una storia per il futuro 17.02.2021
DIECI ANNI DI MAXXI 04.08.2021
Giulio Paolini Fuori quadro March 8
April 24, 2021
Napoli piazzetta Nilo, 7
alfonsoartiaco.com
#58 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Claudia Giraud Desirée Maida Helga Marsala Roberta Pisa Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Valentina Tanni Alex Urso Alessandro Ottenga [project manager] PUBBLICITÀ & SPECIAL PROJECT Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi COPERTINA a cura di Tatanka Journal STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 4 febbraio 2021
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COLUMNS 6 L GIRO D’ITALIA Maria Luisa Frisa Stefano Graziani || 12 L Massimiliano Tonelli Che fine hanno fatto gli artisti? || 13 L Stefano Monti Musei e 5G: arriveremo preparati? || 14 L Claudio Musso Il Collegio Montagna Nera || 15 L Aldo Premoli Nessun elicottero nero all’orizzonte || 16 L Fabio Severino I limiti del Recovery Fund || 17 L Renato Barilli La smaterializzazione dell’arte || 18 L Marcello Faletra Ritratti al sangue || 19 L Christian Caliandro Fase tre: i nuovi scenari dell’opera d’arte
NEWS 20 L LA COPERTINA Tatanka Journal A Black Thread || 21 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini Roberto Rossini || 22 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo || 23 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Daniela Spoto || 24 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni / NECROLOGY || 25 L NUOVI SPAZI Massimiliano Tonelli Yudik One || 26 L TALK SHOW Santa Nastro & Annalisa Trasatti Come insegnare l’arte contemporanea ai bambini? || 28 L ART MUSIC Claudia Giraud Uhuru Republic. Arte e musica fra Italia e Tanzania || 29 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Borgen / L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli Operazione Hummingbird || 30 L CONCIERGE Valentina Silvestrini La seconda vita dello Shiroiya Hotel in Giappone || 31 L OSSERVATORIO CURATORI Dario Moalli Arianna Desideri || 32 L COSE Valentina Tanni || 34 L NUOVI SPAZI Aldo Premoli Collica & Partners || 35 L GESTIONALIA Irene Sanesi Si fa presto a dire mentore || 36 L ARCHUNTER Marta Atzeni unparelld’arquitectes || 37 L DURALEX Raffaella Pellegrino Disconoscere un’opera d’arte: il caso Jeff Koons || 39 L DIGITAL MUSEUM Maria Elena Colombo Jeffrey Schnapp || 40 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli Pescara. D’Annunzio e il XXI secolo || 42 L STUDIO VISIT Saverio Verini Mattia Pajè
STORIES 48 L Marco Enrico Giacomelli (a cura di) 13 grandi protagonisti della cultura portati via dalla pandemia
ENDING 76 L SHORT NOVEL Alex Urso Paolo Castaldi 78 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi Piero, quello vero
QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA: Marta Atzeni Renato Barilli Alessandro Benetti Alessio Bertini Luca Bochicchio Margherita Bordino Christian Caliandro Simona Caraceni Maurita Cardone Paolo Castaldi Stefano Castelli Maria Elena Colombo Arianna Desideri Angela D’Urso Elisabetta Dusi Marcello Faletra Fabrizio Federici Maria Luisa Frisa Marco Enrico Giacomelli Giulia Giaume Emilia Giorgi Claudia Giraud Ferruccio Giromini Stefano Graziani Desirée Maida Giulia Marani Cristina Masturzo Elena Minarelli Dario Moalli Stefano Monti Claudio Musso Santa Nastro Paola Noè Mattia Pajè Raffaella Pellegrino Marco Peri Giulia Pezzoli Maura Pozzati Aldo Premoli Maria Rapagnetta Giulia Ronchi Irene Sanesi Jeffrey Schnapp Marco Senaldi Fabio Severino Valentina Silvestrini Daniela Spoto Carlo Tamanini Valentina Tanni Tatanka Journal Arianna Testino Massimiliano Tonelli Clara Tosi Pamphili Annalisa Trasatti Uhuru Republic unparelld’arquitectes Alex Urso Laura Valente Roberta Vanali Saverio Verini
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#58
Venezia
MARIA LUISA FRISA [ critico e fashion curator ] STEFANO GRAZIANI [ fotografo ]
n uno di quei giorni sospesi e confusi che stanno a ridosso della fine dell’anno sono andata alla Giudecca a trovare Carolina Raquel Antich, artista argentina eccellente con base a Venezia da molto tempo. Il suo studio ampio e luminoso è situato in una sorta di agglomerato di bassi loft vetrati, all’interno di uno di quegli spazi verdi nascosti dietro le facciate. Capita, spesso, di scoprire ritagli di verde, in questa città di pietra, marmi, colori e acqua, e a volte per caso, semplicemente occhieggiando attraverso qualche spiraglio nelle cortine edilizie che ci fiancheggiano mentre camminiamo. Qui, da Carolina, siamo dietro a un palazzo, ma anche nell’area di un’ex fabbrica di birra; poco distante ci sono la leggendaria tessitura Fortuny e il mulino Stucky, trasformato, dopo un incendio devastante, in un anonimo hotel di catena. La Giudecca è l’isola che, come un nastro più volte inflesso, segue con le sue curvature quelle del margine di Venezia che le sta di fronte, uno dei profili che compongono la figura per cui secondo Tiziano Scarpa Venezia è un pesce, l’analogia posta a titolo della sua guida sentimentale della città. Interpretando ancora Venezia in pianta, lo scrittore annota anche che il ponte della Libertà, quello che la collega alla terraferma, è simile a un amo: necessario per tenerla ancorata, impedendole di perdersi nella laguna. Attraversare il vasto canale verso quell’isola lunga e stretta mi ha portato indietro nel tempo. Mi ha ricordato perché non amo andare alla Giudecca, ma allo stesso tempo ha in qualche modo riconnesso finalmente la mia vita a questa città di cui non riesco a sentirmi parte, anche se ci sono nata. Quella stessa nebbia che ovattava tutto nel meraviglioso grigio lattiginoso delle giornate invernali mi ha riportato a quando prendevo il vaporetto, una vita fa, per tornare in quell’isola allo stesso tempo vicina e lontana dalla città. Perché io abitavo alla Giudecca, precisamente alle Zitelle, verso la Casa dei Tre Oci, il palazzetto neogotico del pittore Mario De Maria. Vivevo in un appartamento che era stato acquistato per la straordinaria vista. Un ultimo piano con due terrazze che dominavano il canale e da cui avevi un panorama incredibile: dal paesaggio industriale di Porto Marghera fino a San Marco, la Salute, San Giorgio e ancora più lontano. Una casa che tremava quando passavano le navi (non c’erano però ancora le grandi navi) e dove ti pareva di toccare i maestosi fuochi esplosi in occasione della festa del Redentore.
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La visita allo studio era per vedere i progetti che Antich aveva preparato a seguito di una richiesta per lei inedita, dipingere un suo lavoro sulle pareti di una delle stanze della nuova casa. Una delle grandi pareti dell’atelier era occupata da due tele che echeggiavano una superficie impastata del famoso verde veneziano. Una figuretta da una parte su una piccola barca, un punto in cui rifugiare lo sguardo: “È la prima volta che dipingo la laguna”, mi spiegava l’artista. La laguna, silente e immobile, è alle spalle della Giudecca. Prima di essere fermata all’amo della terraferma, Venezia viveva in simbiosi molto più intensa con la sua laguna. E una volta all’anno, il giorno dell’Ascensione, si spingeva a uno dei suoi sbocchi, quello di San Nicolò al Lido, per sposare il mare, nella cerimonia in cui il doge gettava nelle acque un anello benedetto. Proprio qui, lungo il confine della laguna opposto alla terraferma, da pochi mesi si è attuato un mutamento irreversibile nella geografia di Venezia, con la messa in funzione dell’enorme macchina che al bisogno può separare la città dal mare. Il limite in cui celebrare la fusione è ora quello in cui attuare il distacco, e simbolicamente la potenza di questo nuovo cambiamento non è forse minore di quella dell’ormai antico congiungimento con la terra. Questa volta, però, il tempo in cui capacitarsi della trasformazione e, magari, escogitare una nuova immagine analogica compete con quello della sopravvivenza fisica della città.
BIO Stefano Graziani (1971) si muove al confine tra la fotografia, l’arte e l’architettura. I suoi lavori sono stati esposti in Italia e all’estero da istituzioni culturali quali la Fondazione Prada a Milano, la Biennale di Venezia e Manifesta; sono parte di collezioni pubbliche e private come CCA Montréal, Fondazione Prada, MAXXI – Museo nazionale delle Arti del XXI secolo, Fondazione Fotografia Modena. Insegna fotografia all’Università IUAV di Venezia, all’ISIA di Urbino e alla NABA di Milano. Documents on Raphael è un nuovo progetto in corso di pubblicazione per Mousse e sostenuto dall’Italian Council VII edizione. stefanograziani.com
GIRO D’ITALIA è una guida sentimentale che esplora la Penisola, dai più piccoli ai maggiori centri abitati. Seguendo la metafora del ciclismo, procede con lentezza, attraverso lo sguardo dei fotografi associato alle parole di autori di varie discipline. Un viaggio in soggettiva, per tracciare una mappa inedita del nostro Paese – un viaggio curato da Emilia Giorgi.
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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]
CHE FINE HANNO FATTO GLI ARTISTI?
ono stati mesi densi di tante cose nell’ecosistema della cultura. Tra queste anche lamentele, lagne talvolta. Molte e forse troppe, ancorché giustificate dalla gravità della situazione. E i musei chiusi, e i teatri, e riaprite i cinema, e i lavoratori del mondo dello spettacolo. Certo, tutto verissimo. Tutto smisuratamente drammatico. Però è un peccato che questa narrativa abbia tolto quasi tutto lo spazio all’analisi dei risvolti positivi di una terribile crisi. Quali? La grande sfida creativa lanciata a tutti noi dall’emergenza. La sbalorditiva capacità delle istituzioni culturali di ogni dimensione e tipologia di produrre contenuti alternativi alla visita fisica e a farlo per mesi, insistendo per mantenere una connessione con il pubblico. Il commovente boom di visitatori nei musei non appena questi hanno avuto modo, sebbene a intermittenza, di riaprire, e nonostante l’assenza di turismo. Infine, la strabiliante alfabetizzazione digitale che la cittadinanza ha subìto e della quale ha beneficiato in questi durissimi mesi. Insomma, un patrimonio di competenze, elasticità mentale ed educazione (anche civica) che ci porteremo dietro per anni e che resterà con noi anche quando la pandemia del 2020-2021 sarà uno sbiadito ricordo.
S
Tra gallerie impegnate in nuovi format, musei iper-digitalizzati, fiere alla ricerca di una identità, gli artisti sono stati i grandi assenti. Di elementi da leggere in chiave positiva ce n’erano dunque a dismisura, ciononostante non molti si sono concentrati su questo, focalizzandosi più semplicisticamente, in maniera quasi esclusiva, sulle lamentele. Una lamentela però ora voglio farla io: riguarda gli artisti. Tra gallerie impegnate in nuovi format, musei iper-digitalizzati, fiere alla ricerca di una identità, gli artisti sono stati i grandi assenti. Hanno certificato purtroppo la loro marginalità intellettuale e sociale in questa fase e l’incapacità di prendere parola e posizione in un passaggio emergenziale e delicato. Ovvio che ci sono state eccezioni, però in un anno in cui abbiamo avuto la più grande emergenza planetaria dai tempi delle Guerre Mondiali e il movimento Black Lives Matter, i contenuti per produrre opere d’arte indimenticabili e capaci di interpretare e trasmettere al futuro la temperie dei tempi c’erano in abbondanza. Quanti artisti ci hanno lavorato su? Quanti invece hanno deciso di astenersi? Nessuno si aspetta un interventismo artistico dei vecchi tempi delle avanguardie, intendiamoci. E nessuno vuole artisti che registrino il presente o ancor meno l’attualità, come se fossero reporter di qualche tg o didascalici commentatori del presente. Tuttavia, a furia di chiamarsi fuori dalle questioni che interessano la collettività, ci si autocondanna alla pochezza politica, civica e ahimé anche culturale. Auguriamoci che, qui come altrove, la ripartenza post-pandemica suoni una utilissima sveglia.
STEFANO MONTI [ economista della cultura ]
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C
LE CARATTERISTICHE DEL 5G
SLICING permette di ottimizzare le risorse di rete
SDN gestione dinamica della banda
RAPPORTO DEVICE/KMQ
LATENZA diminuisce l'attesa fra domanda e risposta del sistema
5G
1 mln per km2
VS
4G
1k/100k km2 RISPARMIO ENERGETICO -90% per bit rispetto al 4G
VELOCITÀ fino a 10 Giga al secondo
0%
100%
In che modo è necessario agire affinché il nostro sistema museale, e, per estensione, il nostro sistema culturale, siano in grado di recepire le innovazioni? Una possibile soluzione per questo dilemma apparente può essere la previsione di una apertura al “privato”: la creazione di team di soggetti esterni alla Pubblica Amministrazione che coadiuvino il direttore nella definizione di strategie, e nella definizione di azioni da implementare all’interno del museo. A ben vedere, si tratterebbe di formalizzare quanto già avviene in molte strutture e istituzionalizzare una “figura collegiale di advisor” per i direttori. Costi meno ingenti per l’amministrazione, incarichi trasparenti con la previsione di obiettivi di risultato e un sistema museale più incline alle innovazioni.
L EDITORIALI L
on l’avvio del nuovo settennato e, soprattutto, con le indicazioni contenute in termini di recovery plan, risulta pacifico affermare che nei prossimi anni, con ogni probabilità, il 5G diverrà una realtà per il nostro Paese. Sebbene sia un tema che, a prima vista, può apparire distante dal mondo culturale, l’implementazione di tale tecnologia può avere degli effetti importantissimi sul settore, dalle trasmissioni di eventi (sportivi o di spettacolo) fino alle grandi innovazioni in termini di “ologrammi”, e l’applicazione del protocollo dell’Internet of Things. Soprattutto, la grande importanza del 5G è nelle nuove possibilità infrastrutturali che esso fornisce, da cui potrebbero derivare altrettante innovazioni a oggi ancora inesistenti. Come già accaduto nel recente passato, tuttavia, non sempre le possibilità, specie quelle tecnologiche, sono state opportunamente colte dal nostro sistema culturale. Basti pensare che, ancora oggi, ci sono musei che non dispongono di una rete Wi-Fi per i visitatori, con tutte le limitazioni che tale disfunzione comporta, ad esempio la difficoltà di fornire app che funzionino online, o la possibilità di poter realizzare delle mappe di calore che restituiscano una visione dinamica dei percorsi dei visitatori all’interno dei musei. A ben vedere, non si tratta solo di capire quanto i nostri musei siano o meno tech-friendly. Quella del 5G è semplicemente un’ulteriore occasione per poter riflettere su quanto l’organizzazione del nostro attuale sistema museale sia in grado di recepire e/o di rispondere alle innovazioni in corso. Riformulando, quindi, la questione diventa: in che modo è necessario agire affinché il nostro sistema museale, e, per estensione, il nostro sistema culturale, siano in grado di recepire le innovazioni? La risposta, ovviamente, non può che essere organizzativa: oggi i nostri musei hanno grandi direttori, che tuttavia sono chiamati a svolgere mansioni che spesso distano non poco dalla propria competenza diretta. E qui sta il punto: se da un lato non si può certo pretendere che una stessa persona possa essere esperta di storia dell’arte, di economia, finanza pubblica, gestione di impresa, tecnologia applicata, marketing e comunicazione, è altrettanto ovvio che non si possa prevedere che ogni museo disponga di quattro direttori diversi (Direttore Scientifico, Manager, Direttore Finanziario e Direttore Tecnologico).
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MUSEI E 5G: ARRIVEREMO PREPARATI?
Ma questa è solo una delle potenziali innovazioni organizzative: la previsione di strumenti tecnologici all’interno del nostro quotidiano, ivi inclusi i musei, può essere tanto importante e disruptive da poter prevedere la gestione, in appalto, di tutte le dimensioni tecnologiche legate al museo: dalla realizzazione di audioguide, app, display, alla biglietteria, alla creazione di modelli IoT per l’analisi dei visitatori. I servizi ausiliari e aggiuntivi sono stati introdotti nel nostro ordinamento molti anni fa e, per quanto figli di una visione lungimirante, rispondevano alle esigenze dell’epoca. Esigenze che potrebbero essere mutate. Chi lo ha detto che tali servizi non possano suddividersi in “Area Tech”, “Area promozione e comunicazione” e “Area mostre e accoglienza”?
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CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]
IL COLLEGIO MONTAGNA NERA
n epoca di onlife, di spettatorialità da tastiera e di “Netflix della cultura”, elogiare il servizio pubblico sembra un gesto tutt’altro che scontato. Qui, in realtà, più che incensare la RAI in sé, il riferimento è diretto alla piattaforma RaiPlay e in particolare al programma Il Collegio. Prima di darmi del matto, però, provate a leggere le motivazioni che seguono. Durante i vari periodi di chiusura più o meno forzata, la necessità di guardare la “TV” con prole in età scolare ha spinto molti genitori a uscire dalla logica film/cartoni animati esplorando serie e programmi simili. Seguendo questa via, ci siamo ritrovati un giorno di fronte al preside Paolo Bosisio (il cui curriculum basterebbe a motivare la serietà della produzione) e alla sua squadra di docenti e collaboratori. L’impatto iniziale, va ammesso, non è stato dei migliori: nella mente si affastellavano giudizi (e, soprattutto, pregiudizi) di varia natura, dalla struttura vetero-militaresca delle formule educative alla sgradevole presentazione degli scolari in stile reality per adolescenti. Poi, all’improvviso, ecco comparire immagini di repertorio, provenienti forse dai leggendari archivi della Radiotelevisione Italiana, in cui un ispirato Allan Kaprow guida un gruppo di sodali alla realizzazione di un’azione corale a bordo di una automobile. Eureka, lo Happening arriva sul piccolo schermo, senza mediazioni riduttive e per di più in prima serata! Se nelle puntate delle prime due stagioni della serie dedicate rispettivamente al 1960 e al 1961 non mancano i puntuali riferimenti al contesto storico e sociale, per gli art addicted è una vera sorpresa constatare l’inserimento narrativo di pratiche innovative, troppo spesso considerate “incomprensibili” per il grande pubblico.
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Le clip de Il Collegio sembrano porre l’arte al centro, quanto meno dei nostri schermi. Non è l’unica nota di colore. Nella quarta stagione dedicata al 1982, accanto alla vittoria ai Mondiali della Nazionale italiana e a svariate note socio-economiche, tra una lezione e l’altra compare un approfondimento sulla Street Art che, con la voce narrante di Simona Ventura, passa in rassegna il fenomeno dalle prime tag del Bronx ai variopinti murali di Keith Haring. A parte le solite inesattezze, le immagini scelte sono molto fedeli al tema trattato, si vedono le periferie, le carrozze della metropolitana, i muri scrostati, persino carcasse di auto bruciate, non c’è un filtro buonista o moralista, il racconto nel complesso è onesto e realistico. Passando in rassegna l’intera serie non ci sono più dubbi: la qualità media con cui l’arte contemporanea viene presentata all’audience è decisamente alta. Non mancano anche camei, pillole di approfondimento e inserimenti ad hoc, come una litografia del Futurismo rivisitato di Mario Schifano alle spalle del preside nel suo ufficio. Oggi poi che gli interrogativi sull’insegnamento artistico nelle scuole di ogni ordine e grado ricorrono continuamente, e non sono solo le Accademie a confrontarsi con numerosi irrisolti, le clip de Il Collegio sembrano porre l’arte al centro, quanto meno dei nostri schermi.
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IL COLLEGIO
5 stagioni 27 puntate
Produzione Italia 2017
120’ a puntata Prima stagione (gennaio 2017) ambientata nel 1960 Giochi della XVII Olimpiade a Roma puntate
4
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5%
8,49%
7,50%
7,25%
Seconda stagione (settembre - ottobre 2017) ambientata nel 1961 Centenario dell’Unità d’Italia puntate
4
10% 5%
7,70%
7,20%
7,20%
6,50%
Terza stagione (febbraio - marzo 2019) ambientata nel 1968 Rivoluzioni del ‘68 puntate
5
10% 5%
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10,40%
9,70%
7,80%
6,70%
Quarta stagione (ottobre - novembre 2019) ambientata nel 1982 Mondiali di calcio Spagna ‘82 puntate
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10% 10,70%
9,73%
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11,10%
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10,20%
5%
Quinta stagione (ottobre - dicembre 2020) ambientata nel 1992 Mani pulite, stragi di Capaci e via d’Amelio puntate
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ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]
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Zakaria è convinto che nessun singolo Paese possa più ambire a organizzare il mondo intero. E si spinge più in là quando afferma che in realtà nessuno vuole davvero farlo. La sua analisi non è tenera: negli ultimi vent’anni il mondo è stato scosso fino al midollo tre volte. Dall’11 settembre 2001, dal crollo finanziario del 2008 e ora dal virus. Ognuna di queste minacce asimmetriche è diversa da qualsiasi cosa accaduta prima. Tuttavia Zakaria presenta ipotesi piene di speranza per il recupero di quella simmetria di cui ha bisogno il pianeta per la sua sopravvivenza nel futuro prossimo. Sottolinea innanzitutto l’importanza di investire nella sanità e nell’istruzione, insieme alla necessità di utilizzare scienza e tecnologia. Sostiene inoltre che quanto accaduto ha reso obsolete categorie
come sinistra e destra, democrazia e dittatura, evidenziando quella che avrebbe dovuto essere da sempre l’arma vincente alla sfida posta in campo dal più becero populismo: un buon governo. Qualcosa del resto si è mosso. Nella UE, ad esempio, i governi più ricchi – grazie all’asse Francia-Germania e alla volontà di alcuni funzionari come Ursula von der Leyen – hanno messo a disposizione valanghe di denaro per soccorrere quelli più poveri: inutile speculare, non era mai accaduto in precedenza. Per Zakaria occorre riconoscere quel che le crisi globali hanno reso evidente: la necessità di cooperazione internazionale, l’unica vera soluzione alla crisi sanitaria in corso e a quelle prossime venture, di qualsiasi genere esse siano. Sarebbe ad esempio un suicidio idiota sperare che un’Organizzazione Mondiale della Sanità – mal finanziata e debole come quella attuale – appassisca: occorre piuttosto finanziarla meglio e darle più autonomia, in modo che possa resistere a malsane pressioni della Cina, degli Stati Uniti o di chiunque altro, nel caso in cui un’emergenza sanitaria lo richieda. Zakaria è convinto che nessun singolo Paese possa più ambire a organizzare il mondo intero. E si spinge più in là quando afferma che in realtà nessuno vuole davvero farlo. È pur vero che la collaborazione internazionale richiede però alcuni elementi di processo decisionale collettivo. E difatti indica precedenti inequivocabili, che esistono e sono sotto gli occhi di tutti: dalle telefonate internazionali ai viaggi aerei, dal commercio alla proprietà intellettuale, fino all’emissione di clorofluorocarburi. Zakaria sostiene che un “governo mondiale” non sia affatto alle porte: si tratta di un’ipotesi fantascientifica utilizzata per spaventare i più fragili, facendoli fantasticare intorno a un esercito segreto che discende su di loro da brutti elicotteri neri. Ciò di cui il mondo ha veramente bisogno è più efficienza per una governance globale: fatta di accordi tra nazioni sovrane per risolvere problemi comuni. L’imperativo della cooperazione non è in nessun luogo più evidente che nel rapporto tra le due maggiori potenze mondiali, gli Stati Uniti e la Cina. La Cina non è più semplicemente la seconda economia più potente e la seconda più ingente spesa militare. Dei 500 computer più veloci del mondo, 226 sono in Cina, il doppio rispetto agli Stati Uniti. Zakaria indica
Fareed Zakaria, Ten Lessons for a Post-Pandemic World W. W. Norton & Company, New York 2020
due possibili futuri. Il primo basato sulla competizione in molti ambiti – economico e tecnologico, ad esempio – ma anche sulla cooperazione, per assicurare pace e stabilità e per raggiungere obiettivi comuni. Impossibile ad esempio affrontare i problemi collegati al cambiamento climatico senza un’azione sostenuta e coordinata sia da Washington che da Pechino. Il secondo con le due società più dinamiche del mondo, bloccate in spirali negative in continua ascesa: dalla militarizzazione dello spazio all’armamento del cyberspazio, che alimentano una corsa verso la costruzione di strumenti nell’intelligenza artificiale e nella bioingegneria, che potrebbe produrre conseguenze non intenzionali di cui è impossibile quantificare la portata distruttiva. Ora, se è vero che la cooperazione è sempre stata una delle caratteristiche fondamentali degli esseri umani, quella che molti biologi credono sia alla base della nostra sopravvivenza nel corso dei millenni, la scelta non dovrebbe essere così difficile.
L EDITORIALI L
e sfide che ci aspettano dopo la pandemia, se osservate senza pregiudizi o negazionismi idioti, fanno paura. Ma la paura è un sentimento sano, un’allerta biologica insita in ogni individuo, utile per la conservazione della vita. Ora il virus ha reso evidente che la curva ascendente all’infinito dello “sviluppo”, quello prefigurato in Occidente dalla rivoluzione industriale in poi, crea rischi sempre maggiori. Il contraccolpo della natura è ormai ovunque: incendi, uragani, e adesso la pandemia globale, che potrebbe essere la prima di una serie. Quest’ultima esperienza ha accelerato però anche altre tendenze. In Dieci lezioni per un mondo post-pandemia, Fareed Zakaria (Bombay, 1964) prova a immaginare come potrebbe essere rimodellato il nostro modo di vivere da qui in avanti. Zakaria, figlio di uno scrittore indiano ma naturalizzato statunitense, è uno specialista in politica ed economia internazionale. Negli Usa è ritenuto da molti la testa pensante più influente in politica estera della sua generazione: si è laureato in Storia a Yale e, dopo aver studiato politica internazionale a Harvard con Samuel P. Huntington, è diventato a sua volta libero docente.
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NESSUN ELICOTTERO NERO ALL’ORIZZONTE
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FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]
I LIMITI DEL RECOVERY FUND
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utti i lettori mi perdoneranno, ma è più forte di me, non riesco a non dire ciò che penso. E del resto una rubrica da editorialista ha proprio questo vantaggio: parlare liberamente. Ecco, sono inorridito dai temi di spesa del Recovery Fund, relativamente alla cultura. Intanto sembra sia arrivato Babbo Natale: regali per tutti, bravi e cattivi, perché la vita è buona e tutti umanamente siamo degni (e bisognosi) d’amore. Ma non è Natale. Bensì si tratta di uno sforzo collettivo, pubblico (nel senso di “riguarda tutti”) a contribuire a rilanciare il Paese dopo questo grande stop pandemico che non ci ha permesso di lavorare. Il RF deve essere usato per rilanciarci socialmente ed economicamente. Mentre nella lista di cose da fare con questa dotazione ci sono spese – mi si permetta – la qualunque. Tanto per citarne una: perché 290 milioni (sì, “duecentonovanta”) per Cinecittà dovrebbero essere uno strumento di rilancio dell’Italia? Parliamo di una nicchia di mercato. Simbolica, bellissima per carità, ma di sicuro non determinante l’uscita dalla recessione per 60 milioni di italiani. Ammesso – e non concesso – che nuovi scintillanti studios rilancino la produzione cinematografica internazionale in Italia, che impatto ha questo sul PIL,
La domanda da farsi è semplice: spesa o investimento?
sull’occupazione in proporzione al valore di quasi trecento milioni? Perché la domanda da farsi è semplice: è spesa o è investimento? Se la forbice tra costi e ricavi, anche nel tempo, è positiva, allora è la seconda. È un calcolo facile facile, ma dubito tanto che qualcuno l’abbia fatto nello scegliere questa come le altre azioni per la cultura da fare col Recovery Fund. Ovviamente una buona procedura prevedrebbe che, dopo una prima redazione della lista con le azioni tutte a segno positivo, si faccia un’ulteriore cernita in relazione ai fattori tempo e crescita esponenziale. Ovvero questa iniziativa dopo quanto diventa profittevole per la comunità (secondo i parametri economici, finanziari, occupazionali, di indotto) e quanto in progressione
890 mln 520 mln 440 mln 300 mln 290 mln 200 mln 200 mln 200 mln 100 mln 100 mln 100 mln 100 mln 70 mln 20 mln
geometrica? Perché, come sappiamo, l’apertura di un museo ad esempio genera effetti positivi sui valori immobiliari circostanti e innesca aperture commerciali come librerie, ristorazione, ricettività, gallerie, servizi all’accoglienza, per non parlare di riqualificazione urbana e sociale. Le azioni scelte per il RF cosa innescano invece nel lungo periodo? Detto tutto ciò, spero tanto che questa sia solo una lista indicativa. Quando i soldi saranno veramente disponibili (3,5 miliardi di euro, sigh!), che si faccia un lavoro diverso, lungimirante. Non solo perché si tratta di un prestito (ma anche per il fondo perduto la coperta sempre quella è), ma soprattutto perché, se non genera economicità, chi un giorno dovrà pagare il conto non avrà di che dare.
Potenziamento dei grandi attrattori turistico-culturali Piattaforme e strategie digitali per l’accesso al patrimonio culturale Miglioramento dell’accessibilità fisica Piano nazionale borghi Sviluppo di Cinecittà Formazione turistica Miglioramento delle infrastrutture di ricettività Miglioramento dei servizi turistici Supporto operatori culturali transizione green/ digitale Periferie urbane Turismo lento 11% Parchi e giardini storici Restauro luoghi di culto e abbazie Turismo delle radici
25%
14%
9%
I 14 PROGETTI FINANZIATI CON 3.53 MLD PNRR – PIANO NAZIONALE DI RIPRESA E RESILIENZA MISSIONE 1 – CAPITOLO CULTURA (BOZZA)
6% 6%
8%
6% 3% 3% 3% 1% fonte: AgCult
16
2%
3%
RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]
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QUANDO COME DOVE RIAPRONO I MUSEI
C’è il rischio che si scopra che la presenza fisica delle opere d’arte stia diventando superflua. Del resto non c’è artista o gallerista di qualche reputazione che non abbia il suo bravo sito visitabile. Io stesso, nel mio blog personale, www.renatobarilli.it, continuo ogni domenica a stendere una recensione di qualche mostra appunto visitata solo per via virtuale. E ogni giorno per email ricevo un invito a collegarmi a trasmissioni online di eventi, dibattiti, presentazioni. C’è insomma il rischio che si scopra che la presenza fisica, reale delle opere d’arte stia diventando un qualcosa di superfluo, come del resto sta avvenendo per la moneta, dove il ricorso al cash viene sempre più sostituito dalle carte di credito. Del resto, io sono un seguace di McLuhan della prima ora, e dunque secondo il suo insegnamento inneggio all’estendersi del villaggio globale. Sono stato anche un accanito sostenitore del ’68 e della sua predicazione della morte dell’arte, fatta con gli strumenti tradizionali, a favore del ricorso proprio ai nuovi mezzi tecnologici, foto, video, perfino emissioni verbali. Però non dimentichiamo che nello stesso tempo si inneggiava pure alla presenza del corpo fisico, attraverso la Body Art, il comportamento in genere. E ci sono i ricorsi storici. Oggi siamo in una fase di ritorno alla fisicità della pittura, proprio Artribune dedica una voce settimanale a questa eventualità, che magari non si esplica con un ricorso al “quadro”, ma nelle nuove, o antichissime forme, del graffitismo, muralismo, street art. Noi stessi non riusciamo a smaterializzarci, viviamo in ambienti con pareti, muri, interni ed esterni, che richiedono il conforto di una decorazione. Non per nulla tra i tanti requisiti del momento c’è l’istanza ambientale, e come la si soddisfa, se non con realizzazioni concrete, solide, ingombranti? È giusto riconoscere la diffusione dei mezzi incorporei, ma bisogna anche mantenere un buon equilibrio tra questa invasione del “senza corpo” e invece una sopravvivenza di quanto si esprime solo per vie materiali, sensibili, verificabili con tutti gli organi di senso.
situazione al 1° febbraio 2021
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o atteso fino all’ultimo a stendere il mio solito contributo per l’edizione cartacea di Artribune nella speranza che il ministro dei beni culturali Franceschini si decidesse a togliere lo stupido e insensato divieto ad aprire musei, mostre, e anche cinema e teatri. Ora è venuta solo una mezza misura, a favore delle collezioni permanenti e solo per le zone in fascia gialla. Troppo poco, per chi vive ad esempio in una regione come l’Emilia Romagna, in fascia arancione e con divieto persistente per le mostre temporanee [l’articolo è stato scritto prima del 1° febbraio 2021, N.d.R.]. Un divieto che non trova giustificazione, in quanto quei luoghi sono i più facilmente controllabili con le varie misure, termo-scanner all’ingresso, mascherina, entrate in numero limitato e con osservanza delle distanze eccetera. Giusto imporre il coprifuoco, basterebbe tenerlo fissato alle ore 22 così da impedire le movidas, occasioni di affollamento giovanile, ma i musei non sono certo tentazioni di massa, e invece enorme è il danno che si fa a mantenerli serrati. Si alimenta il sospetto che possano apparire addirittura inutili, sostituibili coi vari siti della telematica, dove in effetti è possibile veder apparire in versione passabile sia i capolavori del passato sia le opere del presente.
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LA SMATERIALIZZAZIONE DELL’ARTE
dal 18 gennaio
nelle Regioni gialle (e, in futuro, bianche) Valle d’Aosta Piemonte Lombardia Veneto provincia autonoma di Trento Friuli-Venezia-Giulia Emilia-Romagna Liguria Toscana Marche Lazio Molise Campania Basilicata Calabria
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MARCELLO FALETRA [ saggista ]
RITRATTI AL SANGUE
ungo tutta la storia della rappresentazione in Occidente, il sangue ha agito da medium di comunicazione visiva. Dalla condizione estatica barocca (Caterina da Siena, Ludovica Albertoni, Corneille ecc.) a quella estetica dell’orrore sublime di Burke, si delinea il rapporto tra culto del sangue e ritratto. Il sangue che cola dalla testa mozza di Luigi XVI [1] inaugura una nuova concezione del ritratto. Un’immaginazione avida di cadaveri, attratta dalle teste mozzate, curiosa di vedere ventri squarciati, invade la letteratura e l’iconografia dell’arte, che coesiste ai paesaggi idillici e alle immaginarie arcadie. Il patibolo al modo di un rituale coniugava libertà e terrore, i cui esiti estetici non mancano ancora oggi di avere forti ripercussioni. È nota la serie di autoritratti di Marc Quinn [2] dal titolo Self. Si tratta di calchi della sua testa, nei quali ha versato il suo sangue. Ogni cinque anni ha rinnovato l’operazione di colatura del sangue in un nuovo calco, documentando il processo di d’invecchiamento avvenuto. I ritratti al sangue di Quinn, esito ultimo dell’ecce homo, non cercano qualcuno, non si scambiano con altri, e neppure informano su uno stato d’animo. Ma qui il sangue si tramuta in feticcio: diventa la forma costante che nel tempo stabilisce non l’identità dell’artista ma il suo simulacro. L’unico segnale che rimandano è la constatazione che il ritratto non è più la trascendenza di una vita, ma l’immanenza della morte. Quando è stato chiesto a Quinn se, una volta morto, sarebbe disposto a esibire la sua testa mozza in una teca, non ha
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Artisti, filosofi e poeti, come Mefisto, hanno sognato le aule di anatomia per sostanziare un pensiero e un’estetica, di cui l’immagine del cadavere è l’ultima maschera disponibile. esitato ad acconsentire. D’altra parte, i reliquiari trasformano i resti umani in opere d’arte. “Se moriamo, rimane un cadavere”, affermava Heidegger. L’anatomista e lo studente di medicina lo sanno bene. La parola morte per il filosofo è ancora un termine romantico – cadavere è più appropriato: è solo cosa. Il positivismo della scienza, contro cui Heidegger si scagliava, ritorna però nell’impiego di quella parola – cadavere – che è l’immagine materialista del macabro che popola le sale di anatomia dove si dissezionano cadaveri, come quelli descritti da Pasolini in Porcile, dove tra una birra e un’altra un nazista discute col padre del progetto di fare una raccolta di cadaveri di ebrei. In queste immagini, che transitano dall’arte alla filosofia, si assiste al trionfo del feticismo. Artisti, filosofi e poeti, come Mefisto, hanno sognato le aule di anatomia per sostanziare un pensiero e un’estetica, di cui l’immagine del cadavere è l’ultima maschera disponibile. Dalla mano sanguinaria della notte invocata da Macbeth fino alle Totenmasken di Arnulf Rainer [3], l’estetica della morte non ha cessato di soddisfare le richieste dei suoi consumatori. La proibizione del suicidio avvalora la tesi che la rappresentazione della morte è schiava della sfera del valore – filosofico, poetico, estetico…
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CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]
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abbastanza facile – e infatti sembra l’atteggiamento più diffuso – in questo momento trincerarsi dietro l’attesa speranzosa che tutto ritorni come prima, che le mostre riprendano, che i musei riaprano eccetera eccetera. Altrettanto facile è (o sarebbe) rendersi conto dell’assurdità di questo stesso atteggiamento, per il semplice fatto che ciò a cui tanto apparentemente desideriamo tornare “non ha più senso”, come Paul B. Preciado ci avvertiva ormai mesi fa (Tornate, sbrigatevi. Ma per andare dove?, “Internazionale”, 21 settembre 2020). La “vita normale” – o ciò che in molti consideravano tale – non esiste più, e ciò vale ovviamente anche per l’arte contemporanea.
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L’opera non deve per forza accettare gli argomenti, le caratteristiche, gli atteggiamenti e le disposizioni del proprio contesto (del contesto in cui esiste, ma a cui non appartiene). In questo conflitto tra verità interna e immagine esterna molte delle opere d’arte degli anni recenti sono probabilmente cadute, implose. Allora, la sottrazione dolorosa e traumatica di questi mesi ci aiuta forse a vedere e a rivedere ciò che era rimasto nascosto, sommerso dal discorso attorno all’arte, da tutti i livelli e gli strati che la circondano senza lasciarla libera. La storia già scritta, il copione, il format del racconto, la struttura rigida sono le forme della finzione – e della retorica. Il controllo non è attivo solo nella nostra società, ma anche e soprattutto nella cultura.
L’opera ha dunque finalmente l’occasione di riflettere la sua verità e quella del suo autore (che è sempre ambigua, contraddittoria, incompleta), abbandonando le pose comode ma finte che governano le narrazioni attraverso cui conosciamo e interpretiamo il mondo. LLL Viviamo in un’epoca in cui all’opera – qualunque opera, di qualunque genere – si richiede di adeguarsi al proprio tempo, allo spirito del tempo, di catturare, agganciare, afferrare questo spirito. Bene. Ma se non fosse questo il compito dell’opera? Se l’opera d’arte fosse in un disaccordo insanabile con il proprio tempo, con la propria epoca – se cioè la disconoscesse profondamente? Allora vorrebbe dire che l’opera sta covando dentro di sé un altro tempo, un altro presente a venire, con tutti i dubbi e le incognite che ciò comporta. Voglio dire: l’opera non deve per forza accettare gli argomenti, le caratteristiche, gli atteggiamenti e le disposizioni del proprio contesto (del contesto in cui esiste, ma a cui non appartiene). Il rischio, ovviamente, è che questa epoca “prefigurata” al suo interno non si realizzi mai, non si concretizzi, rimanga in uno stato larvale: ma non è questo il senso, in fondo, della qualità “visionaria” dell’arte? Credo che proprio la chiusura, l’isolamento estremo e prolungato di questo
periodo abbiano fatto e stiano facendo emergere alcuni processi che erano già in atto, ma che sicuramente, come spesso abbiamo detto, hanno subito una straordinaria accelerazione. Tra questi, il rifiuto e il fastidio per i meccanismi e i dispositivi tradizionali di “esposizione”, di “messa-in-mostra”. Il fatto cioè che per l’opera ci siano e ci debbano essere luoghi deputati e istituzionali (il museo, la galleria, la fiera ecc.), quasi tutti luoghi al momento negati dalle condizioni che stiamo vivendo – e che questi luoghi siano gli unici spazi in cui l’opera possa dispiegarsi, essere percepita e fruita. Penso che, al contrario, l’opera d’arte abbia trovato e stia trovando modi differenti di “aprirsi”, per vivere nel mondo ed essere così disponibile per un numero più vasto e ricco di persone.
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Dopo che all’opera sottraiamo tutto, come è di fatto avvenuto in questo periodo e come sta avvenendo in questo periodo (pubblico, mostra, comunicazione, mercato, spazio istituzionale), ciò che rimane e permane è il suo nucleo, il suo centro: e questo centro è la dimensione della responsabilità. La responsabilità dell’opera significa principalmente non rinunciare alla propria verità, a favore dell’immagine che essa – e il suo autore – proiettano verso l’esterno.
Dopo che all’opera sottraiamo tutto, come è di fatto avvenuto in questo periodo e come sta avvenendo in questo periodo (pubblico, mostra, comunicazione, mercato, spazio istituzionale), ciò che rimane e permane è il suo nucleo, il suo centro: e questo centro è la dimensione della responsabilità.
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FASE TRE: I NUOVI SCENARI DELL’OPERA D’ARTE
LLL In fondo, la sospensione, la dissociazione, la perdita di senso che stiamo attraversando (consapevolmente o inconsapevolmente, volentieri o riluttanti) è così importante e non va rimossa né sprecata: perché ci permette di concentrarci su quell’apertura, su quell’orizzontalità e su quella disponibilità che sono fondamentali per allargare il racconto, per ampliare il respiro del racconto artistico e orientare in senso radicale l’efficacia della sua riflessione.
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LA COPERTINA A BLACK THREAD
Un filo che lega indissolubilmente le storie di 13 grandi protagonisti della cultura, che li fissa sulla carta in maniera indelebile, perché incancellabile è l’eredità che rimane a noi che li ricordiamo, li riscopriamo, li ringraziamo. A Black Thread è un omaggio di poesia visiva a loro, che ci hanno lasciato tanto ieri e che ci lasciano un po’ più soli oggi. Tatanka è uno studio indipendente di progettazione grafica, fondato da Sara Ceradini, Francesco Fadani e Jacopo Undari, con sede a Bologna. Lo studio si occupa di editoria, comunicazione visiva e didattica in diversi ambiti artistici e culturali, con particolare attenzione alla materia stampata, all’autoproduzione e alle tecniche di stampa. Tutti i progetti nascono all’interno di processi collaborativi e condivisi, in cui conoscenze, discipline e tecniche differenti si incontrano e si contaminano. Dal 2018 collabora con artisti e curatori in progetti di ricerca e sperimentazione e dal 2020 porta sulle copertine di Artribune il proprio sguardo sul mondo e sul contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal
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Firenze, lo Stadio Franchi è salvo. Presto il concorso per il restauro VALENTINA SILVESTRINI L Entro la fine del 2021 sarà lanciato il concorso internazionale di progettazione per il restauro dello Stadio Franchi, di proprietà del Comune di Firenze. Ad annunciarlo è stato il sindaco, Dario Nardella, che in seguito alle disposizioni emanate dal MiBACT ha deciso per il diretto coinvolgimento dell’amministrazione comunale nella riqualificazione dell’impianto sportivo. Progettato fra il 1920 e il 1932 da Pier Luigi Nervi, lo stadio della ACF Fiorentina era stato negli ultimi mesi al centro di un’accesa querelle, che aveva innescato mobilitazioni non solo in città. L’emendamento “Sblocca-stadi” – originariamente inserito nel Decreto Semplificazione, poi divenuto legge – era stato oggetto di critiche da parte della Pier Luigi Nervi Project Association e di DO.CO.MO.MO. Italia, soggetti promotori della piattaforma salviamoilfranchi.org. La norma “va ad annullare di colpo l’efficacia di una serie di articoli del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che, com’è noto, è legato a uno dei più importanti principi della Costituzione, l’art. 9”, precisavano Marco Nervi e Ugo Carughi, presidenti delle due associazioni. A mobilitarsi, con una lettera aperta rivolta a Nardella, era stata anche la comunità architettonica internazionale: da Ando a Foster fino a Grafton Architects, si invitava a scongiurare il paventato rischio di demolizione “per consentire alle generazioni future di ammirare questo capolavoro e essere ispirate dal genio ingegneristico e costruttivo di Nervi”. Proprio dagli architetti, il sindaco auspica ora che arrivi il contributo più significativo per “realizzare un progetto bellissimo, che terrà insieme tutto l’impianto architettonico storico”, oltre a essere “green, sostenibile, all’avanguardia”.
Riapre a Pompei l’Antiquarium. Con un nuovo museo DESIRÉE MAIDA L È stato riaperto al pubblico l’Antiquarium di Pompei, spazio espositivo che accoglie con un allestimento permanente i reperti provenienti dal sito archeologico della città distrutta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.. Un racconto visivo per oggetti e manufatti che introducono alla visita del sito, svelando storia e cultura della società pompeiana. Realizzato tra il 1873 e il 1874 da Giuseppe Fiorelli negli spazi sottostanti la terrazza del Tempio di Venere, l’Antiquarium nasce come luogo per custodire i reperti provenienti da Pompei; viene poi ampliato nel 1926 su progetto di Amedeo Maiuri, che organizza l’allestimento sotto forma di narrazione della storia di Pompei. Nel 1943 l’Antiquarium viene danneggiato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, e in questo caso a intervenire sull’edificio è ancora Amedeo Maiuri. Dopo i danni subiti dal terremoto del 1980, l’Antiquarium riapre nel 2016 come visitor center, mentre adesso, grazie alla ristrutturazione e al nuovo allestimento progettati da COR arquitectos (Roberto Cremascoli, Edison Okumura, Marta Rodrigues) e Flavia Chiavaroli, l’Antiquarium presenta un nuovo allestimento permanente ripartito in 11 sale, suddivise nelle sezioni Prima di Roma, Roma vs Pompei, Pompeis diffcile est, Tota Italia, A fundamentis reficere e L’ultimo giorno. Ogni sala racconta un capitolo della storia di Pompei, le origini, i rapporti con Roma, gli stili di vita, con un picco di prosperità durante l’età giulio-claudia. pompeiisites.org
OPERA SEXY
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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]
ROBERTO ROSSINI ontheground.it
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La triangolazione è precisamente tra Eros, collage e Roberto Rossini. Ma la affronteremo in ordine inverso: prima l’autore, poi la tecnica e la forma, infine il contenuto. Rossini (Genova, 1950) è oggi noto internazionalmente anzitutto come performer; e non solo quale interprete di azioni performative, ma pure quale autore di notevoli testi storico-critici, come La performance art tra arte, mito, rito e gioco (Utopia Production 2012) e Italian Performance Art (Sagep 2015) e quale docente di Teoria della performance presso l’Istituto per le Arti Tradizionali del Museo delle Culture del Mondo di Genova. Ma insegna pure Progettazione di sistemi espositivi allo IED di Milano e Graphic Design all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Difatti ha alle spalle una parallela, lunga e apprezzatissima carriera di graphic designer, appunto, e ciò si rende evidente nell’elegante nitore formale di ogni sua attività e produzione (ultimissima, la cura grafica e scientifica del magnifico volume 68 – I muri ribelli per l’Archivio dei Movimenti di Genova). Perché Roberto Rossini è performer e progettista grafico, sì, ma opera a tutto campo artistico anche con pittura, video e installazioni transmediali, fluttuando tra Costruttivismo, Minimalismo, Fluxus e Situazionismo. Una predilezione particolare, tuttavia, questo artista ha sempre manifestato per la tecnica oggi poco usata del collage. Ormai la tradizionale combinatorietà degli elementi si avvale – antitradizionalmente – della grande comodità offerta dai procedimenti digitali, ma il collage classico resta tutt’altra cosa. Quando lavori con carte e forbici (o anche senza) e colle, ti rendi conto che non sei tu l’unico autore del prodotto. Scopri infatti che in parte gli elementi tendono a combinarsi fra loro in modi autonomi, com e se avessero altrettante personalità e si scegliessero da soli i compagni d’avventura. Ciò diventa una anomala manna per il grafico, che lì per lì diventa un po’ il direttore d’orchestra, ma in parallelo (in benvenuto controsenso ora convergente e ora divergente) il performer si fa interprete étoile del balletto che va in scena sotto le sue mani, volteggiando tra controllo razionale e libertà istintuale. Non è dunque anche il collage una pratica psico-corporea? Per un artista tanto conscio dei procedimenti antropologici dell’agire gestuale,
Roberto Rossini, L’Eros, collage di materiali cartacei, 2014
che ha avuto modo di studiare a fondo nel corso delle sue spedizioni in Oriente e Nord Africa e Sud America in cerca delle pratiche millenarie delle tecniche del corpo, la stessa azione dell’assemblaggio di elementi – altrettanti segnali pure informi, astratti – nel suo svolgersi, nella ritualizzazione del gesto, diviene rappresentazione sacrale. Il dinamico farsi (affiorare) del collage pertanto si riempie di un’intensità particolare, di forti significati più emotivi che razionali, più inconsci che consci, in grado di suggerire possibili elevazioni dall’immanente al trascendente. Il collage che tu stai mettendo assieme, e che intanto con le sue materialità ti condiziona nel tuo fare (potendo rappresentare persino un minuto esercizio di umiltà, contrapposto alla pretesa onnipotenza di cui si
fregiano e in cui si crogiolano tanti altri artisti) ti pone in dialogo con l’altro da te e può indicarti qualcosa di te che ancora non conoscevi appieno. Ed ecco che concludiamo con il terzo angolo – morbido o aguzzo, ciascuno scelga a voler suo – del nostro discorso odierno. L’Eros. Argomento che sappiamo infinito, multisfaccettato, inesauribile. Quando il collage di Rossini lo tratta, vi si abbandona in termini rispettosamente mitici, che diventano parimenti mistici. Per il collage di Rossini l’Eros è un alto altare emotivo, un piccolo turbine percettivo, un coagulo folto di sensazioni, un totem di immaginazione lancinante, comunque un’esperienza di vita quanto mai intensa. Non grida, ma sussurra sensuale: parole di una lingua sconosciuta che comprendiamo tutti.
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TOP 10 LOTS
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CRISTINA MASTURZO [ esperta di mercato ]
Francis Bacon, Triptych inspired by the Oresteia of Aeschylus, 1981. Courtesy of Sotheby’s
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Francis Bacon, Triptych inspired by the Oresteia of Aeschylus, 1981 $ 84,550,000 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Auction, New York, 29 giugno 2020
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Wu Bin, Ten Views of a Lingbi Rock, 1610 $ 75,436,800 Poly Auction, Beijing, 18 ottobre 2020
3
Roy Lichtenstein, Nude with Joyous Painting, 1994 $ 46,242,500 Christie’s, ONE: A Global Sale of the 20th Century, Hong Kong-Paris-London-New York, 10 luglio 2020
4
David Hockney, Nichols Canyon, 1980 $ 41,067,500 Phillips, 20th Century & Contemporary Art Evening Sale, New York, 7 dicembre 2020
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Ren Renfa, Five Inebriated Princes Riding Home, fine XIII-inizio XIV sec. $ 39,553,800 Sotheby’s, Fine Classical Chinese Paintings, Hong Kong, 8 ottobre 2020
6
Cy Twombly, Untitled (Bolsena), 1969 $ 38,685,000 Christie’s, 20th Century Sale, New York, 6 ottobre 2020
7
Sanyu, Quatre Nus, anni ‘50 $ 33,333,200 Sotheby’s, Modern Art Evening Sale, Hong Kong, 8 luglio 2020
8
Tyrannosaurus Rex (“Stan”) $ 31,847,500 Christie’s, 20th Century Sale, New York, 6 ottobre 2020
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Mark Rothko, Untitled, 1967 $ 31,275,000 Christie’s, 20th Century Sale, New York, 6 ottobre 2020
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Barnett Newman, Onement V, 1952 $ 30,920,000 Christie’s, ONE: A Global Sale of the 20th Century, Hong KongParis-London-New York, 10 luglio 2020 Brice Marden, Complements, 2004-07 $ 30,920,000 Christie’s, ONE: A Global Sale of the 20th Century, Hong KongParis-London-New York, 10 luglio 2020
I prezzi indicati includono il buyer’s premium.
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Procida Capitale Italiana della Cultura 2022 DESIRÉE MAIDA L La città campana è stata proclamata Capitale Italiana della Cultura 2022 dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini, durante la cerimonia tenutasi il 18 gennaio via Zoom. Procida è stata scelta da una rosa di 10 città finaliste composta da Ancona, Bari, Cerveteri, L’Aquila, Pieve di Soligo, Taranto, Trapani, Verbania e Volterra. “Il contesto dei sostegni locali e regionali pubblici e privati è ben strutturato. La dimensione patrimoniale e paesaggistica del luogo è straordinaria”, è la motivazione letta da Franceschini durante la cerimonia di premiazione. “La dimensione laboratoriale che comprende aspetti sociali di diffusione tecnologica è importante per tutte le isole tirreniche, ma è rilevante per tutte le realtà delle piccole isole mediterranee. Il progetto potrebbe determinare, grazie alla combinazione di questi fattori, un’autentica discontinuità nel territorio e rappresentare un modello per i processi sostenibili di sviluppo a base culturale delle realtà isolane e costiere del Paese. Il progetto è capace di trasmettere un messaggio poetico, una visione della cultura che dalla piccola realtà dell’isola si estende come un augurio per tutti noi, al Paese nei mesi che ci attendono”. La Cultura non Isola è il messaggio che Procida ha lanciato attraverso il suo dossier di candidatura, incentrato sui temi della relazione, del dialogo, dell’apertura. E la cultura diventa strumento per interpretare e concretizzare questi temi. procida2022.com
Beppe Sala e le tre mosse per il rilancio di Milano. La cultura è la chiave della ripartenza GIULIA RONCHI L Il sindaco di Milano Beppe Sala si candida per le elezioni comunali del 2021. Ma quali saranno le strategie con cui scendere in campo? Sul fronte cultura, il dado pare già tratto e include tre linee guida: portare a termine i lavori in corso su diversi progetti urbanistici e inaugurare nuovi punti di riferimento della creatività; potenziare la “Milano dei quartieri” con distretti culturali diffusi; infine, rilanciare la capitale lombarda come metropoli internazionale, nuovamente in linea con quella visione cosmopolita che l’aveva caratterizzata nell’era pre-Covid. Tra i progetti in corso di realizzazione ci sono l’attesissimo ampliamento del Museo del Novecento nella seconda torre dell’Arengario di Piazza Duomo, per dar vita a un vero museo del contemporaneo a Milano. I laboratori del Teatro alla Scala saranno spostati nell’ex Stabilimento Innocenti a Rubattino, mentre l’ex mercato comunale coperto del QT8 – attualmente in stato di degrado – ospiterà il nuovo CASVA, il Centro Alti Studi per le Arti Visive. In questo quadro rientrano anche gli interventi dello Stato (arrivata l’approvazione per l’avvio della Grande Brera da parte della Direzione Generale Belle Arti e Paesaggio del MiBACT) e dei privati, con il Museo Etrusco, il Museo del Design dell’ADI e il parco artistico di Fondazione Prada nello Scalo di Porta Romana, in vista delle Olimpiadi Invernali Milano-Cortina del 2026. Fissato per fine febbraio, invece, il termine del restauro del teatro Lirico.
LABORATORIO ILLUSTRATORI
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DANIELA SPOTO Il mondo fiabesco di Daniela Spoto, nuorese classe 1986 che lavora a Düsseldorf da diversi anni, è fatto di una natura potente, rigogliosa e avvolgente, dove lo scorrere lento del tempo si traduce in una visione onirica dai toni contrastanti. Attraverso lo studio dello spazio circostante, che detta equilibrio e armonia tra gli elementi ma che al contempo rivela una notevole connotazione istintiva.
dopo la prima fase inizio a fare una serie schizzi da cui selezionerò quello che diventerà l’illustrazione definitiva. Decido con quale tecnica disegnare in fase iniziale in base al tipo di progetto.
Qual è la tua formazione e quali gli artisti di riferimento? Dopo aver frequentato il liceo classico di Nuoro, ho studiato Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Sassari. Ho sempre disegnato e avuto il desiderio, seppur confuso, di voler fare del disegno la mia professione. Terminato il percorso all’Accademia, mi sono trasferita a Berlino, dove poi ho capito di volermi occupare di illustrazione e di libri. Berlino mi ha offerto possibilità di crescita e sperimentazione. Qual è il tuo concetto di belHo iniziato a collaborare con lezza? © Daniela Spoto per Artribune Magazine riviste online, case editrici Mi trovo in difficoltà a defiindipendenti, piccoli festival di fumetto e illustrazione, collet- nire un concetto di bellezza unico. Trovo bellezza in aspetti divertivi. si e spesso in opposizione tra loro: nel disegno mi piace lo spazio, Ho una lista infinita – e in costante aggiornamento – di artisti l’equilibrio, pochi colori e la pulizia, ma contemporaneamente mi e artiste che ammiro e a cui guardo e riguardo, tra cui: Aubrey affascinano il caos e l’istintività. Forse la bellezza è una sorta di Beardsley, Edina Altara, Olaf Hajek, Hieronymus Bosch, Dao Zao, armonia tra gli elementi. Daniela Tieni. Cosa sogni di illustrare? Traduci il tuo lavoro in tre aggettivi. Mi piacerebbe moltissimo illustrare le Metamorfosi di Ovidio Lento, botanico, fiabesco. (adoro la versione proposta da Vittorio Sermonti). Vorrei avere modo di lavorarci con lentezza, su carta. Una tavola al mese. Quali tecniche ti sono più congeniali? A seconda del tipo di lavoro e idea che voglio sviluppare, lavoro Come stai vivendo il lockdown? con tecniche tradizionali o digitali. Disegno molto volentieri con Vivendo in Germania, sono abituata ad alternare periodi la tecnica mista su carta, passando da acquerelli, gouache, chine, in cui mi rinchiudo a lavorare a Düsseldorf e periodi di pause inchiostri e pastelli. Mi piace sperimentare e nel corso degli anni tra visite in Sardegna e viaggi. In questo momento mi pesa non ho provato carte e materiali diversi che ho poi adottato: le goua- poter visitare famiglia e amici, oltre a tutta la preoccupazione che, per esempio, ho iniziato a usarle da circa due anni. Anche per la serietà e complessità della situazione in corso. Per fortuse ho avuto bisogno di tempo per trovare una mia formula per le na si sono presentati diversi progetti su cui lavorare: questo mi illustrazioni in digitale, mi diverto con entrambe le tecniche. tiene impegnata e fa passare il tempo velocemente. Descrivi il processo creativo di una tua illustrazione. Sia che si tratti di un progetto personale o di un’illustrazione legata a un testo su cui devo lavorare su commissione, prima del disegno c’è la fase di ricerca. Scrivo le idee che voglio sviluppare, poi inizio le ricerche tra archivi online e libri, cerco delle immagini di riferimento che possono aiutarmi come punto di partenza. Solo
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La richiesta più singolare che hai ricevuto. Sono indecisa tra: 1) “Non so se ti fai pagare per quello che fai ma posso usare una tua immagine come copertina del mio libro? Se vuoi poi scrivo anche il tuo nome nei credits!”. 2) Disegni approvati per un progetto editoriale, qualche giorno prima della stampa il committente mi scrive: “Un mio amico mi ha fatto notare che hai disegnato tutti i personaggi senza ciglia. Puoi ridisegnarli tutti con le ciglia? Vorrei vedere la differenza!”. Trattandosi di 30 tavole disegnate su carta e non essendoci il tempo, ho garbatamente rifiutato.
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]
A cosa lavori in questo frangente e cosa ti riserva il futuro? Sto lavorando ad alcuni libri che usciranno nei prossimi mesi, mi piacerebbe poi riprendere dei miei progetti editoriali che vorrei sviluppare per il prossimo inverno. Non so cosa poi mi riserverà il futuro, capriccioso e imprevedibile. Spero mi concederà altri libri, pennelli e magari valigie.
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APP.ROPOSITO
SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]
RUSTISSIMO
Rust è uno dei giochi più visti attualmente su Twitch, la popolare piattaforma di streaming di giochi online, e qualcosa di strano ne ha aumentato la popolarità. Nato nel 2013, quindi secoli fa, è rimasto nell’ombra con un’utenza bassa ma stabile per un gioco di sopravvivenza multiplayer incentrato sulle rustissimo.com Battle Royale. Ma da gennaio i maggio $5 ri streamer di Twitch hanno iniziato a Steam, Windows collegarsi, riportando il gioco ai vertici della popolarità. Tramite questa espansione è possibile connettere il proprio strumento musicale grazie all’interfaccia Midi, per suonare insieme ai propri amici negli scenari di gioco o, anche, forse, per contrastare eventuali attacchi di malintenzionati a suono di musica. L’espansione funziona molto bene e può dare il via a interessanti momenti di gioco, perché chi si collega pensando di giocare a uno sparatutto sarà inevitabilmente spiazzato.
L NEWS L
L BERLINER PHILHARMONIKER
Questa app mostra da tempi non sospetti – il 2015 – come un’orchestra possa galleggiare anche in questi mesi complicati. Permette infatti di essere costantemente in contatto con i Berliner, seguire le notizie, i protagonisti, le programmazioni teatrali, ma anche di acquistare il biglietto virtuale o l’abbo berliner-philharmoniker.de namento alla stagione, e di seguire da free casa propria tutte le esecuzioni “pubbli iOS, Android che”. Gli appassionati di musica classica sono più affezionati al mezzo radiofonico, che, a dispetto di una minore fedeltà acustica, permette un ascolto più caldo. Inoltre i musicisti sono sempre molto scettici nei confronti dei concerti con un’audience diffusa, visto che la musica è fatta di onde armoniche che si sviluppano nello spazio dedicato all’ascolto, e quindi un concerto a distanza per il musicista non è un concerto, ma questa app ovvia in maniera egregia all’identità dell’orchestra.
L UNITED WE STREAM
Sempre da Berlino, una reazione ai tempi correnti radicalmente diversa. Nata a febbraio 2020, l’app ha raccolto le voci degli innumerevoli club cittadini e, all’insegna del “non facciamo spegnere la voce della club culture”, ha iniziato a mandare in stream eventi e serate registrate per il pubblico a casa. Supportata da Vice, Clubcommission, Arteconcert unitedwestream.berlin e molti altri, è stata seguita a ruota da free UnitedWeStream Milano, basata sulla iOS cultura dei club di Milano, Regno Unito e molti altri luoghi del mondo che hanno iniziato a diffondere la loro musica e la loro cultura. L’app berlinese ormai non ha più supporto (anche se confidiamo in un update importante), ma restano attivi i siti regionali (nazionali e locali) che hanno appoggiato l’iniziativa in giro per il mondo.
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NECROLOGY SEAN CONNERY 25 agosto 1930 – 31 ottobre 2020 L LORENZO TAIUTI 7 gennaio 1943 – novembre 2020 L GIGI PROIETTI 2 novembre 1940 – 2 novembre 2020 L ALDO TAMBELLINI 29 aprile 1930 – 12 novembre 2020 L VALENTINA PEDICINI 6 aprile 1978 – 20 novembre 2020 L SANDRA PINTO 1939 – 21 novembre 2020 L MATTEO VIGLIETTA 4 maggio 1941 – 23 novembre 2020 L DIEGO ARMANDO MARADONA 30 ottobre 1960 – 25 novembre 2020 L PININ BRAMBILLA BARCILON 31 maggio 1925 – 12 dicembre 2020 L FIORENZO ALFIERI 11 settembre 1943 – 13 dicembre 2020 L BARBARA ROSE 11 giugno 1936 – 25 dicembre 2020 L DAVID MEDALLA 23 marzo 1942 – 28 dicembre 2020 L PIERRE CARDIN 2 luglio 1922 – 29 dicembre 2020 L ERNESTO GISMONDI 25 dicembre 1931 - 31 dicembre 2020 L KIM TSCHANG-YEUL 24 dicembre 1929 – 5 gennaio 2021 L LARA-VINCA MASINI 21 aprile 1923 – 9 gennaio 2021 L CARLO COMELLO 29 settembre 1919 – 16 gennaio 2021 L CECILIA MANGINI 31 luglio 1927 – 21 gennaio 2021 L DON LEICHT 12 ottobre 1946 – 22 gennaio 2021 L MICHELE FUSCO 19 novembre 1954 – 27 gennaio 2021 L ANNA PIVA 19 settembre 1931 – 30 gennaio 2021 L BRUNO CONTE 1939 - 1o febbraio 2021 L DAVIDE HALEVIM 14 settembre 1955 - 3 febbraio 2021 L PEPI MERISIO 1931 - 3 febbraio 2021 Nelle pagine centrali del giornale troverete gli omaggi a 13 protagonisti del mondo della cultura deceduti nel corso del 2020 e omessi in questo elenco, che si riferisce al periodo novembre 2020 – gennaio 2021.
yudik one Brescia
Viale Venezia 90
Viale Rebuffone
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on uff eb eR al Vi
346 0822169 gallery@yudikone.com yudikone.com
Parco Rebuffone Via le V ene zia
Via le V ene zia
Un poker di collezionisti, sul finire del 2020, hanno dato vita a una nuova galleria a Brescia. Qui ci raccontano origine e obiettivi del progetto. Come è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? Da quali esigenze, da quali istanze, da quali punti di partenza? L’idea di creare Yudik One nasce in prima istanza dall’esigenza di accettare la sfida lanciata dall’imponente trasversalità del “fare” contemporaneo, la presunzione del saper scegliere in una giungla creativa non avara di sorprese.
Chi siete? Qual è la compagine che affronta questa avventura? Cosa avete fatto prima?
Su quale tipologia di pubblico (e di clientela ovviamente) puntate? E su quale rapporto con il territorio e la città dove aprite? Brescia è tradizionalmente una città ricettiva, la cui propensione per “l’investimento” sicuro e il forte pragmatismo non ne limita, però, il coraggio e l’intuito per la novità. Parimenti, Yudik One è un progetto mosso dalla forte volontà di affascinare ed essere affascinato dalle caleidoscopiche dinamiche internazionali dell’arte contemporanea. Un cenno ai vostri spazi espositivi. Come sono, come li avete impostati e cosa c’era prima? E come vi interfacciate col territorio circostante? Il piano terra di un palazzo Anni Sessanta, un negozione nei panni di una white box, sotto ai piedi il mare. Ora qualche anticipazione sulla stagione in corso. Cosa proporrete dopo la mostra inaugurale? La collettiva inaugurale è un’ennesima riflessione sulla pittura. Seguirà un progetto diverso; abbiamo una speciale passione per evidenziare banali contrapposizioni, una su tutte: passato e futuro.
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Descrivete in tre righe il vostro nuovo progetto. La principale proiezione di Yudik One è rintracciabile nella creazione di una collezione “tipo’’, con un occhio critico che tenga conto di nuove tensioni antropocentriche e nuove complessità storico-formali e la cui estensione al pubblico, quindi, possa stimolare nuovi collezionisti, così come riscontrare l’interesse delle personalità già coinvolte nell’arte contemporanea.
A livello di staff come siete organizzati? Avete collaboratori interni? Vi avvalete della collaborazione di curatori esterni? Mona Kim Nanchen è la direttrice della sede di Brescia nonché artist and community manager. Beatrice Furia Bonanomi è PR manager e sales assistant di Yudik One. Benché al momento la direzione artistica e la curatela sia affidata a Gino Bosa, in futuro prenderemo in considerazione eventuali collaborazioni con curatori nazionali e internazionali.
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Gino Bosa, artista, collezionista, esperto di design storico, direttore artistico di Yudik One. Alessandro Fusco, collezionista, esperto e dealer di arte moderna e contemporanea, manager e sales director di Yudik One. Gherardo Rusconi, collezionista, imprenditore ed esperto di arte moderna e contemporanea, manager di Yudik One. Giorgio Rusconi, collezionista, imprenditore ed esperto di arte antica, manager di Yudik One.
MASSIMILIANO TONELLI
Damien Hirst e Guido Reni: due grandi mostre per il 2021 della Galleria Borghese di Roma
Arte pubblica a Milano: nasce un ufficio dedicato, con vademecum per fare street art in città
GIULIA RONCHI L Due star del passato e del presente all’interno del programma espositivo del 2021 di Galleria Borghese a Roma: si terrà dal 10 maggio al 10 ottobre la mostra Damien Hirst, sull’ex enfant terrible degli Young British Artists. Se nel 2017 aveva impressionato il pubblico internazionale con Treasures from the Wreck of the Unbelievable, allestita a Palazzo Grassi e Punta della Dogana di Venezia, saranno proprio alcune delle sculture esposte in quell’occasione a inserirsi nelle sale di Galleria Borghese: accanto alle opere della collezione capitolina, infatti, saranno disposte sculture contemporanee colossali o piccolissime, realizzate in materiali pregiati come il bronzo, il marmo di Carrara o la malachite. In mostra anche i dipinti provenienti dalla serie Color Space. Il percorso intende combinare e creare nuovi confini tra linguaggi differenti. Da novembre 2021 a febbraio 2022, invece, la scena sarà dedicata al maestro della pittura secentesca italiana Guido Reni con Balliamo? Guido Reni a Roma. Danza e Paesaggio. Si partirà dall’opera Danza campestre, che ha appena fatto ritorno nella collezione della Galleria: nel percorso troveranno posto anche altre opere di artisti bolognesi, da Annibale Carracci a Domenichino, che permetteranno di documentare e approfondire la sperimentazione sul paesaggio come genere pittorico nei primi anni del Seicento. galleriaborghese.beniculturali.it
CLAUDIA GIRAUD L È online l’Ufficio Arte negli Spazi Pubblici, uno sportello “dedicato al coordinamento delle procedure di autorizzazione, in collaborazione con le altre Direzioni, per la produzione di opere d’arte ideate e realizzate negli spazi pubblici, intesi come luoghi della collettività e della condivisione, al di fuori degli spazi espositivi tradizionali”. Una piattaforma nata per semplificare l’iter autorizzativo, con tanto di vademecum per districarsi tra le varie tipologie di opere di street art da realizzare nel territorio del Comune di Milano, divisi tra Interventi artistici, Interventi artistici sostenuti da sponsor e Interventi di natura commerciale, ovvero progetti di muralismo usati come strumenti pubblicitari. C’è anche una sezione dedicata ai Muri liberi: 100 in 70 zone della città, che l’Amministrazione ha individuato a partire dal 2015. Realizzato dal nuovo ufficio della Direzione Cultura del Comune di Milano, l’ufficio Arte negli spazi pubblici fa capo a Marina Pugliese, ex direttrice del polo dei musei di arte moderna e contemporanea. Nel progetto rientra anche l’arte pubblica che comprende installazioni, monumenti, interventi sonori e le performance artistiche negli Spazi Pubblici. Tra gli ulteriori obiettivi ci sono poi la creazione di sinergie con il sistema culturale esistente, il censimento e la valorizzazione del patrimonio di opere sin qui realizzate con una mappatura completa e il bando di concorsi per nuove realizzazioni di arte urbana.
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COME INSEGNARE L'ARTE CONTEMPORANEA AI BAMBINI? SANTA NASTRO [ caporedattrice ] ANNALISA TRASATTI [ esperta di didattica museale ]
In tempi di isolamento e insegnamento a distanza, in cui il tema della didattica assume un ruolo fondamentale, Artribune ha invitato 13 esperti di pedagogia, didattica museale e operatori del settore a una riflessione sul dialogo tra arte e infanzia.
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MAURA POZZATI STORICA DELL’ARTE CONTEMPORANEA Per educare all’arte i bambini è essenziale incontrare l’opera, osservarla da vicino, viverla negli stessi spazi in cui è collocata. Credo che il museo d’arte contemporanea sia il luogo privilegiato per favorire un pensare attivo e arricchire i più piccoli nelle fasi della formazione. Non si tratta dunque di “spiegare” l’opera d’arte ma di aprirsi ai suoi diversi significati, ai suoi non detti, alle interrogazioni, per potere accettare la nostra stessa complessità. Come? Osservando, ascoltando, giocando con l’opera d’arte. Sentire l’opera è mettere in atto un rapporto non solo visivo ma che coinvolge il corpo nella sua totalità; giocare con lei è chiederle non tanto “cosa significhi” ma “cosa mi fai pensare e dire”; raccontarla è il momento in cui le associazioni, le immagini, le emozioni che ogni bambino ha provato si ordinano e diventano racconto di sé. Per questo, insegnare l’arte contemporanea ai bimbi è fondamentale, per abituarli a interpretare il mondo, favorendo lo sviluppo della personalità e del senso critico.
moderna o contemporanea. Hanno una minore rigidità mentale degli adulti e meno pregiudizi, cosa che permette loro di avere un atteggiamento più aperto, esprimere con sincerità il loro punto di vista e lasciarsi coinvolgere nelle attività pratiche. Certamente ci sono dei casi in cui l’arte contemporanea, anche quella più celebrata, può rendere la vita difficile a un educatore. Pensiamo ad esempio a quelle opere che rappresentano in modo più o meno esplicito la sessualità, la violenza o la morte, concetti delicati e difficili da elaborare in modo appropriato all’interno di una visita o di un’attività di due ore. In quei casi si rende ancora più importante lavorare sulla cornice dell’esperienza attraverso attività preliminari, materiali interpretativi e conversazioni congegnate in base all’età e alle caratteristiche dei partecipanti. Attraverso queste strategie, l’opera, che sia di oggi o di ieri, può essere resa accessibile a persone di diversa età e valorizzata per quello che è: una rappresentazione in grado di arricchire il nostro rapporto con la realtà.
LAURA VALENTE MUSEO MADRE – NAPOLI
ALESSIO BERTINI PALAZZO STROZZI – FIRENZE In base all’esperienza fatta a Palazzo Strozzi, i bambini si prestano con piacere al dialogo con l’arte, sia essa antica,
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Spazio d’arte e di formazione, vissuto in modo partecipato, che contrasti l’esclusione sociale: interrogarsi in questo momento storico sul ruolo della didattica e sull’avvicinamento ai linguaggi creativi vuol dire avere ben chiaro che si sta definendo un nuovo modello di museo. Il Madre ha scelto da tempo di trasformarsi in un luogo di sperimentazione aperto a esperienze inedite. Dalle iniziative di Madre per il Sociale, la piattaforma di didattica inclusiva e gratuita – che nelle
sue varie declinazioni ha portato al museo più di 2.600 ragazzi dal 2018 – al programma per-formativo MuseoFuturo, che ho ideato con Jeffrey Schnapp, autorità indiscussa nel campo delle digital humanities [e intervistato proprio su questo numero di Artribune Magazine, N.d.R.]. Perché il museo del futuro – che è già il presente – ci chiede di innovare linguaggi e narrazioni, e questo vale ancor più per l’arte contemporanea, per troppo tempo percepita come elitaria. Per i prossimi tre anni attiveremo oltre dieci progetti integrati, oltre ai corsi di didattica consolidati, per un Madre sempre più “educativo, comunicativo e inclusivo”.
ELENA MINARELLI COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM – VENEZIA Ritengo che il ruolo del museo non sia quello di insegnare l’arte ai bambini ma piuttosto di avvicinare i più giovani al patrimonio culturale, offrendo esperienze significative volte allo sviluppo di una sensibilità estetica e critica, oggi fondamentali per il benessere dei singoli e delle comunità. A questo scopo, la programmazione delle attività destinate ai più piccoli deve includere proposte tese a favorire l’osservazione ravvicinata delle opere d’arte, l’approccio multidisciplinare e la pratica laboratoriale. La figura dell’artista è, per la Collezione Peggy Guggenheim, fondamentale per l’ideazione e la conduzione di laboratori che favoriscano lo sviluppo di processi creativi e costituiscano esperienze non stereotipate di avvicinamento all’arte moderna e contemporanea. Per i bambini e per tutto il pubblico, il museo deve rappresentare una risorsa accessibile, un luogo di crescita, d’incontro e di benessere.
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CARLO TAMANINI MART – ROVERETO
Nella mia esperienza, per insegnare l’arte contemporanea ai bambini occorrono due ingredienti molto semplici ma essenziali: mettere al centro le loro emozioni e le loro domande. E guidarli senza pregiudizi, perché loro non ne hanno. Quando con i bambini ci troviamo davanti a un’opera, innanzitutto occorre creare la calma e il silenzio per attivare l’attenzione, e poi guidarli all’osservazione, in modo da far notare tutte le peculiarità dell’oggetto, in seguito dare spazio ai bambini di nominare le emozioni e i sentimenti che stanno vivendo per collegarle all’opera, mostrando come ci sia una diretta relazione tra ciò che vivono e ciò che l’opera esprime. Nei passaggi conclusi si lascia spazio alla spiegazione e alla rielaborazione del percorso. Empatia e partecipazione sono il veicolo per far incontrare l’esperienzialità con la comprensione. Così ciò che apprendono diventa cultura.
Nel percorso di educazione all’arte, realizzato con “La Chimera, una scuola di Arte Contemporanea per bambini e bambine”, abbiamo avviato una serie di attività che utilizzano l’arte come mezzo di apprendimento. L’approccio che utilizziamo parte da questo assunto: che non bisogna introdurre nel processo educativo artistico tecnicismi troppo rigidi, che al contrario potrebbero inibire le attitudini creative. Cerchiamo di sviluppare, piuttosto, memoria visiva attraverso esperienze orientate al “fare”, all’osservazione dal vivo e attraverso le residenze artistiche. Il lavoro diretto con gli artisti ci permette di arricchire la scuola, l’esperienza che i bambini ne fanno e coltivare un rapporto con la comunità educante. L’obiettivo è far comprendere che anche l’arte è parte dei programmi di formazione: la nostra missione è divulgare un metodo didattico che prenda avvio dai rapporti umani e dalle esperienze reali, in questo stimolante viaggio del contemporaneo.
Attraverso frequenti esperienze dirette, libere e immersive, che favoriscono la curiosità, la sensibilità e il dialogo del bambino con le opere stesse. Dal dialogo possono nascere pensieri, racconti, rielaborazioni, idee e gioiose invenzioni creative. L’arte sviluppa, così, il suo potere di sostegno all’elaborazione di nuove visioni… Anche i bambini possono sperimentare che l’arte ci accoglie, ci incoraggia quando siamo stanchi, ci rigenera e ci solleva il morale quando siamo sotto tensione e ci conduce verso un mondo di speranza. Penso sia sempre fondamentale creare una passione e un desiderio per il bello, per i colori, per le forme, per le idee, per il mistero, valorizzando le emozioni. Josephin Péladan scriveva che “le attrazioni sono proporzionali ai destini”. In fondo, l’arte di vivere consiste nel trasformare la nostra sensibilità, comprenderla, accrescerla e fortificarla.
ELISABETTA DUSI SI PARTE! – ROMA Crediamo che non ci siano opere o movimenti artistici inaccessibili ai bambini. Partendo da questo presupposto, non mettiamo limiti al cosa e lavoriamo sul come trasmettere i contenuti dell’arte contemporanea. Le nostre attività si compongono sempre di un’esplorazione guidata dell’opera, durante la quale l’educatore museale guida lo sguardo del bambino in un esercizio di riconoscimento in ciò che vede per la prima volta e lo colpisce, accogliendone il punto di vista e alimentandone la curiosità. Attraverso i nostri laboratori cerchiamo di capovolgere il processo di apprendimento, il bambino non solo impara a conoscere cose nuove ma è sollecitato a esprimersi attraverso tecniche e materiali non convenzionali. Per la nostra associazione la didattica non è una mera trasmissione di conoscenze e siamo convinti che non sia mai troppo presto per avvicinarsi all’arte contemporanea. Quello che ci colpisce ogni volta è che i bambini hanno molti meno pregiudizi sui linguaggi artistici di oggi degli adulti che li accompagnano.
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ANGELA D’URSO LA CHIMERA – SAN VITO DEI NORMANNI
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MARIA RAPAGNETTA INCONTRARSI NELL’ARTE – BOLOGNA
MARCO PERI STORICO DELL’ARTE PAOLA NOÈ UNDUETRESTELLABABY – ROMA Una volta passata dalla parte di madre, l’arte contemporanea è stata ancora più importante per me. Mi sono resa conto che i bambini sono inaspettati fruitori d’arte contemporanea. Non si irrigidiscono, non si vergognano. L’arte contemporanea è uno degli aspetti della nostra vita che non ci dà delle risposte. La società contemporanea invece è bombardata da risposte. Penso a un gioco: non manca mai il libretto delle istruzioni. Ecco, l’arte contemporanea non ce l’ha. Ed è la sua forza, Un bambino di quinta elementare davanti all’opera I sei sensi di Alighiero Boetti al Museo del Novecento, dopo una mia brevissima spiegazione, se ne esce felice dicendo: “È una sequenza di scene, come un film, che ci fa vedere cosa succede quando piove, e poi smette”. Le virgole bianche di Boetti erano le gocce di pioggia. Le ultime quattro tavole erano soltanto “colorate” con la bic blu.
La mia esperienza conferma che insegnare ai bambini significa imparare attraverso il loro sguardo. Sono sempre pronti ad accogliere nuove opportunità espressive, sono naturalmente predisposti a sovvertire prospettive e schemi. Per avvicinare i più piccoli all’arte contemporanea è necessario costruire un contesto che solleciti al dialogo e allo scambio, in cui non è l’opera a essere protagonista ma la relazione tra il bambino e il manufatto artistico. È fondamentale offrire un tempo adeguato affinché questa relazione possa maturare e lasci scaturire suggestioni e domande. In altre parole, significa spostare il focus dell’attenzione dalle qualità artistiche dei manufatti ai processi percettivi, immaginativi ed emotivi che attraverso l’arte si possono generare. Insegnare l’arte contemporanea ai bambini è un’esperienza che ha implicazioni educative straordinarie, tuttavia non dovremmo considerare l’arte contemporanea come un fine, ma come strumento per leggere la realtà, per guardare alla vita – attraverso l’arte.
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ART MUSIC
CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]
UHURU REPUBLIC Arte e musica fra Italia e Tanzania latempesta.org
Cosa succede quando un terzetto di musicisti, attivi soprattutto tra Genova e Torino, protagonisti di combo musicali di tutto rispetto in Italia, decide di fare un viaggio in Tanzania per unire attraverso la musica e l’arte due culture distanti come quella africana e quella nostrana? Ne nasce Welcome to Uhuru Republic, album di debutto di Uhuru Republic, nel quale si presenta il super-collettivo afro-italiano, composto dall’incontro di Giulietta Passera (voce, Mangaboo, The Sweet Life Society, Istituto Italiano di Cumbia, Sonoristan), FiloQ (elettronica, Istituto Italiano di Cumbia, Magellano) e Raffaele Rebaudengo (viola, Gnu Quartet) con artisti del luogo. “L’idea dell’intero progetto Uhuru Republic – che include musica, arti visive, immagini e ricerca – è l’unione dei linguaggi artistici e culturali dei soggetti coinvolti”, spiega ad Artribune Uhuru Republic. “Fanno parte del collettivo musicisti provenienti da aree della Tanzania e del Kenya molto vicine geograficamente, ma chiaramente distinte culturalmente. Attraverso delle sessioni di scrittura condivisa abbiamo fuso la musica elettronica e i trend occidentali con la musica Taarab, la tradizione Gogo, gli strumenti e le liriche della tribù Luo del Kenya, l’Afrofuturismo, il Bongoflava e lo Singeli, disegnando una sorta di mappatura delle culture e tradizioni che abbiamo incontrato durante il nostro lungo viaggio”. Uscito in digitale a novembre 2020 per La Tempesta Dischi (l’etichetta co-fondata da Davide Toffolo, cantante dei Tre Allegri Ragazzi Morti, ideatore e illustratore di fumetti e graphic novel), l’album che fonde elettronica e sonorità tribali è anche un progetto visivo. Gli artisti coinvolti, Nicola Alessandrini e Lisa Gelli – impegnati da anni nella creazione di opere d’arte urbana –, e Safina Kimbokota, Dismas Leonard, Ahmed “Medy” Maubaka e Walter Simbo hanno, infatti, lavorato in coordinazione con Filippo Basile, stampatore d’arte, fondatore di Press Press / Milano per produrre un artwork fatto di disegni che ricalcassero i temi e la musicalità delle undici tracce del disco. “La riflessione attorno alla creazione delle immagini che accompagnano e completano il progetto”, conclude il collettivo, “partiva dal duplice bisogno di uscire da una stereotipizzazione occidentale di un immaginario altro e di ricrearne uno nuovo e comune, attraverso il segno, il dialogo meta-linguistico, la condivisione di uno spazio di lavoro fra artisti italiani e tanzaniani”.
Il re dell’orrore Stephen King pubblica la sua prossima opera con una casa editrice di Scampia GIULIA RONCHI L Un sogno che si avvera per la casa editrice indipendente Marotta&Cafiero con sede a Scampia, che il 4 maggio pubblicherà l’ultima opera letteraria del maestro del terrore Stephen King, conosciuto a livello planetario per bestseller come IT, Shining, Il miglio verde, Misery e – lettissimo durante il lockdown – L’ombra dello scorpione. Molto più che una semplice casa editrice, la Marotta&Cafiero è specializzata nella “narrativa civile”, divulga storie provenienti dai Sud del mondo, volumi di impegno sociale, politico e ambientale. Con il motto “dove prima si vendeva la droga, oggi si spacciano libri” ha fondato la libreria La Scugnizzeria e una piccola etichetta discografica. Ha dato vita a numerose iniziative rivolte agli adulti e ai bambini del quartiere. È nella periferia partenopea, tristemente nota per essere teatro della malavita organizzata, che verrà alla luce il saggio inedito di Stephen King dal titolo GUNS – Contro le armi, scritto dopo la strage della Sandy Hook Elementary School del 2012, durante la quale sono morti venti bambini e bambine. Un breve scritto attraverso il quale l’autore americano intende far luce su una situazione da decenni fuori controllo negli USA, riferita anche alla facilità di reperire armi e causare omicidi di massa. Nel suo testo King provoca, discute, prova a suggerire possibili soluzioni, si schiera contro la violenza e contro gli uomini dal grilletto facile. marottaecafiero.it
3 donazioni di Giuseppe Penone. L’artista regala le sue opere ai musei del mondo DESIRÉE MAIDA L Continua con il Castello di Rivoli la serie di donazioni che l’artista Giuseppe Penone, tra i maggiori autori della corrente dell’Arte Povera, ha effettuato dal 2020, a partire da quella al Philadelphia Museum of Art e al Centre Pompidou di Parigi. Una linea, questa, che segue il pensiero di Penone in merito all’importanza di regalare i propri disegni a un museo che si trova nello stesso luogo in cui concepisce e realizza le sue opere. Per celebrare le importanti donazioni, nel 2022 Castello di Rivoli, Philadelphia Museum of Art e Centre Pompidou organizzeranno mostre con i materiali ricevuti dall’artista.
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PHILADELPHIA MUSEUM OF ART La donazione comprende 309 opere su carta e 5 libri d’artista, costituendo una parte significativa del corpus di lavori dell’artista che va dalla fine Anni Sessanta fino a oggi, tra cui Progetto per la mostra da G. Enzo Sperone (1969), Progetto per lenti a contatto specchianti – Guardare la strada (1970), Scultura (1974). CENTRE POMPIDOU La donazione comprende circa 350 disegni che vanno dal 1967 al 2019, destinati al Cabinet d’art graphique del museo. Queste opere riflettono sul rapporto tra Uomo e Natura, concentrandosi sugli aspetti della respirazione, della crescita e dell’invecchiamento, utilizzando materiali come pietre rami e foglie. CASTELLO DI RIVOLI La donazione comprende oltre 200 opere su carta, tra cui i disegni relativi ad Alpi Marittime (1968), Albero giardino (1998), In limine (2008). Rientra nella donazione anche l’opera Svolgere la propria pelle – finestra (1970-2019), composta da 19 impronte del corpo di Penone riportate fotograficamente su pellicola sui pannelli di vetro del Fridericianum di Kassel nel 1972, in occasione della Documenta 5.
SERIAL VIEWER
GIULIA PEZZOLI [ registrar ]
OPERAZIONE HUMMINGBIRD
Mentre in Italia è in svolgimento la crisi di Governo, provo a chiarire i miei dubbi e a darmi qualche risposta con una serie tv danese, Borgen, prodotta e scritta da Adam Price per DR1 (emittente televisiva con sede a Copenaghen) dal 2010 al 2013, oggi su Netflix. Più realistica di House of Cards, più (naturalmente) europea, Borgen ruota intorno alla figura dell’affascinante Birgitte Nyborg, interpretata da Sidse Babett Knudsen (qualcuno la ricorderà in Italia nel film Dopo il matrimonio di Susanne Bier o in Westworld). Prima del #MeToo e in tempi in cui molte delle tematiche più urgenti dell’attualità cominciavano a fare capolino nell’agenda internazionale, Birgitte affronta con forza, abilità politica e indubbia ambizione personale le tensioni di chi deve mantenere il potere. Surfa sui tradimenti e i tentativi molteplici di mettere in crisi il suo governo, insegna il rispetto a chi la sottovaluta, ci racconta che anche nella libera Scandinavia la prima donna Primo Ministro deve difendersi in un ambiente prettamente maschile. Birgitte è una quarantenne onesta che conduce la propria battaglia politica senza colpi bassi, ma è scaltra a ogni modo, strategica, affamata di potere, tanto da porre spesso (anche se non sempre) in secondo piano la propria salute e la famiglia e da ammettere di non essere votata a una vita dedicata unicamente agli affetti. Gli occhi le si illuminano quando raggiunge i risultati che desidera e quando finalmente si ritira dalle scene non riesce a stare lontana e prepara la propria rentrée, tra seggi conquistati, composizioni parlamentari allargate, forze contrastanti unite in nome di un progetto comune e partiti “ago della bilancia”. Un ruolo importante e non sempre nobile spetta anche alla stampa. Le dinamiche e l’evoluzione del settore sono protagoniste, non senza qualche brutto scherzo, con paparazzate e con l’analisi dell’equilibrio non sempre facile tra share e dovere di cronaca. Lo scorso anno Netflix ha annunciato che Borgen tornerà nel 2022 con una quarta stagione.
Vincent e Anton Zaleski, due cugini di New York impiegati in una delle più importanti compagnie di trading negli USA, decidono di scommettere tutto, carriere e capitali, per cercare di aumentare di un millisecondo la velocità di trasmissione dei dati finanziari tra i mercati del New Jersey e del Kansas. La loro idea è quella di interrare un singolo e lunghissimo cavo in fibra ottica che attraversi in linea retta metà degli Stati Uniti, passando per la riserva naturale dei monti Appalachi. Purtroppo per loro però il gioco della High – Frequency Trading (HFT) si rivelerà scorretto e spietato e i due protagonisti dovranno affrontare molti dolorosi imprevisti e la sleale concorrenza del loro ex-capo. Operazione Hummingbird è un prodotto cinematografico interessante che riesce a coniugare con grande equilibrio un’epica di redenzione a quel sottogenere tecnico–scientifico che ha visto negli ultimi anni accrescere enormemente la propria popolarità. Senza fare compromessi di sorta e senza trattare il pubblico con condiscendente superiorità, Kim Nguyen ci trasporta nel vivo dell’ingegneristica informatica e del trading online, ci sommerge di terminologie e tecnicismi, senza concedere digressioni o spiegazioni. Attraverso i suoi due folli personaggi, interpretati magistralmente da Jesse Eisenberg e Alexander Skarsgård, il regista canadese mostra la feroce spinta al ‘progresso’ delle dinamiche del capitalismo neoliberista, mettendone in luce, con sagacia e ironia, la cieca obbedienza alla logica del profitto e l’indifferenza alla vita. Semplice e ben strutturato grazie a una sceneggiatura particolarmente ricca, divertente e originale, Operazione Hummingbird è tuttavia anche una storia di redenzione dalle tinte drammatiche. La parabola di Vincent e Anton è quella di chi insegue il sogno americano, quello di indipendenza, di ricchezza e di libertà dalle pastoie e dai ritmi della vita contemporanea. E mentre il timido e impacciato Anton vorrebbe solo immergersi nei suoi algoritmi e fatica a comprendere cosa accade attorno a lui, il combattivo Vincent è l’incarnazione dell’american hero: un astuto Davide che sfida Golia per un millisecondo di velocità (il battito d’ali di un colibrì, per l’appunto) divenendo capace, anche a costo della propria vita, di distruggere ogni ostacolo si frapponga fra lui e il suo obiettivo.
Danimarca, 2010-ongoing Soggetto: Adam Price Genere: drammatico, politico Cast: Sidse Babett Knudsen, Mikael Birkkjær, Birgitte Hjort Sørensen Stagioni: 3 | Episodi: 30 | Durata: circa 60’ a episodio
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BORGEN
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SANTA NASTRO [ caporedattrice ]
LIP - LOST IN PROJECTON
Canada, 2018 | Regia: Kim Nguyen Genere: commedia, drammatico | Sceneggiatura: Kim Nguyen Cast: Alexander Skarsgård, Jesse Eisenberg, Salma Hayek, Michael Mando, Johan Heldenbergh Durata: 111’
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CONCIERGE
VALENTINA SILVESTRINI [ caporedattrice architettura ]
LA SECONDA VITA DELLO SHIROIYA HOTEL IN GIAPPONE shiroiya.com
Arte e teatro a casa vostra. Ecco alcune iniziative GIULIA RONCHI L Nei mesi di chiusura forzata per musei e teatri sono numerose le realtà che hanno sviluppato iniziative e pratiche per sperimentare e cercare un nuovo contatto con il pubblico. Progetti che non solo portano il teatro nei cortili e sulle scale dei condomini, ma anche l’arte nelle case, tramite corriere, via web o attraverso nuove forme di “art leasing”. Tutti hanno in comune una finalità sociale oltre che culturale, che si è avvalorata soprattutto nel periodo caratterizzato dall’assenza, o quasi, di relazioni e contatto umano.
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Shiroiya Hotel Green Tower © Shinya Kigure
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È stato appena inaugurato, ma vanta una tradizione di ospitalità lunga oltre trecento anni. Nella città giapponese di Maebashi, situata a un centinaio di chilometri a nord di Tokyo, il dismesso Shiroiya Ryokan ha riaperto i battenti dopo un intervento di ristrutturazione durato sei anni, grazie al lavoro di un team internazionale di progettisti e creativi guidato dall’architetto giapponese Sou Fujimoto. Al suo fianco, per il lancio del nuovo Shiroiya Hotel, hanno operato l’artista argentino Leandro Erlich, il designer inglese Jasper Morrison e l’architetto italiano Michele De Lucchi. Un autentico poker d’assi, dunque, che ha unito le forze nella città in cui all’inizio dell’era Meiji fiorì la produzione industriale dei tessuti in seta, strappando la storica struttura ricettiva, in passato frequentata da celebrità giapponesi, anche al rischio di una possibile demolizione. Aperto a dicembre 2020, lo Shiroiya Hotel possiede tutte le carte in regola per attrarre i globetrotter con la passione per l’arte contemporanea e la cucina gourmet, smaniosi di tornare a esplorare le terre nipponiche dopo il forzato stop pandemico. Capoluogo della prefettura di Gunma, Maebashi potrà accoglierli in una delle venticinque stanze del rinato hotel: di queste, diciassette sono state realizzate nella recuperata “Heritage Tower”, risalente agli Anni Settanta del Novecento; le restanti otto nella “Green Tower”, i cui curiosi volumi di nuova edificazione emergono da un sinuoso manto vegetale. Dieci le tipologie di camere previste, con metrature crescenti a partire dai 25 metri quadrati; esclusive le soluzioni d’autore nelle quattro “Special Room”, identificate dai nomi dei rispettivi progettisti: Fujimoto, Erlich, Morrison e De Lucchi. Ammirabili anche da quanti non dovessero riuscire a trascorrere una notte nello Shiroiya Hotel sono le opere d’arte presenti all’esterno e all’interno del complesso alberghiero: dai mega lettering dello statunitense Lawrence Weiner, affissi alla facciata d’ingresso, alla selezione di scatti del fotografo Hiroshi Sugimoto in mostra nella reception. A personalizzare la lounge, concepita come il nuovo “salotto buono” della città e aperta a tutti, è l’enigmatica installazione site specific Lighting Pipes di Erlich, le cui sculture luminose si intrecciano con la struttura portante in calcestruzzo grezzo. Sotto la guida dello chef due stelle Michelin Hiroyasu Kawate, il ristorante dell’hotel combina ingredienti e preparazioni tipici della zona con dichiarate incursioni glocal.
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TEATRO DELIVERY – MILANO C’è il Pacchetto famose ‘na risata e il Rodari Remix tra le opzioni del Menù di Teatro Delivery, iniziativa di Milano ispirata a un’idea di Ippolito Chiarello per portare il teatro a domicilio. Come per un normale delivery, basta scegliere ciò che pare più “appetibile” (ordine minimo 20 euro), contattare gli organizzatori e accordarsi sulle modalità di fruizione. TEATRO EXPRESS – MODENA Teatro Express – Monologhi sul pianerottolo è il progetto della compagnia modenese Peso Specifico. Gli attori svolgono una piccola performance teatrale sul pianerottolo o nel giardino in cambio di una donazione. Tra le proposte, Monologo d’amore da dedicare a lei, Monologo brillante per l’amica, Monologo per tutti sulla libertà e la follia. DELIVERARTE – MILANO Il progetto del collettivo Piano A è nato sotto forma di app e si è sviluppato come un delivery con il nome di Deliverarte. Opere della misura di 29x29 cm sono state caricate su una piattaforma di e-commerce dove era possibile ordinarle e riceverle a domicilio. Le consegne sono state effettuate dal collettivo nelle vesti di “Rider di Piano A” per tutta la città di Milano. DEDA PROJECT – RAVENNA Nato a Ravenna nel 2019, si tratta non solo di un circuito di art delivery, ma anche di “art leasing”. Le opere, esposte per un intero anno nelle case degli ospitanti, hanno fornito occasioni per organizzare incontri, concerti e performance. DOO PERFORMING ARTS GROUP DANIMARCA Il DOO performing arts group è attivo in Danimarca, nello Jutland, con performance e arte partecipata. L’ultimo progetto si chiama EUmergency: Artbulance on the road (2021): una “Artbulanza”, un “pronto soccorso culturale” con cui gli artisti stanno preparando un tour europeo per esportare attività sui temi di democrazia, salute, arte e sostenibilità.
OSSERVATORIO CURATORI ARIANNA DESIDERI instagram.com/la.flaneuresse/
AVVICINARSI
Curare è una pratica di prossimità, è un tramite relazionale. Nel mio caso, è una delle modalità operative che adotto per esplorare la contemporaneità al fianco di artisti. Finora, non è esistita per me curatela senza un rapporto simpoietico, senza che da essa si moltiplicassero occasioni di contatto e collaborazioni. Anche intervistare artisti/e è un bisogno di cura. Permette di entrare in un’area ibrida tra generale e particolare, tra privato e pubblico. La curiosità e la fiducia sono i presupposti concettuali del mio progetto di mail-art, Dialoghi dell’altrove eppure in noi, ovvero delle interviste tramite cartolina postale ad artisti/e incontrati/e durante il mio percorso di ricerca, tra cui Sara Basta e Pasquale Polidori.
RIMARGINARE
détournando luoghi e immagini attraverso l’esplorazione, il gioco, la con-fusione. Uno tra i nostri interventi: Fairwatching, tra gli stand della fiera Artissima (2019). La metodologia di curatela è qui più che altrove il confronto operativo, incessante, transdisciplinare, artistico-vitale, dove ruoli specifici finiscono per contaminarsi. Nel processo ideativo-realizzativo di D.A.P.A., le definizioni di artista-curatore-storico dell’arte tendono a mescolarsi e a risemantizzarsi, guardando all’ibridazione delle categorie come una via da perseguire. Durante la “doppia trans-personale” di Jacopo Natoli da me curata, Lightbox + cabina (2020), abbiamo articolato il percorso tra 7 lightbox installati nello studio dell’artista, laboratori giornalieri in situ e l’allestimento in progress di una cabina telefonica nelle vicinanze, che ha accolto le opere realizzate dai-dalle visitatori-visitatrici.
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Cartoline dal progetto di mail-art Dialoghi dell’altrove, eppure in noi, 2019-in progress
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a cura di DARIO MOALLI [ critico d’arte ]
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Curare significa guardare all’incomprensibilità, individuare spiragli, aprire prospettive. ATTRAVERSARE Anche uno studio storico-artistico, a suo modo, è un’attività Curare significa predisporre strumenti per riattraversare di curatela. Con il volume di cui sono autrice, Roma 70. Interven- collettivamente le metodologie tradizionali, i disegni storici, luoti e pratiche artistiche nello spazio urbano, ho voluto rischiarare ghi e istituzioni. un preciso panorama artistico sommerso, La Visita non-guidata è un format da me riaffiorato tramite analisi incrociate e testiideato e pubblicato sul n. 2 di ISIT magazine, BIO che testa nuove possibilità di visione e frumonianze orali inedite, per ricomporre un Arianna Desideri (Roma, 1996) è quadro storico complessivo anche grazie alla izione all’interno dei musei. La prima speuna curatrice e storica dell’arte voce di chi l’ha vissuto, come Franco Falasca rimentazione è avvenuta in via informale a laureata all’Università di Roma o Carmelo Romeo. La Galleria Nazionale (Roma), dove ho inviSapienza. È co-fondatrice di tato piccoli gruppi a percorrere lo spazio a D.A.P.A. – Derive Azioni Psicopasso veloce e senza una meta prestabilita, INNESCARE annotando e disegnando le proprie impresCurare significa attraversare il limite, progeografie Atmosfere e autrice del volume Roma 70. Interventi vocare cortocircuiti, moltiplicare immaginari. sioni su quaderni-dispositivo appositi, cire pratiche artistiche nello spazio Nel 2019 ho co-fondato con Jacopo Natoli colarmente scambiati. Visita dopo visita, i urbano. Intervista artisti/e su la piattaforma D.A.P.A. – Derive Azioni Psisegni dei-delle partecipanti si sono fusi gli cartolina con il progetto di mailuni agli altri, andando a tracciare una mapcogeografie Atmosfere. Realizziamo interart Dialoghi dell’altrove, eppure venti nello spazio pubblico, individuando pa alternativa sui quaderni, che diventano in noi. zone di confine e liminari, interstizi in cui agidei palinsesti percettivi e collettivi intorno al discorso sul museo contemporaneo. re; attiviamo processi mitopoietici collettivi,
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VALENTINA TANNI [ caporedattrice new media ]
UN FONT AL GIORNO
L'inverno in borsa
Oggetto di culto per gli appassionati di grafica e tipografia, il Typodarium 2021 è un calendario che associa un font a ogni giorno dell’anno. 365 caratteri diversi per non perdere mai l’ispirazione e conoscere sempre nuovi autori. Dietro ogni foglio colorato ci sono infatti le informazioni sul font e sul suo designer. slanted.de € 19,80
LA SCACCHIERA DI KEITH
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In vendita sullo store online del MoMA di New York, a un prezzo decisamente accessibile, si trova una scacchiera dedicata all’arte di Keith Haring. Ogni pezzo è ispirato dalle sue famose figure stilizzate e tutte le parti sono in legno laccato. Compresa nel kit anche una sacca in tela bianca con una stampa del famoso autoritratto del 1989. store.moma.org € 38,95
Un’elegante borsa nera, realizzata interamente a mano, progettata per trasportare un piccolo pupazzo di neve. È la strana proposta di Tsuchiya Kaban, marchio giapponese specializzato in lavorazione della pelle. L’accessorio, battezzato Yukidaruma Bag, nasce da un’idea dell’artigiana Yuko Matsuzawa e fa parte di una serie sperimentale che l’azienda ha inaugurato la scorsa estate con una buffa borsa porta-meloni. The fun of carrying vede protagonisti una serie di autori a cui viene chiesto di progettare una borsa il cui unico scopo è trasportare un singolo oggetto, qualsiasi esso sia, senza altre limitazioni. Secondo l’autrice, la borsa porta-pupazzo è ispirata dal “sentimento che nasce dalla visione della prima neve dell’anno”, ma è anche un pretesto per mettere in mostra una sorprendente abilità manuale. Matsuzawa è infatti protagonista di un video che accompagna il lancio, in cui mostra tutti i passaggi che portano al prodotto finito, dal disegno dei cartamodelli fino alle ultime rifiniture. Naturalmente la borsa è waterproof e dotata di un rivestimento interno che isola e mantiene la temperatura, in modo da impedire all’omino di neve di sciogliersi durante il trasporto. tsuchiya-kaban-global.com prezzo su richiesta
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SNEAKERS E PORCELLANA Più che un paio di scarpe da ginnastica, un pezzo da museo. Le Adidas ZX8000 realizzate in collaborazione con Meissen sono interamente dipinte a mano e hanno anche degli inserti in vera porcellana. Sono state battute all’asta da Sotheby’s lo scorso dicembre e il ricavato è stato devoluto interamente al Brooklyn Museum di New York per la realizzazione di progetti inclusivi. sothebys.com $ 126.000
SHINING AI PIEDI
Negli ultimi anni le action figure dedicate a personaggi dell’arte e della cultura sono aumentate esponenzialmente, offrendo prodotti davvero per tutti i gusti. Questo esemplare che riproduce un famosissimo quadro di René Magritte – l’uomo con la mela – è sicuramente uno dei più riusciti. A differenza della tela, però, spostando il frutto troviamo un volto, quello dell’artista stesso.
A un primo sguardo sembrano dei normali calzini bordeaux e arancioni. Ma qualsiasi cinefilo che si rispetti riconoscerebbe al volo l’iconica fantasia a losanghe che riproduce quella della moquette dell’Overlook Hotel, scenario del capolavoro di Stanley Kubrick Shining. sockaholic.com €9
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MAGRITTE IN MINIATURA
LO STUDIO DI LILLIPUT Uno studio in miniatura completo di tutti i dettagli: libri, quadri, poltrone, lampade e scale. Nel kit si trovano tutti i materiali necessari per costruire la propria personale versione, assemblando in libertà (e con molta pazienza). Una volta completata l’opera, resta un soprammobile unico da sfoggiare in salotto.
IL VASO INTELLIGENTE
VINO DA BRIVIDO
Questo vaso “intelligente” è l’ideale per tutte le persone che fanno fatica a tenere in vita le piante in casa o sul terrazzo. Si chiama Lua e ha una serie di sensori integrati che misurano tutto, dall’esposizione alla luce all’umidità del terreno, comunicando poi tramite un display e una app lo stato di salute della pianta.
Si chiama semplicemente Vino l’originale apribottiglie prodotto dal noto studio tedesco di design Ototo. In questa reinterpretazione di un oggetto classico, la vera sorpresa arriva al momento dell’apertura. Quando si alzano le due leve per sollevare il tappo, infatti, compaiono due eleganti ali da pipistrello.
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TUTTI PAZZI PER BABY YODA Anche se il suo vero nome è Grogu, tutti gli amanti di Star Wars l’hanno affettuosamente ribattezzato Baby Yoda, eleggendolo a personaggio preferito della nuova serie The Mandalorian. Sul negozio online della Disney è disponibile questa versione animatronica, adorabile e controllabile a distanza. shopdisney.com $ 69,99
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collica & partners San Gregorio di Catania
La pandemia ha cambiato il tuo modo di procedere? Ho accettato il fatto che la convivenza è l’unica soluzione possibile. Io e il mio socio D’Agata dovremo imparare a navigare a vista. La pandemia suggerisce un maggior radicamento al proprio territorio, una forte attenzione per la comunicazione, sia quella tradizionale quanto – forse soprattutto – quella legata al web.
Via Pirandello 1
San Gregorio di Catania
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Aci Trezza
Ficarazzi Aci Castello
Cannizzaro
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Siamo alle pendici dell’Etna, a nove chilometri dal centro di Catania. Il progetto nasce dalla storia di una famiglia che opera da quattro decenni nel mondo dell’arte contemporanea. A parlarci di questa nuova avventura è Gianluca Collica.
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Aprite la galleria in un palmento. Ma cos’è un palmento? È la grande vasca dove si pigia l’uva per la vinificazione. Questo edificio, costruito a metà Ottocento, ne aveva ben cinque ed era conosciuto come “u Parmentazzu”. La galleria occupa gli spazi nei quali era allestita parte della collezione di mio padre. La ristrutturazione è molto lontana dal concetto di white cube. Sento la necessità di una dimensione più umana, oserei dire domestica, dove raccontare delle storie che consentano alla gente di partecipare all’arte e non di subirla.
Nella crisi globale, Catania è una città in piena emergenza. Che visione hai al riguardo? Catania ha da sempre espresso una imprenditoria capace e innovativa in diversi settori, compresa la cultura. Sono proprio le crisi i momenti chiave per crescere. Senza la crisi del 2008, le piccole e medie gallerie sarebbero scomparse, fagocitate da un sistema che premiava solo chi occupava i posti al vertice della piramide. Purtroppo, se questa positività la riscontro nel settore privato, in quello pubblico la cosa è molto diversa. Proviamo a descrivere in tre righe il nuovo progetto. Sono tre le linee di ricerca che porteremo avanti. La prima riguarda la pittura, dalla quale colpevolmente mi sono allontano diversi anni fa e alla quale desidero tornare. Con la seconda desidero dare continuità all’esperienza maturata con diversi artisti a partire dalla crisi del 2008, che ha suggerito una diversa critica alla relazione tra arte e quotidianità. La terza racconta di alcuni autori che all’inizio degli Anni Novanta rappresentano con un linguaggio innovativo i valori più intimi e profondi che regolano la nostra esistenza. Cosa proporrete dopo la mostra inaugurale? Dopo la prima mostra, che descrive le tre linee di ricerca sopra descritte, abbiamo in programma le personali di Viola Yeşiltaç, Francesco Lauretta, Rä di Martino e Barbara Cammarata.
ALDO PREMOLI
A Gibellina in Sicilia riapre il MAC, Museo d’Arte Contemporanea intitolato a Ludovico Corrao
Al New Museum di New York la mostra postuma di Okwui Enwezor
DESIRÉE MAIDA L A Gibellina riapre il MAC, che racconta la ricostruzione della cittadina siciliana dopo il terremoto del 1968, avvenuta all’insegna dell’arte e con la visionaria guida del sindaco Ludovico Corrao. Il MAC riaprirà le sue porte al pubblico a fine aprile, dopo sei anni di chiusura, con un nuovo allestimento che ospita circa 2mila opere di artisti, scultori e fotografi che parteciparono alla ricostruzione. La prima cellula del museo nasce nel 1980, grazie alla collezione di grafica donata dal gallerista Nino Soldano, con opere di Enrico Baj, Corrado Cagli, Pietro Consagra, Mimmo Rotella e Mario Schifano. Tra gli interventi che contraddistinguono il nuovo allestimento, la riprogettazione della corte che conduce verso l’ingresso del museo, che diventa così una sezione en plein air del percorso espositivo. Tra le opere che torneranno a essere fruibili, il Ciclo della natura, dieci grandi tele dedicate ai bambini di Gibellina realizzate da Mario Schifano nella primavera del 1984; La notte di Gibellina di Renato Guttuso, dipinta in memoria della notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1970, nel secondo anniversario del sisma, quando una fiaccolata a cui parteciparono anche Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Damiani, Zavoli e Levi ricordò allo Stato le condizioni in cui ancora vivevano gli uomini e le donne del Belice.
DESIRÉE MAIDA L Una mostra concepita nel 2018 e che, nonostante venga presentata a tre anni di distanza dalla sua ideazione, è più che mai attuale per i temi trattati. Grief and Grievance: Art and Mourning in America è il titolo dell’esposizione che il 17 febbraio inaugura al New Museum di New York, nata dall’idea di Okwui Enwezor, critico d’arte e curatore tra i più influenti a livello internazionale, scomparso nel 2019. Una mostra postuma, che oggi vede la luce grazie al supporto curatoriale di Naomi Beckwith, Glenn Ligon, Mark Nash e Massimiliano Gioni (che del New Museum è direttore artistico) e che, attraverso il lavoro di trentasette artisti contemporanei, riflette sui concetti di lutto, commemorazione e perdita intesi come risposta all’emergenza della violenza razzista vissuta dalle comunità nere americane. Grief and Grievance esplora, attraverso differenti linguaggi e media artistici (pittura, disegno, scultura, video, installazione, performance, fotografia), diversi capitoli della storia americana, dal movimento per i diritti civili negli Anni Sessanta ai casi di violenza razziale degli Anni Novanta e di oggi. Enwezor avrebbe voluto inaugurare la mostra in prossimità delle elezioni presidenziali, ma non è stato possibile a causa della pandemia. Per rispettare la sua volontà, della mostra è stato già pubblicato il catalogo. L’esposizione sarà allestita fino al 6 giugno 2021. newmuseum.org
GESTIONALIA
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SI FA PRESTO A DIRE MENTORE
Mentore è un personaggio della mitologia, lo presenta Omero nell’Odissea: Ulisse, in partenza per la guerra di Troia, gli affida suo figlio Telemaco perché ne abbia cura e funga da guida in sua assenza. Sarà Atena, poi, in quella dimensione umanizzata delle divinità che come i terrestri amano, odiano, sperano, a prenderne le sembianze per occuparsi del figlio del suo protetto. Dopo un lungo viaggio sulla macchina del tempo, mentore, oggi, ha perso la maiuscola e, nel solco della deonomastica (la disciplina secondo cui deonomastici o deonimici vengono oggi chiamati tecnicamente i nomi comuni derivati da nomi propri, che con riferimento a questo processo sono detti eponimi), si presenta come uno dei più intriganti approcci organizzativi. Bene lo sanno le impese for profit che da un po’ di tempo (devo dire non molto) stanno utilizzando il mentoring (nella trafila lessicale non poteva mancare la spinta e il movimento ing) quale modalità di apprendimento e “socializzazione organizzativa”. Se ci pensiamo, in moltissime imprese (anche culturali) coesistono tre generazioni a cui corrispondono forme di conoscenza e strumenti molto differenti tra loro: i millennial o generazione Y (nati tra il 1980 e il 2000), gli X (nati tra il 1960 e il
1980) e i baby boomer (nati prima del 1960 e ancora “attivi”). È del 2015 il film Lo stagista inaspettato con un Robert De Niro in versione decisamente resiliente mentre ha a che fare con Anne Hathaway nel ruolo di imprenditrice di successo. Lo scontro generazionale – inevitabile – produce però un contesto collaborativo e generativo per entrambi, così mentre l’attempato stagista dispensa con naturalezza suggerimenti sulle soft skill (autostima, fiducia, pazienza, attesa emotiva), riceve addestramento (pessimo termine ma comprensibilissimo) sulle competenze digitali e tecnologiche. Il tutto all’interno di un modello d’impresa che sempre più, con la maturazione degli attori in gioco (non solo i protagonisti quanto una fitta schiera di dipendenti, collaboratori e familiari) si configura in maniera semplessa, per citare Berthoz, sistematica e sistemica, arricchendosi di dinamiche decisamente giovevoli per il management, soprattutto in termini relazionali, di advocacy e welfare, ascolto attivo e apertura mentale, umiltà e disponibilità al cambiamento. Così, mentre il tempo rischia di agire a prescindere, con i senior che vedono allungare la loro permanenza, chiamati ad affrontare il delicato passaggio generazionale, e i più giovani accedono al mondo del lavoro in uno scenario fluido con limitate occasioni
di autentico apprendimento esperienziale, il mentoring diventa una straordinaria opportunità per costruire un patto di prossimità, uno scambio di sguardi “inter pares” (reciprocal mentoring o mentoring collaborativo), una contaminazione vicendevole (mentoring), un apprendimento socializzante (mentoring inverso o reverse mentoring). Una relazione, quella tra mentor e mentee, che va ben oltre l’esigenza di colmare il gap generazionale legato al digital divide e allo smart working, o una generica differenza esperienziale, e che piuttosto sottende un rapporto in grado di accedere in maniera privilegiata e tempestiva alle reciproche conoscenze. In effetti torna attualissimo l’assunto pubblicato circa un anno fa sulla Harvard Business Review secondo il quale “modern (reverse) mentoring extends far beyond just sharing knowledge about technology; today’s programs focus on how senior executives think about strategic issues, leadership, and the mindset with which they approach their work”. Insomma, anche per le imprese culturali può divenire strategico un piano di mentoring che possa condurre a rendere le persone sempre più consapevoli delle loro conoscenze e competenze sviluppando una cultura a vasi comunicanti, fondata sulla fiducia, l’affidamento e la cura.
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© Daniela Spoto per Artribune Magazine
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IRENE SANESI [ dottore commercialista ]
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ARCHUNTER
MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]
UNPARELLD'ARQUITECTES unparelldarquitectes.cat
Novità e scoperte del patrimonio culturale in Italia CLAUDIA GIRAUD
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unparelld’arquitectes, Can Sau. Emergency Scenery, Olot. Photo © José Hevia
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Nella classifica dei 10 migliori interventi del 2020 pubblicata da Domus lo scorso dicembre figurava, fra le residenze nel gallaratese del maestro Álvaro Siza e l’ultimo museo di Steven Holl a Houston, anche una curiosa scenografia urbana nel centro di Olot, cittadina nel cuore della Catalogna. A firmarla è lo studio locale unparelld’arquitectes, che, con “scene radiose, capaci di attivare gli spazi, raccontare nuove storie e costruire atmosfere”, sta rivoluzionando “i confini tra infrastruttura e decorazione, tra sfera domestica e pubblica, tra città e giardino”. Un’indagine che Eduard Callís (1977) e Guillem Moliner (1979) inaugurano nel tessuto residenziale dell’entroterra catalano, dove, con l’ingegnoso inserimento di “stanze all’aperto” – logge, terrazze e corti –, aprono gli spazi domestici verso le montagne della Garrotxa e l’azzurro intenso del cielo. Interventi sensibili ai luoghi e a chi li vive, che ricevono l’attenzione tanto della comunità architettonica spagnola quanto delle municipalità locali, offrendo agli architetti l’occasione di ripensare i punti d’incontro fra dimensione privata e spazio pubblico. Come nel complesso sportivo di El Morrot, in cui un’agorà racchiusa da portici moltiplica le occasioni di relazione dei giovani giocatori e delle loro famiglie. O nel quartiere di Sant Miquel, dove la semplice aggiunta di un tappeto di vernice e di decorazioni dai pattern geometrici ridona alla piazza deteriorata l’originaria veste di infrastruttura comunitaria, teatro di attività economiche e sociali, celebrazioni e giochi. Accoglienti, funzionali e dai costi ridottissimi, le stanze per la socialità di unparelld’arquitectes figurano per ben due edizioni nella shortlist del Simon Architecture Prize. Nel 2018, con il piano di recupero delle piazze di Olot, l’architettura di Callís e Moliner raggiunge la scala urbana. Nella prima fase, lo studio riattiva il piccolo vuoto lasciato da una demolizione, trasformando il muro di partizione residuo in una scenografica sequenza di volte, con nicchie e decorazioni che mimano la vita domestica perduta. Celebrata dalle riviste di settore e shortlisted ai Dezeen Awards, la magnetica convergenza tra sfera pubblica e privata di Can Sau vale al duo la candidatura allo AR Emerging Architecture Award. In attesa dei risultati, prosegue l’attività di unparelld’arquitectes nel centro storico di Olot, con “la riqualificazione delle restanti piazze, la nuova sede di una cooperativa e un’installazione per il Festival delle luci”, racconta lo studio ad Artribune. “Vogliamo sempre più promuovere città le cui facciate non sono confini insormontabili e le camere, le cucine, i soggiorni sono la continuazione dei parchi, delle strade e delle piazze. Così da dare vita a una città più accogliente, più socievole, a uno spazio pubblico più domestico”.
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SOPRINTENDENZA NAZIONALE DEL PATRIMONIO SUBACQUEO La nuova istituzione del MiBACT, con sede a Taranto e due centri a Venezia e Napoli, è ora operativa con l’insediamento della Soprintendente Barbara Davidde: l’archeologa sottomarina si occuperà della salvaguardia dei siti archeologici sommersi. ANTICHE TRACCE DI ANIMALI SULLA CUPOLA DEL BRUNELLESCHI Cani, gatti, galline, ma anche simboli come croci, marchi di antiche fornaci: sono le antiche impronte e segni ottocenteschi ritrovati dall’Opera di Santa Maria del Fiore durante i restauri di una delle Cupoline absidali che circondano il Duomo di Firenze. L’APPIA ANTICA A ROMA HA UN NUOVO MONUMENTO Il Mausoleo di Sant’Urbano dell’Appia Antica torna patrimonio del MiBACT dopo una lunga trattativa. L’acquisizione da parte del Parco archeologico è l’inizio di un futuro percorso aperto alla cittadinanza. CIVITA DI BAGNOREGIO CANDIDATA UNESCO Sorge su uno sperone di roccia nell’Alto Lazio e da secoli lotta contro l’erosione della collina e lo spopolamento. Diventare Patrimonio Unesco l’aiuterebbe non poco. L’esito nel 2022. A SAN GIMIGNANO NUOVO CENTRO CULTURALE Il complesso architettonico del San Domenico, dopo tre anni di restauro e un investimento di 20 milioni di euro della società privata Opera Laboratori, ospiterà gallerie multimediali, teatro e hotel con camere nelle ex celle del convento. ARENA COLOSSEO: PREVISTO INTERVENTO TECNOLOGICO È da anni che il Colosseo punta alla ricostruzione della sua arena. Grazie al sistema mobile, previsto dal bando di Invitalia per affidamento dei servizi di progettazione, si potrà starne al centro e vederne la macchina organizzativa. Obiettivo: avviare i lavori entro il 2021. GRANDI PROGETTI BENI CULTURALI Il MiBACT finanzia con 25 milioni di euro dieci nuovi progetti di recupero e riqualificazione del patrimonio culturale italiano. Privilegiati investimenti nei piccoli e medi comuni: dalle isole della Gallinara, Asinara e Pianosa fino alla Reggia di Portici.
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DISCONOSCERE UN'OPERA D'ARTE: IL CASO JEFF KOONS
Il tema dell’autenticità delle opere può essere esaminato sotto diversi profili, uno di questi è il diritto dell’autore di disconoscere la paternità della propria creazione e di negarne l’autenticità, influenzando così il valore economico del bene e la sua commerciabilità. Con una sentenza del 2019 (5 novembre) il Tribunale di Milano si è pronunciato sui limiti del diritto dell’autore di disconoscere l’opera e, nello specifico, sulla legittimità o meno del diritto dell’artista Jeff Koons di disconoscere una scultura di porcellana facente parte della serie in edizione limitata (tre esemplari numerati oltre una prova d’autore) denominata The Serpents. La serie, ideata e progettata dall’artista, era stata in concreto realizzata nel 1988 da un’impresa artigiana italiana su commissione della galleria newyorchese dell’artista (Galleria Sonnabend), la quale aveva anche pagato i costi di produzione delle opere. La controversia è sorta poiché dell’esemplare numerato 2/3 di The Serpents esistono due copie, una di proprietà della Art Gallery dell’Università dell’Ohio (non contestata dall’artista) e una di proprietà dell’attore nella causa in questione (contestata dall’artista). Il Tribunale ha deciso il caso applicando le norme in materia di diritto d’autore ed effettuando un bilanciamento tra il
diritto dell’artista di disconoscere la propria creazione e l’interesse degli altri soggetti coinvolti (es. collezionista, gallerista) a non subire comportamenti meramente arbitrari dell’artista stesso. La sentenza parte dal presupposto (accolto dalla giurisprudenza ma non dalla dottrina italiana) secondo cui il diritto di disconoscere l’opera è una articolazione del diritto morale di rivendicare la paternità dell’opera (art. 20 Legge n. 633/41) e che può subire delle limitazioni in alcuni casi, così come altri diritti di natura morale. In particolare, il Tribunale ha richiamato il diritto morale all’integrità dell’opera (inteso come il diritto dell’autore di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione, e a ogni atto a danno dell’opera stessa), che non viene riconosciuto se manca un pregiudizio all’onore o alla reputazione e se l’autore ha accettato le modifiche, nonché il diritto al ritiro dell’opera dal commercio, che viene riconosciuto all’autore solo in presenza di gravi ragioni morali. Al termine dell’istruttoria, il Tribunale ha ritenuto: che l’esemplare 2/3 disconosciuto dall’artista di proprietà del collezionista italiano è un esemplare firmato e numerato, inizialmente riconosciuto come proprio dall’artista che lo aveva anche utilizzato per una mostra a Colonia
nel 1988; che di tale esemplare non è stata dimostrata la natura di prototipo difettoso, né risulta che l’artista abbia dato disposizioni per la sua distruzione; che quell’esemplare era circolato sul mercato sin dal 1988, circostanza nota e accettata dall’artista. Sulla base di queste circostanze di fatto e in applicazione dei principi in materia di diritto d’autore, il Tribunale ha ritenuto non sussistere in concreto il diritto dell’artista di disconoscere l’opera e, di conseguenza, ha rigettato tutte le domande che poggiavano su tale presupposto. Secondo il Collegio, manca la prova del carattere lesivo dell’opera per la reputazione dell’artista e mancano le gravi ragioni morali che possono giustificare il ritiro dal commercio dell’opera rinnegata; inoltre, l’artista ha accettato la divulgazione al pubblico dell’opera, né ha preso iniziative per la sua distruzione o per impedirne la circolazione. Ora non resta che attendere qualche anno per vedere se la sentenza è stata impugnata e se il giudice dell’appello confermerà i principi affermati dal Tribunale, sempre che le parti non decidano di chiudere la vicenda con un accordo transattivo, come hanno già fatto nel giudizio avviato nel 1997 (ca.) davanti alla Southern District Court di New York.
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© Daniela Spoto per Artribune Magazine
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
RAFFAELLA PELLEGRINO [ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]
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#58
Nasce in Francia Grand Palais Immersif, agenzia per grandi mostre immersive
Interventi di valorizzazione online dei beni culturali in Italia
CLAUDIA GIRAUD L La Francia cavalca il trend del momento, orientato sempre più in direzione di mostre digitali, virtuali e immersive, aprendo un’agenzia ad hoc per produrle. Si tratta di Grand Palais Immersif, una filiale della società francese di diritto pubblico Réunion des Musées Nationaux – Grand Palais (Rmn-GP), principale operatore culturale europeo, che gestisce 34 musei nazionali (tra cui il Louvre, il Musée d’Orsay, il Musée Rodin). Il nuovo segmento societario sarà specializzato nella produzione, realizzazione e diffusione di grandi mostre digitali a Parigi, in Francia e all’estero. “Le tecnologie immersive saranno una delle prossime rivoluzioni delle piattaforme digitali, e sono un ambito in cui i giganti del digitale americano e cinese investono già in modo massiccio”, spiega Maud Franca, direttrice aggiunta per il digitale di Banque des Territoires (una direzione della Cassa depositi francese), tra gli attori dell’importante accordo. Grand Palais Immersif nasce, infatti, da un impegno congiunto tra RMN – Grand Palais, la Banque des Territoires e la società VINCI Immobilier, uno dei principali gruppi di promozione immobiliare del Paese, per diffondere il più possibile la cultura del digitale soprattutto nel proprio territorio. Non a caso, l’idea del progetto è partita da una mostra di successo ospitata dal suo monumento più emblematico: le scenografie immersive e la realtà virtuale viste nella recente mostra Pompei al Grand Palais di Parigi saranno gli ingredienti delle nuove produzioni della società francese di Stato, pensate con musei e start-up digitali. Il primo coinvolto è il Louvre. grandpalais.fr
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Nasce il Tavolo permanente per i lavoratori della cultura DESIRÉE MAIDA L Un decreto firmato il 20 gennaio dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo Dario Franceschini sancisce la nascita di un Tavolo aperto ai professionisti del settore, per ascoltare le loro esigenze e supportarli durante e dopo la pandemia. “Nasce il Tavolo permanente per i lavoratori dei musei, degli archivi e delle biblioteche, un nuovo spazio istituzionale per un costante ascolto delle esigenze dei professionisti di uno dei settori più colpiti dalla pandemia”, commenta Franceschini. Oggetto del Tavolo è la tutela dei lavoratori e, “in vista delle misure di rilancio”, continua il Ministro, “si rafforza così il dialogo e il confronto già intrapreso dal Ministero per la definizione degli interventi di ristoro”. Il Tavolo, si legge nel decreto, “esamina le problematiche connesse all’emergenza nel settore di competenza e valuta l’adozione delle opportune iniziative relative alle misure per far fronte ai danni diretti e indiretti derivanti dall’emergenza sanitaria, con particolare riguardo alla tutela dei lavoratori”. Il Tavolo, che è presieduto dal Direttore generale Musei, è composto dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni di settore. Ne faranno parte anche il Direttore generale Archivi, il Direttore generale Biblioteche e diritto autore, e rappresentanti delle istituzioni culturali in base ai temi trattati. “Il Tavolo”, continua il decreto, “opera senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Ai suoi componenti non spettano compensi”. beniculturali.it
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CARAVAGGIO IN HALTADEFINIZIONE Caravaggio in alta definizione: digitalizzati tre capolavori del maestro per i 450 anni dalla nascita. Si tratta del Narciso, di San Giovanni Battista e del San Francesco in meditazione, conservati alle Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini di Roma, che si aggiungono ai molti capolavori in gigapixel resi fruibili online dalla tech company Haltadefinizione. haltadefinizione.com MANN NAPOLI: IN RETE IL RESTAURO DEL MOSAICO DI ISSO Al MANN di Napoli cantiere aperto al pubblico per sette mesi: le piattaforme digitali del Museo Archeologico Nazionale consentiranno di seguire le delicate operazioni di restauro dell’iconico capolavoro pompeiano Mosaico della Battaglia di Isso, il celeberrimo “Gran Musaico” di epoca romana (100 a.C. circa) della bellezza di 5,82 x 3,13 m di estensione per 7 tonnellate di peso. museoarcheologiconapoli.it IL FORMAT VIDEO UFFIZI DA MANGIARE Opere d’arte come fonte d’ispirazione di chef stellati. Succede agli Uffizi di Firenze, da poco più di un anno sbarcati su Facebook. Qui il museo ha lanciato un format inedito: brevi video dove un noto cuoco o personaggio del mondo enogastronomico cucina o propone ricette a partire dalle collezioni delle Gallerie, col duplice scopo di valorizzarle e farle conoscere a nuovi pubblici online. Con Uffizi da mangiare, fino a primavera inoltrata si potrà, così, vedere un nutrito gruppo di chef alle prese con opere di Caravaggio, Felice Casorati, Giovanna Garzoni e altri grandi artisti per trovare punti di ispirazione alle proprie ricette. facebook.com/uffizigalleries MUSEO LAVAZZA TORINO: L’AUDIOGUIDA SU INSTAGRAM Uno tra i più bei musei d’impresa italiani, dentro il complesso Nuvola Lavazza a Torino, si dota della prima audioguida museale da Instagram: potrà essere guidato dall’ascolto, sul popolare social network, del racconto dello speaker radiofonico Federico Russo. lavazza.it/it/museo-lavazza.html BUON VENTO: IL MUSEO VIRTUALE DEL PORTO DI ANCONA Nel sito, contenitore culturale del Porto di Ancona al centro di un nuovo sviluppo economico e commerciale, ci sono video e podcast, interviste ai protagonisti che raccontano la vita dello scalo. L’iniziativa rientra nel progetto Remember, piattaforma che unirà otto musei virtuali di altrettanti porti del Mare Adriatico: fronte nazionale, fronte croato. buonvento.portoanticoancona.it
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si tratta di descrivere le sfide di maggior interesse per me e il mio laboratorio presso l’Università di Harvard, il metaLAB.
In arrivo dalla Stanford University, nel 2011 Jeffrey Schnapp ha fondato il metaLAB (at) Harvard nell’ambito del Berkman Center for Internet and Society, di cui è condirettore. Figura chiave delle digital humanities, è stato borsista in istituzioni museali come la National Gallery of Art di Washington e il Canadian Centre for Architecture.
Che peso ha la digitalizzazione delle risorse e dei processi in termini di efficacia della comunicazione attraverso i canali digitali? La digitalizzazione delle risorse è un primo passo importante. Ma è poco più che un primo step verso la costruzione di quel tipo di infrastruttura digitale che non solo rende le collezioni accessibili a pubblici distanti – oggigiorno è spesso così che si inizia una visita – ma sfrutta anche il loro potere di educare, raccontare storie, contribuire alla produzione di nuova conoscenza. Per quanto ne so, non esiste un solo museo italiano che abbia digitalizzato integralmente le proprie collezioni. Senza un tale investimento, la digitalizzazione rischia di equivalere a poco più di una semplice vetrina. (Intendiamoci, la situazione è tutt’altro che perfetta anche nel resto del mondo, Stati Uniti inclusi.) Hai lavorato anche in Italia. Vedi cambiamenti rilevanti riguardo alle “cose digitali” nel nostro mondo culturale negli ultimi anni? L’Italia è una delle vere superpotenze culturali del mondo, ma questo status non è sempre molto ben rappresentato quando si tratta di programmazione online o di infrastrutture digitali. Detto questo, risponderei affermativamente alla tua domanda: negli ultimi anni hanno iniziato a manifestarsi alcuni cambiamenti significativi. Per citare solo alcuni esempi, le
JEFFREY SCHNAPP jeffreyschnapp.com metalabharvard.github.io
Gallerie degli Uffizi hanno notevolmente ampliato la loro presenza online rispetto a solo cinque anni fa; la Triennale di Milano ha progressivamente messo in Rete i suoi archivi; e istituzioni visionarie come la Fondazione Prada hanno commissionato progetti online originali, anche se perseguono una programmazione in loco di prim’ordine. Qual è la tua opinione sulla formazione professionale in digital humanities? Pensi che sia necessario un passo avanti nella definizione e specializzazione della/e disciplina/e? “Digital Humanities” si è dimostrata una formula utile per inquadrare l’incontro di una profonda esperienza umanistica con l’alfabetizzazione tecnologica e poi persino la capacità di essere fluidi, e ibridi – capacità che la nostra epoca richiede in maniera sempre più evidente ai giovani studiosi e professionisti dei musei. Anche se a volte la impiego, considero la locuzione tendenzialmente anacronistica, dato che non parliamo di astronomia digitale o biologia digitale quando ci riferiamo a forme di indagine emergenti o innovative in questi due domini scientifici. Il digitale è semplicemente una precondizione per lo studio e la produzione di nuova conoscenza (e cultura!) in tutti gli ambiti contemporanei, e questo ovviamente include le scienze umane. È il motivo per cui preferisco l’etichetta “design del sapere” quando
Raccontaci del tuo rapporto con l’istituzione per cui lavori. Quali sono i tuoi progetti preferiti? Ho il privilegio di insegnare all’Università di Harvard, dove il mio laboratorio (che fa parte del Berkman Klein Center for Internet and Society) funge da piattaforma per forme di ricerca sperimentale che fanno da ponte tra le nuove tecnologie, il design, le scienze umane e l’arte. Nel mio gruppo nessuno fa il maestro (neppure io, che sono l’unico ordinario). Ci definiamo “una fucina di idee, un laboratorio di design del sapere e uno studio di produzione” proprio per suggerire che la nostra identità di base è dedicata al passaggio di confine tra puro e applicato. In questo momento sono particolarmente entusiasta di un progetto in corso intitolato Curatorial A(i) gents, che prevede l’uso critico e creativo di tecniche basate sull’Intelligenza Artificiale per esplorare nuove modalità di creazione di esperienze in ambito museologico, anche su scala ingrandita.
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Quanto è importante lo sviluppo del digitale per un museo oggi? È fondamentale. Ma il digitale non rappresenta né una “aggiunta” né una proposta aut/aut rispetto all’analogico. Piuttosto, abbracciare il digitale comporta una trasformazione del cuore dell’identità e del modus operandi del museo. Implica uno spostamento radicale dal pensare il museo come un luogo di deposito e pellegrinaggio al pensare il museo invece come una piattaforma o un hub nel quale le esperienze in presenza, e non, vengono fornite in forme e formati diversi, convergenti e divergenti. Ossia, il museo come tessuto di connessioni e non solo di collezioni.
Ci sono due mondi separati là fuori, uno on line e uno off line? O esiste un unico mondo? Separati e interconnessi. Questo è il motivo per cui la sfida non è replicare in modo skeumorfico l’uno nell’altro, replicando le gallerie analogiche nel regno virtuale, ad esempio. Il compito molto più interessante è sviluppare formati e forme specifici per il mezzo, e quindi pensare in modo critico e creativo a quando e dove l’analogico e il digitale, il sito fisico e l’online, dovrebbero divergere o intersecarsi. È qualcosa a cui penso molto nel mio lavoro curatoriale: come progettare forme ramificate di contenuto multicanale, ove ogni ramo si innesta in un medium specifico e converge felicemente in un’esperienza complessiva? Sono sempre alla ricerca di quelle zone dove si riesce a scovare un valore aggiunto.
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MARIA ELENA COLOMBO [ museum & media specialist ]
Puoi consigliare un libro che ritieni sia intelligente e utile per i colleghi italiani – e non solo? Questa è una domanda difficile, dato che la mia definizione di utilità potrebbe non essere condivisa da molti. Ma sono un grande fan degli scritti pubblicati su e-flux dall’artista tedesca Hito Steyerl, raccolti in The Wretched of the Screen (2012), e del modo in cui disvelano incessantemente l’ontologia delle immagini oggi.
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IMAGO MUSEUM Diventerà un luogo di iniziative culturali ed espositive di livello internazionale il nuovo polo museale di Pescara, che sorgerà nell’ex Banco di Napoli per volontà della Fondazione PescarAbruzzo. Oltre 1.200 mq destinati a mostre temporanee e all’esposizione delle collezioni della Fondazione. corso vittorio emanuele II 270 pescarabruzzo.it
PESCARA CENTRALE È lo scalo ferroviario principale del capoluogo abruzzese e ha iniziato ad accogliere i convogli ferroviari nell’anno in cui nasceva D’Annunzio. La struttura attuale è un capolavoro di ingegneria dovuto alla perizia di Carlo Cestelli Guidi. Spettacolare anche l’esterno, con l’infinita pensilina in vetri riflettenti. via stazione ferroviaria trenitalia.com
EX FEA Siamo nell’antica Stazione di Pescara Porto, in disuso dagli Anni Sessanta e in stato di abbandono. Ora però sono partiti i cantieri. Obiettivo: un centro che unisca arte, green, gastronomia e territorio con affaccio sull’Adriatico. Gran parte degli edifici sarà recuperata tramite il risanamento dell’esistente. Tempi di realizzazione previsti: un anno, forse meno. lungomare matteotti
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MUSEO DELLE GENTI D’ABRUZZO Nasce nel 1973 ma è solo nel 1982 che le due collezioni originarie vengono unite nell’odierna istituzione. Le sale espositive sono sedici e raccontano la storia dell’uomo in Abruzzo dal suo primo apparire come cacciatore paleolitico, indagandone costumi, credenze, luoghi di culto, produzioni, oggetti, forme. via delle caserme 24 gentidabruzzo.com
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Pescara. D'Annunzio e il XXI secolo Vi a
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Casa natale di D’Annunzio
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Qui nacque il Vate nel 1863, e naturalmente la casa natale è un museo visitabile. Qui ha operato per mezzo secolo un gallerista vulcanico come Cesare Manzo, il fondatore di Fuori Uso, fra i primi esperimenti di recupero creativo di spazi abbandonati. Ora Pescara dà segnali di nuova vita. VISTAMARE Benedetta, Federica e Vittoriano Spalletti inaugurano nel 2001 con una mostra curata da Giacinto Di Pietrantonio in cui figura anche papà Ettore, scomparso nel 2019. Siamo in un palazzo del XVIII secolo: niente white cube ma ambienti con volte affrescate. Dal 2018 esiste una seconda sede a Milano. largo dei frentani 13 vistamare.com
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NERO LA FACTORY Nero era un collettivo di giovani artisti e graphic designer. Quando si scioglie, Matteo J. Coccia non si perde d’animo: nel 2017 rileva una vecchia tipografia in centro e la riconverte a centro culturale per artisti e artigiani. Al momento lo spazio è chiuso a tempo indeterminato, ma siamo certi che rialzeranno la testa. via caboto 67 nerolafactory.com
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PINETA DANNUNZIANA 53 ettari di riserva naturale istituita nel 2000, ma il polmone verde della città risale all’epoca borbonica. In parte è antropizzata, ma ampie porzioni sono coperte da macchia mediterranea e boschi di pini. All’interno c’è l’ex Aurum, dove a fine maggio si terrà Las.fair, la nuova fiera dedicata ai giovani artisti. viale della pineta pinetadannunziana.it
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LES PAILLOTES Per elaborare il menu, chef Walter Canzio si è fatto supportare da Heinz Beck. Il risultato si assapora. Si può scegliere fra la carta pesce e la carta sushi, gli accostamenti sono comunque curiosi: dal baccalà in tempura con maionese al wasabi fino alla cacio e pepe con gamberi bianchi marinati al lime. piazza le laudi 2 lespaillotes.it
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DANIELE COMELLI Art manager
photo credit by Lisa Olivares
LA SUA ARTE PER TUTTI: UNA SCOMMESSA VINCENTE DI DANIELE COMELLI La maniera di affrontare i problemi della vita muta in fretta in questo nostro mondo attraversato e rimodellato continuamente dalla tecnologia. Anche l’arte ne è contaminata quando cerca di inseguire il tempo fuggitivo e quando cerca di coinvolgere gli appassionati non solo dal punto di vista della sua acquisizione emozionale ma anche del suo possesso concreto. Ora che la gente frequenta sempre meno le gallerie a tutto vantaggio delle aste televisive, si sente la necessità di un diverso tramite tra il gusto delle persone e l’opportunità di concretizzare il desiderio del possesso impegnando cifre
anche relativamente modeste. Con la speranza, in quest’ultimo caso, che l’artista prescelto raggiunga considerevoli livelli d’apprezzamento e quindi di vendita nel corso degli anni. Un’utopia? Forse per tanti ma non per Daniele Comelli che da qualche lustro si è ritagliato il ruolo di scopritore di talenti in campo internazionale, sconosciuti ai più. Alcuni dei quali hanno raggiunto oggi quotazioni ragguardevoli. Un significativo esempio è Marco Battaglini: questo pittore italiano che lavora in Costarica realizza opere neo-pop, prendendo spunto da famosi quadri dei secoli passati, che attual-
mente vengono vendute a diverse decine di migliaia di euro. Comelli ha creato una galleria on-line che offre l’opportunità di visionare i lavori di numerosi artisti da lui accuratamente selezionati che coprono l’arco del generale gusto visivo che va dalla figurazione novecentesca all’informale fino a riguardare le più attuali sperimentazioni. I prezzi? Da cinquecento euro in su. Tale ampia varietà di spesa induce molti collezionisti a entrare nel suo sito e a esplorare il vasto materiale a disposizione che, oltre la pittura, riguarda anche la scultura e la grafica. E Comel-
www.danielecomelli.com Daniele Comelli Art
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li, all’occasione, incontra anche personalmente i suoi potenziali clienti, rimasti affascinati da una determinata opera e desiderosi di saperne di più prima di deciderne l’acquisto. Un sistema originale di approccio, come si intuisce, dove è l’arte che va a trovare i suoi cultori e non il contrario. Così si infrange quel diaframma che divide di solito l’opera dall’osservatore che può finalmente trasferire il suo desiderio o la sua emozione in un’immagine che diventerà totalmente sua una volta appesa alle pareti di casa. Luciano Caprile
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SAVERIO VERINI [ curatore ]
Mattia Paj l primo incontro con Mattia Pajè è avvenuto a Bologna nel 2018, nel posto che è un po’ una seconda casa per lui, Gelateria Sogni di Ghiaccio. Il nome può trarre in inganno, visto che non si tratta di una vera gelateria, ma di uno spazio espositivo fondato da Pajè insieme a Filippo Marzocchi nel 2016, e che i due hanno messo a disposizione di altri artisti. Questa curiosità per le altrui ricerche mi sembra un primo fatto importante; come se per Pajè fosse indispensabile circondarsi costantemente di idee e intuizioni. Di lui ho capito quasi subito che se non prova piacere – se non si diverte nel realizzare un’opera – c’è un’altissima probabilità che decida di dedicarsi ad altro. Credo che, in fondo, sia terrorizzato dalla paura di ripetersi. Questa vocazione a una ricerca dagli esiti magari incerti – e proprio per questo più eccitanti – penso sia la sua cifra. Ma di cosa parlano le opere di Mattia Pajè? In estrema sintesi mi sembra di poter dire che esse esprimano soprattutto una condizione di meravigliosa fragilità, il loro essere sospese, talvolta incomplete, destinate a disfarsi. Una condizione che l’artista vuole condividere con l’osservatore, invitandolo a un rapporto fortemente esperienziale con le opere stesse e lo spazio dove vengono esposte.
se nessun essere umano la poteva vedere. Ho fatto diverse prove anche con la totale assenza di pubblico, ma in quel caso il pubblico c’era: i pennuti interagivano eccome con le opere, i loro percorsi erano modificati e alcuni lavori sono stati addirittura “covati”. Le domande più frequenti di quel periodo per me erano: cos’è un’opera d’arte? Cos’è una mostra? Cos’è un artista? A cosa servono queste cose?
Nel 2016 un amico, Stefano Volpato, mi parlò di un progetto che aveva curato nella campagna marchigiana. L’artista invitato, invece di pensare a una classica mostra nello spazio espositivo, aveva adocchiato un pollaio che si trovava nei pressi, organizzandovi una collettiva inaccessibile al pubblico, ma visibile soltanto alle galline. Quell’artista eri tu e il progetto, Hen House, mi rimase tatuato in testa. In quel periodo ragionavo su quali potevano essere gli elementi che rendevano tale un’opera d’arte o una mostra. Organizzare una mostra per galline era un innocente tentativo di capire se un’esposizione potesse essere “valida” anche
Nel tuo lavoro rivedo certi guizzi à la Cattelan, ma anche la giocosità di Boetti e la sfida all’impossibile di De Dominicis. Mi fai il nome di un artista che stimi o di un’opera che ti ha toccato particolarmente? Mi colloco volentieri nella posizione di fruitore del lavoro altrui. Un’opera che mi ha colpito negli ultimi anni è True Courtship Dance di David Horvitz. Durante la fiera Frieze New York nel 2016, Horvitz ingaggiò un borseggiatore per inserire delle piccole sculture raffiguranti dei cavallucci marini nelle tasche e nelle borse dei visitatori. Mi immagino le facce delle persone che trovarono quei piccoli intrusi tra i propri effetti personali.
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A tal proposito mi viene in mente una serie da te dedicata alle sequenze numeriche teorizzate dal ricercatore kazako Grigori Grabovoi. Ogni sequenza, secondo Grabovoi, avrebbe dei precisi effetti sulle nostre esistenze: concentrandosi sulle sequenze (leggendole, ripetendole, trascrivendole…) si possono “correggere” patologie e conseguire alcuni obiettivi. Ritengo queste ricerche del tutto inattendibili, ma mi affascina l’uso che ne fai. L’utilizzo delle sequenze numeriche fa parte di un recente tentativo di attribuire alle opere una qualche funzionalità, per quanto latente. Guardo spesso alle pseudoscienze e ai metodi di cura alternativi, applicando queste tecniche e le loro estetiche alla produzione artistica. Non sono interessato a presentare tali teorie come soluzioni attendibili a problemi reali: mi interessa piuttosto la possibilità che l’opera possa essere “attiva” nei confronti dello spazio espositivo o dello spettatore.
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BIO Mattia Pajè è nato a Melzo nel 1991. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nel 2016 fonda con Filippo Marzocchi lo spazio Gelateria Sogni di Ghiaccio. Nel 2019 dà vita alla residenza Bagni d’Aria con Alice Visentin e Caterina Molteni; dal 2018 è parte del collettivo nomadico Altalena. Il suo lavoro è stato recentemente esposto e supportato da: Pinacoteca Nazionale, Bologna; MAMbo, Bologna; Sonnenstube, Lugano (2020); Fondazione Smart, Roma (2019); Suburbia Contemporary Art, Granada; BoCS Art, Cosenza (2018); Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato; TRIPLA, Bologna; Car DRDE, Bologna; Dolomiti Contemporanee, Borca di Cadore; Mahler & LeWitt Studios, Spoleto; Cripta 747, Torino; Istituto Italiano di cultura di Montevideo (2017). Nel 2019 è tra gli artisti selezionati per il progetto Grand Tour d’Italie al MAMbo, mentre nel 2020-2021 è in residenza al Nuovo Forno del Pane, nello stesso museo.
Mattia Pajè, Ciao, 2019, argilla rossa Sansepolcro, ferro, 108x172x50 cm. Courtesy l’artista & Fondazione smART. Photo Francesco Basileo
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Mattia Pajè, Fatina, 2019, argento, 5,3x2x0,2 cm. Courtesy l’artista & Fondazione smART. Photo Francesco Basileo Mattia Pajè, Do You Come Here Often?, 2017, 30 parrocchetti ondulati, acciaio, carta, luci UV, luci blu. Courtesy l’artista & Viaggiatori sulla Flaminia & Mahler & LeWitt studios. Photo Emanuela Duranti
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Piccole e preziose: le sculture di Horvitz mi fanno pensare a una tua opera, Fatina. Così piccola da risultare quasi invisibile nello spazio espositivo. Ricordo perfettamente la genesi di Fatina, nella storia ci sei anche tu. Era una notte di fine estate 2019 e ci siamo infilati in un bar sotterraneo nel quartiere di San Lorenzo a Roma, abbiamo ordinato due birre e iniziato a discutere della mostra che stavo preparando. Eravamo forse gli unici a chiacchierare, tutte le persone attorno a noi erano alle prese con i più disparati giochi da tavolo. A un certo punto è entrato un venditore ambulante. Ho acquistato per qualche soldo un anellino con una piccola stella marina argentata e l’ho subito indossato. Abbiamo continuato a discutere sulla mostra futura, concordando sul fatto che “mancava qualcosa”. In quel momento non sapevo di avere quel qualcosa al dito. Giorni dopo ho rimosso dall’anello il cerchio e fatto saldare alla stella un piccolo manico: l’anello era diventato una minuscola bacchetta. Fatina è poi entrata nella mostra, mi piace pensare a lei come a un tocco magico. Quanto sono importanti questi tocchi magici per te?
Guardo spesso alle pseudoscienze e ai metodi di cura alternativi, applicando queste tecniche e le loro estetiche alla produzione artistica.
piccola targa con scritto: “In questo luogo nel luglio 2020 è stato liberato un ragno precedentemente catturato a Bologna”. Prima di tornare a casa, da Pereto sono andato a Roma per visitare nuovamente la mostra dove avevo installato Fatina. Avvicinandomi alla bacchetta magica ho notato che un piccolo ragno aveva fatto della scultura la sua casa temporanea. Mi sento molto fortunato nel poter osservare certi avvenimenti.
L’estate scorsa mi è capitato di dover pensare a un intervento per un borgo in Abruzzo, Pereto, senza avere la possibilità di raggiungerlo fisicamente. Mentre chiacchieravo con un amico fuori dal mio studio, lamentandomi dell’impossibilità di fare un sopralluogo, è sbucato un ragno da una crepa nel muro. Abbiamo sorriso, fantasticando sull’idea di fare di quel ragno l’opera in questione. Il giorno dopo sono andato a leggere al parco. Dopo un po’ ho sentito una sensazione di solletico all’altezza della caviglia. Ho alzato il lembo dei pantaloni e ho trovato un piccolo ragno arrampicato sulla mia gamba. Ho catturato il ragno e l’ho allevato per un mese nella mia camera, poi l’ho portato a Pereto. L’ho liberato nel borgo e ho affisso una
Tre opere da te realizzate che mostreresti a un passante per strada. Do You Come Here Often?: trenta cocorite vive in un sito archeologico sotterraneo illuminato con luci UV. Nello stesso ambiente, dominato da una luce blu, dieci sequenze numeriche di Grabovoi in acciaio, allestite a diverse altezze. Chi va piano va sano e va lontano: un terrario rotondo con nove tartarughe, ognuna con una lettera sul carapace. Le nove lettere, tra le innumerevoli combinazioni, avrebbero potuto formare la parola “obiettivo”. Ciao: una coppia di figure ad altezza naturale abbracciate, fatte in argilla cruda. Nel tempo l’argilla si è crettata e, alla fine della mostra in cui sono state presentate, le sculture sono state distrutte.
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Mattia Pajè, Chi va piano va sano e va lontano, 2019, legno, ficus ginseng, pietra, 9 testudo horsfieldii, plexiglas, lampade basking spot, Ø 150 cm. Courtesy l’artista & Fondazione smART. Photo Francesco Basileo
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Alessandro Mendini, Senza titolo, 1986, Courtesy Archivio Alessandro Mendini, Milano
Alessandro Mendini piccole fantasie quotidiane
31.10.2020 05.04.2021
L TRIBUTO A... L
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
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13 GRANDI PROTAGONISTI DELLA CULTURA PORTATI VIA DALLA PANDEMIA
N
#58
illustrazione © Daniela Spoto per Artribune Magazine ritratti © Alessandro Naldi per Artribune Magazine
La domanda da porsi ora è: cosa resta del design senza Enzo Mari? Cosa resta della curatela senza Germano Celant? Cosa resta del cinema senza Kim Ki-Duk? La risposta non è né deve essere (soltanto) il compianto: è chiaro che la mancanza di questi interpreti magistrali si farà sentire, eccome. Ma la questione più pressante e attuale, cinica e strumentale, riguarda l’eredità che ci hanno lasciato. Omaggiare queste 13 donne e uomini significa tramandarne, proseguirne, tradirne l’eredità. Significa, ad esempio, imparare a non cedere alle pressioni politiche d’ogni colore, come ha fatto Irina Antonova nell’oltre mezzo secolo durante il quale ha diretto il Museo Pushkin di Mosca. Significa, ad esempio, continuare a scalfire sempre più a fondo i pregiudizi discriminatori, come ha fatto lungo la sua intera vita Lea Vergine. Significa – sembra facile, ma viviamo in Italia – essere un dipendente pubblico onesto, capace, rigoroso, propositivo come Calogero Rizzuto. Significa anche e soprattutto non farsi tentare dall’agiografia, e dunque continuare a guardare e studiare i film del regista coreano, ma senza fingere che la sua vita non sia stata pesantemente macchiata dalle accuse per molestie sessuali. Questa pandemia, come tutte le crisi che l’hanno preceduta, accresce il già grave carico di responsabilità che pesa sulle generazioni a venire. Mostrarsi all’altezza del compito è il minimo che possiamo fare.
L TRIBUTO A... L
La questione più pressante e attuale, cinica e strumentale, riguarda l’eredità che ci hanno lasciato. Omaggiare queste 13 donne e uomini significa tramandarne, proseguirne, tradirne l’eredità.
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
on è certo questo il luogo per discutere e magari accapigliarsi tra complottisti e scientisti, tra acefali sostenitori del negazionismo e acritici adoratori della statistica. È invece il luogo per iniziare a fare i conti con il fatto – il fatto – che la pandemia tuttora in corso ha, fra mille e drammatiche conseguenze, ridisegnato un ampio brano della cultura. Come? Letteralmente uccidendo una serie impressionante di protagonisti di quel mondo. Nelle pagine che seguono ne abbiamo scelti tredici: un campione assai ridotto ma rappresentativo.
MARCO ENRICO GIACOMELLI
49
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
MOTOKO FUJISHIRO HUTHWAITE 50
Boston, 24 agosto 1927 – Taylor, 4 maggio 2020
#58
1941
Trasferimento a Tokyo
1946
Inizia a lavorare con i Monuments Men
1948
Torna a Boston e si iscrive all’università
1952
Si laurea e torna in Giappone
1967
Si trasferisce nuovamente negli Stati Uniti
1974
Prende il dottorato all’Università del Michigan
1986-2002 Riceve la Congressional Gold Medal
Se la Seconda Guerra Mondiale non ha cancellato il patrimonio culturale di tanti dei Paesi coinvolti nel conflitto lo dobbiamo in buona parte a un gruppo di 345 persone note come Monuments Men: intellettuali, storici, curatori, conservatori e architetti di 14 nazioni del mondo che, durante e dopo la guerra, si impegnarono per tutelare monumenti, opere d’arte e manufatti a rischio. Di questi, 27 erano donne. Lo scorso maggio l’ultima sopravvissuta delle Monuments Women è stata l’ennesima vittima dell’epidemia di Coronavirus.
PRIMA E DOPO LA GUERRA
Motoko Fujishiro Huthwaite era nata nel 1927 a Boston da genitori giapponesi. Il padre era dentista e professore a Harvard e la famiglia era ben inserita nella società del Massachusetts. Dopo l’attacco di Pearl Harbor del 1941, tuttavia, il governo americano divenne ostile nei confronti dei giapponesi. Molti furono rinchiusi in campi di concentramento, mentre i più privilegiati erano invitati a tornare in patria. Motoko si trasferì a Tokyo insieme alla madre e al fratello, mentre il padre rimase negli Stati Uniti, dove fu arrestato dall’FBI e internato in Montana. Grazie all’impegno della Croce Rossa, nel 1943 la famiglia riuscì a far arrivare il padre in Giappone e, quando gli americani nel ‘45 bombardarono Tokyo, i Fujishiro erano in città. Motoko
Lavora per la casa editrice Gale Research Company
2015
Nel 2015 ricevette la Congressional Gold Medal insieme agli ultimi sopravvissuti dei Monuments Men, che aveva raggiunto nel 1946. più tardi raccontò che, mentre lei e il resto della famiglia trovarono rifugio, il padre rimase alla finestra ad assistere all’attacco. A seguito della resa giapponese, la famiglia rientrò in contatto con la cerchia di amici di Boston. Tra questi c’era Langdon Warner, archeologo specializzato in storia orientale che, nel 1946, si trasferì a Tokyo per lavorare come consulente dei Monuments Men per l’area del Pacifico. Fu lui a suggerire a Motoko di candidarsi per una posizione nell’organizzazione, che nel frattempo aveva avviato una massiccia operazione di recupero delle opere d’arte rubate dai nazisti, che negli anni portò alla restituzione di oltre quattro milioni di artefatti ai rispettivi Paesi. Sfruttando la propria conoscenza dell’inglese e del giapponese, la ragazza iniziò
così a lavorare per il gruppo come segretaria e dattilografa e trascrisse decine di rapporti e corrispondenze dal campo dei Monuments Men.
DAL GIAPPONE A BOSTON
Negli anni Motoko riuscì a riottenere la cittadinanza statunitense e a risparmiare per tornare a Boston e iscriversi all’università. Il Giappone, infatti, con la sua società patriarcale, le stava ormai stretto. Si laureò nel ‘52 per poi tornare in Giappone dalla madre. Lì insegnò all’American School in Japan (ASIJ) e prestò sporadicamente servizio come segretaria personale di John D. Rockefeller III. Nel ‘64 si trasferì nuovamente negli USA con la madre, ricongiungendosi al fratello in South Carolina, dove proseguì gli studi e insegnò per diversi anni. Nel ‘71 sposò l’ex ufficiale della marina americana William Ernest Cecil Huthwaite e nel tempo ricoprì diversi ruoli come docente in scuole e università per poi passare al settore editoriale. Negli ultimi anni della sua vita Motoko Fujishiro Huthwaite si dedicò all’attivismo con le Raging Grannies, un gruppo di “nonnette arrabbiate” impegnate in cause di giustizia sociale. Nel 2015 ricevette la Congressional Gold Medal insieme agli ultimi sopravvissuti dei Monuments Men.
L TRIBUTO A MOTOKO FUJISHIRO HUTHWAITE L
1955-1964
Insegna alla American School in Japan
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
1943
La famiglia si riunisce a Tokyo
MAURITA CARDONE
51
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
IRINA ANTONOVA 52
Mosca, 20 marzo 1922 – Mosca, 30 novembre 2020
1929-1933
1961 Riesce a portare al Pushkin la Monna Lisa
1981 Posa in motocicletta con Jeremy Irons per promuovere una mostra d’arte americana
2010
2013
“Mi licenzieranno”. Così Irina Antonova, storica direttrice del Museo Pushkin, aveva commentato la propria scelta di esporre i cubisti e gli impressionisti a fianco dei capolavori russi in piena Guerra Fredda. Non venne licenziata, anzi: il popolo sovietico migrò a Mosca per assistere a questo dono e il Pushkin cominciò a guadagnarsi la fama di principale museo russo, che ora condivide con l’Hermitage. La “Gran dama dell’arte russa”, com’era chiamata nel mondo, si è spenta a 98 anni, e con lei sembra essere scomparsa anche l’età d’oro del museo.
MEZZO SECOLO PER CAMBIARE LE SORTI DEL PUSHKIN
Antonova aveva cominciato a lavorare al museo moscovita sotto Stalin, ne era diventata direttrice nel 1961 ed era andata in pensione nel 2013: in 52 anni aveva reso il Pushkin, spazio espositivo dedicato al più importante poeta russo, il protagonista di esposizioni indimenticabili e di proficui scambi con il mondo. Cortina di ferro o no, per Antonova non faceva differenza: esponendo i Picasso, i Matisse e i van Gogh nascosti da anni nei caveau del museo, sfidò il diktat di osteggiare la pittura borghese europea, e vinse. Così era anche riuscita a portare in URSS la Monna Lisa, a patto di tenerla sotto un vetro antiproiettile.
UNA FIGURA DI RIFERIMENTO
Come direttrice del Pushkin, Antonova aveva creato un complesso dell’arte, con
1945 Diventa direttrice del Museo Pushkin
1974 Fonda il festival musicale con Svyatoslav Richter
2007 Organizza una grande retrospettiva su Picasso
2012 È l’anno del pensionamento forzato
CONTROVERSIE E LOTTE
In 52 anni ha reso il Pushkin, spazio espositivo dedicato al più importante poeta russo, il protagonista di esposizioni indimenticabili e di proficui scambi con il mondo. il Centro di Arte per Bambini, il Museo di Arte Europea e Americana e il Museo delle Collezioni Private. Aveva tenuto lezioni nelle università e nelle gallerie della Federazione russa e del mondo. Così si era trovata, artefice, al centro di un ricchissimo sodalizio intellettuale: ha sì conosciuto Brezhnev, Eltsin e Putin, ma era anche diventata amica di Chagall e del pianista Richter. Con quest’ultimo aveva anche creato un festival musicale internazionale all’interno degli spazi del museo. Per non parlare del giro in moto con Jeremy Irons in occasione dell’esposizione sull’arte americana negli Anni Ottanta: “Andiamo al Museo Lenin e torniamo ”.
Il Pushkin conserva ancora oggi opere d’arte prelevate dalla Germania nazista come bottino di guerra. “So che è doloroso per diverse persone in Germania. Durante la Seconda Guerra Mondiale facevo l’infermiera e ho amputato anche le gambe distrutte dei soldati e dei piloti tedeschi caduti vicino a Mosca”, aveva detto Antonova alla Deutsche Welle quattro anni fa. “Molti lavori sono stati resi, ma altri resteranno come deposito, il giusto prezzo per ricordare”. Controversie vi furono anche per il suo pensionamento “forzato” a 91 anni, nel 2013. Era avvenuto poco dopo aver incontrato Putin per dar voce alla richiesta di rinascita del Museo di Arte Internazionale, che aveva esposto le collezioni dei mercanti d’arte Schukin e Morozov. I loro Monet, Renoir, Cézanne, Matisse e Gauguin erano stati ripartiti tra il Pushkin e l’Hermitage da Stalin, che aveva smantellato il museo nel 1948. “La divisione della collezione è un crimine che dura ancora oggi”, aveva detto in una recente intervista, “io sto ancora lottando”. Ma per questo era stata rimossa. Antonova, membro onorario del Consiglio Internazionale dei Musei dell’Unesco, era comunque rimasta presidente onoraria del Puskin e un riferimento per l’arte russa fino alla morte: ora riposerà al cimitero Novodevichy della capitale russa.
L TRIBUTO A IRINA ANTONOVA L
Promuove una petizione indirizzata a Putin per riunire le collezioni Morozov e Schukin
Si trasferisce a Berlino
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Si laurea in Storia dell’Arte e inizia a lavorare al Museo Pushkin
#58
GIULIA GIAUME
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GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
FILIPPO MARIA GAMBARI Milano, 12 novembre 1954 – Roma, 19 novembre 2020
54
Archeologo con specializzazione in Preistoria Soprintendenza Archeologica del Piemonte
1979-2009
1987-1989 Allestimento Museo Civico Archeologico Borgosesia
2007 2009
Nominato Dirigente di II fascia Archeologo
2009-2011
Soprintendente per i Beni Archeologici della Liguria
Soprintendente per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna
2010-2014
Direttore del Parco Archeologico Ercolano
2016-2017 2017
Trasferimento all’Eur delle raccolte del Museo Nazionale di Arte Orientale – Roma
Uno dei più formidabili, ma non tra i più noti, musei di Roma è il MuCiv, il Museo delle Civiltà che ha sede nel decentrato quartiere dell’Eur (cosa che contribuisce non poco al fatto che il museo non sia ancora conosciuto come meriterebbe). È anche uno dei più giovani musei della Capitale, essendo stato fondato nel 2016 attraverso l’accorpamento di quattro istituzioni dalla storia lunga e illustre: il Museo Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”, quello di Arti e tradizioni popolari “Lamberto Loria”, il Museo Nazionale di Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, il Museo dell’Alto Medioevo “Alessandra Vaccaro”, ai quali è stato in seguito aggiunto l’“Italo Africano”, da poco intitolato a Ilaria Alpi. A qualche mese dalla creazione del nuovo museo, la sua direzione fu affidata, nella primavera del 2017, all’archeologo preistorico Filippo Maria Gambari, che con un’azione incisiva e di ampio respiro ha forgiato l’identità del nuovo organismo. Compito non semplice, vista la diversità delle componenti di partenza. Ma la sfida è stata vinta, come si può verificare passeggiando nelle sale del museo, la cui eterogeneità stimola domande e confronti, all’insegna di un continuo dialogo con l’alterità geografica (le civiltà extraeuropee) e cronologica (l’epoca tardoantica e i primi secoli del Medioevo), e di un approccio antropologico che rivela tutta la ricchezza sia di civiltà lontane che delle nostre “arti e tradizioni popolari”.
Direttore del Museo delle Civiltà – Roma
2017
Del valore e della poliedricità dello studioso reca testimonianza la sua vasta produzione scientifica, incentrata soprattutto sulla preistoria e la protostoria italiana GAMBARI FUNZIONARIO E STUDIOSO
Molto è ancora da fare, e molti sono i progetti da poco avviati e in cantiere: purtroppo però l’infaticabile animatore del MuCiv, il suo direttore Gambari, è scomparso, a causa del Covid-19, il 19 novembre 2020. Con lui se ne sono andati, oltre che un uomo di grande disponibilità e di curiosità inesauribile, un eccellente funzionario dello Stato e un ottimo studioso. Il primo aspetto è testimoniato, ben prima dell’incarico romano, dal lungo servizio in Soprintendenza, in particolare presso la Soprintendenza Archeologica per il Piemonte, dove ha lavorato per quasi trent’anni. Del valore e della poliedricità dello studioso reca testimonianza la sua
vasta produzione scientifica, incentrata soprattutto sulla preistoria e la protostoria italiana, con particolare riferimento all’Età del Bronzo e del Ferro nell’Italia nord-occidentale. Si può ben dire che, con i suoi scavi e le sue ricerche, Gambari ha riscritto la preistoria del Piemonte.
MUSEO E CITTADINANZA
Tra gli aspetti che più hanno caratterizzato la sua opera di funzionario e di direttore, così come quella di studioso, possiamo annoverare l’importanza attribuita al rapporto con il pubblico (il museo deve aprirsi alla società e alla cittadinanza: ne fanno fede l’abilità di Gambari come divulgatore e alcune iniziative da lui promosse su tematiche quali la violenza di genere e la tutela dell’ambiente) e la consapevolezza del fatto che tutela e ricerca non si possono separare, e che quindi sono fondamentali il dialogo e la collaborazione fra strutture della tutela e università. Intitolare a Gambari il Museo delle Civiltà, come già da più parti si propone, rappresenterebbe un meritato riconoscimento del suo valore umano e professionale e del ruolo fondamentale che egli ha rivestito nella nascita e nel primo sviluppo di questa istituzione.
L TRIBUTO A FILIPPO MARIA GAMBARI L
Soprintendente per i Beni Archeologici della Lombardia
2014-2016
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Allestimento della parte preromana Museo di Antichità – Torino
#58
FABRIZIO FEDERICI
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GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
CALOGERO RIZZUTO 56
Sambuca di Sicilia, 20 gennaio 1955 – Siracusa, 23 marzo 2020
#58
1982
Si laurea in Architettura
È dirigente di III fascia ai Beni Culturali della Regione Siciliana
1990 Responsabile dell’Unità Operativa Beni Paesistici, Naturali, Naturalistici, Urbanistici della Soprintendenza BB.CC.AA. di Siracusa
2004 Dirigente Responsabile dell’Ufficio di Gabinetto dell’Assessore al Turismo, Comunicazione e Trasporti della Regione Siciliana
2006
2019
“Appassionato” è il termine con cui è stato spesso definito Calogero Rizzuto, direttore del Parco Archeologico di Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro. Nato a Sambuca di Sicilia nel 1955, Rizzuto si forma presso l’Università di Palermo, dove nel 1982 si laurea in Architettura. Ha svolto l’attività di architetto libero professionista fino alla fine degli Anni Ottanta, per poi ricoprire il ruolo di Dirigente di terza fascia ai Beni Culturali della Regione Siciliana. Responsabile dell’Unità Operativa Beni Paesistici, Naturali, Naturalistici, Urbanistici della Soprintendenza di Siracusa e poi di Ragusa, dal 2005 al 2006 Rizzuto ha svolto l’incarico di dirigente responsabile dell’Ufficio di Gabinetto dell’Assessore al Turismo, Comunicazione e Trasporti della Regione Siciliana, per poi avere l’incarico di Responsabile dell’Unità Tecnica Protezione e Prevenzione presso la Galleria Regionale di Palazzo Bellomo di Siracusa. Dal 2007 è alla guida della Soprintendenza di Ragusa fino al 2019, anno in cui viene nominato direttore del Parco Archeologico di Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro.
TURISMO CULTURALE IN SICILIA
Come soprintendente e direttore del Parco Archeologico di Siracusa, Rizzuto ha sempre messo al centro della propria attività i temi legati al turismo culturale, a partire dalla necessità di rendere accessibili e fruibili i siti del siracusano.
Responsabile del Servizio per i Beni Architettonici, Paesistici, Naturali, Naturalistici, Urbanistici della Soprintendenza BB.CC.AA. di Ragusa
2005 Responsabile dell’Unità Tecnica Protezione e Prevenzione presso la Galleria Regionale di Palazzo Bellomo Siracusa
2007 Nominato direttore del neo-costituito Parco Archeologico di Siracusa, Eloro e Villa del Tellaro
Come soprintendente e direttore del Parco Archeologico di Siracusa, Rizzuto ha sempre messo al centro della propria attività i temi legati al turismo culturale.
Durante la sua direzione del Parco Archeologico, in particolare, Rizzuto ha lavorato su come rendere fruibili i luoghi meno noti del sito, quali il Parco di Eloro e la Villa del Tellaro. Tra i primissimi interventi in programma c’erano infatti la messa in sicurezza degli ingressi, dell’illuminazione e la sorveglianza. Rizzuto è stato il primo direttore del Parco Archeologico di Siracusa, la cui nascita è stata decretata nell’aprile 2019 nell’ambito di un progetto che ha visto l’istituzione e la messa a sistema di quattordici parchi archeologici siciliani, su idea del compianto assessore ai Beni Culturali Sebastiano Tusa.
IL PARCO ARCHEOLOGICO DI SIRACUSA
Tra i siti archeologici più importanti e vasti della Sicilia e dell’area mediterranea, il Parco di Siracusa comprende anche i comuni di Noto, Avola, Palazzolo Acreide e Buscemi, includendo alcuni dei monumenti più noti dell’isola: a Siracusa, l’area della Neapolis con il Teatro Greco, l’anfiteatro romano, l’Ara di Ierone, la Latomia del Paradiso con l’Orecchio di Dionisio e la Grotta dei Cordari, il Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi, il Castello Eurialo, il Ginnasio romano e il Tempio di Zeus; il Museo archeologico G. Judica e il sito archeologico di Akrai e Santa Lucia di Mendola a Palazzolo Acreide; la Necropoli di Castelluccio, la Villa romana del Tellaro, la Colonna Pizzuta e il sito archeologico di Eloro a Noto; la Villa romana di Borgellusa ad Avola; la Necropoli di Pantalica tra Ferla e Sortino; il sito archeologico di Monte Casale-Kasmene a Buscemi e il sito archeologico di Thapsos. L’area archeologica si contraddistingue inoltre per la sua importanza paesaggistica: il Parco infatti accoglie centinaia di specie di piante, tra cui ulivi, cipressi, pini, palme da dattero, ficus, agrumi, melograni, mirto, acanto, ibisco, raccontando, così, non solo la storia artistica, architettonica e urbanistica della civiltà mediterranea, ma anche la sua quintessenza naturalistica.
L TRIBUTO A CALOGERO RIZZUTO L
Responsabile del Servizio per i Beni Paesistici, Naturali, Naturalistici e Urbanistici della Soprintendenza di Ragusa
2001
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
1983
Si iscrive all’Ordine degli Architetti di Siracusa
DESIRÉE MAIDA
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GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
FRANCESCO POLENGHI 58
Milano, 9 novembre 1936 – Milano, 17 novembre 2020
1955
Si trasferisce a New York
1963 1966
Ritorno a Milano
inizio anni ‘70 Primo viaggio in India
Secondo ritorno a Milano
fine anni ‘80
Elabora il suo tipico intrico di segni
1977 Si trasferisce in India
1988 Incontro con Arturo Schwarz
fine anni ‘90
Negli Anni Settanta inizia a sviluppare l’intrico di segni che caratterizzerà negli Anni Novanta e Zero la sua produzione matura. L’ARTE SECONDO POLENGHI
Laureato in economia a New York, dove si trasferì dal 1955 al 1966 prima di tornare nella sua Milano, Polenghi aveva elaborato una sua produzione artistica già negli Anni Sessanta. Anche qui, difficile incasellarlo: i suoi scenari onirici di quel periodo si collocavano tra il primo Kandinsky, Klee e l’Art Brut (riferimenti da non intendersi come una mappa esatta e completa di somiglianze, ma come indizi indicativi di un mix di atmosfere mescolate in modo peculiare). Negli Anni Settanta inizia poi a sviluppare l’intrico di segni che caratterizzerà negli Anni Novanta e Zero la sua produzione matura, quella che ottenne un riconoscimento pur senza valergli la fama. Tra i due periodi, altre strade e altri percorsi: gli studi approfonditi su Spinoza, che dichiarava influente anche per la sua pittura, e poi i sette anni trascorsi in India.
MITO E SPIRITUALITÀ
Le tessiture di segni dell’artista milanese vivono sostanzialmente di atmosfera, di quella compresenza di calma ed esaltazione (e di spiritualità) di cui parlava David Carrier per descrivere l’opera di Polenghi. Il ritmo e l’ondeggiatura delle forme suggeriscono come il quadro sia un frammento di una struttura molto più ampia, potenzialmente infinita (l’ambizione sembra quella di presentare un tassello di un universo completo, o meglio la sua chiave di accesso). Secondo Demetrio Paparoni, “Polenghi vede nel mito la capacità di isolarsi quanto basta per affrancarsi momentaneamente dal contingente. Si concentra sulla forza generatrice insita nel vuoto”. Per Carrier, Polenghi “realizza quadri che affrontano in modo non denotativo l’esperienza spirituale”, mentre Barry Schwabsky lo descrive come un artista clandestino che sfida un certo conformismo del mondo dell’arte. Il tratto più contemporaneo – nel senso comunemente inteso – di Polenghi è la testardaggine nel realizzare ogni volta “la stessa opera” (tra l’altro utilizzando tele quadrate), un’invariabilità nell’impianto e nel metodo che ovviamente punta ogni volta a evidenziarne l’unicità.
L TRIBUTO A FRANCESCO POLENGHI L
1981
È certamente un destino beffardo quello di comparire su Artforum solo dopo la propria scomparsa. Il ricordo che Barry Schwabsky ha dedicato a Francesco Polenghi sulla rivista statunitense appare però, per quanto sobrio, più sentito di un classico necrologio. Tutta la parabola creativa di Polenghi è stata d’altronde paradossale, se si considera che la sua carriera artistica “pubblica” è iniziata quando aveva più di sessant’anni. Decisivo è stato l’incontro con Arturo Schwarz a fine Anni Ottanta, che lo incoraggia e lo sostiene, così come successivamente David Carrier, Demetrio Paparoni e lo stesso Schwabsky. Il suo lavoro è di quelli che si definiscono inclassificabili. Perché discosto dai percorsi e dalle tendenze generali e perché nutrito di contraddizioni interne, di spinte divergenti che collidono, generando una sorta di implosione, di stasi oscillante. Un’apparente urgenza espressiva ma lunghi tempi di lavorazione, l’istinto della stesura iniziale e poi il relativo calcolo successivo, il ricamo che pare ossessivo ma sfocia in qualcosa di non precisamente contingentato. Tra il minimale e l’aniconico/analitico, fra il tribale/aborigeno e l’iperrazionale, il rovello di segni che costella le sue tele sembra andare alla ricerca di una strada alternativa rispetto alle scoperte delle Neoavanguardie.
Elabora un primo personale linguaggio pittorico
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
1961
Laurea in Economia alla New York University
Intensifica la sua ricerca matura e inizia la sua carriera pittorica “pubblica”
#58
STEFANO CASTELLI
59
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
DAVID LEVERETT 60
Nottingham, 1938 – Londra, 20 aprile 2020
1957-1961
Frequenta il College of Art di Nottingham
1966
Inaugura a Londra la sua prima mostra personale
Partecipa alla mostra New Britain Painting and Sculpture alla Whitechapel di Londra
1968 Inizia a insegnare incisione alla Slade School of Fine Arts
anni ‘70 Inaugura la sua prima mostra allo Studio la Città di Verona
1971 1975 1990 2018
PITTURA E TRASPARENZA
“Un artista fantastico, intelligente, profondo e assolutamente innovativo”, lo definisce Hélène de Franchis, da cinquant’anni titolare della galleria Studio La Città
Partecipa alla mostra Empirica a Verona e Rimini
Inaugura la mostra Risonanze con Roberto Pugliese allo Studio la Città di Verona
L’elemento costante della pittura di David Leverett è la leggerezza, che emerge attraverso la composizione formale, la sovrapposizione degli strati pittorici, il gioco di linee e di geometrie.
di Verona, che ne ha supportato il lavoro per lunghissimo tempo. Tra le sue prime mostre in Italia si annovera Empirica: l’arte tra addizione e sottrazione a cura di Giorgio Cortenova, allestita prima al Museo di Castelvecchio di Verona, poi a Rimini, mentre, nel 2018, la galleria veronese gli dedica una doppia personale dal titolo Risonanze curata da Valerio Dehò, che lo vede affiancato alla produzione del sound artist Roberto Pugliese. L’elemento costante della pittura di David Leverett è la leggerezza, che emerge attraverso la composizione formale, la sovrapposizione degli strati pittorici, il gioco di linee e di geometrie. Una cifra
stilistica che si avvale della trasparenza – ottenuta anche attraverso l’uso della resina, elemento plastico e solido –, capace di mettere il lavoro in dialogo con lo spazio e l’ambiente. Le opere dell’artista britannico, infatti, si inseriscono perfettamente nel contesto, nutrendosi della luce circostante e intessendo un dialogo con lo spettatore, che si muove fra le diverse trasparenze e i vari livelli di lettura.
L TRIBUTO A DAVID LEVERETT L
Beneficia della Sargant Fellowship alla British School of Rome
David Leverett è stato un pittore di difficile classificazione, poeta e docente, che aveva avuto sin dagli Anni Settanta un rapporto d’elezione con l’Italia. Formatosi al College of Art di Nottingham e alla Royal Academy, ha lavorato come progettista e scenografo prima di iniziare a dipingere. Fin dagli esordi, la sua pratica si muove nell’ambito della corrente pittura-pittura o Pittura Analitica, nata negli Anni Sessanta per sostenere la “purezza” del mezzo pittorico in un momento in cui quest’ultimo pareva sul punto di fare la sua uscita dalla scena artistica. Un medium che nelle mani di Leverett diventa vivido e vibrante, sempre pronto a spingersi, tuttavia, un passo al di fuori di ogni definizione. “La pittura può anche imbrogliare chi ha giurato, come noi, che il tempo del fare quadri è finito per sempre”, scriveva a proposito del suo lavoro il critico Maurizio Fagiolo nel 1971. “Resta la magia degli spazi coperti di colore, dell’ambiguità svelata dello spazio, della sorpresa di riscoprire che il momento è dinamico e il gesto è statico. Il quadro come campo magnetico per attirare i colori acrilici, ma anche azione e contemplazione”.
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
1961-1964
Frequenta la Royal Academy a Londra
#58
LEVERETT E LA SCRITTURA
Il lavoro di Leverett si fonda altresì sul gioco della sinestesia, mescolando diversi dati percettivi. Altro elemento imprescindibile è la scrittura, che l’artista riporta a una memoria ancestrale grazie alla sovrapposizione dei segni grafici: le parole si comprimono una sull’altra formando un blocco unico, compatto, un intreccio ormai impossibile da dipanare con gli occhi. La scrittura, tuttavia, fu per Leverett anche un veicolo di significato nel senso più tradizionale del termine, che possiamo tutt’oggi leggere nelle sue poesie: “Sights of the mind, / held in an unlit time / but seen. / Sounds of the mind, / carried in an unseen space / but heard. / Rhythms of the mind, / moving like an unknown sea, / but felt. / Images of thoughts, emerging into a light of time / visible but withheld”. GIULIA RONCHI
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GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
GERMANO CELANT 62
Genova, 11 settembre 1940 – Milano, 29 aprile 2020
1967
1981 Mostra The Knot: Arte Povera MoMA P.S.1 – New York
1985 Senior curator per l’arte contemporanea Solomon R. Guggenheim Museum – New York
1989 - 2008 Direttore artistico e poi soprintendente artistico e scientifico | Fondazione Prada – Milano/Venezia
1995 - 2020
1997
Direttore 47. Biennale d’Arte di Venezia
Mostra Arti & Architettura 1968/2004 Palazzo Ducale – Genova
2004
Mostra Jannis Kounellis Fondazione Prada – Venezia
ARTE POVERA: NASCITA MORTE RESURREZIONE
Del resto, l’ambiente genovese in cui Celant si forma guarda a Ezra Pound, al teatro, alla letteratura, a una commistione di input dei quali fa tesoro come firma della rivista Marcatré e poi di Casabella. Dal ’67 il metodo di Celant si irrobustisce e il tempo inizia a correre. La galleria La Bertesca di Genova, ospite di una pietra miliare espositiva come Arte povera – Im Spazio, la galleria de’ Foscherari di Bologna e gli Arsenali di Amalfi, dove, nel 1968, va in scena la mostra-manifesto Arte povera + azioni povere, segnano un percorso, non solo curatoriale, votato al rifiuto delle
Direttore del progetto The Floating Piers di Christo e Jeanne-Claude | Lago d’Iseo
2019
Il "libero progettarsi dell’uomo" auspicato da Celant trova conferma nell’agire poverista, ma soprattutto dà sostanza a un metodo. cristallizzazioni teoriche. È inevitabile, dunque, la scelta di abbandonare “l’etichetta” di Arte povera, nel 1971 e per quindici anni, spronando i membri del gruppo ad affermarsi come singoli. Solo così Celant potrà fare ritorno all’Arte povera e scioglierne i “nodi” in rapporto al mutare della storia – si intitolerà proprio The Knot la mostra del 1985 al P.S.1 di New York.
HARALD SZEEMANN COMPAGNO DI STRADA
Abile nel riconoscere l’attimo in cui fermarsi e muoversi verso altre direzioni, geografiche e disciplinari, Celant trova in Harald Szeemann, e nel suo retroterra svizzero, un modello di apertura al nuovo – “senza la sua forza e il suo fare travolgente, non ci sarebbe stato spazio, seppur ridotto, per alcun critico e storico del contemporaneo”, dirà – e un’ispirazione per
superare i confini nazionali. È del 1981 Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959, rassegna epocale allestita al Centre Pompidou di Parigi, mentre il Solomon R. Guggenheim Museum di New York nomina Celant senior curator – incarico ricoperto dal 1989 al 2008. Il legame con l’Italia resta vivo, complice l’ormai funambolica attitudine a navigare, senza troppe ipocrisie, in quel sistema tratteggiato nel ’67. Celant sa intercettare le istanze del suo tempo, ben cosciente dei meccanismi che governano il macro-ingranaggio nel quale lui stesso è inserito. Tutto ciò gli permette di dirigere la 47. Biennale d’Arte di Venezia, di intrecciare un dialogo decennale con la Fondazione Prada, di curare la mostra Arts & Foods. Rituali dal 1851 per Expo 2015 alla Triennale di Milano e di supervisionare il mastodontico The Floating Piers di Christo e Jeanne-Claude sul Lago d’Iseo nel 2016. Celant scandaglia, mette in fila, addirittura ricostruisce, nel 2013, fra le sale veneziane della Fondazione Prada, Live in Your Head. When Attitudes Become Form, la mostra curata dall’amico Szeemann a Berna nel 1969. Una rilettura giocata sul filo del rigore, del rischio, interpretata da chi, non ritenendosi un critico, ha plasmato, con affilata lungimiranza, il linguaggio della critica presente e futura.
L TRIBUTO A GERMANO CELANT L
2011 2016
“Prima viene l’uomo poi il sistema, anticamente era così. Oggi è la società a produrre e l’uomo a consumare. Ognuno può criticare, violentare, demistificare e proporre riforme, deve rimanere però nel sistema, non gli è permesso di essere libero”. Con queste parole Germano Celant metteva nero su bianco, nel 1967, i suoi “appunti per una guerriglia”, delineando il profilo dell’Arte povera e i contorni di una società non troppo distante da quella attuale. Il “libero progettarsi dell’uomo” auspicato dall’allora 27enne Celant trova conferma nell’agire poverista, ma soprattutto dà sostanza a un metodo radicato nella parola, nell’osservazione implacabile e in un approccio trasversale alle discipline.
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Mostra Identité italienne. L’art en Italie depuis 1959 Centre Pompidou – Parigi
Libro Arte povera. Storia e storie Electa – Milano
#58
Mostra Arte povera – Im spazio Galleria La Bertesca – Genova
ARIANNA TESTINO
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GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
LEA VERGINE 64
Napoli, 5 marzo 1936 – Milano, 20 ottobre 2020
1964
1968
Si trasferisce a Milano con Enzo Mari
1969
Cura la mostra Irritarte alla Galleria Milano
1974
Pubblica Il corpo come linguaggio
1978
Sposa Enzo Mari
1980
Cura a Milano la mostra L’altra metà dell’avanguardia
1997
2012 Artribune pubblica una lunga videointervista di Stefania Gaudiosi, che diventerà anche un libro
Anche questo ricorderemo della pandemia di COVID-19: che un maestro del design (Enzo Mari) sia morto appena un giorno prima della moglie, una maestra della critica d’arte. Lei era nota come Lea Vergine, ma in realtà il cognome proveniva da quello del primo marito. Una scelta che potrebbe sorprendere, sapendo quanto fosse pugnace, ma che stupisce meno quando si apprende che il nom de famille era Buoncristiano. Ecco, la figura di Lea Vergine è riassunta in questo doppio movimento, solo in apparenza compromissorio: in realtà, per mezzo secolo, ha letteralmente incarnato la contraddizione generatrice. Questo doppio passo – per molti disorientante, senz’altro sfuggente alle classificazioni – si rintraccia in diversi altri momenti della sua biografia, dall’asse Napoli-Milano (rispettivamente città di nascita e d’adozione – adozione in parte forzata dall’accusa di concubinaggio [!]) al rapporto pubblico con Mari, personalità quanto più distante si possa immaginare da Lea Vergine, dai suoi libri, dalle sue mostre.
LEA VERGINE E LA DISSEMINAZIONE
Leggere dunque la sua lunghissima attività come un controcanto alla doxa, o peggio ancora come un “rimettere le cose a posto”, sarebbe non soltanto avvilente ma profondamente errato. Chiaro, quando al
Pubblica Quando i rifiuti diventano arte
2008 Cura al MART la mostra Un altro tempo
2019
Questa processualità – non un disegno, non un paradigma, tantomeno una teoria – la si ritrova ancora e ancora, nei luoghi più o meno attesi.
Palazzo Reale di Milano, nel 1980, inaugura la mostra L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940, più di qualcuno legge quel gesto come un mero ribaltamento della predominanza maschile e/o come un’azione compensatoria in omaggio alle “escluse”. Letture che perdono di vista in maniera clamorosa l’eccedenza disseminatoria di quelle scelte e di quella curatela, di quella riflessione sul femminino, delle infinite conseguenze inattese che avrebbe potuto avere una ricezione dialogante di quelle istanze. Questo dono per l’individuazione dell’elemento non mancante ma dirompente è un fil rouge che attraversa l’opera e la vita di Lea Vergine. È il perno folle e imprevedibile del suo libro più celebre, Il corpo come linguaggio (1974), dove non
soltanto, fra le prime, dà rilievo alle sollecitazioni della Body Art e dunque al corpo; non soltanto disorienta, ancora, l’opposizione fra corpo normato e corpo ribelle (“Dunque, corpo mistico. Ma la mistica arriva dal corpo. Essa è prima di tutto un’esperienza fisica, una sorgente di liquidi, di sangue, di umori”); ma scardina la stessa forma-libro e la sua autorialità patriarcale, costruendo il volume come se fosse la curatela di una mostra, chiedendo agli artisti di partecipare in prima persona, attraverso statement e interventi, al gesto critico stesso.
L TRIBUTO A LEA VERGINE L
Esce una grande antologia dei suoi scritti
#58 GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Viene chiamata da Argan a progettare la rivista Linea Struttura
IL TRASH E BLOOMSBURY
Questa processualità – non un disegno, non un paradigma, tantomeno una teoria – la si ritrova ancora e ancora, nei luoghi più o meno attesi. Più attesi, quando dedica un libro (1997) ai rifiuti e al loro impiego nel mondo delle arti – al plurale, perché all’arte visiva si affiancano ad esempio il cinema di Abel Ferrara e la musica di Meredith Monk –, preconizzando ad esempio l’ormai diffusa pratica del riuso. Meno attesi, quando impagina al MART di Rovereto, nel 2012, una mostra sul Circolo di Bloomsbury, lasciando attoniti, per l’ennesima volta, coloro i quali pensavano infine di averla incasellata nello stereotipo della ribelle per inerzia. MARCO ENRICO GIACOMELLI
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GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
ENZO MARI 66
Novara, 27 aprile 1932 – Milano, 19 ottobre 2020
#58
1957
Inizia il sodalizio tra Enzo Mari e Bruno Danese
1967
Vince il primo Compasso d’Oro
Partecipa alla mostra Italy: The New Domestic Landscape al MoMA di New York
1972 Inaugura la mostra Falce e Martello alla Galleria Milano
1973 Presiede l’ADI – Associazione per il Design Industriale
1976-1979
1978
Sposa in seconde nozze la critica d’arte Lea Vergine
1985
Disegna per Zanotta la sedia Tonietta
Vince l’ultimo Compasso d’Oro, quello alla carriera
I PROGETTI DI ENZO MARI
Nato a Cerano, vicino a Novara, nel 1932 e cresciuto in povertà, Enzo Mari si forma all’Accademia di Brera ed esplora i territori dell’arte cinetica e programmata, in cui i processi, e il metodo, contano più dell’opera finita. Diventato designer autodidatta – grazie anche all’incontro con Bruno Munari –, concentra la sua ricerca sulla qualità della forma, che deve essere “eterna, fuori dal tempo, libera dalle mode” e accessibile a tutti. Un impegno che ritroviamo nei progetti personali come in quelli realizzati su commissione per le aziende, in particolare negli oltre sessanta oggetti sviluppati tra l’inizio degli Anni Sessanta e i Settanta all’interno del lungo sodalizio con Bruno Danese. Nella Serie della Natura (1967), una
Inaugura Enzo Mari. L’arte del design, antologica alla GAM di Torino
2011
Diventato designer autodidatta – grazie anche all’incontro con Bruno Munari –, concentra la sua ricerca sulla qualità della forma. dozzina di grandi stampe serigrafate con soggetti come “la mela”, “la pera” o “la pantera”, ragiona sul concetto di standard: si occupa, cioè, di rappresentare non tanto una mela ma la quintessenza della “melità”, la forma che contiene tutte le mele del mondo. Con il vassoio Putrella (1958) e il vaso Camicia (1961) crea oggetti sofisticati a partire da semilavorati industriali di un’essenzialità assoluta, nobilitando le lamiere e i tubi con cui si fabbrica ancora oggi una buona parte del paesaggio urbano.
AUTOPRODUZIONE E LIBERTÀ
Oltre a rappresentare una guida per generazioni di designer, Enzo Mari è stato un precursore, anticipando molti temi centrali del design. L’autoproduzione, ad esempio, il modello open source caro ai maker del terzo millennio che mettono
gratuitamente a disposizione di tutti in Rete i loro progetti, la valorizzazione dell’artigianato e l’ecologia che va di pari passo con la tutela dei lavoratori. Nel 1974, in Proposta per un’autoprogettazione, lancia una provocazione creativa rilasciando, con licenza libera e aperta, i progetti di una serie di mobili essenziali, concepiti per essere costruiti e assemblati da chiunque con facilità. Nello stesso periodo riflette sulle contraddizioni insite nel rapporto tra arte, artigianato e industria e, con Una proposta per la lavorazione della porcellana (1974), offre all’artigiano la libertà di seguire l’evoluzione dell’oggetto dalla A alla Z, senza essere costretto alla ripetizione alienante di singoli gesti senza valore. All’inizio degli Anni Novanta lavora al recupero di antiche lavorazioni con gli artigiani giapponesi della prefettura di Gifu e con gli operai della Manifattura reale di porcellane (KPM) di Berlino. Con Ecolo, un libretto realizzato per Alessi che conteneva le istruzioni per realizzare da soli una serie di vasi da fiori a partire da flaconi di detersivi usati o altri imballaggi e le etichette su cui scrivere il nome dell’autore, contesta in un solo gesto il consumismo incurante dell’ambiente e il dogma dell’oggetto firmato.
L TRIBUTO A ENZO MARI L
2008
“Mari non è un designer, se non ci fossero i suoi oggetti mi importerebbe poco. Mari è invece la coscienza di tutti noi, è la coscienza dei designer, questo importa”. Questa frase, molto citata, è stata pronunciata da Alessandro Mendini e potrebbe apparire paradossale se pensiamo che è riferita a un uomo premiato per ben cinque volte con il Compasso d’Oro, l’Oscar del design. In realtà, sintetizza assai bene il percorso del maestro scomparso all’età di 88 anni lo scorso 19 ottobre, mettendo l’accento sulla profonda coerenza e sulla tensione etica che lo hanno sempre accompagnato.
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
1962
Partecipa alla mostra Arte Programmata a Milano
GIULIA MARANI
67
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
VITTORIO GREGOTTI 68
Novara, 10 agosto 1927 – Milano, 15 marzo 2020
1953 Con Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino fonda lo studio Architetti Associati Gregotti Meneghetti Stoppino
1953 Pubblica il suo libro più importante Il territorio dell’architettura
1966 Iniziano i lavori per il quartiere ZEN – Zona di Espansione Nord – Palermo
1969 Iniziano i lavori per l’Università della Calabria – Cosenza
1973 Fonda lo studio Gregotti Associati International
1974
Vince il concorso per la riqualificazione dell’area ex-Pirelli – Milano-Bicocca
1985 2000
Resta da verificare quanto il disastro sociale dello ZEN sia ascrivibile alla mancata realizzazione di spazi, servizi e collegamenti con la città. una nuova scala, quella della geografia, e che intende l’oggetto architettonico come elemento ordinatore dei territori costruiti.
IL QUARTIERE ZEN A PALERMO
Se le realizzazioni giovanili portate a termine tra gli Anni Cinquanta e Sessanta con lo studio Architetti Associati Gregotti Meneghetti Stoppino sono ricerche sullo stile “neoliberty” e sulle tecnologie della prefabbricazione, i progetti di Gregotti degli Anni Settanta cercano di tradurre in forma costruita le premesse teoriche enunciate ne Il territorio dell’architettura. Il quartiere ZEN – Zona di Espansione Nord di Palermo (dal 1969) e l’Università della Calabria, vicino a Cosenza (1973-79) sono megastrutture ambiziose quanto difettose, che nel bene o nel male hanno modificato la traiettoria dell’architettura del Novecento.
Nel caso specifico dello ZEN, poi, resta da verificare quanto il disastro sociale del quartiere sia ascrivibile alla sua morfologia urbana, e quanto alla mancata realizzazione di spazi, servizi e collegamenti con la città da parte dell’amministrazione pubblica.
DA MILANO A LISBONA
Negli Anni Ottanta, Gregotti raggiunge l’apice della sua notorietà e autorevolezza: la vittoria al concorso per la riqualificazione dell’area ex-Pirelli a Milano Bicocca (1985) lo posiziona in prima linea nel dibattito sulla riconversione post-industriale delle città italiane, mentre la direzione di Casabella, che mantiene tra il 1982 e il 1986, gli fornisce una piattaforma d’eccezione per diffondere le sue riflessioni sull’ambiente costruito. È la stagione dei grandi incarichi, anche internazionali, tra i quali spicca per qualità il Centro Culturale di Belém, a Lisbona (1988-93) e per quantità la new town di Pujiang, vicino a Shanghai (dal 2001). La città di fondazione per 100mila abitanti è il controverso canto del cigno di un progettista che, sul volgere della sua carriera, faticò a trovare un equilibrio tra l’“etica della produzione” e “l’estetica del consumo” (Pierluigi Nicolin, 2007).
L TRIBUTO A VITTORIO GREGOTTI L
1982
Direttore della rivista Casabella
Iniziano i lavori per la new town di Pujiang – Shanghai
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Redattore a Casabella Continuità diretta da Ernesto Nathan Rogers
Vittorio Gregotti è stato uno dei più importanti architetti italiani dal dopoguerra a oggi, secondo forse solo ad Aldo Rossi per il rilievo culturale delle sue riflessioni teoriche e dei suoi progetti costruiti. Negli Anni Cinquanta e Sessanta, un giovane Gregotti ha assistito al momento complesso in cui l’architettura italiana ha preso le distanze dal Movimento Moderno internazionale. Tra gli Anni Settanta e Ottanta, un Gregotti adulto e verso il culmine della carriera ha guidato la sua professione attraverso le sabbie mobili della stagione postmoderna e storicista. Infine, dagli Anni Novanta a oggi, un Gregotti già maturo, sempre molto attivo ma meno innovatore, l’ha traghettata nella piena contemporaneità. La prima fase corrisponde agli anni del suo legame con Ernesto Nathan Rogers, che lo coinvolge nella redazione di Casabella Continuità. “Continuità”, “preesistenze”, “ambiente”: sono le parole-chiave con cui Rogers descrive un approccio nuovo alla progettazione, che riscopre la storia e il contesto come i presupposti essenziali a qualsiasi architettura, in opposizione al generico international style modernista in voga all’epoca. Gregotti fa propria la lezione del suo maestro e la rielabora in forme originali. Il territorio dell’architettura, pubblicato nel 1966 da Feltrinelli, è il suo saggio più importante, un’opera fondativa che impone alla disciplina di confrontarsi con
#58
Laurea in Architettura Politecnico di Milano
1952
ALESSANDRO BENETTI
69
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
SERGIO ROSSI 70
San Mauro Pascoli, 7 settembre 1935 – Cesena, 3 aprile 2020
1951
Apre lo stabilimento di San Mauro Pascoli
1959 1966
Disegna i sandali Opanca
1968
Nasce il marchio Sergio Rossi
1980
Apre il primo negozio monomarca
1999
Il marchio viene acquistato da Gucci
2009 2011 2012 Il marchio viene acquistato da Investindustrial
Fine dolorosa e in solitudine per Sergio Rossi, uno degli artigiani imprenditori più significativi del Made in Italy. Protagonista di quell’eccellenza italiana che si esprime nel saper fare con le mani e con la testa, ha creato un’azienda capace di evolversi ma anche di sostenere la cultura del suo prodotto e di essere un luogo vivo, aperto a tutti. Quella stessa azienda che aveva risposto subito all’emergenza Covid, donando 100mila euro all’ospedale ASST Fatebenefratelli Sacco di Milano, senza immaginare di lì a breve la scomparsa del suo artefice, a 85 anni. Sergio Rossi lascia un vuoto nella sua famiglia-azienda, che continua con la guida e l’entusiasmo dell’amministratore delegato Riccardo Sciutto. A lui si deve la valorizzazione dell’archivio, composto da più di 6mila pezzi, allestito nella fabbrica di San Mauro Pascoli insieme a una collezione d’arte site specific animata da una ventina di opere.
UN ARTIGIANO IMPRENDITORE
Sergio Rossi aveva imparato dal padre l’arte di fare le scarpe, come si facevano e si fanno ancora nel distretto calzaturiero sammaurese. Un territorio che non ha mai lasciato, contribuendo a farlo diventare un centro di formazione internazionale: fu presidente, oltre che docente, del CERCAL – Centro Ricerca e Scuola Internazionale Calzaturiera, punto di riferimento nella
Lancia la décolleté biodegradabile Eco Pump
La collezione è presentata con un cortometraggio di Luca Guadagnino
2015
Concia la pelle senza usare sostanze chimiche e brevetta il legno liquido per i tacchi: una ricerca continua della sostenibilità. geografia della moda. Sergio Rossi era un artigiano-artista, un romagnolo innamorato delle donne che concepiva i tacchi come prolungamenti di bellissime gambe, al centro di una di quelle storie di successo che iniziano nel dopoguerra e incrociano il cinema e la moda come solo in Italia poteva accadere. Una mente sempre accesa, capace di lasciare un segno nel design grazie ai visionari sandali Opanca. Li vende sulle spiagge di Rimini ed è un successo che gli apre la strada per fondare il suo marchio nel 1968. Le sue scarpe passano da Anita Ekberg ne La dolce vita e arrivano a Madonna che, nel video di Give me all your luvin’, mostra le sue Cachet scintillanti: le famose décolleté create per il matrimonio di Salma Hayek con François-Henri Pinault come variante del modello Godiva. Segno di inconfondibile eleganza anche per Silvana
Mangano in Gruppo di famiglia in un interno e presente sul manifesto del film di Pedro Almodóvar Tacchi a spillo.
LA TECNICA DI SERGIO ROSSI
Era rigoroso Sergio Rossi nelle sue realizzazioni: richiedeva 120 passaggi di lavoro prima di considerare finite le sue opere. Attento al mondo e alle sue trasformazioni, nei primi Anni Zero rinnova i suoi sistemi di produzione rispondendo alla politica green: crea una décolleté biodegradabile chiamata Eco Pump. Concia la pelle senza usare sostanze chimiche e brevetta il legno liquido per i tacchi: una ricerca continua della sostenibilità che si fonde con il design creando la vera contemporaneità del prodotto. Caratteristiche di stile visibili nelle prime collaborazioni con l’amico Gianni Versace e poi nel dialogo con altri creativi come Dolce & Gabbana e Azzedine Alaïa. È sempre rimasto artefice della sua produzione anche dopo il passaggio dell’azienda a Gucci, Kering e, nel 2015, al gruppo Investindustrial di Andrea Bonomi. Lo stabilimento di San Mauro Pascoli oggi conta 500 dipendenti. L’azienda ha oltre 40 boutique nel mondo e un fatturato annuo di circa 60 milioni di euro: un emblema del lusso costretto a fronteggiare una crisi mondiale.
L TRIBUTO A SERGIO ROSSI L
Apre il monomarca di Milano in collaborazione con Wallpaper*
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Anita Ekberg indossa calzature Sergio Rossi ne La dolce vita
#58
CLARA TOSI PAMPHILI
71
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
KENZO 72
Himeji, 27 febbraio 1939 – Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 2020
1960
1970 Durante il party organizzato al Paris Palace si presenta vestito da Minnie
1983 Introduce la linea jeans
1993 Nasce il primo profumo Kenzo
Disegna le divise olimpiche giapponesi
Sebbene avesse programmato di rimanerci solo sei mesi, a Parigi ha passato il resto della sua vita. Quasi 56 anni, durante i quali le porte della capitale francese si sono aperte ad altri designer giapponesi divenuti influenti. Quando arrivano a Parigi all’inizio degli Anni Ottanta Issey Miyake, Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo, Kenzo ha già creato scompiglio inserendo nella moda di allora tagli inventivi e riferimenti a Oriente e Occidente. Siamo alla fine degli Anni Sessanta e, mentre i couturier parigini presentano ancora le collezioni nei propri atelier per una cerchia ristretta di grand dame, Kenzo organizza happening con modelle che ballano svagate, cascate di fiori colorati e pure animali esotici. Un caos ordinato, il suo, e coerente con un’estetica mix-and-match mai vista prima di lui.
LA STORIA DI KENZO
Kenzo era un bon vivant capace di feste leggendarie: in quella a tema “cartone animato” ospitata al nightclub Paris Palace per il suo 41esimo compleanno, si presentò vestito da Minnie Mouse. Quell’anno era stato a Disneyland per le vacanze estive, certo, ma una vena camp è rintracciabile in molte sue creazioni. “Gli omosessuali hanno ritrovato la loro integrazione nella società con la promozione del loro senso estetico. Il camp può cancellare la moralità. Neutralizza l’indignazione
1964 A Parigi apre il suo primo negozio dove presenta le sue collezioni donna
1980 Introduce l’abbigliamento maschile
1986 Cede il marchio al gruppo LVMH
1998 Abbandona il ruolo di designer all’interno del marchio che ha fondato
2004
Kenzo era un bon vivant capace di feste leggendarie: in quella ospitata al Palace si presentò vestito da Minnie Mouse. morale, promuove ciò che è scherzoso”, scrive Susan Sontag in Notes on Camp (1964), il saggio che ispirerà tutte le successive riflessioni sull’argomento. Nato a Himeji in Giappone nel 1939, Kenzo era uno dei sette figli di Kenji e Shizu Takada, che gestivano un hotel. Comincia a interessarsi di moda proprio qui, sfogliando le riviste delle sorelle. Si iscrive all’Università di Kobe per compiacere i genitori, che non approvavano l’idea di una carriera nella moda, ma finisce inevitabilmente al Bunka Fashion College di Tokyo, che frequenta come uno dei primi studenti maschi.
PARIGI E IL SUCCESSO
La svolta arriva quando, in vista delle Olimpiadi di Tokyo del 1964, il suo condominio viene demolito, con un indennizzo di dieci mesi di affitto. Kenzo usa questo
denaro per raggiungere la Francia in nave, passando per Singapore, Bombay e la Spagna. A Parigi inizia a vendere i suoi disegni a couturier come Louis Féraud e nel 1970 è già in grado di aprire il suo primo negozio, battezzato Jungle Jap. Ispirandosi a Henri Rousseau, dipinge le pareti con fiori selvaggi e costruisce la sua prima presentazione intorno a bozzetti gioiosamente caotici e oversize, fatti per liberare il corpo anziché strizzarlo come avveniva allora negli atelier parigini. “Quando ho aperto il mio negozio, pensavo che non avesse senso fare quello che stavano facendo i sarti francesi, perché non potevo farlo”, ha ricordato in un’intervista per il South China Morning Post nel 2019. “Quindi ho fatto le cose in modo diverso, ho usato tessuti kimono e sono stato percepito come diverso da tutti gli altri”. Quando Kenzo rilascia questa intervista, però, ha già venduto la sua azienda a LVMH, il primo gruppo del lusso francese, per 80 milioni di dollari. Inizialmente rimasto nel gruppo come designer del suo marchio, nel 1999 decide di allontanarsi da un mondo che non lo diverte più, battuto da ritmi sempre più frenetici ed esigenze commerciali soffocanti. Il fatto che Takada sia mancato durante l’ultima fashion week parigina alle prese con gli sconquassi della pandemia appare simbolico.
L TRIBUTO A KENZO L
1999
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Lascia il Giappone per raggiungere la Francia
#58
Vince il Soen Prize e inizia a disegnare capi femminili per il dep store Seani
ALDO PREMOLI
73
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
KIM KI-DUK 74
Chunyang-myeon, 20 dicembre 1960 – Riga, 11 dicembre 2020
1990
2000 Ferro 3 – La casa vuota vince il Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia
2004 Sul set de Il sogno rischia di morire un’attrice
2011
2014 Viene accusato di violenza sessuale
Ventitré film realizzati e uno nuovo in pre-produzione per Kim Ki-duk, morto a 59 anni durante un soggiorno in Lettonia. Una fine assurda e in solitaria per il regista sudcoreano che, a fine novembre 2020, si era recato nella penisola baltica per la presentazione dei documenti necessari a ottenere aiuti di Stato per il suo nuovo film. Kim Ki-duk è e rimarrà uno dei registi orientali più importanti del cinema contemporaneo, amatissimo nei festival internazionali e dalla critica, anche se molto controverso. La sua notorietà si deve alla Mostra del Cinema di Venezia dove, nel 2000, presenta L’isola, tra i suoi film migliori, che riflette sull’uomo in quanto animale, in cui violenza e desiderio vanno a braccetto, acqua e sangue diventano poesia, e lo spettatore è costretto a osservare il dolore fotogramma dopo fotogramma. Un film che sintetizza l’intero pensiero del regista e che offre una grande lezione di vita.
KIM KI-DUK E IL CINEMA
Kim Ki-duk è nato nel 1960 a Bonghwa, in Corea del Sud, e prima di misurarsi con l’arte cinematografica ha avuto una piccola e importante esperienza militare che non ha mai nascosto, anzi, a suo modo, ha raccontato nei suoi film. Il cinema era una passione che coltivava sin da giovanissimo e a cui si è dedicato una volta lasciato il suo Paese e abbandonato l’esercito.
1996 Presenta L’isola alla Mostra del Cinema di Venezia
2004 La samaritana vince l’Orso d’Argento alla Berlinale
2008 Presenta Arirang al Festival di Cannes
2012 Esce One on One, film schierato contro la Corea del Sud
2017
IL CINEMA COME CURA
Il centro di ogni storia scritta e diretta da Kim Ki-duk è il corpo, inteso come luogo e gabbia dell’anima. È in Europa che ha trovato la sua seconda casa, precisamente a Parigi, dove si è dedicato alla ricerca e alla scrittura di diverse sceneggiature. Nel 1996 debutta dietro la macchina da presa con Coccodrillo e dopo qualche anno e diversi lavori non molto fortunati il suo talento viene riconosciuto e consacrato, al Lido di Venezia, appunto, con L’isola. Kim Ki-duk non era un regista da accademia e il suo percorso da autodidatta è forse il motivo per cui è riuscito, in meno di vent’anni, a brillare con il cinema. Un cinema costruito con tanti silenzi e gesti, su viso e corpo dei suoi attori capaci di dialogare tra loro senza troppe parole. Il centro di ogni storia scritta e diretta da Kim Ki-duk è il corpo, inteso come luogo e gabbia dell’anima, spesso dilaniato dalla violenza o in fuga da qualcuno o qualcosa.
Con l’arte cinematografica Kim Ki-duk non ha fatto altro che medicare, curare la sua anima e quella degli spettatori in ogni parte del mondo. E se tra il 2008 e il 2011 Kim Ki-duk ha affrontato un periodo di fermo creativo, in seguito a un incidente avvenuto sul set del film Il sogno, dove è quasi morta un’attrice, è nel 2017 che è avvenuta la vera crisi che lo ha portato alla definitiva rottura con il Paese d’origine. In quell’anno Kim Ki-duk è accusato da un’attrice di violenza fisica e sessuale, il caso diventa mediatico e con la spinta del #MeToo altre donne si fanno avanti. Kim Ki-duk rigetta ogni accusa e, pur non venendo condannato, chiude ogni rapporto con la Corea del Sud e sceglie un nuovo silenzio cinematografico fino alle notizie che lo legano alla Lettonia, dove stava cercando anche una dimora fissa. Con Kim Ki-duk il cinema ha perso un autore complesso che non aveva alcun timore di mostrare sul grande schermo personaggi o situazioni di frustrazione, solitudine e disagio. Tra le sue tappe cinematografiche imprescindibili ci sono Arriva Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Ferro 3 – La casa vuota, Arirang, Pietà, One on One e Il prigioniero coreano.
L TRIBUTO A KIM KI-DUK L
Pietà vince il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia
Si trasferisce a Parigi
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Esordisce alla regia con Coccodrillo
#58
MARGHERITA BORDINO
75
ALEX URSO [ artista e curatore ]
Firma tra le più apprezzate del fumetto italiano contemporaneo, Paolo Castaldi (Milano, 1982) è tornato in libreria con un omaggio a Fabrizio De André. Impossibile lasciarsi scappare l’occasione di intervistarlo. Di fianco, uno “spin-off ” inedito del volume, dal titolo La buona novella. Cosa vuol dire per te essere fumettista? Significa avere delle storie da raccontare, e solo il disegno a disposizione per potergli dare forma. Andando più in profondità, per me essere fumettista vuol dire comunicare agli altri quello che a voce non riesco a dire.
Quant’è stato difficile confrontarsi con un’opera così importante? Avere il privilegio di lavorare su un’opera così amata e iconica ti espone inevitabilmente a critiche di ogni tipo. Mi sono mosso a passo sicuro solamente perché ero certo della mia bontà d’intenti. Mi sono avvicinato a questa trasposizione con umiltà, senza però rinunciare alla mia personale visione. Ho la coscienza pulita e, almeno per il momento, i fan di De André, anche quelli più intransigenti, sembrano apprezzare.
L SHORT NOVEL L
Da qualche settimana è uscito il tuo ultimo volume: una trasposizione in immagini del celebre album di Fabrizio De André La buona novella. Com’è nata l’idea di un confronto con il cantautore genovese? L’idea stava sedimentando da anni. Moltissimi, a dire la verità. Avevo sedici o diciassette anni, credo. Dopo aver ascoltato La buona novella ho subito pensato che fosse un’opera infinita e immortale, fuori dal tempo e per questo sempre attuale. E più ascoltavo quel disco, più si materializzavano immagini e sequenze visive. Ho provato più volte a realizzarne una versione a fumetto, ma senza successo. Grazie a Feltrinelli, che si è immediatamente messa in contatto con la Fondazione De André, ho ottenuto il permesso di utilizzare i testi delle canzoni.
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
Paolo Castaldi
#58
A cinquant’anni dalla sua pubblicazione, cosa rende questo disco ancora attuale? Tutto. Nelle sonorità è trasversale e multietnico, esattamente come i tempi che stiamo vivendo. A livello di contenuto poetico e lirico siamo davanti a una delle opere più “universali” che io conosca. I messaggi che veicola sono così vicini al cuore dell’umanità, per come io la intendo, che non potrebbe essere altrimenti. Il libro ripercorre l’intero disco: sfogliandolo le parole del cantante si fanno immagini attraverso la tua matita, dando vita a un confronto che travalica i confini del tempo, del linguaggio e, soprattutto, dell’appartenenza spirituale. Tacciare La buona novella di appartenenza spirituale e religiosa è un errore che ancora qualcuno commette, e che è stato commesso da molti nel 1970 (anno della sua pubblicazione), quando tanti militanti politici di sinistra e ultra-sinistra si sono sentiti “abbandonati” da Faber. L’allegoria non era stata colta da tutti, ahimè, pur essendo un disco più militante e schierato di tanti slogan di partito urlati distrattamente in piazza. Ancora oggi è un testamento politico, un’opera lucidamente di parte e schierata. Il mio libro è senz’altro così, schierato e di parte. Impossibile non rendersene conto, anche perché, al contrario di Fabrizio, ho voluto esplicitare la sua contemporaneità portando il lettore dal periodo di Cristo ai giorni d’oggi proprio sul finale. paolo_castaldi
77
L IN FONDO IN FONDO L
GENNAIO L FEBBRAIO 2021
#58
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a anni prendo in giro i miei amici con la fatidica domanda: “Sai che cosa è successo a Cosio d’Arroscia?”, a cui la stragrande maggioranza (parlo di artisti, scrittori e intellettuali) mi oppone una faccia interrogativa. Fino a che non salta fuori il più sveglio del gruppo che ti dice: “Ma certo! Nel 1957 lì è nata l’Internazionale Situazionista!” – e tutta la compagnia ci resta di stucco... Eppure è proprio così: in una leggendaria estate del 1957, a Cosio d’Arroscia, un ameno paesino arrampicato su per le valli del ponente ligure (che oggi conta, se Wikipedia non mente, la bellezza di 193 abitanti), sarebbe nata, da un pugno di eroi, l’ultima e forse più influente fra le avanguardie del XX secolo: il Situazionismo. Il fatto è che il parigino Guy Debord, la sua compagna Michelle Bernstein, l’antimilitarista inglese Ralph Rumney, il farmacista Pinot Gallizio, l’artista apolide Asger Jorn e il musicista Walter Olmo, si trovarono a Cosio non per caso, ma invitati lì da Piero Simondo e dalla moglie, Elena Verrone. I Simondo, infatti, non erano intellettuali provinciali, ma creativi cosmopoliti capaci di straordinarie iniziative, come il Movimento Internazionale per una Bauhaus Immaginista (1955) o il Congresso degli Artisti Liberi, tenutosi ad Alba l’anno dopo (1956). Tutti eventi, dibattiti, idee, che hanno anticipato temi, e persino termini, poi ripresi sic et simpliciter, dal Situazionismo “francese”. Ora, la versione passata a livello popolare è che quei primi esperimenti fossero solo incerti tentativi, poi “sussunti” nella folgorante ascesa del Situazionismo, sotto l’impeto della mitica personalità di Debord. Tuttavia, se si leggono attentamente gli interventi, le interviste, i testi che Simondo ha fornito negli anni successivi, le cose parrebbero essere andate in modo molto diverso. Debord non fu l’unico e indiscutibile fondatore dell’I.S., e se lo diventò fu solo perché, pochi mesi dopo l’incontro di Cosio, espulse senza complimenti Simondo, la moglie e Olmo dal movimento che avevano fondato insieme. Praticamente, un vero coup d’état: condotto con quell’accento spaventosamente burocratico e insopportabilmente pedante, che denuncia il nocciolo ferocemente settario di Debord e della “sua idea” di situazionismo. Da allora, come in seguito a una “purga” dittatoriale, la figura e l’opera di Simondo sono state cancellate dal dibattito culturale, e in Italia, dove siamo specialisti del Nemo propheta in patria, solo in anni recenti la critica ha iniziato un lento processo di rivalutazione. Troppo tardi però: in silenzio, come aveva vissuto, Simondo ci ha lasciato il 6 novembre scorso.
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Photo © Luca Bochicchio
Eppure, la statura di Simondo come pensatore e artista è ancora tutta da comprendere appieno – e potrebbe rivelarsi, oggi, persino più interessante di quella dell’ex-amico francese. Se infatti La società dello spettacolo, il testo-totem di Debord del ‘67, ci pare aver descritto così bene una certa deriva sociale iniziata a metà del Novecento, l’emergenza in cui ci troviamo ora evidenzia dei tratti completamente diversi. La pandemia che stiamo vivendo, questa sì, è una vera situazione: ed essa ha meno a che fare con la dialettica dello spettacolo che con un problema oggi ancor più scottante, che è quello della “spazialità”. Infatti, dal distanziamento sociale alla locatività neomediale, dalle frammentazioni geopolitiche alla suddivisione “zonale”, dal blocco degli spostamenti alla connectography, qualunque nostra azione oggi passa per lo spazio, reale o virtuale che sia. E là dove Debord non riesce a emanciparsi dallo schema marxiano, e nemmeno dal gergo sovietico, Simondo, che era uno studioso di
geometrie non-euclidee e di Poincaré, risponde con la topologia. In altri termini, mentre lo (pseudo) materialismo debordiano trionfava, tra mostre, retrospettive, convegni, e Opera Omnia da Gallimard, Simondo ha dischiuso – standosene scrupolosamente in disparte – una genealogia alternativa del situ-azionismo, restituendo al termine il senso originario di azione in situ, cioè “situata nello spazio”. E, a quanto pare, nel pieno del XXI secolo, proprio la sua versione è quella che si dimostra più vitale e contemporanea rispetto alla variante francese, ormai inaridita nelle secche ideologiche del Novecento.
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PIERO, QUELLO VERO testo di
MARCO SENALDI [ filosofo ] L
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