costumi per l’inaugurazione della nuova gondola seicentesca, presentata alla Regata Storica di Venezia: Stefano Nicolao

all’opera nella preparazione di un abito ispirato all’incisione dell’editore Giacomo Franco (1550-1620).

Foto: Courtesy Nicolao Atelier.

Marco Polo, con la regia di Giuliano Montaldo. «Fu una tappa decisiva, non tanto per la mia carriera ma proprio per la mia esperienza.» Tornato a Venezia, capisce che in città manca un punto di riferimento per il teatro e il cinema. Così fonda Nicolao Atelier e continua la fortunata collaborazione con i migliori registi italiani e stranieri. Ma come nasce un costume? Il processo creativo segue uno schema preciso, e si basa sempre e soprattutto sull’interpretazione. «Occorre innanzitutto conoscere e capire il testo o la sceneggiatura, come sono i personaggi, come e dove e in che periodo è ambientato e, ovviamente, la visione del regista. Attraverso i costumi, bisogna riuscire a evocare lo spirito del carattere.» L’idea astratta si concretizza dapprima attraverso i disegni, che sono la sintesi di quello che si andrà a realizzare. Poi si scelgono i tessuti e gli accessori e si condivide tutto con il regista. «Arrivati alla prova costume, si capisce se si è sulla strada giusta. Se il regista approva, il mio lavoro è finito e passa agli attori. Io mi trovo avvantaggiato, perché ho recitato, e so cosa vuol dire essere aiutato dal costume giusto.» Come succede a Stefano Dionisi, protagonista del film Farinelli: Nicolao va a Parigi a fargli provare i suoi costumi. Dopo qualche minuto di silenzio

Dionisi, entusiasta, esclama di avere finalmente capito chi era

Farinelli! «Il costume induce un atteggiamento, ti obbliga a prendere coscienza del personaggio che stai interpretando.» Ma secondo il Maestro, l’interpretazione non si ferma qui. «Molto spesso scelgo i materiali perché mi chiamano. È un po’ il mio intimo che mi dice cosa è giusto. Molte volte, prima di realizzare un costume, ho proprio la visione di come deve essere. Lo vedo già fatto, ed è difficile che lo cambi in corso d’opera. Mi succede spesso già durante il primo colloquio con il regista. C’è una sovrapposizione di interpretazioni tra la mia anima di artista e quella di artigiano. L’artista quando dipinge dà voce a un’emozione e la rappresenta, l’artigiano deve aggiungere la conoscenza specifica dei materiali e di come si tratta il manufatto. L’obiettivo è coniugare l’idea finale con la visione del regista e il testo.»

Nicolao Atelier rappresenta un’eccellenza italiana per l’unicità e la raffinatezza delle sue produzioni. Il Maestro crede che il patrimonio di conoscenze ed esperienze maturate negli anni debba essere non solo tutelato ma anche condiviso con le nuove generazioni. Ne è una conferma il suo team di giovani collaboratori, che con lui si cimentano quotidianamente in nuove interpretazioni. All’insegna dell’arte e dell’artigianato. •

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A DESTRA: Costume settecentesco in damasco: da sempre Nicolao Atelier è impegnato nello studio filologico dei materiali mantenendo primaria la lavorazione artigianale anche per gli accessori. Foto: Susanna Pozzoli per Michelangelo Foundation.

Stefano Dionisi indossa il costume Dresda in Farinelli. Voce regina, dedicato alla vita del leggendario cantante lirico attivo nel XVIII secolo. Il film ha vinto il David di Donatello per i magnifici costumi di Olga Berluti e Anne de Laugardière, realizzati da Nicolao Atelier nel 1994. Foto: Courtesy Nicolao Atelier.

Tavolo da pranzo Kervan, design Alessandro

La Spada. Il top si presenta con una singola lastra di marmo Port

Laurent di Antolini.

Il marmo viene trattato con finitura Azerocare che rende la superficie totalmente impermeabile.

Il basamento è in acciaio e pietra.

Visionnaire, brand ambassador del design d’interni made in Italy, punta tutto sulla sostenibilità. Un concetto di bellezza che nasce nel rispetto virtuoso dell’ecosistema, verso un Meta-lusso che sostiene la dimensione umana della creazione.

Meta-lusso CONTEMPORANEO

di Alberto Cavalli
[innovazione]
Fotografie Courtesy Visionnaire

Quando Eleonore Cavalli, Art Director del brand Visionnaire, ha inaugurato il nuovo showroom di Dubai insieme al fratello Leopold (Amministratore Delegato dell’azienda) nel novembre 2021, le sue parole tracciavano già l’evoluzione verso il futuro: «Vogliamo essere ambasciatori di una bellezza fortemente legata alle nostre origini italiane, certo, ma che parli comunque un linguaggio universale: quello della sostenibilità autentica, profonda, legata sia al rispetto dell’ambiente sia alla crescita integrale delle persone, a beneficio dei territori e delle comunità.»

La modifica dello statuto di Visionnaire avvenuta nel gennaio 2022, che ha portato l’azienda a diventare una società Benefit, rappresenta l’obiettivo atteso e desiderato che Eleonore e Leopold perseguono da anni: unire in maniera innovativa design d’avanguardia, artigianato di altissimo livello, distribuzione internazionale e un atteggiamento rispettoso verso l’ecosistema, per creare un modello di business coerente, efficace e nuovo.

Nuovo, perché è il risultato di una consapevolezza contemporanea dell’impatto che le nostre azioni hanno

QUI: La consolle Lego, design Draga & Aurel, è il risultato dell’abbraccio di forme geometriche e i materiali protagonisti sono il cemento corroso con il sale marino e le fusioni in metallo.

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Lampadario Sputnik, design Draga & Aurel. Ispirata al retro-futurismo, questa lampada modulabile è realizzata con una maglia di ottone in grande scala che sta a sottolineare il forte legame e la contaminazione con il mondo della moda della Space Age.

sull’ambiente. Nuovo, perché connesso alla necessità sempre più diffusa di dare senso al lavoro quotidiano delle persone, alla comunità, all’espressione individuale del talento. Nuovo, infine, perché il mondo del lusso a volte è lento ad abbracciare simili rivoluzioni, mentre Visionnaire è stata una delle prime aziende nel multiforme mondo del design a compiere questo passo coraggioso.

Questa è l’innovazione di cui la bellezza italiana ha bisogno per essere sempre attuale: non semplici cambiamenti, ma profonda consapevolezza e decisioni coraggiose.

Sulla scia di questo anelito all’innovazione consapevole, dal 2004 Visionnaire ha saputo creare un linguaggio personale e profondo per parlare di eccellenza e bellezza, elaborando proposte su misura per clienti molto esigenti e sognatori. Proposte d’arredo che generano beneficio per molti: «Lavoriamo con artigiani eccezionali, selezioniamo le materie prime secondo un codice etico molto scrupoloso, cerchiamo di coinvolgere in modo strutturato i collaboratori nel perseguimento del nostro ideale di bellezza,» dichiara Eleonore Cavalli. «Io e Leopold rappresentiamo la terza generazione della nostra famiglia, chiamata a portare nel futuro IPE (la parent company, ndr) e Visionnaire: abbiamo deciso di fare questo passo, diventando un’azienda Benefit, perché questo è il futuro per noi. Fare bene, cercare il bello, costruire una comunità responsabile e consapevole.»

Innovazione, per Visionnaire, non significa dunque solo incorporare nuove idee nelle proprie collezioni, ma collaborare con artisti, designer, artigiani per sviluppare un nuovo paradigma, che Eleonore Cavalli definisce “Meta-lusso”: unicità, preziosità, altissima fattura, design originale. Tutti gli elementi

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tradizionali racchiusi nell’identità del marchio rimangono, poiché sono alla base dell’identità stessa di Visionnaire. «Ma ora dobbiamo muoverci in una nuova direzione: il lusso non è solo possedere, ma anche trasmettere,» conferma Eleonore. Quindi, il Meta-lusso è anche coscienza di ciò che è veramente sostenibile, e non solo desiderabile; di ciò che non è solo bello, ma anche significativo.

Famoso per i suoi mobili iconici, spesso impreziositi da marmi pregiati e pietre rare, Visionnaire capitalizza da sempre il talento e le capacità dei suoi artigiani e degli atelier che creano la sua costellazione di partner affidabili, per dare vita a nuove collezioni spesso scaturite dalla visione caleidoscopica di un team di designer di fama mondiale.

Un investimento su bellezza, sostenibilità e innovazione che si è rivelato saggio e fruttuoso, soprattutto in questi tempi di incertezza: «Visionnaire conferma la sua attitudine verso il design su misura, e la capacità di fornire soluzioni uniche di grande personalità, implementando il progetto in ogni sua fase,» ha commentato Leopold Cavalli.

Perché se il lusso è personalità e attitudine, il Meta-lusso è lasciare che questa personalità si esprima in oggetti memorabili, che non sono mai “cose” ma che sono sempre creazioni significative del talento umano, fatte per rendere i fortunati proprietari consapevoli del proprio ruolo: non solo clienti, ma committenti.

Questa attitudine all’innovazione non è scontata. Ma ha permesso a Visionnaire di continuare a crescere, seguendo il modello positivo degli ultimi anni, favorendo il paradigma quasi rinascimentale in cui Leopold ed Eleonore credono fermamente: favorire il tessuto imprenditoriale locale attraverso il modello della fabbrica diffusa, e continuare con investimenti in ricerca e sviluppo sulla sostenibilità di materiali e processi, consolidando così un modello di business che minimizzi sprechi, consumi e scarti.

Una società Benefit crea posti di lavoro, crescita e sviluppo.

Ma crea anche qualcosa in più, qualcosa di nuovo: la consapevolezza che la felicità del fare genera bellezza. L’unico fattore di cui tutti avremo sempre bisogno. •

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PAGINA ACCANTO: Sagomatura su metallo di un complemento con inciso il logo Visionnaire.

QUI: Lucidatura sul top di un tavolo in marmo. Entrambe queste due fasi di lavorazione sono un esempio di felice collaborazione a regola d’arte con maestranze d’eccellenza made in Italy.

81 MESTIERI D’ARTE & DESIGN

Trono Pavone, design

Marc Ange. Realizzato come pezzo unico, con esclusivi tessuti

Visionnaire verde e blu brillante e ottone con finitura bronzo, è una sedia cerimoniale che esplora un’idea di seduzione senza compromessi.

Tavolino Kenaz, design Steve Leung. Stelo in fusione di alluminio satinato (disponibile in oro, bronzo o argento) sagomato a forma di chiocciola e top in marmo o semiprezioso a incasso.

QUI E PAGINA ACCANTO:

Sacre inclinazioni, realizzate da Antonietta

Mazzotti nel 2000.

Questi due vasi sono pezzi unici foggiati al tornio, impasto a rilievo, maiolica all’esterno e smalti colorati all’interno.

Nel particolare (qui)

si apprezza la tecnica a terzo fuoco con l’applicazione di oro zecchino lucido e opaco.

Foto: Enrico Liverani.

NOSTRA SIGNORA DELLA CERAMICA di Ugo La Pietra

Dalla passione per la tradizionale ceramica faentina alla creazione “trasgressiva”. Antonietta Mazzotti, artista-artigiana affascinata dalla magia e dai misteri della natura, crea opere evocative di grande bellezza e suggestione.

[originalità]

Antonietta Mazzotti rappresenta oggi in modo esemplare il ruolo dell’artigiana-artista. Per la sua passione per la ceramica, legata alla grande tradizione della ceramica faentina, e per la sua attenzione al mondo della produzione, senza però esserne direttamente coinvolta: i suoi oggetti sono spesso unici e solo virtualmente riferiti all’uso. Guardando le sue opere possiamo riconoscere un linguaggio espressivo originale nella tecnica e nella figurazione “poetica”.

In una recente mostra collettiva organizzata alla Triennale di Milano, “Fittile. Artigianato artistico italiano nella ceramica contemporanea”, incentrata sulla tipologia del vaso, l’ho inclusa nel gruppo di autori che ho definito con l’espressione “per/vasi dalla terra”, per la loro capacità di trasformare e trasfigurare il vaso con un approccio creativo originale nella reinvenzione di questo oggetto della memoria. Alcuni bravi ceramisti si riferiscono, per la reinvenzione di una tipologia consolidata qual è quella del vaso, a forme antropomorfe o zoomorfe; nel caso specifico di Antonietta Mazzotti, l’originalità sta nell’aver introdotto componenti formali ispirati al mondo vegetale. I fiori, la frutta, le piante

di origine orientale come petali di peonia, foglie di aspidistra o ginko biloba, ma anche la magia misteriosa dei coralli: possiamo dire che la natura, in tutte le sue espressioni, è alla base degli interessi e della passione di Antonietta Mazzotti, che originalmente la rielabora e introduce nelle sue opere, con un approccio scultoreo alla materia.

Il vaso Selene è quello che meglio rappresenta questa sua capacità di portare l’oggetto verso una deformazione scultorea che aggiunge, alla forma tradizionale, una sorta di trasgressione carica di una naturale eleganza. In particolare in questa opera possiamo leggere in modo evidente come gli elementi di ispirazione naturale (in questo caso la corolla di un fiore voluttuoso) si caricano di nuove valenze grazie all’uso del “monocromo”: lo smalto verde, lucido o opaco, consente all’oggetto di affrancarsi dai suoi riferimenti, per sviluppare una propria autonomia estetica in grado di comunicare all’osservatore diverse e personali suggestioni; l’oro, utilizzato a terzo fuoco per enfatizzare alcuni dettagli, sottolinea l’unicità preziosa delle sue creazioni. «La natura è la musa più gentile e dolce di tutte,» dichiara Antonietta Mazzotti, ed è nella

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A sinistra, vaso della serie Bianchi, foggiato al tornio e modellato a mano, maiolica bianca smaltata, con applicazione di elementi classici faentini decorati in oro zecchino cotti a terzo fuoco.

A destra, Compendio, foggiatura al tornio con argilla rossa, maiolica bianca smaltata, con applicazione di elementi rinascimentali faentini (le forme richiamano i manici delle coppette del Cinquecento).

La “terza cottura”, quella dell’oro zecchino, viene fatta a 680 gradi. Entrambi i vasi appartengono alla collezione New Classic del 2017. Foto: Raffaele Tassinari.

QUI: Vaso Selene 2 , foggiato al tornio, con corolla modellata a mano. Il pezzo, del 2015, è completato dall’applicazione di cristalline colorate sui toni del verde. Foto: Raffaele Tassinari.

combinazione di colori e simboli del mondo floreale che le sue collezioni, o installazioni site specific, prendono forma come nel caso della collezione di vasi Bambù che l’artista propone in diversi esemplari disposti in sequenza sulle pareti, a formare una sorta di installazione astratta.

Il lavoro di Antonietta Mazzotti, spesso protagonista nelle mostre di ceramica italiane e internazionali, soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone, rimane comunque molto fedele a Faenza, dove si ha l’occasione di apprezzarlo nelle vetrine del centro città e nella serra neogotica di Villa Emaldi, suo atelier e laboratorio dove svolge anche un’intensa attività didattica, luogo che riassume perfettamente il suo approccio creativo, a costante contatto con la natura dell’ottocentesco parco della Villa, che vanta anche piante monumentali e specie esotiche.

Il legame alla tradizione faentina è culturale e affettivo: le sue opere, che crescono attraverso le forme essenziali modificate, rappresentano un esempio di ceramica contemporanea che

sa convivere con altri oggetti più legati alla tradizione, grazie anche alla capacità dell’artista di riproporre le classiche tipologie della ceramica di tradizione faentina con motivi decorativi con grottesche o con riferimenti agli stilemi classici rinascimentali. Spettacolari in questo senso le decorazioni delle opere a grottesca in maiolica blu e oro realizzate per la manifestazione “Collect – The international Art Fair for contemporary objets” alla Saatchi Gallery di Londra. Questa sua radice artigianale e culturale aggiunge ancor più valore alla sua capacità di rinnovare, nelle forme e nei decori, una forte tradizione che ancora rappresenta un punto di riferimento internazionale per tutti gli artisti che si occupano di ceramica.

La sua originalità quindi sta proprio nel saper esprimere, con talento, armonia, eleganza, opere che contengono elementi della grande tradizione faentina con l’innovazione carica di gesti imprevisti. •

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PAGINA ACCANTO: Frutti e ortaggi “crudi” realizzati per il progetto “Le frutte del mal orto”, collezione 2021, in occasione dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri. Questi semilavorati hanno poi ricevuto la prima cottura a quasi mille gradi. Foto: Francesca Galetta. QUI: La ceramista Antonietta Mazzotti nella limonaia gotica di Villa Emaldi, a Faenza, dove dal 1976 ha sede il suo atelier. Foto: Francesca Galetta. Guido Mariotto crea i suoi preziosi strumenti musicali nel suo laboratorio, un ambiente quasi sacro dove si inizia a lavorare il legno fino ad arrivare alla montatura.

Olimpiadi del virtuosismo

Arte come espressione del nuovo, ricerca della perfezione, reinterpretazione. Nella bottega di un grande Maestro liutaio nascono vibrazioni contemporanee e suoni inauditi. Il genio talentuoso di Guido Mariotto tra tradizione e innovazione.

di Alessandro Bardelli Fotografie di Emanuele Pantaleoni
[talento]

In un paragrafo essenziale della Critica del giudizio Immanuel Kant porta a sintesi l’indagine sul rapporto tra estetica e poiesi. Annota: “Il genio è il talento (dono naturale) che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttiva innata dell’artista, appartiene esso stesso alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo (ingenium), mediante la quale la natura dà la regola all’arte”. Superando il rapporto di somiglianza sul piano dell’oggetto, il filosofo identifica la connessione tra natura e genio nel momento produttivo: alla spontaneità creatrice della natura corrisponde un intreccio di ragione e immaginazione, capace di modificare l’immagine della realtà storicamente determinata ed esprimere un senso nuovo. Tutto questo avviene, quotidianamente e silenziosamente, con sapienza arcana e passione contemporanea, nella bottega del liutaio Guido Mariotto, a Porto Mantovano. Qui gli strumenti ad arco, superando forme archetipe, vengono reintrepretati in espressioni originali. Ciò è in particolare vero per il contrabbasso, icona sublime della musica colta occidentale. Il più grave degli archi si affaccia sul proscenio nel XVI secolo ma trova consacrazione solistica solo tra Otto e Novecento.

Virtuosismo romantico, jazz, avanguardie sono solo tappe recenti di quella che il contrabbassista Stefano Scodanibbio definisce “rinascita strumentale”, e ci permettono di apprezzare consapevolmente forza e intensità espressiva, timbro, colore, fisicità e profondità spirituale, suoni materici e armonici gentili, fragili e distanti. È tuttavia un’emancipazione dall’esito ancora incompiuto poiché, grazie all’intrinseca duttilità, il contrabbasso contemporaneo catalizza, in ambito liutario, compositivo e interpretativo, esperienze di ricerca donde trasmuta, ogni volta, in qualcosa di nuovo e inaudito. Nel 2021, a Cremona, al “Concorso Triennale Internazionale”, l’olimpiade della liuteria, per la prima volta, un contrabbasso, di Guido Mariotto, ha conquistato sia la medaglia d’oro nella propria categoria sia il miglior punteggio assoluto e il premio Stauffer per la qualità acustica. È il riconoscimento a un talento straordinario di artefice e a una vita dedicata allo strumento e alla sua realizzazione. «In casa i contrabbassi non sono mai mancati. Mio padre Gianni è professore d’orchestra ma si è dedicato anche alla costruzione. Devo a lui sia la passione per la liuteria sia l’interesse particolare per lo strumento. Sorrideva quando, bimbo, mi divertivo a introdurre nella

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QUI: Scolpire la testa del contrabbasso è la parte più tecnica della costruzione dello strumento, dove anche a posteriori si riesce a identificare la personalità e la maestria di ogni singolo liutaio. In queste azioni, Guido Mariotto ricerca movimento, profondità ed eleganza.

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cassa armonica giocattoli minuti, inserendoli dai tagli delle “effe”. Adolescente ho iniziato ad affiancarlo nella sgrossatura di qualche pezzo. Quotidianamente aggiungevo piccole competenze. Dopo la scuola superiore mi sono dedicato pienamente alla liuteria.»

La cultura della bottega d’arte, con le continue innovazioni e sperimentazioni, è laboratorio non solo di tecniche ma anche e soprattutto di idee. «Ne ho frequentate diverse, oltre a quella paterna. Con il Maestro Gianni Massagrande ho perfezionato scultura e intaglio; con il Maestro Mario Gadda ho imparato a costruire violini e viole. Devo loro molto. La mia è l’ultima generazione ad aver avuta questa opportunità. Poi la formazione è passata alla scuola. Il livello della didattica è comunque alto.» Una lezione importante viene anche dai grandi liutai di scuola mantovana. «I miei modelli sono ispirati alla loro opera,

in particolare a Stefano Scarampella.» Questi, peraltro, ebbe come allievo Gaetano Gadda, padre di Mario. Si disegna quindi una traccia di continuità lunga un secolo e mezzo. Il talento del Maestro Mariotto è la capacità sia di rileggere questa tradizione sia dar forma materiale al pensiero estetico e alle esigenze dei musicisti: «Il confronto con l’interprete è fondamentale, tanto più che, negli ultimi decenni, tecnica e repertori hanno subito radicali cambiamenti. Il suono perfetto è continua ricerca. Il contrabbasso vincitore del Concorso Triennale è il risultato più bello di questo percorso. Acquistato dal Museo del Violino, è esposto accanto agli Stradivari, ai Guarneri, ma anche ai grandi liutai mantovani del secolo scorso. È una straordinaria emozione. Oltre all’indubbia importanza del luogo e della manifestazione, mi sembra di aver dato continuità al lavoro di mio padre, averlo valorizzato.»

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In realtà lo fa ogni giorno, nella quiete di un laboratorio dove costruisce violoncelli e contrabbassi straordinari con la semplicità di chi opera come un raffinato artigiano e pensa come un grande Maestro, con quel talento che, forse, è proprio l’istintiva vocazione a esercitare un’attività in modo disinvolto ed efficace. È un dono naturale e intangibile, rinnovato ogni giorno nel lavoro e nello studio. Proprio per questo gli artigiani di talento sono tesori viventi dotati di una spiccata sensibilità nei confronti dei materiali e del loro potenziale, con una innata predisposizione alla perfezione. Consapevoli quanto il loro dono sia anche responsabilità, lo coltivano con disciplina, costanza e pazienza, affinché possa manifestarsi in espressioni di bellezza, magistero e libertà d’espressione. Caratteri che si alimentano scambievolmente, come suoni armonici di un contrabbasso. •

PAGINA ACCANTO: Particolare della “effe” del piano armonico, apertura che permette al suono di liberarsi dall’interno della cassa.

QUI: «Montare le corde per la prima volta sullo strumento è sempre un’emozione. Il risultato dei mesi di lavorazione dello strumento si scopre nel momento in cui si posa l’archetto sulle corde,» afferma il Maestro.

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La produzione di un anno di lavoro: tre contrabbassi per tre diverse esigenze musicali. Le richieste possono spaziare dall’utilizzo per l’orchestra all’uso per il solista.

PH ALBERTO PARISE DECASTELLI.COM CANNETO
Design
Adriano

Nel 1295 si decretò che le vetrerie di Venezia (attive già prima dell’anno Mille), fossero trasferite a Murano per motivi di sicurezza, poiché i forni erano spesso responsabili di disastrosi incendi alle abitazioni veneziane, costruite principalmente in legno. Da allora, l’isola di Murano divenne celebre per la lavorazione del vetro. Foto: Ventura Carmona per Getty Images.

Il miracolo del vetro

Da secoli, i gesti dei maestri vetrai non smettono di affascinare i visitatori di Murano, dove dal savoir-faire di abili artigiani nascono oggetti straordinari. Fuoco amico delle mani dell’uomo: l’incandescenza delle fornaci tiene lontana la tecnologia.

di Jean Blanchaert
[territorialità]

Moltissimi film, pièce teatrali e opere liriche cercano di ricreare una visione del mondo antico, che suscita sempre grande fascino: e se chi guarda lo spettacolo corrisponde allo spettatore naif di cui parla Alessandro Fersen (dove naif non significa ingenuo, bensì semplicemente qualcuno che si lasci trasportare nella drammaturgia), il ritorno alla realtà sarà sempre un po’ scioccante.

L’esperienza del mondo antico, già così intensa nella simulazione, diventa inebriante se è vissuta dal vero. Ciò accade quando ci troviamo di fronte, ancor’oggi, a comunità ferme a secoli fa e impermeabili alle novità della tecnica, della tecnologia e, in qualche caso, anche del pensiero. Passeggiando per il quartiere ebraico, religioso e ortodosso di Mea Shearim, a Gerusalemme, ci si trova per esempio in un’atmosfera che evoca l’Europa Orientale del XVIII secolo. Gli uomini e le donne che camminano in fretta, seguendo con sicurezza un percorso millenario abbigliati in modo elegante e arcaico, fanno restare a bocca aperta.

Una medesima sensazione coglie chi giunge sull’isola di

Murano ed entra nelle sue celebri fornaci. Grazie al lavoro di mia madre, antiquaria e gallerista, ho avuto la fortuna di frequentare sin da bambino Murano, il mondo del vetro e i suoi protagonisti, i maestri vetrai. Lo stupore di cinquantacinque anni fa non mi ha ancora abbandonato e una gran parte del mio lavoro consiste nel vedere, scegliere e valutare le opere che escono dalle fornaci. Il gallerista e il curatore, anche se sono l’ultimo anello di questa magica catena, ne fanno parte in modo importante. Come a Mea Shearim, anche a Murano il tempo non è passato e i gesti sono gli stessi di secoli fa. La lavorazione del vetro, pur essendosi aperta, agli inizi del Novecento, a nuove forme e a nuove idee, ha difeso se stessa dall’avvento dei robot che oggi sono grandi protagonisti nella trasformazione anche artistica della pietra, del marmo e ultimamente persino della ceramica: alcuni maestri di questi materiali, oggi, intervengono a volte soltanto nella fase finale dell’opera.

Diverso è il caso del vetro. Nella savana, per tenere lontano un leone, si accende il fuoco: e in fornace sono i 1200 gradi della

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PAGINA ACCANTO: Lino

Tagliapietra, Fenice, 2015, forma ispirata dall’uccello mitologico: vetri soffiati a mano con l’uso di canne bianche e incisioni a freddo. Foto: Russell Johnson

QUI: Giorgio Vigna, Fuochi d’acqua, opera unica con vaso scultura in vetro con fiori soffiati direttamente su steli di rame, manifattura Venini. Foto: Emanuele Zamponi.

QUI: Il Maestro vetraio Andrea Zilio all’opera all’interno della Fornace Anfora, dove ha iniziato a lavorare dall’età di 17 anni. Le sue mani forgiano

forme straordinarie che sembrano nascere con spontaneità ma sono frutto di grande maestria ed esperienza. Foto: Susanna Pozzoli per Venetian Way.

PAGINA ACCANTO: Il Papè, appartenente alla collezione Voyage en Sicilie, ispirata ai colori, alle forme e alle ceramiche della Sicilia. Vetro di Murano

lavorato al volante, fiammato all’iride e inciso, progettato dal designer Ivan Baj e realizzato da Andrea Zilio. Foto: Laila Pozzo per Doppia Firma 22

massa vetrosa modellata dal Maestro a tenere lontane le nuove tecnologie. Hic sunt leones, appunto: non si può, col vetro, programmare una forma, disegnarla, inserirla in un computer e attendere il prodotto finito o semifinito.

Ma quali sono i misteri, le prerogative idrogeologiche precipue dell’isola che facilitano e rendono straordinaria la lavorazione del vetro a Murano? Queste prerogative non esistono: l’unica grande materia prima presente è il materiale umano, il sapere e il saper fare che da più di mille anni i maestri si tramandano. Da quando, precisamente nel 1291, le fornaci furono esiliate da Venezia per i troppi incendi che avevano provocato. La territorialità muranese è meramente culturale. Qui il vetro parla ancora attraverso le trasparenze e le policromie, figlie dei rapporti della Repubblica di Venezia con l’Oriente.

Già nel XV secolo il saper fare dei maestri muranesi era considerato straordinario, unico, sinonimo di grandissimo prestigio. I più grandi potevano indossare la spada e prendere moglie fra le fanciulle della nobiltà veneziana. Il loro saper fare era un segreto di Stato, gelosamente custodito.

Oggi, una crisi epocale legata al costo del gas (e a una certa caduta generale del gusto) ha investito l’isola. Eppure, importanti artisti giungono tuttora da ogni parte del mondo per vedere le loro idee realizzate in vetro dal Maestro, dall’aiuto Maestro, dal servente, dal serventino, dal garzone e dal garzonetto. È un balletto immutato, sincronizzato e senza rete: una delle grandi meraviglie del Creato. Tutti i giorni, sculture trasparenti che hanno catturato la luce della Laguna lasciano l’isola per raggiungere collezionisti, galleristi, musei, fondazioni. A volte, il nome del Maestro non viene neppure citato, ma non sempre è necessaria una firma per riconoscere una mano, uno stile, un’intuizione. E in isola, quando il Maestro s’incammina su Fondamenta Vetrai per andare a giocare a carte con gli amici, è circondato da un’aura. Un esempio su tutti, il grande Lino Tagliapietra. Tuttora, attraverso un territorio insulare e isolato, si dà valore al materiale, si dà pregio alla lavorazione, si dà spessore alle idee artistiche. Si dà senso a un “Made in” che non è soltanto geografia, ma è anche una bellissima, seppur difficile, storia. •

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Lino Tagliapietra, Ombelico del Mondo, 2014, in vetro soffiato con canne multicolori. Considerato l’ambasciatore del vetro di Murano nel mondo, Lino Tagliapietra porta alta la bandiera del saper fare italiano d’eccezione.

Foto: Russell Johnson.

La tradizione del vetro di Murano nella creazione di lampadari spettacolari, trova una declinazione contemporanea nella nuova linea casa di Dolce&Gabbana: la storica

vetreria Barovier & Toso

ha infatti realizzato per la Maison milanese quattordici

sospensioni monumentali composte da oltre 3000

tubi di cristallo i cui colori

richiamano le decorazioni

dei carretti siciliani. Foto: Courtesy Dolce&Gabbana.

Le scatole di legno decorate con le stampe antiche della città di Genova racchiudono tradizionalmente i dolci di Romanengo. Vengono confezionate a mano una a una per renderle un oggetto unico da conservare nel tempo.

Foto: Luisa Puccini.

Pietro fu Stefano

O DELLA GAMBA DELLA SEDIA DI PEGUY

Romanengo sublima le materie prime, trasformandole in nobili prodotti zuccherini. Elogio della confetteria e sapienza magistrale nella bottega in cui il tempo si è fermato.

Pietro fu Stefano. Punto a capo. Esiste un modo più sublime di nominare – letteralmente – la tradizione? Sono in quanto sono stato. Sono oggi perché sono generato, adesso.

È quello che accade a Genova, da sette generazioni, in un opificio dolciario. Oggi tocca a Pietro Romanengo – nipote di Stefani e di Pietri – portare il dolce peso che i suoi avi gli hanno consegnato. «Un luogo che non poteva che nascere che qui,» ama ribadire l’attuale “tedoforo”. Qui a Genova, grazie al suo porto e al suo rapporto con l’Asia, grazie alla cultura araba alla possibilità di esportare nel mondo ma soprattutto grazie alla maestria tutta italiana di usare lo zucchero per conservare la natura e per imitare la natura. Italians do it better, si sa.

Tutto ciò che riempie il naso e che si vede entrando nel laboratorio di via Mojon a pochi passi dalla stazione di Brignole sa di alchemico, sa di nobile, sa di gratitudine. Non chiamatela azienda ma laboratorio e non chiamateli reparti ma botteghe. Bottega sulla scorta della genesi di queste specialità nate da uomini geniali che facevano e all’unisono vendevano mostrando l’arte del saper fare. Dal 1780, qui si fanno canditi nella bottega

segreta della canditura, cercando di fissare l’anima del frutto in una sapiente crisalide di glassa zuccherina. In questo spazio si alternano le stagioni che entrano impetuose e frettolose per essere “immortalate”, le sapienti lavorazioni sono frutto – anche loro –di conoscenza della materia viva e delle qualità dello sciroppo. Fichi, marroni, mandarini, arance, chinotto, petali di rosa, frutti e fiori si preparano a diventare più preziosi a perdurare. Nella bottega della confettatura lo zucchero che gira nella bassina, ipnotico, cristallizza spezie e scorze. Qui tutto è sapienza, pozione e pazienza. Pinoli di Pisa, mandorla di Avola ma anche cardamomo e cannella e l’Oriente così continua il suo racconto di sé in questa città. Poi il mestiere diventa ambizione e la natura non solo si può conservare ma addirittura mimare ed è subito caramella, una parola antica che merita una reverenza speciale e andrebbe salvata e strappata dalla banalità in cui è decaduta. Dura, gommosa, gelatinosa. La caramella, la confetteria è un gioco molto serio, va immaginata in un mondo in cui generava emozione, era come colore in un ambiente in bianco e nero, ma anche oggi, il palato non mente quando si incontra qualcosa di magistrale è lì che si fissa un punto di non ritorno, che si

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[tradizione]

comprende l’altezza della gastronomia, che si fa un passo di conoscenza. “Zuccherini” li abbiamo vissuti tutti da bambini ma assaggiare un fondant o una ginevrina o una goccia di rosolio da adulti è altra faccenda.

Girando tra le botteghe di questo opificio tante cose vengono alla mente: la città di Genova e la sua unicità, le guerre da quelle napoleoniche a quelle recenti che hanno condizionato e plasmato questo luogo e la storia della famiglia Romanengo, l’etimologia di certi strumenti e certi gesti ma una cosa manca o meglio, si perde qui dentro ed è il tempo. Scandito solo da un incessante stantuffo di una macchina che da oltre un secolo è adibita al concaggio della “fabbrica di cioccolato”. Un concaggio lento, inesorabile e limitato a soli circa cento chilogrammi di cioccolato alla volta perché così si ha il lusso di poter aggiungere null’altro. Le tavolette fatte a mano, la stagnola avvolta a mano, la scatola in cui a mano viene inserito il prodotto ha un disegno fatto a mano. È per tutti questi motivi che questo luogo potrebbe essere un set di un romanzo e dovrebbe essere destinazione di gita scolastica

dei professori però prima che degli studenti. Questo luogo è un patrimonio nazionale, e chi lo anima è un tesoro vivente. Eppure è uno spazio in attesa di un nuovo rinascimento, un atelier la cui scoperta lascia spaesati come se ci fosse qualcosa da decifrare ma non con la velocità dei tempi correnti, tra l’orgoglio di essere parte di questa storia per il semplice fatto di essere italiani, il rammarico che non venga adeguatamente raccontato e la vena malinconica che bene il genio di Charles Peguy ha espresso nel suo libro L’Argent e che non possiamo che dedicare alla Famiglia Romanengo ringraziandoli di r-esistere.

«Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Una tradizione venuta, risalita dal profondo della razza, una

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Un importante e minuzioso restauro ha ridonato l’antico splendore alla bottega storica di Soziglia del 1814, a Genova, protetta dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio. Foto: Nicola Dongo.

storia, un assoluto, un onore esigevano che quella gamba di sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia fosse ben fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva era lavorata con la medesima perfezione delle parti che si vedevano. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. E sono solo io – io ormai così imbastardito – a farla adesso tanto lunga. Per loro, in loro non c’era allora neppure l’ombra di una riflessione. Il lavoro stava là. Si lavorava bene. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto. Un sentimento incredibilmente profondo che oggi definiamo l’onore dello sport, ma a quei tempi diffuso ovunque. Non soltanto l’idea di raggiungere il risultato migliore possibile, ma l’idea, nel meglio, nel bene, di ottenere di più. Si trattava di uno sport, di una emulazione disinteressata e continua, non solo a chi faceva meglio, ma a chi faceva di più; si trattava di un bello sport, praticato a tutte le ore, da cui la vita stessa era penetrata. Intessuta. Un disgusto senza fine per il lavoro mal fatto. Un disprezzo più che da gran signore per chi avesse lavorato male.

Ma una tale intenzione nemmeno li sfiorava. Tutti gli onori convergevano in quest’unico onore. Una decenza, e una finezza di linguaggio. Un rispetto del focolare. Un senso di rispetto, di ogni rispetto, dell’essenza stessa del rispetto. Una cerimonia per così dire costante. D’altra parte, il focolare si confondeva ancora molto spesso col laboratorio e l’onore del focolare e l’onore del laboratorio erano il medesimo onore. Era l’onore del medesimo luogo. Era l’onore del medesimo fuoco. Cosa mai è divenuto tutto questo. Ogni cosa, dal risveglio, era un ritmo e un rito e una cerimonia. Ogni fatto era un avvenimento; consacrato. Ogni cosa era una tradizione, un insegnamento; tutte le cose avevano un loro rapporto interiore, costituivano la più santa abitudine. Tutto era un elevarsi, interiore, e un pregare, tutto il giorno: il sonno e la veglia, il lavoro e il misurato riposo, il letto e la tavola, la minestra e il manzo, la casa e il giardino, la porta e la strada, il cortile e la scala, e le scodelle sul desco. Dicevano per ridere, e per prendere in giro i loro curati, che lavorare è pregare, e non sapevano di dire così bene.» •

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A SINISTRA: La pasta di mandorla, lavorata nell’antica macchina raffinatrice a cilindro di granito, viene modellata manualmente in canestrelli profumati al fior d’arancio. Foto: Nicola Dongo. A DESTRA: La produzione dei confetti prevede che le “anime” vengano lavorate solo con l’aggiunta graduale dello zucchero in una bassina di rame, scaldata da una fiamma e in continuo movimento. Foto: Nicola Dongo.

QUI: La carta blu e lo spago bianco a cui viene annodato un lapis rappresentano l’iconica modalità di confezione di Romanengo, tratto distintivo fin dai secoli scorsi.

Foto: Nicola Dongo.

PAGINA ACCANTO: Le iconiche clementine vengono candite secondo l’antico processo e sono immerse nel cioccolato fondente, per un’equilibrata esplosione di sapori.

Foto: Nicola Dongo.

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La bassina a mano è parte dell’antico universo di attrezzi del confettiere e ancora oggi viene utilizzata per preparare in piccole quantità le praline morbide, secondo una tecnica che può essere eseguita soltanto a mano.

Foto: Nicola Dongo.
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Borso del Grappa Treviso - IT
B ernardo Design Elena Salmistraro
Umbrella Design Metodo

La bellezza ci rende liberi, se ne comprendiamo il senso e l’applicazione. Saperla riconoscere, trasmetterla educando ed educandosi, continuare a costruirla e ad amarla sono valori imprescindibili per l’evoluzione di una società sana e soprattutto umana.

La forma della bellezza

Se pensate che l’educazione sia costosa, diceva Abramo Lincoln, provate a sperimentare l’ignoranza. L’educazione: un termine che sembra purtroppo sparito dal radar dei social media, ma anche dalle semplici relazioni interpersonali e lavorative. Un termine che invece è centrale per ogni autentico sviluppo della società, che necessariamente passa dallo sviluppo della persona.

Questa scomparsa, progressiva ma non per questo inesorabile, diventa ancora più inquietante per chi crede nel valore progettuale e salvifico della bellezza: perché anche alla bellezza occorre educarsi, per poterne cogliere il senso e poterla dunque integrare alle nostre vite.

La bellezza italiana, al contempo fragile e potente, chiede di essere amata, ammirata e scoperta: ma per amare occorre comprendere, e la vera comprensione non può che nascere da un percorso educativo serio e sereno, saggio e sottile.

Educazione alla bellezza come rispetto, garbo e tatto nel parlare, nel rispondere, nell’agire: scomparsa? Si infrangono le più normali regole di civile convivenza in ragione di un’assurda idea di libertà individuale, che in realtà è più un’anarchica ignoranza. Ci si offende e ci si attacca con vigliacca violenza, dilapidando un patrimonio di lettere e spirito che da sempre, invece, contraddistingue la vis polemica del nostro Paese. Si distrugge il territorio, dalle nostre città (dove regnano il disamore e la sciatteria) agli scenari naturalistici che sono invece un valore straordinario. Un nichilismo dell’anima che fa male e genera bruttezza.

Educazione alla bellezza come formazione accademica, scolastica e culturale: non scomparsa, ma sofferente. Si fa fatica anche ad assicurare alle giovani generazioni quella metodologia di educazione (formale) e auto-educazione (spesso informale) che ha fatto la fortuna di tanti brillanti imprenditori, mossi dalla curiosità e da un giusta dose di ambizione: sperimentare, vedere, provare. Uscire dalla pigrizia mentale che ci porta a sentire sempre le stesse sirene, per lasciarsi invece sorprendere dalla voce profonda di una bellezza che richiede impegno, dedizione, tempo e passione: come ricorda il Piccolo Principe, è il tempo che dedichiamo alle cose (e alle persone) che ce le rende preziose. E ogni autentico processo educativo non può che essere costoso, in termini di tempo: ma è anche l’unico investimento autenticamente redditizio per il futuro della bellezza italiana.

E infine, l’educazione come progressiva formazione del proprio carattere: pericolosamente febbricitante. Ogni bravo scultore sa che per ottenere un marmo levigato non bisogna risparmiare i colpi e le carezze: per far emergere i tratti costruttivi della propria persona, e per poter seguire con felicità la propria autentica vocazione, occorre essere pronti a subire i colpi dei bravi maestri, che sollevino gli strati morti dalle nostre convinzioni e percezioni e ci “formino”, appunto, come un artista farebbe con la materia prima.

Oggi si dimentica che educare le giovani generazioni alla bellezza significa assicurare un futuro migliore non solo a loro, ma anche a noi, a ciò che amiamo, a ciò cui teniamo: per quanto difficile sia educare, rinunciare a farlo sarebbe estremamente più costoso e persino fatale. Perché educare ed educarsi alla bellezza significa sperare che insieme, davvero, sia sempre possibile costruire un mondo migliore: più umano, più significativo, più sorprendente. Nessuno si offenda se dico, in sintesi: più italiano. •

114 OPINIONI
testimo n iato da franco cologn i
RI-SGUARDO

AN ALL-ITALIAN LEGACY

Alberto

It doesn’t take a PhD in the philosophy of aesthetics to ponder over the way in which design affects beauty and its Italian spirit. All it requires is an awareness of what constitutes our main competitive advantage; of the attribute around which every reflection on Italy revolves; of the values that do not embody some vague dream or distant desire, but a clear understanding of who we are and what we want for our lives. And, of course, why we want it.

Talent, together with endurance, dedication and perseverance in pursuing a project, and in transforming an original idea into something extraordinary, are essential ingredients in the achievement of the Italian beauty to which this issue is dedicated. A beauty expressed through exemplary and authentic stories: stories of artisans who, each in their own way, embody and represent the distinctive criteria that constitute the DNA of Italian beauty. Craftsmanship and creativity, innovation and interpretation, territory and authenticity: understanding the present of Italian beauty through the prism of these values means investing in a future that is truly sustainable, because it is based on the courage of dreams, on the competence of gestures, on the attainment of results that exceed expectations and seduce the whole world with the sheer persuasiveness of hand-made beauty. One that gives happiness to those who create it, those who admire it, and those who purchase it. Beauty and happiness are an essential key to understanding the value of products that are Made in Italy. Achieving a result that we have set ourselves does not often lead to happiness. This is confirmed by researches, and by our own experience. On the contrary, actually living the circumstances that we consciously decided to create, and which we set up with great determination, gives a much deeper and more lasting sense of fulfilment because it is tangible. Dedication makes everything possible, and a project can become a strategy. It is a lesson that master artisans have always taught, and one that we have tried to narrate in this issue. There may already be people, places or experiences around us that gently lead us towards a better fruition of our time: workshops, ateliers, laboratories, businesses. We should pay attention to them, and observe them for what they are: hothouses of authentic beauty. In this way, the strength and willpower we put into pursuing a result will head towards a specific direction, in which we may not be able to avoid encountering difficulties and doubts, but along which the doors of satisfaction and fulfilment can be more easily opened. What message could be more enticing for the younger generations who will have to envisage the Italian beauty of the future?

Combining creative enthusiasm and practical application, the passion of the heart with the intelligence of the hand, is the challenge that we want, and indeed must, accept: we need to focus on our creativity, talent and on a new culture of making that does not overshadow the rules of ethics, the temperance of common sense, the influence of our roots.

Because, in the end, it is always about culture: from culture, learning, persuasion and beauty comes the know-how that has always represented our identity, and which has its roots in that Latin wisdom that translates both as “having a flavour” and “being wise”. A flavour that enriches and preserves; a wisdom that has a “flavour” because it is human, personal, handed down not only through ’’things’’ but also through words and gestures. That is, through the kind of experience that cannot be bought, but is always the most valuable of all. Enjoy your reading!

TERRITORIAL DESIGN Ugo La Pietra

We have always needed beauty (and today we need it more than ever, given the times we live in). We have looked for it everywhere: in the gaze of a child, in birdsong, in dazzling snow-capped mountains… and we have always sought to carry it with us, in our minds and hearts, even by means of something tangible,

capable of evoking it. This has stimulated us to create objects that express this beauty (or at least recall it), and which we have brought into our homes. We displayed them on mantlepieces, in cabinets, on sideboards... and we called them “objects of beauty”. A definition that meant that they didn’t serve any particular function. At times they made a nod to a purpose, but mostly their value was purely emotional, reminding us of a place, a person, an experience. To this day, people returning from faraway places (much like the travellers on the Grand Tour in the 18th and 19th centuries) continue to look for the beauty Italy offers in objects they can take back home. Through these objects we allow that beauty to enter our households, which Gio Ponti described as the “Italianstyle home”: “A variable place, which is simultaneously full of memories, of hopes, of brave acceptance. A home to be lived, both through good fortune and sadness…”. A home, that is, made of objects capable of expressing our deepest culture: the culture that has sought beauty for centuries.

But in this age, what kind of objects can convey this much-needed value? Ponti used to urge designers to conceive objects without modesty and, especially, without fear of using the world “beautiful”. Ponti himself was pointing the way: to start from the past, from the classic. “After all, one always starts out in an Academy, and then head towards another academy: one’s own.” This is what we find in objects that are finely handcrafted, objects that, according to Gio Ponti’s definitions, “stand the test of time”, “objects of the imagination”…

The values that give sense and beauty to objects can be found in much of our craftsmanship. A craftsmanship that, in recent years, has undergone the same process: passing from classic towards “renewed” forms, thanks to the designer’s creativity. These objects can stand the test of time because, before being renewed, they were born from a consolidated tradition. These objects express the essence of being Italian because they are inspired by the roots (historical and cultural) of our many and varied territories, where beauty underpins the deepest value of our culture: diversity. This diversity prompts us to create increasingly exceptional, often unique pieces, in which craftsmanship anchored to traditional skills seeks new techniques and materials, in a bid to continue to have a role to play, and to attract the public.

I have called this practice “territorial design” ever since in the cabinet that belonged to my grandmother, who originally hailed from Vietri sul Mare, I used to admire her small ceramic donkey (coppery-green in colour, always smiling), which to this day is the symbol of folk culture in Mediterranean countries, but was introduced to local potters by several German artists who landed on the Salento coast in the 1930s.

THE MEANING OF LUXURY

Luxury is a widely used term in contemporary times. In fact, it is definitely overused and, like other stereotypes, it takes on different meanings depending on the social context and historical moment. It is one of the most frequently recurring references: all magazines write about luxury, top-end and premium products, to the point of representing the ambition of all brands.

But luxury today is not just about marketing. After casting aside the 19th-century moralistic stigma of uselessness, excess and waste, it has shifted from the opulence of material display to the delicate nature of intangible emotion, and today it is taking on the form of aesthetic and sensorial experiences, rather than that of material wealth. In the post-Covid era, it is once again becoming an expression of culture, quality, beauty and uniqueness. A sustainable and environmentallyfriendly form of luxury, characterised by hedonistic and informed consumption. And these new-found values have prompted this reflection.

What does luxury mean to you? Think about it for a moment and try to define it. It’s not easy to encapsulate it into a single definition, because luxury

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ENGLISH VERSION

makes its way freely across distant lands, gently joining them with its misty trail, breaking through the rigid trenches of disciplinary fields and narrowsightedness. In the words of Bernard de Mandeville, it is everything and at the same time it is nothing: as exclusive and enveloping as a tailored suit, luminous and impenetrable as a diamond, precious and fleeting as time, freedom or space. Despite its lexical vagueness and conceptual complexity, luxury forces us to take a position. It generates discussions, and modifies the way in which people think and live. It is a transitory topic, a no-man’s land, an altar devoted to beauty capable of bridging traditionally distant people and cultures.

Luxury creates connections between the outside world of commerce and social relations, and the intimate world of each individual’s identity, of his desires, dreams and image. Analysing luxury, therefore, allows us to better understand the mysteries of beauty and quality, and embraces disciplines as varied as anthropology, philosophy, social sciences, sociology, psychology, economics, theology, fashion, semiotics, communication, in addition to design. Since ancient times, Italy and France have been the main creators of beauty. Unlike the Italians, however, the French view the luxury industry in terms of their national identity, their excellence, their ability to generate wealth and workplaces. Ministers such as Jack Lang and economists such as Jean Castarède consider luxury an extremely important phenomenon for both the economic development and the cultural and artistic progress of France. In Italy, on the other hand, luxury evokes the vulgar ostentation of the nouveau riche rather than beauty, progress and culture. To the point that Giorgio Armani’s famous statement “luxury disgusts me” well translates the distress of those who understand and create luxury.

Yet a study by the Design Department of Milan’s Politecnico has revealed five scenarios of the luxury universe that demonstrate its multidisciplinary and scientific importance. In its socio-semiological dimension, luxury is a constructor of identity based on the relationship between the individual and society, in which luxury defines, creates and communicates messages through the body. In its evolutionary-technological dimension, luxury is a catalyst for modernity, where the demand for goods with a high aesthetic and manufacturing value determines an incentive for progress. In the macroeconomic one, luxury is a factor of capitalist growth and an engine of wealth. In the anthropological and microeconomic one, luxury is a consumer index because of its ability to change the values of goods and determine new scenarios of consumption. And, lastly, that of the design disciplines, which consider luxury as a form of extreme design, the logics and processes of which are as exceptional as those of the Italian manufacturing system, thanks to its ability to create harmony and to bestow, as Hume put it, the greatest beauty in the gratification of the senses.

ALBUM

Stefania Montani

Atelier Crestani

Via Boschi 36/A, Camisano Vicentino (Vicenza)

Trees, animals, the sea and its inhabitants are Simone Crestani’s main sources of inspiration. He has always been fascinated by nature, and the glass objects he crafts in his bright workshop in Camisano Vicentino feature wonderful trees with leaves bent by the wind, mighty deer antlers with webbed tips, curious rabbit ears popping out of the top of transparent bottles, and acrobatic octopuses wrapping themselves around goblets. It’s a dreamlike world full of poetry, where transparency and pure lines create a bewitching effect. “Glass manufacturing involves a series of very complex operations, which require years of practice and extreme dedication,” Simone explains. “I was fortunate enough to learn all the techniques when I was very young, in the atelier of

Maestro Massimo Lunardon. After that, I opened my own workshop in 2010.” Simone blows his glass by mouth, heating it with a blowpipe and shaping it with tongs. Even the firing process in the kiln requires great precision, because if the timing and temperature are not exactly right, the glass will break. Since Crestani uses borosilicate glass, he can work in a more sculptural way than with the traditional technique, enabling him to create large-scale objects while also paying attention to the details. “I’m well known for the particular technique I use, which is why I am often invited to hold lectures at prestigious academies and glass schools in Italy and abroad. I consider natural forms to be expressions of imperfect balance and elegance. In my works, I enjoy admiring the coexistence of fragile forms and concrete details, and my ultimate aim is always the pursuit of harmony.” For the Salone del Mobile in Milan 2022, he collaborated on a special educational project with the young talents of the Creative Academy, the design school of the Richemont Group, and with Eligo Studio, executing a collection of objects, made with the flame technique known as “hollow sculpture”, which was successfully presented at Palazzo Litta in a highly poetic setting. simonecrestani.com

Bice & Berta

Via Santa Margherita 19, Torre Boldone (Bergamo)

From making little dresses for her dolls to creating refined, made-to-measure women’s outfits that are appreciated around the world: the Bice & Berta knitwear atelier, opened around thirty years ago by Marina Rizzini near Bergamo, came about thanks to a wonderful succession of coincidences (as often happens in life), but above all of talent, perseverance and opportunities seized with both hands. “My aunt Bice was an amazing seamstress. She used to make me sit next to her while she worked, and she’d teach me to crochet and knit dresses for my dolls. She also taught me how to embroider. She was an exceptional tutor,” confides Marina. In 1992, she took the leap and left her office job in a fuel company to open her first atelier. Success came quickly thanks to word-of-mouth of her friends. Encouraged by her husband Marco, in 1998 Marina bought larger premises in Torre Boldone, a few kilometres from Bergamo, where she founded the Bice & Berta brand. Since then, the business of the creative artisan designer has never stopped: her customers range from France to Great Britain, Switzerland and even Japan.

“I installed about a dozen early 20th-century rectilinear knitting machines, with needles of different sizes, from 3 to 14, and started making custommade knitwear. Ski jumpers with a yarn count of 10, coats, ultra-fine cardigans in silk and cashmere that need to be made under a magnifying glass, skirts, evening dresses in lurex... The assembly is all done by hand, as are the buttonholes and any embroidery. I named my company after my daughters, and at the same time I also wanted to pay homage to my aunt Bice and grandmother Berta,” says Marina. The designs crafted by her bursting imagination are original, both in terms of cut and colour combinations.

“We have an archive of 1,400 samples, and every year we create around 40 new models. All of them can be customised,” she emphasises.

“The secret of our success also lies in picking the finest raw materials: when you’re making high-end products, the materials have to be perfect.” Marina works with unparalleled skill and passion with the talented and enterprising Camilla: from mother to daughter. biceeberta.it

Mingardo Design Faber

Via Liguria 3, Monselice (Padua)

Metals have always been the greatest passion of Daniele Mingardo, who has been working in the forge since the age of 18. He gleaned the secrets of the trade from his father Ilario, whose metalworking business in Monselice had

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been renowned since the 1970s for its accurate workmanship and significant collaborations, such as those with Carlo and Tobia Scarpa, Aldo Parisotto, the Petruzzelli Theatre in Bari, the Parco della Musica in Florence and the Museo del Novecento in Milan. When he turned 25, the extraordinary manual dexterity and techniques acquired during the years of experimentation in his father’s forge prompted Daniele to create a collection of his own, manufacturing new furnishing accessories also in collaboration with designers. Today, at 34, Mingardo Design Faber is a brand producing limited-edition designer objects in metal, combining materials such as iron, copper, brass, steel. “I am grateful to Aldo Parisotto, who hosted my first collection in his showroom in Milan during the 2013 Fuori Salone, for the opportunity he gave me to make myself known in the world of design,” says Daniele. “Ours is a small business, there are ten of us in total, plus a handful of external artisans. So, we manage to have a very direct relationship with our customers, with a constant interchange of energy. For the past few years, we have had an art director, Federica Biasi, with whom we develop our own original designs, in addition to working with nationally and internationally renowned designers, such as Omri Revesz, Gio Tirotto, Chiara Andreatti, Simone Bonanni, Valerio Sommella and many others. It is always exciting to make their ideas come true with the talent of our artisans.”

The product catalogue of Mingardo Design Faber is vast and varied, but the company’s strength lies in its attention to detail as well as in the relationship with the designers. Bespoke techniques are made possible by the expertise and passion of the metalworkers at Mingardo. “Everything can be customised, from stairs to furniture, from lamps to seats and bookcases. My inclination for continuous research, from casting to welding, from the transformation of the different metals over the years to moulding the form, is the trigger that gives me the energy to face each day with enthusiasm. Because the technical side can never be separated from the human one,” concludes the talented Daniele. mingardo.com

Tessitura Brozzetti

Via Tiberio Berardi 5/6, Perugia

Tessitura Brozzetti is a magical place in the heart of Umbria, where the charm of history, art and Italian craftsmanship is preserved. The “soul” of the workshop is Marta Cucchia, interior decorator and young master craftswoman, who, with determination and talent, has been able to perpetuate an ancient know-how handed down to her by her family: hand-weaving on looms. Her atelier is in Perugia, in the charming setting of the church of San Francesco delle Donne. “It all began with my great-grandmother, Giuditta Brozzetti. In 1921, she founded an artisan workshop and school for the production of textiles, inspired by the custom of Perugia’s women, who traditionally made the fabrics they needed for domestic life themselves, recovering patterns and designs of Umbria. Our production of linen, cotton, silk, cashmere blends and gold and silver laminate fabrics is still hand-woven on antique 18th-century pedal looms and 19th-century jacquard looms. We make curtains, tablecloths, blankets, tapestries, furnishing fabrics, as well as some clothing accessories such as scarves, stoles and bags. Everything can be customised. Today, thanks to the restoration of an original loom, we have also revived the Fiamma di Perugia weaving technique, which had all but disappeared.” Steeped in the rich heritage of Umbria’s ornamental motifs, the production of Tessitura Brozzetti recreates fabrics with characteristic decorative themes inspired by Etruscan textiles and the so-called “Perugian tablecloths”, a cornerstone of the great local medieval textile tradition. “Some of the ornamental patterns can be found in the paintings of Giotto, Ghirlandaio and Leonardo da Vinci,” explains Marta Cucchia, who is not only an extraordinary master craftswoman but also a cultural reference point in the region. As she concludes the visit to

her workshop and textile museum, Marta explains: “Each stage of the process respects time-honoured techniques and timescales. The warp is assembled as it was done 500 years ago, and it takes up to 20 days to set up one of our looms. Every single thread of the weft is passed by hand, and in one day a weaver can produce a maximum of 50 cm of fabric.” Thanks to its unique characteristics, the atelier was included in Umbria’s museum network in 2004. brozzetti.com

Vecchia Bottega Maiolicara Di Simone

Via del Giardino 10, Castelli (Teramo)

Even though he has received countless prizes and awards, including one from the Sovrintendenza per i Beni Culturali, and that he has often been interviewed on television to illustrate his works, Vincenzo Di Simone has maintained the simple attitude, unpretentiousness and smile that characterise people who have learned to live in harmony by pursuing their talent with passion. His first encounter with ceramics was in his childhood, because his family home was close to a time-honoured workshop. Thus, clay became his favourite game, in a town where the tradition of majolica has very ancient origins. At the age of 17, he joined the studio of Luigi De Angelis, a master of ceramic craft, until he opened his own workshop in 1970. His son Anotnio, to whom he taught all the secrets of the trade, joined him in 1980. The atmosphere in the workshop is extraordinary, with the space stacked with moulds, some of which are very old, the treadle wheel, work benches and a high-temperature kiln. Vincenzo also creates the glazes and colours himself: yellow, cobalt blue, manganese, copper green and “Castelli “ orange, all of which are considered the traditional colours of the region. He fires his artefacts in the “forno a respiro”, or breathing kiln (“because when the wood from our forests burns, it seems to breathe”). “A feature that characterises Castelli’s ceramics is that the terracotta is first glazed and then painted using traditional tools,” explains Antonio, who is in charge of decorating the majolica. A skilled decorator, he creates landscapes of timeless charm, pastoral and mythological scenes, portrayals of farmyard animals and roosters using traditional donkey-hair paintbrushes, which are perfect for an accurate stroke. This is how his plates, jugs, glasses and large trays are created. The products made in the workshop also include traditional whistles and pipes. Today, the Di Simone family represents a tradition that is committed to the craftsmanship of Abruzzo, enhancing techniques inherited from the past, as well as the knowledge of the raw materials in which the territory is steeped.

Fratelli Levaggi

Via Parma 469, Chiavari (Genova)

An ante-litteram design object that, after more than two centuries, continues to be incredibly up-to-date. We are talking about the chair that Giuseppe Gaetano Descalzi, also known as “il Campanino”, created in the early 19th century. Striking the perfect balance between form and function, this chair is characterised by an essential structure that not only makes it lightweight, but also gives it stability. Known the world over as Chiavarine, these chairs are now made by brothers Gabriele and Paolo Levaggi, who followed in the footsteps of their father and uncles, and actually managed to expand their production. The vast workshop contains traditional equipment: bandsaws, grinders, lathes, planes, sanders, as well as hand tools. Countless templates hang on the walls, which are used to reproduce the parts of each individual chair: legs, back, seat. All the steps are carried out by hand and the pieces assembled using heated animal glues, just like in the past. “Natural glues have the advantage that they are not only non-toxic, but also reversible if you need to undo a joint,” explains Paolo Levaggi, who together with his brother and a team of young artisans creates the different models. “We use seasoned cherry, beech and ash wood from the inland areas of Liguria. One of the characteristic features of the

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Chiavarine chairs is the straw seat, which is obtained by weaving thin reeds of rush directly onto the frame according to a warp and weft pattern. This creates a real fabric that contributes to the robustness and tautness of the structure itself. Since research is always at the core of our business, we often collaborate with architects and interior designers, creating bespoke models for them,” Paolo continues. “We try to communicate our work, which is undoubtedly traditional, with an eye to the future: this is why we are present on social media and were selected in 2015 by Google for being one of the few outstanding artisan businesses in Italy to actually increase its turnover,” confides Levaggi. Another feature of Laboratorio Levaggi is the composition of the work team: they are all young people aged between 18 and 30 years old. A real promise for the craftsmanship of tomorrow.

levaggisedie.it

Fabscarte

Via Foppa

50/A, Milan

Emilio Brazzolotto and Luigi Scarabelli are two exceptional master craftsmen who, fascinated by the world of decorative arts, set up a studio in the 1980s dedicated to the design and creation of trompe l’oeils, glazes, patinas, faux marble and wood, and imaginary landscapes to adorn rooms with infinite backgrounds. They became great experts in painting techniques, and in 2012 they gave a new impulse to their business by starting to make hand-painted and hand-decorated wallpapers, much different from anything else on the market. “Nature has always been our source of inspiration: trees, forests, flowers,” the outstanding artisans confide. “But also contemporary art, with all its textures, has become an important element, providing us with new ideas.” Thanks to years of experience and a variety of skills, Brazzolotto and Scarabelli have created highly original wallpapers. “Our starting point is always nature, but we interpret it in an informal way, overlapping the different materials to achieve three-dimensional effects. Our aim is to express emotions but also to allow everyone to interpret and experience what they feel inside of them,” explains Luigi Scarabelli. The workshop occupies a brightly-lit former industrial site, with large windows overlooking the inner courtyard. Amidst an infinity of drawing paper, sketches and sheets resting on tables or hanging on the walls, the two master craftsmen and their team of young assistants design lacquered finishes, silvery streaks, cloudy effects, geometric patterns and textural applications that render the surfaces three-dimensional. Just like in ancient times, they use colours made from different types of earth, glues, natural stucco, shellac... “Our subjects are mainly contemporary,” emphasise Emilio and Luigi, who often bring to life works created by artists and designers such as Martyn Thompson, Allegra Hicks and Francesco Simeti. The Fabscarte studio has recently started producing decorated furnishing accessories, including screens, lamps and appliques. fabscarte.it

Massimo Maria Melis

Via dell’Orso

57, Rome

Massimo Maria Melis makes beautiful jewellery crafted with skill. A historian and master artisan, he has succeeded in transferring into his creations all his passion for jewellery together with the culture of Italy’s heritage. Ancient Rome, Magna Grecia, the Etruscans and the Renaissance are his sources of inspiration. He has also studied and reproduced with infinite care the special workmanship employed in past centuries. “I studied set and costume design at the Academy of Fine Arts. I have worked in cinema and theatre, as well as being a photographer,” the master craftsman explains. “My passion for jewellery was born when I first saw the Castellani collection at Villa Giulia: I was captivated by the elegance of the workmanship and this led me to investigate the techniques of our ancestors.” His workshop is home to the minute tools of

the goldsmiths of the past, pliers and files, as well as extruders and welders. Among the time-honoured techniques Melis has adopted are the casting of gold in cuttlefish bone, the creation of lost-wax models, and even “granulation”, with which he welds microspheres into patterns, an ancient technique in which the Etruscans excelled. “To make jewellery in the same way as in the past, you have to use the same methods and processes,” Melis rightly points out. And the results are incredible. His necklaces with engraved cameos are extraordinary, as are his bracelets, which are crafted combining gold, silver and iron. Not to mention the research of ancient coins, each with its own history, which he selects to embellish his handmade necklaces, or the fragments of polychrome glass and engraved gemstones. His regular customers include many personalities from the show business, politics and even crowned heads, all of whom are fascinated by his talent. “My creations try to convey that particular charm that antique jewellery pieces have always exerted,” confides the master goldsmith. In recent years, he has been joined in the atelier by his daughter Valentina, to whom he has passed on not only all the secrets and techniques of the trade, but also his passion for beauty: a priceless family legacy. massimomariamelis.com

Mazzanti Piume

Via Reginaldo Giuliani 144, Florence

Natalina Mazzanti was an outstanding artisan who created headdresses and decorations with feathers and silk flowers that she made herself. Her skill was renowned even outside Florence, to the point that Parisian couturiers turned to her to embellish their collections. That was back in 1935. Since then, her atelier has never ceased to grow in creativity and refinement, fulfilling the dreams of her clients. Today, the business is run by her grandson Duccio. Assisted by his father Maurizio and a dozen craftspeople, he continues to blend tradition and innovation using the same techniques handed down by three generations of passionate artisans. In his childhood, Duccio Mazzanti used to spend his time after school in the workshop, enchanted by the skill and patience with which the most varied types of feathers were worked. Since then, he has always increased his knowledge and skill in the field. “Thanks to my grandfather, who was a very talented designer, we mechanised the wooden looms to speed up the production of the feather boas, growing from 2 to 20 metres.” Among the customers of this historic workshop are the big brands of Italian and international fashion, movie and show-business dressmakers, and French cabaret. Even the feathered helmets donned by the papal Swiss Guards are brought to life here. “I think a good craftsperson knows just how much of a given ingredient is needed. Since the ingredients are always different, in terms of weight and size, an artisan should be able to understand the right amount called for by the recipe. Just like when you are cooking.” Since 2005, the Mazzanti family has expanded its production with the new Nanà Firenze collection, with which they offer headwear following the tradition initiated by grandmother Natalina, after whom the brand is named. Duccio concludes: “One of our most invaluable sources of innovation are our cooperations with the students of fashion institutes. An extraordinary exchange of passion and experience is born from the partnerships with these creative minds.” mazzantipiume.it

Pagliani & Brasseur

Via Milani 9, Verona

A fascinating family tradition in an extraordinary craft began in the early 20th century with Giuditta Brasseur, an orphan at the Collegio delle Figlie dei Militari for the daughters of army officers in Turin. There she met a schoolteacher who taught her pupils the art of fashioning garden flowers from

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fabric, both to decorate dresses and hats and to adorn rooms. Endowed with a natural manual talent, Giuditta began cutting shapes out of a variety of materials, hot-modelling the petals and making flowers, buds, corollas and shoots. Thanks to her creativity, she soon gained recognition in the fashion world. Her encounter with Giobatta Pagliani, a painter and sculptor who was to become her husband, marked a turning point for the business: Giobatta used clay moulds where the flowers and leaves could be cast in bronze, with the utmost precision, in the chosen materials. Their success was to be recognised by the finest boutiques and haute couture dressmakers throughout Italy, as testified by the rich archive where all the moulds and samples are kept. In Verona, where the family had in the meantime moved, their daughter Luciana also started working in the family business. Years later she would in turn be joined by Anna Tosi, the third generation of this talented family. “Our flowers are made of silk, velvet, leather, felt. We use the tools my grandmother invented: she called them bolle, and we employ them to give the petals and leaves their shape,” explains Anna Tosi, who at the age of 17 had already been singled out by Valentino for her incredible manual dexterity in bringing her floral designs to life. “All the colours are then hand-painted with food colours to create the final realistic effect. The techniques, however, remain a family secret,” the master craftswoman confides with a smile. Among the most extraordinary creations to come out of the Pagliani & Brasseur workshop is a dress made for Dior with thousands of flowers, as well as the lush ornaments designed for the Dolce & Gabbana collections. “In recent years we have started to move into other areas, creating items for interior decoration and design as well as for clothing,” Anna Tosi concludes showing one of her newly designed lamps. Because when it is combined with expertise, creativity knows no bounds.

paglianibrasseur.com

Valigeria Bertoni Via Mulino Trotti 11/13, Varese

The finest pieces of luggage are born outside Varese, in an old watermill skilfully restored by the Bertoni family “Our business was established in 1949 by my grandfather Riccardo in the town centre. Over the years, due to the need for more work space, we had to move and the choice of this mill proved to be the right one, even though being located on three floors can sometimes be complicated. In the warehouse you can still see the old wheel,” explains Gaia, who with her brother Pietro represents the third generation of this family of outstanding artisans. “Our father Alberto was our master: not only did he teach us his know-how, but he also passed on to us his passion for this craft.” Every stage of production takes place inside the factory. “We have our own in-house carpentry workshop to make the frames of trunks, suitcases, bags and briefcases. We have a workshop where the leather is cut and assembled to cover the frames. This is a high-precision work that calls for skill: it starts with the external surfaces of each item, then continues with the application of the small metal parts and ends with the internal lining.” Valigeria Bertoni’s signature product is made of parchment, using the technique that made them famous. But they are also specialised in working with alligator, ostrich, python and cow skins, and with PVC-coated fabrics. “Recently, we have also developed products using recycled leather. Over the years we have worked for many well-known Italian and international fashion houses, for which we realise bespoke models. Starting from the customer’s sketches, or taking inspiration from the Bertoni archives, the Design and Development Team can create very special one-off pieces. Since 2014, we have started our own range under the historical brand Bertoni 1949: products made according to our long-established tradition, but with a new look,” Gaia Bertoni proudly concludes. bertonivaligeria.it

Vivian Saskia Wittmer

Via di S. Lucia 24/r, Florence

Vivian Saskia Wittmer has always had a passion for shoes. She is also one of the few women shoemakers in Europe, and certainly one of a handful of undisputed skill. A pupil of Hamburg’s finest shoemaker, who had learned the tricks of the trade in England, she left Germany at a very young age to move to Florence, where she went on to specialise in the workshop of Stefano Bemer, an outstanding and world-renowned cordwainer. “I worked as his assistant for three years in the late 1990s. When he passed away, I opened my own workshop in the old part of town. Florence is an incredible city, and working here stimulates you to create beautiful things,” Vivian explains. “Ever since I was a child, I have been fascinated by men’s shoes, not women’s shoes with heels: I like comfort,” she quips. Her atelier consists of three rooms, all brightly lit and facing the street. This is where she works assisted by two craftswomen. At the entrance, a large number of shoes hang on the walls, like a sample collection to help customers in their choice. This leads into the second room containing many shelves full of lasts. In the middle of the room is a machine for sewing the uppers. In the last room, the shoes are finally assembled using different hides: leather, calfskin, kidskin, galuchat, crocodile and much more. Clients can customise their choice, and all the shoes are made to measure. This is where Saskia works: her stitching, which holds the shoes together with thousands of tiny stitches, is truly exquisite. “When describing the footwear we make in this workshop, I like to say that the style is that of elegant Italian shoes, the technique is traditionally English, while the functionality of the insoles, with a light support that helps you walk well, is typically German.” In this atelier it is possible to attend courses to learn the shoemaking craft: no qualification is required, and anyone with manual skill and passion can join. Saskia adapts the duration of the courses to suit requests. Usually, the basic course lasts a month or so. saskiascarpesumisura.com

LECTURES IN BEAUTY Giuditta Comerci

Since 2015, students of the Faculty of Design at Milan's Politecnico are being offered a very particular course dedicated to Craftsmanship and Italian Beauty (“Mestieri d’arte e Bellezza italiana”). Fostered by the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, which entrusted the chair to Alberto Cavalli, the course aims at instilling the ability to recognise and continuously regenerate, through sense, the DNA of Italian beauty in the budding minds of the Millennial generation. The meaning of “sense” is the one theorised by philosopher François Cheng: beauty is authentic when it manifests a direction leading to our wellbeing, to our constructive evolution, rather than to our destruction and bewilderment. Beauty when it is the bearer of meaning, when it is the result of a mature and conscious project. When it strikes the senses, and by generating emotion it becomes an indelible and profound part of man. Direction, meaning and emotion represent the manifold sense of beauty that Italy has generated over the course of the centuries, and in which we can map a complex paradigm that enables young designers to identify it.

Acknowledging and avoiding the commonplace, moving away from the production of the unnecessary, growing, learning and identifying oneself in what has value and infusing it into one’s creativity, in the original expression of one’s own, authentic vocation, is the main objective of a course that aims to train the new generations of “Homo Faber”. That is, conscious designers, moulders of tomorrow’s Italian beauty through the culture of design.

Italian beauty is thus presented and studied as a genetic code in its own right, which revolves around several essential criteria: craftsmanship, authenticity,

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competence, creativity, innovation, interpretation, originality, talent, territory and tradition. Each element is examined to define its meaning in artistic, cultural and design terms, in order to understand just how the “code” of Italian beauty can represent a competitive advantage contributing to generating a creation that is at the same time attractive, desirable and successful. In fact, Italian beauty is an essential component of creativity bound to excellence, which in our country has lived a long and prestigious history: but this beauty, far from being just an aesthetic and superficial component, is built and nourished by hard work, commitment, tradition and territory, art and craftsmanship. It is also an additional expression of a talent and an ethic, as well as of an aesthetic, which characterise the excellence of Italian production, and that cannot do without (traditional or contemporary) craftsmanship, which is closely linked to the territory. And that, in an ideal virtuous circle, draws strength and identity from the art, history and the very beauty of our territories. Understanding how to decipher the “construction” of this beauty means recognising that Italy’s tangible and intangible heritage is an endless source of inspiration, not only creative, but also professional and design-related. In order to better link the concept of beauty to that of work, culture and research, the lectures are organised in a number of Milan’s most significant venues: the Poldi Pezzoli Museum, the Palazzina Appiani, the Biblioteca Trivulziana, the Carlo Colla & Figli marionette company, the Gallery of Modern Art... Each lesson is also enriched by the direct testimony of a protagonist of this “Italian beauty”, offering students their experience and vision: Maurizio di Robilant, Ugo La Pietra, Stefano Micelli, Isabella Villafranca Soissons, Sara Ricciardi, Zanellato/Bortotto, Paolo Ferrarini… these masters help students understand that Italian beauty can add to their design skills and the choices they make in their lives. And that it is necessary to help them find their own formal language, which respects and interacts with the beauty that provides them with inspiration.

At the beginning and end of each lesson, and throughout the entire course, the question the students ask themselves is the one Pasolini sets at the heart of La Recessione, one of his most beautiful poems: “a question that is not about money, but only about love, solely about love.” Love of oneself, one’s country, one’s destiny.

A question that Massimo Cacciari addresses well, tracing the ideal continuum between hand and mind all the way from the Renaissance to the present day: “To live well we need industriousness, advice, art, but also hands, feet and nerves: to challenge fate and fortune, the reasons of the body must team up with those of diligence, solicitude and care. If man possessed twice as ingenuity but had no hands, the ’organ of organs’, there would be no doctrines, no buildings and no cities.” That is, design would not exist. Nor, perhaps, would beauty.

THE WORKSHOP OF DREAMS

In his book “The Way of Beauty: Five Meditations for Spiritual Transformation”, philosopher François Cheng writes that, in order to be authentic, beauty must have meaning. And in order to have meaning, beauty must also convey emotion, significance and a sense of direction. All three of these dimensions can be found in Stefano Conticelli’s craftsmanship. The emotion that arises from caressing the leather and the fabrics that are processed in his workshop at Castel Giorgio near Orvieto, in Umbria. The deep significance expressed by every one of his objects, designed to arouse memories, passions and dreams. And, finally, the sense of direction: Stefano’s talent is aimed at defining a world that is more human, more beautiful, more oriented towards people. Or, rather, towards children.

One instantly senses the genuine spirit of this coy man, who knows how to combine manual skill and a talent for design, breathing life into a production that manifests his inner feelings, whilst bearing witness to a territory and culture that are set in the green heart of Italy.

Suspended in time, his atelier is a place of experimentation: what counts here is not mass production, but the authenticity and uniqueness of objects crafted by hand. Nor would one expect anything else from a master craftsman who felt the need to commit to paper the decalogue that sums up his vision of the value of work and life: at point number 6, Stefano invites us to observe children, their gestures, their gaze, because “they are the true masters of beauty, and we will always be their pupils.”

Stefano Conticelli’s rebirth as an artisan and the genuineness of his inspiration stem from the world of dreams and the realm of childhood. His famous lorries were born with the first handmade model he made with the trunks of grape vines and wheels covered with leather (with a canvas canopy bearing the words “Tommy Trasporti Palermo-Roma-Napoli-Milano-Venezia-Torino”), which he gave his grandson Tommaso for his birthday. It marked the start of a long journey that opened the doors of the best companies and the finest homes. For Loro Piana he developed pioneering, one-off pieces expressly made for the maison’s boutiques, with the wording “Loro Piana Attenzione Trasporto Cachemire”. Conticelli performed what appeared to be a simple “revolution” but, in fact, was significantly exceptional: a childhood object stirred a child’s purest feeling while conveying messages of primitive yet autonomous beauty to adults. In so doing, it expressed talent in a free, profound manner, as only authenticity can do.

Bottega Conticelli was established in 2007. What strikes you when entering the workshop at Castel Giorgio – surrounded by exquisite preparatory sketches, which are artworks in their own right – are not the individual objects, but rather the world that opens up before you: an evanescent hemisphere where everything is magical. Riding the legendary Conticelli Vespa means experiencing a true masterpiece, the lines and silhouettes of which are upholstered and customised with Stefano’s skilled leather workmanship (of the natural vegetabletanned variety, the most environmentally-friendly method of all). This savoirfaire is so precious that it takes months of work, from moulding the leather to the final delivery of the iconic two-wheeler in very limited editions. “It took me six months to make my first Vespa. It takes the strength of the hammer and the gentleness of water to open up the pores of the leather, and the combined effect of the sun and Northern wind to dry it out,” he explains in a rush of words, proudly explaining how his creations have been showcased in temples of art and design such as the Milan Triennale, Homo Faber in Venice and Le cabinet des curiosités in Paris and Bangkok.

The fine craftsmanship of Bottega Conticelli translates into an authenticity that is found in the creative effort of the artisan-artist. It takes its distance from imitation and mass production, maintaining the character of uniqueness and authenticity in the techniques, workmanship, use of materials, and aesthetic sensitivity of Stefano Conticelli, who today heads a small team of “intelligent hands”. Conticelli creates new stories and outstanding products for an exclusive clientele. In addition to the Vespa, he makes customised bicycles, to which he has dedicated the PedalandoForte project in Forte dei Marmi (the idea of covering the most ecological vehicle of all with leather is inspired by a return to time-honoured Tuscan saddlery techniques). Not to mention bags, household furnishings (like the trunks embellished with corner guards, hinges and locks made by a skilled Italian metal craftsman) and objects for leisure time. And then, of course, there are the horses, Stefano’s lifelong passion, and one that represents a “living” dimension of his production: from the sculptures he made for the Cheval Résonnant installation presented at the CSIO in Piazza di Siena, in Rome, to the rocking horse featured on the leather-embossed logo of Bottega Conticelli Selleria, his inimitable mark of authenticity. Mastering materials

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such as leather, fabrics, wool, jute and wood requires a well-defined know-how, because every “dream” needs authenticity to come to life.

The opening of the new exhibition space on the ground floor of Palazzo Bracci, in the medieval heart of Orvieto, represents the natural evolution of the workshop. An invitation to set out on a journey, to discover the authentic beauty of all things “Made in Conticelli”.

THE SOUND OF TALENT

“Just listen, listen to that sound.” Nicoletta Caraceni, daughter of Ferdinando, tailor to Milan’s industrialists and intelligentsia in the last third of the century, picks up two seemingly identical fabric cuts, folding and then stretching them between her thumbs and forefingers. “This has a full sound, while the other one is hollow. It’s one of the first things my father taught me: ’Nicoletta, remember that fabrics sing. You need to learn to listen to them.’ And so, to this day, I still make them sing, to figure out which one is right.”

Father is a word that comes up frequently in Nicoletta’s conversation, because hers is a story of the deepest kind of daughterly love. This strong-willed woman has managed to make a name for herself in a male-dominated world in which no one, except her father, seemed prepared to believe in her. And she does not hide the devotion, admiration and gratitude she feels for the man who, as a boy, set out from Ortona in search of fortune. “My father went to work in a tailor’s shop when he was very young, and by the time he turned 16, he was a fully-trained tailor. So, he went up to Milan to work for Domenico Caraceni, with whom he shared the same surname but only a distant kinship. Caraceni had become the greatest tailor of his day by inventing a style that combined Neapolitan tradition with English tailoring, the secrets of which he gleaned by unstitching and mending the suits that Ortona-born composer Francesco Paolo Tosti, who taught singing in the court of Queen Victoria, used to give to his relatives when he returned to Abruzzo from London.”

Ferdinando watched and learned, but in 1943 he had to leave for the war. This is where the story begins to resemble a novel: after the armistice, the Germans captured him and locked him up in a prison camp, from which he managed to escape by volunteering to put out a fire. Holed up for weeks in a cellar in Berlin, he was found by the Russians who, instead of sending him back to Italy, put him on an eastbound train, from which he again managed to escape thanks to a travel companion who realised they were being tricked by looking at the stars. “That’s when my father understood the importance of a good education, a point he always insisted on with my sister and I.”

Nicoletta did indeed study, graduating in Foreign Languages and Literature at the Cattolica University in Milan, where she also began working as an assistant. But then… “The atelier got the better of me. After all, it was where I grew up. On Saturdays and Sundays, I used to accompany my father to the workshop, even though I was always hoping he would take me to the merry-go-round instead. I grew up surrounded by fabrics and their chant, watching him work, absorbing by osmosis, even though at first it never crossed my mind I would ever pick up this craft. Up to a certain age I did not even realise what my father was actually doing: to me it was just like any other job. My perception changed when he took me to Paris to deliver some clothes to his customers. We made the rounds of grand houses, where I was introduced to real-life legends: Hélène Rochas, Nicola Caracciolo and Yves Saint Laurent himself. We were seated in his living room, there was a portrait by Andy Warhol on the wall and artworks everywhere. I felt overwhelmed by all that beauty. Then the designer entered the room and embracing my father he said, ‘Bonjour Maestro!’ Saint Laurent, the number one couturier, was calling my father Maestro.” Although it was too late to learn how to cut and sew, Nicoletta set about

mastering all the secrets of the fitting room: the differences in tone, weight and material of fabrics, the different techniques, the fundamental art of understanding and serving the customer, anticipating his needs, guiding him in the choice of a garment that was destined to accompany him through the years, far beyond any fleeting fad. In 2004, when Ferdinando died, the predestined daughter decided to move on, fending off the sharks that were closing in on her. “My father’s tailoring business was coveted by many. Some of them openly told me that I should sell, that I would never pull it off, that it was not a woman’s job. But the more they provoked me, the more the challenge seemed innovative, stimulating, feminist. Twenty years later I’m still here, carrying on a tradition in the name of my father: the fabrics and techniques are still the ones he used, everything is handmade by us, from the interior quilting to the shoulder pads. I can’t tell you how many times I have been asked to open a corner in New York, to increase production. But my answer is always the same: no, thank you. We make a maximum of 350 suits a year. Beyond that I wouldn’t be able to guarantee the quality that made my father’s reputation. ’You have to work to fly the Caraceni flag high. The Caraceni name alone won’t do the work for you,’ he always used to say.”

Growing the business, increasing production, Nicoletta goes on to explain, would mean not being able to follow closely those who work in the workshop, to guide them and to establish with them the right professional and human relationship. “There are no more than ten artisans working in the tailoring shop, including a few young people who, after training with us on an internship programme financed by the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, I decided to employ. When I hire someone new, I tell them that they have to be patient, that they mustn’t be afraid of making mistakes, because this craft is learned by doing and undoing. Once a customer asked my father, who was already in his eighties, if he hadn’t grown tired of coming to the workshop every day. He looked at him and replied: ’How can I get tired if there is always something new to learn?’”

LEAVING A PAPER TRAIL

Stefania Montani

Harnessing a talent for manual activities and creativity under the guidance of master artisans to transform one’s fragilities into a new life opportunity and increase self-confidence: this is what prompted the ambitious project of Vincenzo Muccioli, the visionary entrepreneur who established the Community of San Patrignano in the late 1970s. Forty years down the line, the artisan ateliers that have flourished within the Community have become internationally recognised centres of excellence. “The Design Lab groups together San Patrignano’s workshops, which include weaving, leatherwork, carpentry, metalwork and wallpaper,” tells us Luca Giunta, sales manager at SanPa. “Today, about 200 young people are employed in the workshops. In over 40 years, San Patrignano has taken in 26,000 youths, of which more than 1,000 are currently living in our community.”

One of the jewels in the crown is the Wallpaper Laboratory, an extraordinary atelier that conceives, designs and produces wallpapers for major architects and designers, such as Peter Marino in New York, Michael Smith in Los Angeles, Thomas Hamel in Australia, Paolo Moschino in London, Piero Castellini Baldissera in Milan, to name but a few.

The manager of the San Patrignano Design Lab is Sandro Pieri, who also oversees all the stages involved in making the paper. “It all started when Renzo Mongiardino, a great architect with truly exceptional taste, was brought to San Patrignano by the Moratti family, which has long been a generous benefactor of this community. He came with a group of outstanding artisans who not only crafted the decorations for the founder’s home, but also taught our young

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guests the techniques by providing them with a real apprenticeship. It was the 1980s: the young people from back then are today’s masters. I was one of them,” confides Sandro, who experienced first-hand all the stages of the struggle to his rebirth.

The wallpapers they make hang out to dry on the walls of the bright warehouse full of long tables. Some are born from the imagination of the young people working in the laboratory, others are commissioned by major interior design brands. “This is where the youngsters interpret the architect’s ideas by hand,” he explains. “Once the sample has been created, they work with stencils, screen printing or they paint freehand with oil or watercolours. The patterns range from contemporary to classic designs, from reproductions of Portuguese or Neapolitan tiles to geometric motifs, from floral decorations to other reminiscent of Mongiardino’s sophisticated style, and even textile reproductions. We have a huge archive, which we store in many drawers: it would be nice if we could create a permanent exhibition with all the prototypes, so we could show them to the students who come to visit our workshops every year.”

The secret of the high quality of their wallpapers also lies in the organisation of the workshop. In a way, it replicates that of a family business, with the generational handing over of the baton after 3 or 4 years of apprenticeship.

“Learning a craft to the best of one’s ability is a great opportunity that the Community of San Patrignano offers, not only as an antidote to addiction, but also to help those in search of a future, those who feel unfit for life,” continues Sandro Pieri. “Through their daily work, every boy and girl here can put themselves to the test and discover, or rediscover, their potential. It takes perseverance. In craftsmanship, competence requires a theoretical and practical knowledge of materials, techniques, and strict rules and practices. SanPa’s young people represent a ’competence’ that is not just technical, but is also empathy, talent, personal commitment to improvement. Above all, this training enables them to take back the reins of their lives. Needless to say, it is very demanding, but if you wake up in the morning with the desire to do this kind of work, then, even if the effort is great, the battle is already won!” he concludes. “We are proud of this project, because craftsmanship saves our youngsters and our youngsters save craftsmanship.”

A course to introduce a digital angle to the craft has recently been launched. “We will always work with our hands, because it is therapeutic. But we want to make sure the young people here also know how to approach technology: for example, to create renderings with the architects’ programmes, and to deal with contemporary design.”

In recent years, in addition to developing the ideas provided by architects and designers, the workshop has been commissioned important interior design projects. These include the Bulgari shop windows all over the world. A great satisfaction for these young craftspeople of excellence, and the fulfilment of a great expectation.

If, as we believe, beauty will save the world, San Patrignano and its young talents are the most extraordinary and touching example of all: a place of excellence and passion that has been, and will be, Tolkien’s star of Eärendil: a light in dark places, when all other lights go out.

A HEAD FULL OF WONDERS

Antonio

Francesco Ballestrazzi is very particular about the way in which people refer to his hats. The Fondazione Cologni bestowed upon him the Maestro d’Arte e Mestiere award, but the road he has travelled to get to his whimsical head sculptures, “tangible thoughts” that look like they have just stepped out of his mind, is a long, complex and varied one. His headpieces are playful complements of the body whose ideas they are designed to protect.

So, when a prestigious Australian department store referred to them as “caps”, it not only seemed to undermine the object itself, but also his creative flair. Born forty years ago in Carpi (Modena), Ballestrazzi is a globetrotter by vocation. He has the quiet yet combative demeanour of those who face life with Calvinian levity, attempting to make the very best out of every experience. He is one of the few in Italy to perpetuate the traditional craft of the hatmaker: creators of striking and spectacular “objects for the head”, through which they actually manage to express themselves. “I started out as a contemporary dancer, so I was talking with my body. Then I injured my ankles in an accident: that put an end to my career, but it gave birth to another one, which allows me to talk with my hands.”

With a smidgen of vanity, he refers to himself as a “milliner”: a butterfly with silk wings perched forever on the rim of a hat to pollinate thoughts. The feathers of a tropical parrot, cut out one by one in silk, are used to create a lightweight, colourful headpiece. Fragile, sustained garlands are ready to frame the face. Long vintage feathers pierce the Bauhaus structure of deconstructed toques. They all represent examples of “creativity, that is, the ability to conceive new ideas and products, which differentiate an artisan from a master, an object from a masterpiece, a simple task from time-honoured expertise. In craftsmanship, creativity is a dynamic force, a mixture of vision, passion and exceptional skills,” as Alberto Cavalli writes with Giuditta Comerci and Giovanna Marchello in the volume The Master’s Touch published by the Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte, which also summoned him to the latest edition of Homo Faber. An event that Ballestrazzi refers to as “a dream come true.”

His atelier is located in Milan, in Via dell’Orso, where he reigns supreme with the apparent, deliberate calm of someone who has all the time in the world, when in actual fact he has countless tasks to fulfil.

The point is that, besides his loved ones, the thing he adores most is not the dazzling fashion system with its hectic deadlines. What he really enjoys is doing things alone: he doesn’t even have an assistant. So, he likes to create each model taking as much time as is necessary, with an approach that has something revolutionary about it: shunning the insane turnover of “products” (another word he hates), even when they belong to elite cultural, aesthetic or artistic systems, in the name of the kind of perseverance that reminds us of Gustave Flaubert’s words: “talent is a long patience.” In his case, it wasn’t just about his patience, but also about his boundless curiosity and very humble approach. He spent the first years of his apprenticeship working with Alexander McQueen, then with Moschino, where he asked to learn everything from scratch. This led him to become an artisan-designer, who first imagines and then executes his projects.

“I’ve always had this gift, which I consider a benevolent kind of schizophrenia: on the one hand, I let my imagination run free, but on the other I can clearly envisage – like a sudden revelation – how I can, or could, actually go about making it.”

In 2011, he established Francesco Ballestrazzi Hats & Creations, to which he has now added the word Artisanal, to emphasise the manual skill that goes into every headpiece. “Even the hats with a visor, which proved a real hit in Japan, although they complained about a few imperceptible flaws, which are inherent in handmade items.” It’s a pity that he was misunderstood. As John Ruskin, the 19th-century philosopher who summed up the key concepts of the Arts and Crafts movement, wrote in his book The Stones of Venice: “No good work whatever can be perfect, and the demand for perfection is always a sign of a misunderstanding of the ends of art.”

In the same way, imperfection allows Francesco Ballestrazzi to draw a lesson from every obstacle, helping him solve problems and overcome the limitations imposed by materials, purposes and the desires of his clients.

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ITALY’S GREAT HERITAGE AND ITS CUSTODIANS

The road of artistic crafts is not an easy one, but it is certainly a dimension in which we can reconsider the role of skill and expertise, the power of experience, the strong pre-eminence of the individual, the awe of the aura, the mystery of beauty, the happiness of competition.

Italy is a hothouse of Beauty, an open-air museum: no other country in the world can boast such a concentration of incredible art treasures. On top of this is the great appeal our country exerts, and how much it is admired all over the world. But that’s not all: those who visit Italy - often more than the Italians themselves, it has to be said - are increasingly discovering, appreciating and loving its unparalleled heritage of fine craftsmanship. A legacy that touches every area of our peninsula, making it a veritable mine of outstanding know-how rooted in the local territories, their raw materials and time-honoured traditions. This many-faceted cultural wealth must be preserved, promoted and protected as an integral part of Italy’s “Great Beauty”. The guardians of this heritage are the many outstanding Schools scattered across Italy, which ensure the transmission of knowledge to the new generations. To these institutions, which often boast centuries of tradition, is entrusted the exceptional but far from easy task of keeping unique skills alive, and ensuring they are passed on. A fundamental need also for our country’s economic and productive system. Tradition is vital and constantly evolving in every sector of fine crafts: from mosaics (Scuola Mosaicisti del Friuli in Spilimbergo), to glass (Scuola del Vetro Abate Zanetti in Murano), to ceramics (with the legendary art institutes of Faenza and Caltagirone); from goldsmithing (Istituto d’Arte Pietro Selvatico in Padova), to watchmaking (Tarì Design School in Marcianise), to metal engraving (Scuola dell’Arte della Medaglia of Rome); from leather goods (Alta Scuola di Pelletteria Italiana in Scandicci), to shoemaking (Politecnico Calzaturiero in Vigonza) and tailoring (Scuola di Sartoria Nazareno Fonticoli in Penne); from the crafts of the theatre (Accademia Teatro alla Scala in Milan), to violin making (Scuola Internazionale di Liuteria, Cremona), all the way to food and wine (Alma, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana in Colorno).

The jewels in Italy’s crown are its four main Schools of Higher Education in Restoration. Admired throughout the world, they represent unique educational institutions linked to our immense artistic heritage. Italian art restorers, renowned for their talent and expertise, are called upon to work on major public and private conservation projects: the Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro, the Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario in Rome, the Opificio delle Pietre Dure in Florence and the Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale in Turin.

“The very existence of these Schools represents the most effective means for the protection of our artistic and artisan traditions and, in some cases, the only safeguard against the permanent loss of the time-honoured traditions of Italian creativity,” writes Giovanni Puglisi, President Emeritus of the Italian National Commission for UNESCO.

All of them offer a wide and complex range of courses, reflecting a wealth of invaluable richness and complexity. They include public institutes of national standing, training schools with traditional ties to the local area, and institutions set up by far-sighted private companies to protect and perpetuate a legacy of culture and production that must not be lost.

These Schools celebrate the daily rituals of skilfully crafted beauty: directors, principals, educational coordinators and lecturers - often juggling many difficulties and not enough recognition - shoulder the responsibility for welcoming, motivating and training young people. Moulding their talent through discipline, morality and the principle of a well-done job, without which even the greatest passion leads nowhere.

Schools that are not, as one might imagine, temples or sanctuaries of knowledge, but living places, forges where talent is combined every day with manual skill. Where tradition is renewed also through the use of the most advanced technologies, precious allies of savoir-faire, and where teaching passes through example and practice, according to the eternal lesson of the Renaissance workshop, which continues to thrive here.

Alongside these great examples are the many Schools committed to disseminating and protecting knowledge, offering young people a fascinating and practical perspective of professional training that is based on passion and talent. The website scuolemestieridarte.it maps this network, providing the first useful directory to offer orientation and information. It includes hundreds of schools of arts and crafts throughout Italy, which are open to interested and curious young people with enough talent and courage to embrace an artistic craft. We hope that many will go on to become the master craftspeople of tomorrow. “Not vases to be filled, but fires to be lit.” (Quintilian)

COSTUMES FROM THE SOUL

Interpretation is one of the cornerstones of all forms of artistic expression. Without interpretation, a piece of music, a play or a painting would not be able to manifest itself in an original way, arousing new and diverse emotions in the public. As Alberto Cavalli reminds us in The Master’s Touch, outstanding craftsmanship cannot exist without interpretation. Indeed, thanks to their interpretation, master artisans mould and give full meaning to an idea, generating objects that are at once beautiful, original, personal and useful.

For 50 years, Venetian master costume designer Stefano Nicolao has been a refined interpreter of the visions of directors and of the personalities of actors and singers. He does not just execute: he actually translates an artistic vision into a costume that represents a character, an emotion, an idea.

Nicolao’s passion for art germinated at a tender age. At 13, he stood up to his parents - who wanted him to become a bookkeeper - and managed to enrol in art school instead. “I was attracted by that scene. I also had a natural inclination: I liked to draw and create things with my hands. I felt I wasn’t cut out for mathematics, which was far too rational, with all its postulates and rules, for a hothead like me.” This training was to prove essential to his future career as a costume designer, along with his passion for the theatre. During his high school years, Nicolao began to work as an extra at La Fenice theatre. He enrolled in university to study architecture, scenography and costume design, and delighted in making costumes and painting sets, even behind the scenes of the theatres where he performed on stage. He thus found himself “learning the trade with the eyes” and realised that this was his calling. Then came his first successes as an actor (“Strehler wanted me to perform in Il Campiello”) alongside a fairly important career in TV and radio. “But I always missed being behind the scenes,” he recalls. “I decided that what I wanted to do was design costumes, even though my parents didn’t approve. They told me I wouldn’t be able to make ends meet.”

Nicolao found a position as a tailor’s assistant in a theatre in Trieste, under the direction of Maestro Angelo Delle Piane. “He made me work alongside him as a fabric cutter, and follow the rehearsals. Just as in a Renaissance workshop, he showed me how you can trace out a costume from just the measurements.” In the late 1970s, aged 25, he took over his old master’s job, and after a series of

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successful seasons, Enrico Sabbatini asked him to work, directly on the slopes of the Himalayas, on the television drama Marco Polo directed by Giuliano Montaldo “It was a milestone, not so much for my career but for my personal experience.” Back in Venice, he realised that the city lacked a point of reference for theatre and cinema. Thus he founded Nicolao Atelier and continued his successful partnerships with the best Italian and foreign directors. But how is a costume conceived? The creative process follows a precise pattern, and is always and above all based on interpretation. “First and foremost, you have to be familiar with the text or screenplay, and understand it. You need to know the characters, how and where and in what period it is set, and of course you need to have a grasp of the director’s vision. Through the costumes, you have to evoke the spirit of the character.” The abstract idea first takes shape in sketches that sum up the form the costume will actually take. The fabrics and accessories are then chosen and everything is discussed with the director. “When you get to the dress rehearsal, you can tell if you are on the right track. If the director approves, my work is finished and it passes on to the actors. My advantage is that I was once an actor myself, and I know what it means to be helped by the right costume.” As was the case with Stefano Dionisi, star of the film Farinelli: Nicolao went to see him in Paris for the fitting of the costumes. After a few minutes of silence, Dionisi enthusiastically exclaimed that he had finally understood who Farinelli really was! “The costume induces an attitude, it forces you to become aware of the character you are playing.” As far as Nicolao is concerned, interpretation does not end here. “I usually choose the materials because they call me. It is something deep inside me, telling me what is right. Before I make a costume, I have this vision of how it is supposed to be. I envisage how it is made, and only very rarely does that change. It often happens the first time I meet the director to discuss it. There is an overlapping of interpretations between my soul as an artist and my soul as a craftsman. When an artist paints, he gives voice to an emotion and portrays it. The artisan has to add specific knowledge of the materials, and of how the artefact must be treated. The goal is to match the final idea with the director’s vision and the text.”

Nicolao Atelier represents Italian excellence for the uniqueness and refinement of its productions. The “Maestro” believes that the legacy of knowledge and experience he has gained over the years should not only be protected but also shared with the new generations. This is confirmed by his team of young collaborators, who engage with him in new interpretations every day. In the name of art and craftsmanship.

CONTEMPORARY META-LUXURY

When Eleonore Cavalli, Art Director of Visionnaire, inaugurated the new Dubai showroom with her brother Leopold (the company CEO) in November 2021, her words were already tracing the evolution of the brand towards the future: “We want to be ambassadors of a beauty strongly connected with our Italian origins, of course, but which nonetheless speaks a universal language: that of authentic, radical sustainability, associated both to respect for the environment and to the comprehensive growth of people, for the benefit of local territories and communities.”

The change in Visionnaire’s corporate bylaws, in January 2022, which led to the company becoming a Benefit Corporation, thus represents the expected and desired goal that Eleonore and Leopold have been pursuing for years: to combine avant-garde design, top-class craftsmanship, international distribution and a respectful attitude towards the ecosystem in an innovative way, in order to create a consistent, effective and new business model. New, because it is the result of a contemporary awareness of the impact that our actions have on the environment. New, because it is connected to the increasingly widespread need to give meaning

to people’s daily work, to the community, to the individual expression of talent. New, finally, because the world of luxury is sometimes slow in embracing similar revolutions, while Visionnaire has been one of the first companies in the multifaceted world of design to take this brave step.

This is the innovation that Italian beauty needs in order to maintain its relevance: not mere changes, but profound awareness and courageous decisions. In the wake of its yearning for conscious innovation, since 2004 Visionnaire has been able to create a personal and meaningful language to communicate excellence and beauty, developing tailor-made products for discerning and imaginative customers. Visionnaire’s furnishing solutions generate advantages for many: “We work with exceptional craftspeople, we select raw materials according to a very scrupulous ethical code, we try to involve our co-workers in a structured way in the pursuit of our ideal of beauty,” states Eleonore Cavalli. “Leopold and I represent the third generation of the family business, called upon to accompany IPE (the parent company, Ed.) and Visionnaire into the future. We have decided to take this step, and become a Benefit Corporation, because this is the future we envisage. To work well, to seek beauty, and to build a responsible and conscious community.” Innovation, for Visionnaire, does not only mean incorporating new ideas into its collections, but also collaborating with artists, designers, artisans to develop a new paradigm, which Eleonore Cavalli describes as Meta-luxury: uniqueness, preciousness, fine craftsmanship, original design. All the traditional elements ingrained in the brand’s identity are preserved, as they are the basis of Visionnaire’s own identity. “But now we have to move in a new direction: luxury is not only about possessing, but also about conveying,” affirms Eleonore. Thus, Meta-luxury is also awareness of what is truly sustainable, and not only desirable. Of what is not only beautiful, but also meaningful. Renowned for its iconic furnishings, often embellished with precious marbles and rare gemstones, Visionnaire has always capitalised on the talent and skills of the artisans and workshops that constitute its constellation of reliable partners to create new collections, often stemming from the kaleidoscopic vision of a team of internationally acclaimed designers.

Investing in beauty, sustainability and innovation has proven to be both wise and fruitful, especially in these uncertain times: “Visionnaire confirms its vocation for bespoke design, and its ability to provide unique solutions with great personality, implementing the design concept at every stage,” remarked Leopold Cavalli. After all, if luxury is about personality and attitude, Meta-luxury is about allowing this personality to express itself in memorable objects, which are never just “things”, but are always meaningful creations of human talent, created to make their fortunate owners conscious of their role: not just customers, but commissioners. This drive for innovation should not be taken for granted. But it has enabled Visionnaire to continue to grow, following the positive trend of recent years, fostering the Renaissance-style paradigm in which Leopold and Eleonore firmly believe: sustaining the local entrepreneurial framework through the model of the widespread factory, and investing in research and development on the sustainability of materials and processes, thus consolidating a business model that minimises waste, consumption and scrap.

A Benefit Corporation creates workplaces, growth and development. But it also creates something more, something new: the insight that the pleasure of making generates beauty. The one and only factor that we will always need.

OUR LADY OF CERAMICS Ugo La Pietra

Thanks to her passion for ceramics, deeply connected with the great tradition of Faenza pottery, and to her interest in the manufacturing world (without, however, being directly involved in it), Antonietta Mazzotti exemplifies the contemporary role of the artisan-artist. Her production consists mainly of one-off pieces, which

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are only virtually inspired by functional objects. Her works convey an original expressive language, both in her technique and in her “poetic” representation. In a recent collective exhibition staged at the Milan Triennale, entitled “Fittile, Artigianato artistico italiano nella ceramica contemporanea”, which focused on “vase-inspired” object, I included her amongst the ceramicists who have the ability to transform and transfigure the vase with an original, creative approach in reinventing an object so deeply tied to our collective memory. In revising an object as consolidated as the vase, talented ceramicists sometimes refer themselves to anthropomorphic or zoomorphic shapes. In the case of Antonietta Mazzotti, her works are original because she introduces formal elements inspired by the natural world: flowers, fruit, plants of oriental origin such as peony petals and aspidistra or gingko biloba leaves, not to mention the mysterious magic of coral. Nature in all its expressive forms underpins Antonietta Mazzotti’s interests and passion. Her original technique re-elaborates and introduces us to her work with a sculptural approach to the material itself. The Selene vase is the one that best represents her ability to steer the object towards a sculptural deformation, which brings a naturally elegant form of transgression to the traditional shape. In particular, this work reveals how elements of natural inspiration (in this case, the corolla of a voluptuous flower) take on new values thanks to the use of “monochrome”: the green glossy or opaque glaze allows the object to discard its former references and develop an aesthetic of its own, which conveys different, personal suggestions to the observer. The gold, which she uses in the third firing to underscore some of the details, highlights just how exquisite her creations are. “Nature is the gentlest, sweetest muse of them all,” Antonietta Mazzotti explains. It is in the combination of colours and symbols from the floral world that her collections or site-specific installations take form, as in the case of the Bambù vase collection, in which the artist arranges different vases in a sequence along the walls, as if forming an abstract installation.

Nonetheless, the work of Antonetta Mazzotti, which is often showcased in ceramic exhibitions in Italy and abroad (particularly the US and Japan), remains true to Faenza. It can be admired in the shop windows of the city centre, and in the neo-gothic glasshouse of Villa Emaldi, her atelier and laboratory. This location, where she also devotes herself intensely to teaching, sums up her creative approach to perfection, surrounded by the 19th-century nature of the Villa’s grounds, which feature also monumental plants and exotic species. Her bond with Faenza’s tradition is both cultural and affective. The artist’s works, which develop through modified essential shapes, represent an example of contemporary ceramics that coexists with more traditional objects, also thanks to her ability to reinterpret Faenza’s traditional ceramics with grotesquestyle decorative details, or references to classic Renaissance motifs. A stunning example of this approach can be seen in the grotesque-style decorations in blue and gold maiolica she created for Collect-The International Art Fair for Contemporary Objects at London’s Saatchi Gallery. Her artisan and cultural roots add even more value to her ability to breathe new life into traditional forms and decorative effects. Faenza’s is a long-standing tradition, and one that continues to serve as an international benchmark for ceramic artists everywhere. Her originality lies in her ability to express, with talent, harmony and elegance, works that contain elements inspired by Faenza’s tradition, but with an innovative take full of unexpected surprises.

THE OLYMPICS OF VIRTUOSITY

Alessandro

In a key passage of his Critique of Pure Reason, Immanuel Kant sums up the relationship between aesthetics and poiesis: “Genius is the talent (natural endowment) which gives the rule to art. Since talent, as

an innate productive faculty of the artist, belongs itself to nature, we may put it this way: Genius is the innate mental aptitude (ingenium) through which nature gives the rule to art.” Going beyond the similarity in terms of the object itself, the philosopher identifies the connection between nature and genius in the productive moment: nature’s creative spontaneity corresponds to an interweaving of reason and imagination that changes the image of historically determined reality, conveying a new meaning.

Every day, this quietly unfolds with arcane wisdom and contemporary passion in the workshop of luthier Guido Mariotto, in Porto Mantovano. His stringed instruments have cast aside archetypal shapes and are reinterpreted in original forms of expression. This is particularly true of the double bass, a sublime icon of refined Western music. The deepest of all stringed instruments first made its appearance in the 16th century, but only achieved solo status between the 19th and 20th centuries. Romantic virtuoso performances, jazz and the avant-garde are merely the most recent stages of what the double bass player Stefano Scodanibbio defines as an “instrumental Renaissance”. They allow us to appreciate strength and expressive intensity, timbre, colour, physicality and spiritual depth, sounds that are textured and harmonious, gentle, fragile and distant. Nonetheless this emancipation is as yet incomplete because, thanks to its innate ductility, the contemporary double bass catalyses experimental experiences in the world of violin-making, composition and performance, from which it constantly transmutes into something new and unprecedented. At the 2021 Concorso Triennale Internazionale in Cremona, the Olympics of violin making, for the first time a double bass made by Guido Mariotto won the gold medal in its category, the best overall score and the Stauffer prize for acoustic quality. An acknowledgement of the artisan’s extraordinary talent, and of a life dedicated to the instrument and to making it. “There has never been a shortage of double basses in my home. My father Gianni is an orchestra professor, but he also used to build instruments. I owe my passion for violin making, and a particular love of this instrument, to him. He used to smile when I would amuse myself slipping small toys into the soundboard through the F-holes. As a teenager, I started working with him, rough-cutting a few pieces. Every day I acquired a new skill. When I finished high school, I went into making stringed instruments full-time”.

The culture of the artisan workshop, characterised by constant innovation and experimentation, translates into a laboratory not only of techniques but also and above all of ideas. “I attended several workshops, in addition to my father’s. With Maestro Gianni Massagrande I perfected sculpting and carving. With Maestro Mario Gadda I learnt how to build violins and violas. I owe them a great deal. Mine was the last generation to have had this opportunity. Since then, training is done mainly in school. But the teaching standards are still high.” An important lesson also comes from the great luthiers of the Mantuan school. “My models are inspired by their work, in particular by Stefano Scarampella.” The latter, moreover, also taught Gaetano Gadda, Mario’s father, thus tracing a line of continuity spanning one and a half centuries.

Maestro Mariotto’s talent lies in his ability to reinterpret this tradition as well as to give material form to the aesthetic desires and needs of musicians: “The dialogue with the performer is fundamental, all the more so since, in recent decades, technique and repertoire have undergone radical changes. The quest for the perfect sound never ends.” The double bass that won the Concorso Triennale competition was the finest outcome of this particular journey. Purchased by the Museo del Violino, it is displayed alongside masterpieces by Stradivarius and Guarneri, as well as the great Mantuan violin makers of the last century. “It’s an incredible emotion. The place and the event are, without doubt, incredibly important. But I also feel I have continued my father’s work, and somehow enhanced it.”

In fact, it is something he does every day in the peacefulness of a workshop where he builds exceptional cellos and double basses with the simplicity of a man who

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works as a refined craftsman but thinks like a great master. Mariotto has harnessed a talent that is an instinctive vocation to pursue a line of work with a practical yet relaxed approach. It is a natural, intangible gift, constantly renewed through work and study. For this very reason, talented artisans are living treasures endowed with a keen sensitivity to materials and their potential, with an innate predisposition to perfection. They are aware that their gift is also a responsibility and they cultivate it with discipline, perseverance and patience, so that it can manifest itself in beauty, mastery and freedom of expression. All features that nurture one another, just like the harmonious sounds of a double bass.

THE MIRACLE OF GLASS

Many films, plays and operas re-enact a bygone world that is always quite compelling. And if those watching the performance are what Alessandro Fersen defines “naïve spectators” (where naïve does not mean ingenious, but simply someone who is carried away by the drama), the return to reality is always with something of a bump.

If the simulation of yesteryear’s world is an intense experience, it becomes positively overwhelming when lived first-hand. This happens when we come across communities in which time has stood still for centuries, impervious to advances in technology and, in some cases, even to thinking.

Passing through the Jewish orthodox quarter of Mea Shearim in Jerusalem, for example, one is immersed in an atmosphere evocative of 18th-century Eastern Europe. Walking briskly and confidently, attired in their elegant, archaic garments, the men and women retrace footsteps dating back a thousand years: a sight that makes one gasp in awe.

A similar emotion is experienced by visitors to Murano who enter its renowned furnaces. Thanks to my mother, who was an antiquarian and a gallery owner, I had the opportunity to frequent the world of glass and its protagonists – the master glassmakers – from a very early age. And, after fifty years, I still feel the same sense of wonder. My work consists primarily in observing, selecting and evaluating the artefacts turned out by those furnaces. Despite the fact that the gallery owner and the curator represent the last link in this magical chain, they are nonetheless an important part of the process. Just like in Mea Shearim, time in Murano seems to have stood still, and the gestures are the same as they were centuries ago. Although in the early 20th century glassmaking opened up to new forms and ideas, it has resisted the advent of automation, which now plays a major role in the processing of stone, marble and recently even ceramics. Some of the master craftspeople working with these materials only intervene during the final stages of the manufacturing process. Glass is altogether a different matter. In the savannah, you light a fire to keep lions at bay. In the furnace, new technologies are fended off by the 1,200 degrees of the vitreous mass moulded by the master glassmaker. Hic sunt leones: when it comes to glass, you cannot programme a shape, design it, put it into a computer and wait for the finished or semi-finished product to come out at the other end. What exactly are the mysteries, the hydrogeological prerogatives of this island that make glassmaking in Murano so extraordinary? In actual fact, they do not exist. The only great raw material is the human element, the knowledge and savoir-faire that the master glassmakers have been handing down for over a thousand years, ever since Venice banished furnaces in 1291 due to the many blazes they had caused. Murano’s territorial nature is a purely cultural one. In Murano, glass still communicates through transparencies and a range of colours yielded by the Venetian Republic’s relations with the Orient.

As early as the 15th century, the expertise of Murano’s glassmakers was considered extraordinary, unique, and a byword for the utmost prestige. The most illustrious exponents of the craft were entitled to wear a sword, and pick a

wife from the ranks of the Venetian nobility. Their knowledge was a jealouslyguarded state secret. Today, a major crisis triggered by the cost of gas (and a general decline in taste) is affecting the island. Yet important artists still flock to Murano from all over the world to see their ideas crafted in glass by the master glassmaker, the master’s assistant, the assistant, the under-assistant, the shop boy and his helper. It is like a synchronised ballet that has remained unchanged, without a safety net, throughout the course of time. It is one of the great wonders of Creation.

Every day, translucent sculptures that have captured the light of Venice’s lagoon leave the island and are dispatched to collectors, gallery owners, museums and foundations. The name of the master glassmaker is not always mentioned: but a signature is not necessary to recognise a style, a technique, an intuition. And when the master glassmaker walks along the island’s Fondamenta Vetrai to go and play cards with his friends, he is surrounded by an aura. A prime example is the great Lino Tagliapietra. To this day, thanks to Murano’s insular, isolated nature, the material is given value, the workmanship is prized and artistic ideas are brought to life. A true meaning is given to that “Made In” label, which is not just geographical, but also a wonderful, if difficult, history.

THE LEG OF PEGUY’S CHAIR

Andrea

Pietro, son of the late Stefano. And so it begins all over again. Could there be a more sublime way of – literally – giving a name to tradition? I am, because I have been. I am what I am today, because I was begotten.

This is the way things have been going for seven generations in a confectionery workshop in Genoa. Today it’s Pietro Romanengo’s turn - descendant of other Stefanos and Pietros - to carry the sweet burden that his ancestors have handed down to him. A place that, as the current “torchbearer” likes to stress, could only have originated here. Here in Genoa, thanks to its harbour and its connections to Asia, thanks to the Arab culture and to the possibility of exporting goods all over the world. And, above all, thanks to the all-Italian mastery of using sugar to preserve and imitate nature. After all, “Italians do it better”.

Everything that fills the nostrils, everything you see when you walk into the atelier in Via Mojon, just a stone’s throw from Brignole railway station, smells of alchemy, of something noble, of gratitude. Don’t call it a business, call it a laboratory. Don’t call them departments, call them workshops. Workshops that came about thanks to specialities invented by the inspired men who first created and then sold them, joining forces to showcase their skills. Since 1780, candied fruits have been prepared here in a secret candying workshop where the soul of the fruit is captured in a skilfully crafted, sugary chrysalid. The seasons chase one another, bursting into the workshop where they are “immortalised”. The techniques used here are also the result of knowledge about the living material, and the quality of the syrup itself. Figs, chestnuts, mandarins, oranges, myrtleleaf oranges, rose petals, fruits and flowers are all prepared to last and become even more precious.

In the confectionery workshop, the sugar spins hypnotically in the basin, crystallising spices and fruit peel. Everything here is about knowledge, potions and patience. Pine nuts from Pisa, almonds from Avola but also cardamom and cinnamon. And so it is that the Orient continues to be part of the city’s history. The craft is also about ambition, and nature is not just preserved but actually mimicked; it becomes a candy, caramella in Italian, an ancient word that deserves special reverence and should be rescued from the insignificance into which it has declined. Hard, chewy, gelatinous. Sweet-making and confectionary are a very serious game. We should try to envisage the world in which it first stirred emotions, like colour hitting a black and white canvas.

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But even now, the palate doesn’t mislead us when it comes across something exceptional; and that is where the benchmark is set, that is where we begin to grasp the full extent of the gastronomic art, and we begin to understand it. We all ate “sweets” when we were children, but tasting a fondant or ginevrina or a droplet of rosolio in adulthood is altogether a different matter. Many things spring to mind while wandering through the workshops of this confectionery laboratory. The city of Genova and how unique it is; the Napoleonic wars to more recent conflicts, which have affected this place and the history of the Romanengo family; the etymology of certain tools and techniques. Yet something is missing here, or rather, something is lost: time. The only thing marking time is the tireless pounding of a conching machine, which has been used in the “chocolate factory” for over a century. This slow, inexorable conching is limited to just one hundred kilograms of chocolate at a time, because that is how you have the luxury of being able to add nothing else. The luxury of making the chocolate bars by hand and wrapping them in foil, again by hand, before placing them in a box with a handmade design. For all these reasons, this place seems the perfect setting for a novel. It should be a destination for a school trip, primarily for teachers. This place is a national heritage, and the people working here are national treasures. It is a place awaiting a new renaissance, an atelier which, on discovering it, leaves one disoriented, as if it were something that needs deciphering, but not with the speed of current times. It fills you with a mixture of pride for being part of this story, for the simple fact of being Italian, of regret, because its story is not adequately recounted, and a touch of the sadness that the wonderful Charles Peguy conveyed in his book L’Argent, which we can only dedicate to the Romanengo family while we thank them for existing (and resisting).

“Once upon a time, artisans were not slaves. They worked. They cultivated an absolute honour, as befits an honour. The leg of a chair had to be well made. It was natural, it was ingrained, it was paramount. It didn’t have to be well made for the salary, or in proportion to the salary. It didn’t need to be well made for the owner, nor for connoisseurs, nor for the owner’s customers. It had to be well made for itself, because this was its very nature. The chair leg had to be well made because of a tradition that had risen from the very depths of the race, a history, something absolute, an honour. And every part of the chair had to be well made. Even those parts that couldn’t be seen had to be made with the same care as the visible ones. The same principle that applies to cathedrals. And it’s only me – with my thoroughly adulterated lineage – who makes a song and dance out of it. There wasn’t so much as a hint of reflection in them. It was just work, and you had to work well. It wasn’t about being seen, or not being seen. It was the work itself that needed to be done properly. It was an incredibly profound sentiment that nowadays we identify as the honour of sport, but back then it reigned supreme in everything. Not just the idea of obtaining the best possible outcome, but the idea of achieving more by achieving the best possible result. It was like a sport, a disinterested, continuous emulation, not just of those that did things better, but those that did more. It was a wonderful sport, and one that was practised at all hours, and which permeated life itself. It came with an enduring sense of disgust for work that was badly done. Of utter disdain for those who had worked carelessly. Yet such an intention never crossed their minds. Every honour converged in this single honour. A sense of decency, and a refinement of language. Respect for home and hearth. The very essence of respect. A constant ceremony, so to speak. Besides, home and hearth were often in the same place as the workshop; the honour of the home and honour of the workshop were one and the same. It was the honour of the same place. The honour of the same fire. What ever became of all this? Everything, from the moment they woke, was a rhythm, a ritual, a ceremony. Everything was an event, and was consecrated as such. Everything was a tradition, a lesson. Everything had its own innermost relationship and formed part of a habit that was holier than holy. Everything was about innermost elevation, about praying,

every day: sleeping and waking, working and taking a measured amount of rest, about going to bed and sitting at the table, about soup and beef, home and garden, the door and the street, the courtyard and the staircase, the bowls on the table. They used to say, as a joke and to mock their priests, that working is like praying. Little did they know how much truth there was in their words.”

THE SHAPE OF BEAUTY

Franco

If you think education is expensive, said Abraham Lincoln, try ignorance. Education: regrettably, this term seems to have disappeared from the radar of social media, but also from the simplest personal and professional relationships. Instead, this word is essential in order for society to develop, for it cannot occur without personal development. This disappearance, progressive but by no means inexorable, becomes even more disturbing for those who believe in the redeeming power of beauty and its creative value. Because it is necessary to educate ourselves also to beauty, in order to be able to grasp its meaning and thus integrate it into our lives.

At the same time fragile and powerful, Italian beauty demands to be loved, admired and discovered. But, in order to love, one must be able to understand, and true understanding can only come from a measured, well-structured educational process, which is both wise and sophisticated.

Has education in beauty, along with respect, politeness and tact in speaking, in responding, in behaving, disappeared? The most ordinary rules of civilised coexistence are being broken on account of a preposterous idea of individual freedom, which in reality is more like anarchic ignorance. We offend and attack one another with cowardly violence, squandering a legacy of literature and spirit that has always distinguished the polemical vein of our country. The territory is destroyed, from our cities (where contempt and sloppiness reign) to the naturalistic areas that are truly priceless. This nihilism of the soul is harmful and generates ugliness.

Education in beauty as an academic, educational and cultural training has not yet disappeared, but it is suffering. We are struggling to provide the younger generations with the (formal) education and (often informal) self-education that has made the fortune of so many brilliant entrepreneurs, driven by curiosity and a healthy dose of ambition: to experiment, to observe, to try. Casting off the mental laziness that makes us follow the same old siren song, and instead allowing ourselves to be surprised by the deep voice of a beauty that calls for commitment, dedication, time and passion. As the Little Prince reminds us, it is the time we dedicate to things (and people) that makes them precious to us. Any authentic educational process must necessarily be costly, in terms of time: but it is also the only truly profitable investment for the future of Italian beauty. And, finally, education as the progressive moulding of character seems to be dangerously feverish. Every good sculptor knows that, in order to obtain a smooth piece of marble, it takes blows and caresses. Likewise, in order to reveal the constructive features of our personality, in order to follow our authentic vocation with happiness, we must be ready to suffer the blows delivered by the talented masters who lift the dead layers from our convictions and perceptions and “form” us, just as an artist moulds the raw material.

Today we tend to forget that educating the younger generations to beauty means ensuring a better future not only to them but also to us, to what we love, to what we care about. As difficult as it is to educate, giving it up would be extremely costly and even downright fatal. Because educating and being educated to beauty means that we can hope to build a better world: more human, more meaningful, more surprising. I hope no one will be offended if I say, in short: more Italian.

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