Artribune Magazine #12

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ISSN 2280-8817

INTERVISTE DOPPIE PER IL PADIGLIONE ITALIA

BRUNA AICKELIN GALLERISTA A VENEZIA

MENSILE - POSTE ITALIANE S.P.A. SPED. IN A.P. 70% - ROMA - COPIA EURO 0,001

GOLFO, BRICS, ESORDIENTI LA BIENNALE IN ANALISI

E SE A VENEZIA RIAPRISSE L’UFFICIO VENDITE?

LE ARCHITETTURE DI MARSIGLIA CAPITALE (DELLA CULTURA)

MUSEI CIVICI LAGUNARI IL PROGRAMMA DI GABRIELLA BELLI

anno iii numero 13/14 maggio-agosto 2013

COS’È UNA BIENNALE SECONDO BRUCE ALTSHULER E ROBERTO PINTO








tonelli

massimiliano

a viva la crisi, santocielo. Certo è che non solo stanno chiudendo le aziende e sta andando a ramengo tutto il nostro tessuto produttivo, ma i tagli agli investimenti culturali - sia pubblici che privati, intendiamoci - mettono a rischio le realtà espositive e artistiche d’Italia. E questo appare a prima vista come qualcosa di profondamente negativo e demoralizzante. Ma è davvero così? Oppure possiamo sforzarci di trovare in questo quadro (che è dato e che non cambierà, almeno non a breve e neppure a medio termine), oppure possiamo sforzarci, dicevamo, di trovare chiavi di lettura positive ed elementi elettrizzanti in tutto ciò? Fabbriche che chiudono, disoccupazione, posti di lavoro perduti, impossibilità per i giovani di trovare un impiego. Male, ma bene se grazie a questo shock le nostre produzioni inefficienti e fuori dal tempo si riconvertono, perché comunque sarebbe stato tutto spazzato via. Crisi o non crisi. E solo uno shock avrebbe potuto smuovere la cancrena di inedito

e malgestito benessere che gli italiani si sono goffamente cuciti addosso negli ultimi 45 anni. Meno cose, più efficienti. Magari meno nanismo imprenditoriale e più alleanze, più fusioni, più massa critica che il

romanticismo delle PMI regge fino a un certo punto. Badate, nell’arte vale la stessa cosa. Identica. Chiudono musei? Fantastico, se nel decennio precedente senza alcuna pianificazione, senza logica e senza previsioni se ne erano aperti quasi due dozzine pure nei posti più improbabili. Che ne restino tre o quattro di cui uno di livello internazionale e tre di valenza regionale. La crisi si mangia le gallerie d’arte? Ma è una benedizione: a Roma dal 2002 al 2008, negli anni d’oro, se n’erano aperte oltre 100. Molte hanno chiuso, ma non si è mai vista una stagione con mostre così belle negli spazi privati: altro che crisi. Il paradigma è cambiato e non ti concede più il lusso delle imprese avventate, personali, di provarci e vediamo come va. Perché va senz’altro male. Dunque meglio concentrarsi, fare sinergia: invece di aprire io una galleria improbabile e aprirne una tu altrettanto traballante, io chiudo la mia e i soldi che ho smesso di dilapidare li porto da te e diventiamo soci. Ha chiuso una galleria, ma è una manna dal cielo, mica una chiusura per la quale disperarsi. Succede uguale uguale nelle riviste. La crisi è blu e noi non abbiamo mai fatto un numero (sfogliatelo!) così zeppo di inserzioni pubblicitarie. Perché? Perché un visibilio di riviste hanno chiuso o stanno per farlo, non ce la fanno a stampare, non danno garanzie a chi vi investe: i clienti se ne accorgono e concentrano gli investimenti su chi appare più solido. È una tragedia per il diritto di informazione se un settore di ultranicchia come quello dell’arte contemporanea in Italia si ritrova una dotazione di 5 o 10 testate invece che di 20 o 30? Oppure è semplicemente buonsenso? O scappiamo sul pianeta Plutone o proviamo

a guardare la crisi come cambiamento e cerchiamo di vederci dentro gli aspetti positivi che indubbiamente ha. Si riassestano interi ambiti e rischia, per una volta, di trionfare la meritocrazia in tutti i campi. Prendete, e concludiamo, le mostre d’arte. Sono diminuite spaventosamente, ma i dati fino al 2009/2010 parlano di numeri sconsiderati: una inaugurazione ogni 8 minuti ogni dannato giorno dell’anno. La Biennale di Venezia, alla quale questo numero di Artribune Magazine è dedicato, dimostra che quando l’Italia (con le sue idee, i suoi format, i suoi soldi oltretutto) si concentra su obiettivi precisi e di qualità, produce risultati d’eccellenza. La Biennale è il più importante evento d’arte contemporanea del pianeta: è realizzato in Italia, con soldi italiani che, attenzione a questo passaggio, vengono doppiati dagli investimenti stranieri, perché gli eventi concentrati e lucidi catalizzano le risorse, mica le fanno scappare come al solito. Per massimizzare il risultato, la Biennale si tiene addirittura ogni due anni, altro che una mostra ogni 8 minuti… Il tempo dell’abbondanza senza costrutto lo abbiamo vissuto, ci siamo divertiti, ma ora è finito. È venuto il tempo di fare meno cose e farle per bene, senza disperdere le energie. Il campo è cambiato e questa è la nuova partita da giocare.

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EDITORIALE


iabichino

PAOLO

ono finiti i tempi in cui noi professionisti della pubblicità potevamo attingere alla sconfinata ispirazione artistica proveniente dalla cultura intellettuale più in voga. Quando headline e bodycopy erano firmate da Eugenio Montale o Umberto Saba, marchi e poster erano disegnati da Dudovich o Depero e le scene del Carosello erano girate da Federico Fellini, Sergio Leone, Ermanno Olmi, Gillo Pontecorvo, Pier Paolo Pasolini. In tempi più recenti, siamo riusciti a maltrattare il povero Tonino Guerra, ridotto a macchietta dell’ottimismo; i nostri migliori registi usano gli spot come facili bancomat estemporanei ed è dai tempi di Folon per il metano della Snam che non si vede un po’ di arte sui manifesti pubblicitari delle nostre città.

Quando è successo che l’estetica dell’advertising ha rinunciato a qualsiasi cifra artistica? Quando abbiamo smesso di considerare la poesia, la pittura, il cinema, la fotografia d’autore come possibili vettori creativi dei nostri messaggi commerciali?

Perché la pubblicità moderna ha dismesso qualsiasi velleità culturale, riducendosi a uniformare la propria grammatica dentro cliché universali, buoni per tutte le stagioni, con testimonial intercambiabili, narrazioni prevedibili e misere provocazioni che usano il sessismo come scorciatoia per distogliere l’attenzione dalla totale assenza di una qualsiasi idea. Neanche la rivoluzione in atto è riuscita a scardinare una poetica pubblicitaria sempre più avvitata intorno ai suoi stessi ritornelli. L’esplosione di Internet, l’euforia dei social network e gli entusiasmi che si sono levati intorno alla comunicazione digitale non sono riusciti a modificare un atteggiamento che anche in Rete ha trovato il suo fertilissimo brodo di coltura. Banner, pagine Facebook, video virali e altre amenità pubblicitarie dell’ultima ora non sembrano purtroppo scalfire le difese immunitarie di una pubblicità sempre più divergente da qualsiasi forma d’arte o di sperimentazione in questo senso. Gli ultimi mecenati rimasti sembrano essere gli uffici marketing e comunicazione delle più prestigiose maison di moda, dove uffici stile e direttori creativi si affidano alle intuizioni artistiche di autori riconosciuti a livello internazionale. Ma il lusso sceglie l’arte per costruire una cortina fumogena intorno ai suoi marchi e prodotti. Non lo fa per avvicinare, ma per aumentare la distanza con le masse. Non ha nulla a che a vedere con le intuizioni pedagogiche che furono dell’ingegner Olivetti, ad esempio. L’arte diventa come il latino di Don Abbondio, un linguaggio ermetico che deve incutere rispetto ed evocare il privilegio di pochi. Ma per fortuna non tutto è perduto. La Rai ha annunciato il rilancio del Carosello, che dopo oltre 35 anni torna sui nostri schermi televisivi. Alle 21 di ogni sera, su Rai 1, la stessa sigla annuncerà 210 secondi di “buona pubblicità”. Un contenitore che viene presentato dai vertici della tv di stato come un vero e proprio “reload” della trasmissione originale. Per offrire tre spot da 70 secondi in una striscia del palinsesto di prima serata che punta a riscoprire una produzione pubblicitaria “di qualità”. Le premesse non mi sembrano granché incoraggianti e temo che il nuovo Carosello sia solo un estremo tentativo di recuperare parte di quegli investimenti pubblicitari che negli ultimi anni hanno disertato gli schermi televisivi per atterrare su monitor e display. Del resto, abitiamo un Paese che costringe un quasi 90enne a rinnovare il proprio mandato presidenziale per evitare una catastrofe istituzionale. Cosa volete che sia riproporre sotto mentite spoglie una nostalgica operazione culturale, per illudersi di salvare la catastrofe mediatica che sta attraversando la nostra comunicazione? Direttore creativo, docente e autore

L’ALTRO EDITORIALE

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direttore del progetto marzotto e di fuoribiennale

docente di economia della cultura università iulm di milano

COLUMNIST

sacco

i lamentiamo del fatto che l’Italia non è capace di mettere a punto politiche culturali efficaci, e che questo valga anche, a volte soprattutto, con riferimento alla promozione della cultura italiana all’estero. Ma un problema simile esiste per l’Europa nel suo complesso. Le principali nazioni europee possiedono una rete di promozione e diplomazia culturale. Queste reti agiscono sulla base di una visione strategica precisa e il paragone con la nostra rete di Istituti Italiani di Cultura è quasi sempre impietoso. Ma un effetto paradossale del livello e della qualità di queste reti è proprio la difficoltà di mettere in piedi strutture analoghe capaci di rappresentare l’Europa, per quanto un ruolo importante venga ricoperto da Eunic, la rete degli istituti nazionali di cultura europei. Questa lacuna produce un danno importante per l’Europa: in molti Paesi emergenti extra-europei, il modello culturale americano tende a essere accettato con difficoltà, se non esplicitamente rifiutato. Vi è in genere una forte spinta all’elaborazione di un modello culturale proprio, che può essere coltivato come forma più o meno sofisticata ed esplicita di “ingegneria culturale” secondo la logica del soft power. In questo sforzo di mettere la propria nazione sulla mappa del sistema globale di produzione culturale, i Paesi con meno esperienza nel campo tendono a cercarsi dei referenti. L’Europa avrebbe un potenziale eccezionale da sfruttare, che produrrebbe conseguenze importanti non soltanto sul piano culturale, ma anche su quello della cooperazione economica e sociale. Ma, allo stato attuale delle cose, la speranza di assistere alla nascita di una vera politica culturale “estera” dell’Europa è destinata a rimanere un pio desiderio. E così la maggior parte dei sistemi culturali dei Paesi emergenti finirà per muoversi autonomamente o inserirsi in altri network. Sarebbe quindi il momento di dotarsi almeno di una rete nazionale di diplomazia culturale all’altezza di quelle degli altri Paesi europei. Servirebbe alla crescita, a dare spazio a quelle generazioni che a parole si intendono sostenere e promuovere. E semmai si arrivasse un giorno a una rete comune, servirebbe ad avere un peso adeguato alla nostra rilevanza economica e culturale.

docente di estetica in design della moda - politecnico di milano

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C

pier luigi

severino

fabio

vicepresidente dell’associazione economia della cultura

L

EUROPA E POLITICA CULTURALE

a stazione è un hub per eccellenza. Luogo di incontro e di smistamento. Di partenze e di arrivi, e soprattutto di diversità. Con le criticità annesse. Questo anche nella Città Eterna. Se si costeggia la stazione lungo via Giolitti, fino al civico 34, si sente il respiro del grande organismo della Termini. Entrati, si sale al primo piano. Una infinita prospettiva di archi di travertino, progettata da Angiolo Mazzoni, da togliere occhi e fiato, introduce una passeggiata di altri cento metri, fino a un luogo di luce, vetri e serenità: è uno stupore pazzesco entrare dentro il Luiss Enlabs. Un incubatore nato in casa, per testardaggine di Luigi Cappello, che oggi occupa 2mila mq di Termini con un centinaio di ragazzi e le loro start-up. Aperto ad aprile, è già un crocevia del sistema dell›innovazione mondiale, grazie anche al plus della sua posizione: Roma. Che per coreani e americani rappresenta la Storia. Immaginate per uno della Microsoft o di Samsung proporgli di venire a fare un viaggio di lavoro, vero, in Italia. Il fatto che stia a Roma toglie anche il pregiudizio che sia una città solo storica e poco innovativa. All›ingresso, un grande cartello spiega il contesto: “Cortesemente, la pregherei di darmi del TU”. Lo spazio è diviso in cubi di vetro. Coworking, nuove imprese, maker digitali, pensatori, studenti. Aperto h24. Densità, energia, diversità. Come dice l’altro ispiratore del progetto, Pierluigi Celli, “se il lavoro non c’è, bisogna crearlo. Noi vogliamo dare corso alle idee coraggiose”. Dopo solo due mesi dall’apertura, lo spazio è pronto a raddoppiare per la grande quantità di richieste che vanno dal digital puro al settore moda, dai beni artistici al turismo. Tante idee che cercano di crescere in ambienti favorevoli. L’innovazione deve essere quotidiana per essere contagiosa. Un progetto che unisce formazione, business, visione e recupero di luoghi abbandonati, con una riconversione. Un altro esempio pratico che anche il sistema arte dovrebbe considerare.

seganfreddo

D

iamo a Cesare quel che è di Cesare. Bell’idea (e soprattutto ben fatta) quella del crowdfunding per il Padiglione Italia della Biennale di Venezia. Mi auguro che riesca negli intenti finanziari, ma dal mio punto di vista l’iniziativa è già riuscita. Una manifestazione pubblica importante come questa, che organizza in maniera così appropriata una campagna di raccolta fondi, è l’espressione di una maturità che da tanto tempo si aspettava. Maturità non solo nel gestire bene un’azione del genere, ma soprattutto nell’aver chiaro quali sono i percorsi da seguire: la cultura non può e non deve vivere di sole risorse pubbliche. Per essere viva e condivisa, deve raccogliere l’interesse della più ampia cittadinanza, anche quello economico. Super-azzeccata la scelta dell’entry level a cinque euro. L’ho letta come “dimmi che ci sei, che sei dei nostri, che ci credi”. È questa la strada del fundraising: innanzitutto fare la conta delle persone (o imprese), cercandone il più ampio numero possibile. È la numerosità, il largo consenso, la milestone del fundraising. Anche solo un cheap dimostra che “io ci sono”. Da lì poi si può immaginare di avere di più e fare di più, anche di pensare in grande: progetti importanti o autosostentamento. La sostenibilità di un progetto culturale parte da quanto questo è condiviso. Pagare il biglietto anche se non ci vado (alcuni, se non molti dei microdonatori, se non anche di quelli più generosi o abbienti, non andranno alla mostra o magari non riscatteranno fisicamente i benefit promessi come la presenza all’inaugurazione o la cena con l’artista). La cultura come partecipazione ci insegna che non trattasi di solidarietà (la leva sulla quale si insiste molto, ma che nella cultura non riesce a sfondare, diversamente dal sociale, sanitario o ambientale). Nella cultura devo sentirmi parte di un tutto, identificarmi, non esserci. La Biennale col Padiglione Italia è riuscita a fare un bel sito, a utilizzare una comunicazione efficace. A voler trovare il pelo nell’uovo, avrei messo fin da subito in maniera puntuale a cosa sono destinati i soldi: l’effetto spiazzamento (crowding out) è noto e spiegato in letteratura.

LABORATORIO TERMINI

cristiano

ITALY CROWDFUNDING


saggista e redattore di cyberzone

angnam-gu è il quartiere dello shopping brandizzato, al di là del fiume Han che taglia in due Seoul. Dopo il successo mondiale del primo video, Spy ci riprova con Gentleman, girato nelle sue scene iniziali nel negozio di Corso Como 10, il noto concept store milanese. Con i suoi 23 milioni di abitanti, Seoul è la città più cablata al mondo e la quarta megalopoli al mondo quanto a PIL. Lo skyline che si staglia appena imboccata la superstrada che dall’aeroporto scivola verso il centro rende ridicole le vanterie milanesi sulla città più verticale d’Italia. Le strutture in cristallo e cemento progettate dagli stessi architetti qui sono moltiplicate per cento. Il Leeum Samsung Museum of Art non è una torre ma una costruzione bassa disegnata da Botta, Nouvel e Koolhaas: tutti e tre, per non sbagliare. Ha due ali, una dedicata al passato e una al presente. Quello che non convince è il metodo di raccolta del contemporaneo: solo i soliti “grandi nomi”, solo opere gigantesche e per di più di seconda scelta. Meglio, molto meglio i raffinati lavori in metallo o ceramica del passato. Ma a parte il non riuscitissimo museo, qui si ha la sensazione che tutto sia Samsung, anche se LG, Hyundai e Kia non sono aziende da poco. Sulle scale mobili dei centri commerciali, negli alberghi, in metro o al mercato del pesce, cellulari e tablet sono sempre e solo Samsung. Il leader della telefonia mobile si è lasciato alle spalle Apple e Nokia proprio negli ultimi dodici mesi. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché a 50 chilometri c’è un giovanotto viziato, cresciuto nel miglior college inglese di Berna, amante del lusso e del basket, che gioca alla bomba atomica. Forse non è il caso di dargli troppo peso, ma intanto Seoul ha perso il suo status di capitale politica a favore di Gongju, un agglomerato urbano sconosciuto ai più. Kim Jong-un è solo viziato o è un “utile fuciliere” di qualcuno molto più grande di lui? Alle spalle di Samsung si stagliano Lenovo, ZTE e Huawei, tutte e tre cinesi. Lenovo, in particolare, ha dichiarato di perseguire la leadership nel mercato globale dell’elettronica avanzata. La guerra (o la sua minaccia) non è che la continuazione della politica (o dell’economia) con altri mezzi, diceva von Clausewitz. Valgono più strategia e depistamento che la forza in campo aperto, pensava Sun Tzu.

C

on il terrorista! ”: con questo grido inizia uno dei fad più travolgenti degli ultimi mesi su YouTube. Il sound nasce dalla cultura hip hop ma si riduce a un minimalissimo jingle ossessivamente ripetuto. È il modello del ritmo base che chiunque può utilizzare. Lo precede il fenomeno Gangnam Style, cliccato da milioni di persone. E qui si inserisce una variante linguistica. Ai Weiwei utilizza Gangnam Style per far conoscere le proprie condizioni di sorvegliato politico. C’è molta gioia e libertà nel video di Ai Weiwei che, vestito con colori violenti, balla con energia l’elementare passo di danza, circondato da giovani artisti e belle ragazze, molto simile a un video di MTV. Ma in una sequenza è ammanettato. La struttura dei video di Do the Harlem Shake è sempre uguale: un personaggio inizia a ballare, o piuttosto a dare segni di “diversità” rispetto al contesto o al gruppo in cui si colloca. I video sono ripresi in modo amatoriale e in ambienti casuali. Di colpo e con un taglio netto di montaggio, il danzatore solitario è in mezzo alle persone prima distaccate e occupate in attività quotidiane, che ora si agitano vestiti o svestiti nei modi più incongrui. Numerose le maschere, elementari e quasi parodistici i movimenti, l’atmosfera giocosa e infantile sembra negare il grido terroristico della techno. Ma il carattere “virale” del video lo porta nel mondo e appaiono Do the Harlem Shake girati in Egitto, appaiono le maschere portate durante Occupy Wall Street, in un liceo tunisino il carattere giocoso prende coloriture polemiche, ragazze in pantaloni e maglietta ballano con i lunghi capelli sciolti e senza velo in una piazza. In un video di una certa qualità formale, un plotone di soldati è sull’attenti, ma il comportamento da tarantolato di uno di loro contagia presto tutti. Era questa l’intenzione iniziale? Rappresentare un individuo che si ribella all’ordine e sparge il contagio? L’uso di “correnti” nello spazio web per convogliare contenuti alti, culturali e politici è una tradizione della Net Art. In questo momento la diffusione di YouTube è capace di veicolare contenitori di messaggi che hanno il vantaggio di sembrare innocui ma si rivelano complessi. Stiamo per assistere alla nascita di nuove forme di contestazione “soft”? “

taiuti

G

DO THE HARLEM SHAKE

lorenzo

marcello

faletra

’introduzione della patente a punti dovrebbe essere estesa a tutti i rami della vita sociale. Peccato che solo la guida dell’auto goda di questa norma. Bisognerebbe estenderla ai politici. Per ogni infrazione, tanti punti in meno, fino all’esclusione permanente dalla gestione della cosa pubblica, che nel caso italiano spesso converge con il bene culturale. Ma se questo potrà sembrare assurdo, allora forse conviene far adottare il nostro patrimonio culturale ai musei di altri Paesi. Ad esempio, dare la Valle dei Templi di Agrigento a un museo straniero e chiedere in cambio che si accollino lo smantellamento delle ville costruite a ridosso dei templi e biglietto ridotto o gratis per gli abitanti del territorio e una percentuale significativa sul ricavato. Invece di consegnarla a società private italiane (nel caso specifico, Nuove Muse, che ha trattenuto per sé il ricavato che spettava alla Regione Sicilia - 19 milioni di euro - col silenzio dei politici). Oppure dare in gestione Pompei a un altro Stato, ma chiedere in cambio la manutenzione, il restauro e parte significativa del ricavato. (Paradosso: è grazie alla catastrofe provocata dall’eruzione del Vesuvio che Pompei s’è conservata. Ed è a causa all’imbecillità dei politici che Pompei rischia di scomparire un’altra volta.) Dato che l’Italia è sommersa da una quantità di opere d’arte, e i politici non sanno come gestirle, è meglio darle in gestione agli altri prima che scompaiano del tutto o finiscano in mani fraudolente (il privato in Italia sta diventando sempre più sinonimo di saccheggio economico, civile e culturale). Su questo punto è sufficiente un paragone. Il magnate tedesco Würth, per il restauro della Cappella Palatina di Palermo - patrimonio dell’umanità -, non ha preteso nulla, soltanto la realizzazione di due mostre della sua cospicua collezione privata: Christo e Max Ernst. Due monumenti dell’arte del Novecento. Mentre l’industriale Della Valle, per il restauro del Colosseo, ha preteso i diritti d’immagine per 15 anni, “eventualmente rinnovabili”. Sono due concezioni opposte della partecipazione del privato al bene culturale (o bene comune, espressione così in voga oggi). La prima rasenta il dono, che trova nel prestigio del mecenate la sua ragion d’esistenza. La seconda rientra nella logica del contratto: io ti dò i soldi, ma poi me li riprendo con la gestione privata. Cosa significa, dunque, “partecipazione” del privato al bene culturale?

premoli

L

SAMSUNGLAND

aldo

LA PATENTE A PUNTI

critico di arte e media docente di architettura università la sapienza di roma

trend forecaster direttore di tar magazine

COLUMNIST 13




BOETTI, I LIBRI E I PULCINI IN TASCA Sono molte le idee che hanno motivato Obrist, tanto che lui dice che tutta la sua carriera è stata determinata dall’incontro, dall’input di Boetti. Alighiero a un certo punto gli disse: “Noi dobbiamo lanciare un’agenzia fax, io sarò il presidente, tu sarai il direttore. Mi devi trovare un elenco di 120 persone che fanno opinione nel mondo, di tutti i settori, non solo nell’arte. Noi manderemo dei messaggi, dei nostri testi, qualche disegno, e poi aspetteremo le risposte: tutto basato sul fax”. Aveva scoperto il concetto di social network, decine di anni fa, quando ancora non esisteva Internet…

Roma, Anni Sessanta. In fila dal tabaccaio, per una fotocopia. Il signore davanti, un tipo eclettico, tira fuori dalle tasche della giacca due pulcini, li posa sul vetro e avvia la scansione. Finito, ricaccia gli animaletti in tasca, paga le sue monetine e se ne esce soddisfatto. In occasione dell’uscita di Boetti A4 (Edizioni Essegi), Annemarie Sauzeau racconta qualche storia di Alighiero Boetti e i libri. Nel suo testo, Hans Ulrich Obrist ricorda del “progetto fax”, un vero social network ante-litteram. Di cosa si trattava?

Nel suo saggio lei parla del rapporto dell’artista con mezzi tecnici come la fotocopia, il fax, l’A4 standard internazionale e il mondo del rotocalco. In che modo si inserivano questi mezzi nella sua produzione? Il suo rapporto con la tecnologia iniziò negli Anni Sessanta, con la fotocopia. Era tornato da New York, dove aveva visto che Robert Rauschenberg aveva a disposizione una grande fotocopiatrice - addirittura a colori - affidatagli dalla Rank Xerox per le sue sperimentazioni: certe industrie capivano l’importanza della creatività dell’artista, anche per promuovere i propri prodotti. Boetti in Italia non trovò la stessa disponibilità: era costretto ad andare dal tabaccaio all’angolo, con le monetine, per fare i suoi esperimenti. La commessa del negozio era scioccata: lui schiacciava la sua faccia sul piano della fotocopiatrice, con gli occhi aperti, per realizzare i suoi autoritratti. A un certo punto si mise in testa di fotocopiare dei pulcini che camminavano sul vetro: arrivava al negozio con i pulcini nelle tasche della giacca, e fa-

OPERA SEXY

di FERRUCCIO GIROMINI

IL CALZOLAIO PRODIGIOSO Tra gli accessori della tentazione femminile, la calzatura ricopre storicamente un ruolo di primo piano. Strettamente allacciato al feticismo del piede, il feticismo della scarpa – passione spesso tenuta pudicamente nascosta – conta innumerevoli aneddoti, adepti, studi, leggende. Si può essere più o meno indifferenti a tale fascinazione, ma va comunque riconosciuto lo strisciante potere seduttivo di certe armonie di forme arcuate, di certi accostamenti di materiali fascianti, di certi contrasti cromatici sulla pelle delicata che ricopre tarsi e metatarsi. Tra i massimi profeti della calzatura, specie femminile, troneggia Salvatore Ferragamo, vero mago della progettazione calzaturiera, che dall’infanzia povera nell’avellinese all’emigrazione negli Stati Uniti, dai primi fasti hollywoodiani al ritorno nell’Italia fascista, dal fallimento economico alla industriosa rinascita e ai nuovi grandi successi internazionali, seppe trasfigurare l’artigianato in arte rifasciando in modi sorprendenti e irripetibili non solo i piedini di Judy Garland, Eva Peron, Sophia Loren, Marilyn Monroe, ma pure a meraviglia i piedoni “impossibili” di Greta Garbo. La favola umana e artistica de Il calzolaio prodigioso è ora rievocata e celebrata dal Museo che ne prende e rilancia il nome, con una ampia mostra interdisciplinare ospitata per un anno nella bella sede fiorentina di Palazzo Spini Feroni. La sontuosissima esposizione (con sottotitolo Fiabe e leggende di scarpe e calzolai, a cura di Stefania Ricci, Sergio Risaliti, Luca Scarlini e debitamente documentata in un catalogone Skira) accosta esempi diretti della produzione di Ferragamo a curiosi reperti storici (bronzi del Giambologna, manoscritti di Garcia Lorca…), una ricca raccolta di libri per l’infanzia dedicati alle scarpe “favolose” (Il gatto con gli stivali, Cenerentola, Scarpette Rosse…), molti lavori artistici attinenti (di Carol Rama, Daniel Spoerri, Jan Švankmajer, Annette Lemieux…) e opere addirittura commissionate per l’occasione (a Mimmo Paladino, Ann Craven, Liu Jianhua…), tra cui anche poesie, racconti, cortometraggi, una partitura di Luis Bacalov e così via. In tanto fantasioso Barnum di stringhe tacchi lustrini lacci – incuriosente, interessante, frastornante – ciò che qui ci piace segnalare è un fumetto. In 26 tavole, definite con qualche esagerazione (come la moda vuole) ‘graphic novel’, il talentuoso americano Frank Espinosa reinterpreta e condensa in accese pennellate acriliche la biografia del Ferragamo capostipite, sorprendendo per la sinuosa sensualità e l’espressiva qualità pittorica della sua narratività grafica. Il che può suggerire, una volta di più, che oggi la tradizione dello specifico pittorico “passionale” sopravvive ed evolve facilmente più e meglio nell’arte applicata che in quella cosiddetta pura. Alla faccia dei purismi. www.museoferragamo.it

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NEWS

ticava per farli stare lì sopra, aveva notato che quando passava la luce della lampada il pulcino beccava. Magari dietro a lui qualcuno aspettava per fotocopiare la sua patente di guida… Per Documenta ha raccontato l’esperienza di The One Hotel in uno dei 100 taccuini. Ci riassume i contenuti di una vicenda ancora non conosciuta nei dettagli? Del One Hotel accennavo già nel mio precedente libro, Shaman showman, ma poi, visto il grande interesse rinnovato anche dall’opera di Mario Garcia Torres presentata a Documenta, Carolyn ChristovBakargiev mi ha chiesto - come testimone diretta, io aiutai Boetti in tutto, da comprare i letti a decidere cosa si mangiava - di raccontare questa storia. Alighiero creò il One Hotel per la simpatia che provava per un giovane ragazzo afgano, che lavorava in un piccolo hotel dove lui soggiornava. Boetti lo prese come una specie di assistente: “Tu sei intelligente, sei l’unico qui che può farsi un suo albergo”, gli diceva. “Eh, mi piacerebbe, ma io non ho i soldi per affittare lo spazio, arredarlo, comprare le teiere…”, rispondeva il ragazzo. “Se torno qui, ti porto i soldi e apriamo l’hotel insieme”: io ero presente quando lui tornò e tirò fuori dai jeans il mazzetto di soldi, il ragazzo scoppiò a piangere. C’erano sei stanze in tutto, l’unica condizione che Boetti pose fu che una di quelle fosse riservata a lui e al suo studio, quando era in Afghanistan. MASSIMO MATTIOLI www.archivioalighieroboetti.it

Biennale di Venezia super-italiana. Dopo Gioni alla direzione ci sono Marisa Merz Leone d’Oro alla Carriera e Francesco Manacorda nella giuria internazionale Per una volta, e senza la minima sensazione di partigianeria, l’Italia, troppo spesso assente da ruoli chiave negli eventi che contano nel contemporaneo, torna a occuparne fra le mura di casa. Con personaggi dai curriculum inattaccabili, su qualsiasi palcoscenico: a cominciare dal più importante, sul quale non è necessario spendere altre parole, Massimiliano Gioni direttore della Biennale Arte di Venezia. Ma i vessilli tricolori svoltoleranno in altre posizioni cardine: come fra i premiati più prestigiosi, quelli con il Leone d’Oro alla Carriera, che la grande Marisa Merz condividerà con l’austriaca Maria Lassnig. Last but not least, la giuria internazionale: qui ci sarà Francesco Manacorda, già alla guida di Artissima, oggi direttore artistico della Tate di Liverpool, assieme a un pool di grande prestigio globale composto dalla presidente Jessica Morgan, da Sofía Hernández Chong Cuy, da Ali Subotnick e da Bisi Silva.

Italia-Francia nell’arte, e poi design e architettura. Ecco il ricco menu espositivo per il CAV di Pietrasanta Che la Versilia in estate si trasformi in uno dei poli di riferimento per l’attività espositiva non è certo una novità; da qualche anno però c’è una struttura nata per ordinare queste attività, e anche per la stagione 2013 i programmi sono ricchi e diversificati. Parliamo del CAV - Centro Arte Visive di Pietrasanta, che mette sul piatto i progetti relativi alla perla della costiera: a partire dalla grande mostra Italia-Francia un confronto artistico-culturale, che occuperà una moltitudine di spazi espositivi della stessa Pietrasanta per analizzare relazioni che hanno origini lontane, a partire dal Rinascimento, per maturare intorno alla metà del XIX secolo con artisti come De Nittis, Zandomeneghi, Boldini, arrivando all’apice nei primi decenni del XX secolo con i cosiddetti “italiens de Paris”. Ma ad essere coinvolti qui saranno - dal 20 luglio al 15 settembre - i principali protagonisti dei più importanti movimenti artistici dal dopoguerra ai giorni nostri. Target diverso per l’evento Homo Faber 2013, che fino al 16 luglio contempla la rassegna audiovisiva Scolpire il Tempo, il tour di


FONDAZIONE CRT. IL PIEMONTE CHE TIENE DURO Intervista con Fulvio Gianaria. Con il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Torino abbiamo passato in rassegna tutti gli investimenti e gli impegni culturali dell’ente. Da ZonArte a Resò passando per le OGR e le acquisizioni e i musei. Ecco tutto il quadro. È interessante il filone di indagine che sta portando avanti il network di ZonArte, quello del rapporto fra soggetto collettivo e paesaggio. Porre all’attenzione questo tema in situazioni che vedono la partecipazione di un pubblico ampio è probabilmente la strada più corretta. Sul tema qual è il suo punto di vista? Torino e la sua provincia si sta confrontando con una realtà anche conflittuale in questo senso… La situazione critica attuale comporta una necessaria attenzione verso i temi considerati prioritari per i cittadini, quali il lavoro, la sanità, l’istruzione, lasciando da parte tutti quegli aspetti che rientrano nel settore del welfare; e questo è normale, anzi, assolutamente legittimo. Tuttavia sarebbe sbagliato permettere alle persone di dimenticare quei temi che costituiscono la cultura di un popolo, e che le mettono in relazione con il territorio che le circonda. Un progetto come ZonArte tenta di dare un piccolissimo contributo in questa direzione, creando un luogo e un tempo dove l’arte e la cultura permettano al pubblico, nel senso più ampio del termine, di riappropriarsi, anche solo temporaneamente, di una dimensione che fa parte della vita di ognuno di noi, ma che spesso viene dimenticata.

visite guidate ai laboratori della filiera produttiva artistica del territorio di Pietrasanta Open Lab e il convegno Made in Mind. Altro ambito: quello della mostra Architettura e design radicali, che fra giugno e luglio, al Museo Multimediale della Scultura e dell’Architettura, analizza gli elaborati di alcune figure centrali dell’architettura e del design radicale. Mettendo a confronto il gruppo degli UFO (Carlo Bachi, Lapo Binazzi, Patrizia Cammeo, Titti Maschietto e Riccardo Foresi), nato a Firenze nel 1967, con un gruppo di architetti-artisti radicali come Gianni Pettena (che ha anche selezionato i lavori), Raimund Abraham, Hans Hollein, Max Peinter, Walter Pichler ed Ettore Sottsass con opere che spaziano dagli Anni Sessanta ai giorni nostri, riuniti attorno al titolo Vienna e Dintorni. www.cavpietrasanta.it

Le menti creative minacciano di lasciare un’Italia allo sbando? Quelle spagnole lo fanno per davvero: in un anno aumenta del 65% l’emigrazione intellettuale verso gli Usa “È un vero esodo”, dichiara Marta Sanchez, distributrice cinematografica spagnola che ormai vive a Brooklyn. “È una situazione molto triste, che persone di grande talento debbano lasciare il loro Paese. Ma temo che oggi sia ancora più triste rimanere in Spagna”. In Italia a ogni nuova, deprimente notizia sul fronte politico, arriva puntuale l’intellettuale di turno che minaccia di lasciare il Paese allo sbando, per calcare nuove - ovviamente lastricate d’oro a 24 carati - strade oltreconfine? Beh, in Spagna lo fanno davvero: stando ai dati della US Citizenship and Immigration Services Agency, nel 2012 le domande presentate da personaggi con “extraordinary talents” - questa la definizione - sono cresciute del 65% rispetto all’anno precedente. Un’enormità, soprattutto se rapportata a

Capitolo Resò, ovvero la rete di residenze d’artista che vedono l’area di Torino al centro di un interscambio di creativi. Quali sono le novità? Il progetto Resò, giunto alla terza edizione, continua a tessere un filo dell’arte tra il territorio piemontese e i contesti emergenti delle istituzioni partner Townhouse Gallery del Cairo, Khoj International Artists Association di New Delhi e da quest’anno Lugar a Dudas di Cali in Colombia, nuovo partner che sostituisce la residenza brasiliana di Capacete. I nostri artisti Fatma Bucak e Franco Ariaudo tra adesso e l’autunno saranno in residenza tra il Cairo e New Delhi, mentre tra giugno e agosto il PAV ospita gli indiani del Frameworks Collective, la Fondazione Spinola Banna la coppia di egiziane Malak Helmy e Nida Ghouse e la Fondazione Pistoletto accoglie a Cittadellarte la colombiana Cristina Ungar. Il grande progetto di un centro d’arte nelle famigerate OGR a un certo punto della storia recente sembrava cosa quasi fatta. Poi è sembrato cadere nel dimenticatoio. A che punto siamo? Stiamo seguendo la vicenda e sappiamo che Fondazione CRT sta in questi giorni concludendo l’accordo di acquisto dell’area e sono previste numerose attività già a

dati precedenti, che per esempio nel 2006 vedevano gli immigrati iberici in crescita solo del 10% rispetto al 2000; un dato che dà la descrizione plastica della crisi che ormai attanaglia la Spagna, e che si ripercuote fortemente sulle professioni culturali, fra le prime a soffrire dei massicci tagli. Con un tasso di disoccupazione al 26%, nel primo semestre del 2012 il 44% in più di lavoratori - in generale di tutte le aree - hanno lasciato il Paese rispetto all’anno precedente, secondo l’Istituto Nazionale di Statistica di Spagna. E le altre economie in crisi, i greci, i portoghesi, e anche gli italiani? Il dato è contrastato: la crescita spagnola è infatti clamorosa perché riferita a un dato bassissimo, visto che l’emigrazione in precedenza, soprattutto per ragioni di lingua, si rivolgeva all’America Latina. Gli italiani invece erano da sempre massicciamente presenti negli States, per cui il bilancio attuale è addirittura in negativo, sempre secondo il Migration Policy Institute di Washington. E adesso che succederà?

Essere o non essere (Rem Koolhaas)? Il Comune di Venezia da l’ok al progetto del Fondaco dei Tedeschi. Ma i maldipancia dei puristi riemergono La questione è sempre aperta, e più attuale che mai, nel nostro Paese: cosa fare, ma soprattutto, come comportarsi di fronte alla scelta di cambiare destinazione d’uso a un immobile di pregio storicamente connotato al centro di una città come Venezia? L’ultimo episodio in merito vede protagonista l’amministrazione guidata dal sindaco Orsoni, che sblocca i permessi per far intervenire Rem Koolhaas al Fondaco dei Tedeschi, acquistato dal Gruppo Benetton nel 2008 per circa 50 milioni di euro. Un edificio importante (tanto da avere alcuni affreschi del Giorgione), costruito da Fra Giocondo nel Cinquecento, che affaccia sul Canal Grande, proprio nei pressi del Ponte del Rialto. Un edificio che, nel corso della sua storia, ha ospitato prima la sede dei commercianti tedeschi, poi l’Ufficio della Dogana,

partire dalla prossima estate, in concomitanza con i lavori di recupero degli edifici. Crediamo sia un’opportunità importante per la città, per contribuire al percorso intrapreso da Torino di essere sempre più un polo culturale a livello nazionale. Le acquisizioni della Fondazione per il Castello di Rivoli e la GAM sono una linfa vitale per questi musei. Cosa ne pensa del progetto di una superfondazione che metta sotto un unico cappello realtà come il Castello, la Fondazione Torino Musei e Artissima? Ottimizzare le risorse umane ed economiche è d’obbligo, di questi tempi, purché venga fatto con criterio, garantendo il livello di eccellenza di queste istituzioni. Da sempre sosteniamo l’importanza del lavoro di sistema, nella convinzione che l’operato collettivo possa portare maggiori vantaggi, visibilità, esperienza e ricchezza rispetto all’operato del singolo; la cosa più importante, però, è che non vengano perdute le specificità e le vocazioni di ciascuno, poiché ognuna di queste istituzioni ha avuto un percorso storico del tutto differente dalle altre, con ricadute diverse sul territorio. Futuro immediato: qual è il budget che quest’anno la Fondazione ha avuto a disposizione e quale sarà quello del prossimo anno? Attraverso un’oculata e necessaria scelta, stiamo lavorando per mantenere inalterato il programma delle attività rispetto allo scorso anno, con particolare attenzione al livello qualitativo dei progetti e all’attività di acquisizione, che rimane prioritaria. Sul prossimo anno è prematuro avanzare delle ipotesi. MARCO ENRICO GIACOMELLI www.fondazioneartecrt.it

poi le Poste Italiane e ora si appresta a ospitare un centro commerciale con vista panoramica sulla città. Cosa questa che ha fatto storcere il naso a più di una persona, per il perenne, solito, timido approccio al nuovo che investe tutti i nostri centri urbani qualitativamente rilevanti. Certo, Venezia è sempre Venezia, con le sue fragilità e i suoi equilibri. Ma anche Rem Koolhaas è sempre Rem Koolhaas, e dunque tutto fuorché uno sprovveduto. In sostanza, la sua proposta - ovviamente complessa e presentata nel 2010 alla Biennale, affiancata da un abstract teorico di supporto chiamato apposta ‘preservation’ - consiste nello svuotare in parte il volume preesistente, abbattere il 34% dell’architettura attuale, creare una sopraelevazione e riqualificarlo, con nuovi comfort, nuovi connettivi, nuovi ingressi. Certo, l’ultima versione del progetto non è ancora stata presentata al grande pubblico, e si sa che per accelerare l’accordo con il Comune la famiglia Benetton ha versato nelle casse pubbliche un contributo pari a 6 milioni di euro, da utilizzare a beneficio della città. Non stupisce quindi che ancora non vi sia un’assimilazione completa della questione, soprattutto perché, a ben guardare, certi interventi previsti da Koolhaas possono effettivamente risultare invasivi e poco razionali nei confronti di un palazzo forse poco conosciuto ma di grande bellezza. Operazione condotta con responsabilità: per esempio l’inserimento delle scale mobili, inizialmente previsto nella splendida corte interna a pianta quadrata, sarà invece traslato all’interno dell’edificio, per lasciare lo spazio esterno fruibile dall’intera cittadinanza. Giulia Mura

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DURALEX

di RAFFAELLA PELLEGRINO

I RIMEDI CONTRO LA VENDITA DI QUADRI FALSI Con una recente sentenza del 2012 (n. 19509 del 9 novembre), la Corte di Cassazione ha deciso una vecchia questione relativa alla vendita di un quadro attribuito a un autore e successivamente risultato falso. La decisione – pubblicata sulla rivista Il Foro Italiano, marzo 2013 – ha per oggetto la vendita di un quadro di Giorgio de Chirico denominato Gli Arcangeli, acquistato da un privato nel 1970 e di cui è stata accertata la falsità in sede penale. La vicenda giudiziaria ha avuto inizio nel lontano 1991, quando l’acquirente ha citato in giudizio la galleria d’arte e il suo titolare, intervenuti nell’operazione, per ottenere la risoluzione del contratto di compravendita con condanna dei convenuti alla restituzione del prezzo di vendita e al risarcimento del danno. Con l’altalenante susseguirsi di decisioni, nel 2003 il Tribunale di Prato ha accolto le richieste dell’acquirente; nel 2006 la Corte di Appello di Firenze ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, dichiarando prescritto il diritto dell’acquirente; nel 2012, infine, la Cassazione ha confermato l’avvenuta prescrizione. Tralasciando l’anomalia e le ragioni dei tempi processuali, è interessante notare che la Cassazione ha confermato l’orientamento interpretativo secondo cui all’acquirente di un quadro garantito come autentico spetta il diritto di ottenere la risoluzione del contratto per vendita di un bene diverso da quello pattuito (cosiddetta vendita di aliud pro alio), a causa dell’inadempimento del venditore dell’obbligazione assunta di trasferire al compratore la proprietà di un’opera d’arte autentica. Il compratore ha quindi diritto, oltre alla restituzione del prezzo, al risarcimento del danno, che consiste nella perduta plusvalenza che l’opera avrebbe conseguito nel tempo se fosse stata autentica. Tale azione è soggetta al termine di prescrizione decennale che, secondo la Cassazione, decorre dalla consegna del dipinto e non dal momento in cui l’acquirente abbia avuto, o avrebbe dovuto avere usando l’ordinaria diligenza, conoscenza del falso. Per tale ragione potrebbe essere importante che l’acquirente, prima che siano passati dieci anni dall’acquisto, si attivi facendo verifiche, per esempio, sull’autenticità dell’opera, sul periodo storico, sulla figura del venditore e sulla documentazione consegnatagli.

NUOVO SPAZIO

RICCARDO CONSTANTINI

TORINO

Per una che chiude, ce n’è un’altra che apre. Succede ovunque, e anche a Torino. Riccardo Costantini debutta proprio nei locali dove stava la storica galleria di Giampiero Biasutti. In piano Borgo Nuovo a Torino. Chi è Riccardo Costantini e cosa ha fatto prima di approdare all’apertura della sua galleria a Torino? Ho lavorato per una decina d’anni per la galleria di famiglia a Milano e, in parte, ho contribuito alla sua virata in direzione del contemporaneo. Scelte radicali di vita mi hanno portato a Torino nel 2011 e l’anno successivo è iniziata la mia collaborazione con la Galleria Giampiero Biasutti, nella cui sede storica nasce la mia galleria. Su quale tipologia di pubblico punta la galleria e dunque su quale tipologia di clientela? È difficile, in un momento di trasformazione come questo, pensare di elaborare una strategia che si riveli sicuramente vincente. Bisognerà cercare di resistere fra il momento di crisi economica e il completo disinteresse della politica per i problemi del nostro settore. Mi aspetto un pubblico giovane e curioso di scoprire artisti che non si vedono abitualmente in Italia. Per quanto mi riguarda, ho sempre pensato che una galleria, più che cercare di seguire i gusti del pubblico, debba essere uno spazio di proposta originale: sarà così anche per questo mio nuovo progetto. Inoltre cercherò collaborazioni continue con critici e curatori internazionali. Credi ancora che l’area di Borgo Nuovo sia la zona d’elezione delle gallerie d’arte contemporanea? Nonostante alcune gallerie abbiano scelto di spostarsi in altre zone della città, Borgo Nuovo offre ancora una discreta presenza di spazi espositivi di prestigio. In generale un giudizio sulla situazione torinese. Come si sta muovendo la città? Come sta recuperando il suo ruolo di guida nell’arte contemporanea italiana? L’aria pesante che si respira ultimamente nel nostro Paese non aiuta una città come Torino, che negli ultimi anni ha fatto molto per e con l’arte contemporanea. In ogni caso credo che l’attenzione che l’amministrazione di questa città riserva all’arte in genere non trovi paragoni con nessun’altra città in Italia. Bisogna solo sperare che non venga abbandonata questa strada. Siete partiti il 21 febbraio con Ray Smith. Il resto della stagione 2013 ce la puoi anticipare? Fotografia e pittura si alterneranno nel corso della stagione. Per la pittura Ubay Murillo, giovane artista spagnolo che vive a Berlino, e Vanni Cuoghi, rispettivamente in primavera/estate e in autunno. Per quanto riguarda la fotografia, verrà dato spazio ad artisti che ho già presentato e proposto nel corso del 2012 in varie fiere nazionali e internazionali: Gianpiero Fanuli, Piero Mollica e una personale di Edoardo Romagnoli a fine anno. Via della Rocca 6b 011 8141099 riccardocostantini65@gmail.com

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Doppia partnership internazionale per la Bevilacqua La Masa in Biennale. Due grandi mostre, tra Giappone e Norvegia, con Oca e Japan Foundation. Da Munch a Lene Berg, da Simon Fujiwara a Rirkrit Tiravanija Dal Giappone alla Norvegia, passando per Venezia. Estate calda per la Fondazione Bevilacqua La Masa, che in occasione della 55. Biennale d’Arte confeziona due superprogetti espositivi, distribuiti tra Palazzo Tito e Galleria di Piazza San Marco. Unattained Landscape – Paesaggio Incompiuto, realizzata in collaborazione con la Japan Foundation, esplora campi differenti e interconnessi chiamando a raccolta artisti molto differenti tra loro: Meiro Koizumi, Simon Fujiwara, Shuji Terayama, Tomoko Yoneda, Marina Abramovic, Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari, Karen Cytter, Tacita Dean, Hiroya Oku, Jim O’Rourke, David Peace, Rirkrit Tiravanija. Spostandosi negli spazi di San Marco, Attenzione alla puttana santa: Edvard Munch, Lene Berg e il dilemma dell’emancipazione è un progetto organizzato dall’Office for Contemporary Art Norway e dalla Fondazione BLM, come contributo ufficiale della Norvegia alla Biennale. Curata da Marta Kuzma, Angela Vettese a Pablo Lafuente, la mostra si struttura attraverso caustiche riflessioni intorno al rapporto, sempre controverso, tra marginalità e sistema; analisi storiche relative ai costumi sessuali e ai tradizionali ruoli di genere, che a partire dal XX secolo subirono radicali trasformazioni; memorie di rivoluzionarie teorie psicologiche, legate al sesso, alla politica e ai diritti civili. Esposte 28 opere di Edvard Munch mai arrivate in Italia, messe confronto con i lavori più recenti della regista contemporanea Lene Berg. Un dialogo inedito e complesso, che passa da una dimensione esistenziale a una sociologica, per un’estetica del conflitto, della metamorfosi e dell’emancipazione. Helga Marsala www.bevilacqualamasa.it

La Biennale per gli studenti. Impazza il progetto College nella danza, nel teatro e nella musica. E per le arti visive? A fare da apripista ci ha pensato la sezione Cinema, che già dallo scorso anno si è attivata per reclutare, tramite un bando internazionale, quindici team di giovani registi e produttori da sostenere e finanziare (l’accesso alla sovvenzione spetta solo a tre finalisti). Ma il progetto Biennale College, istituito dalla Biennale di Venezia per dare inizio a una nuova linea strategica nel campo della didattica delle arti, coinvolge ora anche le sezioni Teatro, Danza e Musica. “Promuovere i talenti offrendo loro di operare a contatto di maestri, per la messa a punto di nuove creazioni”: questo lo spirito dell’iniziativa, che si affianca alle già presenti attività laboratoriali per condurre i giovani talenti durante tutto il percorso creativo, dalla progettazione alla realizzazione, con l’aiuto e il sostegno di maestri affermati. In occasione dell’edizione 2013 della Biennale Danza (28-30 giugno), Teatro (1-11 agosto) e Musica (4-13 ottobre) verranno presentati al pubblico in primi risultati dell’esperimento. Nel caso del settore Danza, diretto da Virgilio Sieni, l’edizione si presenta addirittura soltanto con il progetto College - senza il Festival vero e proprio - proponendo al pubblico 26 nuove creazioni realizzate da più di 100 tra danzatori e coreografi selezionati tramite bando. Il Settore Teatro, diretto da Alex Rigola, ammette ai suoi programmi didattici 300 partecipanti, con l’obiettivo di inserire nella programmazione della manifestazione otto nuovi spettacoli. Infine, la Biennale Musica, guidata da Ivan Fedele, seleziona cinque progetti, della durata massima di 12 minuti,


YOOX+CREPACCIO. COOL PAVILION A VENEZIA Nel 2000 ha portato il prêt-à-porter nel mondo dell’e-commerce. Ora, tanto per restare nel campo di un lusso sempre più accessibile, tocca all’arte. Con la prima esperienza di Francesco Vezzoli nel campo del multiplo e con la partnership che vede sbarcare alla Biennale “Il Crepaccio”, eterodosso spazio milanese diretto da Caroline Corbetta. La parola a Federico Marchetti, fondatore di YOOX Group. Prima la moda, poi il design, ora l’arte: siamo nel campo di mercati tradizionalmente esclusivi, “democratizzati” da yoox.com attraverso la Rete. Fino a che limite si può spingere questo processo? Può arrivare potenzialmente all’infinito, e quindi aprire la strada anche a vendite di pezzi importanti, oppure è destinato a rimanere comunque confinato nel campo del multiplo e dell’opera seriale? Già col nostro prossimo progetto, Padiglione Crepaccio at yoox.com, a cura di Caroline Corbetta, trattiamo opere d’arte uniche realizzate da giovani artisti. L’intento è offrire loro un’ampia visibilità internazionale e accompagnarli nel mercato. Il ruolo delle gallerie è fondamentale e imprescindibile, ma in questa fase di cambiamento noi, con la consulenza di addetti ai lavori seri e preparati, possiamo funzionare come una vetrina complementare nel sistema dell’arte, avvicinando a esso persone che fino a oggi non lo frequentavano. Una nuova opportunità, quindi, sia per i giovani artisti, che vedono moltiplicata esponenzialmente la possibilità di farsi conoscere e vendere le proprie opere in tanti Paesi, sia per un pubblico di utenti a cui viene data finalmente la possibilità di accedere all’arte in maniera più diretta e meno elitaria, da qualunque città e in ogni momento. Il primo progetto nato su misura per yoox.com è stato firmato da Vezzoli e aveva il pedigree del valore umanitario, per una raccolta fondi a sostegno dell’Emilia. Come è nato il contatto con l’artista e come avete lavorato a questo programma? Ho scritto una letterina a Francesco Vezzoli prima dell’estate invitandolo a collaborare per un pro-

presentati ciascuno da un musicista, un librettista, un regista e uno scenografo. Nessun programma didattico in vista per quanto riguarda le Arti Visive e l’Architettura, anche se il Presidente della Biennale, Paolo Baratta, ha dichiarato che ci sono lavori in corso in questa direzione. Non resta che aspettare. E incrociare le dita. Valentina Tanni www.labiennale.org

La MuseumsInsel di Barcellona? Sarà sulla montagna del Montjuïc. Firmato lo storico accordo fra istituzioni, musei, fiera e Fundación La Caixa. Al Paseo del Arte di Madrid, alla MuseumsInsel di Berlino, al Museumsquartier di Vienna si aggiungerà presto una Montaña de los museos. Potrebbe essere questo il nome che identificherà il futuro urbanistico-culturale di Barcellona, che vedrà le maggiori strutture pubbliche e private concentrarsi sulla celebre montagna di Montjuïc. Il primo passo è l’accordo firmato dal sindaco di Barcellona, ​​Xavier Trias, dal Ministro per la Cultura Catalana, Ferran Mascarell, dal presidente del Museo Nazionale d’Arte della Catalogna (MNAC), Miquel Roca, dal presidente della Fundación La Caixa, Isidro Faine, e dal direttore generale della Feira de Barcelona, ​​Cord Agustí. L’accordo prevede la creazione di una rete dedicata alla cultura, basata sulla concentrazione di strutture museali già presenti: l’obiettivo è definire una gestione integrata, con il coordinamento della programmazione, del marketing e delle proiezioni internazionali. Semplice, virtuoso, produttivo. Massimo Mattioli

getto natalizio: gli ho proposto di devolvere l’intero ricavato della vendita al FAI per il recupero del campanile del municipio di Finale Emilia e lui ha realizzato il suo primo multiplo in esclusiva per yoox. com in 399 esemplari a 399 euro l’uno. Con Amore, Francesco Vezzoli (Francesco by Francesco) è stato visualizzato da circa 2 milioni di persone in tutto il mondo su yoox.com solo nella settimana del lancio, oltre 70mila persone hanno seguito l’intervista su Facebook e centinaia di articoli sono stati pubblicati nelle più rilevanti testate nazionali e internazionali e sui media online, un’idea del concerto comunicativo che YOOX crea a sostegno dei propri progetti, raggiungendo un pubblico sempre più ampio. Ora tocca al Padiglione Crepaccio at yoox.com, che sembra fondarsi su una dinamica fortemente e orgogliosamente local: parte da una trattoria sui generis, ma comunque una trattoria, e coinvolge artisti squisitamente “veneziani”. Si tratta di un cambiamento di rotta oppure di una sintesi glocal rispetto a quanto avete proposto finora? Insieme al Crepaccio sbarchiamo a Venezia dando visibilità a una selezione di giovani artisti locali con un Padiglione che prende vita in due mondi attigui e contemporanei: la mostra allestita a Venezia nei tre giorni della vernice della Biennale (29-31 maggio) e la vetrina di yoox.com dove sarà possibile vedere e acquistare le opere esposte per tutta la durata della Biennale (fino al 24 novembre). Sempre online, si potranno trovare approfondimenti sugli artisti, immagini e altri contenuti inediti. In un’edizione molto promettente per la scena italiana (Gioni, direttore della biennale che ha invitato diversi artisti nostrani, il Padiglione Italia con nomi molto forti) ci è sembrato sensato co-produrre questo progetto dedicato ai talenti locali, contribuendo al rafforzamento del sistema Italia. YOOX in questi tredici anni ha accorciato il “digital divide” del made in Italy (prima nella moda, poi nel design e ora anche nell’arte) nei confronti dei più avanzati Stati Uniti d’America. Siamo un agente di cambiamento del sistema, oltre a un

LAP TAB

formidabile strumento di export, visto che l’85% del nostro fatturato è all’estero partendo dall’Italia. Dopo Venezia quali progetti avete in mente in campo artistico? Un incredibile e fantasmagorico progetto di Natale… stay tuned! FRANCESCO SALA www.yoox.co

di ALFREDO CRAMEROTTI

BUT DOES IT FLOAT I sottotitoli dei vari contributi visivi di questo sito basterebbero a farlo entrare nella lista. Frasi o epigrafi tratte da libri, saggi o poemi, come: “With all my ideas and follies I could one day found a corporate company for the propagation of beautiful but unreliable imaginings” (Jakob von Gunten / Robert Walser); “How can you hide from what never goes away?” (Eraclito), “Bring something incomprehensible into the world!” (Gilles Deleuze, immancabile); “I secretly think reality exists so we can speculate about it” (Slavoj Žižek, altro immancabile); “One perceives all created things - solids, liquids, gases, electricity, energy, all beings, gods, men, animals, plants, bacteria - as forms of consciousness” (Paramahansa Yogananda); “The Metropolis strives to reach a mythical point where the world is completely fabricated by man, so that it absolutely coincides with his desires” (Rem Koolhaas, terzo immancabile). E via così. In termini propagandistici funziona, eccome. Se poi si aggiunge che la parte visiva è curata magnificamente, e che molti darebbero un braccio per riuscire a mettere assieme certe chicche, capirete perché questo numero sia dedicato a But Does It Float. I tre baldi giovani (si fa per dire) dietro il progetto sono Folkert Gorter (interactive designer, olandese, di base a Los Angeles dove manda avanti uno studio che di nome fa Superfamous), Atley G. Kasky (un altro designer che ha fondato lo studio grafico Outpost, anche questo a Los Angeles) e Will Schofield, il cui blog 50watts.com si autodefinisce come la più ricca collezione di design e illustrazioni relative al libro dell’intero universo. Giusto per dare il senso della misura. Se l’autoreferenzialità dei tre autori non vi disturba, vi invito a dare un’occhiata alle varie collezioni, e a perdervi al loro interno. Non sono molte, e ognuna vale il tempo che ci metterete: architecture (36 selezioni), generative art (38 selezioni, una collezione particolarmente buona di una forma d’arte largamente sottovalutata), collage (58 selezioni), drawing (123 selezioni), typography (118 selezioni), sculpture (54 selezioni), photography (251 selezioni), painting (221 selezioni). Non ce n’è una che sia sottotono. Selezioni curatissime, graficamente ineccepibili, con titoli mai banali e molte volte illuminanti (un altro esempio? I hoped for nothing. And yet I lived in expectation, Stanislaw Lem). Ogni selezione è un breve portfolio di nomi o progetti famosi, storici e contemporanei, mescolati con completi sconosciuti che non solo reggono la vicinanza e il paragone, ma che sembrano indicarci quanto ci siamo persi finora. Una miniera di suggerimenti, già filtrati e messi in ordine. Se tra qualche tempo li trovassi in giro per mostre e biennali non mi sorprenderei. www.butdoesitfloat.com

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GADGET SERIALI

La popolarità delle serie tv sta cominciando a insidiare quella dei blockbuster cinematografici. Storie affascinanti, attori d’eccezione, sceneggiature da Oscar. E il valore aggiunto della suspense, che tiene gli spettatori incollati allo schermo settimana dopo settimana. Per i fan più accaniti, c’è anche la possibilità di portarsene un pezzetto a casa. di VALENTINA TANNI

OCCHIALI ASSASSINI Dexter, protagonista dell’omonima serie tv, di professione fa l’ematologo nel dipartimento omicidi di Miami. Di notte, però, si trasforma in un efferato serial killer. Il brand americano Look/See gli ha dedicato questo sanguinolento paio di occhiali in edizione limitata, che arriva dentro una custodia in legno piena di vetrini. www.lookseegoods.com

LEGGERE ATTENTAMENTE LE ISTRUZIONI Ancora poco nota in Italia (in assenza di una versione doppiata), The It Crowd è un cult nei Paesi anglosassoni, dove la sitcom dedicata ai maltrattati impiegati del reparto informatico di una grande azienda conta schiere di fan. Che non mancano di comprare le magliette indossate da Roy, nerd dall’inconfondibile accento irlandese. La più gettonata? Quella con la sigla “RTFM”, che sta per “read the fucking manual”. www.meta-cortex.com

UNA NOTTE A TWIN PEAKS Chi non ricorda la storia di Laura Palmer, giovane morta in circostanze misteriose in una sinistra cittadina di montagna statunitense? La serie tv capolavoro girata da David Lynch nei primi Anni Novanta ha affascinato (e spaventato) un’intera generazione. Per ricordarla, si può acquistare una replica del portachiavi del Great Nothern Hotel, location dove molte scene sono state girate (e dove alloggiava l’agente Dale Cooper). www.etsy.com/shop/piediddy

NAMASTÉ. E BUONA FORTUNA Più che una serie tv, un gigantesco gioco di società. Lost, storia di un gruppo di naufraghi precipitati su un’isola in seguito a uno spettacolare disastro aereo, ha tenuto attaccato agli schermi milioni di persone per oltre sei anni. Tra gli oggetti simbolo del telefilm c’è questa tuta da lavoro targata Dharma, misterioso istituto di ricerca con base sull’isola. www.amazon.com L’ORA È CONTAMINATA In un episodio della terza serie di Breaking Bad, Walter e Jesse sono alle prese con un pericoloso agente “contaminante” che si aggira nel loro laboratorio (i due producono clandestinamente metanfetamine): un’inafferrabile mosca. Questo orologio, prodotto dalla Vannen Watches, rievoca l’ormai leggendaria puntata. www.vannenwatches.com MORRA ALIENA The Big Bang Theory è la serie preferita dai nerd di tutto il mondo. I suoi protagonisti, ricercatori in fisica all’Università di Pasadena, sono diventati il simbolo di un’intera generazione, cresciuta a computer e fumetti. Rock Paper Scissors Lizard Spock è la loro rivisitazione del classico gioco della morra cinese. Con una spruzzata di Star Trek. www.thinkgeek.com

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CONSIGLI

WALKIE TALKIE DAL FUTURO Per gli appassionati di fantascienza, Star Trek è molto più di un telefilm: è uno stile di vita. I gadget ispirati alla serie non si contano, tra magliette, spille e armi di vario genere. E c’è addirittura chi ha pensato di replicare il mitico Communicator, futuristico device usato dal Capitano Kirk e soci per contattare altre navi spaziali in orbita nelle vicinanze. www.thinkgeek.com

ZOMBIE DA COCCOLARE Ci sono narrazioni che non smettono mai di affascinare. Come quelle incentrate sui morti viventi, protagonisti di decine di film, libri e fumetti. L’ultima storia di zombie, in ordine di tempo, è quella raccontata da The Walking Dead, telefilm ispirato all’omonimo comic book. Tra i numerosi gadget del merchandising ufficiale ci sono anche questi buffi e soffici pupazzi. www.amazon.com

LO SPIONCINO INCORNICIATO Friends è la mamma di tutte le serie tv, oltre che una delle più longeve (conta dieci stagioni e uno spin-off). Nonostante l’ultimo episodio sia andato in onda nel lontano 2004, il telefilm continua a essere trasmesso dalle emittenti di mezzo mondo. E chiunque l’abbia vista non può non ricordare questa cornicetta gialla, attaccata sulla porta dell’appartamento di Rachel e Monica. www.cooltvprops.myshopify.com

CHI VA CON LO ZOPPO… Gregory House è uno scorbutico genio della medicina con un senso dell’umorismo infallibile. Bello (antipatico) e impossibile, nelle otto serie andate in onda tra il 2005 e il 2011 ha salvato centinaia di pazienti e distrutto altrettante relazioni. In Rete è possibile acquistare una replica esatta del suo famoso bastone, in versione classica o sportiva con fiamme. www.fashionablecanes.com


ARTISTI INNANZITUTTO

Siamo in pieno periodo Biennale di Venezia. E allora torniamo all’origine, ovverosia agli artisti. Perché, al di là della critica e del sistema, delle riviste e dei musei, dei curatori e delle biennali, sono loro il fulcro dell’arte. Ma di monografie interessanti non è che se ne stampino poi così tante. Qui trovate una selezione di must have. di MARCO ENRICO GIACOMELLI

IN 14 PER BARNEY Una dozzina di contributi, più due conversazioni (con Pao-lo Fabbri e Omar Calabrese) a proposito della simbologia massonica e del neobarocco. Proprio quest’ultima è una delle tre direttrici seguite da questa monografia curata da Nicola Dusi e Cosetta G. Saba. Le altre due sono il polimorfismo e la multimodalità. Matthew Barney - Silvana Editoriale

EDIFICARE PER IWAN BAAN Lui è uno fra i migliori fotografi di architettura. Ha saputo equilibrare con sapienza e autorialità la componente documentaria e quella autoriale. Il libro dedicato allo slum verticale Torre David, Leone d’oro alla scorsa Biennale di Venezia (architetturà però), lo testimonia con dovizia di particolari. Torre David - Lars Müller

STUDIO AZZURRO SUL PALCO Gruppo fondato a Milano nel 1982, Studio Azzurro è oramai celeberrimo, ma le sue vicende sono state alterne. Il libro curato da Noemi Pittaluga e Valentina Valentini ne ripercorre la storia, focalizzandosi sugli sconfinamenti - se così si può dire - nell’ambito delle arti performative. Fra Beckett e Keplero. Studio Azzurro - Contrasto

ATTUALITÀ DEI PRERAFFELLITI Si fregia di una prefazione di Sgarbi, questo libro che si volge alla stagione dei preraffaelliti. Saggi che indagano l’opera di Dante Gabriel Rossetti e Edward Burne-Jones, di Whistler e dei Nazareni, con focus su aspetti specifici e temi portanti. Dal mito di Orfeo al mosaico romano a San Paolo entro le mura. Maria Teresa Benedetti Preraffaelliti - De Luca

LA CRITICA SECONDO JEFF WALL Che sia uno dei fotografi più influenti degli ultimi decenni, difficile metterlo in dubbio. Ma è per certi versi una scoperta il Jeff Wall critico. Che si tratti di riflessioni più centratamente rivolte alle questioni teoriche fotografiche, o ancor più di saggi sull’opera di Dan Graham e Manet, On Kawara e Stephan Balkenhol. Jeff Wall - Gestus - Quodlibet

MICHELANGELO, MA CONSANI Nome importante, quello di cui si può vantare l’artista di Livorno classe 1971. Questa piccola monografia, uscita in occasione di una personale al CAMeC di La Spezia, è anche la prima pubblicazione di Kunstverein Publishing, dipartimento editoriale del progetto critico e curatoriale con sede ad Amsterdam e New York. Michelangelo Consani - Kunstverein

CAROL: BASTA IL NOME Casta, sfrontata, stella. Tre aggettivi per un sottotitolo. Tre aggettivi scelti da Gianna Besson per inquadrare, se mai fosse possibile, una personalità vulcanica, che ha reso Torino una città meno stereotipicamente sabauda. Un testo agile, una biografia informata, e insieme tante fotografie memorabili. Gianna Besson - Carol Rama - Prinp

BASEMAN SECONDO GIROMINI Il primo è il re del Pop Surrealism, il secondo - fra le mille altre cose - è l’autore della rubrica Opera Sexy su questo stesso giornale. Insieme hanno confezionato un libro che è un piacere prima di tutto tenere in mano, soppesare, sfogliare. Merito delle 279 editions di Franco Cervi, che sforna volumi di altissima qualità. Mono Baseman - 279

PER GLI ACQUISTI 23


NUOVO SPAZIO

B-A-D

PIETRASANTA

Tutto nasce con Margini, galleria di Massa fondata nel 2008 e che nel 2013 si trasforma in associazione culturale. Un passo indietro? Nient’affatto. Perché le iniziative raddoppiano e prende vita anche b-a-d, nuovo progetto basato a Pietrasanta. Qui i dettagli raccontati dai protagonisti. Da chi nasce questa nuova iniziativa? b-a-d nasce dall’esperienza di Margini arte contemporanea di Massa, con il proposito di allargare le possibilità di nuovi contatti che Pietrasanta può offrire, soprattutto nel periodo estivo. Avete aperto in funzione di quali motivazioni? b-a-d presenterà un programma molto diverso da Margini, che continua la propria programmazione, cercando soprattutto di inserirsi nel territorio, stimolando contatti con il mondo artistico locale anche con la presentazione di mostre come Systems and accidents, che abbiamo “importato” da Ex Elettrofonica di Roma. Dopodiché, sono in programma altre partnership? Riteniamo molto utile questa esperienza. È un peccato che mostre di qualità, che hanno un costo organizzativo, debbano durare un periodo limitato e non possano essere viste da chi non vive in una certa città. Non tutti, anzi molto pochi hanno il tempo e i mezzi per girare l’Italia visitando le gallerie, per cui speriamo di ripetere questa operazione anche con altri. L’idea è di far girare le mostre, non le persone. Qualche cenno ai vostri spazi espositivi… Lo spazio è in centro a Pietrasanta e occupa un ex laboratorio di marmo come ce n’erano tanti in Pietrasanta. Ha una saletta d’ingresso e un grande spazio ben illuminato che dà su una corte che sarà utilizzata come spazio espositivo all’aperto. E ora anticipazioni sulla stagione estiva, fondamentale nella vostra area. Cosa proporrete? A seguito della ricerca di collaborazione e contatto con il mondo artistico toscano, è in programma una mostra con Something Like This di Firenze e, a partire dal 15 giugno, project room a cura di Enrico Mattei: quattro mostre di giovani artisti legati dalla origine apuo-versiliese, ma che lavorano in contesti e con modalità molto diverse. Piazza Crispi 10 335 306715 bad.contemporary@gmail.com - b-a-d-temporaneo.blogspot.it

BRAIN DRAIN

E poi i falliti sono loro! Grecia e Cipro battono l’Italia quando si tratta di investimenti in cultura Per far fruttare un intero comparto dovrai pure investirci qualcosa: se non lo fai, con quale coraggio puoi bocciarlo come improduttivo? Morale della favola: se con la cultura vuoi mangiare, qualcosa devi spendere, e l’Italia questo non lo fa. La scoperta dell’acqua calda trova il tragico conforto dei numeri, con la diffusione dei dati Eurostat sulla spesa pubblica dell’Unione allargata, quella a 27 Stati, tanto per capirci: responso non aggiornatissimo, visto che si riferisce al 2011, ma sufficiente a dare un’idea degli orientamenti dei diversi Paesi. E a chiarire dove se ne va quel 49,1% del prodotto interno lordo fagocitato ogni anno dalla voracità della macchina pubblica. Italia ultima per investimenti in cultura. E non si tratta di un’iperbole che enfatizza l’essere ai piani bassi della graduatoria: significa essere ultimi. Nessuno peggio di noi. Non la Slovacchia, non Malta e nemmeno Cipro o la Grecia. L’Italia, che mette a bilancio per la cultura solo l’1,1% del PIL, a fronte di una media europea assestata sul 2,2%. Non tantissimo, in fin dei conti, ma esattamente il doppio rispetto a quanto si faccia da noi. Su altre voci, al contrario, superiamo gli standard europei, ma anche in questo caso non c’è da andarne fieri. Il 17,3% di quanto produciamo se ne va in “servizi pubblici generali”, capitolo che contempla anche i famigerati interessi sul debito. La media dell’Unione allargata si aggira sul 13,5%, la Grecia fallita sfonda il 24%. Come a dire: siamo quasi a metà strada. Metà strada verso il baratro. Francesco Sala

di NEVE MAZZOLENI

ELISA TOSONI | MILANO  ZURIGO È partita da Milano, ma prima di arrivare a Zurigo ed è ancora una tappa del viaggio - è passata prima da Londra e poi dalla Scandinavia. Vera e proprio cervello globetrotter, Elisa Tosoni è una curatrice indipendente dalla solida formazione universitaria. Perché la Norvegia? La chiamata per una residenza di due mesi, finanziata, presso il Nordisk kunstnarsenter Dalsåsen è stata una bella sorpresa, perché sono stata selezionata su 690 candidati! Con me in residenza, altri cinque fra artisti e designer provenienti da Oslo, Bergen, Amburgo e Vancouver, ospiti del centro disegnato da Haga & Grov a metà Anni Novanta, sul Sunnfjord. Attualmente sono invece in residenza a Zurigo. A settembre tornerò per qualche giorno a Dale per parlare di migrazione artistica in un simposio a NkD, su invito del Sogn og Fjordane Museum of Fine Art. Cosa hai fatto lì? In una località così remota non si punta sul networking ma sulla sinergia di gruppo. Ho abbozzato una ricerca sulla videoarte norvegese e aperto un blog, fra il diario di viaggio e lo spazio di critica. Ho cercato di comprendere il sistema norvegese, che valorizza le istituzioni e al contempo investe molto su artisti e curatori indipendenti, sostiene i project space, la ricerca e le residenze sul territorio. Il contatto con questa best practice, in un’Europa che taglia fondi invocando l’austerity, mi procura frustrazione ma anche speranza.

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NEWS

Come si vive la cultura in Scandinavia? In Norvegia e Svezia il tempo libero è sacro e persino per gli operatori culturali è raro lo “straordinario”. I pubblici sono eterogenei per età, ceto e interessi e l’arte contemporanea o l’andar per mostre non è qualcosa di elitario. I media invece seguono poco il dibattito culturale. Nelle istituzioni di arte contemporanea, educational, programmazione e outreach sono ancora datati rispetto agli omologhi nel Regno Unito.

fondi. Una cosa interessante è che la curatela indipendente non è riconosciuta a livello sistemico e non dispone di supporti, i freelance sono rari e spesso ripiegano su altre fonti di reddito. Le politiche conservatrici hanno indebolito gli artist run spaces e costretto i musei a negare fee agli artisti, nonostante le pressioni sindacali. Sono scarse le azioni private. Al contrario, in Norvegia i curatori accedono agli stessi fondi degli artisti e gli artist run spaces fioriscono con erogazioni triennali.

Come si formano i curatori? In Svezia l‘offerta va dall’International Master Programme in Curating Art with Management and Law presso la Stockholm University, che ho frequentato, a Curatorlab al Konstfack. In Norvegia c’è il master in Creative Curating alla Bergen Academy of Art and Design.

Perché hai lasciato l’Italia? A causa della frustrazione partii nel 2004 per studiare Fine Art alla University of East London. Dopo un paio d’anni di lavoro in Italia, ho fatto di nuovo le valigie nel 2010, alla volta di Stoccolma, dove la formazione è gratuita. Quest’anno, oltre a Dale e Zurigo, sarei stata invitata da altre due residenze, in Svezia e Sud Corea, ma non trovo finanziamenti: come curatrice italiana ho già battuto tutte le piste disponibili. Quindi cerco un lavoro, ma mi rimane il sogno di aprire una residenza artistica.

Quali le opportunità? Per la Svezia, il MAE eroga due borse di 8 mesi, aperte anche ad artisti ma spesso assegnate a profili scientifici, o PhD e post-doc. Segue l’Istituto Lerici, con borse per periodi di ricerca culturale con partner istituzionali svedesi. I PhD artistici, ottimi al Royal Institute of Arts, sono stipendiati e durano 3-4 anni. Dopo tre anni come residente, lo studente straniero fruisce di agevolazioni come fosse svedese. Il principale ente erogatore per artisti è la Swedish Arts Grants Committee, di cui fa parte la residenza internazionale IASPIS, dove ho lavorato: solo il 25% delle domande pervenute però ottiene

Soluzioni per il sistema italiano? L’ideale sarebbe un sistema culturale ibrido, che introduca best practice di stampo scandinavo e anglosassone. Utopia! oneyearofcuratorialresidencies.wordpress.com Il prossimo cervello in fuga sarà Antonio Geusa


PER DOVERE DI CRONACA

di GIACINTO DI PIETRANTONIO

IMMIGRATI AL MUSEO Qualche mese fa mi recai alla Galleria Minini di Brescia, dove incontrai il titolare Massimo che, dopo la visita alla mostra allora in corso, mi fece accomodare nel suo ufficio per un’amabile e interessante chiacchierata. Come sempre da qualche anno a questa parte, Massimo dopo un po’ che sei con lui tira fuori il suo iPad e ti mostra alcuni appunti di cose che sta scrivendo. Quello che sto raccontando potrebbe avere delle imprecisioni, in quanto è passato diverso tempo e i ricordi si sa sono mutevoli, in ogni modo quella volta mi fece vedere appunti di un articolo che stava scrivendo, ma non so se poi l’abbia pubblicato e dove. Rifletteva su arte e migrazione, infatti il testo parlava di come gli extracomunitari la pensassero rispetto all’arte, non solo all’arte moderna e contemporanea, ma soprattutto nei confronti del nostro grande patrimonio antico. Ricordo che leggeva e diceva: “Ma noi che lavoriamo e difendiamo l’arte, dovremmo interessarci di cosa pensano gli altri popoli migranti che vivono e sempre più numerosi da noi e a cui non interessa l’arte come interessa a noi”. Nel dire questo si riferiva soprattutto a quel mondo musulmano che vive da noi e che non entra nelle gallerie d’arte, ma neanche nei musei. Insomma, l’interesse di Minini era come interfacciarsi con essi e come l’arte può servire ad aprire un dialogo. Naturalmente è una questione di cui noi sappiamo poco, anche se il mondo arabo si va sempre più aprendo alla nostra arte antica, moderna e contemporanea, come dimostrano le iniziative in proposito di aprire musei in partnership con il Louvre, il Pompidou, il Guggenheim, o le varie Biennali e fiere in crescita. Ma l’interesse di Minini per questo nostro e loro mondo in evoluzione non è campato in aria e difatti è proprio di qualche mese fa la notizia che da Doha, Qatar, l’emirato più illuminato, sono state rispedite a o richiamate a casa due statue greche a cui le auto-

rità locali volevano mettere le mutande come cinquecento anni fa da noi fece Daniele da Volterra con le pitture della Cappella Sistina di Michelangelo dietro ordine del Papa stilista, nel senso di menswear, Pio IV. Detto ciò, queste riflessioni sono anche la spia di una questione più ampia che non riguarda solo l’arte e che è riemersa con forza in questi giorni con il dibattito sullo ius solis che continua a dividere i cittadini tra rimandare a casa gli immigrati e integrarli. A me non piace parlare delle mie cose, ma in questo caso si rende necessario e capirete da quanto segue qui sotto perché è una risposta non banale sulla questione, e anzi fa capire molto di quel e questo mondo e anche di come l’arte, soprattutto quella contemporanea, può aiutare in questa discussione. Insomma, è pure una risposta all’eterna domanda: a cosa serve l’arte? Come forse molti sanno, la GAMeC nel 2007 ha formato dei mediatori museali, vale a dire persone di 30 nazionalità e lingue diverse che vivono a Bergamo e provincia, il cui compito è di portare e guidare i propri connazionali alle mostre della GAMeC e dell’Accademia Carrara. La storia della libanese Maedeh Ziarati è esemplare in tal senso e per questo vale la pena di fargliela raccontare. È una mediatrice museale che arriva in Italia nel 1991 dopo aver preso una laurea in Biologia presso l’American University of Beirut e insegnato scienze biologiche in una scuola media, mentre da noi ha intrapreso la strada della mediazione lavorando molto in campo sociale: in carcere, nella scuola, nell’ospedale e ora sta tenendo un seminario per gli studenti dell’Ateneo di Bergamo, iscritti al corso di Diritto Internazionale. Ecco cosa ha raccontato della sua esperienza alla responsabile dei servizi educativi GAMeC, Giovanna Brambilla, che le ha chiesto se esiste un episodio del suo lavoro come mediatrice museale che la ha molto colpita: “La mia prima visita l’ho fatta per quindici

donne arabe/marocchine. Tutte erano alla loro prima visita a un museo. Sentivo la loro agitazione e curiosità. Il personale della GAMeC è stato meraviglioso, le ha accolte molto bene e si sono sentite a loro agio. Sentivo la loro agitazione svanire man mano che la visita proseguiva. Tutto era bello, tutto nuovo, tutto meritava la loro attenzione. Ma davanti all’opera di Pistoletto, ‘Venere degli stracci’, le donne si sono impietrite in un primo momento. Mi raccomandavano di non dire niente ai mariti! Ma dopo un attimo d’imbarazzo, la complicità femminile si è fatta avanti e sono cominciati gli scherzi e il divertimento. È come se quest’opera le avesse fatte sentire a loro agio. Strano ma vero. Il fatto che mi ha reso ulteriormente contenta sono state le mail di complimenti che ho ricevuto da alcuni educatori, mediatori e formatori che erano lì al momento della mia visita e che sono rimasti colpiti dalle espressioni di felicità delle donne. L’hanno descritta come una visita ‘storica’. Queste donne sono tornate altre due volte al museo; una volta con i mariti e un’altra volta con un’altra educatrice del museo. Un altro episodio che mi piacerebbe raccontare è quello di gruppo di donne marocchine, sempre alla loro prima visita a un museo, e particolarmente di una di loro che è rimasta colpita in un modo esagerato dall’opera di Dorazio ‘Verso il raffreddamento’. Non staccava gli occhi e rimaneva sempre davanti al quadro a guardarlo e mi faceva delle domande per cercare di capirlo. Di sera mi chiama per ringraziarmi per averle regalato un’emozione indimenticabile e per aver spezzato la monotonia della sua vita in un modo bello. Le sue parole mi hanno fatto capire come l’arte può accorciare le distanze fra le persone a prescindere dalle loro appartenenza”. Ho voluto raccontare questa esperienza perché credo dia molte risposte alle domande di Massimo, ma anche di tutti noi. Come sempre, sono domande di arte e vita.

Architetto 28enne realizza nuovo museo d’arte contemporanea. E, notizia nella notizia, siamo in Italia. Alla ex Civica di Trento

litativi elevati e indipendenza nelle scelte. Queste almeno le modalità adottate da Documenta Kassel, il cui CEO Bernd Leifeld ha comunicato la composizione della commissione. A circa quattro anni dalla data dell’evento, ma questi sono i tempi che gli standard internazionali adottano, Italia esclusa. E di certo il gruppo di saggi non sarà chiamato a un impegno “simbolico” e meramente consultivo: lavoreranno intensamente alla ricerca e all’indirizzo, tanto che si sono già incontrati proprio a Kassel, con altri due appuntamenti già previsti nel 2013. Chi sono dunque i prescelti? Si va da Suzanne Cotter, direttrice del Museo Serralves di Porto, a Chris Dercon della Tate Modern di Londra, Susanne Gaensheimer del Museum für Moderne Kunst di Francoforte, Kim Honghee del Seoul Museum of Art, Koyo Kouoh del Raw Company Materiale di Dakar, Matthias Mühling, curatore e futuro direttore della Galerie im Lenbachhaus di Monaco di Baviera, Joanna Mytkowska del Museo di Arte Moderna di Varsavia, Osvaldo Sánchez, direttore di inSite05 di Città del Messico. Le indicazioni saranno rese note nel novembre del 2013, per poi essere sottoposte al consiglio di sorveglianza di Documenta.

C’è un Paese che aumenta la spesa in arte del 10%. Non è Bengodi, sono gli Stati Uniti: Obama risarcisce i tagli al bilancio federale praticati con l’ultima “budget sequestration”.

L’avevano data quasi tutti per spacciata. L’accorpamento con il Mart sembrava l’ultima possibilità di riscatto per la Galleria Civica di Trento. E così è stato, con tanto di concorso lanciato a marzo di quest’anno per ridisegnare gli spazi della sede di via Belenzani. A essere invitati, un pool di architetti trentini under 35. Un ventata di aria fresca. La commissione si è poi riunita al Mart di Rovereto per analizzare i 32 progetti presentati dagli architetti invitati. Un semplice restyling o qualcosa di più? Vincitore è risultato Stefano Grigoletto, giovanissimo architetto di Rovereto classe 1985, con un’idea che ripensa radicalmente lo spazio, cercando di trovare un equilibrio tra le esigenze di flessibilità espresse dalla committenza e la necessità di imprimere un forte segno dal punto di vista formale. A seguire la nuova Galleria sarà Margherita De Pilati, già curatrice di diversi eventi al Mart, che assicura: fra arte dell’Ottocento e del Novecento, anche una sezione riservata all’architettura. Staremo a vedere. Zaira Magliozzi www.mart.trento.it

I saggi di Documenta. Chiamata diretta stile Gioni? No, a Kassel il direttore lo sceglie (quattro anni prima) una commissione di super-esperti Come si sceglie il direttore artistico di una fra le più importanti rassegne internazionali d’arte contemporanea? Affidandosi a un comitato di super-esperti scelti fra i responsabili delle maggiori istituzioni mondiali, capace di garantire livelli qua-

d14.documenta.de

Restituisce il maltolto e lo fa con tanto di interessi, consapevole della rilevanza che il comparto della cultura ricopre all’interno del sistema Paese. Ha dovuto chiedere sacrifici, ché la crisi picchia duro un po’ ovunque; ma alla prima occasione utile, invece di fare orecchie da mercante come accade da altre parti tipo le nostre -, mette mano ai cordoni della borsa. E come ogni bravo debitore, rende quel qualcosa in più che gratifica il creditore: Barack Obama ne ha fatta un’altra delle sue. Il budget federale a sostegno dell’arte crescerà per il prossimo anno finanziario, che si inaugura il prossimo mese di ottobre, del 10%. Là dove in molti tagliano, lui cuce: recentemente aveva sottratto ai National Endowment - che si occupano di foraggiare le tre istituzioni culturali federali - una cifra che si aggirava attorno ai 700 milioni di dollari; ora promette di restituire, nel prossimo anno fiscale, quanto preso. E di aggiungere una cifra pressoché analoga, il 4,5% del miliardo e 440 milioni di dollari quest’anno elargiti a Smithsonian, National Gallery di Washington e Kennedy Center for Performing Art. Francesco Sala

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APPROPOSITO ARTSONIA Si è imposta come la migliore applicazione per archiviare, condividere e collezionare opere d’arte per studenti di ogni età, ordine e grado. La forza di Artsonia sta soprattutto nei numeri: 20.590.274 opere, 4.033.316 inserite soltanto nell’ultimo anno scolastico, con oltre 23mila disegni caricati in un giorno. Utilizzata anche dagli insegnanti, permette di tenere traccia della creatività. I genitori la usano per tenere un archivio dei disegnini che i figli regalano in occasioni disparate: al ristorante, in fila dal dottore, ma anche nel laboratorio didattico del museo. E gli insegnanti la sfruttano per monitorare i progressi delle classi e creare “mostre virtuali”. È possibile visionare i disegni partendo dall’ordine scolastico (o pre-scolastico), dalla provenienza geografica o dalla singola scuola. Interessante anche la possibilità di creare oggetti a partire dai disegni caricati (o scelti): un gift shop del tutto particolare. www.artsonia.com/apps costo: gratis piattaforme: iPhone, iPad, iPod Touch

di SIMONA CARACENI

DJ SPOOKY Paul D. Miller (a.k.a. DJ Spooky That Subliminal Kid) è da tempo resident artist al Metropolitan Museum di New York. In questa veste ha programmato un evento per il prossimo 21 giugno, data da segnare in agenda. Durante il suo show, che avverrà nel museo, chiederà a tutti i suoi fan di creare un unico, irripetibile mix dei suoi campioni live, durante il concerto, utilizzando la sua app, generando così il primo evento di musica generativa al mondo. I posti per lo show sono limitati, ma il costo è di soli 30 dollari. La serata fa parte della rassegna The MET Reframed, che ha coinvolto il poliedrico musicista in una serie di esperimenti, dibattiti e ricerche volte a ridefinire l’immagine del museo americano. Per chi non potrà esserci, tutti gli eventi verranno trasmessi in streaming dal sito web ufficiale del Met. www.djspooky.com costo: gratis piattaforme: iPhone, iPad, iPod Touch

GESTIONALIA

di IRENE SANESI

FUNDRAISING, FRIENDRAISING, PEOPLERAISING “Give a little Tate. Membership is a perfect gift”, recita una captatio benevolentiae sul sito della Tate, cogliendo il senso della relazione fra il museo e l’altro, con una comunicazione praticata come processo sempre più sperimentale, per stimolare curiositas e attaccamento. Il tema delle alleanze in ambito culturale è di grande attualità. Se volessimo schematizzare il rapporto fra attori in relazione ai risultati, osserveremo la seguente situazione:

Rapporti di scambio

Rapporti di partnership

Creazione di un’unità

Nei rapporti di puro scambio, l’intenzionalità alla collaborazione è data quasi esclusivamente da un interesse utilitaristico (produzione-distribuzione-acquisto). Quando gli attori del processo cominciano a operare, sempre uti singoli, ma sentendosi parte di un progetto che li accomuna, questo atteggiamento fa sì che ciascuno tenda a sviluppare competenze specifiche e al contempo complementari a quelle del gruppo, e il risultato si arricchisce sensibilmente in termini qualitativi (visione, prospettiva, alternative ecc.). La partnership è, in definitiva, il presupposto sostanziale e tecnico della creazione di un’unità. Lo stesso Friend raising (Amici del Museo) esprime una relazione stabile con i sostenitori incentrata “sulla relazione di reciprocità che fonda la sua ragione sulla capacità di generare esperienza comune e socialità attraverso la produzione e l’erogazione di specifici beni relazionali”. Alcune indicazioni per lavorare su un concetto ampio di fundraising: - cercare sia nomi prestigiosi (più solidi da un punto di vista finanziario e garanti di continuità) sia nomi emergenti (desiderosi di lanciare il proprio marchio e più flessibili e sensibili alle sperimentazioni) à consente la diversificazione del rischio, l’ampliamento dell’utenza degli investitori, l’accrescimento delle motivazioni interne nel creare formule differenziate per finanziatori diversi; - condividere fin da subito una carta di valori sulla quale costruire il network e il percorso di investimento à affidabilità, chiarezza, competenza, rigore, trasparenza: sono le caratteristiche da trasmettere fin dalla fase iniziale, così da legittimare il museo, la professionalità dei suoi operatori e gli obiettivi che insieme si vogliono perseguire; - individuare un coordinatore del progetto che rivesta anche funzioni di supporto motivazionale e stimoli periodicamente momenti di confronto à il calo di attenzione è un rischio che il museo non può e non deve correre nel rapporto con il finanziatore; - predisporre un’analisi quali-quantitativa delle ricadute economiche del progetto à l’accountability e gli indicatori su misura sono fondamentali sia verso il privato sia verso l’impresa (corporate fundraising).

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NEWS

HAPPY MUSEUM Dopo un anno di sperimentazione, in occasione della Giornata Internazionale dei Musei la Regione Marche ha rilanciato la app Happy Museum. Scaricabile da Apple Store, Android market e anche tramite i QR Code presenti all’interno dei musei marchigiani aderenti all’iniziativa, questa app si divide in tre parti. La prima si chiama Guida ai Musei e include tutti i musei aderenti all’iniziativa, la seconda è dedicata agli eventi temporanei e la terza è la Caccia al tesoro: al visitatore viene data la possibilità di partecipare a un divertente gioco virtuale che ha come obiettivo il ritrovamento di un tesoro nascosto all’interno del museo. Durante la visita, infatti (cinque i siti selezionati fra tutti i musei marchigiani), la app, tramite un software di realtà aumentata, invia al visitatore un segnale che indica la presenza di un misterioso oggetto da ricercare muovendo il proprio dispositivo nelle sale. www.musei.marche.it costo: gratis piattaforme: iPhone, iPad, iPod Touch, Android

Dall’installazione di Balkenhol alla retrospettiva sul primo Motherwell: ricco il programma della Fondazione Guggenheim, che in clima Biennale moltiplica gli appuntamenti. Allestendo in tutto il suo splendore la collezione Schulhof Fondazione Guggenheim? Presente! La Biennale di Venezia è occasione, per Palazzo Venier dei Leoni, per presentare al pubblico internazionale i suoi nuovi intriganti progetti espositivi. A partire dall’allestimento degli ottanta pezzi della collezione Hannelore e Rudolph Schulhof, donata in un primo tempo alla Fondazione Salomon Guggenheim e spostata nello scorso autunno in Laguna: imprescindibile una finestra sui Sixties - con Jasper Johns e i Fiori di Andy Warhol - per passare poi alla seduzione suscitata dai vari Afro, Alberto Burri e Giuseppe Capogrossi e arrivare alla più prossima contemporaneità di Anselm Kiefer e Anish Kapoor. Un lascito che trova casa, permanentemente, con vista sul Canal Grande; resta invece esposta fino a settembre, sulla roof terrace del museo, la Grande colonna con testa di Stephan Balkenhol. Focus a tema quello che accende l’attenzione sulla prima stagione creativa di Robert Motherwell: nella mostra curata da Susan Davidson, i lavori su carta e i collage che l’artista ha realizzato lungo tutti gli Anni Quaranta. Francesco Sala www.guggenheim-venice.it

Sul Passo del Brennero nasce il Museo di Fabrizio Plessi. Quando la sosta autostradale diventa esperienza culturale 13.000 mq in tutto, per una lunghezza di 55 metri e una larghezza di 30. Una grande teca di cristallo, sovrastata da una imponente copertura, che mette in comunicazione l’architettura con il paesaggio: all’interno, una sala a tutt’altezza, pensata come spazio espositivo, e una sala conferenze per incontri culturali e istituzionali, orientati soprattutto ai rapporti tra mondo italiano e mondo germanico.


Siamo infatti sul Passo del Brennero, a pochi chilometri da Bolzano, in prossimità del luogo in cui sorgeva la dogana tra Austria e Italia; e l’edificio che sta per vedere la luce è un museo dedicato a Fabrizio Plessi. Il progetto è promosso dall’Autostrada del Brennero Spa ed è il primo spazio museale che sorge su un tratto autostradale: progettato dall’ingegner Carlo Costa, l’edificio sarà un simbolo del dialogo antico e complesso tra il mondo mediterraneo e quello mitteleuropeo. Spazio culturale ma anche, vista la particolare location, parentesi di sosta dedicata ai viaggiatori, con tanto di punto ristoro e area di servizio. All’interno, un percorso espositivo curato dallo stesso Plessi, in cui si articolano installazioni video, sculture, disegni, pitture. Perno dell’allestimento è la grande installazione realizzata dall’artista nel 2000, in occasione dell’Expo di Hannover per celebrare l’Euregio, il progetto di collaborazione transfrontaliera tra regioni del Tirolo storico: un ambiente alpestre, animato da superfici elettroniche, da attraversare come un paesaggio montano artificiale. Un tocco speciale anche per gli arredi - tavoli, sedute, banconi da lavoro, scaffali in acciaio - tutti disegnati da Fabrizio Plessi. Helga Marsala www.autobrennero.it

Un Teatrino per Venezia. Tadao Ando recupera un nuovo spazio di Palazzo Grassi, destinato a spettacoli, eventi, concerti, conferenze. François Pinault non ferma la sua corsa in Laguna

NUOVO SPAZIO

GALLERIA HERNANDEZ

Non si può dire che non sia comoda da visitare, la galleria di Consuelo Hernandez. È infatti a pochi passi dalla Stazione Centrale di Milano. Lei è la figlia dell’artista venezuelano Simon Hernandez e, insieme alla connazionale Sheila Alvarado, hanno deciso di far conoscere l’arte latino-americana all’Italia. Come nasce la decisione di far nascere una galleria a Milano in questo periodo di crisi economica? La decisione è cresciuta naturalmente durante un percorso di vita personale e professionale sempre intriso d’arte. Il momento economico e politico indubbiamente non è dei migliori, ma purtroppo l’epoca in cui sono nata e gli avvenimenti che mi circondano non li ho potuti determinare. Se non si prova a realizzare i propri sogni a trent’anni, ovviamente calcolando anche i rischi, in seguito non ci si può nemmeno lamentare delle scelte non fatte o delle occasioni non afferrate. Inoltre, è nei momenti difficili che vengono realmente allo scoperto le qualità delle persone e delle idee. Chi c’è dietro la galleria? Il progetto della Hernandez Art Gallery è stato concepito interamente da me e dunque prende il mio cognome. Tuttavia non è stata un’idea puramente egocentrica poiché, da un lato, è un omaggio a mio padre Simon Hernandez, artista venezuelano radicato in Italia e deceduto quando avevo 18 anni: grazie a lui ho scoperto l’amore per l’arte. Inoltre il mio cognome richiama inevitabilmente l’America Latina e pertanto pone in luce la linea che ha galleria stessa, ovvero lo scambio culturale e artistico fra l’Italia e il Sudamerica. Il vostro focus è l’arte sudamericana. Avete riscontrato interesse per questo ambito a Milano? L’arte latino-americana non è conosciuta ed è sottovalutata a Milano, perché nessuno si è mai assunto l’incarico di promuoverla. Ora c’è l’Hernandez Art Gallery.

Procede inarrestabile la conquista del territorio veneziano da parte di François Pinault. Dopo il restauro di Palazzo Grassi nel 2006 e quello di Punta Dogana nel 2009, adesso un terzo traguardo: stavolta non uno spazio per mostre, ma un luogo per eventi scenici e appuntamenti culturali, annesso al museo di San Samuele. Non un museo, dunque, ma un teatro. Anzi, un Teatrino. Un luogo in cui ospitare concerti, conferenze, proiezioni video e cinematografiche, spettacoli, incontri. Anche qui l’artefice del progetto architettonico è l’archistar giapponese Tadao Ando, in continuità con i precedenti interventi commissionati da Pinault. In tutto 1.000 mq che accolgono un auditorium da 220 posti, con tanto di foyer, camerini, sala regia, cabina per traduzioni simultanee. Raffinate le apparecchiature e ideali le condizioni acustiche, per garantire prestazioni di alto livello: un ambiente perfetto, destinato ad accogliere tutta quella parte di attività non specificamente espositiva che il polo Palazzo Grassi-Punta della Dogana dedica agli eventi performativi, sonori, d’approfondimento e di dibattito. Si parte, in concomitanza con l’inaugurazione della mostra Prima Materia a Punta della Dogana, con un programma di film di artisti della Pinault Collection, ancora inediti in Italia: Loris Gréaud, Philippe Parreno e Anri Sala, quest’ultimo chiamato a rappresentare la Francia alla Biennale di Venezia 2013. Helga Marsala

sulla vitalità dello spazio architettonico, installazione che dialoga in maniera elastica e seducente con l’ambiente che la accoglie. Alla memoria della tradizione guarda invece il film di Jean-Baptiste Decavèle, che passa in rassegna i gioielli d’arte della famiglia Antinori, assunti a icona per raccontare l’evoluzione di un percorso imprenditoriale che trova le proprie ascendenze nel XIV secolo; al tempo, in senso lato e più magico, guarda infine anche l’intervento di Rosa Barba. L’artista gioca con una delle aperture circolari zenitali che si aprono sui cortili interni dell’azienda, per una installazione interattiva che si svela a seconda delle condizioni meteorologiche e alle variazioni della luce solare, in un affascinante balletto che si piega docilmente alle leggi della natura. Francesco Sala

www.palazzograssi.it

www.antinori.it

Nella nuova base dei Marchesi Antinori, in pieno Chianti classico, tre interventi esaltano la storia di un’azienda vinicola attiva fin dal XIV secolo

Biennale Giovani di Monza, cinque curatori (più un regista) per l’edizione numero cinque. Ospite l’Austria

C’è l’artista, l’architetto e il regista. Ci sono tre linguaggi differenti, che concorrono a raccontare una secolare storia di passione e di simbiosi profonda tra l’uomo e l’ambiente. È antico il rapporto tra la Cantina dei Marchesi Antinori e l’arte: affonda le proprie radici nel Rinascimento, con lo stemma di famiglia elaborato da Giovanni della Robbia e i progetti per i torchi usciti dalla scuola di Leonardo da Vinci. Una liaison che si rinnova con l’Antinori Familiae Museum, progetto che porta il contemporaneo negli straordinari spazi dell’azienda, nel cuore della zona di produzione del Chianti classico. Nel cuore dell’edificio disegnato da Marco Casamonti, avveniristica struttura interrata, Yona Friedman colloca la sua elegante Iconostasi: una riflessione

MILANO

In che spazio avete aperto? La galleria sorge negli spazi dell’ex Stamperia Linati, si sviluppa su due piani per un totale di 170 mq. Il piano superiore è assai lineare, pulito, quasi minimal, mentre il piano interrato è stato completamente restaurato mantenendo, anzi scoprendo, veri pezzi unici dell’antica Milano, volte a botte in mattoni con inserti di graniti lombardi e il pavimento è totalmente in serizzo originale dell’epoca. Via Copernico 8 338 5805011 info@galleriahernandez.com - www.galleriahernandez.com

Per raccontare le ultime tendenze del contemporaneo c’è chi guarda ai Paesi emergenti, come Turchia, India o Brasile. E chi sceglie di puntare al cuore della Vecchia Europa. L’Austria è ospite inatteso della quinta Biennale Giovani di Monza: una scelta che omaggia connessioni storiche e geografiche, condotte lungo l’asse che porta alla committenza asburgica della Villa Reale e alla felice stagione culturale della Milano di Maria Teresa; ma anche a quel ruolo antico e solo apparentemente sopito di terra di confine tra Occidente e Oriente, porta che filtra il flusso di genti, idee e culture. Il tutto vive sulla memoria del Premio d’Arte Città di Monza, bandito negli Anni Cinquanta e tornato dopo anni di silenzio per iniziativa dei Rotary locali, che ogni anno acquisiscono opere da donare alle

collezioni civiche. In cabina di regia Daniele Astrologo Abadal, responsabile scientifico di un pool di cinque curatori, ognuno dei quali chiamato a portare la propria selezione di sei nomi rappresentativi della scena italiana, cui si aggiunge naturalmente il sestetto di ospiti austriaci. In totale fanno trenta artisti, accolti al Serrone della Villa Reale fino al 28 luglio: un modello che rinsalda il rapporto fra artista e curatore, smarcando quest’ultimo dalle ambiguità attorno a un ruolo sempre più messo in crisi. Cinque visioni d’autore che da un lato ribadiscono il coraggio della scelta e accettano dunque il rischio della critica anche feroce, dall’altro rivendicano nell’individualismo di ciascun curatore il carattere non definitivo di una rassegna che punta più a farsi domande che a dare risposte. Niente enciclopedie, insomma, nessun intento generalista: that’s not all folks!... Ma c’è anche questo, ed è bene dare un’occhiata. I coach sono Filippo Maggia (curatore capo della Fondazione Fotografia di Modena), Laura Serani (condirettrice dei Rencontres de Bamako), Lorenzo Canova (docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università degli Studi del Molise) e il duo composto da Stefano Roffi (in forze alla Magnani Rocca) e Teresa Meucci. Dall’Austria ecco lo storico dell’arte Carl Kraus e Peter Weiermair, già direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Francesco Sala www.serrone.info

NEWS 27


anno iii

numero 13/14

www.artribune.com direttore Massimiliano Tonelli direzione Marco Enrico Giacomelli (vice) Claudia Giraud Helga Marsala Massimo Mattioli Francesco Sala Valentina Tanni comunicazione e logistica Santa Nastro pubblicità Cristiana Margiacchi +39 393 6586637 adv@artribune.com redazione via Enrico Fermi 161 - 00146 Roma redazione@artribune.com progetto grafico Alessandro Naldi stampa CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - 25030 Erbusco (BS) direttore responsabile Marco Enrico Giacomelli

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Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 15 maggio 2013

stereotipi su Lugano uno a uno, o

almeno li riposizioniamo nella luce corretta. Vedere i distretti per credere.

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Italiani brava gente? È il ritornello

che a lungo è stato cantato. Ma cosa accade ora in quella che chiamavamo Abissinia? Il reportage di Gea Casolaro.

dedicata al fondamentale comparto dell’educational. A comporla, il trio formato da Antonello Tolve, Maria Rosa Sossai e Adele Cappelli.

Venezia, non solo Biennale. Dalla

viva voce di Gabriella Belli, tutti i programmi dei Musei Civici. Una infilata di grandi mostre.

Passato, presente e futuro delle grandi rassegne periodiche.

Secondo la visione di due studiosi dell’arte moderna e contemporanea: Bruce Altshuler e Roberto Pinto.

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manca… Amare riflessioni nei due articoli della rubrica inpratica.

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Una storia di donne: la gallerista, la collezionista, la newyorchese… Bruna Aickelin e il suo Capricorno si raccontano.

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Patrimonio: una parola di cui ci si riempie la bocca, ma poi all’atto pratico

Una nuova rubrica per il vostro magazine, tutta

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Filosofi che l’ultima mostra vista risale al

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l’hanno stampato col ciclostile. Succede spesso, spessissimo. Ma non sempre. La rubrica editoria guarda a Marco Senaldi e Francesca Nicoli.

Curano i padiglioni dell’Angola alle Biennale di Architettura e Arte. Aprono un

museo e una Kunsthalle in Sardegna. Nel focus si raccontano: sono Beyond Entropy.

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Avete presente le interviste doppie de Le Iene? Noi abbiamo messo sotto

due coppie: Giulio Paolini e Marco Tirelli, Francesca Grilli e Sislej Xhafa. Per raccontare il Padiglione Italia.

1956 e critici che l’ultimo libro letto

editore Artribune srl via Enrico Fermi 161 - 00146 Roma in copertina Alessandro Di Pietro Tératologie vivante! 2013 (l’intervista a Di Pietro è a p. 102)

Banche e orologi, ordine compulsivo e creatività a zero? Smontiamo gli

La profezia dei Maya era una bufala colossale? Allora è

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tempo di tornare alla cara, vecchia distopia. Soprattutto al cinema. L’esempio - non proprio entusiasmante - di Oblivion.

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Per chi si prende una pausa, per

chi sceglie di visitare la Biennale con maggior calma, per chi non disdegna una goduriosa pausa culinaria. Percorsi in Laguna e pure a Mestre.

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QUESTO NUMERO È STATO FATTO DA:

Piccioni, che a Venezia certo non mancano. Ma anche

Bruna Aickelin Bruce Altshuler Arianna Apicella Valia Barriello Maria Cristina Bastante Gabriella Belli Beyond Entropy Elisabetta Biestro Andrea Botto Ginevra Bria Manu Buttiglione Christian Caliandro Chiara Capodici Adele Cappelli Simona Caraceni Gea Casolaro Stefano Castelli Marta Cereda Stefano Cerio Francesca Colaiocco Alfredo Cramerotti Marco Delogu

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autoritratti dove la nudità sposa iconologie antiche e religiose. Il portfolio di Julia Krahn per la sezione di fotografia curata da Angela Madesani.

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La Biennale, di musica però. Che nella scorsa edizione ha assegnato il Leone d’argento a un quartetto tutto italiano. Prometeo e le sue recenti pubblicazioni.

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È la seconda città della Francia, e quest’anno porta il vessillo di Capitale Europea della Cultura.

Marsiglia “rischia” di diventare una meta per appassionati e studiosi di

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architettura. Vi raccontiamo perché.

Angela Madesani Zaira Magliozzi Paolo Marella Helga Marsala Massimo Mattioli Neve Mazzoleni Elisa Medde Stefano Monti Giulia Mura Barbara Nardacchione Santa Nastro Francesca Nicoli Valentina Nunnari Giulio Paolini Sonia Pedrazzini Raffaella Pellegrino Daniele Perra Giulia Pezzoli Fiorenza Pinna Roberto Pinto Aldo Premoli Luigi Prestinenza Puglisi

Inventa unità di misure e sperimenta teratologie come quelle

interessante.

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Pensate se un approccio del genere lo si applicasse a Genova: diventerebbe una della città più belle al mondo. Marsiglia l’ha fatto, e l’architettura del MuCEM è il suo fiore all’occhiello.

I Paesi del Golfo, l’invasione cinese e i BRICS in versione arte

contemporanea. Le zone calde della Biennale in tre panoramiche.

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Metti una cucina, qualche mezzo tecnico e tecnologico, e soprattutto una buona dose di design. È la ricetta per

sfondare nel mondo in ascesa verticale del food.

Simone Rebora Alessandro Ronchi Federica Russo Pier Luigi Sacco Francesco Sala Irene Sanesi Vincenzo Santarcangelo Cristiano Seganfreddo Marco Senaldi Giuliano Sergio Fabio Severino Alfredo Sigolo Maria Rosa Sossai Lorenzo Taiuti Valentina Tanni Marco Tirelli Antonello Tolve Massimiliano Tonelli Michela Tornielli Marta Veltri Sislej Xhafa Giulia Zappa

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Seconda puntata del talk show dedicato alla fotografia.

Presente e futuro di un mezzo di espressione in piena crisi. E quindi tanto più

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La Biennale è una fiera mascherata? Allora bando all’ipocrisia e riapriamo l’ufficio vendite. Almeno ci si guadagna qualcosa. La proposta di mercato, nemmeno troppo shock.

Daniele De Luigi Cristiana De Marchi Luca Diffuse Giacinto Di Pietrantonio Alessandro Di Pietro Marcello Faletra Fabrizio Federici Simone Frangi Pier Francesco Frillici Martina Gambillara Marco Enrico Giacomelli Claudia Giraud Ferruccio Giromini Francesca Grilli Pericle Guaglianone David Horvitz Paolo Iabichino Matteo Innocenti Julia Krahn Nicoletta Leonardi Veronica Liotti Martina Liverani

che avete visto in copertina. È senz’altro un talento Alessandro Di Pietro, che si racconta lungo le domande di Daniele Perra.

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Pensate che accostare per mangiarsi un panino preparato a bordo strada su un camioncino sia una cosa da ragazzini affetti da fame chimica? Vi convinceremo del contrario, perché c’è del buonvivere anche in quel caso. Basta saper scegliere.

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La Biennale prima di averla vista. Accanto ai padiglioni nazionali

esordienti e agli italiani impegnati a curare mostre per nazioni di mezzo mondo. E una infografica globale.


È uno scenario impossibile, da fantascienza? Neanche tanto. I servizi dei telegiornali su preziose biblioteche mandate avanti solo da direttrici volontarie che lavorano del tutto gratis ormai da anni, o su monumenti antichi che versano nel più totale e umiliante degrado costituiscono ormai, da soli, un vero e proprio genere televisivo: con la colonna sonora melodrammatica che accompagna, nella più completa indifferenza dello spettatore, queste scene e questi racconti dell’orrore, ripresi con uno stile finto-sporco da cinéma-vérité e la voice over contrita della giornalista che ci informa indignata dello stato scandaloso in cui versa il tal mosaico tardoantico o quell’altro scavo romano. È anche fiorito un nuovo-vecchio genere letterario sull’argomento, in cui la difesa del patrimonio equivale automaticamente a una presa di coscienza (civile, ça va sans dire) dello stato disastroso in cui versa la nazione. È un’altra nostra attitudine perniciosa, eredità di un passato secolare ma opportunamente aggiornata attraverso le retoriche “del web”. Queste retoriche derespon-

sabilizzano il lettore-fruitore nel momento stesso in cui gli consegnano un’identità civile “già pronta”, ready made, dunque impossibile per definizione. Non ti è richiesto nessun inve-

Contemporaneo, patrimonio, stupidità Proviamo a immaginare uno scenario: cosa accadrebbe se una mattina, contemporaneamente, scomparissero dall’Italia tutti i musei, le biblioteche, le librerie, le gallerie? Poco o nulla, con ogni probabilità. A parte gli immancabili appelli di intellettuali infuriati, e le proteste di minoranze probe e coscienziose, la maggior parte degli italiani quasi non se ne accorgerebbe, o commenterebbe facendo spallucce. di CHRISTIAN CALIANDRO

[1] J. Clair, L’inverno della cultura [2011], Skira, Milano 2012, pp. 53-54

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INPRATICA

stimento cognitivo, mentale, non devi affrontare nessun processo faticoso e doloroso di autocostruzione e di reale cambiamento: se sei d’accordo (e lo sei: come potresti non esserlo?) dì di sì, aderisci all’appello, recita convinto insieme a noi che occorre salvare e tutelare il patrimonio e la cultura del Paese (alla fine, che ti costa?). È lo stesso meccanismo in base al quale il rapper di successo, che si è abilmente costruito negli ultimi anni l’immagine di “artistaimpegnato-che-però-sa-come-si-parla-con-i-teenager”, afferma convintamente che la visione di Accattone e la lettura di Gomorra “gli hanno cambiato la vita” (al punto, nel primo caso, da scegliere un deciso bianco e nero per la copertina del nuovo album). Anche qui, può anche essere, per carità, non diciamo di no; ma il principio è quello dell’adesione tout court, del ‘mi piace’ facebookiano, e non dell’elaborazione. Della critica dell’esistente. Gli artisti contemporanei e le opere del passato remoto sono interessati dal medesimo processo “stupidificante”. Da una parte, da circa vent’anni gli artisti – soprattutto quelli più giovani – hanno cominciato ad apparire perfettamente intercambiabili tra loro: è come se la ribellione culturale, in quanto atteggiamento di vita mentale e approccio al mondo, fosse stato completamente estirpato dalle esistenze di un paio di generazioni. Dall’altra parte, anche il patrimonio artistico e culturale viene sottoposto a una radicale riconfigurazione interpretativa: a una revisione complessiva, nel suo ruolo e nella sua funzione. Brutta parola, ‘patrimonio’: peccato, perché non lo sarebbe in base alla sua origine etimologica, e lo è diventata invece, in seguito alla torsione economicistica dell’ultimo trentennio. ‘Patrimonio’, ‘patrimonium’ deriva infatti da ‘pater’: è ciò che ci viene dal padre, ciò che io eredito da mio padre. La trasmissione, l’ereditarietà

è dunque al centro esatto della civiltà: la tradizione culturale si chiama così, dopotutto, perché viene tramandata, trasmessa da un’epoca all’altra (e se ci pensiamo, ‘heritage’, la versione inglese

di ‘patrimonio’, rimanda più esattamente e più direttamente al concetto di eredità). Comunque. Il patrimonio storico-artistico ereditato dal passato e la produzione culturale contemporanea vengono sottoposte entrambe a una sorta di terapia d’urto, descritta in questi termini da Jean Clair: “Le istituzioni museali più prestigiose […] dovevano diventare gallerie dove esporre la creazione ‘vivente’. In uno slancio congiunto, questi luoghi di memoria che avevano finito per perdere il loro senso dimenticando le proprie origini, hanno tentato di sottoporsi a una cura di ringiovanimento imponendo, contro ogni buon senso, l’idea che le creazioni più audaci, più scioccanti, più immonde, spesso le più idiote, dell’arte odierna s’inscrivevano, sotto il marchio distintivo di ‘arte contemporanea’, nella storia dei capolavori del passato. Non potendo continuare la propria storia che […] gli era preclusa, il museo è diventato così l’agente, il promotore, l’impresario di una storia fabbricata”1. Ogni tradizione è anche, sempre e comunque, una traduzione. La realtà è che, come tutti sappiamo, alcune traduzioni sono proprio ignobili.


L’intera classe dirigente, o digerente, se si preferisce, è affetta da tale mancanza: lo sono i politici e gli amministratori, i funzionari ai vertici delle macchine amministrative, molti soprintendenti, gli imprenditori, i consigli d’amministrazione delle fondazioni bancarie. Conseguenza della duplice carenza è lo stallo, il trionfo dello status quo sull’innovazione; e questo riveste un ruolo importante nell’attuale crisi della gestione del patrimonio. Non basta attribuire tutte le colpe alla mancanza di risorse, che pure costituisce un nodo centrale ed è d’altra parte riconducibile a scelte politiche, più che a circostanze oggettive. Se capire la necessità di una solida competenza in materia è piuttosto intuitivo, alcuni esempi di fantasia applicata ai beni culturali possono far comprendere meglio di cosa si tratti. Obiettivo comune sotteso alle idee che seguono è quello di riavvicinare patrimonio e cittadinanza, invertendo la tendenza a uno scollamento tra l’uno e l’altra che, al di là della retorica e dei numeri delle grandi mostre e delle Giornate del FAI, è sempre più marcata. Il patrimo-

nio monumentale va demonumentalizzato e reinserito nel tessuto vivo delle città attraverso

una pluralità di usi (continuativi, non eventi effimeri) che ambiscano a ridefinire e “aggiornare” l’identità del bene culturale e consentano la riappropriazione fisica degli spazi da parte dei cittadini. L’individuazione delle funzioni è terreno d’azione privilegiato dell’immaginazione, ovviamente non disgiunta da una profonda conoscenza del bene, delle necessità della tutela e dei bisogni e delle aspirazioni della comunità. Il discorso vale innanzitutto per le rovine antiche e gli scavi archeologici urbani, in gran parte ridotti a spazi morti e inaccessibili; tramite interventi architettonici e rifunzionalizzazioni, si potrebbe riannodare il filo della plurisecolare storia del reimpiego dei monumenti antichi, reciso fra Otto e Novecento. Riusciamo a immaginare le conseguenze che questa svolta avrebbe per quell’immenso cadavere crivellato che è Roma?

Va ricomposta la dicotomia tra mostre e musei che caratterizza, a tutto vantaggio delle prime, il panorama espositivo. Il problema-

tico trionfo delle esposizioni temporanee ci insegna che, piaccia o meno, il pubblico sempre più preferisce alla difficile polifonia del museo tradizionale la monodia delle mostre o, per dirla con un termine di moda, una narrazione. I grandi musei devono quindi puntare a trasformare i loro percorsi espositivi in “mostre museali” di consistente durata (6-8 mesi), con pezzi del museo integrati, se occorre, da qualche prestito significativo. L’istituzione museale risulterebbe più dinamica e i cittadini la visiterebbero più spesso. Si attiverebbe un circolo virtuoso tra le sale espositive e i depositi, riscattando questi ultimi da quel vero e proprio odio nei loro confronti che si va ingiustamente diffondendo. Si placherebbe la sete di spazi dei musei, obbligati dall’assurda introduzione in questo ambito dell’idea di competitività di matrice neoliberista (“competo, dunque sono”) a ingrandire gli spazi espositivi (la Grande Brera, i Grandi Uffizi), in una riedizione d’alto bordo della bolla immobiliare. Si possono immaginare nuovi modi di presentare le opere, nuove modalità di “esecuzione”, per dirla con un termine preso in prestito dal mondo della musica. Come nel caso del reimpiego, la fantasia può tradursi nel recupero di pratiche del passato. Il riferimento alla musica non è casuale: pensiamo a come, da una cinquantina d’anni a questa parte, l’ondata di esecuzioni filologiche (con strumenti antichi e secondo le prassi esecutive di secoli fa) abbia portato alla riscoperta della musica antica e barocca, rivitalizzando partiture di straordinaria bellezza. Si potrebbero quindi proporre esecuzioni all’antica di quadri e sculture, ridimensionando ad esempio la moda dell’illuminazione con faretti che, specie nel caso di statue e rilievi, altera gravemente le forme. Andrebbe privilegiata, pertanto, l’illuminazione naturale; ma si potrebbe pensare anche a visite a lume di candela (o con surrogati tecnologici), per riproporre uno dei modi in cui un tempo l’arte veniva fruita e per apprezzare l’effetto della luce guizzante della fiamma sulle superfici. Dallo stallo alle stelle: mille altre idee e ideuzze come queste possono aiutarci a risalire la china. Perché la fantasia opera non solo nel momento della creazione dell’opera d’arte, ma anche in quello della sua trasmissione.

Patrimonio, conoscenza, fantasia Colpisce la mancanza, in chi è chiamato a fare scelte nel campo della gestione del patrimonio culturale del nostro Paese, di due doti apparentemente opposte, ma entrambe indispensabili: una solida conoscenza (del patrimonio stesso e in particolare delle priorità di intervento) e una vivace e vivificante fantasia, intesa come capacità di immaginare modalità inedite di produzione e fruizione della cultura. di FABRIZIO FEDERICI

INPRATICA 31




IL FUTURO DELLA FOTOGRAFIA VOL. II

Seconda puntata per il talk show sulla fotografia (la prima la potete leggere anche sul sito artribune.com). Con un altro giro di risposte alla nostra domanda sul futuro di questo linguaggio artistico, ormai storico ma sempre più attuale. In che modo sta cambiando la fotografia? Quali nuovi scenari si stanno delineando in conseguenza dell’avvento delle nuove tecnologie e di un ecosistema visivo in continua mutazione? E come cambia il ruolo del fotografo in questo contesto? (a cura di Valentina Tanni)

PIER FRANCESCO FRILLICI

CRITICO E STORICO DELL’ARTE Il tempo attuale è scandito dai ritmi incessanti della comunicazione. La fotografia rende evidente questo processo sistematico attraverso i recenti dispositivi di diffusione delle immagini, i quali, grazie a possibilità sempre crescenti di condivisione e accesso ai dati, determinano nuove identità, nuove politiche, saperi, storie, immaginari culturali. La

fotografia mette a disposizione, attivandola in nostra compresenza, quella che per noi diviene la “realtà”. La

sua “mediazione, sebbene l’iper-veloce circolazione delle immagini abbia, in effetti, aumentato la complessità del mondo, può ancora dimostrarsi necessaria per la (r)esistenza della civiltà umana. Tecnicamente questa linea di contatto sembra assottigliarsi, le distanze critiche annullarsi, il tempo regolatore del pensiero contrarsi fino a sparire, a vantaggio, si dice, di un’interconnessione simultanea, di un’auspicata partecipazione diretta senza limiti. Scenario pericoloso perché autentico miraggio di democrazia compiuta, che invece, per realizzarsi, dovrebbe darsi norme di comportamento e criteri d’attenzione. Chiunque oggi usi la fotografia di fatto è un mediatore con una funzione etica cruciale: il dover prospettare soluzioni puntuali e corrette alle istanze della realtà, senza le quali sarà veramente difficile salvaguardare il futuro.

GIULIANO SERGIO

STORICO DELL’ARTE E CURATORE Negli ultimi due secoli la fotografia ha costruito la memoria e la storia della nostra epoca: un patrimonio sterminato che ogni fotografo ha di fronte a sé. Il futuro della fotografia è il suo passato, è la possibilità di riconfigurare gli immaginari accumulati nella coscienza collettiva e depositati in archivi sterminati. Le ricerche che più mi interessano sono quelle rivolte a dare forma a questo patrimonio, a farlo dialogare con i diversi linguaggi dell’arte. Il ruolo del fotografo oggi è quello dell’artista, le distanze tra arte e fotografia sono tramontate, mentre quelle culturali sono ridotte a un velo sottile, un residuo difficile da giustificare. Un fotografo oggi può archiviare, visualizzare, proiettare, registrare, convertire e manipolare una tale quantità di immagini, in una maniera così rapida che tutto ciò comporta un nuovo modo di concepire il proprio lavoro. Le nuove tecnologie aprono possibilità comunicative e compositive straordinarie, una sovrapposizione di piani difficilmente controllabile che sta costruendo l’estetica del futuro. L’artista non partecipa

all’informazione, ma alla composizione di questa estetica. Il suo contributo non è sociale ma antropologico, permette un orizzonte di senso ai nuovi linguaggi, li umanizza. La fotografia in questo caso è un oggetto enigmatico, capace di invertire il suo percorso temporale: il documento diventa proiezione di una memoria che ci permette di prefigurare il futuro.

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TALK SHOW

NICOLETTA LEONARDI

STORICA DELLA FOTOGRAFIA La fotografia sta cambiando, ma in un certo senso cambiare in continuazione è nella sua natura. È vero che la Kodak non produce più la leggendaria pellicola Kodachrome, come è vero che il settore del fotogiornalismo è in crisi a causa dello stallo dell’editoria cartacea d’informazione e dell’avvento del crowdsourcing. Lo stesso crowdsourcing ha inoltre invaso quello che fino a qualche anno fa era il mercato della stock photography; oggi in Rete è possibile trovare immagini per usi editoriali caricate da fotografi non professionisti i cui diritti costano pochi centesimi. D’altra parte, però, è anche vero che quando Fox Talbot inventò il procedimento negativo/positivo, il dagherrotipo vide la sua fine. In altre parole, se si guarda alla storia della fotografia, ci si

trova di fronte a un lungo elenco di innovazioni che hanno portato a continui mutamenti dei proce-

dimenti fotografici, delle forme materiali delle fotografie, delle modalità della loro produzione e della loro distribuzione, degli usi sociali e culturali del mezzo e delle professioni a esso legate. Dunque, piuttosto che chiederci cosa ci sia di nuovo nella fotografia, sarebbe forse più proficuo mutare completamente prospettiva e domandarci cosa ci porta a definire la fotografia digitale e gli altri media classificati come “nuovi” utilizzando le categorie di nuovo e di vecchio.

DAVID HORVITZ

ARTISTA Non sono sicuro di cosa significhi ‘fotografo’ in questo contesto. Può trattarsi di qualcuno che riflette criticamente sulla fotografia attraverso l’uso di qualche genere di processo fotografico, che sia bloccato nel passato analogico o proiettato verso l’uso delle nuove tecnologie (magari scattando immagini senza usare una macchina fotografica). Oppure parliamo di qualcuno che, semplicemente, fa fotografie? Chiunque possieda un telefono o un iPad. Non parliamo proprio di tutte le persone al mondo, ma sicuramente di moltissime. Mia madre è una di queste. Tempo fa mi ha inviato l’immagine di un tramonto dalla California. Se fossi stato online nel momento in cui lo ha mandato – non mi ricordo se ero connesso – avrei visto la stessa immagine del sole che lei stava vedendo, solo pochi secondi dopo, anche se ero lontano migliaia di chilometri.

Un collasso della distanza. La distribuzione istantanea della visibilità quotidiana del mondo.

Lo streaming live è in giro già da un po’, ma oggi possiamo trasmettere istantaneamente qualsiasi cosa. Poco tempo fa ho installato una webcam per far vedere a tutti la crescita di alcuni alberi che ho piantato. Sì, potete osservare, in tempo reale, la lentezza di un albero che cresce. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: cosa dire della sorveglianza? Delle telecamere di sicurezza? Dei droni? Chi è il fotografo dietro questi congegni? E, ancora: cos’è esattamente oggi un telefono?


DANIELE DE LUIGI

CRITICO E CURATORE La fotografia sta vivendo un momento senz’altro critico ma anche straordinariamente fertile e creativo, a dispetto di chi denuncia un suo ennesimo stato di esaurimento. La sua presenza nell’ambito delle arti visive è salda perché quasi sillogistica:

l’arte contemporanea si rivolge al mondo ed è fatta della materia del mondo, che è interamente permeato dell’immagine fotografica.

Tuttavia l’evoluzione e la disponibilità delle tecnologie stanno cambiando il modo in cui l’immagine esercita le proprie quotidiane funzioni sociali, culturali, informative: la fotografia di ricerca ha quindi bisogno di continuare a riflettere su se stessa, per decostruire e demistificare il sapere contemporaneo, ma al contempo fronteggia – da una posizione potenzialmente privilegiata – la nuova fame di realtà espressa dalla società globale. Una realtà che è cambiata e che nell’età dell’informazione è costituita sempre più da elementi immateriali. In questo senso riacquista valore, accanto alle pratiche di appropriazione e risignificazione di immagini esistenti, anche la produzione di nuove. Il ruolo del fotografo come artista oggi è quello di accettare questa sfida, continuando a creare immagini ma attuando una contaminazione che sia non solo mediale e formale, ma soprattutto “cognitiva”.

ELISA MEDDE

MANAGING EDITOR DI FOAM MAGAZINE L’impennata tecnologica ha prodotto cambiamenti più quantitativi che qualitativi. Ha cambiato più il nostro modo di ricevere e interagire con l’immagine fotografica che altro. Si scattano tan-

tissime immagini perché ci sono tantissime persone che posseggono macchine che permettono di farlo, ma questo non ha prodotto una vera e propria avanguardia,

per adesso. Le nuove tecnologie vengono usate in larga parte per produrre linguaggi visivi vintage, per imitare stili passati, per produrre più velocemente (e in serie) effetti che prima erano realizzati in camera oscura. Per assurdo, molti tra i progetti più interessanti degli ultimi anni vengono da fotografi molto giovani che utilizzano tecniche antiche (foto stenopeiche, stampe al collodio, collage, interventi su stampe) o che consapevolmente si rifanno a determinate stili e correnti remixandoli, demistificandoli o anche trascendendo dalle stesse categorie del fotografico. Questo però senza alcuna nostalgia. Al contrario, dando una rinnovata importanza all’oggetto fotografico, alla sua fisicità e alla sua (quantomeno) limitata riproducibilità. Il tutto con linguaggi e significati assolutamente contemporanei.

STEFANO CERIO

ARTISTA Il futuro della fotografia dipende molto da come si evolverà la sua percezione. In questo

momento storico non esistono di fatto divisioni nelle arti visive rispetto al media utilizzato. Il linguaggio contemporaneo è diventato un

unicum che non dipende dalla tecnica impiegata ma dalla capacità di attualizzare il proprio linguaggio. La fotografia è rimasta separata da questa grande fusione. Questo da una parte è colpa dei singoli operatori che non si sono resi conto di questa trasformazione, rimanendo legati ai canoni classici del linguaggio fotografico; d’altra parte le grandi istituzioni museali hanno lasciato che la fotografia seguisse il suo percorso senza tentare di inserirla in maniera stabile nella propria programmazione. Il venire meno di questa distinzione porterà, a mio avviso, a una serie di nuove possibilità per l’artista che sceglie coscientemente il mezzo fotografico per esprimere la propria tematica.

MARCO DELOGU

FOTOGRAFO, EDITORE E DIRETTORE DEL FESTIVAL DI FOTOGRAFIA DI ROMA La fotografia è l’unica arte senza uno star system, senza gerarchie: tutto ciò è ancora più forte dopo le rivoluzioni tecnologiche. È un’arte veloce, per facilità produttiva e per capacità di critica collettiva, mentre è spesso latitante la critica specializzata. Il cinema e la letteratura richiedono investimenti importanti, la fotografia no: un bel libro si può fare con meno di 10mila euro e altrettanto una bella mostra. Favoriti dal rapporto con il museo Macro e dalla presenza delle accademie di cultura straniere, a Roma riusciamo a fare un festival da oltre dieci anni con pochi soldi e moltissime idee. Sono d’accordo con Francesco Zanot sul concetto di esperanto (io stesso faccio ritratti seriali e osservazioni della natura) e credo che la

cosa più importante sia la crescita sempre più grande di una fotografia d’autore sganciata dalle committenze. La crisi e i cambiamenti tecnologici hanno generato un movimento di fotografi che riflettono maggiormente sulla propria identità, sul rapporto forte e profondo tra la visione e l’interiorità.

ANDREA BOTTO

FOTOGRAFO E DOCENTE ALLO IED DI TORINO L’attualità di Lazlo Moholy-Nagy – “Colui che ignora la fotografia, sarà l’analfabeta del futuro” – ci riporta oggi alla responsabilità dell’educazione. I profondi cambiamenti globali e la crisi del sistema italiano, anestetizzato da un ventennio dell’immagine, soprattutto televisiva, sono due fronti che non possiamo considerare separati. C’è bisogno di ricostruire, andando forse verso un nuovo realismo. La Rete è un paesaggio vergine da esplorare, dove “verba manent” e dove si producono documenti, i cui effetti sono visibili da qualche parte nel mondo reale. Paradossalmente, c’è più realtà diffusa in Internet, che in nessun altro luogo e la fotografia, con la sua natura camaleontica, è ancora una volta in prima linea e viva più che mai. Forse sono i

fotografi a essere a rischio di estinzione, soprattutto in Italia, dove le istituzioni latitano, la formazione è in piena emergenza e molto spesso la cultura fotografica è affidata a personaggi auto-investiti di ruoli guida basati sul nulla. Senza prima risolvere questi nodi, tutto il resto sarà sempre irrilevante.

CHIARA CAPODICI E FIORENZA PINNA

3/3 PHOTOGRAPHY PROJECTS La fotografia è oggi più che mai pervasa dal dono dell’ubiquità, che non appartiene solo alla sua riproducibilità, ma alla sua possibilità di essere immagine e incarnazione tattile, materiale. Ubiqua perché a cavallo fra passato e futuro, e più che mai presente. Foam, nel suo progetto The Future of the Photography Museum, mostra attraverso le proposte di quattro curatori come la fotografia si mischia con altri media, gioca con l’interazione, si fa oggetto quanto immagine, fa della sua abbondanza la sua forza. Da questa prospettiva, la crisi dell’editoria come primo

sistema di riferimento per i fotografi è per certi versi un falso problema: il ruolo del fotografo oggi è uscire

fuori di sé e ritrovarsi comunicatore, imprenditore, sperimentatore delle nuove tecnologie e delle loro possibilità. Il medium e il linguaggio sempre pronti a calarsi in un mondo e a confrontarsi con molti e diversi interlocutori, che la fotografia si rivela oggi più che mai gioco di squadra. E i fotografi sempre meno autori, se non nel senso antico di chi fa crescere qualcosa. Digitali perché aperti alle nuove tecnologie, ma soprattutto pronti a toccare, con mano, nuovi orizzonti e vecchi territori.

TALK SHOW 35




CANTIERE ETIOPIA Direttamente dalla capitale, dove ha partecipato al primo programma di residenze per artisti organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura, Gea Casolaro ci invia un eccezionale reportage fatto di immagini e suggestioni. Una realtà sociale complessa, quella di Addis Abeba, nutrita di profondi contrasti. Un Paese antico, il più antico dell’Africa, in bilico fra tradizione e voglia di futuro.

Yekatit 12, che corrisponde al 19 febbraio del nostro calendario, è la data dell’inizio del massacro perpetrato per tre giorni consecutivi dalle truppe fasciste per le strade di Addis Abeba nel 1937. Detto anche Monumento alle vittime di Graziani, l’obelisco rende omaggio alle migliaia di civili uccisi, lapidati o bruciati vivi nelle loro case in rappresaglia al fallito attentato al gerarca. In primo piano vediamo il ritratto di Hailù Chebbedè, leader della Resistenza, la cui testa mozzata venne esposta nelle piazze e nei mercati per ordine dello stesso Rodolfo Graziani. In Italia, nell’agosto del 2012, a colui che qui viene definito il “macellaio d’Etiopia”, il Comune di Affile ha edificato, utilizzando soldi pubblici, un monumento che celebra il carnefice, anziché le sue vittime.

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REPORTAGE


Netsa Art Village è una realtà davvero rara. Nato nel 2008 intorno alla Asni gallery - che ora si trova non lontano dalla School of Fine Arts e che resta un punto di riferimento e di incontro per tutta la scena artistica locale - Netsa raggruppa una quindicina di artisti che lavorano con modalità molto differenti: dalla pittura alla performance, dalla fotografia alla pratica relazionale all’uso di materiali di recupero, con grande dialogo e scambio. Il loro obiettivo è creare un “museo vivente per l’arte contemporanea in Etiopia”, ci dice l’artista e direttrice Mihret Kebede Alwabie, che esponga non solo il lavoro dei membri, ma di molti altri artisti africani, oltre che il risultato dei laboratori fatti con i bambini e di altre attività, creando una vera e propria piattaforma d’incontro.

REPORTAGE 39


“Per molti anni ho sognato di viaggiare e, ora che ho smesso di provare, succede che non mi fermo più!”. Helen Zeru è rientrata recentemente ad Addis Abeba dopo un mese a Berlino, dove ha realizzato una mostra, e ripartirà tra poco per una residenza di tre mesi a Vienna, a cui seguiranno quelle in Zambia e Uganda. Helen lavora con video, fotografia, disegno, performance. Qui la vedete realizzare, per la prima volta in pubblico, uno dei suoi disegni a due mani e a occhi chiusi: una ricerca che Helen sta sviluppando sul divario tra pensare e agire. Un binomio che va oltre la riflessione sull’esprimere le proprie emozioni senza controllo e che può far riflettere molto, non solo in un Paese in cui la maggior parte dell’arte è ancora tradizionale e gli studi accademici molto classici, ma certamente in molte altre direzioni ovunque nel mondo.

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REPORTAGE


Tutta Addis Abeba è in costruzione: un enorme cantiere in cui grandi palazzi di vetro destinati a uffici, alberghi di lusso e centri commerciali sostituiscono, di mese in mese, le baracche in lamiera. Agli abitanti degli slum, a parte i pochi fortunati che vincono un alloggio alla lotteria, viene offerto un magro rimborso. Enormi quartieri dormitorio crescono anche a più di dieci chilometri dalla città, serviti da una rete di trasporti pubblici ancora molto scarsa: è impressionante, all’ora del tramonto, vedere gli autobus stipati all’inverosimile e le lunghe code di persone in attesa dei taxi collettivi per rientrare a casa, impiegandoci anche due o tre ore. Senza contare i grandi imbottigliamenti provocati dai cantieri stradali. Ma i lavori, in mano alle ditte cinesi, avanzano in fretta. E la città sarà presto completamente irriconoscibile.

REPORTAGE 41


MEDITERRANEO ENTROPICO Beyond Entropy è un progetto di ricerca che si focalizza sul rapporto fra energia e spazio al di là della retorica della sostenibilità. Partendo dal concetto di energia come continua trasformazione, Beyond Entropy concepisce la forma come il momentaneo cristallizzarsi di forze (strutturali, materiali, sociali, politiche) nell’evidenza della forma stessa. Beyond Entropy articola il progetto come una ecologia spaziale, una riconfigurazione delle forze che operano in un certo contesto. L’obiettivo del progetto è la riarticolazione di tali forze in gioco, senza produrre cambiamenti fisici evidenti: in altre parole, cambiare tutto senza cambiare niente. Beyond Entropy è un metodo di analisi territoriale e una strategia operativa di produzione che si articola in cinque criteri: 1. la forma è intesa come una trasformazione di ciò che già esiste, non come imposizione di una forma altra; 2. il brief inteso come la possibilità di assolvere a più programmi e funzioni; 3. la scala come simultaneità di scale diverse (la scala geopolitica e il dettaglio); 4. la rappresentazione come ricostruzione dello sviluppo temporale degli spazi; 5. la struttura non per preservare una forma ma per permetterne la trasformazione. Beyond Entropy opera in zone di crisi territoriale in cui le strategie convenzionali non producono reali cambiamenti: il paesaggio entropico della città diffusa europea, la costa bipolare del Mediterraneo, la città sovraffollata dell’Africa sub-sahariana ecc. Beyond Entropy Mediterraneo si focalizza sulla Sardegna e sul territorio del Sulcis-Iglesiente come paradigma dei conflitti territoriali che si riverberano, seppure con diverse declinazioni, in tutto il Mediterraneo. La costa del Mediterraneo, infatti, è un territorio definito da un uso bipolare dello spazio, in cui conflitti non riconciliabili coesistono: parchi naturali e infrastrutture, sovraffollamento estivo e abbandono invernale, grandi impianti industriali e isole deserte. Come possiamo immaginare una visione per la costa al di là dell’opposizione dialettica di sfruttamento e protezione? Beyond Entropy ha progettato la Galleria a Cielo aperto di Mangiabarche e ha definito la Kunsthalle del Mediterraneo come strategie di uno sviluppo territoriale che non si affida alla costruzione di nuovi volumi, ma alla trasformazione di ciò che già esiste. beyondentropy.com

AFRICA E MEDITERRANEO di BEYOND ENTROPY

Il Padiglione Angola alle Biennali di Venezia: l’anno scorso architettura, quest’anno arti visive. Merito dell’associazione Beyond Entropy. Che però non ha il pallino dell’esotismo, anzi. E infatti lavora anche nel Sulcis, creando Kunsthalle e musei fra macchia mediterranea e piccoli villaggi. Progetti passati e futuri li raccontano loro.

Se analizziamo la storia del sistema produttivo del Sulcis (le miniere, il polo chimico e il polo metallurgico) in termini di entropia ed energia, possiamo considerare gli anni di massima espansione economica industriale come un sistema aperto e la crisi finale di questi comparti come un sistema chiuso. Il sistema che poteva definirsi aperto era in collegamento con l’esterno attraverso i flussi di lavoratori, gli investimenti provenienti da tutta Europa e il flusso di merci e di prodotti diretti verso tutto il mondo: l’energia del Sulcis produceva benessere sociale e ricchezza economica. La drammatica crisi di questi ultimi anni ha congelato il sistema nella morsa della disoccupazione, del crollo dei consumi e dell’indebolimento delle comunità locali. Per riattivare le energie del Sulcis, Beyond Entropy suggerisce una nuova strategia di sviluppo centrata sulla produzione di arte contempo-

ranea: una Kunsthalle del Mediterraneo. La programmazione della Kunsthalle si articola intorno alla Galleria a Cielo aperto di Mangiabarche e al Museo d’Arte Contemporanea. Due spazi complementari, situati a cinque chilometri di distanza tra loro: la galleria, isolata nella macchia mediterranea, è lo spazio aperto per progetti speciali del museo; e il museo, nel centro del villaggio, è archivio e cassa di risonanza di ciò che avviene a Mangiabarche. Per questo Beyond Entropy definisce un programma curatoriale congiunto basato su tre assiomi: produzione, Mediterraneo e partecipazione. In netta opposizione alla retorica dell’identità e del folklore, in cui spesso si chiude la produzione artistica sarda, il progetto guarda infatti al Mediterraneo intero come contesto privilegiato, sia per il coinvolgimento di artisti sia per la creazione di collaborazioni istituzionali. La Kunstahlle non è un luogo di

La Kunsthalle non è un luogo di semplice esposizione di opere: è piuttosto un laboratorio di produzione

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FOCUS


LUANDA IN LAGUNA Beyond Entropy Africa nasce dalla collaborazione fra Beyond Entropy e Paula Assis Nascimento. Il progetto si focalizza su Luanda come paradigma delle straordinarie trasformazioni urbane che stanno avvenendo nelle città dell’Africa sub-sahariana. Grandissime conurbazioni senza infrastrutture, bassi edifici e altissima densità abitativa. Dopo la costruzione di un Common Ground energetico, che funziona simultaneamente come infrastruttura e come spazio pubblico, realizzato per il Padiglione dell’Angola alla 13. Mostra Internzaionale di Architettura, Beyond Entropy continua la ricerca avviata su Luanda, confrontandosi con il tema del Palazzo Enciclopedico, stabilito quest’anno dal direttore della Biennale delle Arti Visive di Venezia. Il concept di Massimiliano Gioni stabilisce un compito impossibile: nessun edificio può contenere una molteplicità universale di spazi, oggetti, possibilità. Quando un edificio tende a essere enciclopedico, diventa in sostanza una città. Solo la città ricompone molteplici condizioni nell’unità di una forma, anche se si tratta di una forma conflittuale e contraddittoria. Così, la complessità spaziale di Luanda deriva dalla presenza di spazi imprevedibili e di condizioni inconciliabili: condizioni urbane e rurali, infrastrutture e abitazioni, spazi pubblici e discariche. Quali forme possono essere adottate per organizzare la conoscenza di questa città? Che tipo di conoscenza può essere fondata sulla catalogazione degli spazi urbani? La riflessione del Padiglione Angola si costruisce intorno al rapporto fra le immagini urbane e il modo in cui la città viene abitata e vissuta. La serie fotografica Found not Taken di Edson Chagas si concentra sulla sistematica documentazione di oggetti abbandonati che vengono riposizionati nel contesto urbano per creare una nuova relazione fra gli oggetti e il loro contesto, tra la forma e la sua codificazione. Lo sguardo di Edson trasforma dunque oggetti apparentemente insignificanti in piccole epifanie urbane che estendono i pattern degli edifici o che sono collocate su plinti speciali. Che rapporto si crea fra gli oggetti e la loro immagine? Che ruolo ha la creatività in questa particolare tassonomia? L’obiettivo di Edson Chagas scopre oggetti abbandonati e costruisce nuove relazioni con il contesto, delineando in tal modo la possibilità di vedere una nuova bellezza negli spazi di Luanda e, forse, un nuovo modo di abitarli.

semplice esposizione di opere: è piuttosto un laboratorio di produzione. Così, grazie a un progetto continuativo di residenze per artisti internazionali, si garantisce l’equilibrio tra sviluppo di nuovi linguaggi e la valorizzazione delle produzioni locali. La Kunsthalle del Mediterraneo, finalizzata allo sviluppo di una visione complessiva attraverso una strategia di sviluppo sostenibile per il territorio, offre una presenza viva e costante nel territorio del Sulcis della cultura dell’arte contemporanea, intesa come stimolo per un confronto serrato fra la manifattura industriale del passato e l’attuale processo di conversione industriale. Una visione, questa, che non è nostalgica ma incentrata sulla partecipazione dei cittadini, sull’ innovazione e la sostenibilità. Al di là del modello del turismo culturale e dell’intrattenimento sofisticato, operai, cittadini e studenti saranno dunque chiamati a reinventare il ter-

ritorio e se stessi attraverso attività di formazione, workshop, residenze d’artista, start up di nuove imprese. Libero da protocolli disciplinari rigidi, il progetto di Kunsthalle si dimostra in molti casi uno strumento critico e al contempo flessibile, capace di dialogare con la progettazione e i processi di rigenerazione urbana e di svolgere da un lato un ruolo propositivo per la comunità, dall’altro una funzione di supporto per amministratori pubblici, urbanisti e progettisti, fornendo dati preziosi per la lettura del territorio. La ricerca artistica si pone dunque come ambito di riflessione e di reazione, spazio d’azione libero con cui dare forma alle istanze della contemporaneità. La nostra proposta inquadra questi momenti di creazione artistica e di innovazione per lo sviluppo economico all’interno di un processo più generale di creazione di un territorio accogliente. www.fondazionemacc.com

Beyond Entropy è un progetto di ricerca che si focalizza sul rapporto fra energia e spazio al di là della retorica della sostenibilità

I COLPEVOLI PAULA NASCIMENTO Vive e lavora in Angola, a Luanda. Si è diplomata alla Southbank University e all’Architectural Association di Londra. Ha lavorato per Álvaro Siza Architects e RDA ed è consulente per COBA Consultores de Energia e Ambiente. Dal 2011 è la direttrice di tutte le attività di Beyond Entropy in Africa. Con Stefano Rabolli Pansera ha curato il Padiglione Angola alla 13. Esposizione Internazionale di Architettura – la Biennale di Venezia. STEFANO RABOLLI PANSERA Dopo aver lavorato con Herzog & de Meuron tra il 2005 e il 2007, ha insegnato come Unit Master all’Architectural Association dal 2007 al 2011. Ha tenuto conferenze alle università di Cagliari, Cambridge, Napoli, Wuhan, Seoul e Madrid. Nel 2010 ha fondato Beyond Entropy che opera in Europa, nel Mediterraneo e in Africa. Dal 2012 è direttore del Museo di Arte Contemporanea di Calasetta e della Galleria Mangiabarche in Sardegna. Con Paula Nascimento ha curato il Padiglione dell’Angola alla 13. Esposizione Internazionale di Architettura – la Biennale di Venezia.

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“ERAVAMO IO, PEGGY, ILEANA, VICTORIA…”. STORIA DI BRUNA AICKELIN NIENTE BIENNALE AI MUSEI CIVICI. GABRIELLA BELLI LANCIA IN RESTA LA MOSTRA DI GIONI PRIMA CHE APRA. PRE-VISIONI RAGIONATE IL PADIGLIONE ITALIA SONO (ANCHE) IO. DUE INTERVISTE (DOPPIE) ARABI E CINESI, RUSSI E BRASILIANI. EMERGENTI IN LAGUNA ESISTONO ANCORA GLI STATI-NAZIONE? ALTSHULER E PINTO DICONO DI SÌ


UN’ISOLA A VENEZIA

di SIMONE REBORA

IL CAPRICORNO DI BRUNA AICKELIN

I

l nome di Bruna Aickelin si lega inevitabilmente a quello della Galleria Il Capricorno di Venezia. Ma da dove proviene Bruna Aickelin e quando nasce la sua passione per l’arte contemporanea? Finiti gli studi a Venezia mi sono sposata con Emilio Aickelin, da cui ho preso il cognome. Lui aveva una grande passione per l’arte antica, in prevalenza per il Settecento. Abbiamo viaggiato molto: il Libano, la Siria, la Giordania e tanti altri Paesi. Ricordo in particolare la scenografia di Petra e la luce del cielo di Palmira. Tutto questo era molto affascinante. A me, però, mancava vivere il mio presente. Dove abitavate? In una grande casa a San Marco, dove erano esposti Marco Ricci, Zuccarelli, Guardi, un bellissimo Magnasco e tanti altri. Dopo la

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ATTUALITÀ

morte improvvisa di mio marito, l’amore per l’arte mi ha fatto, coraggiosamente, aprire una galleria: Il Capricorno, cedutomi da Ettore Viancini, una persona meravigliosa. Il nome deriva dal suo segno zodiacale. Era il 1970.

venendo un punto di riferimento per la ricerca contemporanea. “Favoloso” fu l’incontro con Ileana Sonnabend e Antonio Homen, la conoscenza di Michael Sonnabend e di Leo Castelli. Per tutto questo devo ringraziare il noto gioielliere Attilio Codognato, celebre anche per la sua Galleria del Leone. Fu da lui che vidi per la prima volta Lucio Fontana. Ero con il grande collezionista veneziano Manlio Cappellin. Era il 25 aprile 1962.

scritto Mariuccia Casadio su Vogue, non sarei quella che sono se non l’avessi conosciuta.

Che rapporto si stabilì con Ileana Sonnabend? L’incontro con Ileana è stato decisivo per la mia formazione. Come ha

Da questi viaggi nascono le grandi mostre del Capricorno. Ne ricorda qualcuna in particolare? Quella di un artista straordinario,

L’incontro con Ileana è stato decisivo. Non sarei quella che sono se non l’avessi conosciuta

Come furono gli inizi? E quali le prime mostre? La prima mostra fu fatta con opere di collezionisti che mi erano sempre stati vicini, anche per manifestare loro la mia grande riconoscenza. Ma non passano molti anni che la Galleria Il Capricorno inizia a ospitare artisti internazionali, di-

In America ci andava spesso? Certamente, il più possibile. Ero sempre da Ileana e fu proprio Michael Sonnabend che mi presentò alle gallerie più importanti. Conobbi così le storiche Paula Cooper e Barbara Gladstone. In seguito mi avvicinai alle gallerie più giovani. Quali conobbe per prime? La 303 di Lisa Spellman, con i suoi gioielli Karen Kilimnik, Sue Williams e molti altri. Poi Gavin Brown e Andrea Rosen, gallerista di Elliott Hundley, grande artista e persona dolcissima.


Prosegue l’appuntamento di Artribune Magazine con i galleristi che hanno fatto la storia dell’arte contemporanea in Italia. E in occasione della 55. Biennale di Venezia vi regaliamo, in esclusiva assoluta, la prima intervista completa mai rilasciata da Bruna Aickelin, anima della storica Galleria Il Capricorno. Dal 1970 al 2013, sempre in prima linea nella promozione di giovani artisti da tutto il mondo, al centro di una rete di contatti che, dalle migliori gallerie di New York e Londra, tiene vivo a Venezia il vento della contemporaneità.

Robert Rauschenberg. Ileana Sonnabend mi fece fare una sua personale di indescrivibile bellezza. Ebbi modo così di conoscerlo bene, apprezzarlo e godere della sua stima e amicizia. Recentemente, con grande successo, ricordo anche Nick Mauss della 303 Gallery (New York), Lesley Vance della David Kordansky Gallery (Los Angeles) e NS Harsha, artista indiano di infinita dolcezza, della Victoria Miro Gallery (Londra). Splendide mostre, ma anche bellissime amicizie. Ci può raccontare qualche episodio significativo? Ricordo James Lee Byars che, per la settima Documenta di Kassel, mi volle tutta vestita di bianco, con Wally Moro in nero, per aprire in piazza San Marco un lunghissimo Sette di carta nera che l’attraversava tutta. Un’emozione che non si può dimenticare. Ne fu fatto anche un video.

Tra le persone che ha conosciuto, quale ricorda più spesso? Giuseppe Santomaso, maestro di vita. Sensibile artista innamorato di Venezia. Unica e brillante la sua conversazione. Con lui sono stata a Monaco di Baviera, a Basilea e più volte a San Gallo, dove mi ha fatto conoscere Eugène Ionesco, stupendo incantatore. Importante, per me, da Santomaso ho imparato con quale amore si presenta un’opera a un collezionista.

collezione. A Lima, ora, c’è il suo MATE. Il 20 aprile è stata inaugurata la mostra Alta moda. Eccezionale anche l’invito. E

James Lee Byars, per la settima Documenta di Kassel, mi volle tutta vestita di bianco, con Wally Moro in nero

E poi c’è Mario Testino. Non ci sono parole sufficienti per descriverlo. Ho per lui un’adorazione tutta particolare. Non potrò mai dimenticare la sua casa e la sua

Peggy Guggenheim? Ero commossa quando Santomaso, suo grande amico, me la fece conoscere. La ricordo ancora, elegante, seduta sul letto con il suo cane. Mi accolse con grande dolcezza.

Vi vedevate spesso? Arrivava in galleria con la sua gondola. Si sedeva di fronte a me e spesso si incantava a guardare la magia delle gondole che, silenziosamente, passavano lungo il rio su cui si af-

faccia Il Capricorno. Mi disse, più volte, che era stupita del mio grande amore per l’arte. Qual è, invece, il suo rapporto con l’ambiente veneziano in genere? Una cosa le posso dire: che qui mi sento come un’isola. Non ho un solo collezionista veneziano. Quale, tra le mostre del Capricorno, ha sentito più “sua”? Certamente quella di Grayson Perry, per l’allestimento e la preziosità dei suoi vasi. Guardando la mostra con le mezze luci della sera, avevo la sensazione di essere nella sala di un museo. Quale invece, a suo avviso, ha lasciato un segno indelebile? Ricordo quella di James Brown nel 1984, carica di una suggestione unica. Con l’artista c’era Keith Haring e alcuni dei graffitisti. Un evento veramente grande e importante.

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Ebbi modo di conoscere bene Robert Rauschenberg, di apprezzarlo e di godere della sua stima e amicizia. Era un artista straordinario

Il Capricorno mi fu ceduto da Ettore Viancini, una persona meravigliosa. Il nome deriva dal suo segno zodiacale

Da Giuseppe Santomaso ho imparato con

si presenta un’opera a un collezionista

quale amore

Di un’opera mi colpisce quello che provo guardandola. Così è nata, dopo averla

vista al Chelsea Hotel di New York, la prima mostra in Italia di Elizabeth Peyton

Peggy Guggenheim arrivava in galleria con la sua gondola. Si sedeva di fronte a me

e spesso si incantava a guardare la magia delle gondole che, silenziosamente, passavano lungo il rio su cui si affaccia Il Capricorno

E tra le più recenti? Tra le ultime mostre, sicuramente quella di Wangechi Mutu, in occasione dell’ultima Biennale. Un successo che non ha eguali. Importanti sono stati i collezionisti: tedeschi e coreani. Tra gli italiani, Nunzia e Vittorio Gaddi e Serena Corvi Mora. Come sempre, devo ringraziare Victoria Miro e Glenn Scott Wright, che hanno reso possibile questa mostra indimenticabile. Il più grande successo tra i giovani? È difficile non dirlo: Hernan Bas. L’ho visto per la prima volta a Basilea, e grazie a Victoria Miro e Glenn Scott Wright feci nel 2006 la sua prima mostra in Italia. Hernan aveva 28 anni. È amato dal mondo intero. Dall’avvocato Giuseppe Iannaccone all’avvocato Andrea Pucker, da tutti i miei collezionisti e dai più

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ATTUALITÀ

fedeli: Renato Alpegiani, Paolo Zanasi e Gastone Ranzato. Per descrivere Hernan, una sola parola: commovente. Sono in attesa della sua quinta mostra. Ha mai curato delle mostre al Capricorno per il puro piacere di farle? Sì! E in questo senso ne ricordo due eccezionali: Bianco su bianco con Manzoni, Castellani, Fontana, Kounellis e con la Saffo di Paolini ora al Museo d’Arte Moderna di Monaco. L’opera fu scelta direttamente del grande Eric Steingräber, allora direttore di tutti musei della Baveria. Nel 1995 la mia Personal Choice con

Matthew Barney, Karen Kilimnik, Sylvie Fleury e Cady Noland (che ora impreziosisce la mia collezione). Tra le mostre storiche che ha visto, ce n’è una che l’ha influenzata in modo particolare? È stato molto utile per me vedere nel 1992 la mostra Post Human curata da Jeffrey Deitch, anche per conoscere artisti che poi ho presentato nella mia galleria.

Qui mi sento come un’isola. Non ho un solo collezionista veneziano

In genere cos’è che la colpisce di un’opera? Mi colpisce quello che provo guardandola. Così è nata, dopo averla vista al Chelsea Hotel di New

York, la prima mostra in Italia di Elizabeth Peyton. Fu allestita, con amore, da Gavin Brown e Burkhard Riemschneider. Un grande successo, sia alla prima che alla seconda sua mostra. Ha mai comprato per puro istinto? Sempre! Frequentando ogni anno la fiera di Colonia, ho conosciuto e acquistato da Tony Shafrazi di New York due bellissime opere di Donald Baechler, ora nella mia collezione. Nel 1983 la sua personale: presentarlo per la prima volta in Italia è stato per me molto importante. Che rapporto ha con le fiere? A quali partecipava abitualmente? Con la mia galleria ne ho fatta solo una a Basilea e molte, in passato, a Bologna. Nell’ultima avevo opere di Elizabeth Peyton, Karen Kilimnik,


TRA VENEZIA, NEW YORK E LONDRA UNA STORIA TUTTA AL FEMMINILE

“Favoloso” fu l’incontro con Ileana Sonnabend e Antonio Homen, la

conoscenza di Michael Sonnabend e di Leo Castelli

Quando si fanno le fiere, le conoscenze sono

più importanti delle vendite

Abbiamo viaggiato molto: il Libano, la Siria, la Giordania e tanti altri Paesi. A me, però, mancava vivere il mio presente

Sue Williams ed Elke Krystufek. Non ne vendetti una, ma la mia fortuna fu di conoscere Gianni Donati. Persona di vasta cultura e sensibilità, oltre che grande collezionista. Ne nacque una profonda amicizia. Quando si fanno le fiere, le conoscenze sono più importanti delle vendite.

Christopher Orr della Galleria Ibid. di Londra. Attualmente, fino al 30 giugno, è alla Kunsthalle di Basilea. Che impressione si è fatta di questa nuova Biennale di Massimiliano Gioni? Tra critiche ed entusiasmi, lei che cosa si aspetta? Devo dire che sono stata felicissima quando ho saputo che l’avrebbe organizzata lui. A mio avviso è uno dei più bravi operatori nel mondo dell’arte contemporanea. Sono sicura che il Palazzo Enciclopedico, bellissimo titolo, ci aprirà nuovi orizzonti per amare ancora di più l’arte.

Massimiliano Gioni è uno dei più bravi operatori nel mondo dell’arte contemporanea

Quali nuove sorprese ci riserva? La prossima mostra al Capricorno sarà una personale di Verne Dawson il 27 maggio. Dopo aver visto i suoi lavori a Frieze, da Gavin Brown, è nato in me il desiderio di dedicargli il mio spazio per questa Biennale. Poi, finalmente, il 7 settembre, ospiterò

La storia di Bruna Aickelin s’intreccia con quella di tre grandi donne dell’arte contemporanea: Peggy Guggenheim, Ileana Sonnabend e Victoria Miro. Marguerite “Peggy” Guggenheim si stabilì a Venezia nel 1948, nello storico Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande. La sua straordinaria collezione di opere d’arte contemporanea si era in gran parte formata nel corso di soli sette anni, tra Londra, Parigi e New York. Incurante persino dell’avanzare della guerra, il suo obiettivo era “comprare un quadro al giorno”, anche quando i tedeschi erano ormai giunti alle porte di Parigi. Oggi la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia è tra le più importanti raccolte di arte americana ed europea in Italia. Le sue turbolente vicende amorose, la sua grande passione per l’arte e la città di Venezia, hanno dato origine a un mito che ancora oggi si nutre di nuovi aneddoti, scoperte e pettegolezzi. È in corso di lavorazione proprio in questi mesi un film-documentario sulla sua vita, prodotto da Tonya Lewis Lee e Nikki Silver, dal titolo Mistress of Modernism. Il film è realizzato in collaborazione con la celebre curatrice newyorchese Eleanor Cayre e basato sulla biografia scritta da Mary Dearborn. Un ruolo altrettanto importante di mediatrice culturale fu quello svolto da Ileana Sonnabend, specie a partire dal 1971. Nella sua celebre galleria del quartiere SoHo di New York (ora a Chelsea), artisti del calibro di Gilbert & George, Jannis Kounellis e Georg Baselitz contaminavano i circuiti espositivi della Grande Mela (al fianco di Jeff Koons, Robert Morris e Vito Acconci), immettendovi le linfe più aggiornate della contemporaneità europea. Determinante, per la Sonnabend, fu l’esperienza parigina degli Anni Sessanta, ma intenso fu anche il legame con l’Italia, e Venezia in particolare. A riconfermarlo, oltre alla mostra ospitata dalla Peggy Guggenheim Collection nel 2011, un evento speciale proprio in occasione della 55. Biennale: Nel segno di Ileana Sonnabend porterà trenta capolavori della Sonnabend Collection (Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Andy Warhol, Richard Serra, Jeff Koons, Roy Lichtenstein e tanti altri) nel percorso museale di Ca’ Pesaro, concessi al museo veneziano in un deposito a lungo termine. Con Victoria Miro, invece, transitiamo direttamente nelle atmosfere londinesi degli ultimi decenni. La galleria aperta nel 1985 in Cork Street (non più grande di uno studio) divenne presto un punto di riferimento per artisti, collezionisti e musei di levatura internazionale. Alla fine degli Anni Ottanta la galleria duplica in Italia, con una breve esperienza fiorentina, mentre dal 1997 le si affianca nella direzione Glenn Scott Wright. Nel 2000 la Victoria Miro Gallery lascia la storica sede di Cork Street per trasferirsi in un locale di 8.000 mq nel distretto di Hoxton, nell’East End londinese. Celebre per gli scandali suscitati e per le vendite-record, ricordiamo in particolare quelle del fotografo Andreas Gursky, che dai 250mila dollari realizzati nel 2000 è giunto a toccare recentemente, nell’asta da Christie’s del novembre 2011, l’esorbitante cifra di $ 4.338.500. Altrettanto nota (ma soprattutto per il furore mediatico scatenato) è l’acquisizione da parte della Tate Britain della serie The Upper Room di Chris Ofili, artista anch’esso scoperto dalla Miro. Messi da parte i grandi numeri e le polemiche, Victoria Miro è riconosciuta come una tra le più infallibili scopritrici di giovani talenti da tutto il mondo. Nella sua galleria sono passati artisti come Doug Aitken, Conrad Shawcross, Grayson Perry, Ian Hamilton Finlay, Peter Doig e Isaac Julien. Tra gli ospiti del Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni c’è la pittrice argentina Varda Caivano. www.guggenheim-venice.it www.sonnabendgallery.com www.victoria-miro.com

ATTUALITÀ 51


40mila mq di spazi espositivi

11 5 musei

500

mila

biblioteche

opere in collezione

di PAOLO MARELLA

I MUVE IN CIFRE

250 volumi

mila

VENEZIA. LA SVOLTA DEI MUSEI CIVICI E` DONNA L a sede dei Musei Civici è deserta, tranne l’ufficio di Gabriella Belli. Per lei niente ponte del 25 aprile: c’è da seguire l’andamento dell’appena inaugurata mostra di Manet a Palazzo Ducale. È tempo di Biennale: qual è l’offerta culturale dei Musei Civici? Le rispondo con una domanda: si può essere contemporanei anche utilizzando l’antico? Secondo noi sì, e partendo da questa riflessione abbiamo costruito l’offerta dei Musei Civici veneziani. Oltre all’omaggio a Manet, abbiamo concepito un ampio ventaglio di mostre tutte prodotte da noi. Al Correr: una personale sul maestro Anthony Caro, erede della gloriosa scultura inglese e allievo di Henry Moore. Al Fortuny: attraverso la collezione privata di Antoni Tàpies, cerchiamo di tracciare un profilo inedito dell’artista da poco scomparso. A Ca’ Pesaro: abbiamo rifatto il trucco al museo e lo riapriamo con un’esposizione della parte Pop e Minimal della collezione di Ileana Sonnabend. Questo,

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ATTUALITÀ

però, è un progetto più temporaneo che permanente. Abbiamo pensato anche ai giovani, con tre mostre dal gusto indubbiamente contemporaneo. A Ca’ Rezzonico c’è la mostra A Very Light Art: una serie di artisti che si cimentano con il tema della luce e del lampadario (ispirandosi a quello storico presente nel museo). Invece al Museo di Scienze Naturali c’è Bestiario Contemporaneo: 22 artisti italiani – non convocati in Biennale: tra cui Cattelan, Vezzoli e Pivi – espongono i loro lavori che si rifanno al tema natura. Infine, a ottobre, negli spazi di Ca’ Pesaro esporremo la parte più concettuale della collezione Panza.

due gradi installazioni dell’artista veneziano: una piazzata nella Sala delle Quattro Porte del Correr, l’altra, enorme, nell’atrio di Ca’ Pesaro. Dunque, non c’è un “gemellaggio artistico” con la Biennale. I Musei Civici hanno fatto un grande passo in avanti: non ospitiamo mostre della Biennale. Non ci consideriamo più solo spazi da riempire. Non siamo più luogo, ma una Fondazione che sa guardare anche al contemporaneo. In questo caso potremmo parlare di gemellaggio di traiettorie culturali.

I Musei Civici hanno fatto un grande passo in avanti: non ospitiamo mostre della Biennale

C’è anche una mostra su Emilio Vedova… Esatto: Vedova Plurimo. In realtà, più che di una mostra, si tratta di

Inaugurando un filone contemporaneo, non c’è rischio di fare concorrenza? Quello che proponiamo noi è molto diverso dagli altri. Non c’è concorrenza. Siamo molto differenziati. È vero, l’offerta è enorme, però non ci sono cose che si sovrappongono. E poi sono dell’idea che abbiamo

tanto bisogno di contemporaneo, perché l’aggiornamento è fondamentale. Ma con tutta questa offerta culturale – Biennale, Musei Civici, Palazzo Grassi, Guggenheim, Fondazione Prada ecc. – non c’è il rischio di stordire il fruitore? Io credo che il fruitore dell’arte contemporanea sia molto selettivo. Perché l’approccio all’arte contemporanea richiede un bagaglio di interessi e conoscenze molto più forte. Sono sicura che il pubblico selezioni ciò che gli interessa. Ecco: non penso a un pubblico disorientato. L’importante è metterlo in condizione di scegliere nel miglior modo possibile. E poi: Venezia resterà sempre un luogo di eccezionale offerta culturale. Cambiamo discorso. Nel 2011 lascia il Mart per prendere la guida dei MuVe: in cosa si assomigliano e in cosa differiscono? La prima differenza è la quantità di opere e sedi da gestire: il Mart ha tre sedi, i MuVe undici. Per il resto,


Dal 2011 è alla guida dei Musei Civici di Venezia, prima dirigeva il Mart di Rovereto. Da quando Gabriella Belli è sbarcata in Laguna, la musica è cambiata. In meglio. L’abbiamo incontrata per fare il punto sulla situazione proprio mentre a Venezia impazza la Biennale d’Arte.

MANET MON AMOUR!

510 persone occupate visitatori 2.115.000 2011 2.300.000 2012

+18%

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l’approccio è identico: ho impostato il programma e la progettazione seguendo i miei metodi classici. A Venezia ho dovuto ampliare le mie conoscenze, perché ho avuto a che fare anche con i musei del merletto, del vetro, del costume. Posso dire che mi sono avvalsa delle ottime professionalità che ho trovato in eredità. Rispetto alla vecchia gestione, abbiamo incrementato il numero di mostre e abbiamo già completato il secondo anno di esposizioni.

+5,4% to emen incr tori a visit i e al d 2001 dal

Siamo l’unico esempio in Europa che vive del proprio. Mi spiego: non abbiamo alcun finanziamento pubblico, viviamo del ticketing e della vendita di servizi. E ovviamente possiamo contare su un alto numero di pubblico. Diamo i numeri. Ogni anno entrano 18-19 milioni di euro. C’è da calcolare, però, che con queste cifre dobbiamo mantenere 700mila opere, 11 musei e circa 500 dipendenti. E con questo budget non siamo in grado a fare grande esposizioni. È per questo motivo che dobbiamo interpellare dei coproduttori, così come è avvenuto per Manet. Da questo punto di vista, l’unica novità che ho inserito sono gli sponsor che sostengono parte dei costi.

Non penso a un pubblico disorientato. L’importante è metterlo in condizione di scegliere

A livello di staff, invece? Ho utilizzato al meglio tutto il personale che ho trovato. Non abbiamo fatto nessun nuovo inserimento. Ho cercato di motivare il personale, già molto competente. Da questo punto di vista, sono stata fortunata. Parliamo di economia e gestione: budget e finanziamenti?

2012

Dalle colonne della rivista La Revue du XXème siècle, 1867: “È un capolavoro. E non ritiro la parola. Il pittore ha operato come la natura stessa, per masse chiare, per larghi fasci di luce; la sua opera ha l’aspetto un po’ rude e austero della natura […] L’eterna vicenda dei talenti, prima sbeffeggiati poi ammirati fino al fanatismo, si riprodurrà anche per Édouard Manet. Egli avrà il destino dei maestri, come Delacroix e Courbet”. Firmato: Émile Zola. Il capolavoro di cui parlava era l’Olympia, accolto ferocemente dalla critica. Oggi è invece considerato un’opera straordinaria. Insomma, Zola aveva ragione: sia sul quadro che sulla rivalutazione artistica di Édouard Manet (Parigi, 1832-1883). Partiamo da questo punto per tracciare il percorso che sfocia in Manet. Ritorno a Venezia. Parliamoci chiaro: una mostra così non si vede tutti i giorni, infatti è una delle pochissime personali di Manet che l’Italia abbia mai ospitato. La mostra, voluta dai Musei Civici di Venezia in collaborazione con il Musée d’Orsay, conta ottanta quadri (fra gli altri, Le fifre, una copia di Déjeuner sur l’herbe, Le balcon, Portrait de M. et M.me M e Berthe Morisot au bouquet de violettes), non tutti di Manet. Troverete anche opere del Carpaccio, di Tiziano, di Antonello da Messina, di Guardi. Perché opere rinascimentali italiane abbinate a quadri pre-impressionistici? Risponde il curatore Stéphane Guégan: “L’obiettivo dell’esposizione è correggere la visione secondo la quale Manet sarebbe influenzato solo dai pittori spagnoli, Velasquez e Goya in primis; e vuole dimostrare che, ancor prima, il suo tratto si ispirò a Tiziano e all’arte italiana del Cinquecento”. La tesi non è certo nuova, semmai originale è stata l’idea di accostare l’Olympia con la Venere di Urbino di Tiziano. Un tripudio di bellezza, commovente e magico. Per la prima volta le due donne, la prostituta e la nobildonna, sono una vicina all’altra. Un confronto storico tra due modernità, due icone universali. Entrambe ci guardano negli occhi e il loro sguardo è insostenibile. Ciò che spiazza, poi, è la tranquillità che scorre tra le due donne: non c’è conflitto, non c’è astio; convivono perfettamente nella stessa stanza. Solo questa sezione vale il prezzo del biglietto. Un dettaglio: l’Olympia è la prima volta che lascia la Francia – e forse anche l’ultima – e l’autorizzazione all’espatrio è stata firmata dal Presidente della Repubblica francese. Anche la Venere di Urbino, conservata agli Uffizi, ha necessitato della pressione del sindaco di Venezia Orsoni. C’è da notare, ragionando al di fuori della mostra, che la fondazione Musei Civici veneziani sotto la guida Gabriella Belli (dal 2011 al timone) ha ingranato la marcia: prima una personale su Francesco Guardi (che mirava alla rivalorizzazione del lavoro dell’artista veneziano), poi Klimt e infine il ritorno in Laguna di Manet (senza dimenticare le tante altre mostre allestite durante la Biennale: si veda la grafica alla pagina successiva). “La mostra ha i suoi punti forti e deboli”, dice il curatore, “ad esempio, oltre alla sala Venere, un punto forte è il dialogo tra il celebre ‘Bel masqué à l’Opèra’, in cui aleggia la presenza veneziana, e il ‘Ridotto’ di Francesco Guardi, di cui il primo pare echeggiare i temi degli amori mascherati e del gioco ambiguo”. Notevoli, dunque, sono i vari accostamenti tra la pittura di Manet e quella rinascimentale da cui, come già detto, si è ispirato durate i suoi primi viaggi a Venezia (1853 e 1857): Le Balcon e le Due dame veneziane di Carpaccio oppure Il ritratto di Zola e quello del Giovane gentiluomo di Lorenzo Lotto. Certo, le assonanze maggiori si vedono tra l’Olympia e la Venere di Urbino (identici sono la posa e l’ambientazione, ma anche il materasso, le lenzuola piegate e la tenda di sfondo). Anche l’allestimento, curato da Daniela Ferretti, ha ragion d’essere: le pareti violacee si sposano benissimo con il contesto sacro e regale della mostra e del luogo in cui è ospitata. Poco prima di congedarci, il curatore ci svela una coincidenza: “Proprio mentre Manet è a Venezia con i suoi italianismi, il veneziano Giacomo Casanova è entrato a far parte della prestigiosa collana Bibliothèque de la Pléiade”. La mostra su Édouard Manet rimarrà aperta fino al 18 agosto, poi l’Olympia e la Venere di Urbino torneranno rispettivamente ai loro posti: un addio o solo un arrivederci? www.mostramanet.it

ATTUALITÀ 53


MUSEO DEL MERLETTO Piazza Galuppi 187 - Burano

MUSEO DI STORIA NATURALE Santa Croce 1730 fino al 24 ottobre Bestiario Contemporaneo

PALAZZO MOCENIGO Santa Croce 1992 CASA DI CARLO GOLDONI San Polo 2794

CA’ PESARO Santa Croce 2076 fino al 29 settembre La Collezione Sonnabend fino al 13 ottobre Vedova Plurimo

MUSEO DEL VETRO Fondamenta Giustinian 8 - Murano fino al 29 settembre Seguso. Vetri d’arte 1932-1973 fino al 1o dicembre Anna Skibska fino al 1o dicembre Eraldo Mauro PONTE DI RIALTO SANTA MARIA FORMOSA

MUSEO CORRER San Marco 52 fino al 27 ottobre Anthony Caro fino al 13 ottobre Vedova Plurimo

TORRE DELL’OROLOGIO Piazza San Marco

PALAZZO DUCALE San Marco 1 fino al 18 agosto Manet. Ritorno a Venezia fino al 22 settembre Fortezze veneziane del Mediterraneo

PIAZZA SAN MARCO

PALAZZO GRASSI

MUSEO FORTUNY San Marco 3958 fino al 24 novembre Antoni Tàpies

PONTE DELL’ACCADEMIA

CA’ REZZONICO Dorsoduro 3136 fino al 13 ottobre Vedova Plurimo fino al 4 novembre Imbarcazioni da regata

Come può vivere, anzi sopravvivere, il piccolo museo pubblico in un Paese che investe l’1,1% della spesa pubblica in cultura? È difficilissimo e ci sono grosse problematiche. Il Governo dovrebbe inserire la cultura nei piani di sviluppo. C’è bisogno di un ministro con più forze, magari collegando più poteri e diversi dicasteri. L’azione non può venire dal singolo museo civico, ma dall’alto. La cultura è rimasta l’unica vera fonte di reddito e, finché non avremo un Governo che mette almeno al terzo posto il recupero e la rivalorizzazione di tutto il nostro patrimonio artistico, è difficile pensare a un futuro roseo. Nel 2012 il Louvre ha guadagnato il 25% in più di tutti i musei pubblici italiani messi insieme. E non

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solo: gli italiani sono tra i primi visitatori. Intanto conta la qualità dell’offerta. E poi l’italiano viaggia molto ed è fra i primi per il turismo culturale. Siamo utenti straordinari, ma abbiamo poca attitudine a vedere i nostri musei, perché manca l’educazione. Nelle scuole primarie e secondarie lo studio di storia dell’arte è pari a un’ora a settimana.

Ottimi. Adesso stiamo incrociando una serie di iniziative. Abbiamo collaborazioni in programma con la National Gallery di Washington, con il Philadelphia Museum of Art, con il Guggenheim, con il Metropolitan di New York, con il Moca di Los Angeles e con L’Orsay di Parigi [partner nella mostra di Manet, N.d.R.]. Sono lavori strutturati che non si limitano alla semplice richiesta di prestito.

regole chiare e certe che tutelino il patrimonio e l’ente pubblico. Il patrimonio deve rimanere pubblico, non può essere privatizzato. Posso dunque dirmi favorevole all’ingresso del privato all’interno delle strutture culturali.

Cosa ne pensa del privato in campo artistico? È una bellissima cosa, ma solo con

E per il 2015? È lontano, ma ci stiamo già lavorando.

I Musei Civici hanno fatto un grande passo in avanti: non ospitiamo mostre della Biennale

Torniamo ai MuVe: come sono i rapporti con i musei esteri?

Congediamoci con una domanda sul futuro: mostre in programma? Anticipazioni? Faremo una mostra molto bella in autunno prossimo a Ca’ Pesaro: Venezia-New York, Biennale 1912-Armory Show 1913. È nata con la voglia di rispondere alla domanda: che cosa passa del gusto della Biennale nella grande Armory Show?





di PERICLE GUAGLIANONE

GIONI E IL LATO B DEL CONTEMPORANEO B asta riguardarsi in video Massimiliano Gioni che presenta la sua collettiva biennalesca, per farsi un’idea abbastanza precisa di ciò che ci aspetta, a Venezia, a partire da fine maggio. Intanto occhio alla location. Può sembrare un particolare di poco conto, ma aver tenuto a battesimo (leggasi: presentato alla stampa) una mostra sul contemporaneo così importante in una biblioteca (la Biblioteca Nazionale Centrale) e non invece nella sala al Ministero (per i Beni e le Attività Culturali) solitamente adibita a tale scopo, è già una dichiarazione d’intenti. Sì, perché la biblioteca in questo caso funziona come luogo simbolico, proprio in termini di contenu-

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ti. Per due ordini di motivazioni: in primo luogo, perché Il Palazzo Enciclopedico si profila come una mostra costituita in larga parte da carte (a quanto s’è capito, abbonderanno anche oltre il preventivabile disegni, schizzi e scritti di vario genere: persino Carl Andre sarà presente nell’occasione con opere su carta); poi, in seconda istanza (ma le due caratterizzazioni si integrano vicendevolmente), perché la mostra, stando sempre alla presentazione fatta dal Nostro, sembra avere come

obiettivo principale quello di imbastire una ricognizione/celebrazione inerente il fare artistico più appartato. In tal senso non deve far storcere il naso il fatto che un curatore così giovane abbia dato tanto spazio ad artisti deceduti o anagraficamente anziani (sia detto per inciso: nell’Italia che fa fatica a puntare sui giovani, un 40enne alla Biennale di Venezia è una bella novità). Non c’è contraddizione in questo, per il semplice fatto che Il Palazzo Enciclopedico – sulla base delle dichia-

La mostra sembra avere come obiettivo principale quello di imbastire una ricognizione/celebrazione inerente il fare artistico più appartato

razioni di Gioni – si presenta come una mostra concepita per gettare uno sguardo sulle figure dell’outsider, del visionario eterodosso, dell’autodidatta. E sono, questi, profili di artisti generalmente assorbiti vita natural durante dalle proprie idee e ossessioni, tipici di personalità complesse e poco arrembanti, tendenti a emergere (e giganteggiare) a poco a poco, quasi sempre in modo non canonico e/o a fine corsa, quando non a posteriori. Certo, nell’ottica di garantire una cifra riconoscibile alla sua creatura, Gioni potrebbe aver esagerato nel tratteggiare i lineamenti di un’esposizione fortemente orientata in senso off, calcando un po’ troppo la mano. Ma intanto ha creato questo tipo di premesse, e vi è riuscito perché


IL BALLO DELLE ESORDIENTI

Sbagliato criticare una mostra prima di averla vista. Immaginarla, invece, si può. Ecco allora impressioni (e aspettative) ingenerate dal “discorso di insediamento” con cui Massimiliano Gioni ha presentato a Roma Il Palazzo Enciclopedico.

la pattuglia di irregolari con cui ha scelto di accompagnare visivamente il suo “discorso di insediamento” è apparsa più che connotante. Non c’è che dire: mentre scorrono le immagini, e Gioni annuncia le linee-guida del suo progetto, sembra di assistere – a proposito di bibliofilia – alla presentazione di un libro illustrato che, sulla falsariga del celeberrimo studio di Jurgis Baltrušaitis sull’arte gotica, potrebbe intitolarsi Il Contemporaneo fantastico. Questo perché si ha la sensazione che

si sia voluto gettare uno sguardo sull’attuale “cultura visiva” (questa l’espressione che è stata usata più volte), come dal di fuori e nel verso meno esplorato, nel tentativo di evidenziare la presenza di elementi attinenti al suo significato profondo, anche in istanze ed esperienze laterali o “notturne”, tendenti al cosmogonico o all’opposto di tenore solipsistico (in proposito si noti che, a fronte di più di cento artisti invitati, il numero di gruppi e coppie artistiche presenti in mostra è irrisorio).

Il Palazzo Enciclopedico è una mostra concepita per gettare uno sguardo sulle figure dell’outsider, del visionario eterodosso, dell’autodidatta

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C’è chi viene e c’è chi va. Si spiega così l’oscillazione del numero di Padiglioni Nazionali (esordienti) alla Biennale. Ad esempio, nel 2011 erano 89 e quest’anno 88, ma mai prima d’ora avevano esordito 10 nazioni. Le meglio piazzate topograficamente sono Bahamas, Bahrain, Kosovo e Santa Sede, che conquistano uno spazio all’Arsenale. Quest’ultima è la partecipazione più discussa: In Principio: porta sulla soglia un’opera di Tano Festa, all’interno invece la triplice interpretazione della Genesi da parte di Studio Azzurro (creazione), Josef Koudelka (decreazione) e Lawrence Carroll (ricreazione). Costo 750mila euro, coperti da contributi privati (main sponsor Eni e Intesa Sanpaolo); e per l’edizione 2015 bisognerà avere l’avallo di Papa Francesco. Le Bahamas puntano sull’Eclissi polare di Tavares Strachan [nella foto, Ice Walk, 2004-06] allestita alle Tese cinquecentesche dalla coppia curatoriale formata dagli americani Robert Hobbs e Jean Crutchfield. Un’installazione ispirata alla spedizione al Polo effettuata nel 1909 da Robert Peary e Matthew Alexander Henson. All’Arsenale esordisce anche il Kosovo (la partecipazione del 2005 che vide protagonista Sislej Xhafa era “clandestina”). La giovane repubblica balcanica porta Petrit Halilaj, recentemente in Italia per la collettiva The New Public al Museion di Bolzano. Anche in questo caso, curatela straniera, affidata nella fattispecie a Kathrin Rhomberg, direttrice della Biennale di Berlino 2010. Per visitare la mostra della Costa d’Avorio occorre farsi traghettare a Spiazzi, sempre in area Arsenale. A rappresentare la repubblica africana, quattro artisti riuniti da Yacouba Konaté: Frédéric Bruly Bouabré, classe 1921, personaggio che non può che incuriosire, vista la presentazione: “Inventor of his personal alphabet, founder of his own religion and writer”; mentre gli altri tre convocati si suddividono i medium: dalla pittura di Tamsir Dia alla scultura in legno di Jems Koko Bi (probabilmente l’artista contemporaneo ivoriano più noto) passando per gli scatti di Franck Fanny. Si resta in area calda anche per visitare il Padiglione delle Maldive, allocato alla Gervasuti Foundation, lungo uno dei tragitti che conduce dall’Arsenale ai Giardini o viceversa. E una visita lo vale, poiché Portable Nation sfoggia un elenco di artisti di tutto rispetto: Paul Miller aka DJ Spooky, Thierry Geoffrey aka Colonel (ricordate la tenda montata di fronte al Fridericianum durante l’ultima Documenta?), Gregory Niemeyer, Stefano Cagol, Hanna Husberg, Laura McLean & Kalliopi Tsipni-Kolaza, Khaled Ramadan, Moomin Fouad, Mohamed Ali, Sama Alshaibi, Patrizio Travagli, Achilleas Kentonis & Maria Papacaharalambous, Wooloo, Khaled Hafez, Ursula Biemann, Heidrun Holzfeind & Christoph Draeger e Klaus Schafler. A dirigere l’orchestra, il team CPS – Chamber of Public Secrets (composto dal nostro Alfredo Cramerotti insieme ad Aida Eltorie e Khaled Ramadan) con i curatori aggiunti Maren Richter e Camilla Boemio. L’Angola si presenta sotto il cappello di Luanda, Encyclopedic City. Il Paese africano, che alla scorsa Biennale di Architettura stava alla Fondazione Cini, quest’anno trasloca a Palazzo Cini, a metà strada fra Accademia e Collezione Guggenheim. La curatela resta in mano a Beyond Entropy, associazione composta da Paula Nascimento e Stefano Rabolli Pansera (a loro sono affidate le due pagine della rubrica Focus su questo numero), con l’ausilio di Jorge Gumbe e Feliciano dos Santos. C’è poi un secondo Paese dell’area del Golfo - insieme al Bahrain, ma di loro parliamo più diffusamente qualche pagina più avanti - a esordire: il Kuwait, che trova alloggio a Palazzo Michiel del Brusà. Posizione strategica anch’essa, poiché l’edificio si trova su Strada Nova; ed è il palazzo che nel 2009 ospitava il Padiglione Singapore (il quale, dopo sei partecipazioni, quest’anno non c’è: il National Arts Council ha fatto sapere che ritiene prioritario “lavorare su un museo e sostenere diverse fiere d’arte nel Paese…”). Chiudono la parata degli esordienti il Paraguay, che atterra a Palazzo Carminati - una delle due sedi adibite a residenza per artisti dalla Fondazione Bevilacqua La Masa - con la collettiva The Encyclopedic Palace of Paraguay a convogliare le opere di Pedro Barrail, Felix Toranzos, Diana Rossi e Daniel Milessi; e dalla Polinesia sbarca Tuvalu, microstato di 26 kmq e meno di 10mila abitanti che porta in Laguna il solo show di Vincent J.F. Huang. Per vederlo ci si deve spingere fino a Mestre, a Forte Marghera, ma il luogo merita il viaggio. MARCO ENRICO GIACOMELLI

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ITALIANI IN TRASFERTA. A VENEZIA

La valigia in mano ce l’abbiamo di default: condizione nomade per definizione quella dell’italiano, cittadino del mondo per voglia o necessità, oggi come allora fedele all’adagio che ci fa popolo di navigatori. Viaggiatori sulle rotte della cultura, che portano a vivere e creare all’estero; o anche solo a sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda che, per quanto a distanza, anima la scena di altri Paesi. E così non mancano, nelle partecipazioni nazionali in arrivo da ogni angolo del pianeta, nomi e suggestioni nostrane: a premiare una tradizione curatoriale che pare ben considerata, forse più dell’estro del singolo artista. È stato direttore della Fondazione Volume! per quattro anni, prima di spostarsi in giro per Francia, Germania e - oggi - Olanda: Lorenzo Benedetti è da tempo in pianta stabile nel Paese dei tulipani, per conto del quale porta ai Giardini l’universo visionario di Mark Manders [nella foto, Room with Chairs and Factory, 2002-08, coll. MoMA, New York], personaggio che aveva piacevolmente impressionato nel 2002 a Documenta con la sua anti-monumentale stanza di sabbia. Allure internazionale anche per Ilaria Bonacossa, a Palazzo Zenobio per condividere quella certa idea dell’Islanda incarnata da Katrín Sigurdardóttir; e per Anna Loporcaro, curatrice della Design City del Mudam in Lussemburgo, che chiama a rappresentare il piccolo principato - in quel di Ca’ Granda - Catherine Lorent. L’italiano spopola ai tropici e nei Paesi emergenti: Stefano Ribolli Pansera cura il Padiglione Angola, mentre quello indonesiano vede come commissario aggiunto Achille Bonita Oliva che nel sud est asiatico è sempre più di casa: buen retiro, ma anche nuova piattaforma professionale. Il tandem composto da Sandro Orlandi e Paola Poponi distribuisce tra l’Isola di San Servolo e la Caserma Cornoldi gli artisti del Padiglione Kenya: tra questi anche l’eclettico Armando Tanzini, sedotto dal clima di Malindi e passato da riga e squadra - ha arredato anche Casa Briatore - all’arte. Da un paradiso terrestre all’altro: Alfredo Cramerotti è nel pool di curatori che dà vita al Padiglione Maldive, dove espongono - tra gli altri - anche Patrizio Travagli e Stefano Cagol. Progetto dedicato al concetto di effimero, costruito attorno alla possibile scomparsa degli atolli, da qui a un secolo, a causa del progressivo innalzamento del livello dell’oceano dovuto all’inquinamento: immagine iconica, allora, quella scelta da Cagol, che piazza nei Giardini un monumentale dolmen in ghiaccio, destinato a squagliarsi inesorabilmente. Giacomo Zaza sceglie, insieme a Jorge Fernandez Torres, anche Gilberto Zorio e Francesca Leone per raccontare nel Padiglione Cuba allestito al Museo Archeologico di Piazza San Marco La Perversión de lo clásico, in un presumibile dialogo tra antico e contemporaneo; in Centro America si incontrano Francesco Anselmi e Fabio Alisei, tra i commissari del Padiglione Costa Rica a Ca’ Bonvicini. Ma anche, caso eccezionale di pluralità di impegni, curatori della collettiva Supernatural che, all’Officina delle Zattere, accende la luce sulla scena artistica del Bangladesh. Vittorio Urbani, genius loci della Giudecca, è commissario aggiunto del Padiglione Iraq a Ca’ Dandolo, dove si cerca di restituire un’istantanea di come l’arte stia risorgendo dopo decenni di regime; mentre Angela Vettese apre le porte della Bevilacqua La Masa alla Norvegia. Beware of the Holy Whore titola l’ardito accostamento tra Edvard Munch e Lene Berg, ideato insieme a Marta Kuzma e Pablo Lafuente. Titolo preso da un film di Fassbinder, esposizione di una trentina di lavori di Munch mai visti in Italia, a intrecciarsi sul tema dell’alienazione e dell’emancipazione con i video, in parte inediti, della Berg. Pochi italiani alla Biennale: e allora ce li porto io. Era il 2007 quando Duccio Trombadori annunciava dalle colonne de Il Giornale il proprio dissenso nei confronti di una rassegna tutto meno che autarchica; il nostro, all’epoca curatore della Siria, aveva rinfocolato l’orgoglio nazionale invitando cinque artisti nostrani. Oggi torna a colpire, sempre in veste di responsabile del padiglione siriano, con una collettiva che attinge non poco ai pozzi del Belpaese: all’Isola di San Servolo riecco Concetto Pozzati e Dario Arcidiacono, già selezionati all’epoca, oggi in compagnia di Giulio Durini, Massimiliano Alioto, Felipe Cardena, Roberto Paolini, Sergio Lombardo, Camilla Ancillotto, Lucio Micheletti, Lidia Bachis e il Cracking Art Group. Tutti riuniti sotto l’egida di un Giorgio de Chirico eletto a nume tutelare. Scelte che guardano agli analisti della linea e della forma per Luis Pérez-Oramas, che nel padiglione Brasile porta la madrina del movimento neo-concretista Lygia Clark e l’eclettico Max Bill, Odires Mlászho ed Hélio Fervenza: oltre a Bruno Munari, in Biennale a quasi trent’anni dalla personale che nel 1986 celebrava in una sala apposita la sua attività di pittore. FRANCESCO SALA

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E IL LATO B » GIONI DEL CONTEMPORANEO Nel discorso di Gioni si susseguono parole di segno psych come ‘ossessione’, ‘delirio’, ‘allucinazione’, ‘inquietante’: e infatti, laddove nell’ultima edizione della Biennale lagunare erano i teleri di un pittore (per quanto storicamente fuori contesto come il Tintoretto), stavolta troveremo gli scritti di uno psicologo, Carl Gustav Jung, senza contare che l’immagine stilizzata scelta per fare da logo, più che a una mostra d’arte, fa pensare alla locandina di un simposio di psichiatria. Insomma, con Il Palazzo Enciclopedico potrebbe aver trovato pane per i propri denti chi sognava una riflessione seria sul dark side del contemporaneo, utile a mostrare al cosiddetto grande pubblico, ma anche a molti addetti ai lavori, che la vulgata per cui la “fredda” arte

contemporanea sarebbe antitetica al sentire romantico è in realtà una bufala. Compito arduo e affascinante, di quelli che meritano attenzione a prescindere, e di cui in effetti si sentiva il bisogno. Semmai, il rischio è che una scelta del genere venga annunciata come approfondita, salvo poi rivelarsi, alla prova dei fatti, anche in considerazione della mole dell’esposizione, di facciata, legata a mere esigenze di confezione. Allo stato, metaforizzando, viene in mente un’immagine anch’essa – per così dire – “libraria”: Massimiliano Gioni che rivendica per sé un ruolo da Roberto Calasso dell’arte contemporanea, scegliendo di conferire – va detto: abbastanza a sorpresa – un profilo “adelphiano” alla mostra più importante della sua carriera.

L’immagine stilizzata scelta per fare da logo, più che a una mostra d’arte, fa pensare alla locandina di un simposio di psichiatria


Cara amica arte artisti: Giorgio de Chirico, Miro George, Makhowl Moffak, Al Samman Nabil, Echtai Shaffik, Giulio Durini, Dario Arcidiacono, Massimiliano Alioto, Felipe Cardena, Roberto Paolini, Concetto Pozzati, Sergio Lombardo, Camilla Ancilotto, Lucio Micheletti, Lidia Bachis, Cracking Art Group, Hannu Palosuo curatore: Duccio Trombadori location: Isola di San Servolo

SIRIA

In a World of Your Own artisti: Mariam Haji, Waheeda Malullah, Camille Zakharia curatore: Melissa Enders-Bhatia location: Arsenale

BAHRAIN

artista: Petrit Halilaj curatore: Kathrin Rhomberg location: Arsenale

KOSOVO

Polar Eclipse artisti: Tavares Strachan curatori: Robert Hobbs e Jean Crutchfield location: Arsenale

BAHAMAS

Traces and signs artisti: Frédéric Bruly Bouabré, Tamsir Dia, Jems Koko Bi, Franck Fanny curatore: Yacouba Konaté e Paolo De Grandis location: Spiazzi

COSTA D’AVORIO

Tempus fugit artisti: Javier Balmaseda, Samantha Bosque, Fiona Morrison curatori: Josep M. Ubach e Paolo De Grandis location: Arsenale

ANDORRA

Reflective Nature # a new primary enchanting sensitivity artisti: Kivuthi Mbuno, Armando Tanzini, Chrispus Wangombe Wachira, Fan Bo, Luo Ling & Liu Ke, Lu Peng, Li Wei, He Weiming, Chen Wenling, Feng Zheng jie, César Meneghetti curatori: Sandro Orlandi, Paola Poponi location: Caserma Cornoldi e Isola di San Servolo

KENYA

National Works artisti: Sami Mohammad, Tarek Al-Ghoussein curatore: Ala Younis location: Palazzo Michiel

KUWAIT

Beware of the Holy Whore artisti: Edvard Munch, Lene Berg curatori: Marta Kuzma, Pablo Lafuente e Angela Vettese location: Fondazione Bevilacqua La Masa

NORVEGIA

Destiny Intertwined artista: Vincent J.F. Huang curatori: An-Yi Pan, Szu Hsien Li, Shu Ping Shih location: Venice Arts Academy / Forte Marghera

TUVALU

Luanda, Encyclopedic City artista: Edson Chagas curatore: Beyond Entropy (Paula Nascimento, Stefano Rabolli Pansera), Jorge Gumbe, Feliciano dos Santos location: Palazzo Cini

Supernatural artisti: Chhakka Artists’ Group (Mokhlesur Rahman, Mahbub Zamal, A. K. M. Zahidul Mustafa, Ashok Karmaker, Lala Rukh Selim, Uttam Kumar Karmaker. Dhali Al Mamoon, Yasmin Jahan Nupur, Gavin Rain, Gianfranco Meggiato, Charupit School) curatori: Francesco Elisei e Fabio Anselmi location: Officina delle Zattere

BANGLADESH

ISLANDA Katrín Sigurdardóttir curatori: Mary Ceruti e Ilaria Bonacossa location: Palazzo Zenobio

ANGOLA

Relegation artista: Catherine Lorent curatore: Anna Loporcaro location: Ca’ del Duca

LUSSEMBURGO

IRAQ Welcome to Iraq artisti: Abdul Raheem Yassir, Akeel Khreef, Ali Samiaa, Bassim Al-Shaker, Cheeman Ismaeel, Furat al Jamil, Hareth Alhomaam, Jamal Penjweny, Kadhim Nwir, WAMI (Yaseen Wami, Hashim Taeeh) curatori: Jonathan Watkins e Vittorio Urbani (commissario aggiunto) location: Ca’ Dandolo

Democracy & Dreams artisti: Priscilla Monge, Esteban Piedra, Rafael Ottón Solís, Cinthya Soto curatori: Francisco Córdoba, Francesco Elisei (commissario) e Fabio Anselmi (commissario aggiunto) location: Ca’ Bonvicini

COSTA RICA

The Encyclopedic Palace of Paraguay artisti: Pedro Barrail, Felix Toranzos, Diana Rossi, Daniel Milessi curatore: Osvaldo Gonzalez Real location: Palazzo Carminati

PARAGUAY

La Perversión de lo clásico: Anarquía de los relatos artisti: Liudmila and Nelson, Magdalena Campos Pons e Neil Leonard, Sandra Ramos, Glenda Leon, Lazaro Saavedra, Tonel, Hermann Nitsch, Gilberto Zorio, Wang Du, H.H.Lim, Pedro Costa, Rui Chafes, Francesca Leone curatori: Jorge Fernandez Torres e Giacomo Zaza location: Museo Archeologico Nazionale

CUBA

Sakti artisti: Albert Yonathan Setyawan, Eko Nugroho, Entang Wiharso, Rahayu Supanggah, Sri Astari, Titarubi curatori: Carla Bianpoen, Rifky Effendy e Achille Bonito Oliva (commissario aggiunto) location: Arsenale

INDONESIA

Room with Broken Sentence artista: Mark Manders curatore: Lorenzo Benedetti location: Giardini

OLANDA

Inside/Outside artisti: Hélio Fervenza, Odires Mlászho, Lygia Clark, Max Bill, Bruno Munari curatore: Luis Pérez-Oramas location: Giardini

BRASILE

Portable Nation artisti: Paul Miller aka DJ Spooky, Thierry Geoffrey aka Colonel, Gregory Niemeyer, Stefano Cagol, Hanna Husberg, Laura McLean & Kalliopi Tsipni-Kolaza, Khaled Ramadan, Moomin Fouad, Mohamed Ali, Sama Alshaibi, Patrizio Travagli, Achilleas Kentonis & Maria Papacaharalambous, Wooloo, Khaled Hafez, Ursula Biemann, Heidrun Holzfeind & Christoph Draeger, Klaus Schafler curatore: CPS – Chamber of Public Secrets (Alfredo Cramerotti, Aida Eltorie, Khaled Ramadan) location: Gervasuti Foundation

MALDIVE

In Principio artisti: Lawrence Carroll, Tano Festa, Josef Koudelka, Studio Azzurro curatore: Gianfranco Ravasi location: Arsenale

SANTA SEDE

ITALIANI IN PADIGLIONI STRANIERI

PADIGLIONI ESORDIENTI






photo Luciano Romano

di CLAUDIA GIRAUD

PAOLINI & TIRELLI FACCIA A FACCIA CON L’ARTE I legami con la storia dell’arte, il teatro, la prospettiva: affinità e divergenze fra Paolini e Tirelli. giulio paolini Il quadro inteso come arte visiva, oppure la scenografia intesa come elemento teatrale, sono i territori in cui da sempre ho immesso i miei codici della rappresentazione, ovvero l’illusione di uno spazio virtuale. Sia come artista sia come scenografo ho sempre cercato di andare al di là del limite al quale siamo condannati. Di Tirelli ho visto alcune testimonianze in libri e cataloghi e riconosco effettivamente delle affinità. Ma mentre lui è pittore di quadri, io sono piuttosto un suggeritore di immagini. Quello che forse ci accomuna è il tentativo di oltrepassare la soglia della bidimensionalità, che è la regola del quadro dipinto. La parola ‘illusione’ ha una doppia valenza: da un lato è uno strumento per oltrepassare il sipario bidimensionale della superficie pittorica, dall’altro è la dimensione estranea al mondo reale. Il mio simulare una situazione spaziale “altra” o “oltre” il limite

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ATTUALITÀ

del quadro o della parete è un modo per ovviare all’impossibilità di agire nel mondo reale. Sono convinto che l’artista, meno di ogni altra persona al mondo, sia titolato a cambiarlo. L’artista semmai cambia la visione della realtà, dal momento che ha la possibilità di inventarne un’altra. Sarebbe un atto di presunzione pensare di poter cambiare il mondo qui e ora, attraverso le proprie opere. L’arte può rivendicare solo la dimensione del tempo e della durata sovrastorica. La storia è in mano al linguaggio dell’arte, non certo al linguaggio dei politici o degli economisti; la storia conoscerà le sue modalità di essere grazie alla parola dell’arte. L’illusione è l’ingrediente che porta lo sguardo a vedere nel quadro non solo qualcosa che non c’è, ma anche qualcosa di implicito

al linguaggio dell’arte, che non si esaurisce nell’istante in cui vediamo l’opera. marco tirelli Ho speso tutta la mia vita cercando di far riemergere le cose precipitate nel nero, abissale boccascena del teatro di Malevič, illuminando le figure che vi si nascondono, sottratte alla vista. Dürer parlava della pittura come “perspicere”, la prospettiva come capacità di vedere attraverso.

I legami con la storia dell’arte, il teatro, la prospettiva: affinità e divergenze fra Paolini e Tirelli

La vostra stanza alla Biennale verte sull’arte come illusione. Come avete affrontato il tema? gp Su una lunga parete, contrapposta a quella riservata a Marco Tirelli, prevedo di disegnare un ambiente in prospettiva, con una sorta di quadreria costituita da (ri)quadri allineati su vari ordini. Il titolo, Quadri di un’esposizione, riprende

quello di un brano musicale di Musorgskij. Non è tanto un richiamo alla musica, quanto un pretesto per evocare la presenza illusoria di un certo numero di quadri: ad alcuni corrisponde una presenza concreta – frammenti di tele, immagini, cornici ecc. – mentre altri sono semplicemente disegnati. Davanti alla parete ho collocato una base su cui è posata una teca trasparente con un disegno reticolare inciso sui lati. La teca vuota accoglie soltanto degli indizi – piccoli elementi di plexiglas disseminati in ordine sparso – che riprendono la ripartizione modulare incisa sui lati della teca, come se quei riquadri disegnati si fossero concretizzati e fossero precipitati sul fondo della teca. mt Illusione? È l’unica verità di cui sono davvero certo. Della realtà vediamo solo ciò che la luce ci rende. Pregi e difetti di una tematica artistica imposta. gp È un aspetto negativo, limitante, se non addirittura noioso di molte mostre collettive, che nascono e crescono sull’appello a confrontarsi


photo Stefano Fontebasso

Nel Padiglione Italia della Biennale di Venezia di quest’anno, ciascun artista è associato, vis-à-vis o “vice versa”, a un suo collega di generazione diversa. Per interpretare una problematica affine ad entrambi. Abbiamo scelto la coppia Giulio Paolini e Marco Tirelli per questa intervista doppia che, oltre alla lettura delle opere ospitate, svela la loro rispettiva visione dell’arte.

con un determinato tema. Una sorta di “compito in classe” o “esame di Stato”, che non compete a quella che si presume debba essere la libertà del linguaggio dell’arte. A Venezia non c’è un unico tema a cui tutti debbano fare riscontro, bensì vari temi attribuiti alle diverse coppie di artisti. Quello dell’arte come illusione è un tema che effettivamente mi riguarda e in cui mi ritrovo. In generale, però, guardo sempre meno favorevolmente all’attribuzione di uno specifico tema. Se da un lato la libertà dell’artista è sostanzialmente un’esagerazione, un mito, dall’altro, l’appello a confrontarsi con un tema prefissato è ancora più fuori luogo. Sono due polarità opposte, ma entrambe un po’ stucchevoli. mt Non c’è stata una tematica imposta. Il Padiglione Italia è impostato strutturalmente sul doppio/ dualismo/duplicità, che informa l’opera di artisti come De Dominicis, Ontani, Boetti, Pascali. In cosa consiste il vostro concetto di doppio?

Il riferimento alla simmetria e alla contrapposizione è una costante nel mio lavoro. È il tentativo di non attribuire una verità assoluta alle cose, in particolare all’opera d’arte. Quando mi metto al lavoro, cerco sempre di lasciare affiorare le numerose possibilità che potrebbero intercorrere a risolvere una data immagine. Non c’è mai un segno prorompente e vittorioso. È sempre un cercare di comporre, dar voce a ipotesi diverse. Spesso e volentieri mi è capitato di associare due elementi o di contrapporre le due polarità di una presunta verità: è sempre un dire sottovoce e nel dubbio, mai un’asserzione definitiva. Per la cronaca – senza volermi attribuire la paternità del titolo della mostra – una delle ultime opere che ho congedato si chiama Vice versa ed è costituita da due calchi in gp

gesso che guardano l’uno il proprio riflesso in una lastra specchiante e l’altro un’immagine fotografica di se stesso. Negli Anni Settanta ho fatto un’opera intitolata Mimesi, in cui due calchi in gesso della testa dell’Hermes di Prassitele, posti uno di fronte all’altro, mettono in scena il vuoto che li separa. Nel fare ciò non intendevo riproporre oggi la perfezione dell’arte classica, bensì mettere a fuoco l’intervallo tra un soggetto e il suo doppio. Volevo sottolineare che, se c’è un doppio, c’è anche un vuoto, qualcosa di inesprimibile, un momento di sospensione. I due calchi sono il simulacro di un pieno assente (il modello originale): il loro sguardo attraverso il vuoto, disegna il vero pieno della situazione. mt Più ti abbandoni a ciò che credi di non essere, più ti espandi, più

Il Padiglione Italia è impostato strutturalmente sul dualismo. In cosa consiste il vostro concetto di doppio?

diventi mondo. L’unicità non è di questo mondo, esiste solo la relazione. Frontalmente, con Giulio, facciamo un gioco di specchi in cui le superfici si attraversano e oltrepassano a vicenda, espandendosi uno nell’altro, all’infinito. Un parere sulla scansione nazionale dei padiglioni a Venezia. Alla luce del fatto che da un lato preme la globalizzazione, ma dall’altro i localismi, questa divisione sembra ancora più rilevante. Voi che siete cresciuti in realtà locali come Torino e Roma, cosa ne pensate? gp Qualche tempo fa la suddivisione per padiglioni nazionali era oggetto di richieste di aggiornamento e di evoluzione, poiché la Biennale non doveva più essere una rassegna di situazioni nazionali, ma piuttosto portavoce di tematiche globali. Ma proprio perché oggi tutto tende all’omologazione, a mio avviso diventa di nuovo interessante e istruttivo cercare di mettere a fuoco le peculiarità delle singole situazioni artistiche e delle diverse tradizioni culturali. L’ideologizzazione suprema

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» PAOLINI & TIRELLI. FACCIA A FACCIA CON L’ARTE nel dire “no, l’arte deve parlare con una voce sola, l’umanità deve esprimersi all’unisono” dovrebbe forse tornare a cedere il passo a qualcosa di più relativo, come appunto il carattere storico-geografico dei Paesi di cui il mondo è costituito. mt Non è un problema dell’arte che viaggia, come le nuvole, senza confini, ma di orgoglio e dignità di un Paese. Arte Povera e Nuova Scuola Romana sono i vostri movimenti artistici di provenienza. Cosa è rimasto di quegli anni nella vostra ricerca artistica attuale? gp Quando Germano Celant, che conobbi nella seconda metà degli Anni Sessanta, mi invitò a partecipare alle mostre dell’Arte Povera, non ero un esordiente ma avevo già la mia piccola anzianità di servizio. Non ho il minimo pentimento di aver aderito a quella sigla, con cui peraltro non mi sono mai completamente identificato. Del resto, lo stesso vale anche per altre etichette che si sono succedute, come Arte concettuale e Arte analitica. Sono stato anche segnalato come anticipatore dell’Anacronismo, che promuoveva un ritorno alla pittura a olio su tela e soggetti desunti dall’antichità. Estraneo all’adesione a raggruppamenti e partiti di ogni sorta, non ho mai sottoscritto alla lettera né l’una né l’altra di queste tendenze. mt Molte stelle brillano in cielo

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ATTUALITÀ

anche dopo essere morte, altre sono vive e luminose, altre nascono ora, altre sono spente. Intanto il tempo si espande. Che ricordi avete delle vostre precedenti Biennali? gp Ho partecipato a 12-13 Biennali, contando tutti gli “atti di presenza”. Tra queste, ricordo in particolare due o tre edizioni di particolare rilievo per quanto mi riguarda. Nel 1970 ebbi una sala personale, che si rivelò un’esperienza molto significativa: in catalogo avevo notificato un determinato numero di opere, che descrivevano il mio itinerario fino a quell’anno. All’ultimo momento, tuttavia, ritirai tutto poiché mi sembrava scontato e poco elegante presentare un campionario di quel che avevo fatto fino ad allora. Decisi di esporre solo l’ultima opera realizzata in ordine di tempo, Elegia, costituita dal calco in gesso di un occhio del David di Michelangelo, con un frammento di specchio inserito in corrispondenza della pupilla. Fu un’esperienza importante, che mi istruì sul modo di intendere l’occasione espositiva. Nel 1984 ebbi un’altra sala personale, in cui presentai un dialogo fra cinque ope-

re. Nel 1997 fui invece invitato da Celant a realizzare un intervento sulla facciata esterna del Padiglione Italia ai Giardini, che intitolai Crystal Palace. mt Ottimi. Vi siete mai posti il problema della mercificazione dell’arte? L’arte, per considerarsi tale, deve essere elitaria? La popolarizzazione ne compromette la sua ragion d’essere? gp Mai come oggi ci si è riferiti all’arte contemporanea basandosi sul glamour, sul peso finanziario che un’opera e un artista hanno assunto. Di arte si parla anzitutto se vale milioni di dollari. E proprio a seguito di questa eccessiva attenzione ai valori di mercato, ha preso voce anche, per contrapposizione, l’idea secondo cui l’arte debba essere di tutti e per tutti. Per reagire a questa sopraffazione dei valori di mercato inconsulti e ingiustificati, si corre ai ripari sostenendo un’arte “democratica” fatta con poco, di mero intrattenimento. Oggi l’attribuzione di un valore economico all’opera può difficilmente essere preso alla lettera. La parola del linguaggio

Arte Povera e Nuova Scuola Romana: cosa è rimasto di quegli anni nella vostra ricerca artistica attuale?

dell’arte cresce di volume nel corso del tempo, sempre che sia una parola che valga la pena di essere ascoltata. Per quanto riguarda l’elitarismo, l’arte non deve essere né per pochi né per troppi. L’arte non si pone questo problema e quindi neanche gli artisti dovrebbero preoccuparsi della loro audience. Non mi sono mai posto la questione se quello che faccio sia per molti o per pochi. È sufficiente che sia io ad accettare di congedare una certa opera e di sottoscriverla col mio nome. L’opera si rivolge a chi la vorrà ascoltare. La parola propria la assume grazie al tempo che le sarà concesso, ma lì per lì l’opera presume solo di avere legittimità della propria esistenza. mt Ho sempre pensato di essere un artista inattuale, ma penso che in realtà tutta l’arte lo sia. Il problema è che qualcuno cerca di far credere agli artisti che non sia così, per renderli mondanamente desiderabili. Certo è che il mio desiderio è più quello di immergermi in profondità che non di nuotare in superficie. Qual è oggi la sfida più urgente per l’arte? gp È la speranza di non essere sfidata a diventare portavoce di qualsiasi altra cosa che non sia l’arte stessa. L’arte è l’illusione di un riparo dal frastuono e dalle temperie del quotidiano. Un luogo di relativa quiete. mt Volare più alto del rumore bianco che tutto ingloba.


photo Dylan Don

photo Luis Felipe Do Rosario

GRILLI & XHAFA ITALIAN STRANGERS

di GINEVRA BRIA

Fra i 14 artisti selezionati da Bartolomeo Pietromarchi per Vice versa, la mostra del Padiglione Italia, ci sono anche alcuni “stranieri”. Francesca Grilli (in coppia con Massimo Bartolini nella “stanza” della libertà) è bolognese di nascita ma vive ad Amsterdam, Sislej Xhafa (con Piero Golia all’esterno del padiglione, a riflettere su tragedia e commedia) è kosovaro e ora risiede a New York, ma ha trascorso molti anni in Italia. Due artisti che condividono la ricerca di una precisa tracciabilità simbolica del gesto umano e l’attenzione spasmodica per la misurazione di ogni distanza, da colmare entro uno spazio definito e definitivo. Anche in questo caso, quindi, stesse domande per entrambi.

C

he cosa significa per te, per il tuo lavoro, diventare parte di un paesaggio estetico che rappresenterà l’Italia alla prossima Biennale di Venezia? francesca grilli Ringrazio davvero per questa possibilità, è un onore e una grande responsabilità. Dopo aver passato molti anni all’estero, ora mi sono ritrasferita per un lungo periodo in Italia, proprio per seguire a fondo il progetto e per respirare ancora l’aria del mio Paese. Credo che fare parte di un’idea così ampia e profonda esiga innanzitutto un processo di elaborazione verso se stessi e una riflessione sulla propria appartenenza. sislej xhafa Per il mio lavoro è motivo tanto di orgoglio quanto di timidezza essere stato selezionato e

partecipare al Padiglione Italia. La timidezza è uno dei miei punti di forza e non una debolezza, come solitamente si pensa. Come l’orgoglio, che io vedo, in me, come una forma di rispetto e di sensibilità. Vivo questa mia terza partecipazione da individuo, più che da artista, come una sorta di sfida. Provo un forte senso di responsabilità nel dover rappresentare e interpretare il vostro Paese, quanto una parte del mio percorso, cominciato all’Accademia delle Belle Arti a Firenze. In Italia ho imparato a mettere a

confronto il mio lavoro con la società, con la vita di tutti i giorni, trovando anche, poi, la necessità di andarmene per poter crescere di più. Lavorando principalmente all’estero, quali differenze hai riscontrato culturalmente in Italia, negli ultimi due anni? Cosa cambieresti e come? fg Pur vivendo in un altro Paese, credo che la qualità artistica italiana sia molto alta. Ho sempre pensato che sia un Paese di grande forza, di grandi passioni culturali e umane, di cui purtroppo si sottovaluta l’impor-

Quali differenze hai riscontrato culturalmente in Italia, negli ultimi due anni?

tanza, svilendo le opportunità e non tenendo conto del potenziale visionario dei nostri artisti. L’Italia non ha bisogno di omologazioni culturali con gli altri Paesi, non siamo da meno: questo vorrei sottolineare. sx L’Arte Povera, all’estero, è il movimento che spesso viene ritenuto più vicino al contemporaneo italiano. Sono convinto che ancora oggi, nel mondo, le giovani generazioni ritengano l’Arte Povera un modello da imitare. Ma in Italia le estetiche di riferimento oggi sono diverse. E per me, la fame nel cercare la propria capitale dell’arte, viaggiando tra New York, Berlino, Parigi e Roma, deve rimanere forte. Io devo porre questioni, diventando reazione che arrivi come un messaggio, un sistema per scardinare la pigrizia della mediocrità.

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TRADIZIONI Marcello Maloberti Codogno, 1966 Milano Perturbante, pubblico, performance www.marcellomaloberti.com Flavio Favelli Firenze, 1967 Savigno Memoria, viaggio, casa

STORIA

PAESAGGIO Fabio Mauri Roma, 1926 Roma, 2009 Corpo, scrittura, fascismo www.fabiomauri.com

Luigi Ghirri Scandiano, 1943 Roncocesi, 1992 Pellicola, provincia, nuvola

1925

Gianfranco Baruchello Livorno, 1924 Roma Scarto, agricoltura, abitare www.fondazionebaruchello.com

Luca Vitone Genova, 1964 Berlino Tradizione, mappa, polvere www.lucavitone.eu

Francesco Arena Torre Santa Susanna, 1978 Cassano delle Murge Politica, meridione, misura www.francescoarena.com

1950

1975

Giulio Paolini Genova, 1940 Torino Medium, prospettiva, concetto www.fondazionepaolini.it

Marco Tirelli Roma, 1956 Roma Forma, plasticità, percezione www.marcotirelli.com

Sislej Xhafa Pec, 1970 New York Illegalità, simbolo, cortocircuito

ILLUSIONE Elisabetta Benassi Roma, 1966 Roma Videoarte, calcio, didascalia www.elisabettabenassi.net FRAMMENTO

TRAGICOMMEDIA Massimo Bartolini Cecina, 1962 Cecina Abitabile, condivisione, disorientante

» ITALIAN STRANGERS Quali temi affronti all’interno dei progetti che presenti in Biennale? Che cosa ne pensi del sistema allestitivo di Vice versa? fg Il confronto con altre generazioni, linguaggi, punti di vista e gender mi fa riflettere sul dialogo intenso che ne verrà fuori. Vice versa è un viaggio umano, un percorso storico che parte da un tempo addietro per arrivare al presente, e racconterà l’Italia come uno specchio. sx La sfida con lo spazio è sempre un diretto confronto con me stesso, cambiando spesso le mie prospettive. Dunque, l’idea di allestire a coppie il percorso di Vice versa, fin da subito, mi è piaciuto moltissimo. Credo che questo approccio limiti molto l’egoismo e l’egocentrismo degli artisti, a scapito di una maggiore apertura verso il pubblico e verso le singole differenze intellettuali. Quello che ho in mente è un processo più che un progetto. Anticipo solo una parola: Spritzer!

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ATTUALITÀ

Piero Golia Napoli, 1974 Los Angeles Imprenditoria, ironia, cinema www.pierogolia.com

Francesca Grilli Bologna, 1978 Bologna, Amsterdam Suono, condivisione, miracolo www.francescagrilli.com

LIBERTÀ

Quali procedimenti utilizzi, solitamente, per condensare l’atto nell’arco di una performance, in un rito che esprima esattamente e formalmente il concetto o il mondo che hai in animo di far emergere? fg Mi interessa la capacità umana di ognuno di noi, messa di fronte al proprio limite apparente. Amo infrangere quel limite, portandolo all’esasperazione, fino a superarlo. Il microgesto quotidiano è il punto di forza delle mie azioni. L’esperienza in cui tutti siamo coinvolti è il mio punto di arrivo. sx Cammino circa sei ore al giorno, qui a New York. Per le strade mi stupisco della vita quotidiana,

osservando le persone vere. Sono loro che compiono gli atti più animaleschi che aggrediscono lo spazio. Proprio come durante il tempo della performance, che deve reagire lontana dall’ambiente asettico del white cube. Tanto Francesca Grilli quanto Sislej Xhafa hanno la capacità di mettere in luce strategie visive e compositive di lettura dell’Altro, attraverso macrotematiche socioidentitarie. Quali sono le ultime intuizioni alle quali stai lavorando e perché? fg Sviluppo e approfondisco la mia ricerca verso il senso di responsabilità che il pubblico deve avere verso

Che cosa ne pensi del sistema allestitivo di Vice versa?

l’opera stessa, a volte entrando a farne parte. Responsabilità condivisa con performer, istituzione, sistema dell’arte e artista. sx Ultimamente sono attratto dalle nuove tecnologie, da come esse manipolino i nostri atteggiamenti; e da come la propaganda guidi le trasformazioni socio-economiche nel mondo. Oggi si vive nel teatro del consumismo e sul palco della televisione: per diventare osservatori curiosi bisogna incominciare a utilizzare le nuove tecnologie in maniera creativa, fondando una nuova espressività democratica. Quali sono i tuoi futuri progetti, dopo la partecipazione in Biennale? fg Ora c’è la Biennale, poi credo trascorrerò un po’ di tempo con mia figlia. sx Per ora è troppo presto parlarne, li svelerò dopo la Biennale. Per ora ripeto ancora: Spritzer!




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di CRISTIANA DE MARCHI

GOLFO MISTICO

L

a musica gioca un ruolo importante nella produzione artistica dei Paesi del Golfo, quel golfo definito “Persico” secondo la prospettiva occidentale ma localmente rivendicato come Arabico. La prospettiva può cambiare quasi ogni cosa: si pensi a quella del vincitore rispetto a quella del vinto, tanto per fare un esempio di eclatante ovvietà. L’edizione 2013 della Biennale di Venezia vede la partecipazione di ben quattro Paesi della penisola arabica: Arabia Saudita (per la seconda volta, se si esclude la presenza di Edge of Arabia nel 2009), Emirati Arabi Uniti (alla sua terza partecipazione), Bahrain e Kuwait, alla loro prima apparizione lagunare. È una coincidenza interessante da notare il fatto che questi Paesi, a

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ATTUALITÀ

chiara connotazione maschilista, abbiano tutti optato per una curatela femminile: gli Emirati presentano Reem Fadda, curatrice per il Guggenheim Museum della collezione mediorientale; il Regno del Bahrain si affida alla curatela di Melissa Enders-Bhatia; Sara Raza, critica d’arte e curatrice indipendente iraniana di stanza a Londra, in collaborazione con Ashraf Fayadi, poeta e artista, cura il padiglione saudita (inserito però fra gli eventi collaterali e non come partecipazione nazionale); mentre il padiglione del

Kuwait è diretto dall’artista e curatrice di origini palestinesi Ala Younes. Cosa accomuna questi padiglioni, quali caratteristiche ricorrono o, opponendosi, come creano un discorso che possa illuminare la nostra comprensione di una realtà dominata dai cliché e ancora ampiamente misconosciuta in Occidente? National Works allestita a Palazzo Michiel - affianca i lavori di due artisti “storici” del Kuwait: lo scultore Sami Mohammad (1943) e il fotografo di origini palestinesi Tarek Al-Ghoussein (1962). Seppur lontani in termini

Questi Paesi, a chiara connotazione maschilista, hanno tutti optato per una curatela femminile

generazionali, Ala Younes sembra aver optato per una scelta di sostanza, per un dialogo non diretto fra gli artisti, bensì mediato dalla presenza dell’architettura e della ritrattistica ufficiale che contribuì a caratterizzare la definizione di un’identità nazionale agli albori della nascita della nazione nel 1961. Operando sul terreno della dialettica fra pubblico e privato, declinata in molteplici variabili, la curatrice punta su un aspetto dell’esperienza individuale in questi Paesi regolati da regimi totalitari ma spesso illuminati, in cui tuttavia il singolo non è un interlocutore, ma deve accettare di occupare la posizione, spesso troppo comoda, di suddito. E lo fa proiettando il discorso retrospettivamente o comunque ricorrendo a un palinsesto strutturale che contribuisce a traslarne l’essenza e a


LA CINA INVADE VENEZIA

Tra gli eventi collaterali della Biennale di Venezia, quest’anno particolarmente numerosi, abbondano gli interventi di artisti cinesi. E c’è anche Ai Weiwei. Certo, non invitato negli spazi ufficiali della Repubblica Popolare Cinese all’Arsenale, ma con un doppio appuntamento, nel padiglione tedesco e da Zuecca Project Space con Disposition. Alla Giudecca presenta Straight, un progetto realizzato recuperando lunghe aste di armatura delle scuole crollate durante il terremoto di Sichuan del 2008, mentre la chiesa di Sant’Antonin accoglie un nuovo lavoro sulla relazione tra Venezia e la Cina. Quella cinese è in ogni caso la nazionalità maggiormente rappresentata fra gli interventi sparsi in città. In alcuni casi si tratta di riflessioni sulla storia dell’arte, come per Voice of the Unseen. Chinese independent art 1979-today, che individua nel 1979 e nel muro della democrazia di Xidan a Pechino il punto di partenza per una ricognizione della storia dell’arte contemporanea cinese, attraverso il lavoro di oltre cento artisti e un’imponente biblioteca. Anche Passage to History: 20 Years of La Biennale di Venezia and Chinese Contemporary Art si propone di riassumere l’evoluzione dei rapporti tra la Repubblica Popolare e l’Occidente a partire dalla prima partecipazione di artisti cinesi contemporanei alla Biennale veneziana [nella foto, Eternity, Dedicated to Hrabal (2011) di Mao Xuhui]. Questo tema si avvicina a Culture.Mind.Becoming che, nella due sedi di Palazzo Mora e Palazzo Marcello, concentra l’attenzione sulla relazione tra globalizzazione e tradizione. Sono una quarantina gli artisti selezionati - suddivisi in tre sezioni, curate in modo indipendente da Karlyn De Jongh, Huang Du e Yang Shinyi, Danilo Eccher (che cura una personale di Fang Lijun) - per rappresentare la contaminazione tra estetica orientale e occidentale. Il solo Mi Qiu occupa Palazzo Bacchini delle Palme con United Cultural Nations, l’architetto di Macao Carlos Marreiros riflette sulla trasformazione delle informazioni in conoscenza in PATO.MEN, mentre per Simon Ma l’esplorazione di una foresta pluviale ha costituito lo spunto per una riscoperta del legame con la natura e per un duetto con le fotografie di Julian Lennon in Ink Brush Heart, curata da Achille Bonito Oliva nella Chiesa di San Stae. Due sedi per Mind Beating, che considera il corpo come metafora della società trasferendo l’idea di frequenza cardiaca alla mente e mostrando come gli artisti invitati abbiano analizzato momenti in cui il battito accelera, a partire dalla situazione attuale della Cina. Se si crede che le affinità tra Venezia e la Cina siano poche, ecco il Canal Grande, al Museo Diocesano, omonimia che unisce la via d’acqua veneziana e il condotto scavato per collegare Beijing e Hangzhou, realizzando il fiume artificiale più lungo al mondo, raccontato già da Marco Polo. “Arrivano i cinesi, arrivano a milioni”, cantava Bruno Lauzi nel 1969. Anche a Venezia, nel 2013.

Molte le partecipazioni nazionali dai Paesi del Golfo quest’anno alla Biennale di Venezia: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait. Molte le ambizioni e le aspettative. Ma esiste un discorso comune? Valutazioni e risposte dalla nostra corrispondente in Medio Oriente.

MARTA CEREDA

universalizzarla. In una prospettiva simile, seppur facendo uso di strumenti significativamente diversi, Reem Fadda ha scelto di abbracciare un tema universale e di renderlo esperibile da parte dei visitatori della Biennale. Mohammed Kazem, il solo artista chiamato quest’anno a rappresentare gli Emirati Arabi Uniti, lavora da oltre un decennio sul progetto Directions, per il quale impiega le coordinate fornite dal GPS in una serie di lavori in cui l’uso di riferimenti spazio-temporali si traduce in molteplici configurazioni, in aperta sfida delle leggi fisiche più comuni e accettate. Mantenendo la promessa fatta due anni or sono, il Bahrain partecipa quest’anno per la prima volta alla Biennale con la mostra In a World of Your Own. La tormentata situa-

zione politica del 2011 costrinse l’allora commissario del padiglione (e quest’anno curatrice) Melissa Enders-Bhatia a rinunciare a presentare il lavoro di Waheeda Malullah (ugualmente selezionata quest’anno [nella foto, Talk with God]) e Hassan Hujairi (sostituito da Mariam Haji e Camille Zakharia). Malullah, che ha recentemente presentato a Dubai - nell’ambito della mostra MinD/Body curata da chi scrive - alcune immagini dalla serie Talk with God, ripropone a Venezia il lavoro fotografico A Villager Day Out (2008), una serie di immagini in cui

il contrasto fra bianconero e colore focalizza l’attenzione sulla condizione e il ruolo della donna nella società islamica, un ruolo controverso in cui sembrano prevalere la connotazione infantile e lo statuto di “minore” rispetto alla rivendicazione di una piena maturità e incidenza sul contesto sociopolitico locale. All’opposto lato della scelta adottata dal Kuwait, Rhizoma (Generation in waiting) - ai Magazzini del Sale - punta lo sguardo sulla più giovane generazione di artisti sauditi. Come spiega la curatrice Sara Raza: “Il rizoma, la ra-

Il singolo non è un interlocutore, ma deve accettare di occupare la posizione, spesso troppo comoda, di suddito

»

dice di una pianta che contrariamente al solito si sviluppa lateralmente, viene usato come metafora per la generazione attuale di giovani artisti sauditi. Questi artisti, come un rizoma, sono parte di una rete sotterranea, presentano un approccio stilisticamente indipendente e distintivo, tecnologicamente astuto e sperimentale, con l’abilità di rompere con la tradizione corrente per formare nuove radici”. Fra i giovani artisti chiamati a “sostituire” la generazione ormai internazionalmente riconosciuta e rappresentata da Ahmed Matar, Manal Al Dowayan e Abdulnasser Gharem, per l’Arabia Saudita ci sono Ahaad Al Amoudi, Ahmad Angawi, Basma Felemban, Nasser Salem, Nora A. Al Mazrooa, Nouf Alhimiary, Sami Al Turki, Sarah Al Abdali, Sarah Abu Abdullah e Shaweesh.

ATTUALITÀ 75


» GOLFO MISTICO

KUWAIT

In a World of Your Own artisti: Mariam Haji, Waheeda Malullah, Camille Zakharia curatore: Melissa Enders-Bhatia location: Arsenale

BAHRAIN

National Works artisti: Sami Mohammad, Tarek Al-Ghoussein curatore: Ala Younis location: Palazzo Michiel

EMIRATI ARABI

Walking on Water artista: Mohammed Kazem curatore: Reem Fadda location: Arsenale

ARABIA SAUDITA

PALAZZO MICHIEL Rhizoma (Generation in Waiting) artisti: Ahaad Al Amoudi, Ahmad Angawi, Basma Felemban, Nasser Salem, Nora A. Al Mazrooa, Nouf Alhimiary, Sami Al Turki, Sarah Al Abdali, Sarah Abu Abdullah, Shaweesh curatore: Sara Raza and Ashraf Fayad location: Magazzini del Sale

ARSENALE

MAGAZZINI DEL SALE

BRICS BIENNALE

Scorrendo il programma delle partecipazioni nazionali 2013 a Venezia, spicca da subito l’assenza del Padiglione India che, dopo aver debuttato con grande energia appena due anni fa, stavolta manca clamorosamente all’appello (una sola presenza indiana si segnala nella mostra di Massimiliano Gioni, quella di Prabhavathi Meppayil). Stessa sorte per Singapore, che ha però annunciato di voler tornare a Venezia nel 2015, con grande sollievo della comunità artistica locale, che aveva alzato vibranti proteste dopo la decisione della sospensione delle partecipazioni alla Biennale da parte del National Arts Council. Massiccia, al contrario, la partecipazione della Cina, che allestisce come sempre il suo padiglione negli spazi dell’Arsenale, oltre a mettere in campo una gran quantità di eventi collaterali (li potete trovare tutti nel box alla pagina precedente). In occasione della sua quinta presenza veneziana, la Cina presenta una mostra collettiva intitolata People’s Republic of Transfiguration, a cura di Wang

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ATTUALITÀ

Chunchen. I sette artisti invitati, He Yunchang, Hu Yaolin, Miao Xiaochun, Shu Yong, Tong Hongsheng, Wang Qingsong, e Zhang Xiaotao, indagano il concetto di trasformazione, soprattutto in relazione al rapporto fra arte e vita di tutti i giorni, esplorando le zone di confine in cui le attività quotidiane possono trasformarsi in gesto performativo e artistico. Sempre all’Arsenale, torna per la quarta volta il Sudafrica, approdato in Biennale per la prima volta nel 1993 (a seguire, nel 1995 e nel 2011) dopo essere stato escluso per decenni a causa delle leggi razziali vigenti durante l’Apartheid. Oggi il Sudafrica si presenta come un Paese in netta ascesa, sia economicamente che culturalmente, ma il peso della storia grava ancora parecchio sulle sue spalle (e sulla coscienza di molti). La collettiva curata da Brenton Maart, artista e scrittore, con il programmatico titolo Imaginary Fact: Contemporary South African Art and the Archive, è una mostra che include una ventina di artisti, scelti con l’obiettivo di comporre un panorama più vario possibile delle diverse ricerche artistiche contemporanea del Paese. Tuttavia, la lista continua a comporsi e allungarsi mentre scriviamo, e l’operazione di selezione sembra delicata, sia per problemi di tipo culturale (dopo il primo annuncio, il curatore è stato attaccato per non aver inserito nessuna artista nera donna) che di trasparenza. Nel 2011, infatti, la mostra sudafricana fu oggetto di un pesante scandalo quando si venne a sapere che il commissario era anche gallerista e aveva – indovinate un po’ – selezionato artisti della propria scuderia. Curioso il progetto del Padiglione Brasiliano ai Giardini, che con il titolo Inside/Outside propone una mostra che affianca i lavori inediti di Hélio Fervenza e Odires Mlászho a opere storiche di

Max Bill, Bruno Munari e Lygia Clark. Il curatore, Luis Pérez-Oramas (che è anche direttore della Biennale di San Paolo e Latin American Curator al MoMA di New York) dichiara di aver costruito una mostra con una struttura “a costellazione”, che prende le mosse da un’icona potente, quella del celebre nastro di Moebius, per indagarne le implicazioni formali e filosofiche nel presente. Solo show, invece, per il Padiglione Russia, tutto dedicato a Vadim Zakharov, uno dei massimi rappresentati del concettualismo moscovita, alla sua seconda Biennale. Danaë, questo il titolo della mostra, è curata per la prima volta da uno straniero, il tedesco Udo Kittelman, attuale direttore della Nationalgalerie di Berlino. Torna anche l’Azerbaijan, con sede a Palazzo Leffe, in campo Santo Stefano, che presenta una mostra collettiva curata da Hervé Mikaeloff. I sei artisti, Rashad Alakbarov [nella foto, Ornament del 2011], Sanan Aleskerov, Chingiz Babayev, Butunay Hagverdiyev, Fakhriyya Mammadova e Farid Rasulov, indagano il concetto di ornamento, recuperando in chiave contemporanea la grande tradizione storica della regione del Caucaso. Tra le “potenze” artistiche emergenti in area europea - o quasi - si segnala l’ormai affermata Polonia, che punta tutto su Konrad Smolenski (da vedere anche le Convergenze parallele fra Paweł Althamer e il russo Anatoly Osmolovsky alla Casa dei Tre Oci, evento promosso dalla V-A-C Foundation di Mosca), e la Turchia, che si presenta all’Arsenale con la rodata coppia composta dall’artista Ali Kazma e dal curatore Emre Bayka (già vista alla Biennale di Istanbul). L’opera presentata, Resistance, è un’installazione video multi-canale frutto di riprese effettuate in giro per il mondo e durate circa un anno. VALENTINA TANNI





di SANTA NASTRO

BIENNALI, CHE STORIA! A l Salon des Refusés del 1863 era dedicato il primo capitolo del primo volume di questa storia delle mostre proposta per Phaidon da Bruce Altshuler. Ora è uscito il secondo e ultimo tomo, per una ricognizione efficace e inevitabilmente incompleta. Anzi, proprio nel criterio delle scelte risiede uno degli aspetti più interessanti del progetto. Ne abbiamo parlato con l’autore. Il libro, nei suoi in due volumi, ripercorre la storia delle Biennali tra il 1863 e il 2002. Come è cambiato a tuo parere lo statuto della Biennale dalle origini a oggi? La prima Biennale nel 1895 nasce sullo sfondo delle esposizioni internazionali del XIX secolo, in cui le creazioni di carattere artistico e commerciale venivano esposte sotto forma di competizione tra nazioni. In tal senso la struttura dei Padiglioni Nazionali è stata centrale nella progettazione della Biennale di Venezia, anche se queste grandi mostre ricorrenti servivano a un altro scopo. La seconda esposizione di questo tipo è stata la Carnegie International, creata dall’omonimo industriale Andrew Carnegie nel 1896, con l’obiettivo di portare a Pittsburgh l’arte contem-

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ATTUALITÀ

poranea di tutto il mondo e mettere insieme una collezione per il museo che aveva fondato nella stessa città. Attrarre l’arte internazionale in un luogo lontano dai soliti centri, accrescendo così lo status culturale della città, è anche l’obiettivo che ha portato alla fondazione della Biennale di San Paolo nel 1951. Con la prima edizione di Documenta, nel 1955, la politica entra in scena, dimostrando con quel progetto il ritorno della Germania nella comunità delle “nazioni civilizzate” dopo gli orrori della guerra e della repressione nazista dell’arte moderna. Analoghe motivazioni politiche generarono la Biennale di Johannesburg e quella di Gwangju nel 1995, che celebrarono la fine dell’apartheid in Sudafrica e della dittatura nella Corea del Sud, anche se la diffusione delle biennali fuori dai centri euro-americani è anche collegata al fenomeno della globalizzazione. Un altro momento importante nella storia delle biennali e delle esposi-

zioni artistiche si è verificato molto prima, agli inizi degli Anni Settanta, quando le grandi mostre si diedero l’obiettivo di offrire una cornice interpretativa per comprendere la pratica artistica contemporanea. Dopo la Documenta 5 (1972) di Harald Szeemann, i curatori hanno cominciato a costruire le biennali attorno a un tema centrale. A questo fenomeno si è affiancata l’ascesa del curatore come produttore culturale - e del mercato dell’arte contemporanea - dando così vita all’attuale sistema delle biennali.

Con la prima edizione di Documenta, nel 1955, la politica entra in scena, dimostrando il ritorno della Germania nella comunità delle “nazioni civilizzate” È indubbio il feno-

meno della biennalizzazione. Abbiamo assistito, dagli Anni Novanta in poi, a una proliferazione sempre più massiccia di questo genere di mostra nel mondo. Cosa ha portato, a tuo parere, un numero crescente di territori a dotarsi di una propria rassegna d’arte contemporanea? Si è trattato di un mero fatto di moda, oppure della necessità di rimarcare attraverso l’arte la propria identità nazionale, in un’epoca in cui i

confini geografici sono sempre più labili? Con l’avvento dell’età postcoloniale negli stati dell’Africa e dei Caraibi, la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’Unione Sovietica, lo sviluppo economico in Cina e nelle altre nazioni asiatiche, nuove esigenze - economiche, politiche e ideologiche - hanno dato vita all’espansione del sistema espositivo attraverso le biennali. Oltre alla capacità che queste mostre hanno di attrarre l’attenzione culturale a livello mondiale, le biennali hanno stimolato lo sviluppo delle infrastrutture e del turismo. Inoltre hanno creato nuove opportunità per artisti prima esclusi dal mondo dell’arte internazionale, portando freschezza - sia a livello di opere che di strategie curatoriali - in un sistema che si nutre del nuovo. E, certamente, non è meno significativo l’orgoglio civico e nazionale che può provenire dall’ospitare una biennale. Qual è dunque, a questo proposito, il ruolo geopolitico - se ne hanno uno - delle biennali? Come tutti i grandi eventi culturali, le biennali hanno un’importante funzione geopolitica, perché la cultura è segno di status e di potere. Questo è visibile, ad esempio, nello


PADIGLIONI: ATTUALITÀ DI UN ANACRONISMO

Biennali, Manifesta, Documenta, chi più ne ha più ne metta. Una storia che parte nel 1895 con la prima edizione veneziana e che oggi è il tema di un importante libro. Anzi, due. Si tratta di Salon to Biennial 1863-1959 e Biennials and Beyond: Exhibitions that Made Art History, 1962-2002. Un percorso nella storia delle Biennali tra il 1863 e il 2002. È appena uscito il secondo volume, edito da Phaidon. Di questo e altro abbiamo parlato con l’autore, Bruce Altshuler, direttore del programma in Museum Studies alla New York University.

Nel 1895 nasceva la Biennale di Venezia, la più antica tra le mostre ricorrenti. Sulle orme delle grandi esposizioni universali che incarnavano il mito moderno dello scambio e del confronto tra nazioni, l’Italia cercava di trovare con la Biennale un cemento culturale a giustificazione della sua recente unità e una riconoscibile identità da opporre a quelle che Francia o Inghilterra, con contorni più marcati, già proponevano al mondo. Anche attraverso questa manifestazione, Venezia, città d’arte, cercava di trovare un nuovo ruolo fertilizzando un terreno in cui affondavano profonde radici. Altri tempi, altre esigenze. Negli ultimi tre decenni sono comparse capillarmente in giro per il mondo una miriade di nuove manifestazioni che, a partire dalla formula veneziana, si sono evolute in una vera e propria categoria di esposizioni che, sotto l’etichetta biennale (o a volte triennale, quadriennale), sono diventate una formula vincente in grado di richiamare pubblico, attenzione della stampa, sponsor, collezionisti. Semplificando il problema, si potrebbe affermare che il fenomeno delle Biennali sia nato per presentare il panorama in atto, le emergenze dell’arte, i nuovi artisti, temi e soggetti che prima non rientravano nel panorama di competenza dei musei i quali, tradizionalmente, avevano il ruolo di storicizzare e conservare, non quello di offrire uno spazio alla sperimentazione. Recentemente tale barriera è palesemente stata abbattuta e la distanza fra l’attività museale e quella delle mostre periodiche si è fatalmente ridotta, tanto da indurre a un generale ripensamento del ruolo stesso delle biennali. Anche perché siamo di fronte a una certa omogeneità nelle proposte avanzate da manifestazioni che spesso sono ricordate più per l’egemonia curatoriale che per la qualità dell’offerta artistica. In questo panorama, la Biennale di Venezia sembrerebbe dover soffrire anche più delle altre “più giovani” rivali internazionali, soprattutto per il retaggio ottocentesco della divisione in Padiglioni nazionali, che potrebbe costituire un ingombrante fardello nel compito di rappresentare i processi dinamici del panorama artistico in fieri. Paradossalmente, però, proprio questa caratteristica, sulla carta così poco sintonica al glamour multiculturale internazionale, negli ultimi anni si sta rivelando una risorsa anche per la possibilità di limitare la “dittatura del curatore” - giocando sul titolo di una recente Biennale di Venezia - in favore di una polivocità complessiva della proposta che alla lunga si sta rilevando una ricchezza e non più un anacronismo. Anche a confronto con la monolitica struttura di Kassel, che personalmente nelle ultime due edizioni non mi ha convinto fino in fondo, il fascino multiforme e contraddittorio della vecchia signora lagunare sembra rimanere intatto. I padiglioni, infatti, avendo perduto con il passare degli anni quella necessità intrinsecamente nazionalistica di presentare il meglio di sé esclusivamente in termini positivi e acritici, si sono trasformati, in molte occasioni, in laboratori di sperimentazione che entrano in relazione dialettica con la mostra concepita dal direttore, relativizzandola e, proprio per questo, arricchendola grazie a un confronto ravvicinato che nessun’altra biennale è in grado di offrire allo spettatore. ROBERTO PINTO

sviluppo della Biennale di Shangai e di Sharjah, simbolo della crescita economica e politica della Cina e degli Emirati Arabi Uniti. E per ciò che concerne i padiglioni nazionali? Ora che San Paolo ha eliminato i padiglioni, Venezia resta l’unica rassegna a mantenere questo criterio... Fino ai tardi Anni Sessanta, il sistema delle partecipazioni nazionali della Biennale di Venezia è stato oggetto di numerose critiche, ma molte persone ritengono oggi che la maggior parte delle esperienze che ricordano come memorabili si sono svolte proprio nei padiglioni nazionali, dove corpus di opere o opere singole (senza dimenticare le impostazioni curatoriali) sono esposte al di fuori dalla grande mostra organizzata dal direttore artistico. Se letta in termini di competizione tra nazioni, l’impostazione ha poco senso, ma se pensiamo ai padiglioni come luoghi in cui vedere opere e installazioni eccezionali presentate con intelligenza, questi conservano senza dubbio un ruolo centrale nell’esperienza della Biennale. Sempre a questo proposito, che senso ha, a tuo parere, la gestione libera che molti Paesi hanno adot-

tato quest’anno? Lo stato-nazione è semplicemente un concetto superato oppure le “limitazioni” dei padiglioni stimolano la creatività di commissari e curatori? Credo che ci sia molto valore nelle mostre dei padiglioni, che sono strettamente connesse (anche se non necessariamente limitate) agli artisti nazionali. A dispetto del grado di globalizzazione del mondo dell’arte, gli artisti e le loro opere provengono infatti da luoghi specifici e da particolari background con peculiari interessi. Le presentazioni nazionali sottolineano molti aspetti di queste specificità, compreso come queste vengono percepite a livello internazionale. I padiglioni nazionali portano inoltre a Venezia molte opere interessanti, a volte sorprendenti, che non potrebbero essere viste altrimenti.

menta, Biennali avevano esposto quelli che verranno considerati, un domani, pompier? Come queste mostre verranno considerate tra un centinaio di anni, solo la storia potrà dirlo. Il mio obiettivo è stato quello di selezionare le esposizioni più rilevanti, quelle che valeva la pena di documentare. Alcune mostre hanno segnato momenti di svolta e innovazione nella pratica curatoriale; altre hanno ospitato opere provocatorie all’interno di determinati contesti politici; molte hanno rappresentato un importante momento di sviluppo nella storia culturale del periodo in cui si sono svolte.

Come tutti i grandi eventi culturali, le biennali hanno un’importante funzione geopolitica, perché la cultura è segno di status e di potere

Le opere più interessanti un secolo fa si vedevano ai Salon des Refusés, ma lo diciamo col senno di poi. A tuo parere fra un secolo penseremo che le varie Manifesta, Docu-

Il rallentamento dei lavori nella stesura del secondo volume del tuo libro è dovuto a normali questioni editoriali oppure il lavoro si è rivelato più complesso di quello che pensavi? È stato un progetto molto complesso, che ha richiesto una vasta ricerca per trovare tante immagini e testi

sconosciuti, e poi ottenere il permesso di pubblicarli. Ecco perché ha richiesto molto più tempo del previsto. Nel grande affresco che hai ricomposto, quali sono stati a tuo parere i momenti salienti, nevralgici, nella storia della Biennale di Venezia? Solo per citare alcuni momenti storici della Biennale: l’elegantissima mostra di Gustav Klimt nel 1910, la famosa assegnazione del premio per il miglior artista nazionale a Robert Rauschenberg nel 1964, la creazione nel 1980 della sezione Aperto dedicata agli artisti emergenti, e la Biennale del 2003, quando Francesco Bonami delegò ad altri la curatela della sua mostra. C’è un augurio che vuoi fare alla Biennale di Massimiliano Gioni? La mia speranza per Venezia, come per tutte le mostre importanti, è che contenga meravigliose opere d’arte, lavori in grado di espandere il nostro pensiero e arricchire la nostra esperienza, gettando nuova luce sulla natura e sulle sfide del mondo in cui viviamo. E da studioso di mostre, non vedo l’ora di vedere il modo in cui questo obiettivo verrà perseguito, e le idee che emergeranno dalla sua realizzazione.

ATTUALITÀ 81





LE OPERE IN BIENNALE, PERCHÉ NON LE VENDE BARATTA? 88.EDITORIA CHI CI CAPISCE QUALCOSA È BRAVO. O HA STUDIATO 90.DESIGN PRESENTAZIONE 10 E LODE. ANCHE L’OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE IN CUCINA 92.ARCHITETTURA MARSIGLIA OVVERO LA RIUNIONE DELLE ARCHISTAR 96.CINEMA APOCALISSE, MA DA UN’ALTRA PARTE. LA DISTOPIA DI OBLIVION 98.MUSICA LEONI D’ARGENTO CON L’ARCHETTO IN MANO. STORIA DI PROMETEO 100.EDUCATIONAL RIPARTIRE DA BERTRAND RUSSELL E GINA PANE 102.TALENTI ALESSANDRO DI PIETRO, L’INVENTORE DELLA GEOMPIATTA 104.FOTOGRAFIA VANITAS E ALTRE STORIE. NEGLI SCATTI DI JULIA KRAHN 106.BUONVIVERE MANGIAR BENE A BORDO STRADA. AL CAMION QUI FUME 108.PERCORSI FRA IL CANAL GRANDE E IL CIMITERO. VENEZIA PER FLÂNEUR 86.MERCATO


La Biennale di Venezia è una delle istituzioni dell’arte con la più alta capacità di consacrare la reputazione di un artista. È dunque fatalmente legata al mercato, anche quando predicare - magari in buona fede - purezza e autonomia. Ma allora perché non riaprire l’ufficio vendite?

LA BIENNALE IN VENDITA di MARTINA GAMBILLARA

Quando venne fondata la Biennale di Venezia nel 1895, uno dei principali obiettivi era quello di creare un mercato per l’arte contemporanea e un collezionismo a essa rivolto. Venne organizzato un ufficio vendite fin da subito, che tratteneva il 10% di commissione sul prezzo di vendita delle opere esposte, riscuotendo un tale successo che gli organizzatori riuscirono a donare una parte dei proventi in beneficenza. La traccia di queste transazioni è reperibile nell’Archivio Storico della Biennale, con i registri in cui venivano segnate le opere vendute, gli acquirenti e il prezzo di vendita. Claudia Gian Ferrari, nel suo saggio Le vendite alla Biennale dal 1920 al 1950. Appunti per una storia del gusto attraverso l’analisi del mercato, ha utilizzato questi dati per analizzare edizione dopo edizione l’evoluzione delle vendite, dal primo dopoguerra al 1950, passando per gli anni in cui era proprio suo padre il responsabile dell’ufficio. Si evidenzia così la trasformazione delle scelte di collezionismo, da quello più ancorato ai canoni dell’Ottocento e ai suoi tratti accademici, a quello più aperto verso le proposte contemporanee, con non poche contraddizioni alla luce di una lettura a posteriori. Ad esempio, nella Biennale del 1922 non ebbero alcun successo Modigliani, Bonnard e Monet, per citarne alcuni, ma nemmeno Carrà, il quale dovrà aspettare il 1928 per vedere quattro opere acquistate dai musei italiani. Nel 1930 anche i grandi Klee, Moore, Ernst e Hopper non ebbero ancora alcun riscontro sul mercato. Per fare qualche esempio quantitativo, nella prima Biennale del dopoguerra, quella del 1920, su 1.805 opere esposte ne furono vendute 682, delle quali 263 italiane e 419 straniere, per un totale di 2.628.747 lire. Per tutti gli Anni Venti, le percentuali delle opere vendute si attestano intorno al 10- 15% sul totale delle esposte, con un crollo dal 1930 dopo la crisi del ’29. In questa edizione, la Galleria d’Arte Moderna di Milano acquista una natura morta di Morandi per 2.200 lire, molto poco in confronto alle 9.000 spese per Casorati e Romanelli.

Fino a quel momento i principali acquirenti erano collezionisti privati, italiani, con una piccola percentuale di enti pubblici e privati che facevano più che altro una scelta d’immagine. A partire dagli Anni Trenta, invece, si delinea una nuova tendenza: saranno i musei i principali 86

MERCATO


compratori e l’attenzione inizierà a focalizzarsi su De Pisis, de Chirico, Casorati, Depero e i Futuristi. Inoltre, iniziano ad affacciarsi i musei stranieri, primi fra tutti il Whitney Museum e la Galleria Nazionale di Berlino, attenti all’arte italiana. Dal 1942 venne affidato l’incarico dell’ufficio vendite a Ettore Gian Ferrari, grazie al quale le vendite arrivarono a raddoppiare dopo anni di discesa, totalizzando in quella edizione 3.715.286 lire. Anche a lui spettava una percentuale sulle vendite, il 2% sulla percentuale spettante alla Biennale, percentuale che nel frattempo era cresciuta al 15%. Anche grazie alla sua figura si inverte nuovamente la tendenza e saranno i privati a prevalere negli acquisti, con il 76% del mercato. Nel 1968 le proteste studentesche e degli intellettuali [nella foto] si accanirono contro questo organo della Biennale, accusato di essere uno strumento del capitalismo. D’altro canto, iniziava a prendere forma una struttura di mercato in cui gli artisti venivano introdotti alla Biennale dai mercanti, che si occupavano personalmente delle trattative con musei e collezionisti. Il mercato

non è mai uscito dagli spazi della Biennale, ha semplicemente spostato i guadagni a favore di galleristi e mercanti, perdendo la possibilità di guadagno per l’organizzazione.

Nel 1993 Achille Bonito Oliva lancia la proposta di riaprire l’ufficio vendite. A sostegno dell’iniziativa, una ricerca dell’Università di Venezia: dal 1895 e il 1914 la Biennale ha incassato l’equivalente di circa 40 miliardi di lire al 1993. L’ufficio non ha riaperto, ma gli affari continuano ad andare alla grande per i galleristi che rappresentano gli artisti presenti in laguna: nel 2007 la White Cube ha venduto gran parte delle opere di Tracey Emin presenti nel Padiglione inglese ancora prima dell’apertura; nel 2011 la maestosa candela di Urs Fischer modellata a scultura del Giambologna è stata venduta prima dell’inaugurazione per oltre 3 milioni di dollari. Nel 2003 Victoria Miro propone un proprio ufficio vendite di fronte al Padiglione inglese: al punto di accoglienza si potevano acquistare le edizioni limitate di Chris Ofili, realizzate appositamente per l’evento, in tiratura limitata di 350 copie, al prezzo di 500 euro. Nel 2009 Paolo Baratta prova a rimarcare l’autonomia della Biennale dal mercato, il cui ruolo fondamentale “non è quello di segnalare l’andamento delle quotazioni di mercato dell’arte, ma di osservare dove stanno andando gli artisti e, attraverso l’arte, dove sta andando il mondo”. Mentre pronuncia queste parole, i Padiglioni nazionali pullulano di galleristi impegnati a svolgere il loro lavoro. Se quest’anno Bartolomeo Pietromarchi ha lanciato un’iniziativa di crowdfounding a favore del Padiglione Italia, il ripristino di un ufficio vendite per trattenere una percentuale sul guadagno dei galleristi e dei mercanti non sarebbe un’idea da scartare…

ASTA LA VISTA

di SANTA NASTRO

AL MERCATO DI VENEZIA Quanto vale un Leone d’oro alla Biennale? A sentire Santiago Sierra, che nel 2007 ha acquistato da Regina José Galindo il premio vinto nel 2005 facendone un’opera (Adquisición de un premio [nella foto]), il suo valore è soltanto auratico. Senza voler collegare in alcun modo un riconoscimento che ha un significato storico-critico agli andamenti del mercato, il premio come influisce - se lo fa - la percezione collettiva? In un’asta Sotheby’s di maggio 2011 a New York, l’opera di Franz West, Leone d’oro un mese più tardi, intitolata Il condor e pasa (1999), stimata tra i 69 e i 104.000 euro, viene battuta a quota 104. In ottobre, il suo Untitled (Big Passstück) (1982), un’opera meno recente parte del catalogo Christie’s di Londra per quella stagione, stimata tra i 60 e gli 80mila euro, viene battuta a 85. Per ciò che concerne Nathalie Djurberg, Leone, questa volta d’argento, alla Biennale del 2009, i suoi video restano settati sui 15mila euro in asta da Bukowskis, a Stoccolma, nel 2011 e nel 2012, fino a raggiungere nel 2013, sempre in Svezia, il risultato di 32mila con Madeleine the brave (2006). Nel 2007, in epoca pre-crisi, un maestro come León Ferrari ha mantenuto più o meno stabile, con le opportune crescite, l’andamento dei suoi risultati in asta. Leonessa nel 2005, Barbara Kruger raggiunge una cifra strepitosa nell’agosto 2011 a New York in una imperdibile asta Christie’s con Untitled (When I hear the word culture I take out my checkbook), battuta per 545mila dollari. Anche il 2010, sempre a New York, le è amico, con un risultato di oltre 200mila. Fra le aste che seguono immediatamente il conferimento del premio, molte la vedono tarata su cifre tra i 60 e i 100mila dollari, con una crescita progressiva delle quotazioni (a seconda dei pezzi) fino a oggi, in un percorso equilibrato che l’aveva già vista nel 2004, da Phillips de Pury, protagonista con I Shop therefore I am di risultati straordinari (oltre $ 600mila). Ora, se le nostre riflessioni seguono la giusta direzione, il Leone d’oro è un premio, un omaggio alla qualità del percorso artistico di un artista. I successi di mercato attestano semmai la solidità di una carriera. Ma è un’altra strada, che, almeno nell’immediato, sembra correre su binari differenti.

EMER-GENTE

di MARTINA GAMBILLARA

INDONESIAN WAVE La 55. Biennale di Venezia vede il ritorno dell’Indonesia, assente dopo l’ultima e unica partecipazione del 2005, con piccole parentesi quali le singole apparizioni di artisti indonesiani come Affandi nel 1954 e Heri Dono nel 2003. Palazzo Malipiero ospita le installazioni di Albert Yonathan Setyawan, Eko Nugroho, Entang Wiharso, Sri Astari Rasjid e Titarubi. Di questo gruppetto, Titarubi (1968), che nel 2012 era presente alla collettiva del Macro Beyond the East [nella foto, Cross Road (2006), in collaborazione con Agus Suwage], e il giovanissimo Setyawan (1983) non sono mai apparsi in asta. Eko Nugroho (1977) viene presentato nei cataloghi di Christie’s e Sotheby’s Hong Kong dal 2008, con ottimi risultati al di sopra delle stime e prezzi medi di $ 25-30.000 per i suoi ricami. Recentemente ha partecipato alla Biennale di Lione e a una mostra al Musée d’Art Moderne di Parigi. Entang Wiharso (1967), che in Italia lavora con Primo Marella, ha avuto un’esplosione dal 2011 nel mercato di Hong Kong, lasciando le case d’asta locali e raggiungendo prezzi medi di $ 20-30.000. Infine Sri Astari Rasjid (1959), le cui borse-feticcio in bronzo sono presenti sulle aste locali di Sotheby’s dal 2006, ma che mantengono prezzi ancora molto bassi. Analogamente alle altre regioni asiatiche, l’arte contemporanea indonesiana ha iniziato a farsi conoscere sul mercato internazionale dal 2007, accolta con un crescente interesse da parte del collezionismo, confermato anche nelle ultime aste di aprile di Sotheby’s. Heri Dono (1960), che attraverso le sue opere racconta il cambiamento della società indonesiana, è uno degli artisti contemporanei ad aver avuto maggiore risonanza all’estero, raggiungendo i suoi prezzi più alti nel 2008 e nel 2013, ancora accessibile sulla soglia dei $ 40.000. Nel comparto del moderno, risultati importanti per S. Sudjojono, Hendra Gunawan e Affandi, venduti principalmente sul mercato di Hong Kong e con quotazioni che sfiorano anche il mezzo milione di dollari. In Indonesia non mancano case d’asta di successo, come Larasati e Borobudur che, oltre agli artisti locali, propongono grandi nomi dell’intera regione asiatica, totalizzando vendite da milioni di dollari, così come Sotheby’s e Christie’s, che non si fanno mancare un ufficio a Jakarta, ma purtroppo è ancora arretrata a livello di gallerie, istituzioni e fiere per sostenere i giovani artisti emergenti.

MERCATO 87


Due libri molto diversi tra loro, firmati da Marco Senaldi e Francesca Alix Nicòli. Due saggi densi e accattivanti nello stesso tempo. Utili per capire cosa non funziona nella critica e nell’università odierne. E per intravedere una strada da percorrere.

IL CORAGGIO DI CAMBIARE di MARCO ENRICO GIACOMELLI

La situazione è sostanzialmente la seguente: ci sono le università (sulle accademie stendiamo un velo pietoso) dove si studia estetica e filosofia dell’arte. Lo si fa in maniera paludata - sia detto ora e sia valido per il resto dell’articolo: stiamo generalizzando -, ci si ferma se va bene a Hegel se non a Kant, con rapide e superficiali puntate a qualche epigono, e se si citano artisti e opere, le mele di Cézanne paiono una novità, al netto delle battute stile Alberto Sordi su “quello che tagliava la tela” e “quell’altro che vendeva le proprie feci” (‘merda’ non si dice, è da maleducati). Poi ci sono i critici: citano, a seconda della moda, Deleuze o Clément, Greenberg o Rifkin, Negri o Lyotard. In un impeto di coraggio, talvolta si sono spinti a leggere le quarte di copertina dei saggi più famosi, ma quel che rimane in memoria sono delle tag: rizoma, paesaggio, flatness, accesso, impero, postmoderno e così via. Il risultato è che gli uni friggono l’aria tentando di tassonomizzarla, gli altri mettono le mani in pasta ma non sanno cosa sia una graminacea. E quindi? E quindi - dato per scontato che chiunque incontri un estetologo (viene la pelle d’oca solo a scriverlo, un termine così) gli debba consigliare di andare a vedere una mostra di un artista nato dopo suo nipote, e che chiunque incontri un critico gli debba consigliare di leggere un libro dopo aver finito Dylan Dog e l’oroscopo (ammesso che allora il tempo dedicato giornalmente alla lettura non sia già terminato) - bisogna scavare fra tonnellate di ex alberi che gridano vendetta per esser stati

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EDITORIA


sacrificati a parole inutili e scovare qualche pagina che smentisca quanto detto finora. O che almeno accenda il barlume della speranza, dell’eccezione che fa meglio sopportare la regola. Qui vi segnaliamo due testi, che sono - incredibile! - divertenti e appassionati. Certo, sono divertimenti e passioni intellettuali, ma con l’abitudine arriva perfino il piacere sensoriale. Il primo di questi testi l’ha scritto Marco Senaldi. È quel professore che scrive in fondo in fondo a questo giornale, e che ora si è messo in testa di commentare anche le sue fotografie, che documentano paradossi dell’esistenza su questa Terra. Ha una cattedra, ma talvolta si alza e va a vedere (e magari a curare) una mostra. Si domanda cosa sta facendo, ci riflette sopra, legge, scrive, ritorna a vedere (e curare) mostre con un bagaglio arricchito, e così spiraleggiando. Il risultato è che i suoi libri per alcuni versi si contraddicono, dialogano l’uno con l’altro, discutono; insomma, testimoniano del fatto che c’è una vita in quel cervello e che - come in ogni cervello degno di questo nome - le idee cambiano, si affinano, compiono circonvoluzioni e crescono. Per citare proprio il titolo del libro a cui ci stiamo riferendo: Definitively Unfinished (Guerini, pagg. 166, € 18,50). La medesima cosa accade nel secondo testo che vi segnaliamo, firmato da Francesca Alix Nicòli, anche lei firma di questo giornale, ma soprattutto ultima - per ora - erede di una vera e propria dinastia di marmisti. Che vuol dire, nel suo caso, aver visto sin dalla tenera età scolpire le opere di un Melotti e poi, cresciuta, di un Kapoor o di un Cattelan. Ed è proprio lavorando d’archivio su un gruppo scultoreo di Melotti che è iniziata, potremmo dire così, l’avventura intellettuale della Nicòli, con una tesi che sosteneva una tesi, e poi questo libro, Giù le mani dalla modernità (Mimesis, pagg. 248, € 24), che ne sostiene una non diversa, ma diversamente calibrata, senza il timore di dire che per certe questioni lei

ha cambiato idea, è maturata, è più equilibrata, ma resta pur sempre un’appassionata d’arte,

un’appassionata che usa il cervello e proprio per questo non ha timore di dire che ha cambiato idea. Stesso discorso, insomma, che vale per (il libro di) Senaldi. Non abbiamo detto nulla del contenuto dei due volumi. Visitando il sito di Artribune troverete recensioni scritte in maniera più classica e puntuale, così come potrete assistere alla presentazione live dei due libri in diverse occasioni prossime e future. Quel che ci interessava qui era però sottolineare, con due esempi esemplari, che non tutto è perduto: che non esistono solo “filippini dell’arte”, secondo la definizione di Achille Bonito Oliva, e che la polvere non ha ancora soffocato mortalmente i dipartimenti universitari. Qualcuno ogni tanto la soffia via, magari proprio un filippino (fuor di - antipatica - metafora: un ricercatore malpagato). Ché è poi l’incontro quello che manca, non solo in Italia, l’incontro fra università e lavoro, anche nel mondo dell’arte contemporanea. E qualche colpa, qualche peccato di accidia, la si può addebitare senz’altro pure a chi si limita a lamentarsi.

STRALCIO DI PROVA di MARCO ENRICO GIACOMELLI PLASTIFICARE LA LINGUA Un proiettile squarcia orizzontalmente una carta da gioco, per la precisione un re di quadri. È una delle celeberrime fotografie della serie Cutting the Card Quickly (1964) di Harold E. Edgerton, che si trova in parecchie collezioni di musei soprattutto americani. Quella riprodotta sulla copertina del libro in esame proviene in particolare dal MIT Museum. Libro che è il secondo romanzo di Gianluigi Ricuperati, il quale, dopo l’esordio narrativo nel 2011 con Il mio impero è nell’aria (Minimum Fax), ora ha dato alle stampe per Mondadori La produzione di meraviglia (pagg. 180, ¤ 18). Dunque, la scelta è ricaduta su una immagine d’impatto, secondo la più basica delle strategie di marketing editoriale? Sì e no. Perché la carta da gioco, sebbene non così spettacolarmente (ab)usata, è una figura importante nel testo di Ricuperati, e non solo nel testo inteso come plot. La seconda parte del volume, infatti, riproduce una serie di “opere collaborative” firmate dallo stesso Ricuperati e da Marco Cendron dello Studio Pomo di Milano (che si occupa di art direction e grafica). Sfogliare quelle ultime pagine significa ripercorrere il racconto narrato a parole, poiché si tratta di un “riavvolgimento del racconto per immagini”, immagini che sono carte da gioco rielaborate con la tecnica del collage e che, nel romanzo, servono al protagonista Remì - le cui “corde vocali non funzionano, per difetto congenito” - per comunicare. Una comunicazione obliqua, la sua, che non cerca nell’immagine l’illustrazione pedissequa di un pensiero. Al punto che spesso si potrebbe parlare più correttamente di rebus: “Per dire: ‘Sono completamente innamorato di te’ tirò fuori una carta in cui un uomo aspettava l’arrivo di una palla da bowling, in fondo alla pista, dove solitamente attendono i birilli”. D’altronde, Remì ha reso la sua menomazione uno strumento di lavoro: per vivere, e guadagnare milioni di dollari, gioca a poker in maniera professionistica. Ma è in volo che cerca la sintonia con lei, Ione.

FEDEX

di MARCO ENRICO GIACOMELLI

GLI APPUNTI DI UN EX SINDACO Anri Sala è un aficionado di biennali: da Mosca a Sidney, da Berlino a Istanbul, da Yokohama a Gwangju. Per non parlare di Venezia, dove la sua prima presenza risale al 1999 e dove nel 2001 si è aggiudicato, 27enne, il Leone d’Oro come miglior giovane artista. In Laguna torna anche quest’anno, ma per rappresentare la sua patria d’adozione, la Francia. Una delle opere più note di Sala è la videoinstallazione Dammi i colori, nella quale riflette sulla trasformazione di Tirana. Quale trasformazione? Ovviamente quella operata dal suo fraterno amico Edi Rama: in qualità di sindaco della città dal 2000 al 2011 (e futuro Presidente del Consiglio?), quest’ultimo ha infatti promosso un’operazione tanto semplice (ed economica) quanto geniale, utile al benessere almeno psicologico degli abitanti della capitale e funzionale a una ricezione rinnovata della stessa Tirana. Insomma, parliamo della celeberrima pittata generale che Rama ha dato ai tristi palazzoni in Hoxha style, rendendo cromaticamente scintillante quella che era una parata di grigiore. Il volume che Anri Sala ha curato per l’editore zurighese JRP|Ringier (pagg. 408, ¤ 60) è dedicato a un terzo personaggio rilevante per l’Albania, Ardian Klosi, coautore insieme a Edi Rama di un libro pubblicato nel 1992 e focalizzato su temi allora ancor più scottanti per il Paese d’oltre Adriatico: emigrazione, economia, sviluppo. Nelle oltre 400 pagine sfila una selezione di doodle realizzati da Rama dal 2000 al 2012, intervallati da testi dello stesso Anri Sala e di Hans Ulrich Obrist, nonché da conversazioni fra l’ex sindaco e Michael Fried, Philippe Parreno, Marcus Steinweg, oltre a una dialogo a tre fra Sala, Rama ed Erion Veliaj. Sono disegni su agende, fogli con discorsi ufficiali e brogliacci; sono esercizi di disegno circonvoluto e organico, spesso con un pennarello a punta fine, qualche volta arricchiti dal colore. Accanto a ognuno di essi, nella pagina di sinistra appaiono brevi frasi in inglese, albanese, francese… Sono scelte da Anri Sala, si riferiscono al medesimo periodo al quale risale il disegno e sono tratte da quotidiani e settimanali. Ad esempio: su un promemoria del 16 giugno 2004, dove vengono riportate le telefonate raccolte dalla segreteria di Rama, quest’ultimo ha disegnato una figura che pare in volo, ha tacchi alti, gambe nude e pelose, un corpo robotico Anni Cinquanta; dirimpetto, Sala ha scelto le proposizioni “A New World Order” e “As Venus Dances Across the Sun in Slow Motion, Earth Dwellers See History Unfold”. Associazioni di idee, riflessioni in nuce, spunti per pensare.

EDITORIA 89


Sul confine tra passione e lavoro, i blog di food design mietono vittime a suon di follower. Abbiamo indagato su come nascono, si alimentano e si diffondono. Qui vi raccontiamo il caso di Gnam Box.

FOOD ADDICTED di VALIA BARRIELLO

I blog di food design sono un fenomeno piuttosto recente nella storia della Rete: nati tra 2005 e 2006, si sono moltiplicati velocemente e, soprattutto in questo periodo di grande attenzione mediatica nei confronti del cibo, sono in costante crescita. Instagram e Foodspotting non sono stati sufficienti a frenarne l’ascesa, perché il blog stringe un particolare rapporto di fiducia con i propri follower. La grande distinzione tra un semplice food blog e un food design blog risiede nella ricerca materica, nell’estetica formale e non solo: “Un blog di food design deve comprendere anche la progettazione, la cultura e l’innovazione degli atti alimentari”, sottolinea Francesca Giambarini, dalla cui ricerca Food blogger abbiamo tratto i dati che troverete più avanti. Il food design, infatti, nato come ramo del design industriale, si occupa della progettazione del cibo e di tutti i fattori a esso collegati, a partire dalla scelta degli alimenti, fino alla forma della pietanza, comprendendo gli aspetti sociologici e i riti strettamente legati alla consumazione del cibo.

La consacrazione per i food designer è arrivata recentemente con la mostra Progetto Cibo, la forma del gusto, curata da Beppe Finessi al Mart di Rovereto, che ha indagato ogni singola espressione e sperimentazione compiuta sugli alimenti e sui comportamenti che nascono di conseguenza. Agli esempi edibili dei designer si affianca il lavoro svolto dai blogger in Rete, i quali, oltre a soddisfare una passione personale, hanno come obiettivo diffuso il comunicare e l’entrare in contatto reciproco: nella maggior parte dei casi il blog viene aperto quasi per svago e soltanto una piccola percentuale di blogger riesce a trasformarlo in un lavoro vero e proprio. Merito anche dei follower, che hanno un’età media tra i 18 e i 30

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DESIGN


anni (58%), mentre nella fascia tra i 31 e i 40 la percentuale scende al 27%, tra i 41 e i 50 al 13%, fino a scemare al 2% per gli ultracinquantenni. Si tratta di appassionati di cucina, ovviamente, ma con una particolare attenzione per l’aspetto estetico e formale. Fra tutti i food blog italiani del momento, abbiamo scelto Gnam Box, in food we trust, che in brevissimo tempo ha ottenuto un successo inaspettato. Aperto nel gennaio del 2012 da una coppia di creativi, il designer Riccardo Casiraghi e l’art director Stefano Paleari, per rispondere all’esigenza di “creare qualcosa insieme intorno a una passione comune: il cibo”, Gnam Box è diventato un ricco contenitore non solo di golosità, ma anche di passioni. Il format del blog si basa su una ricetta semplice, che ricorda il titolo di un vecchio film con Spencer Tracy, Indovina chi viene a cena: ogni settimana, infatti, la cucina di Gnam Box invita un ospite a preparare la ricetta che più lo rappresenta. Riccardo e Stefano raccontano che “ai fornelli o attorno a un tavolo siamo tutti incredibilmente più stimolati a lasciarci andare, a raccontare di noi stessi, delle nostre storie”. E infatti i loro ospiti, che spesso conoscono il giorno stesso della cena, si rilassano e cucinano come se fossero a casa propria con vecchi amici. Illustratori, designer,

musicisti, stilisti, fotografi, blogger e giornalisti: sono numerosi i creativi passati, in un solo anno, dalla cucina di Gnam Box. I padroni di casa

ricevono quotidianamente autocandidature, che però scartano regolarmente: “Preferiamo essere noi a selezionare le persone che più ci incuriosiscono e che potrebbero piacere ai nostri follower”. Non bisogna dimenticare, infatti, che tutto viene confezionato per un pubblico attento e affezionato, in cerca di ricette, ma con un alto standard qualitativo di aspettativa. Nulla può essere lasciato al caso: la grafica è studiata, le foto sono estremamente curate e l’impiattamento, anche se lasciato alle cure degli ospiti, è appetitoso. Per ricette semplici ma personalizzate, in una cucina accogliente, quella degli stessi food blogger. L’impegno sempre maggiore richiesto dal blog ha “costretto” i due fondatori a licenziarsi dai loro rispettivi lavori per dedicarsi esclusivamente alla cucina di Gnam Box: “All’inizio è stato difficile considerare il blog un lavoro, ma alla fine è diventato tale solo quando abbiamo iniziato a considerarlo come un impiego”, raccontano. Gnam Box è diventata una splendida vetrina che ha catapultato Riccardo e Stefano nel mondo dei food designer. Al momento hanno in cantiere una linea di biancheria da cucina e qualche ottima idea per ampliare la loro community. Nell’attesa di diventare i prossimi ospiti, si può sempre andare sul blog per prendere qualche ricetta per la cena.

PICK-A-PACK

di SONIA PEDRAZZINI

ANDY VA AL SALONE Lo spirito di Andy Warhol continua a farsi sentire attraverso la forza visiva di uno dei più iconografici pezzi dell’“arte di massa” del XX secolo, la Brillo Box del 1964. Indubbiamente la scultura di Warhol, una cassa di legno serigrafato che replicava l’imballaggio “vero” di cartone disegnato dall’artista e grafico pubblicitario James Harvey, già riconosceva al packaging il ruolo emblematico di icona della vita contemporanea. Ma, oggi, la versione “design” della Brillo Box, realizzata da Quinze & Milan e presentata da Fab. com in collaborazione con The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts in occasione del Salone del Mobile di Milano, decisamente conferma e persino amplifica questa legittimazione. Non più scatola di cartone, non più cassa di legno, quella proposta dal duo belga (Arne Quinze e Yves Milan, che nel 1999 hanno creato l’omonimo marchio per diffondere la loro idea di design) è, a piacere, un morbido pouf su cui sedersi oppure un piccolo mobile, un complemento d’arredo con cui personalizzare e rendere intellettualmente ammiccanti le nostre case. Il pouf è realizzato in QM Foam, una schiuma poliuretanica ad alta densità dotata di particolari caratteristiche tecniche e funzionali; ma attenzione: come si legge sulla pagina Facebook di Quinze & Milan, “ogni singolo pouf è serigrafato a mano. Arte, non industria”. E infatti l’intenzione era proprio quella di realizzare un prodotto versatile e funzionale ma che, allo stesso tempo, fosse un pezzo di Pop Art. Perché, come diceva il saggio Andy, l’arte è per pochi, ma “la Pop Art è per tutti”. La citazione di un’opera d’arte che cita un prodotto di massa e che ambisce a essere un pezzo di Pop Art e poi diventa un pezzo di design è il lungo percorso che ormai, nella straripante quantità di proposte commerciali da cui siamo continuamente bombardati, quasi ogni oggetto è costretto a fare. Per essere degnamente portato alla nostra attenzione. www.quinzeandmilan.com

L’AZIENDA

di GIULIA ZAPPA

RICHARD GINORI, I PIATTI CHE TORNANO DI MODA Tavola italiana in liquidazione. Orfana di giardiniere barocche, decorazioni a punta d’agata e servizi per il caffè dal tocco streamline. La campana a morto per Richard Ginori, eccellenza made In Italy della porcellana artistica, l’ha suonata a inizio anno il Tribunale di Firenze, dichiarando la chiusura della più vecchia azienda del tessuto produttivo locale. Imputati sul banco del fallimento due indiziati dai contorni sfuggenti: una crisi economica globale che ha aggredito la domanda pur senza strangolarla completamente, e una gestione finanziaria opaca, caratterizzata da numerosi passaggi societari mai veramente interessati al riscatto del gruppo industriale. Il funerale, dunque, non è solo per i circa 300 impiegati della manifattura di Doccia, ma anche per i 270 anni di storia che hanno incarnato un connubio unico fra arte e design. Fondata nel 1785 - prima della Rivoluzione Francese, se la coincidenza temporale vi fa effetto - Richard Ginori vanta un archivio storico sedimentatosi negli anni grazie al lavoro di art director illustri come Gio Ponti e Paola Navone, passando per le collaborazioni con Achille Castiglioni, Angelo Mangiarotti, Enzo Mari, Aldo Rossi. Anche le situazioni più disperate, però, trovano a volte una luce in fondo al tunnel. Gucci, fiore all’occhiello della moda fiorentina controllata dalla holding Kering di François Pinault (quello di Palazzo Grassi e di Punta della Dogana a Venezia, sì), ha messo sul piatto - è il caso di dirlo - 13 milioni di euro per l’acquisizione della Ginori. Che il morsetto degli storici mocassini si appresti a diventare la nuova decalcomania dei piatti Ginori? www.richardginori1735.com

DESIGN 91


Sembra un happening. Sono tutti riuniti lì a Marsiglia, le archistar più in vista del panorama internazionale. Quel che sta nascendo nel porto francese ve lo raccontiamo nelle pagine successive. Qui ci concentriamo sul fulcro dell’intervento architettonico-urbanistico: il MuCEM di Rudy Ricciotti.

MARSIGLIA MEDITERRANEA di ZAIRA MAGLIOZZI

La Capitale Europea della Cultura 2013 fa le cose in grande e, da oltre dieci anni, si prepara a un evento che vuole portare il primo porto francese al centro del circuito culturale internazionale. Erano gli inizi del 2000 quando il Ministero della Cultura francese decise di mettere tra le priorità la candidatura della seconda città del Paese, lanciando i primi concorsi di architettura. L’operazione è vasta e imponente. Un’intera città ripensa se stessa e lo fa affidandosi all’architettura contemporanea. Per l’occasione a Marsiglia iniziano a lavorare alcuni degli studi più in vista del panorama architettonico francese (Jean Nouvel, Rudy Ricciotti, Corinne Vezzoni, Jacques Ferrier), italiano (Massimiliano e Dorana Fuksas, Stefano Boeri, 5+1AA) e internazionale (Zaha Hadid, Kengo Kuma, Ora Ïto, Norman Foster e Frank O. Gehry).

Simbolo di questa rigenerazione è il MuCEM - Museo delle Civiltà d’Europa e del Mediterraneo, localizzato in tre sedi per un totale di 40.000 metri quadri. Due di queste sono collocate all’ingresso del Porto

Vecchio di Marsiglia: il nuovo edificio J4, disegnato da Rudy Ricciotti (algerino di nascita, classe 1952), e lo storico Forte Saint-Jean, restaurato su progetto di François Botton (architetto a capo dell’Historic Monuments). Un pezzo di città che testimonia il concept del museo. Chiuso

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ARCHITETTURA


al pubblico per oltre un secolo, sulle vestigia greche e romane dell’antica città-stato, sono stratificate diverse strutture, parte integrante della storia militare e politica di Marsiglia. In una giustapposizione tipica della cultura mediterranea. L’edificio J4 è il cuore del MuCEM [nella foto di Lisa Ricciotti]. Qui saranno raccontati i momenti salienti della storia della civiltà mediterranea. Un monolite intarsiato di 15.000 mq affacciato sul mare, disegnato da Ricciotti - vincitore del concorso nel 2004 - insieme all’architetto marsigliese Roland Carta, classe 1976. Un quadrato di 52 metri per lato, il nocciolo espositivo, inscritto in un altro quadrato di 72 metri che definisce la scatola esterna. Una geometria rigorosa, quasi classica, che si contrappone al rivestimento esterno traforato, un motivo arabo astratto, grazie al quale la luce attraversa l’edificio da parte a parte, smaterializzandone l’aspetto granitico. Un minerale incastonato nello skyline marsigliese dove, su due livelli, trovano spazio 3.600 mq di aree espositive, un auditorium di 325 posti, un bookstore, uffici, una brasserie e un ristorante con terrazza panoramica.

A distanza di pochi metri il meteorite, nero e squadrato, si contrappone alla pietra calda e rosata del Forte Saint-Jean. A unirli, un ponte pedonale, esile e compatto, di 115 metri, sospeso sul mare, con

un punto di vista unico sul porto e sulla città. Con i suoi oltre 1.000 mq di spazio espositivo - suddivisi nella cappella SaintJean, le gallerie e gli edifici E, F e G che compongono il “village” del Forte - il complesso storico ospita le collezioni del MuCEM secondo una rotazione di 3-5 anni. Anche gli spazi esterni del Forte seguono una linea progettuale contemporanea. A vincere il concorso per la promenade nel grande giardino mediterraneo è stato il team valenciano Agence APS, specializzato in paesaggio e spazi urbani. The Garden of Migrations è il nome scelto: 15 ambientazioni rappresentano la mescolanza e la varietà di culture che si sono succedute nella città di Marsiglia. A completare il “sistema MuCEM” è la terza sede: il Centro per la Conservazione e le Risorse localizzato nel quartiere Belle de Mai. Progettato dall’architetto francese Corinne Vezzoni, il volume, un introverso scrigno di cemento, riprende il rapporto geometrico di 72 metri per lato all’interno dei quali sono racchiusi e protetti 7.000 mq di archivio con documenti e pubblicazioni di proprietà del MuCEM. Costo totale dell’operazione: poco più di 190 milioni di euro. Finanziato in gran parte (oltre 130 milioni) dal Governo centrale e, per la parte restante, dalle autorità locali, tra cui Comune e Regione.

PRESTINENZA.IT

di LUIGI PRESTINENZA PUGLISI

COOL LE CORBUSIER Prima dell’effetto Bilbao ci fu l’effetto Marsiglia. Non fu un successo, o almeno non lo fu nella misura sperata e per i motivi addotti dal suo proponente: Charles-Edouard Janneret detto Le Corbusier. Il celebre architetto e teorico, supportato e sponsorizzato dal ministro dei Lavori Pubblici francese, Claude Petit, aveva infatti proposto per la ricostruzione postbellica in Francia palazzoni, chiamati Unità di abitazione, ciascuno per oltre un migliaio di abitanti, separati tra loro da ampie distese di verde e organizzati in conformità a principi radicalmente innovativi. L’unità, realizzata a Marsiglia tra il 1946 e il 1952, alta 17 piani e dotata di 337 appartamenti duplex serviti da un lungo ballatoio, era largamente autosufficiente e conteneva i servizi essenziali per gli abitati: in un piano intermedio i negozi e in copertura palestra, piscina e spazi per la ginnastica e la corsa [nella foto]. L’idea di Le Corbusier era invadere le periferie urbane con edifici-transatlantico (in senso quasi letterale: perché largamente ispirati all’autosufficienza di queste navi), imponendo un nuovo modo di vivere la città. In realtà non avvenne e, sebbene alcuni modelli di unità di abitazione furono realizzati in altre città, l’esperienza fu presto rubricata come un folle insuccesso. Tuttavia l’unità di Marsiglia, dopo un iniziale declino, ha goduto di un inaspettato rinascimento. E non perché il modello sociale studiato da Le Corbusier funzionasse, ma perché l’unità è diventata l’icona di se stessa. Molti architetti e intellettuali, attratti dalla fama universale di Le Corbusier, hanno voluto viverci o andarci a dormire per qualche giorno. Il mostro architettonico è diventato oggetto di culto. Da qui l’effetto Marsiglia perché, nel frattempo, si è scoperto che tale sorte è condivisa da alcuni capolavori dell’architettura contemporanea: schifati o disprezzati dalla gente comune ma non dagli addetti ai lavori. I quali non sono certo una minoranza insignificante e in Europa sicuramente superano il milione di unità (i conti sono presto fatti, se si pensa che in Italia vi sono 150mila architetti). L’effetto Bilbao è diverso. In questo caso non abbiamo il fallimento iniziale di una struttura poi recuperata da un pubblico di élite, ma un successo fin dall’inizio planetario. Molti l’hanno ingenuamente attribuito solo alla riuscita e inusuale forma dell’edificio. In realtà, al successo del Guggenheim ha contribuito una municipalità che ha operato cospicui investimenti per cambiare l’economia cittadina, da industriale a post-terziaria, e una fondazione museale che ha le spalle grosse, nonostante poi abbia corso il rischio di spezzarsele per aver tentato di riprodurre l’effetto Bilbao in altre realtà con minori potenzialità. Che dire dei recenti interventi a Marsiglia, che hanno visto impegnati tanti architetti, più o meno celebri, da Fuksas alla Hadid, da Foster a Nouvel, da Ricciotti a Boeri a 5+1AA? Che è difficile sperare sia nell’effetto Bilbao sia nel primo effetto Marsiglia. L’operazione, se riuscirà, dipenderà da quanto i nuovi edifici saranno in grado di migliorare il modo di fruire la città e ovviamente dal modo in cui saranno gestiti. Post scriptum: dimenticavo di dire che oltre Marsiglia e Bilbao c’è l’effetto Maddalena. Il luogo dove doveva svolgersi il G8 e, su pressione politica, sono stati costruiti costosissimi edifici, ma dove si è ottenuto solo un gigantesco, immenso, disastroso flop.

ARCHITECTURE PLAYLIST

di LUCA DIFFUSE

ARCHITETTURA GREZZA AVANZATA Escono per Lettera 22 Edizioni di Siracusa Display, Didattica per un architettura di relazione [1] e INWALKABOUTCITY 2.0 Architetture geologiche e faglie del tempo [2], due libri di Marco Navarra. Alle pubblicazioni come agli altri episodi recenti prodotti dal progettista del parco lineare tra Caltagirone e Piazza Armerina e per San Michele di Ganzaria [3 - nella foto] - Medaglia d’oro all’architettura italiana per l’opera prima nel 2003 - dedichiamo le prime posizioni di questa playlist. Proprio il parco lineare descrive il lato locale delle attitudini di Marco. Un esercizio di riconoscimento delle capacità narrative del paesaggio usato generosamente attraverso laboratori ed episodi culturali differenti. Come gli appuntamenti annuali - dal 2005 - di Costruire naturale/picnic al tempio [4], laboratorio di autocostruzione ed esercizio di alcune sensibilità, come quella di una architettura come riparazione (Repairingcities, La riparazione come strategia di sopravvivenza, Lettera 22 Edizioni, 2008 [5]). Oltre a quello locale, gli estremi che aprono il campo di applicazione delle tattiche confezionate in Sicilia sembrano scelti con immediatezza e in modo piuttosto divertito. Come il New Concordia Island Contest [6], concorso che ha generato proposte per la semiaffondata Costa Concordia o il quasi analogo contest sui Capannoni industriali abbandonati del Nord Est [7] o ancora la settimana di residenza e laboratori presso Teatro Valle Occupato e Nuovo Cinema Palazzo a Roma [8], piuttosto che l’adesione alla fascinazione per l’Incompiuto Siciliano [9]. Questi inserimenti non sono una risposta alla marginalità geografica; sono interventi di significato, offerti a situazioni in cui la rappresentazione del reale e del progetto si affida a dosi massicce di “bene comune”, “verde”, “ecologia”, “sostenibilità”, “salvaguardia” e “conservazione”, con Navarra che non sopporta evidentemente qualsiasi tipo di semplificazione narrativa e rigira a queste situazioni le tattiche testate in decine di operazioni locali come attraverso la piattaforma di ricerca lo-fi architecture, architettura a bassa definizione (assieme a Mario Lupano e Luca Emanueli). Proprio a partire da questo sofisticato ambito di ricerca è emerso il concetto di architettura grezza avanzata, uno dei più radicali espressi dalla ricerca contemporanea in architettura, bilanciato tra sensibilità di scrittura e rilanci concreti al mercato edilizio. Abiura dal paesaggio. Architettura come trasposizione (e il saggio Architettura grezza avanzata), Il melangolo, 2012 [10]. www.studionowa.com

ARCHITETTURA 93


È la Capitale Europea della Cultura 2013. E per l’occasione ha deciso di fare le cose in grande: più di sessanta cantieri avviati nella capitale della Provenza, tutte le archistar chiamate a raccolta, l’intera area portuale resa pedonale e non si contano gli spazi trasformati e recuperati. Una rivoluzione che speriamo non trasformi Marsiglia in un parco giochi per addetti ai lavori, ma che - al contrario - sia un impulso al cambiamento perseguito anche quando i riflettori si saranno spenti.

EXPLOIT MARSEILLE di FEDERICA RUSSO

CRM

La Casa del Mediterraneo, dello studio Boeri, vinse il concorso internazionale nel 2004 e a gennaio 2013, al taglio del nastro per l’inaugurazione dell’anno di Marsiglia come Capitale Europea della Cultura, era pronta in prima fila, scintillante dalle sue facciate luminose. Il processo edilizio è stato alquanto complicato, ma è con grande soddisfazione che l’edificio ha aperto le porte alla città. L’intervento, di oltre 7.000 mq, è interamente dedicato alla cultura del Mediterraneo e ne abbraccia l’essenza anche fisicamente. Una grande C che si eleva sopra una vasca facendo entrare le acque del mare nell’architettura. Il volume sospeso ospita il centro espositivo, mentre quello interrato la mediateca e le sale conferenze. Nella piazza d’acqua potranno approdare barche a vela e pescherecci, sottolineando la nuova apertura della città al porto. Un edificio fortemente simbolico che si augura di diventare il crocevia, in quest’anno e in quelli a venire, delle molteplici culture e influenze del Mediterraneo.

National

Désirée Clary

Project: Stefano Boeri (Milano) Year: 2013 Location: 10 place de la Joliette Status: completed

THE DOKS

L’edificio dei docks storicamente è una linea di demarcazione e limite fra città e mare. Con il nuovo progetto di 5+1AA Alfonso Femia e Gianluca Peluffo, il blocco diventerà membrana permeabile e terreno di scambio culturale. Il progetto, commissionato da Costructa Urban Systeme J.P. Morgan, è iniziato nel 2009 e vedrà il compimento poco dopo la chiusura dei grandi giochi, nel 2014. Sarà comunque un intervento importante per la città, con i suoi 20.000 mq, compresi anche il basement, e ospiterà attività commerciali, ristoranti, spazi di intrattenimento. Il progetto, pieno di citazioni ed evocazioni, punta tutto su uno spazio scandito dai flussi di attraversamento di questa sottile linea est-ovest, fra il centro urbano e il nuovo porto. Al centro quattro grandi pause, le corti Barcellona, Roma, Le Village e Le Marché, che ospiteranno commercio, arte e cultura, secondo la più antica e tradizionale cultura mediterranea. Project: 5+1AA (Genova) Year: 2014 Location: 10 place de la Joliette Status: on going

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ARCHITETTURA

Joliette

NEW VIEUX PORT

Marsiglia è uno dei più grandi porti del Mediterraneo, ma da molti anni l’intera area era totalmente inaccessibile ai pedoni. Il progetto di Foster per il Vieux Port ridona l’area alla città e si consacra come uno dei più significativi. L’intervento per la Provincia Metropolitana di Marsiglia comprende circa 100.000 mq ed è stato progettato in collaborazione con Tangram Architects e Michel Desvigne, che si è occupato del landscape project. L’intera area è stata pedonalizzata, sono stati creati spazi pubblici, percorsi e aree che ospiteranno happening e installazioni. Di rara eleganza il nuovo padiglione, 46 metri per 22, un pavimento e un tetto sorretto da otto pilastri. Un grande ombrellone sul porto che ospiterà eventi al coperto e piccoli mercati. Uno spazio a volume zero, che riflette il contesto quasi scomparendo e lasciando una sottile linea argentata all’orizzonte. Un pizzico di eccezionale modestia ed eleganza da parte di uno studio del livello di Foster, in questa esplosione di prime donne che sarà Marsiglia. Project: Foster+Partners (Londra) Year: 2011 Location: Vieux Port Status: completed Photo: Nigel Young

Jules Guesde

Colbert

Vieux Port Hotel de Ville


CMA CGM

Nasce una nuova tipologia di torre sul lungomare di Marsiglia: svetta con 140 metri d’altezza sullo skyline della città come faro sull’acqua. Zaha Hadid non poteva mancare a questa riunione di archistar, e ha marcato la sua presenza come le si confà: non certo in maniera discreta. L’edificio parte su un’impronta di 6.000 mq con due torri gemelle e si sviluppa su oltre 93.000 mq. Ospita 2.700 lavoratori per 800 company, 700 auto, palestre, ristoranti, auditorium. La forma è innovativa quanto basta a mantenere la linea zahadiana: le due torri sono in simbiosi nel nucleo centrale, per poi dividersi con un movimento fluido in due percorsi paralleli fino a 100 metri d’altezza. Non ci si poteva aspettare dalla regina degli architetti niente di meno che un altro edificio iconico. Project: Zaha Hadid (Londra) Year: 2010 Location: 4 quai d’Arenc Status: completed Photo: Hufton + Crow

EUROMED CENTER

L’Euromed Center, firmato da Massimiliano e Doriana Fuksas, non ce la farà a essere presente alla grande rinascita di Marsiglia. Il progetto, vincitore di un concorso nel 2006, ha infatti celebrato la cerimonia della posa della prima pietra solo a ottobre 2012. Un intervento di oltre 70.000 mq, nell’ambito del programma di sviluppo Cité de le Méditerranée nel cuore del ricco quartiere La Joliette. Il complesso ospiterà due torri per uffici sul waterfront, l’Hotel Marriott con le sue quattro stelle, 210 stanze e il centro benessere, il Multiplex Europacorp con sedici sale, negozi e spazi verdi, oltre a più di 1.000 posti auto per la zona commerciale. Il progetto scultoreo, in pieno stile Fuksas, si propone come polo attrattivo, visivo e funzionale per la città: le masse fluide in cui il complesso si conforma sono morbide, come dune plasmate dal vento del Mediterraneo. Project: Massimiliano e Doriana Fuksas (Roma) Year: 2015 Location: 25 boulevard Dunkerque Status: on going

MAMO

A giugno, sulla terrazza della Cité Radieuse si inaugura il MAMO. Come sia possibile che nello storico edificio progettato da Le Corbusier, monumento protetto dal 1980, stia nascendo un museo è una lunga storia. Questo spazio, con la sua vista a 360 gradi, ospitava la palestra a uso dei 1.600 abitanti della città verticale. Quando gli inquilini si stancarono di pagare la quota condominiale, la palestra venne privatizzata e tre anni fa fu messa in vendita. Ito Morabito è riuscito nell’acquisto e, col supporto della Fondazione Le Corbusier, ha riportato la struttura allo stato originario, liberandola da una successiva modifica, e ha conquistato la riconversione dello spazio a museo. Xavier Veilhan esporrà un’opera che sarà la prima delle installazioni, una all’anno, ispirate a questo speciale contesto, e che si alterneranno a workshop ed eventi culturali. Project: Ora-Ïto (Marsiglia) Year: 2013 Location: 280 boulevard Michelet Status: completed

ARCH.ECO

di ELISABETTA BIESTRO

ECOQUARTIERI DEL FUTURO Nella visione della città del futuro, il concetto di ecoquartiere riunisce le migliori strategie da attuare e perseguire per realizzare condizioni di benessere e sviluppo sostenibile locale. Obiettivi ambiziosi, sviluppati dal governo francese a partire dagli Anni Novanta, per recuperare porzioni di città che versano in condizioni di degrado: quartieri che siano dunque in grado di rispondere alle sfide ambientali, sociali ed economiche del nostro tempo. Il Ministero dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile ha indetto nel 2009 e 2011 un concorso nazionale che ha premiato i migliori progetti di quartieri green e innovativi. Alla fine del 2012 è stato inoltre lanciato il marchio ÉcoQuartier, uno strumento certificato per promuovere e sostenere la crescita urbana. Anche Marsiglia ha adottato da tempo le politiche nazionali di riqualificazione, le quali hanno saputo trasformare il volto della città. Capostipite il progetto Marseille Euroméditerranée, lanciato nel 1995, e che ha progressivamente coinvolto la zona urbana, attraverso linee di azione quali sviluppo economico e urbano, promozione della città e rivitalizzazione dei quartieri esistenti. Un’operazione da oltre 7 miliardi di euro tuttora in corso, per rilanciare un’area di oltre 480 ettari tra il porto commerciale, il vecchio bacino portuale e la stazione del Tgv, al cui interno si inseriscono i grandi progetti di alcune archistar (Hadid, Nouvel, Ricciotti, Fuksas e altri). Altro appuntamento fondamentale, il campionato di calcio Uefa Euro 2016: Marsiglia sarà infatti una delle città principali a ospitare la competizione, con il Vélodrome completamente rinnovato e parte di un progetto più ampio per la creazione di un nuovo ecoquartiere di oltre 100.000 mq, che ospiteranno tra gli altri servizi commerciali, aree terziarie e spazi destinati a social housing, casa dello studente e residenza per anziani [nella foto]. Interventi a lungo termine, che devono dare risposte duplici: migliorare la qualità della vita coinvolgendo nel processo decisionale i cittadini, in modo che possano riappropriarsi democraticamente dell’identità del luogo in cui vivono. www.euromediterranee.fr

ARCH.TIPS

di GIULIA MURA

DESIGN ALLA MARSIGLIESE Quando una città viene eletta Capitale della Cultura, sono numerose e trasversali le iniziative che deve proporre durante l’anno. Tra quelle messe in calendario da Marsiglia, molte mostre d’arte, di fotografia, di architettura, di grafica, artigianato, incontri, performance, eventi sportivi e musicali. Ma solo uno, itinerante, di design: (M)aime comme Marseille, racconto in oggetti dei migliori designer della scuola di Marsiglia. A organizzare l’evento – già a Parigi a gennaio presso la Cité de la Mode e du Design - la gallerista e curatrice Suzette Ricciotti, che ha riunito in un unico spazio espositivo 25 nomi del panorama creativo marsigliese, vale a dire nati o cresciuti o attualmente con studio in città. Ovvero: Charly Bove, Philippe Di Meo, Alexandre Reignier, Jérome Dumetz, Margaux Keller, Marc Aurel, Ruthy Assouline, Em Design, Stéphanie Marin, Maxime Paulet, Marine Peyre, Bernard Moïse, Ran Seri, François Champsaur, Julien Monfort, lamoreux Ricciotti & Rudy Ricciotti, Ora Ïto, Stéphane Maupin, Benoit Bayol, Étienne Rey, Valerie Ciccarelli, LN Boul, Olivier Tourenc, Gekdesign, Laetitia Sellier e Sebastien Wierinck. “Un’iniziativa essenziale”, spiega la curatrice, “per dare una bella immagine della città e per di- mostrare la capacità dei nostri designer, al pari delle scuole di Nimes o Lione”. Anche perché, in effetti, molti di questi sono ormai importanti esponenti del design mondiale e non più solo francese o locale. La mostra è a ingresso gratuito ed è visitabile fino a fine maggio. www.mp2013.fr

ARCHITETTURA 95


Terminata la sbornia apocalittica Maya oriented, le pellicole fine-del-mondo tornano a puntare sulla distopia. Il caso più eclatante degli ultimi mesi è Oblivion di Joseph Kosinski. Che mostra come i problemi (cinematografici e non solo) restino sempre gli stessi.

WELCOME OBLIVION di CHRISTIAN CALIANDRO

Sarà un caso ma, mentre il 2012 è stato preceduto da una ridda di film variamente apocalittici, una volta passata la sbornia da Maya, negli ultimi tempi si è assistito all’emersione di un nuovo mini-filone, che preferisce declinare la “fine del mondo” in chiave più distopica: ne fanno parte a pieno titolo l’interessante The Hunger Games (2012) di Gary Ross, basato sul romanzo omonimo (2008) di Suzanne Collins, e Tron: Legacy (2010) di Joseph Kosinski. Lo stesso Kosinski ha sfornato il sontuoso Oblivion, basato su una sua graphic novel inedita. Certo, questi giocattoloni mainstream hanno sempre il solito problema: a partire dalla metà esatta, le ambizioni si confondono e la trama si sfilaccia, perché due o addirittura tre linee narrative insistono ad annodarsi e intrecciarsi. È la solita confusione tra complicazione e complessità. Non sarebbe

meglio per tutti se questi oggetti andassero al sodo, rimanendo secchi e solidi dall’inizio alla fine, invece di caricarsi indefinitamente? Che cosa

sarebbe successo, infatti, alla storia di Oblivion se non ci fosse nessuno Scavenger alieno, ma la rovina dell’intero pianeta fosse causata dall’umanità stessa che si è rivoltata contro se stessa? La casa nell’Eden naturale e “paesaggistico” in cui il protagonista Jack Harper si rifugia dalle fatiche della post-apocalisse è del tutto irreale, finzionale. Da reality show. Non piove mai lì? Fa sempre tanto caldo da farsi bastare solo quattro legnetti e quelle tendine mollemente appese? Questo è un sogno che viene da ieri, dal passato: dal nostro passato, dal passato di Kosinski e di noi spettatori. Non è solido, non è

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CINEMA


realistico: non è un progetto culturale. A differenza, ad esempio, di un film di fantascienza come Silent Running (2002: la seconda odissea, 1971) di Douglas Trumbull, incompresa parabola ecologica e umanistica e, all’epoca, naturalmente un flop al botteghino. Oblivion stesso si comporta, in definitiva, esattamente come Jack: non riesce ad attingere realmente e realisticamente ai suoi ricordi (nel caso di Jack: la vita prima dell’invasione, il sogno di una moglie sconosciuta che lo ossessiona di notte; per il film: il grande cinema catastrofico e distopico degli Anni Settanta); a trasformarli nella materia della sua azione e del suo intervento nel mondo, nel momento stesso in cui li dichiara, li espone e addirittura li esibisce. “Le rovine sono il culmine dell’arte”, scrive Marc Augé in Rovine e macerie (2003), “nella misura in cui i molteplici passati ai quali esse si riferiscono in modo incompleto ne raddoppiano l’enigma esacerbandone la bellezza. […] La bellezza dei nonluoghi (aeroporti, autostrade, supermercati ecc.) non dipende dalle loro intrinseche qualità estetiche, ma dal cambiamento di scala che vi si esprime. Gli spazi del codice rivelano l’assenza di ogni simbolismo. Al loro interno ci sentiamo soli, sperduti, di volta in volta liberati o esaltati (libertà provvisoria, esaltazione passeggera). […] La coscienza della mancanza si è spostata: essa non riguarda tanto un senso perduto, quanto un senso da ritrovare”. Si tratta dell’estremizzazione della dialettica fra “troppo pieno” e “troppo vuoto”. C’è sempre, infatti,

un doppio livello in questi spazi ricostruiti nella loro distruzione, lo stesso doppio livello riconoscibile in molti paesaggi urbani del presente: l’efficienza spettacolare e l’assenza, il vuoto, la penuria (della crisi, evidentemente). Sono queste le rovine contemporanee? Ci suggeriscono forse la forma del tempo attuale, il “dietro” delle cose, ciò che sembra sfuggirci e venire nascosto al nostro sguardo, alla nostra percezione: il “prima dell’invasione” per Jack, il come eravamo. L’oblio è il nostro, causato da noi stessi. Noi siamo l’oblio. La ferita al fondo della nostalgia. Come racconta Don Draper in Mad Men: “In greco, ‘nostalgia’ significa letteralmente ‘dolore che deriva da una vecchia ferita’. È uno struggimento del cuore di gran lunga più potente del ricordo”. Jack Harper e Oblivion cercano di insediarsi al punto di contatto fra percezione storica, senso delle rovine culturali, nostalgia, memoria, oblio. E di ricordarsi come si fa.

L.I.P. - LOST IN PROJECTION di GIULIA PEZZOLI CHAINED Nel centro commerciale di un’anonima e deserta area rurale degli Stati Uniti, una donna e suo figlio escono da un cinema pomeridiano e, seguendo le raccomandazioni dell’apprensivo marito/padre, prendono un taxi per tornare a casa. Ma non vi arriveranno mai. Sequestrati dal tassista (Vincent D’Onofrio), la donna (Julia Ormond) verrà brutalmente uccisa dopo poche ore, mentre il figlio Tim (il giovanissimo Evan Bird), ribattezzato “Rabbit” dal suo rapitore, sarà costretto a vivere in cattività e al servizio del suo carnefice per molti anni prima di poter finalmente riscattare la sua libertà e la sua identità. A vent’anni di distanza dal deludente Boxing Helena (1993), Jennifer Lynch, figlia di uno dei mostri sacri del cinema contemporaneo, stupisce con una prova d’autentica autorialità. Le atmosfere calde, claustrofobiche e avvolgenti che comparivano per la prima volta in Surveillance (2008) e che costituivano già la sua cifra personale dopo i deludenti stilismi dell’immatura prova di regia del ’93, in Chained si affinano, si dilatano nel tempo, si concentrano nei silenzi e nelle parole non dette e diventano le basi di un universo discreto e spietato. Di diretta derivazione paterna è l’uso del suono che accompagna le immagini, incalzandole e comprimendole, senza mai aprirsi per dare respiro. Come in molti altri thriller psicologici che analizzano il morboso rapporto vittima/carnefice, anche Chained non può fare a meno di trasportare lo sguardo dello spettatore in una lenta, squallida, orribile e inesorabile quotidianità. Ma la Lynch lo fa non mostrando quasi nulla, anzi, censurando la brutalità fisica per privilegiare la relazione e l’evoluzione psicologica di entrambi i soggetti, in una sorta di pudica comprensione dell’umana debolezza. Il giovane Tim, segregato alla catena per nove lunghissimi anni, senza più un nome né un’identità, verrà sottoposto a un continuo processo d’apprendimento per divenire “l’erede” del suo carnefice Bob. Ma qualcosa non funzionerà, la sua vera natura resisterà al cambiamento e si manifesterà a tempo debito, smascherando il segreto che lo ha condotto fino lì. Bob invece non riuscirà a redimersi: il suo passato costituisce un peso troppo grande, un peccato originale imperdonabile. Bravi gli attori: Vincent D’Onofrio perfetto e disgustoso nel ruolo del serial killer e il giovane ma decisamente talentuoso Eamon Farren che, con la sua diafana e allucinata presenza, rende tangibile lo spaesamento di una vita rubata. USA, 2012 | thriller | 98’ | regia: Jennifer Chambers Lynch Chained ha inaugurato la sezione “Rapporto Confidenziale” al Torino Film Festival del 2012. In Italia è uscito in dvd nel dicembre dello stesso anno, distribuito da Koch Media.

SERIAL VIEWER

di FRANCESCO SALA

THE FOLLOWING Un serial killer intellettuale e raffinato, finalmente assicurato alle patrie galere, inscena un nervoso balletto con l’integerrimo buono di turno chiamato a disinnescare una nuova ondata di crimini. Detta così sembra una nuova variazione sul tema de Il silenzio degli innocenti: per insaporire ulteriormente la minestra, allora, quei mattacchioni della Fox giocano sul sadico senso del complotto che di tanto in tanto serpeggia tra le penne degli sceneggiatori. E a un serial killer se ne aggiunge un altro, e poi un altro ancora, svelando un’intricata trama di psicodrammi collettivi: esiste un’unica regia, lucida e allucinata, che grazie ai social network manipola menti fragili, creando a tavolino assassini senza pietà. Il nemico è dietro l’angolo in The Following, lanciata a fine gennaio sul mercato americano dall’etere dell’ammiraglia Fox, arrivata in Italia già a inizio febbraio su Sky Uno e Premium Crime: oltre 10 milioni di spettatori, dall’altra parte dell’Atlantico, per il pilota; ascolti tuttavia in calo per una serie che fin dalle prime battute ha spaccato in due critica e pubblico. Non è mancato chi ha trovato inelegante il lancio della fiction, scalettata in prima serata, a poca distanza temporale dalla strage alla Sandy Hook, mentre ci si divide, come spesso accade, sul ricorrere disinvolto a una violenza dai toni che a tratti trascendono nello splatter. Tutto nasce da un’idea che Kevin Williamson aveva tagliato dalla sua sceneggiatura per Scream 3, certo non una delizia di film: il nostro rimette mano agli appunti e costruisce la vicenda di Joe Carroll, docente di lettere che sevizia e uccide le proprie studentesse, fermato al culmine della sua carriera criminale dall’ombroso agente FBI Ryan Hardy, interpretato da un sempre gagliardo Kevin Bacon. Carroll ha più di un buon motivo per ambire alla vendetta, perché - non contento di averlo spedito al gabbio - Hardy gli concupisce pure la moglie: il cattivone irretisce guardie carcerarie e responsabili della sicurezza, ottiene accesso alla Rete e - via social network - tesse la propria trama di terrore. Creando quella che diventa a tutti gli effetti una setta, cieca nel portare a compimento un piano di omicidi a catena romanticamente ispirato alla penna visionaria di Edgar Allan Poe. Una trama buona per il cinema, che perde forse in efficacia nel trovarsi spalmata su più episodi: il ritmo non riesce a essere sempre all’altezza delle aspettative, ma nell’altalena di tensione che si viene a creare, tra passaggi prevedibili e colpi di scena, il risultato è che allo scorrere dei titoli di coda, dopo ogni episodio, viene voglia di sapere cosa accadrà dopo. Tanto basta per prolungare la serie di altre due stagioni. E tanto basta per promuovere un’avventura che aggiorna il repertorio del Male alla versione 2.0... Ecco servito il primo assassino che, invece di pugnalare, uccide in punta di tweet, armando i propri follower. Impensabile fino a una manciata di anni fa: ce lo vedete Hannibal Lecter alle prese con un iPad?

CINEMA 97


Giulio Rovighi (primo violino), Aldo Campagnari (secondo violino), Massimo Piva (viola), Francesco Dillon (violoncello). È il Quartetto Prometeo, realtà ben affermata a livello internazionale che alla scorsa Biennale (musica) di Venezia si è aggiudicato il Leone d’Argento per “la versatilità con cui affronta il repertorio classico e quello moderno e contemporaneo”.

IL LEONE, PROMETEO E IL FUTURO DELLA MUSICA

di VINCENZO SANTARCANGELO

Il Quartetto Prometeo [nella foto di Stefano Bottesi] nasce nel 1993 dall’incontro di quattro strumentisti, prime parti dell’Orchestra Giovanile Italiana. Fast-forward: alla scorsa Biennale, il Quartetto si aggiudica il prestigioso Leone d’Argento. I quattro ne hanno fatta di strada, non c’è che dire. Ma se si chiede loro cos’è cambiato da quel 6 ottobre 2012, la risposta finisce quasi per rasentare l’eccesso di modestia: “Per noi non è cambiato niente. Siamo sempre un gruppo in movimento, un gruppo che lavora ossessivamente per migliorarsi, per aprire strade, per scoprire, per sperimentare. Però, naturalmente, un premio così prestigioso muove delle cose intorno al Quartetto, c’è una bella attenzione verso di noi anche grazie a queste ‘conferme’ esterne (oltre, immagino, per via dei molti titoli discografici pubblicati ultimamente) ed è stata anche una opportunità per fermarci – ma giusto un istante – e fare il punto su tutto ciò che abbiamo fatto nei molti anni di attività del quartetto”. Le due ultime uscite discografiche di Prometeo sono un monografico su Salvatore Sciarrino per la Kairos di Vienna e uno su Stefano Scodanibbio per la leggendaria ECM di Monaco: due etichette straniere, entrambe fondamentali per mappare l’attualità e il destino dei nuovi suoni. Si potrebbe attaccare con la retorica degli artisti italiani

(due compositori, un organico di eccellenti strumenti) più valorizzati all’estero che in patria, ma sarebbe inchiostro sprecato: meglio, perciò, spendere qualche parola per ciascuna delle due monografie. Di Sciarrino, molto amato ed eseguito in Germania, il monografico della Kairos contiene i quartetti nn. 1-8: “Si trattava di un’integrale quartettistica dell’autore, nel momento in cui l’abbiamo registrato (ma a novembre abbiamo eseguito il

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MUSICA


n. 9 in prima esecuzione e iniziato a pensare a un secondo CD)”, ci spiega il violoncellista Francesco Dillon, “Si tratta di pezzi che coprono cronologicamente tutto l’arco creativo del compositore siciliano: due dei ‘6 Quartetti Brevi’, straordinarie schegge sperimentali, sono tra le primissime opere di fine Anni Sessanta, mentre il quartetto n. 8 è del 2008. Insomma, un meraviglioso viaggio nell’opera di questo artista unico, che cammina per una strada non battuta e sempre qualche passo più avanti rispetto ai suoi contemporanei”. Stefano Scodanibbio, compositore e straordinario contrabbassista che il Quartetto conosceva bene, scomparso prematuramente poco più di un anno fa, ha fatto in tempo a sapere di un monografico a lui dedicato dalla ECM di Manfred Eicher, poco prima di morire: “Il lavoro sulle registrazioni di queste ‘Reinvenzioni’, sia quello fatto insieme, sia quello di editing successivo alle sessioni, credo abbia rappresentato per lui una vera ‘oasi’ di pace”. Le sue Reinvenzioni per Quartetto d’Archi consistono in una serie di rielaborazioni, più che di trascrizioni, di materiali molto diversi. Sono tre serie ben distinte: tre Contrappunti dall’Arte della Fuga di Bach, quattro pezzi della letteratura spagnola classica per chitarra (Sor, Tarrega, Llobet e Aguado) e cinque canzoni messicane (tra cui la classicissima Besame Mucho). Ancora Dillon: “Musiche davvero lontanissime tra loro per stile, origine, luogo ed epoca di provenienza, eppure la lente deformante attraverso la quale il compositore le rilegge - un suono magico di armonici e suoni ‘flautati’, una dilatazione dei tempi e una scrittura compositiva magistrale - crea un curioso denominatore comune che permette di avvicinarle senza alcuna forzatura”. È noto che una certa aura di mistero si cela dietro a tutte le produzioni ECM, soprattutto quelle della New Series, la serie specificamente consacrata alla classica contemporanea. La vicenda che

sta dietro a Reinventions rappresenta davvero un unicum nella storia dell’etichetta:

“Stefano era così orgoglioso del risultato compositivo e interpretativo che faceva ascoltare il disco a tutti gli amici più cari che andavano a trovarlo. Uno di questi, Irvine Arditti, si è entusiasmato al punto da contattare direttamente Eicher e inviargli il master. Come sai, ECM non accetta registrazioni ‘esterne’, ma in questo caso il lavoro ha conquistato anche Eicher. Devo dire che, oltre alla qualità delle composizioni, e spero dell’interpretazione, anche la bellissima ripresa del suono, morbida e risonante, merito della grande sensibilità del tecnico del suono Gianluca Gentili, ha sicuramente contribuito al risultato finale”. Una strana creatura per la patinatissima collana New Series della ECM, una interessantissima incursione “dall’esterno” in quella roccaforte che è la nicchia elitaria della già elitaria etichetta di Manfred Eicher. Potremmo sbagliarci ma, a parte Gesualdo da Venosa, Scelsi e Berio, nessun altro compositore italiano vi figura con un monografico.

OCTAVE CHRONICS

di VINCENZO SANTARCANGELO

RUMORE A VENEZIA Sembra ieri, ma sono già passati quattro anni da quel 2009 in cui un gran dispiego di mezzi, risorse ed energie fu profuso per celebrare il centenario del Manifesto del Futurismo e dunque il Futurismo tutto. In pochi, invece, sembrano ricordare che nel 1913, e precisamente nel mese di marzo, Luigi Russolo ultimava la stesura de L’arte dei rumori, firmato da “Luigi Russolo Futurista” e diffuso nel 1916 dalle milanesi Edizioni futuriste di poesia al costo di Lire 2. Pare strano perché – almeno così sembra a noi – delle infatuazioni più o meno legittime di quel nugolo di artisti, la velocità, la corsa, la macchina, la lotta, la distruzione e, appunto, il rumore, proprio quest’ultima sembra essersi infiltrata con maggiore pervasività nell’arte (sonora ma non solo)… del futuro. Gioiamo, pertanto, alla notizia di una mostra, Noise, portata a Venezia, agli ex magazzini di San Cassian, dall’associazione De Arte (curatori Alessandro Carrer e Bruno Barsanti) come evento collaterale ufficiale della 55. Biennale di Venezia. E siamo curiosi di vedere in che modo declineranno il verbo del rumore artisti molto diversi tra loro, tra i quali l’onnipresente Carsten Nicolai, insieme a Pascal Dombis [nella foto, Post-Digital Mirror, 2011-2012], Joseph Nechvatal, Anne-James Chaton. Di quest’ultimo, sound-poet francese autore di performance in cui l’asettico e monocorde salmodiare della voce può, alla bisogna, fungere esso stesso da architettura sonora (Évenéments) oppure essere sorretto da impalcature più (Alva Noto, Unitxt e Univrs) o meno (Andy Moor in Le Journaliste e in molti altri lavori) geometriche, saranno esposti due lavori grafici. Proprio Le Journaliste, pur risalendo a cinque anni fa, risulta tuttora di un’attualità sconcertante. In quel disco, gli otto testi sono selezionati da una serie di cento ritratti che Chaton ha dedicato alla figura professionale del giornalista, frammenti estrapolati a caso da colonne di giornale o da notiziari radio. Ovviamente con la solita accortezza: quella di rimanere totalmente avulso dal senso delle parole perché meglio potesse emergere il loro consumarsi come semplice suono. Di lui, e di altri personaggi chiave della cultura francese contemporanea (Fiat, Massera, Pireyre, Alferi), il critico Eric Suchére ha scritto di recente: “Verranno situate, incluse o sequestrate sotto il termine di poesia persone che se ne infischiano bellamente della poesia o che rompono con l’idea di poesia, ma ciò che in realtà ritornerà con forza assieme a questi scrittori è la poesia sonora, la poesia visiva o la performance”. Avremo modo di toccare con mano, fino al 20 ottobre. dearteassociazione.org

ART MUSIC

di CLAUDIA GIRAUD

KARL BARTOS, MUSICISTA VISIVO Non per niente è stato membro dei Kraftwerk per quindici anni. Si sente tutto il sound della band di Düsseldorf nel primo singolo che fa da traino a Off The Record, album solista di Karl Bartos (Berchtesgaden, 1952), fresco di uscita per l’etichetta Bureau B di Amburgo. Atomium è il titolo del brano in questione, ma è anche il nome del gigantesco cristallo di ferro, costruito in occasione dell’Esposizione Universale di Bruxelles del 1958. Un monumento all’ascesa e caduta dell’energia atomica che trova, così, il suo portavoce nella musica iconica di questo “visual-musician”, come si è autodefinito in un’intervista di qualche anno fa. Anche nel videoclip del singolo, i riferimenti alle avanguardie storiche, come Futurismo e Bauhaus, si sprecano per la ripetizione modulare del ritmo, la composizione in diagonale della scritta-ritornello-slogan e l’immagine in negativo, sapientemente combinati con il suono elettronico. Ma, per poter fare tutto questo, Bartos ha pescato nei suoi archivi musicali. All’apice della carriera con i Kraftwerk, di cui è stato un componente pesante, influenzando con la sua musica dischi come The Man-Machine (1978) e Computer World (1981), ha scritto, off the record, in segreto, un diario acustico, da dove ora ha attinto per realizzare questo album “audio-visualsensation”, con dodici brani inediti ma dal sapore vintage. Uso massiccio di vocoder, suoni robotici e melodie electropop sono presenti in quantità industriale, rivisti però alla luce dell’attuale esperienza di produttore e compositore del progetto musicale Elektric Music, portato avanti sia in solo che insieme agli amici musicisti Bernard Sumner (New Order), Johnny Marr (The Smiths) e Andy McCluskey (OMD). A cui si aggiunge il piglio da teorico, grazie ai suoi studi di comunicazione che lo hanno condotto a fondare nel 2004 il corso Sound Studies Acoustic Communication all’Università delle Arti di Berlino, dove ha insegnato Auditory Media Design fino al 2009. Da sempre affascinato dalle interferenze dell’immagine col suono, ha anche preparato un film, Live Cinema, per una durata di 90 minuti di suoni elettronici e filmati video, che accompagnerà il tour 2013 per l’uscita del nuovo album. www.karlbartos.de

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Apriamo la rubrica educational di Artribune Magazine con un editoriale. Perché in una situazione malandata come quella in cui versa la scuola - di ogni ordine e grado - nel nostro Paese, è forse meglio fare un passo indietro, anzi due: teorico e cronologico. E ripartire dai fondamentali, che hanno almeno un nome: Bertrand Russell.

FINE O FINI DELL’EDUCAZIONE? di ANTONELLO TOLVE

Il collasso del sistema educativo, il tramonto di una istruzione necessaria alla formazione del pensiero critico e l’inevitabile destabilizzazione nonché inaridimento dei ruoli pedagogici hanno prodotto, in Italia come altrove, un malessere collettivo avvertito non solo all’interno di un “precariato di massa che”, nonostante tutto, “tiene ancora in piedi la scuola”, ma anche uno scontento generale tra gli ambienti di una giovinezza reale che si documenta, che ha ancora la voglia e la speranza di poter cambiare lo stato attuale delle cose. La scuola è finita, ha apostrofato - a ragion veduta e non senza rammarico - Roberto Ciccarelli sulle pagine di Alfabeta2. È finita perché Come non ci sono i presupposti per andare avanti, perché non ci sono leggere Artribune Per Artribune Magazine è gli strumenti e i materiali di base, perché la recherche di

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EDUCATIONAL

l’ultimo numero dell’anno, inteso come anno scolastico, accademico. E allora ci pare il momento giusto per iniziare a riflettere su didattica ed educazione con una nuova rubrica. Diretta da Antonello Tolve, insieme a Maria Rosa Sossai (che trasferisce qui le sue Lettere) e Adele Cappelli (che scoverà case studies di didattica in Rete). Tre professionisti del settore per due nuove pagine.

un posto a tempo indeterminato si risolve, oggi, in un avvilente quiz dal profumo scadente e nauseante. Ma non un quiz come quello


diretto da Mike Bongiorno, il noto Lascia o Raddoppia dove hanno sfilato figure memorabili - Filiberto Menna (allora medico condotto, in qualità di esperto d’arte nel 1957) e John Cage (presente come esperto di funghi nel 1959) ne sono alcune - per arricchire il telespettatore italiano, piuttosto una squallida performance, “una prova d’esame o una selezione del personale” dove “non conta il percorso scolastico e professionale” dell’insegnante, “ma il valore d’uso della sua forza lavoro nell’istante in cui essa serve”. L’impoverimento della didattica attanagliata tra le morse di una burocrazia sempre più esigente e lo sfiancamento del docente rappresentano, così, alcuni sintomi di una inevitabile rovina. Di un buco educativo utile a sradicare quella che Umberto Eco ha definito essere, in tempi non sospetti, “pratica della diffidenza quotidiana”. Un esercizio necessario a farsi una propria idea, a sospettare che il fatto sia, in molti casi, un semplice factoid (Mailer), uno pseudoevento (Dorfles), una velina rosa dietro la quale si nascondono apparecchi molto più complessi che mirano a massaggiare, ad addomesticare il cervello del singolo e della specie.

i vari avvilimenti e le umiliazioni del sistema scolastico, nonostante i tagli radicali a un capitolo di spesa indispensabile, l’educazione si pone ancora come un continente culturologico irrinunciabile. Perché lo scopo di Un fotogramma da Zéro de conduite (1933) di Jean Vigo

Tuttavia, nonostante

un’istruzione reale, sana, generosa e democratica, lontana dalla dittatura dei partiti o dai Wirtschaftswerte fondati sul saccheggio sfrenato delle risorse naturali (Beuys), è quello che, secondo Bertrand Russell, deve “trasmettere il senso del valore delle cose che non fanno parte delle forme di dominio”, deve “contribuire a creare i cittadini di una comunità libera” (Power: A New Social Analysis, 1938). Non a caso, accanto alle degenerazioni del sistema politico, alle deviazioni e alle devitalizzazioni dell’organismo istruttivo che vive un lutto e una mancanza quanto mai scoraggiante, ci sono bagliori di speranza, luci creative che continuano a vedere - è ancora Russell a scrivere - nell’“immaginazione le possibilità del futuro e il modo in cui esse devono essere realizzate” (Proposed Roads to Freedom, 1919). Seppur sbiadita o eclissata in un circuito che ha derubato idee e principi formativi, l’educazione resta, allora, un luogo di affermazione dell’individualità, “di una salda identità personale”, evidenzia Fulvio Papi, “di un sufficiente senso della realtà, di una informazione adeguata alle domande sociali, di una attitudine creativa adatta a risolvere i problemi che si presentano, di un senso morale”, infine, “socialmente aperto e costruttivo” (Educazione, 1978).

LETTERE DA UNA PROF di MARIA ROSA SOSSAI GINA PANE IN CATTEDRA

Questa lettera è un omaggio alla grande artista Gina Pane che, durante gli anni di insegnamento, è stata capace di creare un clima di fiducia e collaborazione con i suoi studenti. Quello che segue è l’estratto di un testo da lei scritto nel settembre del 1977 in occasione di un intervento artistico degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Le Mans. L’insegnamento che vorrei proporre è in sintonia con l’evoluzione della società perché prepara i giovani al cambiamento e li mette in grado di assumersi le loro responsabilità. La relazione tra insegnante e studente è fondamentale; affinché la pedagogia sveli la sua vera natura, il docente deve avere una fiducia incondizionata nell’individuo e nel gruppo. Non desidero fondare il mio insegnamento sul Discorso ma, al contrario, sulla presa di coscienza della realtà scientifica concretamente vissuta. È importante favorire la fioritura di ciascun individuo affinché possa sentire l’esperienza adeguata al suo livello. Un’esperienza che deve arricchirlo e contribuire a farlo progredire verso se stesso e verso la sua unità. Desidero anche avviare una profonda riflessione sulla nocività del costruire e fabbricare “ricette artistiche” prive di creazione personale (che si giustificano unicamente su un’analisi storica dei contenuti delle creazioni altrui). Nel rapporto tra chi insegna e chi apprende non si dimentichi mai che ogni individuo possiede una propria originalità e che la sua esperienza non è mai riducibile a quella degli altri. Così come non bisogna mai utilizzare un metodo di insegnamento fondato sul compromesso. Il clima di una classe deve respirare la solidarietà autentica in funzione di un dialogo aperto, di un confronto critico e di una riflessione tra chi insegna e chi apprende affinché la loro relazione non sia vissuta come esclusiva o alienante. Gli studenti dovranno comprendere che il Maestro non è un modello ma uno strumento del loro proprio modello.

RETI DIDATTICHE

di ADELE CAPPELLI

MOMA, IL MUSEO ISTRUTTIVO Curiosare all’interno dei siti dei musei e delle istituzioni culturali è un divertente e istruttivo passatempo. Sciogliendo ogni possibile riserva, una premessa è necessaria: l’opera d’arte esige un rapporto “fisico” per la costruzione di un adeguato scambio dialettico e nessun tipo di approccio virtuale può sostituirsi alla meraviglia generata dall’incontro. A volte però ci sono strumenti che invogliano e facilitano l’accesso. Vagando in Rete, l’organizzazione dei siti mostra interessanti diversità, con rimandi a un più ampio discorso sull’importanza data alla cultura e agli aspetti divulgativi, all’accesso facilitato ai contenuti per favorire occasioni formative per un pubblico differenziato. Ecco allora un sito per famiglie. Tra i primi luoghi virtuali creati e pensati come zone d’interazione e comunicazione, quello del MoMA di New York. Chi si aspetta effetti speciali rimarrà deluso. Dall’apertura del sito la navigazione è chiara e scorrevole, un unico iniziale banner con informazioni sulle mostre, sulle molteplici attività del museo e voci per le aree didattiche. Ad esempio, accedendo alla schermata del MoMALearning appaiono immagini corrispondenti ad argomenti dell’arte che offrono pdf scaricabili, facilmente utilizzabili da insegnanti a caccia d’idee sull’arte contemporanea, meno scontate dei progetti normalmente proposti nelle scuole. Alla voce Tool & Tips, percorsi con domande che accompagnano, con semplicità, nella dimensione speculativa dell’arte. Pratici i rimandi a significati di termini specifici o collegamenti fra artisti e movimenti, nelle parole evidenziate dai diversi colori. Sempre nel tentativo di avvicinamento all’arte contemporanea, utile è anche la sezione Multimedia (da Explore), video e audio, contributi di artisti e apporti educativi di vario genere. Così in Interactive, spassoso Red Studio sulla Pop Art, o un extraterrestre, nell’animazione Destination: Modern Art, an intergalactic Journey to MoMa and P.S.1 che accompagna, in un efficace gioco, i più piccoli in un breve viaggio nell’arte tutto da scoprire. Per i più grandi, invece, la possibilità di scaricare le applicazioni per iPad - MoMA Art Lab app - per giocare, sempre artisticamente parlando. www.moma.org

EDUCATIONAL 101


Agli inizi lavorava con l’immagine degli animali perché voleva “abbassare l’ego dell’uomo”. Poi, scanner mobile sempre in borsa, è passato a inventare unità di misura fittizie, a catalogare e a mettere in scena installazioni fatte di tante piccole opere collegate tra loro. All’apparenza lavori freddi, macchinosi, concettuali, autoreferenziali. Ma, se si va oltre l’oggetto e la superficie, si scopre un lato quasi romantico. Una formazione da incisore, un corso a Brera appena terminato: Alessandro Di Pietro, classe 1987, ha di recente abbassato l’ego d’artista per assumere quello del curatore.

ALESSANDRO DI PIETRO di DANIELE PERRA

Che libri hai letto di recente e che musica ascolti? Di recente ho letto Terra e Mare di Carl Schmitt e sto riascoltando Maxinquaye di Tricky.

lavoro i.m.e.n.(s)i.m.e.n. del 2010 è stato pensato tra Sicilia e Germania e consisteva nel chiedere al pubblico di ridefinire morfologicamente un’isola nera, disegnando il mare attorno.

I luoghi che ti affascinano. Quelli col mare davanti e le montagne dietro.

Hai iniziato dipingendo asini giganti su acetato perché volevi “abbassare l’ego dell’uomo”. L’installazione Equus asinus del 2009 prevedeva due livelli di lettura: uno a distanza, permettendo di riconoscere la forma animale (fase del conflitto), e l’altro avvicinandosi alla nuova pelle dello spazio, non più minacciata da questa forma perché irriconoscibile.

Le pellicole più amate. Le cinque variazioni di Lars Von Trier, Enter the Void di Gaspar Noé. Artisti guida? Thomas Bayrle, Daniel Buren, Mike Kelley e Bruce Nauman. Ti sei trasferito a Como da piccolo ma sei nato a Messina. Hai tuttora un forte legame con la Sicilia. Penso al tuo lavoro partecipativo sulle isole… Como e Messina sono due riferimenti geografici che mi hanno sempre messo in crisi: in uno ci ho vissuto e nell’altro ci sono nato e ritornato. Oggi non è tanto un problema di identità o di radici quanto cercare di capire che forma questi due luoghi hanno assunto per me nel tempo. Il

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TALENTI

Cataloghi, archivi, rilevi, scansioni, occulti. Alla base c’è sempre un’ossessione per la “misurazione”. Hai persino inventato un’unità di misura fittizia. Prima dell’ossessione verso tutte queste forme di misurazione c’è un forte interesse verso l’idea di standard, ovvero quelle forme normalizzate e dichiarate perfette rispetto alla comunicazione sullo spazio e nell’organizzazione delle sue informazioni. A Sèvres una barra di platino-iridio chiamata Metro diventa monumento, risolvendo così l’incertezza nella misurazione della distanza. Così, se ripetuto nello spazio, il metro produce una misura


e un linguaggio basato su uno standard riconoscibile, comunicabile e applicabile a uno strumento. La mia unità no, ma ha lo stesso un nome: Geompiatta. Giri con uno scanner mobile in borsa con cui realizzi, tra l’altro, i tuoi “orizzonti”. Cosa ti colpisce delle cose e delle persone al punto da volerle scansionare? Cose e persone sono riportate a un unico piano di composizione, come 258 fragments of my side... (2011). Questo strumento di misurazione a contatto non ha profondità di campo ma registra ad alta definizione ciò che tocca, ciò che gli è più vicino. Così posso accorciare la distanza tra la mia mano e le superfici.

Geompiatta, 2012, scultura stampa 3D. Foto di Zeno Zotti

Mi ha colpito molto il tuo modo di “mettere in scena” le installazioni dove le singole opere sono legate da un discorso unitario. Mi hai fatto pensare al modo in cui Wolfgang Tillmans ha rivoluzionato il display in ambito fotografico. ll lavoro è tutto quello che vedi fino al momento della sua messa in scena (A.B.N.P. 2010). Il frammento è un escamotage estetico che necessariamente attiva una separazione tra le parti del progetto al fine di fermare lo sguardo e metterle in relazione, ma non è l’opera. È possibile che la narrazione sia il display come immagine residua, complessiva e oggettiva. Sul tuo portfolio dedichi una pagina allo scultore Giovanni Gonnelli. Perché quest’omaggio? L’opera Giovanni Gonnelli sta finalmente svanendo (2011) è una scansione di una fotografia di un autoritratto, che continuo a modificare, dello scultore Giovanni Francesco Gonnelli (1603-1664). È considerato - dopo che diventò cieco sebbene riuscisse ancora a fare ritratti molto naturalistici - un freak, un’anomalia più che un artista. Il portfolio è uno spazio a tutti gli effetti che pone delle condizioni di esistenza dell’opera e in molti casi la sostituisce. Il display è il portfolio stesso, e questo lavoro è quello che ho esposto di più. Di recente hai “abbassato” il tuo ego d’artista per mettere i panni del curatore. Cosa ti ha dato quest’esperienza? Mi sono trovato in una condizione di ascolto insolita. Molto utile!

NOW

di ANTONELLO TOLVE

SWING BENEVENTO

Nata dalla passione di Angela da Silva per il design contemporaneo, la Galleria Swing di Benevento apre una riflessione su un mondo fatto di oggetti complessi per generare linee culturali accattivanti, affascinanti, felicemente aperte a un gusto in bilico tra il dominio dell’estetica e quello della produzione industriale. Orientando il proprio asse riflessivo su un circuito creativo che, a detta di Gillo Dorfles, presenta sotto uno stesso cielo “funzione e forma”, Swing propone, difatti, in uno spazio di circa 60 mq (dotato di due ambienti: uno strettamente espositivo e uno uso ufficio che ospita, di volta in volta, il pezzo principale della mostra), felici interferenze estetiche che coniugano gli aspetti avvincenti del procedimento analitico attuale a quelli di indagini progettuali con valori d’uso, per indirizzare lo spettatore verso i sapori più vivi e vivaci dell’odierno panorama creativo legato a opere d’arte di differente natura. Si tratta, appunto, di un ambiente “dedicato alla ricerca nel design contemporaneo”. Di un terreno che “promuove nuovi designer emergenti provenienti da tutto il mondo”, suggerisce da Silva. Di un campo che esplora, con eleganza, “i confini tra design e arte”, per produrre e presentare “pezzi unici e in edizione limitata che hanno una particolare attitudine ai linguaggi narrativi e concettuali”. Deform della designer tedesca Milena Krais [nella foto di Pasquale Palmieri]; Lichtkammer, la mostra personale del designer altoatesino Harry Thaler, curata da Antonella Palladino. E poi Cheap Ass Elites, il progetto del thailandese Saran Yen Panya e Pixel Vases Landscape, prima mostra personale in Italia di Julian F. Bond. Le quattro mostre organizzate dal giorno d’apertura, nell’ottobre del 2011, al 15 febbraio 2013 evidenziano immediatamente una visione internazionale di grande respiro che continua a entusiasmare il pubblico. Oggi con Hockety Pockety, progetto espositivo (fruibile fino al 12 luglio) nato dall’incontro tra i designer Andrea Magnani e Giovanni Delvecchio. Accanto a questo affascinante palinsesto, Swing propone anche un programma collaterale (EXTRAswing) che salta il fosso della programmazione ufficiale per aprire lo spazio a una serie di appuntamenti supplementari. A un “programma espositivo con piccole produzioni, industriali o in limited edition, realizzate da designer provenienti da tutto il mondo”. Air Vase del gruppo Torafu Architects è il primo appuntamento di questa seconda anima della galleria. Un’anima aperta a conferenze, a rapporti di partecipazione con le realtà artistiche del territorio o a piccoli appuntamenti ad arte che reinventano il lavoro di galleria per trasformarla, via via, in ambiente riflessivo, energico, frizzante.

Come è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero? In questo caso una composizione fotografica: Tératologie vivante!

Via Arcivescovo Pacca 14/16 - Benevento 0824 040900 info@spazioswing.it - www.spazioswing.it

ULTIME DA VIAFARINI DOCVA

a cura di SIMONE FRANGI

NICO ANGIULI Nato a Adelfia nel 1981, vive a Blanca

FEDERICO TOSI Nato a Milano nel 1988

IVA KONTIC Nata a Belgrado nel 1982

Dal lavoro come “peso” alla sua traduzione coreutica. Angiuli sottopone la gestualità agricola a una traslazione estetica, in cui la soppressione degli attrezzi reali e l’enfasi sui movimenti vuoti alleggerisce il portato pratico del lavoro, per far emergere il suo sottotesto culturale ed etico. Un’indagine a lungo termine e ad ampio spettro sulla meccanizzazione agraria, con un coefficiente laboratoriale in cui la danza emerge come strumento analitico e dispositivo di relazione con gli “agenti” reali di questa ruralità postindustriale.

Si muove tra composizioni alimentari vicine a Dieter Roth, collage di carne à la Jana Sterbak, durational e task performance di kaprowiana memoria. E nessuno di questi riferimenti sembra schiacciare - ma nemmeno scalfire - un corpus artistico complesso, schizofrenico ed estremamente coeso. Con piglio strafottente, disturbante e una finezza concettuale rara, Federico Tosi porta avanti una ricerca che deborda dai recinti espositivi, per invadergli la vita.

E se l’immagine fosse un fallimento del pensiero? Questa l’ipotesi interpretativa con cui Iva Kontic mette in scacco il suo stesso lavoro: una pratica naturalmente engaged, che cortocircuita e che finisce sempre per autoanalizzarsi, non raggiungendo (volutamente?) l’obiettivo che si era preposta. Un nucleo poetico e operativo in cui il video compare come un mezzo potente e inflessibile per smascherare o costruire messe in scene.

La danza degli attrezzi - raccolta delle olive foto di J. Orcaray Vélez courtesy collezione Gino Battista

Senza titolo, 2013 tatuaggio, dimensioni variabili courtesy l’artista

Mechanical Dream (Zastava 101: Stojadin, you can feel the strenght), 2011 fotografia digitale, cm 40x30 courtesy l’artista

TALENTI 103


JULIA KRAHN a cura di ANGELA MADESANI

Julia Krahn è nata nel 1978 ad Aquisgrana, in Germania. Mentre studia medicina a Friburgo va spesso a Milano. Inizia così a utilizzare la fotografia come medium per comunicare con i suoi amici italiani, con i quali non condivide la lingua. Nascono i primi autoscatti. Dopo aver fatto qualche piccola mostra e aver incontrato la sua prima galleria, decide di dedicarsi completamente alla fotografia. Lascia gli studi di medicina e la Germania per trasferirsi nel nostro Paese. I suoi lavori nascono sempre da domande: quesiti di matrice esistenziale, profondi e grevi, che le arrivano dal bagaglio di studi umanistici acquisito in Germania e dalla quotidianità. I suoi lavori, però, non vogliono offrire risposte. Semmai stimolano altre interrogazioni. Krahn pensa, infatti, che solo attraverso lo scambio dei diversi punti di vista, delle interpretazioni personali, si possa costruire un percorso, che sempre e comunque costituisce una forma di arricchimento. Affronta, così, temi il più delle volte scomodi, difficili: dalla famiglia alla violenza, dalla natura alla religione. www.juliakrahn.com

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FOTOGRAFIA


in alto VanitĂ s 2011-2012 inkjet color print traditional photography a fianco Reinheit 2009 inkjet color print traditional photography nella pagina a sinistra Die Taube #01, #03, #06 2011-2013 inkjet color print traditional photography

FOTOGRAFIA 105


Salsiccia e patatine all’uscita dallo stadio, lungo vialoni anonimi e in mezzo al puzzo di fritto e smog. Questa è all’incirca la visione che si affaccia alla mente quando si parla di food truck. Però, anche qui, c’è chi fa le cose per bene. Vi raccontiamo l’esempio del Camion Qui Fume a Parigi. E dell’americana che lo ha inventato.

COME SI DICE FOOD TRUCK A PARIGI? di MARTINA LIVERANI

La guida Le Fooding di Alexandre Cammas gli ha dedicato una speciale menzione: non è un bistrò, neppure un ristorante ma, come dice il suo nome, Le Camion Qui Fume è un camioncino che fuma, anzi, che profuma di hamburger e patatine. Un food truck, per dirla all’americana, dove sta impazzando la mania dello street food e sull’asfalto davanti a un camioncino puoi trovare centinaia di persone in fila, radunatesi a colpi di tweet, per mangiare sushi, dim sum, barbecue alla brasiliana, salsicce greche, frittelle, panini vietnamiti, cupcake, e decine di altre prodezze gastronomiche. Che siano le finanze traballanti o la noia per le grandi catene, fatto sta che la nuova domanda in termini di cibo lo

vuole economico e veloce, e così i food truck sono diventati veri e propri incubatori di innovazione culinaria, anche al di qua dell’oceano.

Sì, avete letto bene, è possibile fare cibo di qualità a bordo di un furgone attrezzato. Anche a Parigi, patria delle tovaglie inamidate e dei microscopici tavolini da bistrò, dove la californiana Kristin Frederick ha importato la moda statunitense del food truck e incantato tutti con hamburger gourmet degni del miglior ristorante. La storia è andata più o meno così: appassionata di cucina, appena arrivata in Francia Kristin si è diplomata presso l’École Supérieure de Cuisine Française Ferrandi e poi si è chiesta come mai, a Parigi, nessuno avesse ancora pensato di creare un food truck che distribuisse hamburger di qualità: lì, nella città del buon pane (una boulangerie a ogni angolo), della carne di manzo (avete presente

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BUONVIVERE


l’entrecôte?) e delle patatine (non per niente si chiamano french fries, anche se sotto sotto vengono dal Belgio) occorreva prendere seriamente la ricetta dell’hamburger. Detto, fatto. Con un camion, una patente B e tanta carne macinata si è inventata nel 2011 Le Camion Qui Fume, il primo e a oggi il più famoso food truck di Parigi. Niente a che fare con i camion del cibo che siamo abituati a vedere, quelli che all’uscita dello stadio, di un concerto, delle sagre di paese o dalla discoteca (e purtroppo davanti a tanti nostri monumenti) vendono panini o piadine preconfezionate con salsicce scadenti. No, qui si parla di cucina vera, di ricerca, di ingredienti di prima qualità. E infatti i parigini di tutte le età fanno la fila davanti a questo furgoncino che si sposta in città dalle 11 alle 14 e dalle 19 alle 22, fornendo l’indirizzo esatto via Twitter, Facebook o tramite il sito web, e distribuisce hamburger golosi fin che ce n’è. Il menù è corto (6 tipi di hamburger + 1 vegetariano, patatine, insalata e cheesecake) ma ogni piatto è buonissimo e ricercato. I prezzi sono bassi (ogni hamburger costa 8 euro e con il contorno di patatine o insalata 10 euro) e le ricette sono sfiziose e ricalcano un bel mix di cucina americana e francese. Talmente ricercate che sono diventate perfino un libro in vendita in tutte le librerie di Parigi. A chiedersi il motivo di così tanta attenzione e successo, c’è da darsi più di una risposta: una

riedizione del vecchio carretto, un’interpretazione della tendenza “no frills” che sta contagiando tutti gli ambiti del leisure e dell’intrattenimento (pure quello mangereccio), una risposta alla crisi che impone di rivedere al ribasso i costi fissi per avviare un’attività (nell’ottica dell’imprenditore del cibo) e di ridimensionare i consumi per i pasti fuori casa, senza però rinunciare alla qualità. Sicuramente il fattore “di moda” gioca il suo ruolo, ma dopo aver appiccicato l’aggettivo ‘gourmet’ a ogni genere di pietanza pop (il gelato gourmet, la pizza gourmet e così via) era venuto il momento di riabilitare l’hamburger e, con un’innovazione al quadrato, anche il modo di intendere la ristorazione mobile. Senza del resto inventare nulla, perché quella dello street food è una tradizione dalle radici antichissime, ma la sua multisensorialità (l’odore del cibo che si diffonde nell’aria, il fatto di mangiarlo con le mani, la convivialità e la facilità di consumo) è interpretata in chiave moderna e giovane nello stile (un food truck colorato da cui esce musica elettronica e ragazzi che cucinano) e con una impeccabile e nuova qualità legata al prodotto. È questa la risposta al successo del Camion Qui Fume. Kristin è praticamente una celebrità nel gastromondo parigino e, se le chiedessimo il segreto del suo successo, certamente risponderebbe dicendo: “C’est le street food, baby!”.

CONCIERGE

di MARIA CRISTINA BASTANTE

SOTTO IL CIELO DI TIEPOLO Succede, a Venezia, di potersi addormentare sotto un cielo dipinto da Tiepolo. Nel mese caldo – e non parliamo di clima – della Biennale d’Arte, apre i battenti in Laguna il primo Aman Resort italiano. Il colosso asiatico del superlusso esordisce in una location d’eccezione: Palazzo Papadopoli, nel sestiere più piccolo, quello di San Polo, affacciato sul Canal Grande che dà il nome all’albergo. All’Aman Canal Grande gli ospiti sbarcano direttamente nella sontuosa hall: il palazzo, costruito nel XVI secolo da Gian Giacomo de’ Grigi ma rinnovato all’inizio dell’Ottocento da Michelangelo Guggenheim (che, nonostante il cognome, non c’entra nulla con la facoltosa ereditiera Peggy, veneziana pure lei, ma d’adozione), è uno scrigno rococò di spumeggiante bellezza, significativo esempio del fascino crepuscolare della città più orientale d’Italia. Solo 24 suite, “ordinate” in un crescendo di comfort e unicità: spiccano fra tutte la Suite Canal Grande, con una grande finestra ad arco che si apre sulla Laguna; la Suite Sansovino, con un camino d’autore, disegnato dall’architetto Jacopo d’Antonio Sansovino; e l’Alcova Tiepolo, che riunisce un salottino decorato a chinoiserie e il sontuoso soffitto che sovrasta il letto king size. Stucchi, amorini in volo e la luce dorata del maestro del Settecento veneziano. Per chi ha concepito il design del resort – ben due studi: l’italiano Dottor Group e il malese Denniston – il compito più difficile è stato muoversi sul crinale della semplicità: in un’atmosfera così ricca, l’arredo è necessariamente minimale. Non si gioca sul contrasto, ma su un virtuoso mimetizzarsi. Ambienti spettacolari anche per gli spazi comuni: la ballroom con specchiere e candelabri d’epoca, le due sale da pranzo – la Red e la Yellow, nominate semplicemente in base al colore dominante dell’interior –, le due stanze del Guarana e di Tiepolo, appositamente per gli incontri privati. Si mangia italiano o asiatico e poi si può leggere nella pacata solitudine della biblioteca. C’è anche una piccola boutique dedicata al vetro d’arte. Il resto lo fa Venezia: si vede il Canal Grande quasi da qualunque affaccio, compresa la splendida terrazza. E poi, il lusso dei lussi per chiunque bazzichi la Serenissima: due giardini privati – una rarità, sull’acqua – ombreggiati dagli alberi. Aman Canal Grande Calle Tiepolo (San Polo) - Venezia 800 22552626 amancanalgrandevenice@amanresorts.com www.amanresorts.com prezzi delle suite da 1.000 a 3.500 euro

SERVIZIO AGGIUNTIVO

DI MASSIMILIANO TONELLI

A NEW YORK SI MANGIA IN CLASSE Il P.S.1, branch di ricerca e sperimentazione da alcuni anni sotto l’ala protettiva del MoMA, ha di nuovo la sua offerta gastronomica. Il bar-caffetteria dell’affascinante edificio nel Queens newyorchese aveva via via perduto appeal e si era intristito fino a dover chiudere del tutto. Un fatto poco gradevole per i visitatori del museo, per gli abitanti del quartiere e per il fatto che le alternative circostanti non sono così abbondanti: è vero che quest’area di Long Island City si sta rapidamente gentrificando, tuttavia non c’è una grande scelta di luoghi dove pranzare dopo la visita alle mostre o le perlustrazioni negli studi dei vari artisti che hanno scelto quest’area per lavorare. Mister Hugues Dufour, con sua moglie Sarah Obraitis, nel 2010 avevano aperto il loro M. Wells Dinette giusto poche decine di metri più in là del P.S.1, in un caratteristico contenitore da autentico diner americano Anni Cinquanta sotto la metro, che qui transita sopraelevata. Alcune vicissitudini hanno portato alla chiusura, lasciando l’amaro in bocca a intere schiere di ammiratori che avevano imparato ad apprezzare la cucina neo-american con influssi canadesi (québécois, per la precisione) di Dufour e che affrontavano fino a due ore di fila per mangiare in quella che il Village Voice definì come una delle più innovative cucine della città in quell’anno. Le attese dei fan sono durate però solo fino allo scorso autunno, quando gli inventori di M. Wells hanno aperto la loro dinette al piano terra del P.S.1: cucina in mezzo alla sala, aperta, cuochi hipster, folla per il pranzo e per la cena, ma soprattutto per il brunch. E un décor indimenticabile: una vera e propria classroom americana, con seggioline e banchi di scuola che costringono a mangiare rivolti tutti nella stessa direzione, come se si fosse in aula. 22-25 Jackson Avenue - Long Island City (NY) +1 718 7861800 write@mwellsdiner.com - magasinwells.com

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Non solo Biennale ed eventi collaterali. Venezia e dintorni offrono molto, moltissimo di più. Suggerimenti per i vostri (pochi) momenti liberi tra un padiglione e l’altro. A partire da due grandi della storia dell’arte: Manet e Munch.

VENEZIA, LA LUNA E TU di SANTA NASTRO

IL RISTORANTE Ostaria da Mariano Via Spalti 49 - Mestre 041 615765 www.ostariadamariano.it

LA LETTERATURA Ezra Pound Sull’isola di San Michele, al cimitero monumentale, è sepolto il poeta statunitense, che a Venezia dedicò alcuni versi della sua prima raccolta, A lume spento (1908). Anche i Cantos contengono, com’è noto, un’intera sezione incentrata sulla città lagunare.

mestre

L’ALLOGGIO Gritti Palace Campo Santa Maria del Giglio 041 794611 www.thegrittipalace.com

IL BACARO Al Bottegon Fondamenta Nani 041 5230034

IL MONUMENTO Scuola Grande di Santa Maria dei Carmini Dorsoduro 2616-2617 041 5289420 www.scuolagrandecarmini.it

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PERCORSI

LA MOSTRA fino al 18 agosto Manet. Ritorno a Venezia Palazzo Ducale San Marco 1 041 8520154 www.mostramanet.it

venezia

LA MOSTRA fino al 22 settembre Attenzione alla puttana santa Fondazione Bevilacqua La Masa San Marco 71c 041 5237819 www.bevilacqualamasa.it

Opere inedite di Edward Munch? Magari in dialogo con un’artista contemporanea? Mai l’occasione potrebbe essere più ghiotta. A offrirla è la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, complice del progetto ufficiale della Norvegia intitolato Attenzione alla puttana santa: Edward Munch, Lene Berg e il dilemma dell’emancipazione. Qualche dilemma coglierà anche voi, impavidi visitatori biennaleschi. Ad esempio: dove mangiare? Dove dormire? Che altre mostre visitare? Quali scarpe calzare? Cerchiamo di venirvi in soccorso nel districare il labirinto lagunare e nel proporvi, magari, qualche suggerimento in più. D’obbligo – manco a dirlo – le scarpe basse per le signore e la bottiglietta d’acqua sempre nello zainetto. E via. Cogliete il brivido di una sortita nel passato, con la mostra Manet. Ritorno a Venezia a Palazzo Ducale. Le opportunità non mancano, soprattutto perché l’evento regala un confronto imperdibile, facendo coesistere l’immortale Olympia e un’opera di Tiziano, prestito degli Uffizi. C’è nell’accostamento un riferimento esplicito alla biografia del maestro francese, che dalla Venere di Urbino [nella foto sulla pagina a fianco, in alto] mosse i primi passi verso il dipinto che lo ha reso famoso in tutto il mondo per il soggetto profano


ritratto in una posa classica, nella tradizione destinata alle figure mitologiche, e nel colto omaggio a Émile Zola. Pausa pranzo? Dipende da quanto tempo avete. Se è poco, è d’obbligo un bacaro, o magari qualcosa di meno scontato. A pochi passi dalle Zattere sorge infatti una delle vinerie più antiche di Venezia, Al Bottegon (Cantinone già Schiavi). Entrate in questo locale dalle travi basse e dalle luci soffuse e tremolanti, ordinate un bianchetto della casa e lasciate che lo sguardo si posi sulle centinaia di bottiglie impolverate presenti sugli scaffali. Ottimi anche i “cicchetti”, da provare. Se ne avete molto, può essere l’occasione per uscire dalla Laguna per visitare l’Ostaria da Mariano, con un menu della tradizione a base di baccalà alla vicentina e sarde in saor che vi farà dimenticare di aver lasciato, per la meno affascinante Mestre, la bella Venezia. Al vostro ritorno concedetevi una visita alla Scuola Grande di Santa Maria dei Carmini. La Sala del Capitolo, destinata alle assemblee dei confratelli, vi lascerà a bocca aperta con le nove tele del soffitto dipinte nel XVIII secolo da Giambattista Tiepolo. Rappresentano le Virtù cardinali e teologali, il codice delle regole della confraternita e la Vergine, la quale naturalmente assume un ruolo centrale nell’intera teoria di opere. Se vi è rimasto ancora un po’ di fiato, cercate di prendere il primo vaporino per San Michele. Situati sull’omonima isola sono il famoso monastero, in epoca napoleonica carcere politico, e il cimitero monumentale dove giacciono le spoglie di Ezra Pound. Il poeta era infatti molto legato a Venezia, alla quale dedicò alcuni versi della sua prima fatica, A lume spento (“O sole veneziano / Che hai nutrito le mie vene / Regolato il corso del sangue / Hai fatto appello alla mia anima / O al fondo di lontani abissi”), per poi ritornare in Laguna in vecchiaia e dedicarle un ruolo importante ne I Cantos.

Una notte indimenticabile si trascorre al Gritti Palace, che a fine gennaio ha riaperto dopo un restauro storico durato 15 mesi e costato 35 milioni di euro. L’edificio torna così all’originario

impianto gotico e recupera l’allure di residenza privata (qui visse infatti, con la propria famiglia, il doge Andrea Gritti), grazie anche agli interventi di interior design diretti da Donghia Associates. Il risultato consiste in 61 camere e 21 suite, oltre alla celebre terrazza Art Déco, al ristorante Club del Doge e al bar Longhi. Senza dimenticare la scuola di cucina Gritti Epicurean School, la Blu Mediterraneo Spa griffata Acqua di Parma e la Explorer’s Library. Se, infine, avrete voglia di tornare più avanti - perché si sa, l’inaugurazione non è mai il momento migliore per visitare la Biennale - cogliete l’occasione del Venezia Jazz Festival, dal 16 al 31 luglio. Potrete immergervi in un’atmosfera magica che avvolge i luoghi istituzionali dedicati alla musica, come il Teatro La Fenice, ma anche le piazze, i sotoporteghi e le rughe, con pomeriggi letterari, jazz aperitifs e gran finali.

MO(N)STRE

di FABRIZIO FEDERICI

SOUVENIR DE VENISE Portarsi dietro un pezzetto di Venezia è sempre stata una tentazione fortissima. Dal Canaletto appeso nel salotto di una country house immersa nella bruma, a scaldare con il suo cielo immacolato il cuore malinconico di un gentleman; alle oscene gondole di plastica arenate su centrini sopra mobili e televisori. Portare Venezia fuori Venezia è tuttavia impresa titanica e quasi impossibile, come dimostrano le tante esposizioni in giro per il mondo consacrate ai tesori della Serenissima. Impossibile, se non si è Napoleone, asportare i grandi teleri; portare in mostra le architetture aeree con cui dipinti e statue vivono in simbiosi; inondare le sale espositive dell’acqua e della luce di cui sono imbevute le tele. E però ci si continua a cimentare nell’impresa: i nomi dei grandi maestri veneziani assicurano le file al botteghino. Pensiamo alle Scuderie del Quirinale, in cui negli ultimi anni si sono succeduti Bellini, Lotto, Tintoretto e, da ultimo, Tiziano. Mostre zeppe di capolavori, che tuttavia non convincevano, anche perché, con quei titoli costituiti dal solo nome dell’artista, promettevano un’esaustività che erano ben lontane dal poter vantare. Potrebbe andare meglio, perché usciti dalla mostra c’è Venezia, alle rassegne allestite in Laguna, ma anche qui non sono mancati i problemi: l’arrivo dall’Hermitage, nell’estate del 2012, di un enorme e più che dubbio giovane Tiziano sollevò un vespaio. Molto stimolante è invece l’esperimento tentato con la mostra di Manet in corso a Palazzo Ducale, che potrebbe inaugurare un filone espositivo sul ruolo dell’arte veneziana come modello: da mostre dedicate a un tema di straordinario interesse come questo potrebbero venire frutti significativi, se si sarà in grado di abbinare rigore scientifico e richiamo sul pubblico.

L’ALTRO TURISMO

di STEFANO MONTI

L’ANIMA DELLA LAGUNA Dalla metà degli Anni Settanta, l’incontro fra i processi di trasformazione avviati a livello locale e le spinte internazionali ha dato forte impulso al riposizionamento dell’asse economico dell’area veneziana, ormai pronta per affrontare la sua metamorfosi sociale e culturale. È con il declino del settore industriale che Venezia vede accrescere il proprio ruolo internazionale quale meta privilegiata del mercato turistico. La dimensione simbolica e culturale del territorio, guardata sotto nuova luce, ha saputo rivelare il proprio potenziale economico e produttivo e il turismo, divenuto la risorsa attorno cui ri-orientare il sistema economico, si è sviluppato con forza, spontaneamente, senza una pianificazione mirata e un efficace sistema di controllo. La città antica, meta privilegiata dei viaggiatori di tutto il mondo, è l’area che più porta i segni della metamorfosi e dei suoi effetti di lungo termine. Al di là dell’indotto economico generato dagli imponenti flussi che interessano la Laguna, nel lungo periodo questo turismo disordinato ha generato una serie di esternalità negative di importanza non trascurabile. Con la fine degli Anni Settanta si è scatenato un graduale e costante cambio di destinazione d’uso degli edifici. Questo fenomeno, combinato al continuo calo delle attività commerciali e dei servizi rivolti ai residenti e all’alto costo della vita, ha innescato un fenomeno di espulsione dei residenti dal centro storico, arduo da arginare. Il rischio più grande, in questa cornice, lo corre proprio quel capitale sociale e culturale su cui si è deciso di imperniare la riconversione economica della Laguna, quando l’industria ha iniziato il suo lento, inesorabile declino. La dimensione sociale e identitaria del territorio, quell’estensione che sola può dar vita agli splendori del centro storico, s’impoverisce mano a mano che la città si svuota. Sotto le pressioni a cui è sottoposta oggi, l’anima della città antica si sta progressivamente spegnendo, e della cultura che per secoli ha conquistato il mondo intero rischiano di restare solo le quinte.

PERCORSI 109


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A due passi da Milano, con tanti musei e un centro d’arte in piena di vita ancora elevatissimo, fra banche, orologi e cioccolata. Siamo a quali sembra di essere in una Svizzera meno stereotipata. E se pure il

lugano addio. a 1. Autosilo LAC

Il cantiere del LAC, il nuovo centro delle arti, procede con tempi dilatati rispetto alle prime tabelle di marcia. Ma sopperisce all’inconveniente con le attività nelle sedi storiche (per l’arte, il Museo d’Arte e il Cantonale) e soprattutto con il taglio del nastro di specifici settori. Ad esempio l’autosilo, i cui proventi vanno a finanziare lo stesso LAC, e che si fregia di un intervento permanente di Felice Varini. riva antonio caccia www.varini-autosilo.ch

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DISTRETTI

2. Sperone Westwater

A via Nassa, centrale e chic, Gian Enzo Sperone ha aperto, a novembre 2012, una nuova sede della sua mega-galleria. Attenzione però, non si nota dalla strada: occorre entrare nel palazzo e salire nell’appartamento riadattato a spazio espositivo, perché “qui il collezionista tende a essere più discreto e a non apparire”. Così il gallerista raddoppia in Svizzera, poiché c’è anche la Chasa dal Guvernatur in Engadina. via nassa 42 www.speronewestwater.com

3. Somazzi

Dici Svizzera e pensi agli orologi. Qui hanno sede i marchi più noti e la fiera di settore che si è tenuta a Basilea a fine aprile fa sembrare Art Basel un appuntamento per poveracci: si pensi che una nota firma ha realizzato uno stand da 28 milioni di euro, al netto del valore degli orologi. Nella lussuosa via Nassa a Lugano si trova un’antica bottega a gestione familiare, dove i Somazzi lavorano dal 1860. via nassa 36 www.somazzi-orologeria.ch

4. Via Cattedrale

Per passare dalla stazione al livello del lago e viceversa c’è la funicolare, inaugurata nel 1886. Ma perché non fare una passeggiata lungo via Cattedrale? Vi si trovano negozietti curiosi, in un miniquartiere dal sapore inaspettatamente bohémien, con vendite di fiori e atelier di stilisti, brocante e luoghi per il second hand. Stesso discorso vale per la salita Chiattone. Armatevi di spirito flâneur. via cattedrale www.lugano-tourism.ch/it/544/viacattedrale.aspx


via Serafino Balestra

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costruzione. E poi il lago, il fiume, i parchi. La tranquillità assicurata da un tenore Lugano, dove abbiamo scoperto che però ci sono anche micro-quartieri nei grande gallerista Gian Enzo Sperone ha aperto la sua ultima sede qui…

nzi, benvenuta 5. Münger

Hanno tre sedi e sono panetteria, pasticceria, confetteria e tea room. Ma quando iniziarono, nel 1923, Ernesto Münger e la moglie Edwige avevano appena due dipendenti. Ora sono oltre 70, ma la conduzione familiare resta, mentre “prodotti chimici e conservanti sono banditi”. La sede di via Luvini è in pieno distretto, ma con una passeggiata si arriva in via Geretta, dove c’è pure il laboratorio e una terrazza. via luvini 4 www.mtpromozione.it/munger/

6. Drogheria Belotti

Siamo nel Quartiere Maghetti, storico compound ripensato dallo Studio Mendini nel 1999. Va girato nel suo complesso, sbirciando nei caffè e nelle botteghe. Qui vi segnaliamo la Drogheria Belotti, fondata nel 1928. Vi troverete i “rimedi della nonna”, confetteria e the speciali, candele e prodotti per l’igiene e la pulizia. Un sapiente mix fra tradizione e ricerca globale, all’interno di un luogo dal sapore casalingo. via al forte 10 maghetti.ch/maghetti.ch/BELOTTI.html

7. Mandrake

E poi dicono che gli svizzeri sono troppo precisi e ordinati, e quindi poco fantasiosi e immaginifici. Ma non ci risulta che nella ipercreativa Italia esista un negozio di fumetti e jazz… La parte musicale offre una scelta di oltre 3.500 titoli fra vinili e CD, edizioni limitate e DVD, con classici e novità. Il settore comix è specializzato in prodotti editi in Italia, dai manga al fumetto d’autore, passando per la saggistica. corso elvezia 13 www.mandrake.ch

8. Antica Osteria del Porto Siamo alla foce del fiume Cassarate e di fronte al Parco Ciani. Luogo ameno dove bere un bicchiere di vino dall’ampia selezione al bicchiere oppure pranzare a base di pescato (di lago, ovviamente: da provare il lucioperca) e polenta ticinese (magari accompagnata dallo spezzatino di asino). Poco oltre, la storica struttura del Lido, eretta negli Anni Venti dello scorso secolo in… 65 giorni! via foce 9 www.osteriadelporto.ch

DISTRETTI 111


Dis-obbedire a Rivoli1

Un secolo di città (nuove)2

Dopo aver girato l’Europa, Disobedience Archive (The Republic), a cura di Marco Scotini, approda al Castello di Rivoli. Un archivio corposo per quantità e qualità dei documenti raccolti, spesso autentiche rarità, uno scrupoloso lavoro di ricerca in continuo aggiornamento, che da oltre un decennio registra le principali forme di protesta dagli Anni Settanta a oggi. Al di là degli evidenti meriti dell’operazione, ossia da un lato la vis documentaria e dall’altro la volontà di rievocare concetti e pratiche politiche “dal basso” nell’epoca dell’Europa unita e assopita “dall’alto”, non possono sfuggirne i limiti. In primo luogo, l’enorme mole di materiali (35 ore di filmati!) impedisce allo spettatore una chiara e approfondita fruizione. L’esito quindi è paradossale: un approccio superficiale, frammentario alle opere esposte, che le mortifica insieme alla ricerca che le ha rese disponibili, e ne contraddice la valenza storico-analitica, inscrivendole proprio nel paradigma mainstream che si intende criticare. In secondo luogo, un atroce dubbio, che fino al 30 giugno investe perfino le fondamenta teoriche a cura di Marco Scotini dell’intero progetto: il gesto di schedare la CASTELLO DI RIVOLI “disobbedienza” nelle sue diverse forme ed Piazza Mafalda di Savoia - Rivoli espressioni non è forse troppo simile ai me011 9565222 todi dell’autorità costituita, alle procedure www.castellodirivoli.com delle varie agenzie statali, più o meno segrete, preposte alla prevenzione, alla repressione, alla stabilizzazione? Non assomiglia forse, nei suoi codici profondi, al lavoro del “nemico”? Se evitiamo di cadere nella trappola teorica più fatale, interpretando unilateralmente, cioè solo in funzione ribelle, la foucaultiana microfisica del potere, allora la “strada” e i “movimenti” diventano il campo de-territorializzato dell’infiltrato, mentre Scotini, con un apparente gesto di ri-territorializzazione e contrario che però ignora la costitutiva asimmetria vigente nelle questioni di potere, intende conta-minare il “Castello”, turris eburnea dell’aristocrazia intellettuale, mutandolo in luogo della rivoluzione. Ma è pura finzione: lo Stato dentro i movimenti li disgrega; l’arte ribelle dentro il museo lo rafforza. Rafforza le carriere, rassicura le élite sul fatto che quella ribellione è in fondo simulacro, “solo” arte, rappresentazione ammansita, spettacolo innocuo. Ma se la cultura, come ricorda Walter Benjamin, è sempre frutto di precedenti atti di barbarie, che cosa penserebbe o farebbe Scotini se la reale disobbedienza irrompesse nel museo, se la rabbia popolare distruggesse il suo Disobedience Archive, dandone così definitivo compimento?

Alla Pinacoteca Civica di Como, ovviando a cinque decenni di criminale semi-invisibilità, sono esposti cinquanta disegni di Antonio Sant’Elia (Como, 1888 - Monfalcone, 1916). Il gusto per il décor prezioso e l’orpello dei primi progetti si traduce nel funzionalismo puro di centrali elettriche, piani stradali multipli, stazioni-aeroporto, case “simili a macchine gigantesche” tendenti all’alto i cui elementi qualificanti sono gli ascensori esterni e le gradinate. La città nuova si fa “simile a un immenso cantiere, agile, mobile, dinamico”. Una città-funzione e insieme una città-profezia visionaria, impossibile, irrealizzata. In questo chiasmo è racchiuso il fascino immenso dei disegni. Forse la filiazione più fedele delle visioni di Sant’Elia furono le scenografie del film Metropolis (1927) di Fritz Lang. Da qui, dalla visione ambivalente della metropolicollage, città agglomerato e sovrapposizione, gloriosamente babelica e distopica, parte il percorso di Villa Olmo, dopo i dodici schizzi della Città Nuova. Negli Anni Venti Le Corbufino al 14 luglio sier progetta una “città per tre milioni di abitanti”, a cura di Marco De Michelis utopia socialista della concentrazione e dell’auVILLA OLMO tomazione che anticipa Brasilia e le città create il Via Cantoni 1 - Como cui centro è la stazione per treni e aerei mutuata PINACOTECA CIVICA Via Diaz 84 dall’architetto comasco. Gli risponderà tre decenni www.lacittanuova.it più tardi il funzionalismo individualista americano di Broadacre City di Frank Lloyd Wright: una città a bassissima densità e a ridotto impatto ambientale. Negli Anni Sessanta il situazionista Constant teorizza New Babylon, la psicogeografia dell’evo postindustriale quando le macchine sostituiscono l’uomo nel lavoro e quindi il gioco prende il posto della funzione come principio costruttivo. Vediamo poi alcuni esempi di “megastrutture”: i grappoli nel cielo di Isozaki, le città coniche di Intrapolis secondo Walter Jonas e le Plug-in city del collettivo Archigram. Giunge il Sessantotto e i collettivi italiani Archizoom e Superstudio denunciano la morte del paesaggio, dell’aura e della specificità nelle città plasmate dal capitalismo avanzato a modo di sterminati centri commerciali, superfici omogenee e monumento continuo (al capitalismo stesso). La città come agglomerato di simboli torna nel progetto di Cao Fei la quale, attraverso Second Life, plasma un ritratto della Cina contemporanea post-tutto. Chiudono il percorso la città volante di Krutikov, un avveniristico progetto sovietico del 1928, e l’installazione Pizza City di Chris Burden, un’ultima utopia stavolta giocosa e infantile.

Veronica Liotti

Alessandro Ronchi

Autoritratti in nero di Philip Akkerman3

Nessuna indagine psicologica. Nessuna ricerca antropologica. Solo pittura. È tutto quello di cui si nutre Philip Akkerman (Vaassen, 1957), che dal 1981 si dedica alla pratica dell’autoritratto, articolato in più di fino al 30 giugno 3mila tavole, identiche nel formato, GUIDO COSTA PROJECTS nella tecnica e nel punto di vista. Giorni, mesi, anni passati a dipingere alla maniera dei vecchi maestri. RemVia Mazzini 24 - Torino brandt su tutti, che dell’autoritratto e dell’uso del chiaro011 8154113 scuro ha fatto una bandiera. Ora, a sette anni di distanza info@guidocostaprojects.com dal suo debutto in galleria, l’artista olandese offre una www.guidocostaprojects.com nuova selezione di 25 autoritratti a olio su masonite che nascono da una sottile declinazione della pittura nera, sperimentata in svariate densità e amalgama, in una brillante ricostruzione della storia della pittura dalle sue origini a oggi. Il soggetto è solo un pretesto per poter dipingere la pittura. Certo, con stili e tecniche diverse. Ma è pur sempre solo pittura. Claudia Giraud

La consapevolezza di Michele Zaza5

Un box con le fotografie degli Anni Settanta, un altro con quelle degli Anni Ottanta, e in mezzo la produzione più recente. Il tutto sovrastato da una monumentale parete, dipinta in blu oltremare, su cui galleggiano costellazioni di molliche di pane, intervallate da due videoproiezioni che ritragfino all’8 giugno gono l’artista e la sua compagna. a cura di Elena Re È l’universo di Michele Zaza (Molfetta, 1948) che ci GIORGIO PERSANO accompagna in un viaggio a ritroso nella sua terra d’oriVia Principessa Clotilde 45 - Torino gine e nel suo tempo. Fatto di ritualità, contemplazione, 011 835527 simbologia. Elementi che, da scultore qual è, amalgama info@giorgiopersano.org e plasma in una ricostruzione del suo mondo affettivo. www.giorgiopersano.org Padre, madre, moglie e figlia diventano il perno intorno al quale ruota il senso di consapevolezza dell’artista. O meglio, citando Camus, di quel “risveglio del paesaggio” dove “il pensiero astratto trova finalmente l’appoggio della carne… Non si raccontano più ‘storie’, ma si crea il proprio universo”. Claudia Giraud

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RECENSIONI

Walter Dahn il music-artista4

L’arte è un’attitudine. Ti scorre nelle vene, quando ce l’hai nel sangue. Un po’ come la musica. Ne sa qualcosa Walter Dahn (St. Tönis/Krefeld, 1954) che, negli Anni Ottanta e Novanta, ha militato in varie fino al 15 giugno 2013 band inglesi e tedesche dal sound OPERE SCELTE new wave/postpunk, disegnandone Via Matteo Pescatore 11d - Torino le copertine dei dischi. Poi ha smesso, dedicandosi esclu3493509087 sivamente alle arti visive. Ma quella libertà, quel modo info@operescelte.com di pensare scevro da sovrastrutture è rimasto, nonostante la sua formazione (dal 1971 al 1979 ha studiato preswww.operescelte.com so l’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, dove è stato allievo di Joseph Beuys). In mostra ci sono proprio le opere della produzione artistica degli Anni Ottanta, l’epoca dei Nuovi Selvaggi, un gruppo di artisti neoespressionisti tedeschi, tra cui lo stesso Dahn, seguaci di una pittura gestuale, dai toni violenti e dissonanti. Dove a cambiare sono i temi, non più politici, ma legati al vissuto personale. Claudia Giraud

L’isola di Velasco Vitali6

Il parco giochi della città di Pripjat avrebbe dovuto essere inaugurato dopo qualche giorno. Il 26 aprile 1986, però, gli alberi intorno agli autoscontri divennero scarlatti, nel punto più colpito dalla radioattività della cenfino al 20 ottobre trale nucleare di Černobyl’ e il luogo a cura di Luca Molinari venne soprannominato Foresta Rossa. Nessuno è mai salito ISOLA MADRE su quelle giostre, immobili come quella che Velasco Vitali Stresa (Bellano, 1960) ha costruito intorno al cipresso del Kash0323 30556 mir, fulcro del giardino botanico dell’Isola Madre, sul lago forestarossa@velascovitali.com Maggiore. In un percorso che si snoda negli otto ettari di www.borromeoturismo.it parco lussureggiante, l’artista ha disseminato gli elementi

chiave della sua poetica. Un branco di cani fa la guardia sulla scalinata che conduce a Palazzo Borromeo e i platani segnano il passo sotto il glicine e in mezzo all’acqua. Simboli che si rincorrono in cerchio tra azalee, rododendri e camelie, come i seggiolini di una giostra. Marta Cereda


Klee e Melotti, concerto a due voci7

Il museo-moschea di Stingel8

Il segno e il colore, la forma e la composizione come contraltari del mondo, in un rapporto di mutua amplificazione. Si possono riassumere così le consonanze tra Paul Klee (Münchenbuchsee, 1879 - Muralto, 1940) e Fausto Melotti (Rovereto, 1901 - Milano, 1986), che il Museo d’Arte di Lugano mette a confronto diretto. Si parte dalla formazione dei singoli linguaggi: il primo decennio del Novecento per Klee, con lo Judgenstil come riferimento, e i Venti per Melotti, che si muove in modo antidogmatico nell’atmosfera del Ritorno all’Ordine. La prima sala raccoglie incisioni venefiche di Klee come Testa minacciosa e Vergine sognante; di Melotti, esemplari classicheggianti di teste in bronzo e gesso e le prime deviazioni personali, come gli spiritosissimi Lama e Tricheco in ceramica. La seconda sezione, intitolata Astrazioni e geometrie, riassume gli stili più conosciuti dei due con opere degli Anni Trenta. Ma poi “la figura si fa linea”, come dice il titolo di un’altra delle sezioni, e la linea si fa musica: il capitolo Ritmi musicali è una sinfino al 30 giugno fonia dove si rintracciano i legami che ena cura di Guido Comis e Bettina Della Casa trambi vedevano tra l’arte visiva e la comMUSEO D’ARTE posizione musicale. Il criterio cronologico Riva Caccia 5 - Lugano salta e si trovano fianco a fianco opere come +41 (0)58 8667214 Invernale (paesaggistico=astratto) (1923) di info.mda@lugano.ch Klee e Fantasia (1972) di Melotti. www.mda.lugano.ch Sfilano poi gli altri temi che accomunano i due: l’arte come scrittura; il paesaggio e la città, e dunque l’opera come mondo autonomo; la zoologia fantastica e l’uomo come ibrido, mostruoso o buffo (sorprendenti il Gatto cane di Melotti e il Vale anche per le piante di Klee); lo spazio dell’opera come scena teatrale; la natura, ovvero le foreste delineate nei lavori dalla geometria dissoluta di Klee e nelle esilità di Melotti. Con la sua tridimensionalità vulcanica, Melotti copre un po’ Klee, rappresentato da opere relativamente più sommesse. Ma entrambi emergono con lavori straordinari. Si manifestano pian piano, chiamandosi e contraddicendosi, le affinità e le differenze tra i due artisti. Più idealista Melotti, corteggia i sensi ma tende allo scongiuro della dissoluzione; Klee invece fa emergere le sue visioni da una zona d’ombra che è coscienza preventiva della mortalità. Il contrasto tra razionalità e istinto è portato al parossismo da Melotti, mentre Klee finge di neutralizzarlo in partenza per poi farlo esplodere. Entrambi producono visioni quasi animiste, ben sapendo che la fusione di linea, forma, uomo e mondo è un’utopia. Che però si realizza per un attimo nelle loro opere.

trama in stile persiano. La firma è di Rudolf Stingel, nome non nuovo agli ambienti di Palazzo Grassi. Ecco: il museo visto da Stingel non è contenitore ma opera. L’artista ha lavorato sulla percezione dello spazio, del connubio che poteva venir fuori dall’unione di due culture (e gusti) così lontani eppure così vicini: la Serenissima e l’Oriente. Diversamente da certe aiuole, qui l’opera verrà calpestata, sformata dai corpi che vi si accasceranno fino al 31 dicembre sopra. Il tappeto è al centro della poetica di Stingel: a cura di Elena Geuna non solo abbellimento ma anche fonte di ispirazioPALAZZO GRASSI ne, di meditazione. Pensate, ad esempio, ai tappeti Campo San Samuele - Venezia che ricoprono lo studiolo di Freud. 041 5231680 Non poteva che essere Venezia, con la sua millenaria www.palazzograssi.it storia di intrecci e contaminazioni con l’Oriente, il laboratorio per questo esperimento ben riuscito. Lo spazio diventa luogo di meditazione, la sensazione avvolgente, l’esperienza sensoriale, il museo che si trasforma in labirinto; per perdersi nelle stanze, con il solo interesse di seguire le trame del tappeto per vedere dove porta. Lasciatevi trasportare. Anche i quadri - disseminati nei due piani superiori - sono di piccola taglia (a esclusione dell’omaggio all’amico Franz West): è un invito ad avvicinarsi, a guardare le cose da vicino. E poi anche il contrasto tra il rosso immenso del tappeto e il piccolo grigio della tela fa la sua parte. Magari sedetevi, se vi pare. O camminate tenendo il dito contro il muro. I tappeti rendono subito l’idea di accoglienza e comodità: se ci aggiungete il silenzio e la quiete del museo, non farete fatica a capire cosa l’artista ha voluto suscitare nel fruitore. Introspezione. Questa è la chiave di volta del secondo piano, dove i quadri raffigurano sculture lignee antiche (creati con la tecnica del foto-realismo). Alla vista e al tatto il museo vi sembrerà un grande bazar o una moschea. Arte e contemplazione, due binari destinati a viaggiare paralleli senza mai incrociarsi. O forse sì. Ma solo dentro di noi.

Stefano Castelli

Paolo Marella

Nomadismi urbani in via Gluck9

Arte e psiche, Sigmund Freud e Rudolf Stingel (Merano, 1965), Venezia e Oriente: uniamo tutti questi ingredienti et voilà: la nuova mostra di Palazzo Grassi. Che per la prima volta vede la totalità degli spazi allestiti da un unico artista. E siccome parliamo di 5mila mq, l’impresa non è certo alla portata di tutti. La domanda sorge spontanea: ma quanta roba ci sarà da vedere? Risposta: pochissimo. Una trentina di quadri. Tutto qui? No, perché ogni centimetro del museo (pareti comprese) è ricoperto da un tappeto: 7.500 mq rivestiti da un’unica

Non c’è strada migliore per Mandla Reuter10

Ha tolto le piastrelle e scavato nel pavimento della galleria. Ha eretto una struttura in cui il cemento segue i drappeggi del tessuto. Thiago Rocha Pitta (Tiradentes, 1980) ha realizzato per la prima volta una delle sue tende in un fino al 20 luglio interno. Siamo in via Gluck, in una zona della città di Milano insolita per una galleria GLUCK50 d’arte. Nella penombra del nuovo spazio espositivo, a luci Via Gluck 50 - Milano spente, in un angolo si erge una struttura a tratti animalesca, 02 45484623 preistorica. Si tratta della riproposizione di una tenda da campo info@gluck50.com delle popolazioni nomadi, dove il tessuto si trasforma però in www.gluck50.com cemento. L’antro buio, che dovrebbe offrire riparo e protezione, incute invece timore. Il pavimento diventa terra e macerie e l’oscurità si addensa tanto da impedire di vederne il fondo. Si entra in solitudine, non può che essere così: L’Eremo è di difficile accesso e prevede un allontanamento dalla collettività. Un buon esordio per Gluck50.

La personale di Mandla Reuter (Nqutu, 1975; vive a Berlino) fa apparire lo spazio come un contenitore dalle molteplici proprietà ancora inesplorate. Come di consueto, l’artista tedesco adatta i propri interventi fino al 13 luglio all’architettura del luogo che lo ha portato a spostarsi dal proprio FRANCESCA MININI punto di partenza. Con Lift (2013) stabilisce una nuova Via Massimiano 25 - Milano relazione tra dimensione orizzontale e verticale, portando 02 26924671 a riflettere sulla funzionalità (e la capienza) espositiva di via info@francescaminini.it Massimiano. Il dialogo fra intervento artistico e spazio viene www.francescaminini.it invece differentemente esplorato nel ciclo di opere Survey (2012). A seguito dell’acquisto di un appezzamento di terra nei pressi di Los Angeles, Reuter realizza una serie di lavori, conosciuti come blueprint, in cui viene nuovamente evidenziata la coesistenza tra rappresentazione fittizia e reale. Dando luogo a una ricerca bidimensionale, di tipo cromatico-astratta, raffinatissima.

Marta Cereda

Ginevra Bria

Mustafa Sabbagh, il lucido e l’opaco11

Le composizioni di Mustafa Sabbagh (Amman, 1961) non puntano sullo shock rassicurante o sul bello canonico né hanno la leggibilità immediata della pubblicità. Tutto è ambiguo, perturbante e molto più stimolante nei paesaggi intuibili attraverso gradienti di fino all’11 giugno oscurità o bruma, oppure nei ritratti maTHE FORMAT scherati (samurai contemporanei o ibridi Via Pestalozzi 10/32 - Milano con l’insetto e il coleottero?) come nei distici thrformatculturegallery@gmail.com che li fanno reagire per associazioni che affetheformatcontemporaryculturegallery.4ormat.com riscono all’alchimia emotiva. Si possono evocare Mapplethorpe o Schiele per la ricerca sul corpo nudo che si focalizza su cromie e trasparenze di epidermidi percorse da vene, nei e peli. Tuttavia l’assonanza più profonda è con la pittura olandese del secolo d’oro. Nel genio intuitivo del trovarobato di oggetti e corpi e nell’assemblaggio che rimanda a Rembrandt e a un comune amore per tutte le manifestazioni non convenzionali del mondo. Per il lucido e l’opaco. Alessandro Ronchi

Zorio l’alchimista12

All’ingresso della galleria, Gilberto Zorio (Andorno Micca, 1944; vive a Torino) ha installato una Torre stella, bianca e costruita con mattoni di gas beton, parzialmente accessibile. Verso la parete di fondo, uno stellone fino al 20 luglio affonda le radici in vasche contenenti LIA RUMMA un liquido fluorescente: un’opera che Via Stilicone 19 - Milano racchiude una carriera di oltre quarant’anni di esplorazioni 02 29000101 nell’ignoto. Lampi di luce e oscurità sono il leitmotiv della info@gallerialiarumma.it mostra, assieme alle scritture luminescenti, alle esplosive apwww.gallerialiarumma.it parizioni scatenate al termine dei processi fisici innestati sulle siviere. Si riconoscono altrettanti oggetti gravidi di poteri e saperi: il compasso da scultore, i crogioli per il bronzo fuso, gli alambicchi. Sculture mobili e sonore a combattere la staticità dell’oggetto, all’insegna della processualità. Macchine strabilianti che innescano meditati e metodici fenomeni di trasformazione: sono soluzioni alchemiche. Francesca Alix Nicoli

RECENSIONI 113


Antufiev e l’orrore dell’accumulo13

Figurarsi la pittura14

Dimenticatevi il Bambino ostrica di Tim Burton o l’estetica d’accatto che gioca con una versione ingentilita del voodoo. Con Evgeny Antufiev (Kyzyl, 1986; vive a Mosca) siamo di fronte all’orrore vero, al sogno ossessivo, sordido, iconoclasta di un visionario. E a una marcata consapevolezza, che non disperde in fantasie masturbatorie l’inventiva formale, ma la incanala verso il contenuto. La razionalità di un universo così dissoluto sta nella tenuta della struttura, in un linguaggio tanto solido da permettersi ogni contorsione al suo interno. Nelle sale sono sparsi ready made come minerali, foto, insetti, ciocche di capelli. A essi si mescolano le creazioni di Antufiev, che occupano una zona neutra tra ready made e scultura: maschere di tessuto con denti di animale, esseri ibridi di stoffa imbottita, assemblaggi di ossa come amuleti di una civiltà imprecisata. La fattura accuratissima di creazioni così aleatorie e dissonanti è un primo punto di forza della mostra. Il linguaggio di Antufiev, poi, indica un’alternativa contro le impasse con cui si deve confrontare l’arte contemporanea. La critica alla compulsione consumistica, implicita fino al 31 luglio nell’installazione d’oggi, sbatte contro la prevenCOLLEZIONE MARAMOTTI zione della critica stessa da parte del sistema dei Via Fratelli Cervi 66 - Reggio Emilia consumi. E l’arte si smarrisce: come nell’ultima 0522 382484 info@collezionemaramotti.org mostra milanese di un artista acutissimo come www.collezionemaramotti.org Haim Steinbach, che diventa letterale e perde di efficacia. Antufiev invece incasella l’accumulo di oggetti in un sistema che è specchio di ognuno di noi. La psicosi simulata è un grido d’accusa contro la nevrosi di massa. E l’artista russo supera anche l’impasse attuale del ready made. Riguardando le opere in foto, ci si accorge che sono svanite, come fantasmi che non si lasciano catturare dalla macchina. La mostra risiede in un sistema di pensiero che si affianca ad essa come un doppio parassitario: ciò che è davvero esposto non sono le opere, ma uno spazio mentale, come se si penetrasse in una scatola cranica o nello zeitgeist di una società degenere. Non sembri intellettualistico tutto ciò: l’inventiva è strabordante e non mancano appendici giocose. Almeno in apparenza. Ad esempio, i copriscarpe da indossare prima di entrare. Ma non c’è niente da proteggere sul pavimento, e si tratta di un gesto a perdere, un esempio della dépense prescritta da Bataille. Così come il momento ludico dell’urna da cui si pesca un bigliettino tentando di vincere dei premi. Si sorride, alla fine, ma a denti stretti, visto ciò che ci si è lasciato alle spalle.

Il Museo Pecci inizia un progetto, che si potrebbe definire d’indagine, sulla pittura contemporanea e sulle relazioni con la figurazione: nel caso presente come in quelli che seguiranno, un’ampia selezione di artisti di provenienza internazionale è traccia delle potenzialità e dei limiti che questa forma espressiva, per secoli dominante, palesa rispetto all’attuale contesto sociale, culturale e immaginativo. È chiaro che la questione, già annunciata nei suoi aspetti fondamentali dall’opera capitale di Walter Benjamin e verificata in varie modalità dalle avanguardie storiche, dopo aver attraversato con tanti esiti il Novecento si ripropone in maniera urgente e straordinaria: adesso che il dominio delle immagini riproducibili, consumabili, virtuali si è fatto interamente realtà, cosa possono significare o a cosa dovrebbero servire la manualità e la persistenza della pittura? Sarà perché una pratica millenaria non scompare nel giro breve di un secolo, o più probabilmente perché la questione non riguarda la scomparsa ma la maggiore difficoltà ad accordarsi con la propria epoca, fatto sta che la pittura, più o meno figurativa, torna come un’ossessione in ogni generazione di artisti. Da qui l’aggettivo fino all’8 luglio ‘inevitabile’ a titolo delle mostra, a cui si a cura di Marco Bazzini e Davide Ferri aggiunge la coscienza che tale necessità assuCENTRO PECCI me, nello specifico delle ricerche, una nota Viale della Repubblica 277 - Prato critica: può essere errore, mancanza, inanità, 0574 5317 contrasto e così via, generando sempre un info@centropecci.it discorso meta-pittorico. www.centropecci.it I due estremi del percorso espositivo distano precisamente cinquant’anni, dal 1926 al 1976; da una parte il rapporto im-possibile tra significato e significante che si abbandona all’evocazione, con Le sommet du regard di René Magritte; dall’altra la riflessione insieme paradossale e rigorosa sui concetti di rappresentazione e reale con Eclisse (II) di Giulio Paolini. Due dipinti che a modo proprio segnano dei limiti entro cui si articolano le espressioni dei 18 artisti invitati: tra gli altri, Mamma Andersson, Michael Bauer, Avner Ben-Gal, Luca Bertolo, Marco Neri, Tal R, Alessandro Pessoli. Impossibile e anche poco proficuo rendere conto di ognuno, più interessante invece, e anche necessario, evidenziare come nell’insieme risultante ogni distinzione appaia superata: appunto tra figurazione e astrazione, superficie e supporto, uso di colori e materiali di differente provenienza, ricerca di un’estetica aggraziata o respingente, ogni risorsa è possibile senza contraddire le altre nella ricerca - sospesa tra bisogno, speranza e determinazione - del quid pittorico.

Stefano Castelli

Matteo Innocenti

Passeggiata verticale per la Puglia15

Racchiudere un mondo in un dettaglio, rievocando le suggestioni che lo abitano. Con un abile gesto pittorico, Giuseppe Restano (Grottaglie, 1970) trasferisce sulla superficie verticale della tela il repertorio ornamentale dei pafino al 15 giugno vimenti pugliesi, trasformando quelle CLAUDIO POLESCHI immagini mentali attraverso una sintesi formale che genera Via Santa Giustina 21 - Lucca esempi inediti di pattern in stile. Le opere, distribuite tra la EX CHIESA DI SAN MATTEO Galleria Poleschi e l’affascinante allestimento nell’ex Chiesa Piazza San Matteo 3 - Lucca di San Matteo, mostrano come la minuziosa tecnica dell’arti0583 469490 sta, priva di contorni e spessore materico, sia capace di visuainfo@claudiopoleschi.com lizzare l’aura di ogni oggetto, scandendo le forme in un’alterwww.claudiopoleschi.com nanza di luce e colore. E una volta immersi in questo habitat metafisico, sembra quasi di conoscere le narrazioni sussurrate nei reiterati incontri di forme alternate, che conducono oltre la dimensione locale dell’ornamento, in un viaggio verso l’interiorità e le radici. Manu Buttiglione

Il punto su Andrea Bianconi17

Luigi Meneghelli traccia un filo conduttore nella ricerca di Andrea Bianconi (Arzignano, 1974; vive a New York), segnata da frammentazione, ossimori e portmanteau iconico-verbali. L’allestimento si fino al 20 luglio sviluppa in quattro fasi, un a cura di Luigi Meneghelli percorso solido e lineare, ma LA GIARINA anche inclinato da continui loop. Si parte dall’eserVia Interrato Acqua Morta 82 - Verona cizio combinatorio di Romance e A Charmed Life, 045 8032316 che mixa pratiche recenti e passate in un’unica cainfo@lagiarina.it scata. Segue il gioco chiuso/aperto delle gabbie sowww.lagiarina.it spese (Traps for Cloud), dove l’opera si realizza tanto nell’oggetto quanto nella sua ombra. E nell’ultima sala, con le serie Love story e Igloo, un atto d’amore (il presleyano Love me tender) canta anche Killing me softly: fiori soffocati da un abbraccio di colla, cemento e smalto. Ricuciono il tutto, nel seminterrato, i video di quattro performance. Simone Rebora

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RECENSIONI

Matematica, questa conosciuta16

La struttura degli elementi naturali affonda le proprie radici nella matematica. Lo sapevano bene Fibonacci, Cartesio e Mandelbrot, e lo sa anche Sergio Breviario (Bergamo, 1974) con i suoi delicati mondi vegetali, nei quali l’artificio artistico detta ritmi e cromie. Tutto parte dalla scomfino al 26 luglio posizione di un quadrato con lati MARIE-LAURE FLEISCH lunghi 55 centimetri. 55 è la somma di 23 e 32, ed ecco Vicolo Sforza Cesarini 3a - Roma che arriviamo alle cifre ricorrenti nell’opera di Breviario, 06 68891936 numeri palindromi per la creazione di forme frattali. Le info@galleriamlf.com ritroviamo nell’opera che dà il nome alla mostra - una (s) www.galleriamlf.com composizione graduale di 21 Quadrati in altrettanti triangoli - e nei 23 triangoli di carta che compongono i collage: fotocopie di tessuti e broccati, foglie di un prato grafico giocato su più livelli di trasparenza e profondità. Attraverso il metodo, la forma esprime nient’altro che se stessa, faccia artistica del mistero della creazione. Marta Veltri

Le derive fluviali di Alex Bellan18

La scoperta di pratiche dimenticate, il rinvenimento di detriti di trachite usati come materiali da costruzione: Alex Bellan (Adria, 1981; vive a Padova) ripercorre vie fluviali abbandonate e racconta - con installazioni e video - del fino al 31 luglio lavoro e dell’economia dell’area Euganea a cura di Elena Forin cresciuta tra i colli e i corsi dei fiumi. Una videocamera gallegFAMA GALLERY giante scende lenta lungo la via dei “burci” da Battaglia Terme Corso Cavour 25/27 - Verona (Padova) al mare, guidata dai dislivelli dell’acqua e dall’alter045 8030985 nanza delle maree, com’era in uso in passato. Un viaggio “a info@famagallery.com pelo d’acqua” nell’alveo che scorre come un corpo estraneo in www.famagallery.com un territorio trasfigurato, che sta smarrendo anche uno degli ultimi presidi della sua memoria, il Museo della Navigazione di Battaglia, condannato alla chiusura. L’inesplorato e l’incognito sono intorno a noi, e torna alla mente la barchetta di Hans Schabus che nel 2002 navigava i canali sotterranei di Vienna. Alfredo Sigolo


Luigi Ghirri: ogni cosa è illuminata19

Seb Patane. Corsi e ricorsi artistici20

Luigi Ghirri (Scandiano, 1943 - Roncocesi, 1992) non è solo stato uno dei più influenti maestri della fotografia italiana, ma anche critico, curatore, editore, teorico e intellettuale consapevole di un certo “bisogno di realtà”. Da sempre orientato verso la ricerca d’identità all’interno del rapporto tra ambiente (naturale o urbano) e uomo, Ghirri racconta un’Italia un po’ malinconica e un po’ magica, per interpretare il mondo come una continua sovrapposizione di realtà e finzione. Per quanto esplicito, il suo approccio al reale non è mai diretto, ma sempre mediato dalla memoria, dal simbolico. Il Maxxi presenta una mostra preziosa, che raccoglie più di 300 scatti e che si articola in tre sezioni (Icone, Paesaggi, Architetture) con l’intenzione di approfondire il complesso rapporto fra tempo e spazio, ordinario e metafisico. E poi libri, dischi, cartoline, menabò di cataloghi e altri materiali originali collezionati dall’autore. L’idea dei curatori è stata di organizzare la mostra per rimandi e associazioni: tre momenti diversi che permettono di attraversare l’intera opera dell’emiliano. Al centro il paesaggio, negli spazi ai lati i dettagli delle singole icone e le architetture, così da fino al 27 ottobre a cura di Francesca Fabiani, suggerire un percorso circolare, con una doppia Laura Gasparini e Giuliano Sergio entrata e senza una direzione unica, nel rispetto MAXXI delle forme del museo stesso. Via Guido Reni 4 - Roma Quando a metà degli Anni Settanta scopre la 06 39967350 fotografia, Ghirri lavora come geometra, impainfo@fondazionemaxxi.it rando molte cose sullo spazio e sull’importanza www.fondazionemaxxi.it di un progetto; presto incontra l’arte concettuale e ha un’intuizione: usare la fotografia come strumento per decostruire il visibile, un nuovo modo di “pensare per immagini” interrogandosi sulla posizione del fotografo (e dello spettatore) nei confronti del mondo. Comincia studiando l’universo urbano e fotografa oggetti e ritratti dietro le vetrine, manifesti, serrande e muri, ma presto guarda al paesaggio in modo nuovo e apre la strada a grandi autori come Gabriele Basilico e Mario Cresci. Sorprende l’incredibile concentrazione di queste fotografie, il fascino e l’energia di un linguaggio quasi amatoriale e la verità dei colori. Che nutrimento per un’epoca dove tutto, a proposito di paesaggio, cambia troppo rapidamente. Una mostra importante dunque, che è un nuovo tassello critico nella lettura e nella comprensione di un artista essenziale - eppure complesso - che ha saputo trovare l’ispirazione nel silenzio quotidiano, negli oggetti e nelle situazioni più ordinarie, fino a rivelarne l’incredibile bellezza.

Seb Patane (Catania, 1970; vive a Londra) sposta il piano di lettura delle sue opere dalla descrizione alla percezione. Le fotografie non congelano più oggettivamente un determinato istante, bensì, guardate a distanza di anni in un percorso che tocca culture, tradizioni popolari e momenti storico-politici distanti tra loro, attraverso la personale emotività dell’artista, si trasformano in suggestioni. Ciò deriva dal considerare l’immagine non come un momento isolato, ma come l’anello di una catena che collega storie, epoche e luoghi lontani, in un modo che non è sempre lineare, ma che spesso attinge al subconscio e a volte si scopre solo casualmente collegata a un’altra. In Last Dance of The Nodding Falk l’immagine che ricorre è quella di due uomini che si baciano. Questa appare sulla copertina (esposta) di un album degli Anni Ottanta dei Death in June, il cui originale è una foto del dopoguerra, che viene accostata alla foto di un articolo riguardante uno dei primi matrimoni gay. L’articolo è datato 2013, mentre l’opera originaria risale al 2007, a testimoniare il progress che questo tipo di indagine genera. Le immagini di A series of Graceful Juggling Tricks fino al 19 luglio (tratte da una rivista vittoriana, ritraggono un FONDAZIONE GIULIANI Via Gustavo Bianchi 1 - Roma gruppo di uomini in procinto di esibirsi in un rito 06 57301091 germanico) riguardano sempre scene di manifestainfo@fondazionegiuliani.org zioni collettive con le quali l’artista interagisce con www.fondazionegiuliani.org scarabocchi a penna biro o vernici o pezzi di carta colorata. Questi sono gli elementi che collegano Credito fotografico: le due fotografie poste una sopra l’altra: il segno Foto Giorgio Benni colorato parte dalla mano di uno dei protagonisti della foto in basso per giungere alla mano di un suo compagno della foto in alto, trasformando così una semplice striscia di colore in una bandiera e la foto non più nel soggetto del quadro, ma nella quinta scenica di una rappresentazione teatrale da cui emergono gli attori stessi. Presenti lavori che trattano il tema, ricorrente nella produzione dell’artista, dell’“anti-portrait”, che consiste nella cancellazione del volto di una persona raffigurata, come accade nei lavori Bartolotto e Bring Me the Head of the Preacher Man: anche in questo caso la rappresentazione esce dal piano bidimensionale del foglio: il bastone che l’uomo, in abiti vittoriani, tiene in mano verticalmente, diventa un profilato di legno posto orizzontalmente alla base, a coprire gli occhi dell’uomo stesso. La presenza della musica, poi, è l’elemento fluido che, contrapposto alla rigidezza di certe installazioni, unisce un’opera all’altra.

Michela Tornielli di Crestvolant

Valentina Nunnari

Il viaggio cosmico di Enzo Cucchi21 Enzo Cucchi (Morro d’Alba, 1949) torna da Valentina Bonomo per l’ultima tappa di un viaggio attraverso memorie personali, attualità, storia dell’arte e della letteratura. Lo fa con incursioni nei territori dell’irrazionale, fino al 30 luglio servendosi di tecniche diverse e VALENTINA BONOMO stesure cromatiche ora violente, ora dilatate. Perno della Via del Portico d’Ottavia 13 - Roma mostra è un’opera a parete - litografia su carta - articola06 6832766 ta in tre pianeti tridimensionali in successione. Attorno info@galleriabonomo.com ad essa ruotano come satelliti le altre due opere inedite. www.galleriabonomo.com Una grande tela in cui una gatta dagli inquietanti occhi scintillanti ci osserva, sotto una curva cosmica. Curva che ritorna come teste di Cristo coronate di spine nel vascello bronzeo che sembra solcare dimensioni spazio-temporali. Per orientarsi ci sono le due piccole cattedrali marmoree del 2008. Marta Veltri

Dominik Lang: lavori in corso a Ostiense23

Le pareti in cartongesso sono ancora umide. La composizione enfatizza la precarietà della forma; le tubature interne ne svelano la struttura. La lezione del Bauhaus permea le superfici bianche sulle quali è stata tracciata una sorta di mappa topografica: semplici linee che rimandano a un possibile luofino al 27 luglio go esterno. Al piano di sopra, dove a cura di Lýdia Pribišová Dominik Lang (Praga, 1980) ha dormito durante la THE GALLERY APART creazione dell’opera, una scultura-modellino appoggiata Via Francesco Negri 43 - Roma sopra al tavolo su cui l’artista ha creato ognuno dei 63 info@ thegalleryapart.it moduli di gesso. Una trasposizione del lavoro sintetico e www.thegalleryapart.it verticale dei due piani sottostanti. Alle pareti sfilano lavori

che non erano stati creati al momento dell’inaugurazione: studi geometrici con carta, elastici, chiodi e cerchi in metallo. Sono piccoli oggetti sintomatici della natura dell’opera: uno studio sulla forma e la sua possibilità di mettersi in rapporto con lo spazio circostante. Barbara Nardacchione

LDPE: il reale di Julian Faulhaber22

LDPE è ispirata al nome di un polimero termoplastico ricavato dal petrolio con il quale sono realizzate molte costruzioni immortalate da Julian Faulhaber (Wurzburg, 1975; vive a Berlino). Interni ed esterni geometrici e dai colori sgargianti non ancora intaccati dall’intervento umano. fino al 28 giugno Tutte le fotografie, sulle quali EXTRASPAZIO l’artista non interviene in postproduzione, sono Via San Francesco di Sales 16a - Roma stampate su alluminio e coperte da plexiglas opaco, 06 68210655 che conferisce un effetto artificiale e surreale acceninfo@extraspazio.it tuato da quel senso di desolazione e alienazione che www.extraspazio.it nasce dall’impossibilità di reperire qualsiasi traccia di presenza umana. Così Faulhaber, limitandosi a mostrare l’oggettività del reale-irreale, rimanda all’osservatore il compito di esprimere un giudizio sul consumismo, alludendo a un mondo utopico (o distopico) preservato dall’usura e dalla mortalità. Francesca Colaiocco

Nel “laborintus” di Mary Zygouri24

Per la sua prima personale italiana, Mary Zygouri (Atene, 1973) presenta un labirinto bianco, emblema della crisi economica che ha afflitto la Grecia e ammalato l’Europa. È questo stesso metaforico lafino al 22 giugno birinto che, contaminandosi a cura di Antonello Tolve con la poetica di Sanguineti, dà il titolo alla moDINO MORRA stra. Bullmarket, video e perno della mostra, vede Vico Belledonne a Chiaia 6 - Napoli l’artista impigliata nello stesso filo che dovrebbe 392 9420783 portarla alla via d’uscita. Il toro non è qui il vigore morra.dino@gmail.com ma rappresenta la rovina finanziaria, i cui pezzi cawww.dinomorraartecontemporanea.eu dono in una grande vasca di cemento e inchiostro giapponese che rimanda alla scultura Vae Victis e alle altre opere in mostra. Lo stesso liquido scorre all’interno della matassa che l’artista srotola dal corpo dell’animale, come fosse una lunga flebo per curare un Paese malato. Arianna Apicella

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testo e foto di marco senaldi

Zeru Tituli

I

talia, XXI secolo. Le strade, le vie, i percorsi anche più secondari si capisce subito che qui non è così. A parte l’orologio, la pizzeria sono ricoperti di segni. All’assenza di segnaletica che ha dominato e il telefono, i quattro cartelli che si affollano nello spazio ristretto per secoli le strade degli uomini si è sostituito un eccesso semidell’angolo sono segnali ufficiali: uno di divieto si sosta, uno con il otico, una bulimia di indicazioni che finiscono per sovrapporsi, per nome della via, un altro con l’indicazione del paese più vicino e l’ulstratificarsi, o persino per cancellarsi reciprocamente. timo con il numero della provinciale e l’indicazione del chilometro. I In questa immagine, scattata nel marzo 2013 in una piccola via del cartelli singolarmente sono anche logici: è folle il loro sovrapporsi. dianese (provincia di Imperia, Liguria), si può vedere una caterva C’è dunque una logica in questa follia? E se sì, quale? Il cartello con di segni che rimandano a cose completamente diverse e, in parte, lo zero deve essere arrivato lì per un ordine superiore, approvato da contraddittorie. Pizzeria, divieto di sosta, nome della via, numero una gerarchia, avallato da un qualche atto burocratico e poi messo della provinciale, persino un orologio (e un vecchio seminascosto su da un qualche operaio, nello spregio evidente, reiterato, plateale segnale di telefono pubblico) trovano posto in uno spazio angusto di ogni possibile buon senso, visto che oscura proprio il segnale tra un angolo e una finestra. di indicazione più importante. Ma indignarsi è sufficiente? E se il In un contesto che è già di per sé sintomatico di squallore suburbuon senso non bastasse? E se proprio quello zero fosse, anche bano, tanta abbondanza semiotica risulta grottesca, rimpinzata visivamente, una specie di “sintesi” giottesca del fatto che già quel malamente com’è di se stessa, al punto che sopra il divieto di socoacervo di cartelli, segni, indicazioni, tracce, parole, numeri era sta qualcuno ha finito per appiccicarci uno sticker. Quello su cui un disorganico disastro che andava in qualche modo “negato”? Imbisogna concentrarsi, però, è il segno più sublime di tutti, quello possibile sapere se un simile altissimo sentimento sia passato per che in se stesso affermandosi si nega: lo zero. L’ipnotica ellisse sul il cervello degli amministratori provinciali imperiesi (anche perché, cartello bianco oltrepassa tutti gli altri. È il più recente, quello che già mi sento fischiare le orecchie alle repliche super-(in)sensate copre quelli più anziani, più timidi, più semplici, che al suo cospetto, dell’Amministrazione locale che, alla lettura di questo pezzo, riusciproprio nel tentativo di “dire qualcosa”, retrocedono, soccombono. rà a inventarsi una qualunque ragione per la quale quel cartello lì Lo zero - presumibilmente il km 0 della provinciale 82 - che razza doveva proprio esserci ). di indicazione sarebbe? A chi può interessare questa informazione La parziale inefficienza del buon senso nella condizione storica perfettamente superflua? E poi, cosa pensare del fatto che il cartello odierna potrebbe aprire la via a riflessioni molto serie, o anche con lo zero sopra oscuri parzialmente l’unico cartello con molto tristi, ma forse va accettata olimpicamente per quello che è. l’indicazione veramente importante, quella che segnala Se il buon senso non ha più senso, perché non fare appello al Come il paese dove porta quella strada? contro-senso? Non è all’assurdo, al nonsense, all’inverosimile leggere Artribune A questo punto potremmo farci due risate, come acche ci avrebbero dovuto abituare gli artisti moderni? E non Vi eravate affezionati alla formula cadeva ai bei tempi della satira di sinistra, i tempi è qui che risiede la vera sfida dell’arte contemporanea, “testo di Marco Senaldi, illustrazione de Il Male con la rubrica “Mai più senza” e le foto se essere un ennesimo segno che va ad aggiungersi di...“, con un artista ogni volta diverso che delle insegne più stupide, dalla Pizzoteca al negoal caos informe della semiosfera, oppure se distac‘illustrava’ l’editoriale. Ebbene, si cambia, almeno zio di scarpe Mascarpone e via rimbecillendo. Ma carsene e tentare di offrirne un veritiero ritratto? per qualche numero. Alcune uscite in cui sarà lo

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stesso Senaldi a proporre immagini fotografiche scattate da lui medesimo. E poi non è detto che si torni alla formula originaria.




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