Artribune Magazine #53

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#53 GENNAIO L FEBBRAIO 2020

centro/00826/06.2015 18.06.2015

ISSN 2280-8817

ARTRIBUNE MAGAZINE

CONTIENE L'INSERTO

Fra Cape Town e Johannesburg, viaggio nella terra del post-Apartheid.

Iniziano gli Anni Venti. Ecco come si preparano i direttori dei principali musei italiani.

Carte segrete e disegni intimi. Indagine sul lato nascosto degli artisti.

REPORTAGE DAL SUDAFRICA

TALK SHOW

TACCUINI D'ARTISTA

ANNO X



AGAINandAGAINandAGAINand a cura di / curated by Lorenzo Balbi con / with Sabrina Samorì

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LAMINARIE D O M la cupola del Pilastro

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Ragnar Kjartansson, Bonjour, 2015 | photo Justine Emard | courtesy l’artista / the artist, Luhring Augustine, New York e / and i8 Gallery, Reykjavik

23 gennaio / January - 3 maggio / May 2020


#53 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Claudia Giraud Desirée Maida Helga Marsala Roberta Pisa Daniele Perra Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Valentina Tanni Alex Urso Alessandro Ottenga [project manager] PUBBLICITÀ & MARKETING Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 17 gennaio 2020

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

Columns 6 L PHOTO ROOM Modestino Tozzi 12 L Massimiliano Tonelli Il piagnisteo dei librai (di alcuni librai)

24 L TALK SHOW Santa Nastro 2020: la sfida di musei e istituzioni culturali

26 L L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli

L’Italia del malcontento

The Funeral Party (Get Low) SERIAL VIEWER Santa Nastro Deadwood

14 L Cronache da una città sommersa

27 L ART MUSIC Claudia Giraud

13 L Nicole Moolhuijsen

15 L Stefano Monti

L’Italia del malcontento Gabriella De Marco Cambiamenti climatici, cultura e memoria

16 L Giovanni Leone

Il disco relazionale di Alex Cremonesi

28 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni Samsung Good Vibes et al.

29 L DIGITAL MUSEUM Maria Elena Colombo Paola Matossi L’Orsa

1966-2019: tutto cambia nulla cambia

30 L OGGETTI Valentina Tanni

18 L TAMassociati

32 L DURALEX Raffaella Pellegrino

Venezia bene comune Arianna Testino In risposta alla marea

Utilizzazione artistica di materiale protetto: quando è lecito?

News

Numero Cromatico

33 L OSSERVATORIO NON PROFIT Dario Moalli

20 L LA COPERTINA Tatanka Journal

34 L GESTIONALIA Irene Sanesi

21 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini

35 L CONCIERGE Valentina Silvestrini

Duemilaventi. Quando inizia il nostro futuro?

Thomas Bayrle

22 L ARCHUNTER Marta Atzeni

Comunal: Taller de Arquitectura

23 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Sabeth

Profit o non profit? Semplicemente benefit

Lungarno Collection Milano

36 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli A spasso per Parma 2020 (I)

38 L STUDIO VISIT Treti Galaxie Pietro Agostoni

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Stories

Pietro Agostoni

Dario Moalli

Antonio Arévalo

Stefano Monti

Marta Atzeni

Nicole Moolhuijsen

Lorenzo Balbi

Pierluigi Moriconi

Sandrina Bandera

Santa Nastro

Giorgia Basili

Antonio Natali

Martin Bethenod

Numero Cromatico

Margherita Bordino

Roberto Paci Dalò

Maria Stella Bottai

Fabio Pariante

Bruno Bozzetto

Angela Pastore

Katia Buratti

Raffaella Pellegrino

Giovanna Calvenzi

Cristiana Perrella

Simona Caraceni

Giulia Pezzoli

Stefano Castelli

Cesare Pietroiusti

Maurizio Ceccato

Aldo Premoli

Maria Elena Colombo

Nicola Ricciardi

Comunal

Sergio Risaliti

Tuono Pettinato

Alex Cremonesi

Giulia Ronchi

84 L RECENSIONI

Michele De Lucchi

Alberto Saibene

Gabriella De Marco

Irene Sanesi

Matthias Depoorter

Marta Santacatterina

Fabrizio Federici

Claudia Santeroni

Bianca Felicori

Silvia Scaravaggi

Edoardo Fontana

Lucio Schiavon

Marco Enrico

Marco Senaldi

Giacomelli

Valentina Silvestrini

Federica Maria

Alex Urso

Giallombardo

TAMassociati

Claudia Giraud

Valentina Tanni

74 Stefano Castelli Nuovi sguardi su Jan van Eyck

Lorenzo Giusti

Pietro Paolo Tarasco

Fausto Gozzi

Tatanka Journal

Grandi classici

Andrea Lelario

TellerK

Giovanni Leone

Arianna Testino

Elisabetta Lo Greco

Massimiliano Tonelli

Lorenzo Madaro

Modestino Tozzi

Filippo Maggia

Treti Galaxie

Thebe Magogu

Tuono Pettinato

Desirée Maida

Karole P. B. Vail

Giulia Marani

Laura Valente

Giorgio Marrocco

Roberta Vanali

Cristina Masturzo

Valerio Veneruso

Paola Matossi L’Orsa

Olimpia Zagnoli

Giovanna Melandri

Claudia Zanfi

48 L Maria Stella Bottai Indagine sul Sudafrica 56 L Silvia Scaravaggi L’affascinante storia dei taccuini d’artista

Ending

82 L SHORT NOVEL Alex Urso

86 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi

Pitali, orinatoi e sublimi schifezze

In apertura

#20

66 Federica Maria Giallombardo Andrea Mantegna. Fra antico e moderno Opinioni

68 Antonio Arévalo Quando la cultura brucia Antonio Natali Repetita iuvant?

copertina di Maurizio Ceccato

65

Questo numero stato fatto da:

69 Stefano Monti Musei: da piccoli a smart Fabrizio Federici Di anno in anno: da Leonardo a Raffaello Fotografia

70 Arianna Testino Le metropoli di Gabriele Basilico

Percorsi

72 S anta Nastro A spasso per Parma 2020 (II) Oltreconfine

76 Marta Santacatterina Guercino. Un pittore e la sua città Dietro le quinte

77 Katia Buratti Rinascere dopo il terremoto Rubriche

78 C laudia Zanfi Arte e paesaggio Lorenzo Madaro Il museo nascosto 79 M arco Enrico Giacomelli Il libro Cristina Masturzo Aste e mercato


PIETRO PAOLO TARASCO [ incisore e pittore ]

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Modestino Tozzi

Luci e ombre nel ventre dei Sassi di Matera

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atera con i suoi “Sassi” è una città sconvolgente, segreta, amorevole. Sin da tempi immemorabili, abitata e successivamente abbandonata, ha lasciato ai suoi visitatori emozioni inenarrabili, segni indelebili che ognuno di loro ha portato con sé e conservato nello scrigno della propria vita. Pier Paolo Pasolini aveva ragione quando decise di girare il Vangelo tra i Sassi di Matera, coinvolgendo come figuranti i suoi abitanti. Quelle scene in quei luoghi, con quei volti, apparivano reali come ai tempi di Cristo. Circa un decennio dopo regnò l’abbandono, il silenzio: l’uomo era “fuggito”, ma la città assumeva nuovamente una visione di sconvolgente bellezza. Mario Luzi la visitò in quegli anni e, immerso in quella scena, gli apparve come un “meraviglioso universo ossificato”. La città era “morta”, le porte murate, l’erba era “padrona” di viottoli, scalinate, vicinati e tetti. Erano i colti viaggiatori i soli rari fruitori di quella toccante visione: scrittori, antropologi, sociologi, poeti, artisti, fotografi, musicisti, cineasti. Molti di loro hanno lasciato opere di valore inestimabile, “nate” proprio da quelle irripetibili visioni. Erano gli anni in cui Modestino Tozzi iniziava ad assaporare quelle “meraviglie”, alla scoperta di pertugi e grotte, emozioni che in lui non hanno mai cessato di esistere, le ha sempre conservate gelosamente pur avendo vissuto in altre città italiane e oltre oceano. Ed ecco, oggi, il “ritorno” alle radici, con viaggi sempre più frequenti nella sua città in compagnia della sua macchina fotografica. È così che in queste straordinarie fotografie affiorano le memorie, le emozioni tra luci e ombre che penetrano nelle viscere di Matera, nel ventre dei Sassi. È stato un forte richiamo alla terra di origine, un’esigenza interiore per rielaborare attraverso il mezzo fotografico, oggi suo strumento di lavoro, quelle antiche visioni, attualizzandole. In quelle sue immagini la vita appare inesistente, eppure sono scatti effettuati nel corso dell’anno 2019, popolato da fiumi di pellegrini. Lui ha atteso quegli attimi propizi dove l’uomo è uscito dalla scena. Osservando attentamente le sue opere, è nei particolari come le antenne paraboliche, i piccoli tavoli nei terrazzi, i vasi con piante sui parapetti dei balconi e gli infissi alle finestre, che Modestino Tozzi ci mostra oggi, in quelle misere case, una nuova vita. È questo il messaggio che l’autore ci consegna attraverso queste fotografie: una città che, pur nella sua attuale trasformazione, lascia comunque intravedere la sofferenza e la miseria che regnava in quei luoghi.


BIO

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Modestino Tozzi, fotografo, è nato a Busto Arsizio nel 1978. Ha vissuto e studiato a Matera (città d’origine), dove la magia dei luoghi gli ha suggerito notevoli stimoli creativi. Ha sperimentato varie forme espressive come la scrittura, la musica e l’incisione (pirografia e xilografia) prima di dedicarsi definitivamente alla fotografia. Fondamentali per il suo percorso creativo gli incontri con l’artista Pietro Paolo Tarasco e i fotografi Franco Fontana e Letizia Battaglia. Dopo aver vissuto in varie città italiane e in Canada, da un decennio vive a Como. Queste esperienze di vita gli hanno permesso di acquisire una forma mentis foriera di benefiche sollecitazioni alla sua attività di fotografo. Nel suo studio, dopo aver affrontato numerose tematiche espressive, attualmente è immerso nel “mondo” del cibo.

Sasso Caveoso, Matera, 2019

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Affaccio Piazzetta Pascoli, Matera, 2019

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Sasso Barisano, Matera, 2019

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Via delle Beccherie, Matera, 2019

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Via del Corso, Matera, 2019

SUL PROSSIMO NUMERO Il quartiere Coppedè di Roma fotografato da Giovanna Silva

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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]

COLUMNS

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IL PIAGNISTEO DEI LIBRAI (DI ALCUNI LIBRAI)

L'

inizio del nuovo anno (e del nuovo decennio!) si è caratterizzato dal trito dibattito sulla chiusura degli spazi culturali. Ogni saracinesca abbassata di libreria e spazio vagamente associabile alla distribuzione di prodotti culturali (teatro, cinema, museo) genera molto coinvolgimento sui social e tante interazioni e dunque publisher e giornali fanno la corsa a coprire le notizie. Pochissimi o nessuno frequenta quella data sala cinematografica, ma la notizia della chiusura sono tutti disposti a condividerla con veemenza e cipiglio indignato. E allora ci siamo dovuti sorbire le lagne sulla Libreria del Viaggiatore a Roma, sulla Feltrinelli International ancora a Roma, le statistiche sulle chiusure di librerie nella Capitale negli ultimi anni, la serrata della storica libreria Paravia di Torino e, sempre a Torino, un accorato post dell’ex direttore di Stampa e Repubblica Mario Calabresi sulla chiusura dell’ultima edicola superstite in Piazza Statuto. Il risultato social più cospicuo c’è stato verso la metà di gennaio, quando sui social è comparsa la storia della libreria Paravia di Torino e della sua chiusura nonostante il nome e il blasone. “Nulla possiamo contro Amazon”, gridavano le proprietarie costrette alla serrata dalla multinazionale famelica e cattivona. Nulla di più straordinariamente efficace per il pubblico medio di Facebook. E così anche questo contenuto ha impazzato di like, commenti e condivisioni, facendo sedimentare nei lettori un messaggio semplice: le librerie chiudono per colpa di Amazon perché la gente vuole sconti e comodità. Ma il messaggio è semplice o sempliciotto? Intendiamoci, non v’è dubbio che le piattaforme digitali abbiano messo totalmente in discussione la filiera distributiva. Non vi sono neppure tanti dubbi su una concorrenza che per certi versi – anche a causa di normative inadeguate – si configura come poco leale. Pochi dubbi anche su problematiche burocratiche e, ancor peggio, fiscali. Detto ciò, davvero pensiamo che le persone vogliono solo “sconti e comodità” quando vanno alla ricerca di un libro? Sul serio non diamo alcun valore all’altra grande richiesta che viene dai consumatori, che è quella

Molti librai (e perfino qualche edicolante, anche se lì le colpe sono assai minori) dovrebbero riflettere sul fatto che, essendo causa del loro stesso male, dovrebbero piangere se stessi.

di vivere una esperienza la quale, come tale, non è sostituibile da una customer journey digitale? Molti librai (e perfino qualche edicolante, anche se lì le colpe sono assai minori) dovrebbero riflettere sul fatto che, essendo causa del loro stesso male, dovrebbero piangere se stessi. Qualsiasi business, specie quello relativo al commercio al dettaglio, o cambia o muore. Vale per tutti e anche per chi, come merce, vende cultura. Vendere cultura non è un salvacondotto per non innovare, per non investire, per utilizzare i proventi della propria attività distraendoli su altre attività in luogo di investire sull’attività stessa, non è un salvacondotto per non inventare nuove formule, nuovi format, mescolare i piani, coinvolgere i pubblici con iniziative, puntare su tutte le età, trasformare il proprio esercizio commerciale insomma in un luogo non prescindibile, identitario, non soppiantabile o delocalizzabile.

Solo il commercio stanco, fatto senza aggiornamento, senza voglia, senza amore, senza approfondimento, senza pensiero, senza rischi viene soverchiato dalle piattaforme digitali. Sarebbe interessante parlare dunque delle tante librerie che ce la stanno facendo, che si sono trasformate in punti di riferimento, in piazze, in centri di servizi culturali, in luoghi di incontro dove andare a studiare, a fare un appuntamento di lavoro, a bere un tè oltre che a comprare un libro. Ce ne sono parecchie, il problema è che seguire il loro esempio può risultare faticoso per chi non ha più tanta voglia di fare quel mestiere.


NICOLE MOOLHUIJSEN [ ricercatrice ] #53

G

Può la cultura trattare argomenti sensibili e controversi che fanno parte del nostro presente?

e le storie personali aggiungono valore alla narrazione (anche Samuel è una persona non binary gender-queer). I partecipanti appartengono a diverse fasce d’età; mi colpiscono due adolescenti intenti a registrare tutta la visita, una coppia di donne con la loro bambina e una coppia di anziani che condivide opinioni sul fatto che certi argomenti siano diventati troppo sensibili politicamente (un tempo, dicono loro, le toilette erano per la maggioranza gender-neutral). La mostra è co-organizzata con l’IHLIA, l’associazione con la collezione sulla cultura LGBT più vasta in Europa. L’IHLIA organizza attività sul territorio nazionale e internazionale: conferenze in collaborazione con le università e i dipartimenti che si occupano di questi temi, mostre che spesso si avvalgono del contributo di associazioni attiviste, azioni di sensibilizzazione e supporto verso diversi gruppi nella società. Attualmente è in corso una serie di progetti espositivi su tematiche trans che hanno, fra gli altri, l’obiettivo di dare visibilità a gruppi spesso marginalizzati e socialmente isolati. In questi mesi cerco di approfondire la missione svolta da questa organizzazione e di considerarne le azioni in rapporto al più ampio tessuto civico e sociale. Come si relaziona l’attività di un’organizzazione culturale impegnata sulle questioni di genere e LGBTQIA+ con le azioni di altre istituzioni (come scuole e centri educativi informali) attive sugli stessi temi? Quali sfide incontrano i musei che decidono di dare spazio a questi argomenti? Le istituzioni culturali sono realmente capaci di mettere in discussione visioni di apertura – o rottura – verso stereotipi comuni? Infine, nel contesto di un ragionamento sul ruolo attivista dei musei, fino a che punto le istituzioni culturali sono disposte a spingersi per agevolare cambiamenti nella percezione collettiva su temi cui ruotano attorno privazioni dei diritti umani e discriminazioni nella libertà di espressione? In Polonia si discute un disegno di legge che vuole criminalizzare l’educazione sessuale, ovvero un tassello cruciale per la crescita consapevole dell’individuo. In Italia, a che punto siamo? In che modo le proposte educative su genere e sessualità rivolte a bambini, adolescenti e famiglie incontrano il dibattito e le esigenze attuali? Può la cultura trattare argomenti sensibili e controversi che fanno parte del nostro presente? Questioni di genere a parte, il rischio che stiamo osservando – in varie aree geografiche – è che le istituzioni culturali stiano consolidando il proprio ruolo di fanalino di coda nel dibattito su ciò che conta realmente nella vita delle persone. È un rischio politico, sociale e culturale che possiamo permetterci?

COLUMNS

uardare il museo come un soggetto con un ruolo attivista nei confronti della società significa considerarlo dalla prospettiva etica, professionale e di ricerca più attuale nella museologia contemporanea. La recente pubblicazione Museum Activism raccoglie una trentina di esperienze provenienti da sei continenti, che indagano le trasformazioni manageriali, professionali e di missione che questo nascente orizzonte di lavoro comporta. Il libro riflette anche sulla valutazione degli impatti e sulla dimensione di cambiamento gestionale e organizzativo che un crescente attivismo necessita. Analisi che assume valore specialmente nell’ottica di agire in questo senso anche in Italia, dove, in mancanza di una concezione di welfare culturale diffusa, si rischia di considerare come attivismo una serie di pratiche esportabili da un contesto a un altro. Al contrario, queste azioni hanno un carattere di forte interdipendenza rispetto all’ambiente in cui si instaurano. Necessitano quindi di essere analizzate in modo transnazionale e interdisciplinare per essere eventualmente interpretate in altri ambienti. Attualmente sto svolgendo un percorso di formazione nei Paesi Bassi, sostenuta dalla Fondazione Banca del Monte di Lombardia tramite il Progetto Professionalità Ivano Becchi. Il mio sguardo è quello di una ricercatrice formata in museologia che ha accumulato esperienze nell’ambito dell’accessibilità e del coinvolgimento dei pubblici nei musei. Iniziamo da Amsterdam, città decisamente attiva nella tutela dei diritti LGBTQ e inclusiva per quanto riguarda le possibilità di aggregazione ed espressione di diversi gruppi sociali. Qui le contaminazioni fra mondo culturale, questioni di genere e orientamento sessuale sono evidenti da oltre un decennio. Al Tropenmuseum, la mostra What a Genderful World indaga temi e stereotipi che ruotano attorno al genere. L’idea è di riflettere da una prospettiva il più possibile globale e interculturale. Una proposta di lettura ambiziosa, che acquisisce senso in un’istituzione dedicata a ospitare le culture delle ex colonie olandesi, quindi sensibile al dibattito sulle rappresentazioni da un punto di vista politico e sociale, oltre che culturale. I materiali in mostra sono di varie tipologie (fotografie, oggetti d’uso, poster, video, installazioni) e le didascalie incoraggiano i visitatori a confrontarsi su questioni attuali attraverso domande aperte: qual è la differenza fra sesso, genere e orientamento sessuale? Una persona con disforia di genere (quindi trans) è necessariamente gay o lesbica? Quale ruolo riveste l’intersessualità nella società odierna e come contribuisce a decostruire stereotipi e pregiudizi verso persone la cui identità di genere non ricade nel binomio maschio/femmina? Rosa è un colore da bambine, mentre l’azzurro è per i ragazzi: da quando e perché? Prendo parte a una visita tenuta da uno dei curatori della mostra in conversazione con Nanoah Struik (una delle prime persone in Olanda ad aver ottenuto il segno X sul passaporto per indicare il sesso). Mentre sono nell’ingresso del museo e mi confronto con organizzatori e partecipanti, mi rendo conto che sto per vivere un’esperienza al museo diversa da quelle a cui ho assistito sinora. Le due voci “guida” ci rivolgono domande personali: in quale pronome vi riconoscete? Lui, lei, nessuno dei due o entrambi? Alcuni hanno difficoltà a rispondere. Mounir Samuel ci spiega che, insieme a Nanoah, vorrebbero introdurci alla mostra provocando conversazioni, scambi di punti di vista e critiche. Le conversazioni che seguono sono spontanee

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

MUSEI E ATTIVISMO. VIAGGIO NEI PAESI BASSI

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CRONACHE DA UNA CITTÀ SOMMERSA GENNAIO L FEBBRAIO 2020

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Il 12 novembre 2019, con l’acqua alta che raggiunge i 187 centimetri, è una data cardine: mostra quanto il disastro climatico sia una questione che ci riguarda adesso e qui, nei nostri stessi confini – nella fattispecie Venezia, sommersa e violentata nella sua vita quotidiana, culturale,

monumentale, individuale. Per questa ragione, il numero #53 di Artribune Magazine dedica sei delle sue otto pagine di columns alla Laguna più celebre del mondo. Con editorialisti che sostituiscono le firme a cui siete abituati (niente paura: li ritroverete sul numero di marzo-aprile) e illustrazioni realizzate

nell’ordine da Bruno Bozzetto (Sig. Rossi), Lucio Schiavon (Passarin Samurai) e Olimpia Zagnoli (Nel blu) – parte del progetto Cronache di una città sommersa, promosso dal laboratorio di serigrafia Fallani Venezia. Le grafiche sono nove in tutto, realizzate ognuna in cinquanta esemplari, numerate e firmate dagli autori. Potete acquistarle online, singolarmente o in cartella, e così sostenere una delle eccellenze veneziane. Non fatevi pregare!

COLUMNS

fallanivenezia.bigcartel.com

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STEFANO MONTI [ economista della cultura ]

GABRIELLA DE MARCO [ docente di storia dell’arte contemporanea ]

#53

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el luglio 2011, in meno di tre ore una bomba d’acqua causò danni ingenti a Copenaghen. La municipalità ammise i propri errori, confessando che il piano del 2009 si era rivelato inadeguato. Si corse ai ripari con una serie di interventi capillari, quali la realizzazione di superfici impermeabili, di microparchi, l’incentivazione del dialogo con il mare, l’ampliamento delle coperture dei sistemi fognari. L’evento catastrofico divenne, come in altre città europee, il generatore di un processo di trasformazione basato sullo sviluppo sostenibile e la tutela del territorio, e non su un miope sfruttamento dell’ambiente. I recenti fatti di Venezia, del Trentino, della Toscana e del Lazio, unitamente ai danni patiti dal sud della Penisola, da Matera alla Sicilia, mi fanno tornare in mente l’esempio danese. Non so se Copenaghen riuscirà a vincere la sfida. Certo non posso esprimermi, non avendo competenze specialistiche, sulla validità futura delle soluzioni adottate. E soprattutto se siano le migliori tra quanto oggi offrono le tecnologie. Inoltre, ogni città racchiude una storia autonoma che la rende unica e le soluzioni non sono necessariamente esportabili. Tuttavia, la capitale danese offre spunti di riflessione intorno a temi quali lo smaltimento dei rifiuti, la salute, il tempo libero, il rapporto con il mare, unitamente al progressivo abbattimento delle emissioni. Ma, soprattutto, chi la amministra ha capito che la mancanza o l’eccesso d’acqua è una delle maggiori sfide che deve affrontare l’umanità. Dopo l’alluvione Chi amministra del 2011 fu indetto un concorso per la Copenaghen ha capito sistemazione del che la mancanza o quartiere Nørrebro, l’eccesso d’acqua è una vinto dallo studio SLA delle maggiori sfide che Architects. Il progetto, deve affrontare l’umanità. realizzato su un’area di 85mila mq a forte rischio di allagamento, ha individuato, assecondando il naturale percorso dell’acqua piovana, un luogo di smaltimento nel lago di Peblinge. Non solo: quella che potrebbe apparire solo come una soluzione tecnica diviene un modello in cui l’ingegneria idraulica dialoga con l’ambiente, l’architettura del paesaggio, la botanica, la biologia e, ultimo ma non ultimo, il contesto sociale. Nørrebro è opera idraulica e arredo urbano. È tecnologia e intervento pubblico. L’acqua non è più solo minaccia ma può divenire, anche grazie alle tecnologie e al “dialogo” con la natura, un’opportunità. I cambiamenti climatici repentini sono e saranno sempre più frequenti. Ciò potrebbe comportare dei costi alti sia in termini di vite umane sia sul fronte finanziario; basti pensare ai rischi e alle conseguenze di blackout elettrici in un mondo globale e iper-connesso qual è il nostro, o ai danni alle infrastrutture, alla salute, alla serenità del cittadino. Per non parlare dei danni ai beni culturali. Un tessuto vitale, questo, che testimonia la memoria condivisa di una comunità, unitamente alla memoria personale. Un tessuto inestimabile che non possiamo trascurare, sia per rispetto verso noi stessi sia per le generazioni future. Di chi è il presente, dunque, di chi è la memoria?

COLUMNS

a una parte Venezia con l’acqua alta, dall’altra Matera con il nubifragio, e al centro l’Italia del malcontento. Non ha senso dilungarsi su coloro che hanno subissato i social con il loro rancore e il loro inguaribile campanilismo. Basti sapere che esistono, mentre ciò che dicono non ha importanza. Quello che ha importanza, qui, è una caratteristica strutturale della nostra democrazia e il modo con cui la nostra classe dirigente intende l’attività politica. Con le doverose eccezioni, chi fa politica in Italia ha una visione temporale che non supera il proprio incarico. Un anno? Tre? Nelle prospettive più rosee, forse cinque. È con queste deadline che la nostra classe dirigente misurano le proprie performance. In un periodo così breve non si possono adottare strategie in grado di riqualificare le città e i territori; non si possono adottare soluzioni poco gradite agli elettori. La conseguenza è evidente: nessuna Se tutti gli investimenti programmazione, hanno carattere nessuna straordinario, è necessario manutenzione e solo che sussistano le condizioni spese straordinarie. Se dal punto di di straordinarietà. Morale vista economico della favola: si aspetta un atteggiamento l’emergenza. di questo tipo è tutt’altro che auspicabile, lo è ancor meno nelle sue implicazioni etiche: se tutti gli investimenti hanno carattere straordinario, è necessario che sussistano le condizioni di straordinarietà. Morale della favola: si aspetta l’emergenza. La responsabilità di tutto ciò, tuttavia, non è solo della politica e del suo essere assoggettata alle regole del consenso: l’Italia del malcontento ha un ruolo centrale in questo processo. È un dato di fatto che i processi infrastrutturali che riguardano il nostro Paese sono sempre circondati da proteste, polemiche, gruppi sociali che, a vario titolo, forniscono un alibi perfetto ai nostri dirigenti, instaurando un circolo vizioso. La classe politica tende a privilegiare il consenso piuttosto che a trovare soluzioni che potrebbero migliorare gli equilibri di lungo periodo; le attività che vengono avviate incontrano prontamente la disapprovazione dell’opinione pubblica, che nel world of mouse impiega un istante a incidere sui sondaggi; ciò si traduce in un atteggiamento poco proattivo da parte della classe dirigente. L’unica soluzione di continuità è rappresentata dalle condizioni di emergenza, che costituiscono per i politici un’occasione unica da sfruttare. Possono così realizzare, nome dell’emergenza, le opere infrastrutturali per le quali i fondi erano già disponibili. Possono superare l’opposizione dei piccoli gruppi d’interesse. Possono eseguire, con ritardi “umani”, quelle azioni che altrimenti avrebbero richiesto anni. Quando gli effetti di questo atteggiamento si palesano, l’Italia del malcontento, volutamente ignara del ruolo che riveste, si indigna a gran voce e struttura il proprio pensiero in modo che possa declinarsi in un hashtag. Ma la classe politica, in questi casi, non se ne cura più di tanto. Presto ci saranno nuove emergenze e nuove ragioni per indignarsi. Questa, però, non è politica. Questa, però, non è cittadinanza. Questa, però, non è democrazia.

CAMBIAMENTI CLIMATICI, CULTURA E MEMORIA

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

L’ITALIA DEL MALCONTENTO

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GIOVANNI LEONE [ architetto ]

COLUMNS

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1966-2019: TUTTO CAMBIA NULLA CAMBIA

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enezia è città fragile abitata da uomini tenaci al punto da scivolare nell’ostinazione. A novembre è stata colpita e affondata. È la seconda volta, dopo l’acqua granda del 1966, quando la marea raggiunse quota 194 centimetri sul medio mare. Evento inaspettato e imprevedibile? Lo era nel 1966, non cinquant’anni dopo. Cos’ha provocato questa acqua alta eccezionale? Quattro fattori: la luna grande e alta nel cielo, la velocità dell’acqua (dovuta alla profondità di bocche di porto e canali), la direzione (scirocco) e la velocità del vento (100 km/h). Gli ultimi due fattori sono riconducibili al quadro generale dei cambiamenti climatici che hanno trasformato i temporali in fortunali. Anche alla velocità dell’acqua ha contribuito l’uomo. Ma, si sa, la responsabilità è sempre degli altri: sarà allora la lunaticità la causa. L’altezza massima della marea, annunciata alle 18.30 con sirene e sms, era di 140-145 cm per le 23. Approfitto per far uscire Ulisse, il mio cirneco dell’Etna; l’acqua comincia a uscire dalle caditoie in calle, un po’ presto ma non ci ho fatto caso. Dopo qualche minuto mi sono guardato indietro e la calle si era fatta acqua, e a questo ho fatto caso. Il modo in cui l’acqua cresceva era il solito, veniva su placida e inesorabile. Inusuale era invece la velocità e l’anticipo sui consueti tempi di marcia. Alle 20.30 le previsioni vengono rettificate: 155-160 cm. Ho chiamato mio figlio, abbiamo indossato gli stivali fino all’inguine e siamo usciti per aiutare chi avesse bisogno. Alle 21.45 la previsione si alza a 170 cm, e qui è allarme. Si era pronti a difendere la linea Maginot dei 160, corrispondente alla quota delle paratie che proteggono case e negozi, ma con 170 la sconfitta è inevitabile. Alle 22.50 viene comunicato che la marea potrebbe raggiungere 190 cm alle 23.30, ma che fosse alluvione era già chiaro: il vento aveva preso a ruotare e a rafforzarsi. Nelle calli l’acqua non sale più dal basso ma scorre impetuosa, scavalca le paratie, entra dalle finestre. In Rio Terà Foscarini gli oleandri sono piegati dall’azione combinata di marea e vento. In Campo Sant’Agnese metà di un platano maestoso è rovinata in terra, o meglio in acqua. Girato l’angolo sulle Zattere ai Gesuati, manca all’appello l’edicola, affondata

Il ritorno a casa è al buio, senza illuminazione urbana, ma per fortuna sono in molti ad avere gli scuri aperti e c’è un po’ di luce.

nel canale della Giudecca. Le barche si agitano nervosamente come cavalli legati in presenza di un incendio. Alcune sono alla deriva perché svincolate dai pali a cui erano ormeggiate. L’acqua arriva ormai oltre l’ombelico. Imboccare la Calle del Vento è un’esperienza mistica: è orientata verso lo scirocco in cui dimora il vento. Raggiunto il Ponte di San Sebastiano, abbiamo visto le onde sbattere sul parapetto in pietra e demolirne una parte. Il ritorno a casa è al buio, senza illuminazione urbana, ma per fortuna sono in molti ad avere gli scuri aperti e c’è un po’ di luce. Rispetto al 1966 molto è cambiato e nulla è cambiato. Ci sono meno abitazioni ai piani terra, occupati da attività commerciali. Meno le case violate, ma i possessori di botteghe, depositi, magazzini ecc. hanno pagato il loro tributo. Ci sono meno abitanti: dai 121.309 del 1966 siamo a 53mila, una manciata d’irriducibili amanti della città d’acqua, la cui qualità più preziosa non è il patrimonio storico-artistico ma la dimensione civica e relazionale e sociale. Molte, troppe, sono invece le case sottratte all’abitazione per essere destinate a locazioni turistiche e i palazzi trasformati in hotel, adeguando l’offerta alla domanda, mentre occorreva fare il contrario: contenere l’offerta e di

conseguenza la domanda, per arginare la marea turistica. Prima abbiamo puntato tutto sull’industria, oggi sul turismo, e domani? Venezia potrebbe essere un laboratorio della contemporaneità e delle sue criticità, città antica in cui si evidenziano i problemi del presente. Inadeguata la classe dirigente. Subito dopo l’acqua granda ci s’impegnò ad agire sui due fronti della salvaguardia della città e della tutela della Laguna, grazie alla Legge speciale per Venezia. A oggi, però, la Basilica di San Marco non è ancora protetta e non si è data completa applicazione alla salvaguardia della Laguna. Poi c’è il Mose, un treno lanciato in una corsa impossibile da fermare perché si verrebbe accusati di aver compromesso un investimento la cui efficacia è impossibile da accertare prima del completamento dei lavori. Piacerebbe a tutti che funzionasse ma, a sedici anni dall’avvio dei lavori, gli unici risultati raggiunti sono stati di sottrarre risorse destinate dalla legge speciale alla manutenzione edilizia e urbana e di foraggiare una corruzione di dimensione mai vista. Inopportuno il riferimento del sindaco Brugnaro all’ipotesi di un porto per le grandi navi a Marghera e allo scavo del Canale Vittorio Emanuele, che nulla hanno a che fare con l’acqua alta. Peraltro, le modifiche alla morfologia lagunare sono unanimemente considerate dal mondo scientifico una delle principali cause di sofferenza dell’ecosistema. Le acque alte si sono moltiplicate e i cambiamenti climatici contribuiscono in misura rilevante, molto hanno però pesato gli interventi umani: aver ristretto le bocche di porto e aumentato la profondità ha provocato un’accelerazione dei flussi e lo spostamento dei sedimenti. I canali profondi sono come autostrade in cui l’acqua corre veloce. Occorre finalmente riconoscere a Venezia una propria specialità, oltre che estetica, anche amministrativa. Di speciale, Venezia, dovrebbe avere uno statuto, maggiori margini di autonomia, più risorse da ottenere, magari lasciando un paio di punti dell’IVA sul territorio. Ma serve soprattutto una classe politica in grado di gestire il presente con una visione di largo respiro, che riconosca alla dimensione sociale la centralità che le spetta.


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TAMASSOCIATI [ studio di architettura ]

ARIANNA TESTINO [ responsabile Grandi Mostre ]

VENEZIA BENE COMUNE

IN RISPOSTA ALLA MAREA

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stituzioni, organizzazioni, associazioni; ma prima di tutto i residenti. Che sono in prima linea, ogni giorno, anche i peggiori. In secoli l’abbiamo imparato: solo un’attenta e continua manutenzione, fatta da chi qui risiede e si prende cura dei luoghi e dei beni, permette alla città di sopravvivere e prosperare. Questa lezione sembra dimenticata. L’evento del 12 novembre ci ha ricordato quanto la città sia fragile e quanto siano esposti i suoi abitanti, in particolare quelli che qui investono sul lavoro. È il lavoro, infatti, il Come una nuova presidio di una città, Berlino ovest, si tratta la capacità di attrarre di avviare strumenti e trattenere risorse: materiali e intellettuali per favorire residenti e che, diventando progetti e imprese che decidono di realizzazioni, costruiscono resistere e di investire il futuro. Il paradosso sul loro futuro in questa di Venezia è che, per costruire il futuro, deve meravigliosa città. preservare il passato, con un’opera continua fatta soprattutto di piccoli interventi quasi quotidiani: un’opera che diventa cultura, basata sul rispetto del suo ambiente unico e delle regole di convivenza che ne derivano. Sono concetti ben rappresentati da attività quali la pulizia periodica dei canali, il rifacimento delle fondamenta o le tante opere di manutenzione che strumenti quali la Legge Speciale per Venezia consentivano ai singoli cittadini. Opere che toccano il tessuto vero della città e le diverse realtà economiche e sociali che la compongono: artigiani, piccole e medie imprese, professionisti, trasportatori… Le grandi opere, utili o meno che siano, hanno via via drenato tutte quelle risorse che costituivano un motore economico e sociale per la città, e che permettevano un modello di sviluppo alternativo al turismo di rapina o, peggio, alla mercificazione di ogni fondo per servizi B&B e simili. Andranno valutati gli effetti della recente legge per la “Gestione degli eccezionali eventi meteorologici dal giorno 12 novembre 2019 nel territorio del Comune di Venezia”, ma il migliore lascito di questa fondamentale iniziativa potrebbe essere il richiamo a una nuova consapevolezza su come dovrebbe essere gestita la città. È tempo quindi di lanciare una call to action per le forze economiche che credono ancora possibile modificare il paradigma monofunzionale che è origine del degrado e dello spopolamento di Venezia. Come una nuova Berlino ovest, si tratta di avviare strumenti per favorire residenti e imprese che decidono di resistere e di investire sul loro futuro in questa meravigliosa città, con un piano di agevolazioni fiscali e di contributi a perdere capaci di rivitalizzare il tessuto produttivo e richiamare nuova progettualità. Gli strumenti possibili sono tanti, non ultima la riduzione della pressione fiscale sui residenti e sulle imprese che qui investono e assumono, ma anche leggi speciali per l’efficientamento e la manutenzione del patrimonio immobiliare, dall’edilizia minore a quella storico-monumentale. Un’opera costante di rammendo urbano e riparazione territoriale, come direbbe Renzo Piano, fatta di attività diffuse e dal basso, ma capaci di visione d’insieme e di regia. Per riuscire dove le grandi opere rischiano sempre più di fallire.

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enezia è nata sull’acqua. Segue il ritmo delle maree. Sei ore sale, sei ore scende. È la prima cosa imparata da un foresto appena sfiora i masegni della città sospesa. Venezia ha sancito il suo legame con l’acqua salata gettando un anello tra le onde. Eppure oggi le cronache parlano una lingua diversa, fatta di maree eccezionali e di litigate furiose con lo scirocco, scagliato a tutta velocità contro canali dragati dalle chiglie di navi multipiano, che solcano flutti troppo fragili per sostenerle. Eppure, tra il fango e la rabbia, la marea eccezionale ha fatto emergere gesti inattesi, figli di una solidarietà che, in un Paese dominato dall’odio da tastiera, suona più forte delle sirene e delle polemiche da quattro soldi. All’indomani di una notte senza fine, Venice Calls ha usato Telegram e WhatsApp per far fronte all’emergenza, riunendo giovani volontari anche da Mestre, Padova, Treviso e oltre. Una “chiamata alle armi” che ha prodotto l’effetto desiderato, portando a Venezia centinaia di ragazzi intenzionati a mettere le proprie forze, fisiche e psicologiche, al servizio di un’urgenza collettiva. Se i ragazzi di Fridays for Future hanno alzato la voce contro amministrazioni miopi, sollevando la spinosa questione del Mose – eterno convitato di pietra – e rimboccandosi le maniche per dare un aiuto concreto alla città, individui di qualsiasi età – ma ancora una volta giovani in primis – hanno regalato tempo ed energie alla salvaguardia del patrimonio cardine di Venezia, quello culturale. Frotte di volontari hanno prestato soccorso alla Fondazione Querini Stampalia nel recupero del materiale librario inondato dall’acqua, così come avvenuto al Conservatorio Benedetto Marcello, i cui archivi sono stati messi a dura prova dalla marea, o alla Fondazione Bevilacqua La Tra il fango e la rabbia, Masa. Iniziative autonome, la marea eccezionale che fanno notizia proprio ha fatto emergere gesti perché non sono il frutto di trattative governate dalla inattesi, figli di una burocrazia o di vertici che solidarietà che suona rispondono ai comandapiù forte delle sirene menti elettorali. Gesti indie delle polemiche da pendenti che centrano il quattro soldi. cuore del problema. Come la solidarietà dimostrata alla Libreria Acqua Alta – uno dei luoghi più amati da veneziani e non solo, il cui nome, oggi, risuona ancora più forte –, quasi affondata, insieme ai suoi volumi, ma “ancora operativa”, come dichiarato dai titolari, grazie anche alla volontà di associazioni, librai e privati, intenzionati a donare nuovi volumi che rimpiazzino quelli distrutti. E se dal Piemonte è arrivato l’aiuto di Artists for Venice – progetto voluto dall’artista torinese Manuela Maroli, che ha invitato i colleghi a mettere all’asta le proprie opere per devolvere gli incassi alla città di Venezia –, sul fronte istituzionale il MiBACT ha lavorato all’estensione dell’Art bonus al patrimonio ecclesiastico lagunare, in seguito al sopralluogo del ministro Franceschini a Palazzo Ducale e nell’area marciana. Al di là delle risposte “dall’alto”, che nei prossimi mesi dovranno trasformarsi in realtà, a lasciare il segno sono le iniziative spontanee. Quelle che scardinano la retorica, gli slogan e i luoghi comuni. E che dimostrano la tenacia di Venezia nell’essere viva. Marea, Mose, overtourism o meno.


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DA RAFFAELLO A JIM DINE

5 appuntamenti da non perdere nel nuovo anno

CLAUDIA GIRAUD

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LA COPERTINA TATANKA JOURNAL

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NEWS

DUEMILAVENTI Quando inizia il nostro futuro?

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Nell’anno che ci proietta nel futuro della nuova decade, tanti dubbi ci accompagnano in un presente incerto e senza un’identità definita. Un punto di domanda per interrogarci sulla questione fondamentale di questa generazione: siamo finalmente pronti ad accogliere il futuro che ci è stato promesso, quello costruito su una società matura, su un progresso sostenibile, su una comunità cosciente?

tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal

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I MARMI DELLA COLLEZIONE TORLONIA – ROMA Novantasei marmi della collezione Torlonia saranno visibili al pubblico in una grande mostra, nella nuova sede espositiva dei Musei Capitolini a Palazzo Caffarelli di Roma Capitale. L’esposizione segna il primo passo dell’accordo siglato tra il MIBACT e la Fondazione Torlonia, ed è il risultato dell’intesa istituzionale sottoscritta dalla DG ABAP e dalla Soprintendenza Speciale di Roma con la stessa Fondazione. fondazionetorlonia.org GRANDE MOSTRA SUL BAROCCO – REGGIA DI VENARIA Oltre 200 capolavori provenienti dai più prestigiosi musei e collezioni di tutto il mondo per una mostra imperdibile, la Sfida al Barocco, allestita nei grandiosi spazi della Citroniera Juvarriana della Reggia di Venaria, spettacolare complesso monumentale alle porte di Torino, meraviglia dell’architettura barocca proclamata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. lavenaria.it LE SIGNORE DEL BAROCCO – MILANO Per la prima volta in Italia una straordinaria mostra dedicata alle grandi artiste del Seicento: Artemisia Gentileschi, Sofonisba Anguissola, Lavinia Fontana, Elisabetta Sirani e Fede Galizia. Rimaste nell’ombra fino a pochi anni fa, la loro arte e le loro incredibili vite vengono oggi riscoperte, a testimonianza di una intensa vitalità creativa. Circa 80 dipinti racconteranno una bellissima storia di donne “moderne” e appassionate. palazzorealemilano.it JIM DINE A PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI – ROMA È in arrivo una mostra dedicata a Jim Dine, promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale, ideata e organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo. Si tratta di un’ampia mostra antologica realizzata in stretta collaborazione con l’artista e curata da Daniela Lancioni, curatrice senior dell’Azienda Speciale Palaexpo. palazzoesposizioni.it

TOP 10 LOTS 2019 a cura di CRISTINA MASTURZO

1 Claude Monet, Meules 1891 $ 110,747,000 Sotheby’s New York

Tatanka Journal è una rivista indipendente che dal 2018 racconta l’attualità attraverso le immagini, la grafica e le illustrazioni, coinvolgendo artisti nazionali e internazionali. Nel 2020 inizia la collaborazione con Artribune, insediandosi sulla superficie della rivista per creare un progetto editoriale parallelo, in grado di innescare delle riflessioni che nell’arco del nuovo anno indagheranno il contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI

500 ANNI DALLA MORTE DI RAFFAELLO – ROMA Una grande mostra monografica, con oltre 200 capolavori tra dipinti, disegni e opere di confronto, dedicata a Raffaello Sanzio, nel cinquecentenario della sua morte. Intitolata semplicemente Raffaello, costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali per i 500 anni dalla scomparsa dell’Urbinate. scuderiequirinale.it

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Jeff Koons, Rabbit • 1986 • $ 91,075,000 • Christie’s New York

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Robert Rauschenberg, Buffalo II • 1964 • $ 88,805,000 • Christie’s New York

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Paul Cézanne, Bouilloire et fruits • 1888-90 • $ 59,295,000 • Christie’s New York

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Pablo Picasso, Femme au chien • 1962 • $ 54,936,000 • Sotheby’s New York

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Andy Warhol, Double Elvis [Ferus Type] • 1963 • $ 53,000,000 • Christie’s New York

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Ed Ruscha, Hurting the Word Radio #2 • 1964 • $ 52,500,000 • Christie’s New York

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Francis Bacon, Study for a Head • 1952 • $ 50,380,000 • Sotheby’s New York

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Mark Rothko, Untitled • 1960 • $ 50,095,250 • Sotheby’s New York

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David Hockney, Henry Geldzahler and Christopher Scott • 1969 $ 49,521,696 • Christie’s London


La Sharjah Biennial 2021 allestirà una mostra postuma del curatore Okwui Enwezor

CLAUDIA GIRAUD L È stata inaugurata la quarta residenza d’artista di Airbnb, questa volta in Molise, a Civitacampomarano. Si tratta di Casa Cuoco, la storica dimora che, fra Settecento e Ottocento, ha ospitato il politico e illuminista Vincenzo Cuoco, e che la community globale di viaggio dedicata alla ricerca di soluzioni per il soggiorno ha riaperto al pubblico e completamente rinnovato grazie all’intervento dell’artista Lorenzo Vitturi (Venezia, 1980) e di Eligo Studio. Si conclude Photo © Claudia Zalla così il secondo capitolo del progetto di Airbnb, Borghi Italiani, inaugurato nel 2017 con Francesco Simeti a Civita di Bagnoregio e lanciato in collaborazione con il MiBACT e con il patrocinio dell’ANCI, che finora ha reinventato tre dimore storiche grazie all’intervento di artisti che hanno creato opere site specific, in dialogo con edifici e habitat circostanti, aiutati da Eligo Studio e da alcune grandi firme del design internazionale. Oltre alla già citata Civita di Bagnoregio in provincia di Viterbo, le altre due si trovano nel borgo di Lavenone (Brescia), fra i monti della Val Sabbia, interpretata dall’illustratrice Olimpia Zagnoli, e a Sambuca di Sicilia (Agrigento), tra vigneti d’eccellenza e radici arabe, affidata a Edoardo Piermattei. airbnb.it

THOMAS BAYRLE

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Thomas Bayrle, dalla serie Feuer im Weizen (Sexmappe), 1970

A ormai mezzo secolo dai tempi della cosiddetta rivoluzione sessuale, può essere interessante riandare su su fin lì per divertirsi con l’archeologia (o almeno con il Rinascimento) dell’arte erotica. Nel 1967 il berlinese Thomas Bayrle aveva trent’anni. Dopo un’iniziale esperienza lavorativa in una fabbrica tessile, che gli lasciò in eredità una certa ossessiva visionarietà per i pattern ripetitivi, era passato a occuparsi di grafica, pubblicitaria (anche per Pierre Cardin e la nostra Ferrero) ed editoriale (segnatamente per la sua piccola casa editrice Gulliver Press, specializzata nella produzione di libri d’arte, litografie, poster). Dopo aver disegnato motivi decorativi per vestiti e tappezzerie, il passo per produrre arte in proprio gli era stato quasi inevitabile. Esplose in quell’anno, lasciandosi influenzare dalla Pop Art americana e cominciando a produrre serigrafie che presentavano la figura umana tramite griglie ritmiche di forme e colori. La figura umana, sì – e però, profittando dell’effetto di spaesamento ottico dato dall’accostamento e dalla moltiplicazione seriale di motivi grafici (da intendersi quale critica politico-estetica al consumismo di massa), Bayrle si dilettò a rappresentare soprattutto incontri eterosessuali decisamente espliciti, per i tempi. Il principio della serialità si imponeva allora come scelta comunicativa in polemica opposizione con la pittura informale e l’Espressionismo astratto. Bayrle si trovò così a rappresentare, nel pieno del boom economico della Germania Occidentale, una figura chiave della Pop Art non solo tedesca ma europea. Anche l’Italia lo riconobbe subito come tale e, tra 1968 e 1971, lo accolse a esporre alla Galleria Apollinaire di Milano e allo Studio S di Roma, dove gli fu assegnato anche il Premio Stipendium a Villa Massimo. In seguito, anticipando le tecnologie digitali con l’utilizzo esplorativo di quei pittogrammi da lui chiamati “super forms”, Bayrle ha continuato a sperimentare tramite pittura, collage, disegni, stampe, carte da parati, scultura, film 16mm, video, computer art, in un’attività espressiva a tutto tondo. In Italia è tornato dopo un’eclisse pluridecennale solo a partire dal 2013, al Museo Madre di Napoli, poi nel 2016 a Torino per Artissima (presentato da Sarah Cosulich) e ancora nella primavera 2019 a Roma con la personale Caravaggio our times / Caravaggio billion times per la Gavin Brown’s Enterprise nella chiesa di Sant’Andrea de Scaphis. Oggi, ritrovare ad esempio la sua scandalosa serie del 1970 Feuer im Weizen (Sexmappe), “incendiarie” serigrafie composite di vivaci cellule martellanti, ci interessa storicamente, sì, ma anche ci diverte con una certa tenerezza: per quegli entusiasmi del tempo andato, per quella libertà sessuale intravista (è il caso di dirlo), per l’energia vitale che trasmette, per la qualità pop(olare) che incarna, per quella specie di obliquo umorismo che sottende, infine per quella specifica ossessiva qualità visionaria che rimane, sempre, tipica dell’erotismo.

NEWS

Apre la Casa d’Artista di Airbnb in Molise. È la quarta del progetto Borghi Italiani

FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

VALENTINA TANNI L Si intitola Postcolonial la mostra postuma di Okwui Enwezor (1963-2019) che sarà allestita durante la 15esima edizione della Sharjah Biennial, negli Emirati Arabi Uniti, da marzo a giugno 2021. Il curatore nigeriano, scomparso a soli 55 anni dopo una lunga battaglia contro il cancro, aveva infatti lasciato un progetto abbastanza dettagliato, che ha permesso a Hoor al-Qasimi, presidente e direttrice della Sharjah Art Foundation, di trasformare la sua idea in realtà. Per affrontare il difficile compito, Hoor al-Qasimi si è avvalsa di un folto e prestigioso gruppo di collaboratori: lo storico dell’arte nigeriano Chika Okeke-Agulu, la curatrice tedesca Ute Meta Bauer, il curatore egiziano Tarek Abou El Fetouh e lo scrittore sudanese Salah M. Hassan. “La Documenta di Okwui è stata di grande ispirazione per me”, ha commentato la direttrice della Sharjah Biennial in un’intervista al New York Times. Postcolonial, che sarà l’evento centrale della Biennale, è un sequel dell’acclamata Postwar: Art Between the Pacific and the Atlantic, 1945–1965 (2016–17), allestita alla Haus der Kunst di Monaco – istituzione che Enwezor diresse dal 2011 al 2018 –, un ambizioso tentativo di riassumere le principali tendenze dell’arte contemporanea globale del secondo dopoguerra. In linea con il tema della manifestazione che la ospita, Thinking Historically in the Present, la collettiva rappresenterà un tentativo di collegare passato e futuro, pensando il mondo come un’entità unica e il tempo come una linea da percorrere sia avanti che indietro per comprendere meglio il nostro presente. In uno degli appunti per la mostra, Enwezor l’ha definita “un modulo per affrontare il potere dirompente del monolinguismo artistico ma anche un orizzonte della possibilità di concepire uno spazio teorico per pensare storicamente nel presente”. sharjahart.org

OPERA SEXY

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ARCHUNTER GENNAIO L FEBBRAIO 2020

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MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]

COMUNAL TALLER DE ARQUITECTURA comunaltaller.com

NEWS

Union de Cooperativas Tosepan Titataniske + Comunal: Taller de Aquitectura, Social Housing Production II, Sierra Nororiental de Puebla. Photo Onnis Luque

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Power to the people: dopo anni di archistar e icone milionarie, potrebbe essere questo il motto per il decennio che si apre. A scommetterci è il World Architecture Festival, che lo scorso dicembre ha assegnato a Comunal: Taller de Arquitectura e al suo lavoro con le comunità indigene messicane l’AR Emerging Architecture Award. Per Mariana Ordóñez Grajales (1987) e Jesica Amescua Carrera (1983), infatti, l’architettura non è opera di un genio isolato, ma “un processo sociale partecipativo, vivo e aperto, che permette agli abitanti, posti al centro del progetto, di esprimere bisogni e aspirazioni”. Un approccio che, a partire dal 2013, si lega agli indigeni Nahua e alla loro battaglia in difesa della memoria culturale e costruttiva locale. Sfruttando l’abbondanza di bambù della Sierra Nororiental di Puebla, il duo di progettiste elabora insieme alla comunità di Tepetzintan un’unità abitativa a basso costo, che rispetta i caratteri e gli spazi dell’abitare tradizionale, integrando principi di bioclimatica e sostenibilità. Due anni dopo, grazie a una serie di workshop tecnico-costruttivi coordinati da Comunal e alla condivisione di terra, lavoro e materiali secondo l’usanza del tequio, il prototipo diventa realtà. Inclusiva, partecipata e contestuale, l’opera collettiva nel cuore della Sierra arriva fino a Venezia, unendosi alle fila del fronte messicano alla Biennale 2016 diretta da Alejandro Aravena. Nonostante il plauso internazionale, la commissione per l’edilizia abitativa, negando il finanziamento di opere

in materiali e tecniche tradizionali, impedisce ai Nahua di replicare il prototipo. Comunal elabora allora con l’Unione delle Cooperative Tosepan Titataniske un nuovo modello, che integra una struttura in cemento armato agli elementi modulari in bambù già progettati. Una mossa ingegnosa, che non solo sblocca i fondi governativi, ma addirittura apre un dibattito nazionale sul riconoscimento delle tecniche vernacolari. Nel 2017 il confronto con le politiche pubbliche si estende al settore educativo. Ispirati dai workshop didattici, gli studenti del Bachillerato Rural Digital no. 186 di Tepetzintan avviano il progetto di auto-costruzione del loro istituto. Guidati da Grajales e Carrera, i giovani immaginano aule, laboratori e orti per recuperare mestieri tradizionali e riavviare l’economia locale, completando già nel 2018 la prima fase di costruzione. Dopo il trionfo sul palco di Berlino, Comunal continua il suo “scambio di conoscenze” con le popolazioni indigene del Paese. E, raggiunto da Artribune, annuncia un importante salto di scala: “Stiamo lavorando a Ixtepec, nell’Istmo de Tehuantepec, con il Comité Ixtepecano e Unitierra per difendere le tradizioni insediative degli Zapotechi, e con esse il loro territorio devastato dai terremoti del 2017. Dopo un anno di workshop e consultazioni politiche, la nostra proposta di ricostruzione sociale è stata inserita fra i progetti pilota del Piano di ricostruzione nazionale: trenta abitazioni stanno per entrare in cantiere!”.

Cecilia Alemani sarà la direttrice della Biennale Arte 2021 GIULIA RONCHI L Sarà Cecilia Alemani (Milano, 1977) a ricoprire l’incarico di Direttore del Settore Arti Visive della 59. Esposizione Internazionale d’Arte, che si svolgerà a Venezia nel 2021, succedendo a Ralph Rugoff. Un playground già noto alla curatrice, la quale nel 2017 aveva dato forma al Padiglione Italia portando per la prima volta solamente tre artisti: Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò e Adelita Husni-Bey. Tra le tante mostre su autori contemporanei all’attivo, ad oggi la Alemani è responsabile e capo curatore di High Line Art, parco urbano sopraelevato costruito su una ferrovia abbandonata di New York. Tra gli artisti da lei esposti si ricordano El Anatsui, John Baldessari, Phyllida Barlow, Carol Bove, Sheila Hicks, Rashid Johnson, Barbara Kruger, Zoe Leonard, Faith Ringgold, Ed Ruscha, Nari Ward e Adrián Villar Rojas. “È un grandissimo onore poter assumere questo ruolo in una delle istituzioni italiane più prestigiose e riconosciute al mondo”, ha commentato la neo-direttrice. “Come prima donna italiana a rivestire questa posizione, capisco e apprezzo la responsabilità e anche l’opportunità offertami e mi riprometto di dare voce ad artiste e artisti per realizzare progetti unici che riflettano le loro visioni e la nostra società”. labiennale.org

100 anni dalla nascita di Alberto Sordi. Una mostra racconta l’attore a Roma nella sua casa SANTA NASTRO L A Roma, a partire dal prossimo marzo, aprirà al pubblico una mostra a celebrazione di Alberto Sordi ripercorrendone la vita e la carriera con un percorso multimediale. Anche la location sarà speciale: a ospitare l’esposizione è infatti proprio la residenza romana di Sordi in Piazzale Numa Pompilio, su una collina con vista sulle Terme di Caracalla. La storica casa nella Capitale, conosciuta da tutti e luogo di appuntamenti, dove l’attore romano, scomparso nel 2003, ha vissuto dal 1958 in poi, sarà accessibile in alcuni locali: le immagini racconteranno l’attore, ma anche il regista (suoi Fumo di Londra, In viaggio con papà, con il “figlioccio” Carlo Verdone, Scusi, lei è favorevole o contrario?, Il tassinaro, tra gli altri), il doppiatore (fu ad esempio la voce storica di Oliver Hardy di Stanlio e Ollio), il cantante e compositore, l’uomo di teatro. Nel piazzale antistante la Villa sarà allestito invece un padiglione che permetterà di assistere alle proiezioni dei film di Sordi.


LABORATORIO ILLUSTRATORI ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]

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sabethart.com

Specializzata in pittura digitale, Sabeth, al secolo Elisabetta Lo Greco, nasce a Catania nel 1997. È un’artista poliedrica abile in tutte le tecniche pittoriche e in quelle calcografiche, con le quali si cimenta da diversi anni. È un’inguaribile romantica, con l’esigenza di esprimere amore in tutte le sue declinazioni. Spesso corredate da un piccolo testo esplicativo per dare maggiore forza espressiva, le sue illustrazioni sono spaccati di vita di coppia, momenti intimi della quotidianità.

Sono sempre stata un’inguaribile romantica, mi piace sognare a occhi aperti.

Qual è la tua formazione e quali i modelli di riferimento? Nel 2018 ho fatto la rinuncia agli studi di ingegneria per iscrivermi all’Accademia di Belle Arti di Catania. Prima di allora non avevo mai frequentato una scuola d’arte. Nonostante questo, sono cresciuta tra colori e pennelli: mio padre dipinge per hobby e ricordo che, quando ero piccola, mi mettevo vicino a lui quando realizzava un nuovo quadro. Uno dei miei modelli di riferimento è Mark Kostabi.

Da dove origina la tua ricerca e in quale direzione si sta sviluppando? Il mio obiettivo finora è stato quello di creare delle immagini dove chiunque potesse immedesimarsi. All’inizio utilizzavo la figura del manichino, ora invece cerco sempre qualche escamotage per nascondere il volto dei soggetti delle mie illustrazioni.

Come nasce la tua passione per l’illustrazione? Credo di aver sempre avuto la passione per l’illustrazione, ma ammetto di averla scoperta quando nel 2016 ho avuto il mio primo incontro con la tavoletta grafica. Quali aspetti ti interessa indagare del mondo che ti circonda? Sono molto curiosa e cerco di scoprire il più possibile osservando. Sono una persona che guarda i dettagli e mi perdo analizzando tutto ciò che mi circonda, così tanto che è da quando sono piccola che mi ripetono che sembro avere “la testa tra le nuvole”. A cosa riconduci l’inclinazione a restituire l’intimità di coppia?

NEWS

© Sabeth per Artribune Magazine

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

SABETH

Descrivi il processo creativo di una tua illustrazione. La maggior parte delle illustrazioni che ho realizzato è nata grazie a poesie o testi di canzoni che mi suscitavano la scena. Altre volte, invece, rappresento scene che mi piacerebbe vivere.

Ultimo libro letto e ultimo film visto. Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. L’ultimo film, invece, è stato Marriage Story diretto da Noah Baumbach. Cosa sogni di illustrare? Una delle mie tante aspirazioni è quella di illustrare la copertina del New Yorker. Non so ancora “cosa”, ma mi piacerebbe realizzare una illustrazione in cui chiunque possa riconoscere il mio stile. Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Sto attualmente lavorando a una graphic novel per la casa editrice New-Book Edizioni. Per il futuro spero di poter sperimentare ancora tanto nel campo artistico e un giorno poter inaugurare una mostra personale.

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2020: LA SFIDA DI MUSEI E ISTITUZIONI CULTURALI SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

Un decennio si è appena concluso. Qual è la sfida che i musei e le istituzioni culturali in Italia devono affrontare nel prossimo decennio? Lo abbiamo chiesto a presidenti e direttori di alcune tra le principali realtà pubbliche e private italiane.

TALK SHOW

KAROLE P. B. VAIL DIRETTRICE COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM – VENEZIA La sfida è dare un’offerta artistica di qualità. Credo sia fondamentale oggi per un museo proporre sempre contenuti di alta qualità, possibilmente originali e di approfondimento, che arricchiscano il visitatore. Inoltre penso sia fondamentale cercare di avvicinare anche il pubblico più giovane, magari attraverso i canali social, oggi seguitissimi da millennials e generazione Z. Non voglio dire che debbano sostituire una visita al museo, anzi, ma che possano funzionare da catalizzatore per stimolare la loro curiosità e dunque invitarli a scoprire il museo e le innumerevoli attività collaterali, gratuite. Se parliamo della Collezione Peggy Guggenheim, credo sia necessario, oggi più che mai, creare programmi originali e stimolanti per attrarre un pubblico anche legato al nostro territorio, così da cercare in qualche modo di arginare gli effetti di un turismo mordi-e-fuggi che rischia alla lunga di intaccare negativamente l’immagine di una città unica al mondo come la nostra.

settori creativi differenti ma anche tra le persone, e porre quesiti che indaghino il rapporto tra arte e società, istituzione e pubblico. In termini più generali, credo che una delle sfide principali sia continuare a far conoscere e a valorizzare la creatività italiana anche fuori dai nostri confini, facendone uno strumento di conoscenza, dialogo e diplomazia culturale, attraendo allo stesso tempo ciò che accade all’estero, in un continuo e proficuo scambio. Il Maxxi nel 2019 ha lasciato il suo segno a Beirut, al Bardo a Tunisi...

LAURA VALENTE PRESIDENTE MUSEO MADRE – NAPOLI Faccio mia la proposta di Jette Sandahl, la presidente del comitato internazionale per la definizione di “museo”: il Madre deve diventare uno spazio democratizzato e collaborare attivamente “con le diverse comunità per raccogliere, conservare, interpretare, esporre e migliorare la comprensione del mondo”. In un contesto in cui permangono alcuni modelli non più sostenibili, in tema di beni culturali, c’è bisogno di individuare nuove strategie integrate che coniughino un’offerta artistica di grande spessore con una serie di politiche di inclusione e riflessione e formazione di professionalità che saranno la classe dirigente del futuro. Penso a un Madre comunità: diffuso, attivo, condiviso, partecipato.

GIOVANNA MELANDRI PRESIDENTE FONDAZIONE MAXXI – ROMA

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La sfida principale, almeno per un museo d’arte contemporanea, è continuare a essere un luogo aperto e accessibile, protagonista del dibattito culturale e sociale del mondo in cui viviamo, in cui la creatività contemporanea e la libertà degli artisti si manifestino senza frontiere. Il nostro impegno come museo nazionale di arte e architettura contemporanee è quello di sviluppare e promuovere il confronto e la ricerca, non solo tra

sensibile, cioè di quella ricchezza che, appunto, distribuendosi, non diminuisce da una parte per aumentare dall’altra, ma che, invece, più circola e più aumenta, a beneficio di tutti. La bellezza, la riflessione critica, la conoscenza che supera i confini disciplinari e culturali, l’attitudine alla condivisione, la passione per la costruzione di identità collettive; questi sono, secondo me, i punti chiave che definiscono, nella contemporaneità e nel futuro, il sensibile. Credo che questa “distribuzione” sia un fondamentale problema di giustizia sociale, e quindi è un compito che spetta, in primo luogo, all’istituzione pubblica. In questa presenza attiva e dinamica dell’istituzione pubblica, Roma – fra Teatro di Roma, Auditorium, Maxxi e, appunto, PalaExpo – va in controtendenza rispetto, per esempio, a Milano.

CESARE PIETROIUSTI PRESIDENTE AZIENDA SPECIALE PALAEXPO – ROMA Molto semplicemente: musei e istituzioni culturali devono fare di tutto per contribuire alla distribuzione del

LORENZO BALBI DIRETTORE MAMBO – BOLOGNA La sfida è il consolidamento della rappresentazione del museo come luogo aperto e relazionale. Un ente in grado di rispondere alle esigenze culturali, etiche e sociali del pubblico, sviluppando iniziative e attività di carattere prevalentemente educativo e formativo, capaci di interpretare l’identità del proprio territorio di riferimento, di confrontarsi con espressioni e urgenze delle altre culture, diffondendo conoscenze e suscitando emozioni capaci di stimolare il dialogo e il confronto sui problemi e sui temi della contemporaneità, educando alla cittadinanza attiva e alla partecipazione consapevole. Si dovranno sviluppare strategie volte alla conquista di nuovi pubblici attraverso l’uso delle tecnologie in relazione ai nuovi tempi di fruizione degli spazi culturali, cercando di non esagerare nel caricare il lato esperienziale delle visite. Le collezioni e le mostre diventano uno strumento per creare un legame tra il visitatore e quanto gli oggetti esposti e i linguaggi degli artisti evocano e rappresentano.


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SERGIO RISALITI DIRETTORE MUSEO NOVECENTO – FIRENZE La sfida più grossa dell’arte è quella di confrontarsi e far fronte in modo sincronico e veloce alle emergenze planetarie, dall’impatto della nostra civiltà ipertecnologica e consumistica sulla Terra, all’esodo migratorio, fino all’emergere di vecchie e nuove problematiche esistenziali legate alla diseguaglianza e alla negazione dei più elementari diritti. Pensando al futuro prossimo, non si può inoltre ignorare l’incidenza sempre più ampia che potranno avere le tecnologie e lo sviluppo dell’intelligenza artificiale sulle nostre vite (anche sul nostro tempo libero), quindi la nascita di una mano d’opera robotizzata, che nell’arco di pochi

NICOLA RICCIARDI DIRETTORE ARTISTICO DI OGR – TORINO L’obiettivo credo comune a tutti i musei è quello di costruire e far crescere in misura e consapevolezza un nuovo pubblico capace di rappresentare una domanda di cultura ancora inespressa. Per farlo, oltre a stimolare la curiosità dei visitatori tradizionali, i musei dovranno puntare ad allargare il proprio bacino di fruizione potenziale, includendo una comunità al momento meno partecipe. Tuttavia – ed è questa la vera, erculea e provante sfida – dovrebbero cercare di farlo senza cedere alle lusinghe dell’intrattenimento facile. E ci vorrà molto coraggio, soprattutto in un contesto storico in cui lo spettacolo fine a se stesso è sicuramente più premiato e premiante della ricerca e della sperimentazione.

LORENZO GIUSTI DIRETTORE GAMEC – BERGAMO Due anni fa ti avrei risposto parlando della “svolta digitale”, che segna inevitabilmente la produzione artistica e i suoi luoghi di esposizione, musei in primis. Come devono cambiare i musei in relazione a questa nuova condizione? È sicuramente un grande tema. Oggi però mi

MARTIN BETHENOD DIRETTORE USCENTE PALAZZO GRASSI PUNTA DELLA DOGANA – VENEZIA È proprio per rispondere a una domanda come questa che sei anni fa abbiamo aperto il Teatrino. La questione era dare forma a un’istituzione che avesse scala umana e s’inserisse in una rete sociale e urbana in maniera armoniosa, generando nuovi significati. Dal nostro punto di vista, il valore fondamentale che un museo deve assicurare al proprio pubblico e che a Palazzo Grassi ci impegniamo a mantenere sempre crescente è l’accessibilità. Avvicinare un pubblico eterogeneo alle nostre attività sfruttando registri comunicativi e linguaggi espressivi diversi. Garantire ai più giovani la possibilità di trovare dei supporti adeguati. Utilizzare l’arte come volano per stimolare il confronto e avere un ruolo di facilitatore verso la comprensione dei temi della cultura e dell’attualità. Il museo non è più soltanto il luogo in cui si presentano opere d’arte, ma una piattaforma di incontro, scambio, che stimola il dialogo, produce contenuti, una piazza aperta alla cittadinanza in cui chiunque può trovare uno stimolo diretto.

TALK SHOW

Ricerca, collezione, rapporto con il territorio e utilizzo intelligente delle tecnologie digitali sono i quattro punti sui quali si gioca, a mio parere, il futuro dei musei italiani. L’essere un luogo di produzione di nuovi contenuti, di nuove idee che scaturiscano in particolare dal patrimonio che un museo raccoglie è la ragione fondante di un’istituzione culturale. Il patrimonio va fatto vivere, in termini creativi e di produzione di studi, e va naturalmente anche arricchito, incrementando le raccolte e definendo in tal modo un’identità specifica per ciascun museo, legata alla sua storia espositiva, al territorio, al collezionismo che ha intorno, al progetto culturale dei direttori che ne hanno guidato l’attività, senza appiattirsi su una narrazione uniforme e dominante. Le nuove tecnologie possono essere uno strumento formidabile di messa in rete delle informazioni che riguardano i musei, possono incrementare il dialogo e la collaborazione scientifica e creativa anche con realtà fisicamente lontane.

sento di dire che questa è solo una parte della sfida che i musei devono affrontare e che la prima battaglia è di tipo culturale. Si sta diffondendo l’idea che l’arte contemporanea sia una cosa “di privati”. Osserviamo le speculazioni del mercato e ci convinciamo che certi processi azzerino il valore culturale e civico dell’arte contemporanea. E allora “che se ne occupino i privati…”. Ma non possiamo cedere su questo punto in maniera ideologica. Il mercato ha le sue regole, che possiamo anche criticare, ma sulla libertà dei musei di potere agire, sperimentare, proporre e anche provocare attraverso l’arte di oggi, non possiamo avere dubbi. I musei devono potere portare avanti un’azione forte e trasparente per promuovere i più alti valori dell’arte e della creatività e per rendere l’arte sempre più aperta e popolare, senza rinunciare alla ricerca del nuovo, alla sperimentazione e alla critica.

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CRISTIANA PERRELLA DIRETTRICE CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA LUIGI PECCI – PRATO

decenni potrà creare nuove opportunità di lavoro ma anche tassi di disoccupazione sempre maggiori. Credo che anche i musei si debbano preparare a fronteggiare tutte queste emergenze ed evoluzioni, al fine di contrastare il conservatorismo e l’aumento smisurato dell’egoismo e delle paure. Da un lato occorrerà sviluppare sempre di più la sensibilità e la capacità critica di ciascuno di noi, dall’altro bisognerà aumentare in modo massiccio, quasi radicale, la presenza e il protagonismo delle donne nella lettura e nella gestione del mondo.

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LIP - LOST IN PROJECTON

NEWS

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GIULIA PEZZOLI [ registrar ]

THE FUNERAL PARTY ( GET LOW )

SERIAL VIEWER SANTA NASTRO [ caporedattrice ]

DEADWOOD

USA, 2009 | Regia: Aaron Schneider | Genere: dramedy, thriller Sceneggiatura: C. Gaby Mitchell, Chris Provenzano, Aaron Schneider, Scott Seeke | Cast: Robert Duvall, Bill Murray, Lucas Black, Sissy Spacek, Bill Cobbs, Shawn Knowles, Andrea Powell, Lori Beth Edgeman, Chandler Riggs | Durata: 101’

USA, 2004-2006 | Ideatore: David Milch Genere: western, drammatico, in costume Cast: Timothy Olyphant, Ian McShane, Molly Parker Stagioni: 3 | Episodi: 36 | Durata: 48’-60’ a episodio

Tennessee, Anni Trenta. L’ormai anziano Felix Bush, misantropo temuto in tutta la contea per i suoi modi rozzi e un passato sinistro e misterioso, decide di celebrare il suo funerale mentre è ancora in vita. Primo lungometraggio del regista statunitense Aaron Schneider (premio Oscar 2004 per il corto Two Soldiers), The Funeral Party si ispira a un fatto di cronaca accaduto nel 1938 a Roane County in Tennessee. Il film racconta la storia di Felix Bush (interpretato da un magistrale Robert Duvall) che, divorato da un profondo senso di colpa, decide di espiare i propri peccati rinchiudendosi per cinquant’anni in una prigione di muto isolamento. Lontano dalla vita sociale della sua provinciale cittadina natale, col passare del tempo Bush diventa il temibile protagonista di terribili racconti e leggende spaventose, tramutandosi, agli occhi degli abitanti della zona, in una sorta di “uomo nero”. Consapevole della immeritata fama e sentendo che la fine è ormai prossima, Bush organizza un evento in memoriam per raccontare ai suoi concittadini il segreto di un’identità perduta perché mai testimoniata. Ad aiutarlo nel folle progetto trova uno spregiudicato imprenditore di pompe funebri vicino alla bancarotta: Frank Quinn (un magnifico Bill Murray) che, attirato dal grosso quantitativo di denaro messo a disposizione da Bush, si trasforma in un promotore di eccezionale talento. E così, mentre la folla radunatasi per la stravagante cerimonia attende impaziente l’ultima durissima gogna per il vecchio eremita, è lui a lasciare tutti, noi inclusi, senza parole. Sebbene sia rimasta nascosta al grande pubblico per quasi una decina di anni, The Funeral Party è un’opera che appare, sin dai primi minuti, toccante e incredibilmente ben scritta. Aaron Schneider ci immerge negli ostili paesaggi montani del sud-ovest degli Stati Uniti, nell’America puritana degli Anni Trenta, dove peccato e colpa sono ancora indissolubilmente intrecciati a pregiudizio e paura. È qui, tra alberi secolari e piccoli insediamenti rurali, che si dipana la storia di un dolore mai superato e di una vita perduta. Attraverso un cast d’eccezione (da Duvall a Murray alla Spacek) e una sceneggiatura intelligente, The Funeral Party raggiunge momenti poetici di incredibile bellezza, senza cadere nella scontata trappola del melodramma.

Nel 2019 è uscito su Sky Atlantic Italia Deadwood: the movie, diretto da Daniel Minahan e scritto da David Milch. Gli affezionati lettori di questa rubrica si chiederanno: come mai su serial viewer si parla di un film? Perché questa produzione, realizzata per la televisione, è stata concepita come l’episodio conclusivo di una “seriona” by HBO andata in onda tra il 2004 e il 2006. Una storia strana, quella di questa creatura di David Milch: un grande successo di pubblico, riconoscimenti, il plauso della critica. Eppure, dopo la terza stagione e in attesa di cominciare i lavori per la quarta, Deadwood è stata interrotta, vai un po’ a capire perché, lasciando orfani e inconsolabili milioni di fan. Lo scorso anno, tredici anni dopo nella realtà, e undici anni dopo nella finzione, arriva questo film che cerca in qualche modo, e bisogna dire con grande rispetto della serie e dei personaggi (ma non sempre con lo stesso mordente), di rimettere le cose a posto. Ambientata nel 1876, subito dopo la battaglia di Little Bighorn, nel selvaggio west, Deadwood è un cantiere aperto, una città nascente di pionieri e delinquenti, avventurieri di frontiera e prostitute, ma anche di gente in cerca di una nuova opportunità. La vita della comunità ruota intorno al Gem, il saloon di Al Swearengen, interpretato da uno sfolgorante Ian McShane. La sua nemesi è l’ex sceriffo Seth Bullock, interpretato da Timothy Oliphant, con cui Al instaura un rapporto di odio-rispetto. In città arrivano inoltre il cercatore d’oro Wild Bill Hickok con Charlie Utter e Calamity Jane, l’imprenditore ebreo di origine tedesca Sol Star e l’imprenditore George Hearst. Molti aspetti della serie sono naturalmente romanzati e seguono un preciso filone narrativo (alcuni personaggi sono di invenzione, ad esempio la magnifica prostituta Trixie), ma tutte le sopra citate figure sono realmente esistite – come la stessa cittadina di Deadwood – e fanno parte dell’epopea dei pionieri negli Stati Uniti. La ricostruzione è strabiliante, l’atmosfera è avvolgente, la narrazione tiene col fiato sospeso. E francamente il prodotto, dopo tredici anni, non risulta per nulla datato. Anzi, come il vino, è invecchiato proprio bene.


FotoFest Biennial 2020. A Houston una delle più grandi mostre mondiali di fotografia africana

La musica che verrà. I 5 top sonori tra dischi, live e festival più attesi nel 2020

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ALVIN CURRAN Il Bristol New Music Festival torna in UK per la sua quarta edizione dal 23 al 26 aprile. Tra i primi nomi annunciati figura il leggendario musicista e compositore statunitense Alvin Curran, che ha in serbo una speciale installazione-performance. SPERANZA Nel 2020 uscirà il primo disco del rapper casertano Speranza, nome d’arte di Ugo Scicolone. Nato in Francia, Speranza ha rivoluzionato la scena musicale italiana portando la sua semplicità sul palco e riportando in auge il rap campano. RAMMSTEIN Toccheranno anche il nostro Paese i tedeschi Rammstein, portando uno spettacolo industrial/metal che avrà come unica data quella del 13 luglio presso lo Stadio Olimpico Grande Torino. Previsti fuoco e fiamme. IOSONOUNCANE Dopo cinque anni dal capolavoro DIE, Iosonouncane tornerà con IRA, album preceduto da sette date che attraverseranno – la prossima primavera – il nostro Paese, da Milano a Napoli, passando per le OGR di Torino il 4 aprile con un concerto in collaborazione con ToDays Festival e Panico Concerti. SIMONE VALLEROTONDA Ci sarà anche il liutista romano Simone Vallerotonda nelle celebrazioni del quinto centenario della morte di Raffaello Sanzio. Punctum contra punctum. Simmetrie e visioni nel Rinascimento italiano affronterà l’importante Raffaello Tour internazionale, organizzato dal CIDIM – Comitato Nazionale Italiano Musica.

Il disco relazionale di ALEX CREMONESI riffrecords.it

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Alex Cremonesi. Photo © Simone Cargnoni

Alessandro o Alex Cremonesi, fondatore e autore di molti testi dei La Crus, ci ha abituati a progetti molto particolari e raffinati: da Canzoni Invisibili, uscito per Moleskine, a Vinyl in Canvas, oggetto d’arte da esporre in galleria, è un susseguirsi di lavori dove l’estetica relazionale si fonde con la musica. Anche il suo ultimo disco uscito per Riff Records, La Prosecuzione della Poesia con Altri Mezzi, pensato con modalità più vicine all’arte contemporanea che al tradizionale approccio discografico, non fa eccezione. Per realizzarlo ha invitato trentasei tra musicisti e cantanti – Bienoise, Lagash dei Marlene Kuntz, Riccardo Sinigallia, Max Casacci dei Subsonica, fino a Howie B, il produttore scozzese noto per le collaborazioni con Björk, U2 e Tricky – a mandare il loro contributo. “Ho chiesto loro un frammento sonoro, un loop, scelto a proprio totale piacimento, senza alcun vincolo”, ci spiega Cremonesi. “Agli interpreti vocali ho suggerito di interpretare altrettanto liberamente uno a loro scelta fra cinque brevi testi ispirati alla psicoanalisi”. Poi il suo lavoro di mash-up ha fatto il resto, dando origine a diciassette brani elettronici dal sapore cantautorale. “L’essenza di questo tipo di pratica risiede nell’invenzione di relazioni fra i soggetti, nel metterci ‘laddove non eravamo’; nell’inventare incontri possibili”, continua Cremonesi. “Se per ‘Orfeo’ Edda avesse ascoltato il giro di synth di Davide Arneodo non avrebbe mai cantato il testo a quel modo; viceversa, se Davide avesse ascoltato la voce di Edda mai e poi mai avrebbe tirato fuori quella frase di synth per accompagnarla! In questo mi è piaciuto richiamare la frase di Miró secondo il quale ‘è la materia a dettare l’opera’”. Una citazione che compare anche nel manifesto poetico, contenuto nel packaging del disco: un’edizione numerata di 250 copie assemblate “sartorialmente” dallo stesso musicista, ideatore di grafica, lettering, foto delle cartoline e della cover, con l’immagine di Orfeo ed Euridice seduti fuori fuoco. A latere, un contributo video dei Masbedo. “Farà parte di una installazione intitolata ‘Il silenzio non esiste’ che verrà presentata a Torino in una mostra alla galleria di Riccardo Costantini dal 6 febbraio; il video sarà abbinato a una versione remix di Orfeo 2, con un featuring tra Lorenzo Monguzzi e Alessandra Bossa”, conclude Cremonesi, che, sempre a febbraio, il 22 del mese, ancora sotto la Mole, sarà protagonista della performance Fari di preghiera, in prima assoluta al Museo Ettore Fico. L’azione focalizzata sul mondo della scrittura produrrà una serie di opere poetiche che saranno inserite nell’edizione speciale del suo disco in vinile.

NEWS

CLAUDIA GIRAUD, BIANCA FELICORI, VALERIO VENERUSO

CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]

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CLAUDIA GIRAUD L Sarà l’Africa al centro della più longeva biennale internazionale di fotografia e arte dei nuovi media negli Stati Uniti. Stiamo parlando di FotoFest Biennial 2020 che, per la sua 18esima edizione in programma a Houston dall’8 marzo al 19 aprile, si concentrerà sugli artisti africani e sulla loro diaspora: un’assoluta novità per la rassegna che, per la prima volta in 37 anni di storia, dedicherà la mostra centrale a fotografi di origine africana. A cura di Mark Sealy, direttore della rinomata agenzia di arti fotografiche senza scopo di lucro con sede a Londra, Autograph ABP, dedicata a mettere in evidenza questioni di identità, rappresentazione, diritti umani e giustizia sociale, African Cosmologies. Photography, Time, and the Other è una mostra collettiva che considera la storia della fotografia come strettamente legata a un progetto coloniale e alla produzione di immagini occidentali, mettendo in evidenza gli artisti che affrontano e sfidano questo lignaggio miope, anche se canonizzato. “La mostra propone una esplorazione cosmologica dell’Africa e la diaspora africana, sfidando la facile categorizzazione e i confini spaziali e temporali”, spiega Mark Sealy, curatore, scrittore e produttore culturale britannico con uno speciale interesse per il rapporto tra fotografia e cambiamento sociale, politica dell’identità e diritti umani. “In breve, esplora le nozioni stesse di africano e africanità oltre le tradizionali linee geografiche e storiche”. fotofest.org/biennial2020

ART MUSIC

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APP.ROPOSITO SIMONA

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CARACENI [ docente di virtual environment ]

2019-2020: fiere sì, fiere no. Tutti gli scossoni DESIRÉE MAIDA NADA Ha annullato l’edizione di New York per aprire una nuova fiera a Chicago. L’iniziativa newyorchese sarà sostituita da New York Gallery Open, finalizzata a portare il pubblico all’interno delle stesse gallerie. newartdealers.org

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SAMSUNG GOOD VIBES

L’accessibilità è un pianeta che ho studiato per molti anni e sono sempre rimasta insoddisfatta per le soluzioni che via via vengono proposte per aggirare il problema o per tentare non di risolverlo, ma di “metterci una pezza”. Ci prova anche Samsung, ma in una maniera che non credevo potesse promettere tanto, sia per semplicità di galaxystore.samsung.com utilizzo, diffusione ed economicità di scala free della piattaforma, sia per come sfrutta le Samsung Galaxy tecnologie in modo estetico. Samsung Good Vibes è in aiuto di chi è cieco, o meglio sordo-cieco, permettendo di comunicare, in una certa qual maniera, con lo smartphone. Si appoggia al codice Morse ma permette le interazioni in linguaggio mediato, traducendo anche quel linguaggio in maniera comprensibile per chi ha imparato a vedere e sentire e per il quale certe aree del cervello preposte alla comunicazione funzionano in modo diverso. Promette di consentire un uso completo di uno smartphone. Ma soprattutto promette ai sordo-ciechi una via di comunicazione. Tommy avrebbe giocato meglio a flipper, secondo voi?

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SUBPAC

L'rtista sordo per eccellenza è stato Beethoven, ed è sempre strabiliante pensare a tutta quella musica immaginata e mai ascoltata dal suo stesso compositore. La realtà virtuale associata ai wearable gli sarebbe stata di grande aiuto, come a tutti quegli artisti che vorrebbero esplorare meglio il suono. Subpac è un nuovo device subpac.com in grado di trasformare le vibrazioni crea € 339 te dai suoni in una sensazione tattile, promettendo risultati davvero sbalorditivi. Si percepisce il suono attraverso il tatto, ma anche grazie a interfacce aptiche che stimolano aree particolari del corpo, e a livello delle ossa, soprattutto grazie al fatto che il device non rappresenta e riproduce solo le frequenze dell'udibile umano, ma anche altre frequenze che non sentiamo ma forse percepiamo in altre zone sensibili.

L RELUMINO

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Relumino permette una visione, in esterno e in tempo reale, agli ipovedenti, anche molto gravi, grazie al potere della tecnologia. Abbinato al visore della Gear, consente un’annotazione artificiale dell’immagine, migliorando contorni, virando colori, saturazioni, luminosità e altro ancora. Grazie a banche dati descrittive e intelligenza artifi samsungrelumino.com ciale, e soprattutto grazie alla velocità delle free Reti che assicurano un dialogo di così tan Samsung Gear ti dati in tempo reale, la visione potrebbe essere migliorata anche per chi ha occhi di falco, permettendo una nuova lettura delle immagini. Chissà se le banche dati sono anche tarate sulle opere d’arte, per permettere un corretto riconoscimento dell’immagine. Ma soprattutto la semplicità di utilizzo rischia di rendere Relumino la killer application che farà abbandonare gli occhiali all’intero Pianeta.

INDEPENDENT La fiera originaria della Grande Mela, dopo tre edizioni ha dovuto cancellare la tappa di Bruxelles, ma ha trovato una occasione di rilancio collaborando con Object & Thing, fiera dedicata al design del XX e del XXI secolo. independenthq.com ART BASEL Il colosso svizzero ha annullato uno degli eventi più attesi del 2020, Art Basel Inside, summit culturale che dal 14 al 16 febbraio avrebbe dovuto svolgersi ad Abu Dhabi. artbasel.com ART BERLIN Nata nel 2017 dall’unione di Art Cologne, la più antica fiera del mondo, e abc art berlin contemporary, associazione di galleristi creata per promuovere il mercato dell’arte contemporanea nella capitale tedesca, art berlin è stata annullata dalla casa madre Koelnmesse. artberlinfair.com ARTGENÈVE Continua a crescere la fiera diretta da Thomas Hug, di cui, dal 30 gennaio al 2 febbraio a Ginevra, si svolge la nona edizione. Nel 2016 infatti la rassegna svizzera ha inaugurato un suo avamposto “primaverile” nel Principato di Monaco, artmonte-carlo. A questi appuntamenti si aggiunge una nuova coppia di fiere: artmoscow e artmoscow/curated, in programma dalla prossima primavera 2020. artgeneve.ch

NECROLOGY JOHN BALDESSARI 17 giugno 1931 - 2 gennaio 2020

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SHOZO UEHARA 6 febbraio 1937 – 2 gennaio 2020

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CARLO QUARTUCCI 29 novembre 1938 – 31 dicembre 2019

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EMANUEL UNGARO 13 febbraio 1933 – 22 dicembre 2019

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CLAUDIO OLIVIERI 28 novembre 1934 – 16 dicembre 2019

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TERRY O’NEILL 30 luglio 1938 – 16 novembre 2019

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PANAMARENKO 5 febbraio 1940 – 14 dicembre 2019

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PHASE2 1958 – 13 dicembre 2019

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MARIA PEREGO 8 dicembre 1923 - 7 novembre 2019


DIGITAL MUSEUM

MARIA ELENA COLOMBO [ museum & media specialist ]

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museoegizio.it

da tre giovani talentuose (Chiara Del Prete, Virginia Cimino e Divina Centore), una delle quali è una “egittologa prestata alla comunicazione”. Hanno una grande sensibilità rispetto all’identità del museo e appartengono a una generazione che maneggia con competenza e naturalezza i mezzi digitali.

Torna in Italia la rubrica dedicata al rapporto fra musei e digitale. Per parlare con un’eccellenza come il Museo Egizio di Torino. Alla direzione generale c’è Christian Greco, mentre qui parla la direttrice di Comunicazione e Marketing, Paola Matossi.

Come si integrano online e offline? La comunicazione online e offline integra sia il messaggio sia i risultati poiché il pubblico stesso sceglie sulla base di sollecitazioni che gli giungono da media sempre più differenziati. Devo dire che “le voci” del Museo Egizio sono un potente mezzo di comunicazione: la presidente Christillin e il direttore Greco sono due formidabili ambasciatori, che esprimono grande versatilità nell’interazione con i nuovi media. Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia della comunicazione digital e social? Crediamo che un museo archeologico debba avere la cultura materiale al centro del suo sviluppo, tenendo fermo il tema dell’accessibilità. La digitalizzazione è uno strumento che aiuta a superare alcune barriere. La messa online delle nostre collezioni ha consentito di sviluppare un nuovo rapporto con il pubblico: non sostituisce in alcun modo l’esperienza fisica ma consente di prepararla, approfondirla e prolungarla anche successivamente, magari condividendola con gli amici.

Condividere la visita di un museo o di una mostra è un’esigenza storica e attualissima e, per quanto concerne i consumi culturali, oggi sembra far parte dell’esperienza stessa. L’uso del digitale ha incrementato le possibilità. Il museo cerca di mantenere un rapporto umano con i nostri pubblici, cercando di coinvolgerli, e cercando di garantire una continuità tra il racconto che si trova sul digitale e quello che si trova in museo. Ci parli del progetto della collezione online con licenza Creative Commons? Il direttore Greco ha fortemente voluto la possibilità di far circolare liberamente le immagini delle collezioni. Il Museo Egizio custodisce una collezione che è patrimonio dell’umanità, ci piace sottolineare che appartiene a tutti e, anche nella gestione delle immagini, abbiamo voluto esprimere con forza questo messaggio. La collezione online dà accesso alla quasi totalità dei reperti esposti (circa 3.300) nelle sale del Museo Egizio. Le immagini dei reperti sono liberamente utilizzabili sotto licenza Creative Commons 2.0. Che competenze deve avere chi si occupa di comunicazione digitale in un museo o in un’istituzione culturale? Le competenze necessarie sono molteplici. È indispensabile conoscere bene il contenuto e, di conseguenza, unire a questo competenze di storytelling (in questo caso digitale). Nel mio gruppo di lavoro la comunicazione digitale è gestita

Come valuti l’andamento e l’efficacia delle comunicazioni online per il Museo Egizio? Lo metti in relazione diretta con l’afflusso fisico dei pubblici? Cosa intendi per partecipazione? Abbiamo scelto di essere presenti su YouTube, Facebook, Twitter, Instagram e LinkedIn, con strategie diverse per ogni canale, in modo da garantire una comunicazione transmediale ma “omnicanale”, il più possibile inclusiva. L’analisi dell’efficacia della comunicazione è sia quantitativa sia qualitativa, dove è possibile fare questo tipo di analisi (ad esempio Facebook, Google+ o Trip Advisor). Ci ispiriamo ai principi dell’etnografia digitale per capire la percezione del museo e della collezione, gli eventuali interessi dei nostri pubblici e indagare abitudini usi e costumi in Rete, anche in ambiti non necessariamente legati al mondo dei musei o dell’archeologia. Sicuramente l’analisi delle comunicazioni online, soprattutto quelle legate alle attività e agli eventi, ha una stretta relazione con l’afflusso “fisico” di pubblico, ma esiste anche un pubblico “digitale” appassionato di antico Egitto con il quale è altrettanto importante instaurare una relazione. Sul piano della partecipazione cerchiamo di creare delle community aumentando il senso di appartenenza alla nostra istituzione. Un libro da consigliare ai colleghi. Quello che trovi più ispirante. Ho lavorato per più di quindici anni come Marketing Manager di brand di largo consumo. All’inizio mi sembrava dissacrante accostare quel mercato a quello culturale e ho affrontato la comunicazione con pudore reverenziale; oggi la mia visione è molto più pragmatica: i risultati derivano dalla qualità dell’offerta. Osservare i visitatori (esattamente come osservavo i consumatori) mi è stato ed è estremamente utile anche al Museo Egizio. Per questa ragione consiglio un libro che mi è molto caro: Small Data di Martin Lindstrom.

NEWS

Quanto conta la comunicazione digitale e lo sviluppo sul digitale in un museo? E per il Museo Egizio di Torino? I musei non sono monadi – come ricorda spesso il Direttore Christian Greco – ma abitano dei luoghi e dei contesti sociali e culturali e sono chiamati a riflettere e interrogarsi sui cambiamenti in atto. Un cambiamento importante in termini di percezione deriva proprio dai musei, da come oggi interpretano il ruolo attivo all’interno della società. Un museo che conta più di 850mila visitatori l’anno è un osservatorio privilegiato e in questi tredici anni (da quando ricopro l’incarico al Museo Egizio) ho visto una notevole evoluzione dei consumi culturali e una richiesta crescente di trasformare la visita in una esperienza, preferibilmente personalizzata per i differenti target.

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PAOLA MATOSSI L’ORSA

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VALENTINA TANNI [ caporedattrice new media ]

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Hey Robot

Giocare a Taboo con uno smart speaker

QUESTO NON È UN LIBRO Un libro che si trasforma in una macchina fotografica funzionante. This Book is a Camera è una pubblicazione pop-up sorprendente progettata da Kelli Anderson, designer specializzata in libri che “diventano qualcos’altro”. Per chi voglia cimentarsi nell’impresa, è disponibile anche il template cartaceo da scaricare. kellianderson.com $ 27

COSE

LA MUSICA TRA LE DITA

Gli Specdrums sono anelli in plastica che trasformano i colori in musica semplicemente toccando la superficie degli oggetti. Tutto il mondo può così trasformarsi in uno strumento, permettendovi di creare musica ovunque, anche grazie alla app collegata.

Statistiche recenti hanno stimato che, soltanto negli Stati Uniti, i possessori di uno smart speaker sono più di quaranta milioni. Device come Amazon Alexa e Google Home stanno entrando a far parte della dotazione tecnologica standard di moltissime case moderne, assolvendo a una quantità di funzioni sempre crescente. Si basa su questa consapevolezza Hey Robot, un gioco da tavolo che si può utilizzare solo in presenza di un assistente virtuale, che diventa un partecipante vero e proprio. Progettato da Everybody House Games, piccola società americana a gestione familiare che produce giochi e app, Hey Robot ha un solo scopo: far pronunciare una specifica parola allo smart speaker, ovviamente senza utilizzarla. “È un po’ come Codenames o Taboo, ma l’amico con cui stai giocando ha un’enciclopedia ed è anche molto, molto ubriaco”, scherzano gli autori, che per realizzare il gioco hanno messo in piedi una riuscita campagna di crowdfunding raccogliendo oltre 30mila dollari. “Siamo sempre stati ossessionati dai giochi da tavolo ma anche dal trovare modi divertenti di usare la tecnologia nella vita quotidiana. Hey Robot nasce dall’intersezione tra questi due interessi, oltre che il risultato di mesi di prove per cercare di inventare attività buffe da fare con il nostro Alexa”, spiegano. everybodyhousegames.com $ 30

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L MALEDETTE RIUNIONI Una candela da accendere durante le odiate riunioni in ufficio. Il sottotitolo della Candle for Fucking Meetings, davvero irresistibile, recita: “Odora come se questa cosa potesse essere fatta via e-mail”, ironizzando sulla perdita di tempo provocata dai (tanti) meeting non necessari. whiskeyriversoap.com $ 19,95


WARHOL INVISIBILE Nel 1985 Andy Warhol creò a New York la mitica The Invisible Sculpture, una scultura concettuale che consisteva in un piedistallo vuoto con didascalia sul quale l’artista era brevemente salito per poi abbandonarlo. Kidrobot ha ricreato la storica performance, trasformandola in un diorama da tavolo.

#53 GENNAIO L FEBBRAIO 2020

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PICCOLE ARCHISTAR CRESCONO

CIGNI SENZA TESTA I gonfiabili giganti sono stati uno dei trend della scorsa estate. Cigni, fenicotteri, papere e altri animali hanno fatto bella mostra di sé in migliaia di post di Instagram scattati al mare e in piscina. La versione ironica che davvero ci mancava, però, è quella che li vede buffamente decapitati.

Un’alternativa ai classici Lego, perfetta per figli e nipoti di architetti. Il set da 105 pezzi di ARCKIT contiene tutto il necessario per costruire una casa in stile moderno, con numerose opzioni di customizzazione. Per coltivare il talento delle future archistar sin dalla tenera età.

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ARTE IRRITANTE

COSE

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Non sbaglia un colpo, David Shrigley. L’artista inglese, famoso per i suoi disegni semplici e taglienti, dal tratto infantile, ha messo in vendita sul sito Third Drawer Down la maglietta Art Irritates the Eye, in cui l’arte viene ironicamente paragonata a un collirio irritante. thirddrawerdown.com $ 55

LO SMARTPHONE URLANTE

IL MAGICO MONDO DI YAYOI

L’Urlo di Edvard Munch è uno dei dipinti più famosi al mondo. L’inconfondibile volto del suo protagonista, un uomo che grida sullo sfondo di un tramonto infuocato, è apparso su magliette, tazze e spillette. Il gadget più riuscito però è questa elegante custodia per cellulare di 2-LA DESIGN.

Yayoi Kusama è una delle artiste contemporanee più amate al mondo, apprezzata in egual misura da pubblico e critica. Fra i tanti accessori per la casa e per l’abbigliamento ispirati alla sua arte, spiccano per eleganza queste bellissime boule de neige in edizione limitata vendute sul sito del MoMA di New York.

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DURALEX RAFFAELLA PELLEGRINO [

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GENNAIO L FEBBRAIO 2020

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UTILIZZAZIONE ARTISTICA DI MATERIALE PROTETTO: QUANDO È LECITO? Una pratica artistica molto diffusa è quella di utilizzare opere o elementi artistici preesistenti per la creazione di nuove opere d’arte. Gli esempi sono numerosi: si va dalla mera condivisione di principi riconducibili a un determinato movimento artistico e il conseguente utilizzo di canoni artistici condivisi, alla riproduzione ed elaborazione creativa di opere o di parti di opere altrui all’interno di nuove creazioni. Sul piano giuridico si può parlare, nel primo caso, di utilizzazione di elementi di pubblico dominio, in quanto tali liberamente utilizzabili da chiunque; nel secondo caso, di possibile violazione del diritto d’autore e di opere che possono presentare delle “criticità”. I casi portati all’attenzione dei giudici sono numerosi, più o meno noti. Un caso giurisprudenziale recentemente definito con sentenza del giudice distrettuale di New York (luglio 2019) è quello che ha visto coinvolti la Fondazione Andy Warhol e la fotografa Lynn Goldsmith per (presunta) violazione dei diritti d’autore su alcune fotografie realizzate dalla Goldsmith e utilizzate da Andy Warhol per la creazione delle Princes Series. Il tema principale oggetto di esame è se l’uso delle fotografie da parte di Warhol nell’ambito di autonome e iconiche creazioni artistiche costituisce violazione del diritto d’autore della fotografa oppure se la condotta di Warhol è lecita in base al fair use. Secondo la dottrina americana del fair use, l’uso di materiale protetto per determinati fini (critica, insegnamento ecc.) non costituisce violazione del diritto d’autore quando ricorrono quattro condizioni, da accertare caso per caso. Per stabilire se l’utilizzazione di opere altrui senza il preventivo consenso è libera occorre esaminare in concreto i seguenti fattori: lo

Intesa Sanpaolo apre a Torino il quarto polo delle Gallerie d’Italia

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avvocato esperto in proprietà intellettuale ]

scopo e il tipo di uso, incluso l’uso eventualmente commerciale o per fini educativi senza fini di lucro; la natura dell’opera protetta da copyright; la quantità di opera utilizzata (utilizzazione di tutta l’opera o di parte di essa); l’effetto dell’uso sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta da copyright. Al termine del procedimento, sulla base di una valutazione complessiva dei predetti fattori, il Tribunale distrettuale ha accertato che Andy Warhol non ha violato il copyright della fotografa Goldsmith, poiché giustificato dall’eccezione di fair use di contenuti protetti altrui. Questa sentenza si pone nel solco di un orientamento interpretativo statunitense secondo cui queste forme artistiche sono lecite in base al fair use. Malgrado la riaffermazione di tale orientamento, si tratta di casi di non facile e certa soluzione: basti pensare alla controversia tra il fotografo francese Patrick Cariou e l’artista Richard Prince, condannato per violazione del diritto d’autore, non sussistendo le condizioni per il fair use. Un aspetto non esaminato da questa sentenza è quello relativo all’immagine della persona fotografata, che costituisce una posizione giuridica da prendere in esame. In altre parole, quando si utilizzano ritratti fotografici di terzi, anche se per fini artistici, occorre chiedersi se sia necessario o meno il consenso della persona fotografata, unitamente all’eventuale consenso del fotografo che ha realizzato lo scatto. Ancora una volta la soluzione è affidata all’applicazione della legge, ma soprattutto all’esame del caso concreto e delle tante sfumature che possono rendere imprevedibile l’esito di una causa.

Tornando a Palazzo Turinetti: il cantiere del progetto architettonico, affidato a Michele De Lucchi con AMDL Circle, sarà aperto nei prossimi mesi, con una durata prevista di un paio d’anni. Gli interventi riguarderanno tre livelli: il piano nobile, con le sale storiche, che saranno dedicate principalmente all’esposizione della collezione; il pianterreno, con l’apertura di una caffetteria sul cortile interno; e soprattutto la quota che va dal piano stradale al terzo piano interrato, cuore del progetto. Vi si accederà tramite uno scalone, dando accesso all’area di accoglienza e alle prime sale, per poi scendere ai livelli ipogei, dedicati ad area espositiva. E se ognuna delle sedi, oltre a ospitare mostre temporanee, ha una propria specificità, Palazzo Turinetti sarà consacrato in prevalenza alla fotografia e alla videoarte, avendo come cuore pulsante lo sterminato archivio dell’agenzia Publifoto – un patrimonio di 7 milioni di scatti che copre l’arco temporale dagli Anni Trenta ai Novanta del XX secolo, salvato dalla dispersione proprio da Intesa Sanpaolo, che lo ha recentemente acquisito in blocco. Quanto alle rassegne temporanee, saranno anch’esse focalizzate sulla fotografia, coinvolgendo professionisti del settore (in sala, durante la conferenza stampa, si è ad esempio notata la presenza di Giovanni Gastel) e facendo sinergia con Camera – Centro Italiano per la Fotografia (col quale la banca ha già collaborato, in ultimo con la mostra Nel mirino, prima ricognizione proprio dell’Archivio Publiphoto) e con la neonata fiera The Phair, ideata e fondata da Roberto Casiraghi.

MARCO ENRICO GIACOMELLI L Sarà il salotto buono di Torino, ovvero Piazza San Carlo, la cornice che ospiterà il quarto polo delle Gallerie d’Italia, il mastodontico progetto culturale promosso dal gruppo bancario Intesa Sanpaolo – per intenderci, parliamo di una collezione composta da oltre 30mila opere, con 20 palazzi di pregio sparsi per la Penisola e 500mila visitatori nei tre musei durante il 2019. E così, dopo Vicenza (Palazzo Leone Montanari, inaugurato nel 1999 e rinnovato nel 2004), Napoli (Palazzo Zevallos Stigliano, aperto nel 2007, anch’esso rinnovato nel 2014 e a breve – la notizia l’ha data il Presidente Emerito Giovanni Bazoli – destinato a cedere il passo a una nuova sede) e Milano (Piazza Scala, inaugurato alla fine del 2011 e, fino al 15 marzo, luogo in cui vedere la straordinaria mostra Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna), Palazzo Turinetti sarà il nuovo museo del progetto Gallerie d’Italia. Tutto ciò al netto del grattacielo di Torino, progettato da Renzo Piano e aperto nel 2015, che al 35-36esimo piano ha ospitato alcune edizioni della rassegna L’Ospite illustre, in ultimo con la Madonna di Alzano di Giovanni Bellini, esposta in concomitanza con le prime settimane di apertura della mostra sul Mantegna in corso fino al 4 maggio a Palazzo Madama, promossa da Fondazione Torino Musei insieme Gallerie d'Italia, Palazzo Turinetti, Torino, sala espositiva © AMDL Circle proprio a Intesa Sanpaolo.

gallerieditalia.com


OSSERVATORIO NON PROFIT a cura di DARIO

MOALLI [ critico d'arte ]

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numerocromatico.com

La scienza può misurare, interpretare, comprendere cosa succede nel nostro cervello nella percezione di opere d’arte? È possibile quantificare l’emozione durante l’osservazione o l’ascolto di opere artistiche, come quadri, sculture, opere letterarie e musicali? L’artista può impostare la propria ricerca su basi sperimentali? In un prossimo futuro cambierà il nostro giudizio sul bello o si tratta di un valore assoluto?Attraverso la propria attività, Numero Cromatico cerca di rispondere a queste domande. Si tratta di un centro di ricerca fondato a Roma nel 2011 da ricercatori provenienti da diversi ambiti disciplinari, dall’arte alle neuroscienze. Si tratta di un gruppo volutamente ibrido, nato per affrontare un ambito di ricerca ancora molto giovane. In otto anni è stata prodotta una fitta attività, partendo dalla ricerca scientifica fino alle pubblicazioni, le mostre, le conferenze, e seminari, laboratori, performance ed eventi. Dal 2018 la sede operativa del centro si trova a Roma, in via degli Ausoni 1, all’interno dell’Ex Pastificio Cerere, uno dei luoghi simbolo dell’arte nella Capitale. La volontà dei fondatori è stata, sin dall’inizio, quella di studiare in maniera approfondita e rigorosa i meccanismi della percezione e dare un nuovo slancio alla discussione estetica attraverso gli strumenti dell’estetica sperimentale, della psicologia dell’arte e della neuroestetica. In otto anni l’attività del gruppo è stata espressa su diverse direttrici: ricerca, editoria, formazione, eventi. Numero Cromatico è anche editore della rivista Nodes, unico

periodico in Italia sulla relazione fra arte e neuroscienze. Alla rivista hanno partecipato artisti e neuroscienziati di tutto il mondo: Sergio Lombardo, David Freedberg, Anjan Chatterjee, Fabio Mauri, Semir Zeki, Alberto Oliverio, Cesare Pietroiusti, Eric R. Kandel, Carlo Bernardini, Maurizio Mochetti, Michelangelo Pistoletto, Antonio Rezza, Jean-Pierre Changeaux, Elizabeth Seckel, Vilayanur S. Ramachandran, Mengfei Huang, Andrew J. Parker, solo per citarne alcuni. La cosa bella della scienza è che genera sempre ulteriori domande e possibilità di sviluppo, non solo per chi ha condotto l’esperimento ma per l’intera comunità scientifica. Si tratta di una cosa difficile da far comprendere agli artisti o a chi pensa all’arte come frutto della genialità del singolo. Un approccio scientifico alla ricerca artistica, un approccio così avanguardistico, pone le basi per un’apertura interdisciplinare ma anche e soprattutto per una nuova fase di discussione teorica. Gli scenari futuri sono infiniti e imprevedibili, e compito degli artisti, secondo Numero Cromatico, è porsi questioni teoriche prima che formali, facendo sì che l’arte sia nuovamente portatrice di valori culturali e teorici capaci di dare senso al nostro futuro. Numero Cromatico è stato insignito ad ArtVerona 2019 del Premio i10 – Spazi Indipendenti con la seguente motivazione: “Per l’originalità dell’area di ricerca individuata che incrocia arte e scienza, il rigore dell’analisi e la capacità di dialogare con soggetti istituzionali di alto profilo, che spingono la ricerca artistica verso nuovi territori”.

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Il booth ad ArtVerona 2019. Photo Skymind Images

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NUMERO CROMATICO

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GESTIONALIA

IRENE SANESI [ dottore commercialista ]

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PROFIT O NON PROFIT? SEMPLICEMENTE BENEFIT Sono ancora pochi a conoscere la presenza nella normativa italiana delle società benefit. Regolamentate dalla Legge del 28 dicembre 2015 n. 208, Commi 376-384, vengono introdotte (l’Italia è la prima in Europa: ogni tanto qualche felice primato) sulla scia delle B-corporation americane. Con l’istituzione delle Società Benefit (SB) si è cercato in qualche modo di superare il dualismo (e anche la tradizionale distinzione) fra “profit” e “non profit”. Nel caso di specie infatti viene introdotto all’interno di società profit uno scopo di beneficio comune (ambientale, sociale, culturale). Si assiste da tempo a una crescente ibridazione tra modelli: si pensi a quanto sta accadendo nel mondo degli enti non profit con l’impresa sociale che istitutivamente nasce come habitus fiscale per i redditi di natura commerciale. Così con le società benefit: costituite sotto forma di società di persone, società di capitali o società cooperative, possono prevedere nello statuto, accanto all’attività economica finalizzata al profitto, una o più finalità di beneficio comune, operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni e attività culturali e sociali, enti e associazioni e altri portatori di interesse.

valorizzazione del territorio, investendo nell’arte contemporanea italiana al fine di creare un polo di riferimento nel contesto partenopeo. A questo si unisce uno sguardo attento sulla scena internazionale, con l’obiettivo di creare relazioni e momenti di scambio anche oltre la Penisola.

nuovo spazio

galleria marrocco Napoli

Via Benedetto Croce 19 (Palazzo Venezia)

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Via Toled o

393 9852439 info@galleriamarrocco.it galleriamarrocco.it

Come la riforma del terzo settore e dell’impresa sociale introduce l’obbligo del bilancio sociale, in parallelo, per le SB la norma prevede a fianco del bilancio una relazione specifica sullo scopo benefit e adeguati indicatori di impatto (BIA – Benefit Impact assessment) da pubblicare sul sito Internet. Tutto curato da un responsabile cui affidare funzioni e compiti volti al perseguimento delle finalità di beneficio comune. Al momento sono ancora poche le SB in Italia e la maggior parte ha scelto uno scopo ambientale e sociale. La cultura come scopo benefit si sta timidamente affacciando e personalmente la considero oggi una delle sfide del prossimo futuro. Nell’ultima Assemblea AICI – Associazione delle Istituzioni di Cultura Italiane, svoltasi alcune settimane fa a Firenze, ho chiuso il mio intervento con un auspicio: “Sarebbe bello che domani nascessero tante società benefit quante sono le istituzioni culturali italiane. Non è impossibile, tutt’altro. Così finalmente avremo superato l’occasionalità del sostegno al momento possibile – con le erogazioni liberali e le sponsorizzazioni – avendo previsto, con l’introduzione dello scopo benefit culturale all’interno delle società produttive e commerciali italiane, un sostegno continuativo, durevole e strutturale a favore della cultura”.

Chiesa del Gesù Nuovo

Passiamo alle persone. Chi sei? Dopo gli studi storico-artistici, fondamentale per la mia formazione è stata l’esperienza presso la Galerie Di Méo a Parigi. Il proprietario e la sorella Lydie sono stati guide per le esperienze lavorative e per acquisire conoscenza del mercato. Hanno contribuito a scrivere la storia dell’arte moderna e hanno promosso artisti contemporanei, per lo più italiani che oggi godono di notorietà internazionale.

A livello di staff come sei organizzato? La galleria si avvale della collaborazione di LetiChiostro di Santa Chiara zia Mari, giovane curatrice milanese, classe 1994. Prima alcuni eventi a Roma e Napoli, poi uno Dopo la laurea in Scultura presso l’Accademia di spazio a Cassino, ora una galleria a Spaccanapoli, Brera, ha frequentato il biennio specialistico in dentro Palazzo Venezia. Si consolida il progetto di Giorgio Mar- Arti Visive e Studi Curatoriali presso la NABA. rocco, che qui si racconta. Su quale tipologia di pubblico e clientela puntate? Com’è nata l’idea di aprire questa nuova galleria? La galleria è situata a Spaccanapoli, all’interno di Palazzo Dopo un’intensa attività nel campo del mercato d’arte moder- Venezia. Un nodo nevralgico della città, che fornisce la possibina e contemporanea, ho deciso di pormi come mediatore fra arte lità di interfacciarsi sia con il grande pubblico che con gli operae collezionismo. Il progetto è iniziato online e attraverso eventi tori del settore. proposti in diverse città italiane, come Roma e Napoli. Dopo una prima esperienza con uno spazio a Cassino, a metà 2019 la galleUn cenno ai vostri spazi espositivi. ria si è trasferita a Napoli, inaugurando un nuovo progetto in un La galleria si trova al primo piano del palazzo: costruito nel nuovo spazio e in un nuovo contesto. XV secolo in stile neoclassico, è testimonianza di un insieme di relazioni politiche ed economiche tra la Repubblica di Venezia Proviamo a descrivere in tre righe questo nuovo progetto. e il Regno di Napoli. Le piastrelle maiolicate gialle e blu risalenLa galleria si propone come spazio per gli artisti emergenti ti al Settecento sono una caratteristica identitaria dello spazio nel centro storico di Napoli. Un luogo di ricerca, che punta alla espositivo.


Galleria Continua festeggia 30 anni aprendo una nuova sede a Roma

VALENTINA SILVESTRINI [ caporedattrice architettura ]

LUNGARNO COLLECTION MILANO lungarnocollection.com

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Bisognerà attendere l’inverno 2020-2021 per l’apertura della sesta struttura ricettiva di Lungarno Collection, la società di gestione alberghiera di proprietà della famiglia Ferragamo attiva nel settore dell’ospitalità di lusso, con quattro alberghi a Firenze e uno a Roma. È un’attesa carica di aspettative, perché l’hotel in questione rientra in un ambizioso piano di recupero, coordinato dallo studio AMDL Circle guidato da Michele De Lucchi. Portrait Milano, che si avvale della direzione artistica dell’architetto Michele Bonan, sarà infatti realizzato nell’ex Seminario Arcivescovile di Corso Venezia 11, il più antico in Europa. La costruzione dell’edificio fu intrapresa per volontà di San Carlo Borromeo, che scomparve prima dell’inaugurazione, avvenuta nel 1620. L’imponente complesso a pianta quadrata, con doppio loggiato a colonne binate e architravate, doriche al piano inferiore e ioniche al superiore, conobbe le prime modifiche nella destinazione d’uso con l’ingresso dei soldati di Napoleone a Milano nel 1696. L’uso ospedaliero si alternò alla funzione primaria anche durante l’occupazione tedesca e, quindi, durante la Grande Guerra. Il proposito di abbandonare tale sede a favore di un’alternativa fuori Milano si concretizzò nel 1930. Con la chiusura del seminario iniziò una stagione di degrado, conclusasi con il restauro dell’architetto Piero Portaluppi. Completamente rinnovato, l’edificio è tornato in attività dal 1973 al 2012, quando la necessità di adeguamento ai nuovi regolamenti ha comportato la seconda chiusura. Un articolato passato per quello che De Lucchi ha definito “un gioiello incastonato nel tessuto urbano che in pochi conoscono”. Oltre all’apertura di Portrait Milano, sulle cui dotazioni vige lo stretto riserbo da parte della proprietà, la trasformazione porterà alla nascita di un “centro vitale del quadrilatero della moda con hotel, boutique e ristoranti”, come anticipato dal progettista. Un azzardo? Per l’architetto “è il cambio di destinazione migliore possibile, perché esiste un’interessante affinità tra gli spazi di un istituto di formazione religiosa e quelli di un moderno centro ricettivo”. Cosa attendersi dall’operazione? Un indirizzo emerge proprio dalle parole di De Lucchi, che evoca la necessità di “ricostruire un’omogeneità estetica”, con la convinzione che “il nuovo nell’antico non deve emergere con preponderanza, ma integrarsi e servire per esaltare quanto di più bello soggiace nascosto dalle vecchie mura”.

#53 GENNAIO L FEBBRAIO 2020

SANTA NASTRO L La Galleria Continua di San Gimignano festeggia i trent’anni di attività aprendo una nuova sede nel 2020. A ospitare il nuovo spazio è il St. Regis, l’iconico hotel romano in Via Vittorio Emanuele Orlando diretto dall’appassionato Giuseppe De Martino. Già verso fine 2018 la Galleria Continua aveva cominciato una collaborazione con il lussuoso albergo progettato da Mr. Ritz in persona, con un primo progetto che vedeva protagonista Loris Cecchini, seguito da Pascale Marthine Tayou. In queste occasioni si era annunciato un ricco programma di eventi, ribadito anche in occasione di questo nuovo opening – che sancisce però una collaborazione ben più strutturata –, arricchito inoltre da workshop, visite didattiche e guidate per le scuole, residenze (due volte l’anno, con artisti giovani o provenienti da contesti emergenti che avranno poi una occasione espositiva) e naturalmente mostre. A battezzare lo spazio, nella Sala Diocleziano dell’albergo, è l’artista José Yaque, mentre il format iniziato nel 2018 – andando ad abitare gli spazi comuni – vede protagonisti Sun Yuan & Peng Yu. Il primo, nato a Manzanillo nel 1985, lavora con pittura e installazioni: le opere per Roma sono nate appositamente per questa occasione. Sun Yuan & Peng Yu, residenti a Pechino, presentano le opere If I Died (2013), Teenager Teenager (2011) e I Didn’t Notice What I’m Doing (2012). Nata nel 1990 su iniziativa di Mario Cristiani, Lorenzo Fiaschi e Maurizio Rigillo, la Galleria Continua prende vita inizialmente nell’ormai mitologico cinemateatro di San Gimignano, diventando fin da subito un caso studio. Da allora la storia di questo spazio espositivo onnipresente nella PowerList di Art Review si arricchisce di nuove tappe. Nel 2004 – prima galleria italiana – apre in Cina lo spazio di Beijing, nel 2007 inaugura la sede “in provincia di Parigi” di Les Moulins; infine nel 2015 approda a Cuba, con un nuovo spazio a L’Havana. galleriacontinua.com

CONCIERGE

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PARIZZI SUITES & STUDIO Ma Parizzi non è il ristorante stellato dei mitici Marco & Cristina, che quest’anno festeggia il suo primo ventennio? Certo. Ma il progetto è ben più articolato e dal 2009 esiste anche un hotel/residence che rende l’esperienza ancora più completa e... accogliente. strada della repubblica 71 www.parizzisuite.com

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

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ENOTECA FONTANA Ideale per il pranzo o l’aperitivo serale. È l’ultima osteria degna di questo nome rimasta in centro. Panini memorabili, salumi manco a dirlo, cantina di gran levatura. Poche portate indicate su un foglio scritto a mano e fotocopiato, in un ambiente rustico per davvero. strada farini 24 0521 286037

LA VIA DEGLI ANTIQUARI In realtà si chiama via Nazario Sauro ma per i parmensi (e per gli appassionati) è nota come “via degli antiquari”, e ha pure la sua pagina Facebook. Si passa dall’antiquariato più solido al vintage d’alto livello al divertente bric-àbrac. Da perderci – si fa per dire – delle ore. via nazario sauro facebook.com/ antiquarivianazariosauro

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PALAZZO DEL GOVERNATORE Per sapere tutto della mostra in corso dovete scorrere le pagine fino all’inserto Grandi Mostre. Qui ribadiamo il concetto: non solo dovete visitare questo palazzo dalle origini duecentesche, ma non potete esimervi dal passeggiare in una delle piazze più affascinanti del Paese. piazza garibaldi palazzodelgovernatore.it

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A spasso per Parma 2020 (I) Stazione

Palazzo Ducale

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Piazzale Cattedrale di Parma San Benedetto

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e Mar Stradon Cultura, non Europea com’è stata Matera 2019. Avviso ai naviganti: si parla della Capitale Italiana della Quindi il budget è ben differente e, giocoforza, anche il programma non può essere paragonabile. Detto ciò, un passaggio va fatto, magari mentre ci si reca ad Arte Fiera a Bologna. Qui trovate il consueto tour in 8 tappe, raddoppiato dai "Percorsi" suggeriti nell’inserto Grandi Mostre.

MUSEO BODONIANO Siamo nella Biblioteca Palatina, che significa 800mila volumi in sale, tanto per fare un esempio, che erano affrescate da pittori come Correggio. In questo contesto trova spazio il museo dedicato al più celebre dei tipografi: Giambattista Bodoni (sì, quello della font). strada alla pilotta 3 museobodoniano.it

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PALAZZO DELLA PILOTTA Il complesso monumentale ospita nei suoi spazi anche la Galleria Nazionale, che resta una raccolta notevolissima pur essendo stata doppiamente spoliata, prima da Carlo di Borbone e poi da Napoleone. E se volete prendere aria, c’è la grande Corte del Guazzatoio. piazzale della pilotta pilotta.beniculturali.it

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OHIBÒ Evitate le scelte scontate: da Ohibò virate verso pesce e Asia. Il bistrot aperto nel 2015 è coraggioso: nel menu di queste settimane (stagionale, of course) trovate, ad esempio, gamberi blu e ricciola hiramasa. Ma se proprio avete bisogno di parmigiano, qui e là lo troverete. piazzale cervi 5 ohibo.it

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GIARDINO DUCALE Oltre 200mila mq nel quartiere Oltretorrente, la cui ideazione risale al 1561 su stimolo del duca Ottavio Farnese. Fra gli highlight, il Palazzo del Giardino progettato dal Vignola e la Fontana del Trianon, che in realtà era pensata per la Reggia di Colorno. piazzale santa croce servizi.comune.parma.it/ giardinoducale/

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Stefano Maria Berardi Stefano Maria Berardi realizza le sue opere a sfondo satirico utilizzando Emoji in foto storiche e attuali, principalmente di interesse politico. "Non amo i politici, bensĂŹ amo la politica" dice l'artista che con i suoi lavori intende provocare e far riflettere

stefanomariaberardi / stefanomberardi@gmail.com


TRETI GALAXIE [ art project ]

STUDIO VISIT

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Pietro Agostoni entre frequentavo l’Accademia mi sono detto: “Un giorno, quando venderò un lavoro, dovrò firmarlo, ma uso ancora la stessa firma che facevo ai tempi delle medie. Non va bene, voglio una firma come quella che fa Rockefeller nei cartoni animati”. All’inizio era il mio nome, poi sono diventate parolacce, poi nomi di personaggi casuali. Partivo con l’idea di scrivere qualcosa di preciso, ma a ogni ripetizione il segno richiedeva sempre più libertà, astraendosi dal suo significato. Ciò che mi interessava era riuscire a fare delle cose senza volerle, o sbloccare il meccanismo per cui si decide di fare una cosa e poi la si fa. In seguito ho imparato ad analizzare e utilizzare questo vasto archivio di segni. Li seleziono, li scannerizzo, li ingrandisco, li ricalco, li riscannerizzo, li ristampo. Vettorializzo dei segni in maniera analogica enfatizzando la profondità data dalle micropressioni del pennino. Cerco di affilarne sempre di più i bordi, di scartavetrarne i pixel.

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STUDIO VISIT

IDENTIKIT NOME E COGNOME: Pietro Agostoni ANNO E LUOGO DI NASCITA: 1990, Lecco LUOGO DI RESIDENZA: Lecco ISTITUTO DI FORMAZIONE: Accademia di Brera MEDIUM PREFERITO: vari ULTIMA MOSTRA PERSONALE: OPS, Almanac Inn, Torino 2018 ULTIMA MOSTRA COLLETTIVA: Snoozin’ Gutsss, Neverneverland, Amsterdam 2019 PROSSIMA MOSTRA IN PROGRAMMA: Collagen Shadows, ADA, Roma 2020 a cura di Zoe De Luca

HOW WE RELATE TO THE BODY, 2012 capelli, dimensioni variabili. Photo Delfino Sisto Legnani Mi ha sempre interessato creare degli ecosistemi per insetti, o fare finta di essere uno di questi e poi comportarmi di conseguenza. Il lavoro della ragnatela che ho esposto nel 2012 alla mostra Fuoriclasse, alla GAM di Milano, era uno dei primi esperimenti su questo genere di interesse, e l’ho creato per essere inteso non per forza come opera d’arte. Ho usato i miei capelli, una cosa che cresce da me, un materiale che non mi è estraneo, per creare una ragnatela, che di base è la casa per un ragno, e l’ho costruita su un lampadario di cristallo dell’Ottocento presente in una delle sale. Volevo che il lavoro fosse silenzioso e molto mimetico. Innanzitutto il rispetto per il luogo in cui sei ospitato, ovunque vai, a prescindere che sia la GAM o casa di tua zia. Sono sempre stato affascinato dai lampadari e da questo genere di decorazioni molto ricche, e da qui mi è venuta l’idea di creare una presenza che fosse prettamente mia, ma che andasse a lavorare con quello che già di bello c’era, senza aggiungere niente, senza essere invasivo. E poi, un ragno che fa la ragnatela in un museo ha vinto.

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Vado sempre avanti in maniera spontanea, perché penso sia la modalità migliore, o almeno quella che fino a oggi mi ha dato buoni risultati. Un giorno ho notato che l’acido che uso per fare lavori su rame lasciava una patina che mi piaceva molto. Ho provato a raccoglierla con la carta. Poi ho messo la carta sul termosifone e ho notato che cambiava colore, ma raffreddandosi tornava come prima. Per ritrovare quel particolare colore ho provato a incendiarla, pensando che il calore lo avrebbe in qualche modo fissato. Lì ho notato che la carta acidata e incendiata diventava un po’ più rigida, come “cenere robusta”. Mi ricordava la membrana alare della mummia di un pipistrello. Mi sembrava giusto che fosse la materia stessa a decidere la struttura e il soggetto da creare. Esporrò il lavoro a fine gennaio alla galleria ADA di Roma.


PLUFFY, 2019, carta, coccoina

Dal 1O febbraio, a questo link troverai l’intervista di Treti Galaxie a Pietro Agostoni

STUDIO VISIT

Il computer può darti degli spunti di lavoro, ti permette di confrontarti con un tipo di ragionamento che, riportato nella realtà, dà delle idee interessanti. Se lavori per giorni interi su dei pixel, quando poi ti metti a disegnare su carta ti rimane addosso qualcosa, lo senti. Il computer non è solo un mezzo con cui operare perché ti permette di ottenere dei risultati, ma ti permette anche di pensare al modo in cui la macchina lavora. Per esempio, con Photoshop posso lavorare su più livelli e con la gomma digitale cancellarli e tirare fuori quello che mi interessa. Ma perché non farlo nella realtà? Per Pluffy, che ho esposto a Zurigo nella mostra Panic Room III, ho stampato sette fogli, li ho sovrapposti e ho eseguito fisicamente il lavoro che fa il comando gomma di Photoshop.

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E poi, un ragno che fa la ragnatela in un museo ha vinto

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DAL 16 GENNAIO AL 28 MARZO 2020

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DA APRILE A GIUGNO 2020

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PATRIZIA PEPE VIA GOBETTI 7/9 50013, CAPALLE, FIRENZE

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A CURA DI PAOLO GRASSINO ART DIRECTION ROSANNA TEMPESTINI FRIZZI


Arte Fiera 2020

Torna a Bologna dal 24 al 26 gennaio Arte Fiera, diretta per il secondo anno da Simone Menegoi, affiancato da Gloria Bartoli come vicedirettrice. La 44a edizione, allestita nei padiglioni 18 e 15 del Quartiere Fieristico (accessibili in auto dall’Ingresso Nord e con un servizio di navette dall’ingresso di Piazza Costituzione) si presenta ricca di novità. Coinvolgerà 155 gallerie tra italiane e straniere nella Main Section e nelle tre sezioni curate e su invito: Fotografia e im-

magini in movimento, le novità Focus e Pittura XXI, per un totale di 345 artisti presentati in fiera.

Mazzoleni (Lucio Fontana, Gianfranco Zappettini), Richard Saltoun (Bice Lazzari), Ronchini (Franco Angeli), Tornabuoni Arte (Piero Dorazio).

Gallery (Markus Saile), Arcade (John Finneran), Bernhard Knaus Fine Art (Giacomo Santiago Rogado, Karim Noureldin), Boccanera (Nebojša Despotović, Andrea Fontanari), CAR DRDE (Damien Meade), Cardelli & Fontana (Mirko Baricchi, Beatrice Meoni), Eduardo Secci Contemporary (Chris Hood, Pierre Knop), Ex Elettrofonica (Federico Pietrella, Pesce Khete), Francesca Antonini (Guglielmo Castelli), Galleria FuoriCampo (Eugenia Vanni, Michele Tocca), Luca Tommasi (Mark Francis, Phillip Allen), Monica De Cardenas (Gianluca Di Pasquale, Ivan Seal), Monitor (Peter Linde Busk, Matteo Fato), Norma Mangione Gallery (Michael Bauer), P420 (Adelaide Cioni), Pinksummer (Jorge Queiroz), RIBOT (Jonathan Lux), The Gallery Apart (Corinna Gosmaro, Alessandro Scarabello).

Gloria Bartoli, Simone Menegoi © Arte Fiera

Le Sezioni Focus è una delle principali novità di Arte Fiera 2020: una sezione che prende in esame le ricerche artistiche della prima metà del XX secolo e del secondo dopoguerra, con un taglio differente ogni anno. L’esordio è firmato da Laura Cherubini, critica e storica dell’arte di chiara fama, che si è concentrata sul rinnovamento e sulle rivoluzioni linguistiche della pittura italiana tra la fine degli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta. La sezione vuole essere un meditato approfondimento su un aspetto dell’arte del XX secolo. “La pittura è certamente un linguaggio che ha fortemente caratterizzato l’arte italiana” afferma la curatrice. “All’interno del filo conduttore di questa concisa sezione potranno essere rintracciate conferme, riscoperte e qualche sorpresa. Si tratta di presenze singolari e diversificate e non etichettabili in un’unica tendenza, movimento o gruppo”. Le gallerie: A arte Invernizzi (artista: Mario Nigro), Cortesi Gallery (Giuseppe Santomaso), Galleria dello Scudo (Gastone Novelli), Michela Rizzo (Fabio Mauri, Saverio Rampin),

Veduta del padiglione 15 © Arte Fiera

Curata da Davide Ferri, Pittura XXI è la prima sezione di una fiera, in Italia e all’estero, dedicata interamente alla pittura contemporanea. L’obiettivo del progetto è di offrire una panoramica del lavoro degli artisti emergenti e mid-career, a livello nazionale e internazionale, che lavorano con questo medium. Una proposta audace e al contempo tempestiva, poiché si colloca in una fase storica in cui la pittura si è riaffacciata prepotentemente sulla scena dell’arte. “Pittura XXI includerà il lavoro di 30 artisti mid-career, in gran parte internazionali, presentati da una ventina di gallerie” afferma Davide Ferri. “Vuole evidenziare il lavoro di quegli spazi che, soprattutto in Italia, hanno saputo sviluppare in anni recenti una programmazione in cui la pittura ha avuto un ruolo di primo piano”. Le gallerie: 1/9unosunove (artisti: Simon Callery, Jonathan Vandyke), A+B

Giunta alla sua seconda edizione, Fotografia e immagini in Movimento (affidata, come l’anno passato, al collettivo Fantom rappresentato da


Selva Barni, Ilaria Speri, Massimo Torrigiani, Francesco Zanot) costituisce un osservatorio puntato su alcune delle più recenti ricerche nel campo della fotografia e del video, cui si aggiungono alcuni imprescindibili punti di riferimento nel passato. “La sezione combinerà gli utilizzi più classici e tradizionali dei due linguaggi con un approccio sperimentale rivolto allo studio e all’osservazione non soltanto dei soggetti rappresentati, ma anche del mezzo espressivo utilizzato. Ribaltando la convenzione, qui la fotografia e il video si presentano come medium d’invenzione, mostrandoci la realtà non soltanto per quello che è (stata), ma anche come potrebbe essere” (Fantom). Le gallerie: aA29 Project Room (artisti: Kyle Thompson, Tiziana Pers), Dep Art Gallery (Tony Oursler), Galleria Marcolini (Aneta Bartos, Christian Thompson), Michela Rizzo (Antoni Muntadas, Katerina Šedá, Francesco Jodice), Galleria Poggiali (Goldschmied & Chiari), Gallleriapiù (Matteo Cremonesi), Marcorossi (Rune Guneriussen), Martini & Ronchetti (Lisetta Carmi), MC2 Gallery (Lamberto Teotino, Justine Tjallinks, Paolo Ciregia), Metronom (Christto & Andrew), MLZ Art Dep (The Cool Couple, Discipula, Källstrӧm+Fäldt), Otto Zoo (Paul Kooiker), Pinksummer (Luca Trevisani), Podbielski Contemporary (Giulio Di Sturco, Massimiliano Gatti, Yuval Yairi), Shazar (Giacomo Montanaro), Spazio Nuovo (Marco Maria Zanin, Edouard Taufenbach), Traffic Gallery (Mattia Zoppellaro), Umberto Di Marino (Francesco Jodice, Pedro Neves Marques, Sergio Vega), Viasaterna (Alessandro Calabrese), z2o Sara Zanin (Mariella Bettineschi, Silvia Camporesi, Ekaterina Panikanova).

Jimmie Durham, Smashing, 2004, frame video, colour and sound

Public Program L’offerta del public program di Arte Fiera 2020 si estende su quattro versanti: la mostra L’opera aperta curata da Eva Brioschi, parte del ciclo Courtesy Emilia-Romagna; Oplà. Performing Activities, programma di live arts a cura di Silvia Fanti (Xing); Welcome, una nuova creazione di Eva Marisaldi che costituisce il Progetto speciale di Arte Fiera 2020; i Talk curati da Flash Art, content partner della manifestazione. Courtesy Emilia-Romagna è il ciclo di mostre che coinvolge le collezioni istituzionali d’arte moderna e contemporanea del territorio. Il secondo episodio, L’opera aperta, prende spunto dalla tesi contenuta nell’omonimo saggio del semiologo Umberto Eco per proporre un viaggio di scoperta nelle collezioni presenti in Emilia-Romagna. Il visitatore incontrerà maestri del Novecento ma anche artisti meno noti che meritano di essere riscoperti, senza dimenticare i protagonisti delle ultime generazioni. Oplà. Performing Activities è il programma di live arts di Arte Fiera. Ad attendere i visitatori, un nuovo ciclo di azioni performative firmate da quattro artisti diversi per età e poetica, fra i più significativi nei rispettivi ambiti di ri-

ZAPRUDER, ANUBI IS NOT A DOG, 2020 © the artist | Arte Fiera Xing

Eva Marisaldi, Studio per Welcome, 2019

cerca: Alessandro Bosetti con L’ombra, Luca Vitone, con Devla… Devla…, Zapruder con ANUBI IS NOT A DOG e Jimmie Durham, con THE BUREAU, il re-enactment di una sua performance iconica: Smashing. Gli interventi degli artisti saranno disseminati all’interno dei padiglioni 15 e 18 della Fiera, coinvolgendo anche l’area Talk. Protagonista del Progetto speciale di Arte Fiera 2020 è Eva Marisaldi, una delle artiste italiane più importanti della sua generazione. L’artista presenterà Welcome, una nuova creazione divisa in due parti: un’installazione, vasta e al tempo stesso leggera e poetica, che accoglierà i visitatori all’ingresso del Padiglione 18 e un intervento, diffuso e molto più discreto, in vari punti dei padiglioni fieristici e della città. L’artista sarà presente anche al Teatro Comunale con un’installazione formata da quattro opere sonore. I lavori sono realizzati in collaborazione con il musicista Enrico Serotti e saranno visibili a partire dalla rappresentazione del “Tristan und Isolde” di Richard Wagner, con cui si apre la Stagione lirica 2020 del teatro. I Talk di Arte Fiera, curati dalla rivista Flash Art, content partner della manifestazione, presenteranno un programma focalizzato sulle tematiche attuali nel mondo dell’arte attraverso dialoghi e riflessioni dei suoi protagonisti, scelti fra le voci più rappresentative del panorama artistico italiano. Fra gli highlights della prima giornata (24 gennaio): Michelangelo Pistoletto che parlerà dell’arte come innovazione sociale e “cura”; una riflessione a più voci sul valore delle opere d’arte in relazione al mercato; la storia della pittura italiana fra il 1959 e


il 1979 ripercorsa, in modo originale e trasversale, da Laura Cherubini, Andrea Viliani e Nicola De Maria. La seconda giornata (25 gennaio) sarà dedicata al tema del medium. Si aprirà con uno dei massimi protagonisti di Fluxus in Italia, Gianni Emilio Simonetti; a seguire, una riflessione sugli sviluppi più contemporanei dei media studies, e Paolo Icaro che rifletterà sui concetti di “resistenza” e “limite” insieme a Cecilia Canziani. Concluderà la giornata una tavola rotonda sul tema della committenza legata alla fotografia, promossa dall’Istituto dei Beni Culturali dell’Emilia-Romagna e coordinata da Francesco Zanot. Il terzo e ultimo giorno (26 gennaio) si aprirà con la pittura di Franco Angeli, oggi al centro di un rinnovato interesse internazionale: ne parleranno Maria Angeli e Raffaella Perna, coordinatrice quest’ultima anche della tavola rotonda “Arte e Femminismi” insieme alle artiste Paola Mattioli e Silvia Giambrone. I temi della conservazione e mantenimento delle opere d’arte e della loro circolazione concluderanno questo ciclo di conversazioni e tavoli di discussione.

Vip Program e Visite guidate In partnership con UBS Arte Fiera dedica particolare attenzione all’accoglienza e all’offerta per i collezionisti, italiani e stranieri, coordinati per il

primo anno da Costanza Mazzonis di Pralafera. Il VIP program, collocato al di fuori dell’orario fieristico, offrirà l’occasione per la scoperta di collezioni private, per percorsi speciali tra le eccellenze – non solo di arte contemporanea – del territorio, per visite guidate in musei e istituzioni di Bologna e dei dintorni, come la Certosa di Bologna, la Collezione Maramotti e MUT – Mutina for Art. Le visite guidate dell’edizione 2020 di Arte Fiera, che accompagneranno i visitatori alla scoperta della Main section e delle sezioni curate, sono possibili grazie al sostegno di un partner di eccellenza: UBS. Dedicate a collezionisti e visitatori, che possono facilmente prenotarsi online, le visite sono condotte da storici e critici dell’arte, nonché, una al giorno, dai curatori delle sezioni di Arte Fiera per un totale di sei appuntamenti ogni giorno.

Premi Nel corso di Arte Fiera verranno assegnati i cinque premi, i cui vincitori saranno annunciati venerdì 24 gennaio nell’Area Talk: Premio per la Pittura Mediolanum Art Building Padova, promosso e finanziato da Banca Mediolanum, per individuare un’opera della sezione Pittura XXI che entrerà a far parte delle collezioni d’arte di Banca Mediolanum; Premio Wide di Wide Group, alla sua prima edizione ad Arte Fiera, che acquisirà il lavoro che, a giu-

dizio della giuria, avrà meglio interpretato il concetto di interazione tra forma, colore e spazio; Premio A Collection, altra nuova presenza ad Arte Fiera, che consiste in una “mini-residenza” nel corso della quale l’artista premiato potrà realizzare un progetto sotto forma di arazzo con il maestro tessitore Giovanni Bonotto; Premio Rotary, alla sua nona edizione, per l’installazione più creativa di Arte Fiera 2020; Premio ANGAMC, che valorizza il ruolo e la carriera di un gallerista affiliato all’Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea distintosi nel panorama italiano per meriti umani e professionali.

Ristorazione Arte Fiera rinnova la collaborazione con FICO Eataly World Bologna, con la presenza in Fiera di un punto ristorazione e vendita dei prodotti di eccellenza del territorio, mentre un Bistrot Emilia-Romagna si concentrerà sui piatti locali più tipici e attesi. La Vip lounge dedicata a collezionisti, espositori, ospiti e giornalisti accoglierà invece uno special guest della ristorazione in un ambiente dall’architettura rinnovata. Si tratta di Giuseppe Palmieri, restaurant manager dell’Osteria Francescana di Modena, che porterà ad Arte Fiera i piatti del cuore del suo “Da Panino”, affiancandosi all’offerta gastronomica di “Dettagli”, specialisti in catering di eccellenza. AN EVENT BY

Informazioni Dove Quartiere Fieristico di Bologna Padiglioni 15 - 18 Quando 24/26 gennaio 2020 Ingresso Nord (per chi arriva da piazza Costituzione, servizio gratuito di navette) Orari da venerdì a domenica, dalle 11 alle 19 Press preview a inviti giovedì 23 gennaio, dalle 11 alle 12 Preview a inviti giovedì 23 gennaio, dalle 12 alle 17 Vernissage a inviti giovedì 23 gennaio, dalle 17 alle 21


Dialogo tra Simone Menegoi e Lorenzo Balbi Siete due figure nuove per Bologna, giovani e dinamiche nell’approccio, entrambe chiamate per imprimere una svolta nell’arte contemporanea in città. Ci raccontate il percorso che vi ha portati qui? Simone Menegoi: Tutto è cominciato con una segnalazione... Se sono a Bologna lo devo anche grazie a te, Lorenzo, dico bene? Lorenzo Balbi: Effettivamente, quando i vertici di Arte Fiera mi contattarono per un parere riguardo al profilo del candidato alla nuova Direzione Artistica, tratteggiai una figura del tutto compatibile con il tuo curriculum... Il mio arrivo a Bologna è precedente, sono arrivato al MAMbo a luglio 2017. La mia era anche una sfida personale: la volontà di dare una svolta alla mia carriera e al mio profilo di curatore, assumendo un ruolo più strutturato, di direzione artistica. Ero inoltre interessato a confrontarmi con Bologna perché è una città che frequentavo, un contesto che ho sempre ritenuto modello per la sperimentazione in ambito di arti visive. Quali sono stati i punti di partenza e le situazioni ereditate in cui vi siete trovati a operare? Cosa avete fatto dalle vostre rispettive posizioni per promuovere l’arte contemporanea in città? Su cosa vi siete trovati d’accordo? Lorenzo Balbi: La situazione che ho trovato al mio arrivo risentiva delle vicissitudini legate alle diverse recenti direzioni artistiche che non avevano potuto garantire una continuità nel tempo. Il primo impegno è stato quindi rivolto a imporre e impostare una direzione artistica precisa e coerente, da portare avanti sul lungo periodo, definendo una visione scientifica distinta per ognuno degli spazi che compongono le sedi dell’Area Arte Moderna e Contemporanea. Una programmazione rivolta alle sperimentazioni e alle nuove generazioni, alle avanguardie internazionali nella Sala delle Ciminiere del MAMbo; un’attenzione alla ricerca territoriale con un approccio storico per la Project Room; mostre in collaborazione con istituzioni internazionali a Villa delle Rose, in collegamento alla a Residenza per Artisti S. Natali e così via. Indicazioni chiare che da un lato avessero l’ambizione di mantenere il posizionamento di MAMbo come istituzione fondamentale nel panorama dell’arte contemporanea, dall’altro di porsi in continuità con quello che quest’istituzione porta avanti dal 1975: una programmazione fortemente interessata alle più recenti ricerche internazionali, con un’attenzione particolare per l’arte italiana, per la produzione di nuove opere e per i media sperimentali. Il rapporto con Arte Fiera si è intensificato molto con l’arrivo di Simone Menegoi e Gloria Bartoli. Ho avuto occasione di collaborare come direttore artistico di ART CITY già per l’edizione 2018 ed è stata un’opportunità importante per cimentarmi con un programma ambizioso. Posso però dire che alloraART CITY e Arte Fiera seguivano un’impostazione che derivava dalle esperienze dagli anni precedenti. Con la nomina di Simone Menegoi i programmi delle ultime due edizioni sono stati discussi nei dettagli dalle primissime fasi, con un costante confronto sulla proposta di contenuti per l’Art Week. Simone Menegoi: Io invece sono arrivato a luglio del 2018; ma di fatto non me ne ero mai andato. A

Simone Menegoi © Arte Fiera

Lorenzo Balbi | foto di Caterina Marcelli © MAMbo

Bologna ho fatto i miei studi universitari, e poi ho continuato a frequentare la città per le mostre, le performance, gli eventi culturali. Poi, a partire dal 2016, mi sono trovato a curare delle mostre in città, quelle di Palazzo De’ Toschi; e così mi sono ritrovato nel contesto di ART CITY, di cui le mostre facevano parte. Quando è arrivata – come un fulmine a ciel sereno! – la proposta di prendere la direzione di Arte Fiera, uno dei motivi che mi hanno fatto propendere per il sì è stato senz’altro il sapere che la città aveva una scena artistica ampia, attiva, diversificata; una scena che non si manifestava soltanto durante la settimana della Fiera, ma che era presente e viva tutto l’anno, e a cui l’arrivo di Lorenzo aveva dato nuovo impulso. Nel momento in cui sono arrivato ad Arte Fiera e ho cominciato a guardarmi intorno, ho avuto l’impressione che, nel mosaico di istituzioni pubbliche e private, gallerie e spazi non profit, che costituisce appunto la scena cittadina, il pezzo corrispondente alla Fiera stessa non si incastrasse perfettamente. I legami con la città si erano un po’ allentati, e la Fiera stentava a stare al passo con una realtà che invece era propulsiva. Il mio obiettivo è stato da allora duplice: da un lato, come ogni direttore di fiera deve fare, trovare il modo di rendere Arte Fiera più attrattiva per le gallerie e per i collezionisti, e dall’altro sincronizzarla nuovamente con la città e il suo territorio, rimetterla al passo con il ritmo, diventato più serrato e avvincente, dell’arte contemporanea in città.

una gamma di iniziative che vanno dall’accoglienza dei collezionisti alla cura del programma collaterale, passando per la creazione di sezioni curate dal taglio originale e specifico. Quest’anno, oltre a Fotografia e immagini in movimento, ne avremo altre due: una che insiste su uno dei punti di forza della Fiera, ovvero i Post-War Masters (Focus, curata da Laura Cherubini, che si concentra sulle vicende della pittura in Italia nei decenni Sessanta e Settanta del ’900), l’altra, la prima nel suo genere, dedicata interamente alla pittura contemporanea: Pittura XXI, a cura di Davide Ferri). Per dare un’idea concreta di quale sia la sintonia che abbiamo con Lorenzo Balbi, Lorenzo ha fatto eco a questa enfasi sulla pittura proponendo un riallestimento di una parte della collezione permanente del MAMbo centrato appunto sulla pittura italiana del dopoguerra. L’altro fronte su cui lavoriamo è quello del rapporto tra Fiera e città. L’ha già detto Lorenzo, lo ribadisco io: c’è piena sintonia su questo, lavoriamo assieme non soltanto per i rispettivi obiettivi ma per promuovere, insieme, il coordinamento della città; perché la città si riconosca come un sistema, come una rete. A questo proposito, vorrei citare anche la nostra iniziativa Courtesy Emilia-Romagna: un ciclo di mostre delle collezioni istituzionali, pubbliche e private, di Bologna e dell’Emilia-Romagna, il cui secondo episodio è curato da Eva Brioschi, che ha concepito la mostra L’opera aperta. Penso che il nostro lavoro cominci già a dare dei frutti. Per il futuro, ovviamente, vogliamo proseguire su questa strada. Definire sempre più e promuovere l’identità di Arte Fiera così come noi l’abbiamo concepita, rafforzare e promuovere il rapporto con la città e il territorio.

Quali sono i progetti per il futuro? E quali gli obiettivi a breve scadenza? Lorenzo Balbi: Uno dei progetti più ambiziosi è quello dei MAMbo Studios: un luogo con diversi studi da assegnare ad artisti alla stregua di quello che si fa già in molte altre città. Un museo come il MAMbo può essere promotore di un progetto importante per portare in città artisti da tutto il mondo e creare in questo modo una nuova massa critica e un’iniezione di idee ed energie. Un altro obiettivo, per il quale stiamo già lavorando con il DAMS dell’Università di Bologna, riguarda la creazione di un corso per curatori che possa dare una base teorica agli studenti ma anche metterli direttamente in contatto con un’istituzione museale. C’è poi il tema della definizione di un nuovo progetto scientifico e architettonico per il Museo Morandi sul quale attualmente non ci si può esprimere perché – come è noto – è in corso un’azione legale della quale si stanno attendendo gli esiti. Molte altre sono le sollecitazioni possibili, ad esempio l’idea di avere una radio attiva all’interno del museo. Mi piacerebbe infine “liberare” le ciminiere originali, ancora presenti nella Sala delle Ciminiere, dalla pittura e dall’intonaco bianco, riportandole all’aspetto originale di ferro e mattoni, rendendo così la loro presenza ancora più evocativa e simbolica. Simone Menegoi: Come dicevo prima, sono due i fronti su cui lavoriamo io e Gloria Bartoli, la vicedirettrice della Fiera. Il primo è quello di rendere Arte Fiera più possibile attrattiva per i galleristi, i collezionisti, gli appassionati che affollano ogni anno la manifestazione. Su questo punto abbiamo già molto lavorato; innanzitutto, definendo e comunicando una precisa identità che vogliamo dare ad Arte Fiera; e poi sviluppando, a sostegno di questa identità,

Chiediamo a Lorenzo Balbi quale grande artista vorrebbe portare in città; a Simone Menegoi, invece, quale grande galleria vorrebbe riportare ad Arte Fiera. Lorenzo Balbi: Ammetto che i primi due grandi artisti che volevo portare a Bologna li ho portati: la prima era Mika Rottenberg ed è stata protagonista della seconda mostra che ho curato nella Sala delle Ciminiere. Altro sogno in fase di realizzazione è portare al MAMbo Ragnar Kjartansson, che dall’opening del 22 gennaio sarà al centro della mostra AGAINandAGAINandAGAINand con la sua opera Bonjour (2015). Un terzo grande artista che avrei fortemente voluto a Bologna e con il quale avevo già avviato una prima comunicazione è John Baldessari. Gli avrei chiesto una suggestione per il nuovo allestimento del Museo Morandi. Purtroppo la sua scomparsa ha reso impossibile un coinvolgimento diretto ma confido che un rimando possa ancora essere incluso. Simone Menegoi: Una grande galleria da riportare in Fiera? È problematico fare un solo nome o due. Mettiamola così: ci sono alcune grandi gallerie italiane che non dovrebbero assolutamente mancare in una manifestazione come Arte Fiera, che ambisce a essere un punto di riferimento imprescindibile per la scena del nostro Paese, e che invece ancora mancano all’appello. Non dico i nomi, loro sanno chi sono. Le aspettiamo!



Cape Town

STORIES L SUDAFRICA

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INDAGINE SUL SUDAFRICA. ARTE, CREATIVITÀ, INNOVAZIONE, DOMANI MARIA STELLA BOTTAI [ storica dell’arte, curatrice, docente ]

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#53 GENNAIO L FEBBRAIO 2020

STORIES L SUDAFRICA

Lo Stato più a sud del continente cresce tra le preferenze dei viaggiatori e ce n’è anche per il contemporaneo. Siamo andati a dare un’occhiata ai luoghi dell’arte a Cape Town, nel più grande museo di arte africana, e a Johannesburg, la città di William Kentridge. Con una domanda sempre in testa.

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STORIES L SUDAFRICA

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VICTORIA & ALFRED WATERFRONT MAITLAND EPPING

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a qualche anno a questa parte il Sudafrica attira un numero sempre maggiore di visitatori interessati all’arte e alla cultura. Il desiderio di esplorare nuovi Paesi e voli diretti dall’Italia per Johannesburg facilitano l’accesso alla punta meridionale del continente africano (e mettiamoci anche l'ottimo lavoro che Fabio Troisi sta facendo in qualità di direttore del locale Istituto Italiano di Cultura), la cui cultura, per ragioni storiche coloniali, è tra le più vicine a quella dell’Europa. A partire dalla fine del XV secolo, navigatori portoghesi, olandesi, britannici hanno doppiato il Capo di Buona Speranza, impresa riuscita per la prima volta a Vasco de Gama, alla ricerca di rotte per l’India alternative al Mediterraneo. Tra le correnti di questi mari nasce la leggenda dell’Olandese Volante e, ancora oggi, arrivare al Capo ha un sapore di frontiera, il punto estremo dove convenzionalmente l’Oceano Atlantico e quello Indiano si incontrano.

L’ONDA LUNGA DELL’APARTHEID

Le opere d’arte che abbiamo incontrato in questo viaggio riflettono un Sudafrica in espansione ma soggetto alle tensioni che hanno origine nella sua peculiare storia: di convivenza con i coloni boeri e gli imperialisti britannici, di sfruttamento degli schiavi, della corsa all’estrazione di oro e diamanti, di crudi decenni di lotta alla segregazione razziale, ancora non del tutto risolta. Come scrive il politologo Anthony Butler su Limes, “l’eredità della segregazione e dell’Apartheid, assieme alle differenze inconciliabili nell’interpretarne il significato, ostacola tuttora lo sforzo di creare un’identità nazionale consolidata e un ordine sociale coerente e inclusivo”.

SUDAFRICANI ECCELLENTI

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FORESHORE

I media locali raccontano di un debito pubblico in aumento e della ricerca di soluzioni all’immigrazione clandestina proveniente dai Paesi limitrofi. Ma il Sudafrica è anche la terra di straordinari pionieri e visionari. È qui che Gandhi ha cominciato la sua storia di avvocato attivista e che un altro avvocato, Nelson Mandela, ha incarnato con la moglie Winnie la lotta all’Apartheid. La cantante Miriam Makeba e i premi Nobel per la letteratura J.M. Coetzee e Nadine Gordimer hanno dedicato

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MOWBRAY

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CITTÀ DEL CAPO OTTERY HOUT BAY DIEP RIVER

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BLOEMFONTE

1 ZEITZ MOCAA Aperto nel 2017 nell’area del Waterfront e voluto dal magnate Jochen Zeitz, ha sede in un ex silos del grano, recuperato dallo studio di architetti Heatherwick. Grande retrospettiva di William Kentridge fino al 23 marzo. zeitzmocaa.museum

CITTÀ DEL CAPO

2 NORVAL FOUNDATION Ha appena un paio d’anni la fondazione presieduta dal magnate del real estate Louis Norval. Siamo in area Steenberg, a due passi dal Table Mountain National Park, in un edificio progettato dai sudafricani dhk Architects. norvalfoundation.org

3 SOUTH AFRICAN NATIONAL GALLERY Parte di una rete culturale che riunisce una decina di musei e tre biblioteche, la Galleria Nazionale del Sudafrica ha una ottima collezione e un buon programma di mostre temporanee. Al momento merita una visita la personale di Gabrielle Goliath. iziko.org.za | friendsofsang.co.za

4 A4 ARTS FOUNDATION Centro non profit per le arti contemporanee, ha inaugurato a settembre 2017. Dopo la residenza al secondo piano dell’edificio, ora Kevin Beasley è in mostra al primo, mentre al pianterreno si attende un pop-up della Rennie Collection di Vancouver con Roman Ondák, in occasione della Cape Town Art Fair che si tiene a metà febbraio. a4arts.org

A GOODMAN GALLERY Fondata nel 1966, ha sede a Cape Town, Johannesburg e recentemente Londra. Rappresenta artisti del calibro di Candice Breitz, El Anatsui, Yinka Shonibare, Robert Hodgins, David Goldblatt e William Kentridge. goodman-gallery.com

B STEVENSON GALLERY Doppia sede a Cape Town e nella capitale, oltre a un ufficio ad Amsterdam, per questa galleria fondata nel 2003. Curioso esempio di come un’attività del genere possa essere condotta da ben tredici direttori in contemporanea e portare fra le proprie mura artisti come Zanele Muholi, Nicholas Hlobo e Simphiwe Ndzube. stevenson.info


1 CENTRE FOR THE LESS GOOD IDEA

2 POPART CENTRE Spazio ibrido per le arti performative, ha iniziato le sue attività nel 2011 e dopo quattro anni ha aperto anche una casa di produzione. Alla direzione ci sono Hayleigh Evans e Orly Shapiro. popartcentre.co.za

superficie

3 JOHANNESBURG ART GALLERY La National Gallery della capitale ha un ottimo nucleo di arte europea del XIX e XX secolo. Peccato però che infiniti lavori ne limitino decisamente le aree espositive. Tanto che in Italia sta circolando da mesi (ora è a Conegliano) una mostra realizzata proprio con i suoi capolavori. friendsofjag.org

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Dal 2001 è qui che la storia della segregazione razziale viene raccontata attraverso documenti, mappe, fotografie, video, locandine, oggetti, ricostruzioni ambientali e opere d’arte. L’edificio, come il progetto nel suo complesso, è frutto di una collaborazione fra professionisti del mondo della cultura e della società civile. apartheidmuseum.org

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HIGHLANDS NORTH

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ROSEBANK

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Bloemfontein (giudiziaria) Città del Capo (legislativa) Pretoria (amministrativa) TAPPA A CAPE TOWN

Partiamo da Cape Town, la città culturalmente più vivace, dove ha sede il più grande museo di arte contemporanea africana, lo Zeitz MOCAA – Museum of Contemporary Art Africa. Seguito per importanza dal MACAAL - Musée d’Art Contemporain Africain Al Maaden di Marrakech, è stato fondato dal collezionista Jochen Zeitz, colui che ha rilanciato la Puma, per intenderci, con il curatore Mark Coetzee – poi dimessosi – per esporre arte africana del XXI secolo e della diaspora. Aperto nel 2017 nell’area turistica del Waterfront, ha come sede un gigantesco silos del grano, recuperato dallo studio di architetti Heatherwick, le cui dimensioni fuori dall’ordinario e lo slancio verticale rendono il museo un luogo eccezionale e insieme una sfida per curatori e artisti. Gli ascensori scorrono lungo le vertiginose torri di cemento. Salendo sembra di raggiungere il tetto di una cattedrale, la postazione migliore per vedere dispiegarsi in tutta la sua estensione l’arazzo di El Anatsui Dissolving continents (2017), artista protagonista all’acclamato Padiglione del Ghana alla Biennale di Venezia 2019. L’opera è una mappa realizzata con materiali di recupero che sovrasta l’ingresso come uno stendardo in un castello. Nelle sale è esposta una parte della collezione permanente. Spiccano l’installazione di Yinka Shonibare Adam and Eve – il giardino dell’Eden era in Africa? – e la rilettura femminista di Mary Sibande della storia post-coloniale con il gruppo scultoreo In the midst of chaos, there is opportunity, citazione dall’arte della

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JOHANNESBURG

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WITS ART MUSEUM

Il Wits nasce invece come galleria d’arte dell’Università di Witwatersrand, nel quartiere di Braamfontein. Una piccola sezione di arte tribale attraversa tre piani dedicati a mostre temporanee – al momento è allestito un doveroso omaggio all’artista e attivista David Koloane. wits.ac.za/wam/

PRETORIA

1.219.000 km2

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L’ha fondato William Kentridge col fine di “creare e supportare progetti artistici sperimentali, collaborativi e interdisciplinari”. Si trova nel quartiere creativo Arts on Main, nella zona di Maboneng. lessgoodidea.com

parole di toccante intensità alla vita nelle township, all’incomunicabilità tra le classi sociali, alle politiche repressive in vigore fino al 1994, anno delle prime elezioni libere. In un ospedale di Cape Town, il chirurgo Christiaan Barnard ha realizzato il primo trapianto di cuore. Da Pretoria arriva Elon Musk, l’imprenditore che ha mandato una macchina nello spazio.

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GENNAIO L FEBBRAIO 2020

#53

guerra di Sun Tzu; i video del nigeriano Daniel Obasi, le fotografie di paesaggi marziani sulla terra della statunitense Cassandra Klos, le pareti ricoperte di ritratti delle donne della storia del Sudafrica di Sue Williamson. Per vedere di più andiamo sul sito del museo, dove la lista di artisti presenti in collezione include alcuni tra i nomi più noti anche fuori dal continente, artisti che in Africa sono nati o la cui cultura di provenienza o di destinazione è africana (e c’è persino un Guercino): i britannici Isaac Julien e Chris Ofili, naturalmente William Kentridge, la nigeriana Akunyily Crosby, la sudafricana Zanele Muholi e l’etiope Julie Mehretu, queste ultime ben rappresentate all’ultima Biennale di Venezia curata da Ralph Rugoff.

STORIES L SUDAFRICA

KENTRIDGE E LA DOMANDA RICORRENTE

Una grande retrospettiva dedicata a William Kentridge, intitolata Why Should I Hesitate: Putting Drawings to Work, è in corso fino a marzo. La mostra ha una seconda sede alla Fondazione Norval, situata a Tokai, fuori dal centro di Cape Town, dove sono raccolte le grandi sculture dell’artista. Uscendo leggiamo una scritta posta su una vetrata all’ingresso: What does it mean to be an African artist? Dal Macaal allo Zeitz Mocaa emergono, tra i nuclei tematici ricorrenti nella produzione del contemporaneo africano subsahariano, la definizione dell’identità, le storie dell’Apartheid, la rilettura critica del colonialismo, l’ecologia, soprattutto come recupero dei materiali. Forse la retrospettiva di Kentridge risponde alla domanda. In parte l’artista lo ha già fatto con un’operazione culturale nella sua città natale: quando si inaugurò lo Zeitz Mocaa a Cape Town, Kentridge aprì una fondazione a Johannesburg, il Centre for the Less Good Idea, nel quartiere creativo Arts on Main. Un incubatore di idee, nato in seguito alla chiusura della storica JAB – Johannesburg Art Gallery quando la struttura fu danneggiata dalle piogge. Un gesto significativo in un Paese con pochi spazi per la sperimentazione artistica e senza quasi musei pubblici, e anche la collocazione è strategica.

IL FUTURO È PLURALE

Courtesy Imiso Ceramics

Imiso significa ‘domani’ – o meglio, ‘i domani’, al plurale – nella lingua parlata dagli Xhosa, il secondo gruppo etnico più numeroso in Sudafrica, che ha espresso personalità come Nelson Mandela. Imiso Ceramics è il nome dello studio fondato nel 2006 da Andile Dyalvane e Zizipho Poswa a Cape Town, nel quartiere creativo di Woodstock (insieme ad alcuni amici, usciti poi rapidamente di scena). Entrambi originari della provincia del Capo Orientale, culla della cultura xhosa, i due artisti-ceramisti-designer esplorano la comune eredità etnica riprendendo, in maniera diversa, tecniche e motivi ancestrali. Per Dyalvane, cresciuto in una comunità rurale, lavorare la ceramica è un mezzo per rinsaldare il suo rapporto con la natura e insieme rendere omaggio a un mondo in cui giornate e stagioni sono scandite dal duro lavoro manuale. Per questo, molte delle sue opere – vasi, sgabelli e altri oggetti dipinti nei colori primari e decorati con pattern ispirati alle pitture facciali tribali o a pratiche rituali come la scarificazione – portano nomi scelti nell’ambito semantico dell’agricoltura. Altri pezzi, che incorporano come fossili moderni frammenti di oggetti trovati in giro, per esempio parti di computer, ricordano l’impatto dell’uomo sull’ambiente, particolarmente evidente in certe parti del continente africano. Il lavoro di Zizipho Poswa, che negli anni ha gradualmente spostato la sua traiettoria dalla realizzazione di oggetti di uso comune in ceramica a quella di pezzi unici di grandi dimensioni, totem astratti e coloratissimi già acquisiti da diversi musei internazionali per le loro collezioni, si ispira alla vita delle donne Xhosa. La serie Umthwalo, ad esempio, riproduce in maniera stilizzata le silhouette di donne impegnate nel trasportare pesanti carichi in equilibrio sulla testa, come avviene tradizionalmente in terra xhosa e in altre zone d’Africa. “Scoperti” da Trevyn e Julian McGowan, i fondatori della galleria di design da collezione Southern Guild, che rappresenta il principale vettore a disposizione dei designer sudafricani per farsi conoscere fuori dal continente, i due artisti sono molto attivi nel supportare giovani creativi e piccole realtà locali in linea con l’idea africana di ubuntu, umanità e rispetto per l’altro. GIULIA MARANI imisoceramics.co.za

HUB JOHANNESBURG

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L’Arts on Main, dal nome della Main Street, si presenta come un hub della cultura che raccoglie intorno a un cortile atelier, gallerie, negozi di design, nelle vicinanze del Museo del Design e del POPArt center, spazio ibrido per le arti performative. Nel quadrilatero dell’Arts on Main spicca la stamperia di David Krut, che collabora con importanti artisti contemporanei. Durante il sopralluogo abbiamo potuto vedere la preparazione di alcune incisioni di Kentridge per la mostra allo Zeitz Mocaa.

Una domanda ricorre e recita: cosa significa essere un artista africano?

La Johannesburg Art Gallery è oggi parzialmente riaperta. Si tratta della galleria nazionale sudafricana, pubblica, a ingresso gratuito, con un nucleo di arte europea del XIX e XX secolo – Goya, Millais, Picasso – in gran parte non esposta. Si può vedere di più dalla pagina del museo su Google Arts&Culture. L’abbiamo percorsa cercando la risposta alla domanda che ci portiamo dietro dallo Zeitz Mocaa: What does it mean to be an African artist? Le condizioni di visita non sono ottimali: diverse le sale ancora chiuse, in quelle aperte la maggior parte delle opere sono


MERCATO SUDAFRICANO. UNA RAPIDA PANORAMICA #53

GLI ARTISTI MID ED EMERGENTI A magnetizzare i desideri globali arriva oggi un contingente di artisti variegato per generazioni e media privilegiati e con significative presenze femminili, da Tracey Rose (1974) a Zanele Muholi (1972). Artista e attivista rappresentata da Stevenson (Cape Town, Johannesburg), Muholi è stata tra i protagonisti della Biennale veneziana (andate a cercare la lunga intervista che le abbiamo fatto a metà 2019) e nell’aprile 2020 le sarà dedicata una prima grande retrospettiva alla Tate Modern di Londra. Stessa scuderia sudafricana per il ricercatissimo Nicholas Hlobo (1975), con le sue grandi installazioni mixed media con focus su temi di genere e storia sudafricana, e il più giovane Simphiwe Ndzube (1990), nato a Cape Town ma Los Angeles-based, già invitato all’ultima Biennale di Lione. E poi ancora Moshekwa Langa (1975), cresciuto in Sudafrica e studi alla Rijksakademie, e Mohau Modisakeng (1986), o l’intimità delle ricerche di Phumzile Khanyile (1991), e i millennial Malebona Maphutse (1994) e Simnikiwe Buhlungu (1995).

esposte senza didascalie, in alcune l’illuminazione è carente, mentre il bel cortile centrale è infestato dai piccioni. La collezione permanente espone insieme, e in dialogo, il passato e il presente, i manufatti antichi, le maschere tribali insieme alle opere degli artisti contemporanei. È la vocazione enciclopedica dei grandi musei come il Louvre o il Met, e una struttura di questo tipo e di questa natura è forse un unicum nell’Africa centrale e meridionale, come anche la sua architettura classicista. Ci auguriamo che possa riaprire del tutto e diventare un centro nevralgico della cultura della città.

COLLEZIONI IN DIALOGO La stessa ricerca di logo tra la produzione artigianale antica e la stica contemporanea

continuità e diamanifatturiera e produzione artiaccomuna altre

IL SISTEMA DELL’ARTE A sostenerli un sistema in pieno fermento, con infrastrutture diffuse tra le capitali dell’arte Cape Town e Johannesburg, dove operano le migliori gallerie del continente (Goodman Gallery e Stevenson, per citarne solo due) e aprono i nuovi musei e le fondazioni per l’arte contemporanea. Oltre allo Zeitz, l’investimento privato torna centrale in istituzioni come la A4 Arts Foundation, centro non profit per il sostegno dell’arte contemporanea sudafricana, e la Norval Foundation, voluta nel 2018 dal magnate del real estate Louis Norval, nonché per diversi fondi di investimento e collezioni corporate che guardano all’arte africana come risorsa da proteggere e come asset per il futuro (Scheryn Art Collection Fund, Black Collectors Forum). Consolidata è la presenza delle case d’asta locali (Aspire Art Auction, Stephan Welz, Strauss, Russell Kaplan), alle quali si affianca ora l’interesse più recente dei player globali – Bonhams, Christie’s, Sotheby’s, Phillips – che disegnano un marketplace orientato anche da appuntamenti fieristici di rilievo, uno su tutti la Cape Town Art Fair, nata nel 2013 per iniziativa di Fiera Milano e pronta quest’anno alla sua ottava edizione a rilanciare la sfida, per il prossimo futuro, di non dover più nemmeno parlare di “arte africana”, se è vero che il cuore di tutto, come evidenziato dalla direttrice Laura Vincenti, dovrebbe essere l’arte e non la provenienza geografica.

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MAESTRI E BLUE CHIPS In un mercato con trend di crescita contenuti ma costanti, lontano da improvvisi strattoni e bolle di altre economie emergenti, la new wave artistica sudafricana ha fatto tesoro delle esperienze di maestre e maestri illustri, da Irma Stern (1894-1966) e Maggie Laubser (1886-1973) a Gerard Sekoto (1913-1993) – l’acquisizione da parte della Johannesburg Art Gallery di una sua opera nel 1940 è stata il primo ingresso di un artista di colore in una collezione museale – , così come del passaggio ineludibile segnato, negli anni dell’Apartheid (1948-1994), da Marlene Dumas (1953) e William Kentridge (1955).

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Cape Town Art Fair

Grazie al delinearsi di una ricerca artistica netta e di spessore, alla creazione di infrastrutture più solide per un sistema giovane e in espansione e all’incremento della ricchezza posseduta, l’arte del Sudafrica ha conquistato ampi margini di interesse da parte dei grandi operatori del mercato e dei collezionisti internazionali. Smarcatasi da influenze di matrice europea, la scena artistica africana contemporanea è avanzata a larghi passi verso il meritato riconoscimento grazie a una combinazione originale di creatività, poesia e “fiero impegno politico”, come sostiene Touria El Glaoui, fondatrice della 1-54 Contemporary African Art Fair. A questa nuova visibilità molto hanno contribuito gli artisti provenienti dal Sudafrica. Nel 2017, tra valori d’asta e presenze espositive, 10 dei top 20 artisti moderni (nati tra 1850 e 1939) e 7 tra i contemporanei (nati dopo il 1940) avevano infatti provenienza sudafricana (fonte Africa Art Market Report).

CRISTINA MASTURZO

A magnetizzare i desideri globali arriva oggi un contingente di artisti variegato per generazioni e media, e con significative presenze femminili.

due ambiziose collezioni del Sudafrica: la Iziko South African National Gallery di Cape Town e il Wits Art Museum di Johannesburg. La prima prende il nome dalla parola ‘focolare’ in lingua isiXhosa ed è parte di una rete di 11 musei, la cui nascita risale alla seconda metà dell’Ottocento. Tra questi, il Museo di Storia Naturale, il Planetario, il museo del colorato quartiere malese di Bo Kaap e la National Gallery, molto vivace in termini di esposizioni e acquisizioni. Il Wits nasce invece come galleria d’arte dell’Università di Witwatersrand a Johannesburg, nel quartiere chic di Braamfontein. Una piccola sezione di arte tribale interfaccia tre piani dedicati a mostre temporanee. Abbiamo visitato una mostra tributo al pittore Robert Hodgins, giornalista e critico d’arte londinese trasferitosi in Sudafrica, e la

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THEBE MAGOGU: L’ASTRO NASCENTE DELLA MODA AFRICANA

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© Thebe Magugu

Robert Hodgins descrisse Johannesburg come una miniera d’oro diventata città.

retrospettiva di stampe di Sam Nhlengethwa, cantore del blues sudafricano, realizzata in collaborazione con la Goodman Gallery. Quest’ultima – da non confondere con Marian Goodman – ha sede a Cape Town, Johannesburg e recentemente Londra e ha in scuderia artisti del calibro di Candice Breitz (che ha rappresentato il Sudafrica alla Biennale Arte del 2017), El Anatsui, Yinka Shonibare, lo stesso Robert Hodgins e, ovviamente, William Kentridge.

L’APARTHEID TORNA ANCORA

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Johannesburg è la città più popolosa del Sudafrica, con un maggior numero di luoghi della cultura. La visita è più complicata rispetto a Cape Town – per la sua enorme estensione, per la dislocazione dei punti di interesse, per la logistica degli spostamenti e la questione della sicurezza nelle strade.

Se vi è capitato di incrociare in un aeroporto africano di recente non potete non esservene resi conto: a Casablanca come a Nairobi, a Lagos come a Città del Capo, il colpo d’occhio sull’abbigliamento dei viaggiatori di origine africana negli ultimi dieci anni è cambiato profondamente. Sempre meno abiti etnici, ma una vera esplosione di interpretazioni locali spesso coloratissime di quel che noi riteniamo un abito griffato o un accessorio glam-sport. Al continente africano e alla sua esplosione demografica i marchi moda da tempo guardano con attenzione, che siano i loro prodotti di fascia alta, sport o fast fashion. E ovviamente anche in Africa – esattamente come da qualsiasi altra parte – i talenti non mancano. Così lo scorso 4 settembre una giuria blasonatissima, composta fra l’altro da Jonathan Anderson (Loewe), Kris Van Assche (Berluti), Maria Grazia Chiuri (Dior), Nicolas Ghesquière (Louis Vuitton) e Clare Waight Keller (Givenchy), ha assegnato il primo premio della sesta edizione dell’LVMH Prize Young Fashion Designer al 27enne sudafricano Thebe Magugu, il primo proveniente da quel continente a ricevere un riconoscimento del genere. All’inizio del 2019 Magugu aveva già vinto il primo premio all’International Fashion Showcase, sostenuto dal British Fashion Council. Ma l’LVMH Prize non è un riconoscimento come altri: a sponsorizzarlo è il più potente agglomerato del lusso esistente, a fare da madrina la figlia del patron Joséphine Arnault, ad

affiancare la considerevole cifra di 300mila euro la possibilità di usufruire di un programma di tutoraggio, che copre molti settori di competenza (proprietà intellettuale, approvvigionamento, produzione e distribuzione, immagine e comunicazione, marketing, sviluppo sostenibile...). Una capsule collection realizzata per l’occasione da Magugu è inoltre già presente sul sito di vendita 24s sponsorizzato da LVMH. Thebe Magugu è originario della cittadina di Kimberley ma si è trasferito a Johannesburg per studiare design, fotografia e media della moda presso la LISOF Fashion Design School. Dopo aver vinto il premio per la miglior collezione di laurea, si è fatto le ossa presso alcuni retailer. Nel 2017 ha dato vita all’etichetta che porta il suo nome: prêt-à-porter donna con una solida base in accessori, a cui si affiancano piccoli progetti multidisciplinari. Spaziando tra i codici della moda femminile e di quella maschile, Magugu fonde tradizione e innovazione e trae ispirazione dal savoir faire tradizionale sudafricano. Parlando del suo marchio, Magugu si esprime così: “Cerchiamo costantemente nuovi modi di presentare alle donne abiti che rispettino e valorizzino il quotidiano. Il mio design si interseca con i motivi del passato leggendario del nostro continente, offrendo abiti eleganti ma dotati di riferimenti molteplici: è questo che li rende preziosi come la donna a cui sono destinati”. Magugu peraltro è attivo anche nel campo dei diritti civili. Qualche mese fa ha lanciato, in collaborazione con Lelo Meslani e Amy Zama e alle art director Abi e Claire Meekel (tutti sudafricani) Faculty Press, una rivista autoprodotta che ha l’obiettivo di dare visibilità al lavoro di amici e collaboratori innovativi che operano in settori diversi e che rappresentano il Sudafrica contemporaneo affrontando temi quali i diritti della comunità LGBTQ+ e il femminismo. ALDO PREMOLI thebemagugu.com | facultypress.org


IL CINEMA E LA RINASCITA DEL POST-APARTHEID

Robert Hodgins la descrisse come una miniera d’oro diventata città. Guardandola dalla vetta del grattacielo Top of Africa si vede l’asperità del paesaggio circostante, la terra arida del veld, le miniere sullo sfondo, e al centro una macchia di cemento con i grattacieli e le grandi strade di scorrimento che seguono uno schema rigidamente geometrico. Il suo museo più importante rimane il Museo dell’Apartheid, nella parte meridionale fuori downtown. La storia della segregazione razziale africana viene raccontata con documenti, mappe, fotografie, video, locandine, oggetti, ricostruzioni ambientali, e anche opere d’arte,

e neri sudafricani. Il simbolo di questa spaccatura è la squadra nazionale di rugby, composta da giocatori bianchi e uno solo di colore. L’occasione per riavvicinare il Paese è la Coppa del Mondo di Rugby, ospitata quell’anno proprio dal Sudafrica. Dal film emergono la personalità di Mandela, lo sport come unità sociale e l’esigenza di una politica di aggregazione e condivisione. MAMA AFRICA Documentario del 2011 diretto da Mika Kaurismäki, racconta la storia della cantante Miriam Makeba, divenuta famosa in tutto il mondo per essersi battuta contro il regime dell’Apartheid. Vista la sua lotta contro il razzismo, il governo sudafricano di Pretoria nel 1962 la costrinse all’esilio, bandendo tutti i suoi dischi. La cantante si trasferì prima in Europa e poi negli Stati Uniti, divenendo nota per il suo talento naturale e per canzoni come Pata Pata, The Click Song e Malaika. Nel 1966 vinse un Grammy per la migliore incisione folk per l’album An Evening with Belafonte/Makeba, che trattava esplicitamente tempi politici e la situazione di segregazione razziale in Sudafrica. Dopo trent’anni di esilio, nel 1990 Nelson Mandela la fece tornare in patria. GRIDO DI LIBERTÀ Tratto da due libri di Donald Woods e diretto da Richard Attenborough, è un film del 1987. La storia dell’amicizia tra Steve Biko, capo del movimento Black Consciousness, e il giornalista bianco Dondal Woods, direttore del quotidiano liberale Daily Dispatch di Johannesburg. È il Sudafrica degli Anni Settanta e il carismatico Biko attira l’attenzione di molta stampa internazionale, in particolare di Woods, sostenitore della non violenza e dell’integrazione razziale. Dopo qualche incontro, tra i due nasce una solida amicizia che porterà Woods a pubblicare sul proprio giornale le richieste del popolo sudafricano oppresso dall’Apartheid. In seguito alla violenta morte di Steve Biko, il giornalista decide di pubblicare in Inghilterra gli scritti sulla sua vita, rivelando così le atrocità del regime razzista sudafricano, non del tutto note alle cronache mondiali.

STORIES L SUDAFRICA

INVICTUS Film del 2009 diretto da Clint Eastwood e ispirato al romanzo Ama il tuo nemico di John Carlin, a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti. Nelson Mandela, da poco uscito di prigione, è diventato presidente del Sudafrica. È il 1995, nel periodo successivo all’abolizione dell’Apartheid, e Mandela vuole riunire e avvicinare la popolazione del Paese, disinnescando l’odio tra bianchi

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3 FILM PER CONOSCERE IL SUDAFRICA

#53 Cape Town Film Studios

Pensiamo di non conoscere nulla del cinema sudafricano ma in realtà non è così: Jonathan Liebesman (Non aprite quella porta), Roger Michell (Notting Hill) o Gavin Hood (X-Man) sono registi molto noti che provengono proprio da lì. Dal 1948 al 1991 con l’Apartheid il Sudafrica ha vissuto un periodo fosco per la sua popolazione e la società. Un periodo di odio razziale, di ghettizzazione, durante il quale vigeva una dura censura artistica e cinematografica. Tra i film di quegli anni che furono vietati e proibiti ci sono molti documentari riguardanti l’orrore dell’Apartheid: Last Grave at Dimbaza (Nana Mahomo, 1974, che spinse il governo di allora a rispondere con una serie di film-propaganda), The Two Rivers (Mark Newman, 1980), Witness to Apartheid (Sharon Sopher & Kevin Harris, 1987) e Dinkaga (Jamie Uys, 1980). Durante questo periodo di oppressione razzista, il cinema fu imbavagliato e i cineasti più facoltosi si trasferirono a Londra. Così fece Lionel Ngakane, considerato uno dei pionieri del cinema sudafricano nero. Con il post-Apartheid è avvenuta la rinascita del Sudafrica sul grande schermo. Attualmente una nuova generazione di registi e autori sudafricani sta calcando l’onda di una nuova era. Tra i nomi più riconoscibili ci sono Neill Blomkamp, Ramadan Suleiman, Zola Maseko, Oliver Schmitz, Ntshaveni Wa Luruli, Teboho Mahlatsi. Oltre al cinema “interno”, dal 2010 il Sudafrica è diventato centro d’interesse per le grandi produzioni internazionali: ne sono ospitate circa trenta all’anno. Film come Black Panther o The Harvesters sono stati girati in parte nel Paese. Alla 62esima edizione del Festival di Cannes è stato presentato un progetto industriale straordinario da questo punto di vista, da oltre un decennio ormai funzionante e nel migliore modo possibile, ovvero i Cape Town Film Studios. Accanto al lato più economico c’è un forte fervore artistico sostenuto dallo stesso Paese. Nel 1999 ha avuto inizio il Gariep Arts Festival, che si svolge a Gariep Dam, città sulla riva settentrionale del fiume Orange, e che si pone come mission quella di essere un trampolino di lancio per registi, sceneggiatori e attori del cinema africano. Di festival non è scarso il Paese, e fra tutti il più importante è il National Arts Festival; dieci giorni di intrattenimento per tutte le forme d’arte. Giorni in cui gli artisti possono far conoscere e promuovere le proprie opere sia al grande pubblico sia a esperti del settore, locali e internazionali.

MARGHERITA BORDINO

Al Museo dell’Apartheid la storia della segregazione razziale è raccontata con documenti, mappe, fotografie, video...

seguendo un ordine cronologico dall’arrivo degli europei nel XV secolo fino a oggi. Le ultime sale accolgono alcune opere esposte nel Padiglione Sudafrica all’Arsenale della Biennale di Venezia (la mostra di quest’anno si intitolava The stronger we become, riferito al titolo di una canzone sull’Apartheid). Lungo il percorso troviamo incisioni e sculture di William Kentridge; l’artista ha conosciuto l’apice degli scontri precedenti le libere elezioni del 1994 in prima persona e attraverso l’attivismo dei genitori, entrambi avvocati politicamente impegnati nella lotta all’Apartheid, come lo furono Gandhi e Mandela. Anche questo è essere un(’) artista africano/a oggi.

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L’AFFASCINANTE STORIA DEI TACCUINI D’ARTISTA VERITÀ A PORTATA DI MANO

STORIES L TACCUINI

SILVIA SCARAVAGGI [ scrittrice d’arte e curatrice ]

S

i contentava di viaggiare a piedi, a piccole giornate, da un paese a un altro, con l’involtino delle cose sue in spalla infilato a un bastone”: è così che Carlo Ludovico Ragghianti descrive Giovanni Battista Cavalcaselle (Legnago, 1819 – Roma, 1897), ricercatore e storico dell’arte che, con i suoi taccuini di schizzi e disegni – il cui prezioso lascito è conservato oggi nella Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia – ci ha riconsegnato una interpretazione di tante e tali opere d’arte, riprese con brevi tratti a penna o matita con una precisa volontà di passare in rassegna ogni dettaglio e collegamento, da ampliare la nostra conoscenza e la nostra capacità di osservazione di forme, colori, dimensioni e composizioni nell’arte italiana ed europea.

VARCO CAVALCASELLE

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I taccuini di Cavalcaselle sono un varco, una porta d’accesso per la comprensione: di fronte alle pagine di un taccuino, però, sia esso di ricerca o di pura riflessione estetica, non sono solo le immagini e le note che spesso le corredano a parlarci in modo diretto. Dentro un taccuino scorgiamo una traccia privata, scopriamo un percorso intimo, talvolta segreto, che guida il pensiero di un artista o di un ricercatore. Il disegno, l’appunto, la nota arrivano qui in modo più immediato e profondo, colpiscono perché spesso possiamo maneggiarli, sfogliarli – a differenza dalle opere d’arte – e perché sappiamo che dentro quelle pagine si svela qualcosa di autentico, non controllato, vero. Spesso i taccuini accompagnano il viaggio, come il Cavalcaselle ha ampiamente rivelato – viaggi che sono ricerche


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Custoditi gelosamente nel proprio studio, donati a importanti istituzioni museali, esposti in pubblico, parte di collezioni diffuse online. Le destinazioni dei taccuini d’artista sono le più diverse – riflettendo alla perfezione le attitudini più intime degli artisti stessi. Siamo andati a sbirciare questa realtà nascosta ma estremamente affascinante.

Luca Vitone, Vuole Canti. Cammin Facendo, 2009. Collage, grafite su carta. Courtesy Moleskine Foundation Collection

STORIES L TACCUINI

a cavallo fra un’intima necessità di scoprire e un’urgenza di fissare riflessioni alternative e altre volte nuove indicazioni. Senza dubbio i taccuini affascinano e, non senza una morbosa curiosità, attirano in una dimensione intima che vibra nell’atto di sfogliarne le pagine. Alcuni artisti hanno deciso di mostrarli pubblicamente, altri li custodiscono gelosamente o ne svelano solo in parte il contenuto, quello collegato a un mondo più direttamente in contatto con le opere che nascono invece per l’esposizione. Di queste diverse angolazioni vi parliamo qui, in alcuni casi con interlocuzioni personali con alcuni artisti, in altri casi scoprendo operazioni che hanno fatto del taccuini un oggetto feticcio da esporre al pubblico.

416 DISEGNI IN UN TACCUINO

Il primo taccuino d’artista, voluminoso nelle sue minute proporzioni – oltre quattrocento pagine non più grandi di una carta di credito, che contengono 416 disegni realizzati con micropenne 005 e 003 –, è il compagno di quasi dieci anni di segni, disegni, visioni di Andrea Lelario (Roma, 1965). L’artista ci mostra un’agenda annuale Moleskine iniziata nel dicembre del 2010 e terminata alla fine del 2019, avviata inizialmente come registro privato, intimo, e svelato nel corso degli anni agli occhi del pubblico. “Nel taccuino”, racconta Lelario, “ci sono immagini archetipali del mio inconscio, sensazioni; non c’è un tema specifico, se non un lungo racconto, come una seduta psicoanalitica durata molti anni. Non ho mai pensato di lavorare a qualcosa di pubblico. Il formato piccolo mi ha aiutato a trovare la concentrazione; il bianco e nero la profondità”. Il taccuino di Lelario

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STORIES L TACCUINI

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Una delle 416 immagini del taccuino di Andrea Lelario, 2010-19. Micropenne su carta. Courtesy l’artista

è un diario, fatto prevalentemente di un segno grafico mutevole ma ininterrotto. Sfogliando immagini concentrate e fitte, l’artista spiega che “nelle piccole pagine del taccuino si addensano forme antropomorfe, figure primigenie di animali immaginari, frammenti di insetti, reminiscenze di studi da entomologo, rettili fantastici e strutture astratte. Mi piace definire questa mole di materiale artistico come il bagaglio immaginario che mi porto sempre dietro. Che sta con me, che bussa da dentro e che chiede di venir fuori. Un bagaglio appunto, o più letterariamente uno scrigno, che si apre per accogliere, ma che richiudendosi custodisce, e che si può riaprire, sfogliare, ogni volta che si vuole, producendo paralleli riflessivi con le lune del giorno appena passato o con le diverse e distanti stagioni della vita”. Il taccuino Moleskine di Lelario è stato recentemente visionato dal Gabinetto delle Stampe e Disegni degli Uffizi di Firenze, che intende acquisirlo ed esporlo. Prima di portare a termine l’iter di donazione, l’artista vuole realizzare una pubblicazione in Italia e in Cina, composta dalla stampa di tutti i disegni e corredata di cinque piccole incisioni originali firmate e autografate, selezionate tra i disegni presenti nel taccuino.

Dentro un taccuino scorgiamo una traccia privata, scopriamo un percorso intimo, talvolta segreto, che guida il pensiero di un artista o di un ricercatore.

DINA BRODSKY E THE SKETCHBOOK VOL. I A NEW YORK Allontanandosi dal baricentro europeo e guardando a un’operazione più mainstream che avviene negli Stati Uniti, si trova un caso di particolare ritrovo fra artisti che usano il taccuino come strumento finalizzato prima alla pubblicazione su web – con Instagram come vetrina in cima alla lista tra i social network più amati per la visione delle pagine disegnate e dipinte in piccolissima scala – e successivamente alla esposizione in mostre a tema. La capofila di questa cordata di taccuinisti è Dina Brodsky (1981), curatrice e artista, attenta al disegno di viaggio, alla pittura in miniatura, alla ricerca di artisti che si esprimano con una tecnica mista in formato ridotto in cui siano sempre presenti figura e scrittura. Nel 2019 ha curato alla Sugarlift Gallery di Long Island la prima collettiva dedicata a 14 taccuini di 14 diversi artisti, con il titolo Sketchbook Vol. 1, anche in questo caso sponsored by Moleskine. L’obiettivo era avvicinare il pubblico al processo creativo dell’artista, mostrando il taccuino come potente strumento di ideazione ed elaborazione iniziale di un’opera. L’esposizione ha presentato i taccuini di David Morales, Diana Corvelle, Dilleen Marsh, Paul Heaston, Dina Brodsky, Evan Kitson, Guno Park, Joshua Henderson, Luis Colan, Marshall Jones, Nicolas V. Sanchez, Sarah Sager, Ted Schmidt e Vi Luong.


MOLESKINE: IL TACCUINO PER ECCELLENZA #53 2006, data della sua raccolta in forma di collezione – a incrementare sia l’attività sia la fama della agendina universale. Di particolare interesse è il progetto Atwork: un format educativo della Moleskine Foundation, giunto alla 18esima edizione nel 2019. Si tratta, nella più autentica filosofia Moleskine, che favorisce lo scambio di idee e la creazione di nuovo pensiero ponendo al centro il concetto di nomadismo culturale, di workshop artistici, organizzati ogni anno in un diverso luogo nel mondo, dove si sviluppa un dibattito attorno a un dato tema nella sfera di argomenti quali comunità, identità e cultura. Dai laboratori nascono dei taccuini d’artista frutto diretto delle riflessioni emerse negli incontri; la maggior parte di essi vengono donati alla

UK novembre 2019

MODENA Capitolo 05

VENEZIA Capitolo 16

Modena, Italia Marzo, 2016

Italia settembre, 2019 ROMA Capitolo 10 Italia maggio 2018

N’DJAMENA Capitolo 11 LISBONA Capitolo 08

moleskinefoundationcollection.org at-work.org

Ciad luglio 2018

IL CAIRO Capitolo 04

Portogallo Settembre, 2017

Egitto Dicembre, 2015

NEW YORK Capitolo 14

ADDIS ABEBA Capitolo 06

USA maggio – giugno 2019

STORIES L TACCUINI

LONDRA Capitolo 18

Moleskine Foundation ed entrano a far parte di un archivio rilasciato su licenza CC-BY-SA – licenza che consente l’uso a due condizioni: che venga riconosciuta la paternità dell’opera all’autore e che a ogni opera derivata venga attribuita la stessa licenza dell’originale – e disponibile sul sito della fondazione, dove si trovano oltre ottanta taccuini sfogliabili. Moleskine sottolinea che “tutti coloro che hanno partecipato entrano a far parte della Comunità AtWork, un gruppo internazionale di artisti, intellettuali, studenti, curatori e associazioni culturali, accomunati dalla convinzione che l’arte possa essere uno strumento di trasformazione sociale”.

GENNAIO L FEBBRAIO 2020

Il taccuino Moleskine è fra i più amati da tutti gli artisti: a pagine bianche o come agenda, orizzontale o ad album, è in assoluto la tipologia di quaderno a trovarsi più frequentemente nelle mani di chi voglia utilizzare un formato universale e altamente versatile per appunti, schizzi, disegni e riflessioni di ogni tipo. E di questa fama tra gli artisti, Moleskine ha fatto una bandiera, dacché la sua collezione è, senza dubbio, una delle più grandi nel panorama contemporaneo, con un patrimonio di circa mille pezzi presenti in archivio e consultabili anche digitalmente. Tra le pagine della Moleskine sono passati artisti, architetti, filmmaker, intellettuali, artisti e filosofi che hanno lasciato una traccia permanente del loro pensiero e contribuito materialmente – a partire dal

Etiopia Dicembre 2016

DAKAR Capitolo 01

KAMPALA Capitolo 12

Dakar, Senegal Maggio, 2012

Uganda agosto 2018 KAMPALA Capitolo 03

DOUALA Capitolo 09

HARARE Capitolo 13

Camerun Dicembre, 2017 ABIDJAN Capitolo 02 Abidjan, Costa D’Avorio Aprile 2013, Dicembre 2013 - Febbraio 2014

Kampala, Uganda Febbraio, 2015

Zimbabwe novembre 2018 HARARE Capitolo 07

LIBREVILLE Capitolo 15

Zimbabwe Luglio 2017

Gabon giugno 2019 MAPUTO Capitolo 17 Mozambico novembre, 2019

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STORIES L TACCUINI

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IL CASO DELLO XILOGRAFO

Noto per la sua attività di xilografo e per la sua ricerca come storico dell’arte nel campo della grafica e dell’illustrazione tra fine Ottocento e i primi anni del Novecento, Edoardo Fontana (Milano, 1969) associa alla realizzazione delle proprie incisioni il disegno come componente fondante e originaria delle opere che realizza. I suoi disegni compiuti per essere esposti, che vedremo nel corso del 2020 in una personale nel Museo dell’Opera di Guido Calori a San Gemini, hanno una base di più grezza elaborazione e di riflessione nei taccuini d’artista che realizza prevalentemente durante i viaggi. Taccuini – tutti fino a oggi inediti – che raccontano la conoscenza di luoghi e culture di particolare fascino per l’artista. Essi influenzano e permeano anche in modo importante le altre opere: il Giappone, con la stratificazione di scritte e immagini tratte dal vissuto contemporaneo e da quello più ancestrale della tradizione ancora viva negli ambienti rurali; i profili dei paesaggi di Scozia, suadenti nella struggente linearità con cui sono ritratti nei taccuini, sovrapponendo talvolta un collage fatto di fotografie in miniatura e scatti modificati manualmente con l’uso di pastelli. La Sardegna, che ha frequentato assiduamente nel corso di un decennio dalla fine degli Anni Novanta alla metà degli Anni Zero, offre una condizione fertile per il disegno nel taccuino d’artista. A volte si trovano appunti, altre volte disegni a sé, soprattutto quando si tratta di panorami marini oppure di elementi singoli e molto dettagliati, come un albero, una roccia, una scultura primitiva. Un grande e spettacolare ginepro “era l’ultimo al limitare di una intricata brughiera a macchia al confine di una ampia spiaggia di dune a nord di Capoferrato; una regione disabitata con lunghi litorali profondi alternati ad aree rocciose. Distante molti chilometri dal primo centro abitato, l’area ricoperta di ginepri, mirti, eriche e lentischi, pini marittimi e gigli marini, ospitava questo albero a ridosso delle dune”. Nella crudezza dei tratti, che riflette l’inclinazione secessionista di Fontana, si rivede il ductus tipico della figurazione dell’artista, che afferma: “Di solito disegno guardando un paesaggio, scelgo un punto definito e creo una sintesi, aggiungendo o togliendo qualcosa ma sempre con un segno che arriva ‘in fondo’ al foglio senza interrompersi mai. La realtà non mi vincola, non mi ostino a rappresentare soltanto quello che vedo ma lo modifico

sulla base di una suggestione estetica. Per elemento di partenza ho sempre scelto la linea, a sottolineare il vuoto, il bianco del foglio che lascia i grafismi sospesi come insignificanti tracce”. In una breve descrizione del paesaggio che si era trovato di fronte, Fontana spiega chiaramente il motivo della sua scelta: prendere un appunto su un soggetto come un albero di ginepro poiché rappresenta una sintesi formale dell’estetica che permea quello spazio. Detto con le parole dell’artista: “Un luogo di vuoti archetipi e primitiva purezza, dove il segno si muta in decorazione senza perdere la propria autonomia”.

A volte si trovano appunti, altre volte disegni a sé, soprattutto quando si tratta di panorami marini oppure di elementi singoli e molto dettagliati, come un albero, una roccia, una scultura primitiva.


DENTRO IL TACCUINO CONTEMPORANEO #53

Edoardo Fontana, Grande albero di ginepro, dune di Sant’Acqua Pudexia, 2005. Grafite su carta. Courtesy l’artista

MATTEO GIUNTINI Nato a Livorno nel 1977, lavora con la pittura e l’illustrazione. L’ironia di situazioni quotidiane o paradossali acquisisce estrema forza nelle sue immagini grazie all’uso del disegno a più colori, realizzato spesso con diverse tracce di sovrapposizione, e alla presenza della parola come potente meccanismo di trasmissione di significati. Nei suoi Appunti Inutili si trovano associazioni dell’assurdo, talvolta elementi ancora rudimentali che vengono ripresi per altri lavori di più grande dimensione o su diverso supporto. L’inutilità degli appunti è intesa come possibilità di lasciar andare su questi taccuini – pezzi unici rilegati a mano, richiusi con un semplice elastico e della dimensione di un quaderno di scuola – immagini che non abbiano un senso tra loro, microstorie improvvisate e progetti ancora ibridi e in germe. Gli Appunti Inutili sono prevalentemente privati e donati dall’artista a persone a lui care. matteogiuntini.it

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TELLERK Dal 2003 al 2016 conosciuti con il nome d’arte Fupete, oggi TellerK (al secolo Erika Gabbani e Daniele Tabellini) inviano le immagini di un piccolo taccuino che sta nascendo in questo momento durante un viaggio alle Hawaii. Rispondendo a pieno titolo al taccuino di viaggio d’artista, il piccolo manufatto è composto di pagine fitte di disegni a pennarello e appunti sui luoghi ripresi con le date di realizzazione. Daniele racconta come nascono questi quaderni: “Io, come Erika, disegno essenzialmente tutto quello che vedo. Anzi, è più corretto dire che vedo disegnando, perché se guardi un luogo disegnandolo, quel luogo rimane tuo. Diventa un pezzo del tuo vocabolario, del tuo alfabeto, che puoi anche riutilizzare in seguito. In qualunque momento ci ripensi sei lì in un attimo, è una appropriazione della realtà ed è anche un modo per non far sfuggire il tempo”. Sulla loro pagina Instagram si trovano numerose immagini e video dei taccuini completati anche in precedenza, in viaggi che li hanno portati da Bali a New York. tellerk.com

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BLU Il taccuino è così trasversale da essere utilizzato per riprodurre in piccolo alcuni disegni che ritroviamo poi in grande scala sulla parete. Caso del tutto singolare è quello di Blu, lo street artist bolognese famoso in tutto il mondo per i suoi grandi murales, molto orientati politicamente, che spesso fanno riflettere su tematiche importanti legate all’ambiente e al paesaggio urbano. Blu ha realizzato il suo sito in forma di taccuino: all’interno si trovano quattro serie complete di disegni che compongono un archivio di appunti, immagini ricorrenti anche nei dipinti su muro, schizzi e annotazioni che rimandano a un flusso vitale che riflette impegni e appuntamenti, idee e processi di nascita delle opere. blublu.org

LUCA VITONE Il taccuino di Luca Vitone, datato nel 2009, è interamente decorato e ogni pagina fa parte di una classificazione di alberi con collage e scritte a grafite su carta. Il taccuino appartiene alla collezione Moleskine ed è stato esposto nel maggio del 2012 all’Istituto Francese di Dakar nell’ambito del progetto Atwork. Deriva da un progetto dell’artista realizzato nel corso del 2009 e promosso dalla Fondazione Galleria Civica di Trento, in collaborazione con il Museo Tridentino di Scienze Naturali, dal titolo Vuole Canti. Cammin Facendo. Nella forma di un omaggio agli artisti della sua generazione, consiste in un percorso, percorribile grazie a una mappa pubblicata per l’occasione, nelle strade della città con diverse tappe davanti a piccoli o grandi alberi dedicati ognuno a un diverso artista. lucavitone.eu

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Agostino Arrivabene, Studi per i lacrimanti e studi di algoritmi frattali. Moltiplicazione del serpente. Primo Mistero, 2004. Penna a sfera su carta. Courtesy l’artista

IL MISTERO IN MINIATURA

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Agostino Arrivabene nasce nel ‘67 a Rivolta d’Adda. Si diploma all’Accademia di Belle Arti di Milano ma si forma osservando dal vero nei principali musei nel mondo le opere dei maestri del passato, in particolare Leonardo da Vinci, Dürer, van Eych, i primitivi fiamminghi e Rembrandt. La sua attenzione è rivolta a trovare un filo conduttore tra la poetica del passato e la ricerca della bellezza, nella contraddittoria realtà del presente. Le sue opere sono caratterizzate da una forte carica visionaria, con una predilezione per il linguaggio simbolista, e sono realizzate con materiali preziosi, preparati artigianalmente. I temi del male, della morte e del dolore permettono di entrare in contatto con realtà surreali, in uno stato di transizione. Nei suoi taccuini – esposti raramente – si trovano prevalentemente studi per le opere da realizzare, disegni con tracce di frasi, appunti e attimi di illuminazioni. Realizzati con diverse tecniche (matita,

Le immagini sono spesso circondate lungo tutto il bordo della pagina da scritte, frasi o citazioni, che fanno parte del fluido di ispirazione e cultura di cui artista e opera si nutrono.

penna a sfera, tempera, acquerello, tecnica mista), hanno come tema peculiare una pittura in miniatura, poiché Arrivabene, anche nel taccuino e nello studio, non si discosta mai dalla dovizia di particolari e dalla precisione che caratterizza le opere maggiori. Nei taccuini degli studi emergono visioni, epifanie, sogni immersi nel mistero che avvolge tutta l’opera e la vita dell’artista. Le immagini sono spesso circondate lungo tutto il bordo della pagina da scritte, frasi o citazioni, che fanno parte del fluido di ispirazione e cultura di cui artista e opera si nutrono in un costante scambio che supera l’attimo e l’epoca di realizzazione. Esistono taccuini più intimi, in cui Arrivabene abbina allo studio le trascrizioni di alcune esperienze e pagine di note e numeri che egli definisce “misteri” poiché contengono alcune intuizioni che gli suggeriscono rapporti e proporzioni tra le figure e tra i simboli che rendono universale la sua pittura.


UN TACCUINO PER LA GALLERIA NAZIONALE DELL’UMBRIA. FIRMATO ROBERTO PACI DALÒ

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La prima impressione che si ha sfogliando Ombre è quella di trovarsi di fronte a una “guidina” di un museo, con tanto di pianta della pinacoteca, ma tutto il resto – immagini e parole – è poesia, pensiero, suggestione. E le ombre che pagina dopo pagina si formano sono quelle degli eventi, dei personaggi storici che hanno segnato le vicende della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, e poi quelle degli artisti e delle loro opere, che l’autore coglie grazie a uno sguardo inedito e assolutamente originale. I brevi racconti scritti a mano, l’attenzione che si sofferma sui particolari minuti, sui simboli, sugli animali fantastici, l’impostazione mai didascalica bensì carica di rimandi, tra informazioni ed esclamazioni, fanno di questo volumetto un’opera che apre nuove strade per ciò che riguarda l’esperienza di visita museale. Senza dimenticare però che Ombre è anche, e soprattutto, un raffinato libro d’artista. Ne abbiamo parlato direttamente con Roberto Paci Dalò (Rimini, 1962).

E, allora, dal dicembre 2018 ti sei messo al lavoro... come? Ho cominciato a Natale del 2018 e a primavera del 2019 ho consegnato il libro terminato. L’obiettivo consisteva nell’affrontare, con l’esiguità dei mezzi a disposizione – 120 paginette, matita, acquerelli, china – una collezione prestigiosa come quella conservata a Perugia, che comprende capolavori di Duccio, Piero della Francesca, Perugino, Pinturicchio. Ma come farlo? Nel precedente autunno ero andato a trovare l’amico fotografo Guido Guidi, che mi aveva consigliato di riflettere sugli studi e le metodologie di Daniel Arasse: in particolare mi colpì l’attenzione al dettaglio dello storico dell’arte francese, e quello è stato il

Roberto Paci Dalò, Ombre (Quodlibet, Macerata 2019)

punto di partenza per trovare un mio modo che mi ha portato infine a lavorare sulle componenti minime.

stesse. Insomma, sempre secondo gli addetti ai lavori, fa venire voglia di andare al museo...

Sfogliando le pagine questo è evidente: ogni “racconto”, ogni “ombra” sembra scaturire da una meditazione attraverso cui si intuiscono delle linee generali sfocate, mentre si definiscono con esattezza alcuni dettagli... I miei disegni molto raramente evocano l’opera complessiva, sono quasi tutti dettagli, ad esempio delle figurine di un millimetro che nessuno mai osserva. Ho usato una sorta di lente di ingrandimento anche per giocare con la scientificità dell’analisi delle opere: esiste infatti tutto un mondo possibile, una zona liminale da esplorare, e di cui si è parlato solo fino a un certo punto. Ma non c’è solamente l’immagine: Ombre è una costellazione di frammenti di testi – di Giorgio Agamben e Saul Steinberg, per fare solo due nomi –, è un libro di citazioni e propone un punto di vista plurimo fatto dalle voci degli altri. Per quanto riguarda il mio lavoro davanti alle opere della galleria, mi sono affidato al ricordo del metodo di Giovanni Battista Cavalcaselle, riferimento assoluto per questo ambito. Nelle sale ho disegnato uno storyboard, mantenendo poi quel primo ordine per realizzare i disegni mediante tecniche non correggibili, dalle quali deriva la caratteristica freschezza.

Hai già presentato il libro in molte città, tra cui Bologna, e in quell’occasione hai conversato con la Soprintendente di Archeologia, belle arti e paesaggio, Cristina Ambrosini. Cosa ne è emerso? La presentazione si è svolta all’interno di un festival di fumetto, in una libreria indipendente, insieme a Emilio Varrà (presidente dell’associazione BilBOlbul) e, appunto, a Cristina Ambrosini. Secondo la Soprintendente Ombre è un caso studio interessante per gli specialisti, lo ha definito un modo nuovo e giusto di guardare al patrimonio e alla memoria con uno sguardo contemporaneo. Lei ritiene che il libro costituisca una delle direzioni possibili per affrontare il patrimonio in chiave contemporanea.

Quali sono state le reazioni degli addetti ai lavori quando hanno sfogliato Ombre? La prima cosa che mi hanno detto – e che mi ha reso orgoglioso – è che grazie a questo libro hanno scoperto dettagli che non avevano mai visto. La seconda è che si tratta di una guida della galleria fatta da un artista: quindi un libro che, pur mantenendo la sua autonomia artistica, può diventare uno strumento utile alle istituzioni

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Cominciamo dal principio, un principio che dev’essere per forza originale, visto il risultato: come è nato Ombre? L’idea è nata dal direttore della Galleria Nazionale dell’Umbria, Marco Pierini, per festeggiare i cent’anni del museo con la pubblicazione di un volume non usuale, che non assomigliasse al canonico coffee table book. Ci conosciamo da più di dieci anni, in passato ho lavorato in tutti i luoghi in cui Pierini è stato direttore, e questa volta mi ha affidato l’incarico a scatola chiusa: l’unica richiesta è stata quella di realizzare un taccuino d’artista da riprodurre in anastatica. Per il resto, mi ha lasciato la massima libertà. Più in generale l’intenzione del direttore era ed è quella di avviare un progetto editoriale e una collana dedicata alla galleria, e allo stesso tempo di “scatenare” una progettazione legata all’arte contemporanea: in quel luogo non ha senso fare mostre di arte contemporanea, quindi ha trovato un diverso modo per coinvolgere gli artisti di oggi. Il progetto prevede, per i prossimi anni, la commissione di altri taccuini a esponenti non solo dell’arte, ma anche di discipline diverse.

E c’è interesse da parte di altri musei per dare il via a nuovi taccuini di questo tipo? Non posso ancora svelare i dettagli, ma sto già discutendo con altri tre committenti... Nel frattempo l’editore è stupito perché c’è molta richiesta e ha deciso di avviare la distribuzione internazionale del libro, nonostante i testi siano solo in italiano. E il futuro di Ombre? Nel futuro immediato è prevista una presentazione a Rimini per l’8 gennaio, al bar Lento: interverranno con me la storica dell’arte Alessandra Bigi Iotti, la tibetologa Chiara Bellini e il semiologo Paolo Fabbri.

MARTA SANTACATTERINA Roberto Paci Dalò – Ombre Quodlibet, Macerata 2019 Pagg. 112, € 18 quodlibet.it

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IN APERTURA

Andrea Mantegna. Fra antico e moderno di Federica Maria Giallombardo

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ndrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 ‒ Mantova, 1506), artista cardine dell’Umanesimo, è sbarcato al Palazzo Madama di Torino. Abbiamo visitato la mostra con la curatrice Sandrina Bandera che, insieme al curatore Howard Burns e al consultant curator Vincenzo Farinella, ha permesso a un corpus ampio e complesso di capolavori e testimonianze di rappresentare perfettamente il fiorente clima culturale di cui è intrisa la biografia dell’artista. La ricercata selezione e il raffinato percorso espositivo esaltano alcune caratteristiche di Mantegna qui riassunte in quattro punti.

fino al 4 maggio

1. I MAESTRI E I MODELLI antegna fu allievo del pittore Francesco M Squarcione, a Padova, per sei anni. Il metodo di insegnamento di Squarcione consisteva nel far copiare ai suoi allievi disegni raccolti nella propria collezione di arte romana imperiale. A metà tra il gotico e il classico, educava alla composizione e alla resa dei volumi partendo da statue e rilievi antichi – probabilmente di gesso, a modello degli originali, come scrive Vasari nelle Vite. Tale formazione ha reso Mantegna “uno scultore in pittura” (Ulisse degli Aleotti). Ma non solo. Come afferma Bandera: “La bottega di Squarcione era frequentata da docenti dell’Università di Padova, che era un fervido centro accademico per i cultori della matematica e della filosofia aristotelica. Padova raccoglieva le personalità più brillanti d’Europa: un esempio è Donatello, che da Firenze arriva in città nel ’43. Mantegna è perciò entrato in rapporto con gli umanisti più importanti dell’epoca”. Nonostante l’impostazione squarcionesca, Mantegna è riuscito quindi a captare riferimenti e influenze differenti dalla mera osservazione dei modelli classici: da Donatello apprese la forza dell’antico interpretata in termini di naturalismo e la prospettiva, a sua volta tradotta da Leon Battista Alberti; da Paolo Uccello derivò la sua attenzione alle novità del Gotico Internazionale; di Andrea del Castagno (uno dei protagonisti della pittura fiorentina del XV secolo insieme a Beato Angelico, Filippo Lippi e Domenico Veneziano) studiò il chiaroscuro espressivo e drammatizzante. Tutto ciò si amalgama e fiorisce al meglio nella personale sintesi di Mantegna.

ANDREA MANTEGNA. Rivivere l’antico, costruire il moderno

a cura di Sandrina Bandera e Howard Burns con Vincenzo Farinella Catalogo Marsilio Editori PALAZZO MADAMA Piazza Castello – Torino 011 0881178 palazzomadamatorino.it

in alto:

© Maurizio Ceccato per Grandi Mostre Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino e un coro di cherubini (part.), 1485 ca. Pinacoteca di Brera, Milano a destra:

2. I LEGAMI CON IL POTERE antegna è stato un fuoriclasse amato in M contesti eterogenei. Dall’ambiente ferrarese di Lionello e Borso d’Este a ben tre generazioni di Gonzaga, l’artista ha saputo accontentare potenti dal calibro europeo senza mai piegarsi, istituendo con loro un dialogo alla pari. Sembra ovvio, oggi, ma ai tempi artista e committente spesso nemmeno si incontravano: “Gli Sforza, ad esempio, seguivano un approccio ancora ‘tardo gotico’: per parlare con gli artisti avevano il gadio, architetto che svolgeva la funzione di intermediario tra artista e committente. I Gonzaga, invece, addirittura disegnavano insieme agli artisti e compravano i colori per i loro pittori! Sono rimaste delle lettere dove Ludovico

Gonzaga chiede personalmente la calcina per conto di ‘maestro Andrea’. La figura dell’artista era elevata così alla stregua di quella di un capo politico”, sottolinea la curatrice. Riguardo ai Gonzaga, Mantegna si era trasferito a Mantova e aveva assorbito l’ambiente culturale dei suoi signori, arricchendosi di privilegi e prestigio sociale. “Questo clima era merito dell’educazione umanista impartita a Ludovico Gonzaga, che aveva frequentato la scuola mantovana di Vittorino da Feltre. I ‘compagni di classe’ erano personalità quali Federico da Montefeltro e Gregorio Correr. Ludovico era un uomo intelligente che si era circondato di intellettuali e artisti importanti (uno tra i tanti, Leon Battista Alberti); era un mecenate tra le città che diventeranno le più importanti del Rinascimento (merito anche dei suoi legami politici, come l’alleanza con Cosimo de’ Medici). Mantegna ha vissuto in questa rete che collegava gli Stati, al di là delle differenze politiche. La scrittura diffondeva idee e informazioni: Mantegna sapeva interloquire vantaggiosamente con l’Italia dei letterati, poiché la sua erudizione era fervida e aggiornata”. Dei ritratti in mostra, il più affascinante è sicuramente quello del Cardinale Ludovico Trevisan (1459-60 ca.). Il veneziano Trevisan fu medico, cardinale e camerlengo, ma anche capo militare: aveva infatti guidato le truppe papali alla vittoria contro i milanesi ad Anghiari nel 1440. Il ritratto fu realizzato in concomitanza con il Concilio di Mantova (la famosa “Dieta di Mantova”, in cui Pio II chiese fondi per intraprendere una nuova crociata contro i turchi), momento che consacrò non solo Trevisan, ma anche la città di Mantova quale centro nevralgico della politica europea. Mantegna rappresenta il personaggio in abiti religiosi; ma lo sguardo severo e la posa di tre quarti – e non di profilo come era l’uso del tempo – permettono di compararlo ai busti antichi dei condottieri romani. La posa e l’“intenzione” del ritratto di Trevisan sono una novità nel Quattrocento, anticipata solamente dal Ritratto d’uomo di Andrea del Castagno (1450-57 ca.). La figura appare universalmente leggibile e interpretabile grazie all’immagine squadrata del busto antico. Mantegna sottrae il soggetto dall’hic et nunc e lo eleva attraverso il valore universale dell’antico e della forma architettonica. Così il gusto per l’inattuale, in Mantegna, diventa attualissimo. Perciò il ritratto è l’opera preferita da Bandera: “Questa opera mi parla. Se chiudo gli occhi, ricordo i suoi tratti alla perfezione: Mantegna è riuscito a dare un senso di astrazione, di ideale fisionomico. Era un uomo di potere immortalato nell’atto di prendere una decisione: grazie a Mantegna, è un potente che abbraccia la libertà, perché rimarrà per sempre sul punto di compiere una scelta”.


IN APERTURA

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3. LA PERSONALITÀ el catalogo un’intera sezione è dediN cata alla personalità carismatica di Mantegna. Oltre alle lettere, sono interessanti i pareri e gli elogi dei letterati che lo hanno celebrato. Ariosto sottolinea la grandezza di Mantegna, pari a quella degli antichi: il poeta si sente addirittura in competizione con il pittore, sostenendo però che lui, a differenza di Mantegna, può con la sua scrittura “dipingere il futuro”. Nell’Arcadia, Sannazaro elogia il carattere “ingegnosissimo” dell’artista; Marco Businello ricorda Mantegna e Donatello come gli artisti più illustri della Storia dell’umanità; Ulisse Aleotti gli dedica alcune delle sue più eleganti terzine (La mano industriosa et l’alto ingegno, / l’immagine raccolta nel concepto / scolpì in pictura propria vita et vera) e Filippo Nuvoloni scrive che Mantegna è capace di riprodurre in terra le immagini perfette concepite nel cielo, copiando le parole che aveva scritto Petrarca in lode a Simone Martini nel Canzoniere. Mantegna è definito “incomparabile” dal poeta Feliciano; infine, Panfilo Sasso lo paragona a un moderno Pigmalione, ovvero a un artista che convince Dio a dare vita alle sue opere, in una sorta di incarnazione-sperimentazione ai limiti estremi.

Andrea Mantegna nasce nei pressi di Padova, a Isola di Carturo (dal 1963 chiamata Isola Mantegna in suo onore)

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Si iscrive alla fraglia dei pittori padovani con l’appellativo di “fiiulo” di Squarcione, suo primo maestro

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Intraprende la sua carriera in autonomia

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Si reca a Ferrara per prestare servizio presso la corte di Leonello d’Este

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Riceve la commissione per il Polittico di San Zeno per la chiesa del santo a Verona

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Diventa ufficialmente artista di corte a Mantova, presso la famiglia dei Gonzaga

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Mantegna inizia la celeberrima Camera degli Sposi, terminata nel 1474

1488

Si reca a Roma presso il papa Innocenzo VIII. Di questo periodo è la Madonna delle Cave, oggi agli Uffizi

1496

Mantegna torna a Mantova, dove dipinge la Madonna della Vittoria

1506

Muore a Mantova il 13 settembre, a 75 anni

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4. INCISIONI E DISEGNI o sappiamo: la maggior parte dei non ai lavori (e anche molti di essi) L addetti passa distrattamente le sezioni di una mostra dedicate a testimonianze manoscritte et similia. Non è una colpa: spesso è difficile decifrare i testi esposti, leggerli e di conseguenza capirli e apprezzarli. In questa occasione, però, la selezione degli esemplari non può non appassionare l’osservatore: “Gli scritti di Mantegna mostrano un uomo educato e affabile che intesse influenti rapporti; due lettere esposte, ad esempio, lo legano a Lorenzo il Magnifico. Colpisce la bella scrittura in calligrafia umanistica, come nello stile degli intellettuali di corte. Abbiamo voluto dare risalto alle lettere per inserire il concetto di un genere molto amato dagli umanisti, ovvero il genere epistolare (di cui è capostipite Petrarca)”, fa notare Bandera. Inoltre, la naturale attrazione nei confronti delle incisioni di Mantegna deriva dal fatto che è possibile notarne un gesto paradigmatico e rassicurante: del nostro immaginario vi troviamo le peculiarità delle miniature medievali, il senso del mostruoso e del mastodontico; ma anche la stasi e l’ideale della misura classica. Un tratto sul filo dell’antico che si affaccia sul moderno. E non è un caso che uno dei suoi più grandi ammiratori fosse Albrecht Dürer: l’incisore tedesco aveva perfino organizzato un viaggio a Mantova apposta per conoscere il suo idolo. Purtroppo Mantegna morì prima che l’itinerario si compisse e quando Dürer lo venne a sapere affermò che era “il giorno più triste” della sua vita.


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OPINIONI

Quando la cultura brucia Antonio Arévalo poeta e curatore

opo 70 giorni di cortei, D i numeri che arrivano dal Cile sono da brivido: dal 18 ottobre, giorno dell’inizio della protesta, finora sono stati confermati 26 decessi, principalmente associati a incendi (12 casi), scontri tra cittadini (7 casi) o scontri con i militari (4 casi); oltre 3500 persone ferite, 359 rimaste senza vista a causa dei proiettili di gomma sparati direttamente in faccia dai soldati, circa quindicimila arresti ufficiali, violenze sessuali, a cui vanno aggiunte voci non confermate di numerosi desaparecidos. Il Cile è uno degli stati più ricchi del Sudamerica, ma è anche uno di quelli con le maggiori diseguaglianze sociali. Il salario base sfiora i 366 euro mentre la pensione minima è di circa 140 euro al mese. I prezzi delle medicine sono i più alti del continente, le multinazionali hanno il controllo su tutto. Le telecomunicazioni, le farmacie, i supermercati, la sanità pubblica, l’istruzione e perfino l’acqua sono stati privatizzati. Il rancore verso la classe dirigente qui cova da anni. La gente si è stufata e per questo scende in piazza. UNA ROTTURA GENERAZIONALE

Il 25 ottobre 2019 sarà ricordato nella storia del Paese per la “più grande marcia in Cile”, i manifestanti sono scesi in piazza, sfidando le forze di sicurezza. Un milione di persone a Santiago e oltre quattro milioni in tutto il Cile, che manifestano contro la repressione da parte delle forze militari e contro le politiche del presidente Sebastián Piñera. È una rottura generazionale. Una nuova generazione che vuole vincere! Il presidente, irresponsabilmente, ha fatto uscire i militari dalle loro caserme; per giustificare una iniziativa così drastica, ha parlato di “stato di guerra”. Ma guerra contro chi? Forse contro di lui. Abbiamo ferite ancora aperte, riportare le forze armate per le strade del Cile è profondamente doloroso. In questi stessi giorni abbiamo visto tutti il fenomeno mondiale e l’agitazione che ha causato la performance Un violador en tu camino del collettivo Las tesis, un gruppo

di quattro donne, due attrici, una storica e un’artista visiva che affermano di aver scelto quel nome perché usa le teorie del femminismo e le “traduce” nel linguaggio artistico / performativo, diffondendole. Il suo impatto è stato globale perché gli stati sono risultati deboli nel legiferare e condannare ciò che non è sempre stato considerato un crimine. IL CENTRO CULTURALE CINEMA ARTE ALAMEDA

Lo scorso venerdì la violenza è fuggita di nuovo al controllo e gli eccessi della polizia hanno causato una nuova vittima, il Centro Arte Alameda. Il Centro Culturale Cinema Arte Alameda nacque nel 1992, la sua direttrice Roser Fort è riuscita a consolidare il Centro nel circuito dei teatri d’arte a livello nazionale e a renderlo parte attiva della rete dei cinema del Cile. Spazio storico di Santiago, situato a pochi passi da Piazza Baquedano o Piazza Italia, nominata dalle masse protestanti Piazza della Dignidad. Fin dalla sua istituzione, offre il meglio del cinema d’arte nazionale e internazionale, scommettendo su produzioni indipendenti, straniere e LGBT+. Concerti e altre esibizioni dal vivo vengono eseguiti nella sala principale. L’incidente iniziato con il lancio di una bomba lacrimogena dai Carabineros in questo luogo è diventato simbolo dell’insurrezione sociale, perché ha funzionato anche come centro assistenza e di cura per i feriti che manifestavano. Oggi, come dice il giornalista Eugenio Llona, conosciamo l’infamia dei cretini e degli ignoranti che si rallegrano della sua distruzione, se potessero brucerebbero di nuovo libri, film, video. Non è storia passata, è una minaccia latente. Il rogo del Centro Arte Alameda è un fatto contro ciò che il Potere teme maggiormente: consapevolezza critica, intelligenza, immaginazione, identità e cultura.

Repetita iuvant? Antonio Natali storico dell’arte

talia Nostra’ s’è generosamente spesa per evitare che l’Uomo vitruviano di Leonardo travalicasse i confini nazionali per essere esibito alla mostra dedicata dal Louvre al Vinci. Molti, come me (che n’ho scritto su queste pagine), hanno sostenuto la battaglia dell’Associazione, anche nella speranza che fosse la volta buona per mettere finalmente alcuni punti fermi sulla normativa che regola i prestiti d’opere all’estero. In più occasioni m’è occorso di richiamare l’articolo 66 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (non d’epoca fascista, dunque, ma d’una quindicina appena d’anni fa). Articolo ch’è stato evocato anche nell’ordinanza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (16 ottobre 2019), che però revocava la sospensione della trasferta del disegno a Parigi sentenziata pochi giorni prima dallo stesso Tar del Veneto (8 ottobre 2019).

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CONCESSIONI E MARCE INDIETRO

Di quell’articolo il secondo decreto del Tar citava il comma 2a, quello cioè che vieta “l’uscita temporanea dal territorio della Repubblica” dei “beni suscettibili di subire danni nel trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali sfavorevoli”: comma che, a giudizio del Tar, non sarebbe stato violato con la concessione del prestito. In margine annoto che quello stesso comma fu giustamente enunciato dal legislatore, ma che nella prassi dovrebbe suonare superfluo, giacché impone un contegno che per un funzionario storico dell’arte è fra quelli più elementari quando sia chiamato a pronunciarsi riguardo alla concessione d’un prestito: legge o non legge, le prime cose di cui un funzionario si dovrebbe sincerare (subito dopo aver verificato lo stato di conservazione dell’opera) sono la sicurezza del trasporto e le condizioni ambientali del luogo in cui essa sarà esposta. Superflua invece non è (ma mi pare che ancora una volta sia stata elusa) la prescrizione sancita nel successivo comma 2b, che vieta l’esportazione fuori dal territorio nazionale di quei “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica

sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. In un primo momento il Tar del Veneto aveva sospeso la trasferta in Francia dell’Uomo vitruviano, ma n’era immediatamente seguìta quella retromarcia che ognuno, conoscendo le dinamiche italiane, dava per scontata. Il prestito ha così avuto anche la legittimazione giuridica; che, calando pesante sulla questione, è risuonata come una marmorea lastra tombale sulla gestione dei prestiti all’estero. INTERPRETARE LA LEGGE

Stando all’ordinanza in oggetto, l’Uomo vitruviano non è evidentemente parte del “fondo principale” della collezione di disegni delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Verrà allora naturale indovinare che la stessa interpretazione della legge sia sottesa alla concessione del prestito del celeberrimo disegno 8P degli Uffizi alla medesima mostra parigina. Qualche domanda però bisognerà farsela. È o non è questo foglio uno dei più ragguardevoli dell’intero corpus grafico vinciano? Prima di darsi una risposta si dovrà considerare che Leonardo di pugno suo ne scrisse – a sinistra, vicino al margine superiore del recto – la data d’esecuzione (5 agosto 1473) e parimenti si dovrà tener conto che la letteratura critica lo reputa a buon diritto il primo paesaggio dal vero di tutta l’arte occidentale (nella fattispecie, a mio avviso, la veduta dal colle di Belvedere della piana fra lo sprone col castello di Montevettolini e il grande gibbo di Monsummano). E allora, ecco la seconda e conseguente domanda: è o non è, questo foglio, uno dei vertici del “fondo principale” del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi? Se queste prerogative non bastassero a inibirne l’esportazione temporanea dall’Italia, si specifichi allora quali siano quelle necessarie a un’opera perché ricada sotto l’articolo di legge che s’è menzionato. Altrimenti si dica con chiarezza che il Ministro, prescindendo dalla legge, decide di volta in volta cosa a suo giudizio sia conveniente prestare in terra straniera. La civiltà d’un Paese vorrebbe che una legge si cambiasse quando non si reputi adeguata. Cambiare una legge si può; aggirarla per trasgredirla, no.


OPINIONI

Musei: da piccoli a smart Stefano Monti economista della cultura

on molti giorni fa, in N Commissione Bilancio al Senato, è stato approvato un emendamento che istituisce il Fondo per il funzionamento dei piccoli musei, con una dotazione di 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2020. Più nel dettaglio, la dotazione finanziaria è destinata, si legge dai comunicati stampa, a garantire il funzionamento, la manutenzione ordinaria e la continuità nella fruizione per i visitatori nonché l’abbattimento delle barriere architettoniche. Un’iniziativa che potrebbe rivelarsi importante per l’intera struttura museale nazionale, purché condotta secondo una visione strategica che non si limiti a rispondere alle semplici “emergenze”. È sicuramente importante, infatti, garantire che i piccoli musei possano mostrare continuità negli orari di apertura ed essere accessibili, sia in termini architettonici che in termini di “orari” fruitivi. Ma avere degli orari di apertura è pur sempre uno strumento, non certo un obiettivo. Immaginare il Fondo come un semplice borsellino aggiuntivo per poter assumere risorse precarie da impiegare per l’apertura dei musei è forse il peggiore utilizzo che si possa fare di queste risorse pubbliche. Perché avere dei musei vuoti per più ore a settimana non è di grande utilità pubblica. Così come non è sufficiente poter abbattere le barriere architettoniche, perché accessibile non significa di appeal. Garantire il funzionamento deve voler dire garantire che il piccolo museo possa attrarre abbastanza visitatori durante gli orari di apertura, così da poter tenere fede ai propri obiettivi statutari. PAROLA D’ORDINE: ADATTAMENTO

Esistono numerose direttrici che è possibile intraprendere. Una di queste, sicuramente non abbastanza “indagata” nel nostro Paese, prende spunto dai processi di adattamento che le micro-piccole e medie imprese (MPMI) hanno avuto nel nostro sistema economico. Del resto, le MPMI condividono spesso le stesse criticità dei piccoli musei: poco personale, poche risorse economiche per poter attivare

processi di comunicazione e valorizzazione dei propri clienti, bassa “capitalizzazione”. Come hanno operato, dunque, le MPMI per resistere alla concorrenza dei giganti del settore? Hanno fatto della loro dimensione un punto di forza. Si sono trasformate, spesso anche in modo inconsapevole, da “piccola impresa” a “impresa agile”, per poi divenire “impresa smart”. I piccoli musei potrebbero seguire la medesima traiettoria di adattamento, adottando strategie che possano favorire l’afflusso di visitatori e che, al contempo, possano anche svolgere un ruolo di “sviluppo” all’interno del più vasto sistema museale italiano. Una delle grandi debolezze sistemiche del nostro tessuto museale è infatti la scarsa inclinazione all’innovazione. Ci sono varie ragioni che determinano questo attrito. Tra queste, l’aspetto dimensionale dei musei riveste un ruolo importante. IL POTENZIALE DEI PICCOLI MUSEI

Finora i tentativi di innovazione hanno riguardato principalmente i grandi musei, ma questi presentano almeno due ordini di problematiche: la prima è la dimensione organizzativa e amministrativa, che spesso rischia di arginare la portata innovativa di progetti sperimentali con un atteggiamento alle volte più burocratico che costruttivo. Dall’altro, la grande dimensione implica anche una grande responsabilità: l’innovazione si accompagna sempre a una certa dose di rischio e, per i grandi musei, il rischio alle volte è troppo grande. Cosa succederebbe se un progetto innovativo bloccasse gli ingressi al Colosseo? È qui che i piccoli musei possono giocare un ruolo centrale: incubatori di tecnologia, laboratori di nuove forme di fruizione, che implementino aspetti tecnologici a elevato tasso di innovatività. Interventi di questo tipo potrebbero sollecitare interesse nelle categorie di “visitatori potenziali” e, nel frattempo, favorire l’adozione di progetti innovativi anche nei cosiddetti grandi musei, con beneficio generale per l’intera collettività. Non si tratta di sola tecnologia, ma di approccio strategico. L’obiettivo non è fare in modo che per i visitatori sia facile avere accesso al museo. L’obiettivo è che i visitatori vogliano avere accesso al museo.

Di anno in anno: da Leonardo, a Raffaello Fabrizio Federici storico dell'arte

Anno Leonardiano ce lo siamo (finalmente?) lasciato alle spalle. Protagonista (mancato) dei dodici mesi consacrati al genio di Vinci è stato quel Salvator Mundi che, dopo aver fatto scalpore al momento del suo acquisto da parte degli Emirati Arabi, nel 2017, si è gradualmente ritirato dalle scene, a indicare che la sua autografia è tutt’altro che pacificamente accolta. Si diceva che il dipinto dovesse rispuntare fuori alla rassegna parigina su Leonardo; invece nulla, e in mostra ha fatto le sue veci una versione di bottega non tanto esaltante. Per un feticcio che stenta ad affermarsi come tale, un altro, anzi il feticcio dei feticci, che consolida il suo dominio: emblematica dello strapotere della Gioconda è stata la vicenda del suo temporaneo spostamento nella sala del Louvre che accoglie il ciclo di Maria de’ Medici di Rubens. In barba al fatto che anche le tele seicentesche sono opere capitali e celeberrime, e che, costituendo per l’appunto un ciclo, andrebbero viste tutte insieme, una di seguito all’altra, la teca con la Monna Lisa è stata quasi addossata a due dei dipinti rubensiani, rendendone praticamente impossibile la fruizione. Poco dopo è arrivata la proposta provocatoria (ma neanche tanto) del critico del New York Times Jason Farago: se vuole sopravvivere all’assalto degli idolatri, il Louvre deve rimuovere il feticcio e dedicargli uno spazio esclusivo, in un padiglione esterno all’edificio del museo.

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ATTRIBUZIONI STRAMPALATE E DINTORNI

Non sono mancate, naturalmente, le attribuzioni strampalate. Una bufala clamorosa, che per fortuna sembra essersi eclissata con la rapidità con cui ha fatto il giro del mondo, ha riguardato un ritratto risalente al Cinquecento inoltrato del castello di Valençay, nella Loira, spacciato per un’effigie di Nicolò Machiavelli dipinta da Leonardo da Vinci: quando invece l’opera non c’entra nulla né con l’uno né con l’altro. Al di qua delle Alpi si sono viste cose belle e cose brutte. Tra le seconde una rabbiosa

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Giorgia Meloni che, con tanto di striscione, rivendica l’italianità di Leonardo. Molti hanno ribattuto che nel Rinascimento “l’Italia nemmeno esisteva”; ma è una risposta fuorviante. Anche se la Penisola non era unificata, una “identità” italiana, un comune senso di appartenenza esisteva eccome, tra gli intellettuali: Leonardo avrebbe potuto cantare, parafrasando Gaber, “Io mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo non lo sono”. Il punto è un altro. Che non ha senso, ed è anzi pericoloso, sfruttare figure di portata universale per aizzare sentimenti nazionalistici e per un basso tornaconto di visibilità politica. Indipendentemente da dove sono nati (e comunque Leonardo trascorse un periodo significativo della sua esistenza oltralpe). Di fronte all’errore del conduttore di France 2, che, lanciando un servizio su Leonardo, lo ha definito “genio francese”, sarebbe stato meglio fare spallucce e dedicarsi a diffondere la conoscenza di un artista che molti tirano per la giacchetta, senza tuttavia conoscerne adeguatamente l’opera. GLI EVENTI DA RICORDARE

Tra le iniziative meritorie vanno menzionate almeno la mostra dell’Ambrosiana dedicata alla grafica, quella su Verrocchio a Palazzo Strozzi (che ha avuto il merito di ricordare che Leonardo non è un genio isolato, ma un personaggio profondamente calato nel suo tempo, allievo di un artista sommo) e l’apertura delle spettacolari Nuove Gallerie consacrate al Vinciano presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Il testimone passa ora a Raffaello: al di là di come la si pensi sulle megamostre-evento, la rassegna in programma alle Scuderie del Quirinale lascia a bocca aperta, per il numero e la qualità delle opere. E chissà che nel 2020, dopo un Caravaggio (dubbio) ritrovato in soffitta e un Cimabue appeso in cucina, non salti fuori, da un garage o da una rimessa per gli attrezzi, un capolavoro del gigante di Urbino.


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FOTOGRAFIA

Le metropoli di Gabriele Basilico di Arianna Testino

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l legame tra Gabriele Basilico (Milano, 1944-2013) e l’ambiente urbano è stato un tratto distintivo del suo fare fotografia, sviluppato nel corso dei decenni attraverso viaggi – e punti di vista – che ne hanno forgiato il linguaggio. La mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma approfondisce questo tema, riunendo oltre 250 opere realizzate nelle metropoli del pianeta. Abbiamo chiesto ai curatori Filippo Maggia e Giovanna Calvenzi – quest’ultima anche responsabile dell’Archivio Gabriele Basilico nonché compagna di vita del fotografo – e ad Alberto Saibene – co-fondatore insieme a Giovanna Silva della casa editrice Humboldt Books – di raccontare il “loro” Gabriele Basilico. Mescolando ricordi privati e lavoro sul campo.

fino al 13 aprile

GABRIELE BASILICO Metropoli a cura di Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia Catalogo Skira PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI Via Nazionale 194 – Roma 06 39967500 palazzoesposizioni.it

a destra: Gabriele Basilico, Milano ritratti di fabbriche, 1978 © Archivio Gabriele Basilico

I viaggi di Gabriele Basilico 1 1969 GLASGOW

9 2000 BERLINO, VALENCIA

2 1970 TURCHIA, IRAN

14 2001 BUENOS AIRES

4 1977 TERNI

16 2003 TRENTINO, LONDRA

3 1971 MAROCCO

15 2002 STRETTO DI MESSINA

5 1983 EMILIA-ROMAGNA

17 2004 BOSTON, PECHINO, MONTE CARLO

6 1984-85 NORMANDIA

18 2005 ISTANBUL

7 1985 GENOVA, TRIESTE

19 2006 ISRAELE, LISBONA

8 1987 LAGO TRASIMENO, LOSANNA

20 2007 SAN FRANCISCO, MOSCA, ROMA

11 1994 ISRAELE

22 2010 VENEZIA, SHANGHAI

10 1991 BEIRUT

21 2008 LIVERPOOL

12 1995 PORTO

23 2011 RIO DE JANEIRO

13 1998 PALERMO

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14 Fonte: archiviogabrielebasilico.it

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FILIPPO MAGGIA Curatore ual è l’idea di metropoli che Basilico intendeva trasmettere e come si colloca nel panorama visivo, ma anche architettonico e sociale, odierno? Gabriele Basilico era ossessionato dalla città e dai temi urbani, al punto di affermare che la città “ha sempre esercitato su di me un fascino grandioso, illimitato, da ingordigia”. La fotografia, ancora utilizzando parole sue, è stata quasi un “pretesto” per indagare a fondo il tessuto delle città con un approccio simbiotico, ogni volta adattandosi a vivere un’esperienza diversa, sovente con lunghe attese prima che la città cominciasse a rivelarsi al suo sguardo. La sua fotografia aiuta noi tutti a vedere le città, a riconoscere il loro carattere e la loro natura attraverso le sue immagini di importanti edifici come di architetture mediocri. Esercizio, questo, che include anche l’utilità sociale della pratica fotografica, perché oggi la fotografia è in grado di offrire uno sguardo trasversale e, “se mediata attraverso l’esperienza dell’arte, di restituire uno scenario più comprensibile”, come lui stesso ricordava.

Q

Come avete selezionato le fotografie presenti in mostra? Le 40 fotografie presenti in Milano ritratti di fabbriche e le 96 fotografie delle Sezioni del paesaggio italiano corrispondono precisamente alle selezioni originarie a suo tempo ordinate da Basilico. La scelta per Beirut è inedita: il bianco e nero del 1991 e il colore del 2011 documentano l’inizio e la quasi fine di un determinato periodo storico: dalla fine della guerra civile alla quasi fine della ricostruzione e rinascita di una città che vorrebbe tornare ai fasti del passato, quando Beirut era conosciuta come la Parigi del Medio Oriente. L’ampia sezione dedicata alle metropoli del mondo include una serie di opere mai presentate sino a oggi, ad esempio Liverpool e Boston. Roma, infine, è una selezione organizzata guardando alle differenti occasioni che Basilico ha avuto di operare nella Capitale, fotografie dove il marmo si sostituisce al cemento. Quali somiglianze e quali differenze intercorrono fra queste metropoli? Il racconto delle città per immagini avviene, come Basilico medesimo ricorda, nel “cercare di svelarne l’essenza, essere pronti ad ascoltarne le voci, decifrarne i messaggi nascosti, entrare in sintonia con i luoghi, cercare, attraverso il confronto con altri luoghi, quelle affinità che ci fanno riconquistare un senso di appartenenza e una familiarità che ci consente di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo, allo sconosciuto… e allora Beirut ci riporta a Palermo e forse un po’ a Napoli, una certa parte di Roma si ritrova a Parigi e forse a Madrid…”.


FOTOGRAFIA

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GIOVANNA CALVENZI Curatrice / Archivio Gabriele Basilico rchitettura e fotografia si supportano a vicenda nella produzione visiva di Gabriele Basilico. Come si è evoluto il dialogo tra queste due discipline nel corso del tempo? Architettura e fotografia si sono sempre intrecciate nella trascrizione della realtà di Gabriele Basilico. Sia per i suoi studi che per le prime esperienze professionali presso studi di architettura milanesi, Gabriele Basilico non ha mai dimenticato la sua impostazione metodologica, l’attenzione al costruito, allo studio dell’urbanistica, facendo delle esperienze universitarie la base del suo lavoro di fotografo. Tutta la sua opera è interamente dedicata alla conoscenza delle città, alla rilettura delle trasformazioni del paesaggio urbano contemporaneo.

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Mare, acqua, porti, cemento, strade, periferie sono solo alcuni dei soggetti scelti da Basilico, anche adottando una prospettiva dall’alto. Come stabiliva i soggetti da riprendere e i punti di vista da utilizzare? Gabriele Basilico è sempre stato affascinato dalle città, dalla loro storia, dalle stratificazioni architettoniche create dal tempo e ha sempre preferito, come ha spesso detto e scritto, l’architettura “media”, le periferie, i porti, dichiarando di essere vittima di una sorta di fascinazione nei confronti del cemento. Lui stesso ha scritto: “Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta, e penso che la fotografia sia stata, e continui forse a essere, uno strumento sensibile e particolarmente efficace per registrarlo”. Per quanto riguarda poi l’identificazione dei “punti di vista”, ecco come l’ha descritta: “Se immaginiamo la città come un grande corpo fisico e prendiamo metaforicamente come esempio l’agopuntura, sappiamo che ci sono dei punti lungo i meridiani nei quali si attiva l’energia. Allo stesso modo mi piace pensare, come fotografo, che in fondo mi muovo come se cercassi dei punti nello spazio fisico nei quali collocare il punto di osservazione e da dove infine proiettare lo sguardo”.

ALBERTO SAIBENE Co-fondatore della casa editrice Humboldt Books

Lei ha condiviso il percorso professionale e umano di Basilico, compiendo insieme a lui numerosi viaggi. Quale legame sviluppava con i luoghi? E quanto della sua interiorità proiettava negli scatti, mantenendo quella “distanza” cui alludeva spesso riferendosi al fare fotografia? Ho condiviso certamente il percorso umano di Basilico ma non ho mai lavorato professionalmente con lui e mi è capitato solo in modo saltuario di seguirlo nei suoi viaggi. In ogni luogo, tuttavia, trovava sempre delle ragioni di interesse, vedeva cose che io non vedevo. Ancora Gabriele ha scritto: “È forse presuntuoso e illusorio sperare che la fotografia possa rieducare alla visione dei luoghi, ma sicuramente uno sguardo sensibile, meditativo, centrato, può aiutare a rivelare ciò che è davanti ai nostri occhi ma spesso non è riconoscibile. È come se facessi le stesse fotografie da sempre, con la specificità di costruire un dialogo privilegiato con i luoghi che scelgo di fotografare, con la loro storia, con la loro natura, con i loro tratti somatici, ma confrontandoli con la memoria di tutti i luoghi che ho conosciuto in precedenza”.

me pare che il rapporto tra Gabriele Basilico e la città si definisca dopo Milano ritratti di A fabbriche (1978-80), un’indagine che testimonia, fra le altre cose, che la prima modernità è finita se si può trattare il suo centro propulsore, la fabbrica, come qualcosa che è stato e che ora non c’è più. Lo aiuta essere cresciuto a Milano, una città che ha conosciuto due momenti del Movimento Moderno, quello degli Anni Venti-Trenta e quello dopo la Seconda Guerra Mondiale (Grattacielo Pirelli vs. Torre Velasca). Certo aver studiato architettura è stato fondamentale per lui, ma il dato biografico gli offre la possibilità di uno sguardo istintivamente diacronico sul XX secolo, preparandolo al suo epilogo, al passaggio dal moderno al postmoderno. Basilico è molto consapevole, quindi, quando fotografa le grandi città europee e più tardi le metropoli del mondo, del rapporto tra i pieni e i vuoti, della relazione tra gli edifici, anzi cerca un dialogo tra loro. L’ultimo decennio del XX secolo gli offre una gamma che ai suoi estremi ha da una parte Berlino, una città che rinasce dopo la caduta del Muro, dall’altra Beirut, una città archeologica dopo venticinque anni di guerra civile. Il suo sguardo non cambia, anzi è proprio il rigore (e la curiosità) che utilizza nell’indagare queste città che serve a tenere insieme l’universale e il dettaglio. Basilico ha dichiarato in più occasioni della necessità che le architetture urbane devono essere fotografate senza presenze umane, tuttavia la sua è una fotografia umanistica proprio perché la città è sempre opera dell’uomo, anzi è il suo esito più elevato. Il più grande complimento che si può fare alla fotografia di Gabriele Basilico è che noi oggi guardiamo certi paesaggi, specie urbani, con i suoi occhi. Diciamo: “Sembra una fotografia di Basilico”, come diremmo “Sembra un film neorealista”. Anche dopo la sua morte il rapporto con la sua fotografia è rimasto per noi qualcosa di vivo, perché la sua opera è oggi un classico e, per citare Italo Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”. E “foto” nel nostro caso vale come “libro”. Avendolo un po’ conosciuto, penso che a Gabriele sarebbe piaciuto.


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PERCORSI

A spasso per Parma 2020 (II)

di Santa Nastro

ANTICA CORTE PALLAVICINA Strada del Palazzo Due Torri 3 Loc. Polesine Parmense 0524 936539 anticacortepallavicinarelais.it

PARMA

LOCANDA ABBAZIA Strada Viazza di Paradigna 1 Parma 0521 604072 locanda@csacparma.it

CSAC Via Viazza di Paradigna 1 Parma 0521 903652 csacparma.it

L’EVENTO Questa volta invece che da una mostra partiamo da un evento. Anzi dall’evento. L’Italia esce dalla straordinaria esperienza di Matera 2019, Capitale Europea della Cultura, e affronta per il 2020, dopo un anno di stop, la sfida di Parma, Capitale Italiana sotto il tema La cultura batte il tempo. L’inaugurazione si è svolta dall’11 al 13 gennaio e quindi siamo di fronte a un cartellone fresco fresco, che ha appena cominciato a scaldare i motori. Ma cosa significa per una città essere Capitale Italiana della Cultura? A spiegare bene la natura di questo progetto è stato il Ministro Dario Franceschini: “Fin dalla prima edizione del 2014, la selezione per il titolo di Capitale Italiana della Cultura rappresenta un’occasione di competizione virtuosa, durante la quale le comunità mettono in gioco talenti ed energie, memoria e innovazione. La mobilitazione e la capacità di fare rete ha sempre portato un effetto moltiplicatore sullo sviluppo turistico e sulla fruizione del patrimonio culturale materiale e immateriale delle città vincitrici. Effetti che si vedranno anche a Parma 2020. Qui sono nate grandi opere e grandi uomini. Dalla Pilotta, con il suggestivo Teatro Farnese, al fascino del Duomo e del Battistero. Dall’arte del Correggio e del Parmigianino alla musica di Verdi e Toscanini, dalla letteratura di Guareschi alla poesia e al cinema di Attilio, Bernardo e Giuseppe Bertolucci”. Vediamo nel dettaglio cosa ci aspetta.


PERCORSI

STAZIONE DI PARMA

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da maggio a novembre I MESI E LE STAGIONI ‒ PIAZZA DUOMO CON GLI OCCHI DI BENEDETTO ANTELAMI BATTISTERO DI SAN GIOVANNI BATTISTA Piazza Duomo – Parma 0521 208699 piazzaduomoparma.com

PALAZZO DUCALE PARCO DUCALE

TEATRO REGIO

MAURIZIO NANNUCCI. TIME PAST, PRESENT AND FUTURE COMPLESSO MONUMENTALE DELLA PILOTTA Piazza della Pilotta 5 – Parma 0521 233309 pilotta.beniculturali.it fino al 3 maggio TIME MACHINE a cura di Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi PALAZZO DEL GOVERNATORE Piazza Giuseppe Garibaldi 19 – Parma 0521 218929 palazzodelgovernatore.it

LA MOSTRA La mostra non può essere altro che Time Machine, a cura di Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi. Inaugurata nel giorno di apertura di Parma 2020, Time Machine sarà a disposizione del pubblico fino a maggio, offrendo l’opportunità di esplorare l’universo emozionante delle immagini in movimento negli ultimi 125 anni – e il modo in cui queste hanno cambiato la nostra visione del mondo. Tra film, proiezioni, video e installazioni (le macchine del tempo evocate dal titolo), sono gli artisti a venire in aiuto ai curatori per rispettare il filo del discorso: Douglas Gordon, Rosa Barba, Tacita Dean, Stan Douglas, Martin Arnold, Harun Farocki, JeanLuc Godard e Bill Morrison, dislocando i propri interventi nelle venticinque sale del Palazzo del Governatore. L’ARTISTA L’artista non è parmigiano, ma ha fatto per Parma 2020 un importante intervento. Si tratta di Maurizio Nannucci, nato a Firenze nel 1939, che lo scorso novembre ha realizzato sui quattro lati del cortile di San Pietro del Complesso Monumentale della Pilotta la sua più grande installazione, Time, Past, Present and Future: 190 metri di neon e 55 lettere in vetro di Murano, resi possibili dall’Italian Council. Il rapporto con l’architettura non è nuovo nella ricerca di Nannucci, che negli

anni ha collaborato con Massimiliano Fuksas, Renzo Piano e Mario Botta. L’artista, che nel corso della sua carriera ha partecipato alla Biennale di Venezia, a Documenta e ad altre importanti manifestazioni a carattere biennale, è anche protagonista di una mostra che ripercorre la sua storia. IL MUSEO È naturalmente il CSAC ‒ Centro Studi e Archivio della Comunicazione, fondato da Arturo Carlo Quintavalle nel 1968 e connesso all’università cittadina. Dal 2007 si colloca presso l’Abbazia di Valserena. Organizza mostre, pubblica cataloghi, offre un bookshop ma anche servizi di accoglienza e ospitalità. E soprattutto, conta un archivio mastodontico che documenta arte, fotografia, media, progetto e spettacolo. “Entrare nell’archivio del CSAC è come immergersi in un mare tropicale. Impossibile non rimanerne affascinati, anche se non si riconoscono i pesci si è frastornati dai colori, dalle forme e soprattutto dalla quantità di animali da osservare”, sostiene Luca Vitone, tra gli artisti coinvolti, insieme a Massimo Bartolini ed Eva Marisaldi, nel programma Through time: integrità e trasformazione dell’opera, pensato da CSAC in occasione di Parma 2020. IL LUOGO È il Battistero per antonomasia, uno dei luoghi iconici non solo di Parma ma

dell’Italia intera. Commissionato nel 1196 a Benedetto Antelami, è famoso per la sua pianta ottagonale e per le formelle in marmo rosa che ne decorano l’esterno. All’interno, oltre agli affreschi che ne adornano le pareti, è da segnalare il bel ciclo dei mesi, realizzato ad altorilievo, capolavoro dell’Antelami, che racconta lo svolgersi delle stagioni. All’artista è dedicata la mostra I Mesi e le stagioni ‒ Piazza Duomo con gli occhi di Benedetto Antelami, da maggio a novembre al Battistero. MANGIARE E DORMIRE Si dorme nella foresteria del CSAC di Parma, presso l’Abbazia di Valserena, una struttura monastica del XIV secolo, che permette ai visitatori di soggiornare all’interno del complesso museale e di riposare nelle cellette dei monaci riadattate a camere e suite. Per il pranzo, gita fuori porta a Polesine Parmense, a 45 minuti di automobile, dove vi accoglierà l’Antica Corte Pallavicina di Massimo Spigaroli: qui il Culatello di Zibello regna incontrastato (e c’è anche un percorso museale dedicato a questo salume). Volendo la struttura ha anche delle camere, se decidete di fare una pausa di relax nella campagna parmense.

a sinistra:

Duomo di Parma, photo Edoardo Fornaciari


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OLTRECONFINE

Nuovi sguardi su Jan van Eyck

di Stefano Castelli

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e il Ritratto dei coniugi Arnolfini è l’opera che viene subito alla mente quando si fa il suo nome, Jan van Eyck (Maaseik [?], 1390 ca. – Bruges, 1441) è immediatamente associato anche a diverse definizioni, alcune assodate e altre da discutere. Iniziatore della pittura fiamminga, inventore della pittura a olio, pittore di corte... E le diverse lacune nella biografia aumentano il fascino del personaggio e le sfide per gli storici. Una mostra dal taglio scientifico, annunciata come epocale quale Van Eyck ‒ An optical revolution, al MSK di Gand (40mila prenotazioni già a tre mesi dall’apertura), serve anche a rileggere un maestro con gli occhi odierni, a confermare o smentire le idee acquisite. Matthias Depoorter, coordinatore della mostra (dotata di un comitato scientifico che riunisce studiosi di diversi musei e università del Belgio), ci accompagna alla scoperta del “nuovo sguardo su van Eyck” che viene promesso al visitatore.

Lo slogan che lancia l’esposizione recita: “Il maggior numero di van Eyck esposti insieme di sempre”. “Il vero pezzo forte è la Pala d’altare di Gand”, spiega Depoorter, “la cui presenza può essere considerata un’occasione più che unica: è la prima volta che si realizza una mostra intorno a questo pezzo”. Detto anche Polittico dell’agnello mistico o Polittico di Gand, si tratta del più antico lavoro conosciuto dell’artista insieme al Léal Souvenir. Normalmente di casa alla Cattedrale di San Bavone a Gand, il polittico si presenta qui ora al pubblico dopo un restauro durato cinque anni a cura dell’Institut royal du patrimoine artistique di Bruxelles. “È sempre apparso come un capolavoro straordinario, beninteso”, continua Depoorter, “ma ora lo si vede in modo completamente diverso, molto più simile agli altri lavori che conosciamo dell’autore. Anche in questo senso la mostra getta un nuovo sguardo su van Eyck”.

IL MONDO “COME LO SI VEDE” Proprio il Léal Souvenir dalla National Gallery di Londra, che di solito non viene dato in prestito, è un altro dei pezzi forti. “Ma in generale l’intera galleria di ritratti che proponiamo è, nel suo insieme, il clou. Di fianco al ‘Léal Souvenir’ c’è il ‘Ritratto di Jan de Leeuw’ del Kunsthistorisches di Vienna, sulla parete opposta il ‘Ritratto d’uomo con copricapo blu’ dalla Romania e poi il ‘Ritratto di Baudouin de Lannoy’ da Berlino...”. Ma in cosa consiste esattamente la “rivoluzione ottica” evocata dal titolo della mostra? “Nel perfezionamento della pittura a olio che van Eyck portò avanti, ma soprattutto nel modo realistico in cui dipingeva ‒ realistico è un termine controverso, ma non c’è un modo migliore di definirlo. Questo sguardo accurato sul mondo è una rivoluzione in sé, se si confronta van Eyck con gli altri autori del Quattrocento. Alcuni storici dicono che c’è un prima e un dopo van Eyck. Fu una rivoluzione ‘ottica’ in generale, con riferimento al


OLTRECONFINE

1390-1400 1422

1426-1432

1429 1430-32

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Nasce, probabilmente a Maaseik Dopo una formazione probabilmente nel campo della miniatura, giunge all’Aia dove apre il suo atelier e diventa pittore di corte di Filippo il Buono. Realizza il Polittico di Gand, suo capolavoro più antico tra quelli conosciuti insieme al Léal Souvenir del 1432 Si trasferisce a Bruges, dove rimane fino alla morte Le stigmate di San Francesco

1432

Probabile data del matrimonio con Margareta

1434

Ritratto dei coniugi Arnolfini

1435

Ritratto di Bauduoin de Lannoy

1440

Completa il Libro d’ore di Torino-Milano

1441

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Muore a Bruges

modo di guardare al mondo. E più specificamente per quanto riguarda il modo di trattare la luce, la consapevolezza di come essa ‘funziona’. È quasi certo che van Eyck avesse conoscenze precise e specifiche su come la luce assorbe, riflette, rifrange...”, sottolinea Depoorter. Proprio tale “realismo” costituisce un approccio al mondo di tipo nuovo, un cambio di paradigma filosofico. Ed è il tratto più moderno di van Eyck. “Fu la prima volta nella storia della pittura occidentale che qualcuno adottò tale realistica accuratezza. In un certo senso, ancora oggi guardiamo al mondo (e a un’immagine) in questo modo. Si pensi solo ai dettagli dei ritratti. Oppure alle numerose lune dipinte da van Eyck (una è presente anche nella Pala d’altare di Gand). La superficie è accuratissima, compresi i crateri. Si tratta per quel che sappiamo del primo dipinto realistico della superficie della Luna (e siamo ottant’anni prima di Leonardo). Si tratta di osservare il mondo e dipingerlo così come lo si vede. Si può dire lo stesso per le nuvole, le rocce, le persone...”. FIAMMINGHI E ITALIANI A CONFRONTO Tredici le sale che accolgono l’esposizione, ridisegnate per l’occasione. In totale sono in mostra più della metà dei venti lavori di van Eyck a noi pervenuti. Sette altre opere esposte sono della bottega del maestro, e cento di altri autori servono a contestualizzarlo ampiamente. Dando parecchio spazio alla pittura italiana. “Siamo entusiasti di presentare diversi magnifici dipinti italiani del periodo di van Eyck”, afferma Depoorter.

“Due sue Annunciazioni, quella della pala d’altare e quella della National Gallery di Washington, dialogano con quella di Domenico Veneziano, che giunge da Cambridge. Poi c’è la piccola ‘Madonna Casini’ del Masaccio dagli Uffizi che si confronta con la ‘Madonna alla fontana’ di van Eyck di Anversa; le ‘Stigmate di San Francesco’ del Beato Angelico dai Musei Vaticani vicino alle due versioni di van Eyck, quella di piccolissimo formato da Philadelphia e quella della Galleria Sabauda di Torino... Personalmente, non vedo l’ora di vedere questi dipinti tutti insieme”. Non possono mancare le miniature, parte importante della produzione dell’artista e probabilmente tecnica con la quale compì la sua formazione. “Il pezzo forte è il ‘Libro d’ore di TorinoMilano’, che arriva dal Palazzo Madama di Torino. Due delle miniature sono state per lungo tempo considerate come attribuite; noi (e una buona maggioranza degli studiosi) siamo fermamente convinti che siano state dipinte dall’artista”. Proprio il Libro delle ore è tra i lavori che vengono esposti per la prima volta dopo il restauro, oltre al Polittico di Gand, come detto, al Ritratto di Bauduoin de Lannoy e a un busto cinquecentesco che ritrae van Eyck. Van Eyck dallo sguardo modernamente “empirico”, dunque, rivoluzionario in più di un senso. Ritrattista e paesaggista, osservatore di un contesto sociale, miniatore e pittore. Portatore di uno sguardo nuovo sul mondo e qui oggetto di un nuovo sguardo grazie ai restauri. Ma anche grazie alla lettura che ne dà la mostra. Qual è il luogo comune, il mito più diffuso che qui viene

smentito? “Come afferma uno dei nostri curatori ospiti, lo storico Jan Dumolyn dell’Università di Gand, una delle concezioni più diffuse su van Eyck è che egli sia un pittore di corte. Certo, si dedicava diffusamente a soggetti che ritraevano il contesto urbano, dal punto di vista paesaggistico e sociale. Ma era il suo contesto, come ogni altra persona era radicato nel suo luogo di nascita, il che non fa di lui un mero pittore di corte”, conclude Depoorter. dal 1° febbraio al 30 aprile

VAN EYCK An optical revolution Catalogo Hannibal MSK F. Scribedreef 1 – Gand +1 (0) 212 9949493 vaneyck2020.be

a sinistra: Jan van Eyck, Dittico dell’Annunciazione, 1433-35 ca. Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid in alto: Jan van Eyck, Ritratto d’uomo con copricapo blu, 1428-30 ca. Muzeul National Brukenthal, Sibiu


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GRANDI CLASSICI

Guercino. Un pittore e la sua città di Marta Santacatterina

fino al 15 febbraio

EMOZIONE BAROCCA Il Guercino a Cento

a cura di Daniele Benati Catalogo Silvana Editoriale PINACOTECA SAN LORENZO E ROCCA Piazza Cardinal Lambertini 1 Via del Guercino – Cento 051 843334 guercinoacento.it fino all’8 marzo

DA GUERCINO A BOULANGER La Madonna di Reggio a cura di Angelo Mazza PALAZZO DEI MUSEI Via Spallanzani 1 – Reggio Emilia 0522 456816 musei.re.it

Guercino, Madonna col Bambino benedicente (part.), 1629, Pinacoteca Civica, Cento

C

i sono casi in cui l’arte diventa un delicato strumento per rimarginare le ferite. Anche ferite così gravi da aver bisogno di anni per cicatrizzarsi, come quelle subite dal territorio emiliano, e in particolare dalla zona che confina con la provincia di Ferrara, Modena e infine Bologna. Proprio in quel fazzoletto di terra sorge Cento, una cittadina pesantemente colpita dal sisma del 2012 e in cui numerosi edifici si presentano ancora oggi lesionati e in attesa di consolidamenti e restauri. Ma Cento è conosciuta soprattutto perché nel 1591 diede i natali a Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino a causa di uno strabismo documentato in molti ritratti, come il busto di Fabrizio Arrigucci del 1657, unica opera plastica inserita nella mostra dedicata al pittore emiliano. L’esposizione è allestita in una ex chiesta recentemente riaperta al pubblico e che per l’occasione ha assunto il ruolo di pinacoteca temporanea: come tale, anche dopo la chiusura della mostra, verrà utilizzata, fino a quando la sede “ufficiale” del museo vedrà terminati i lavori di restauro. “‘Emozione barocca’ vuole essere un segnale di ripresa dopo il terremoto”, dichiara il direttore della Pinacoteca Civica Fausto Gozzi, che aggiunge: “Dopo la chiusura della pinacoteca, invece di lasciare i dipinti di Guercino chiusi nei caveau, abbiamo pensato di prestarli all’estero, e sono stati quindi ospitati a Varsavia, a Città del Capo, a Tokyo: in quei Paesi si è così diffusa la conoscenza del pittore e l’operazione ha dato buoni frutti. Ma ora ci sembrava necessario esporre questi capolavori a Cento, restituendoli ai cittadini e ai visitatori”. LA PINACOTECA Ecco allora che venti quadri, nonché i disegni e gli affreschi staccati, di proprietà delle raccolte civiche centesi, sono stati affiancati ad altre opere prestate soprattutto da collezionisti privati per costruire un percorso che mette a fuoco gli anni della formazione e dell’attività di Guercino a Cento, prima quindi del suo trasferimento a Bologna, avvenuto nel 1642 per fuggire ai pericoli conseguenti allo scoppio della guerra di Castro. Ma il suo legame con la città fu sempre molto stretto: lo documenta ad esempio la firma, in cui al nome e cognome segue l’appellativo Centensis, come dimostra la tela con San Bernardino da Siena.

Il percorso della mostra, che si apre con una straordinaria Cena in Emmaus, ricostruisce gli esordi di Guercino, che le fonti antiche testimoniano “non aver avuto precettore”: eccellente disegnatore fin da quando era poco più che bambino – ne è prova l’acerba, ma significativa, Madonna di Reggio che la critica data al 1600 circa – “avrebbe maturato la propria inclinazione studiando l’unico dipinto di Ludovico Carracci accessibile a Cento: la Sacra famiglia con ‘San Francesco e due donatori’, spedita da Bologna alla locale chiesa dei cappuccini nel 1519, che è anche l’anno […] in cui Giovanni Francesco Barbieri era nato”, scrive il curatore Daniele Benati nel catalogo. Quel modello, che Guercino chiamava la sua “Carraccina”, fa da contrappunto ad altri soggetti religiosi dipinti dal Centese e da altri pittori, e l’allestimento ha il suo climax nella zona dell’abside, dove trovano posto, in un’ideale ricomposizione, la grande Crocifissione con attorno, come nella disposizione originale, il Padre Eterno, San Giovanni Battista e San Francesco d’Assisi. Non mancano i soggetti destinati alla devozione privata e alcuni esempi di opere a tema profano, come non manca un’ampia rassegna di disegni, nei quali si notano la sua abilità tecnica e la sensibilità per forme e movimenti che sempre caratterizzano i suoi lavori. LA ROCCA Una seconda sede, l’antica Rocca, è dedicata a un altro aspetto della carriera del protagonista: gli affreschi realizzati per case di notabili locali e che, secondo l’uso bolognese, decoravano con fasce continue la sommità delle pareti delle stanze, proprio sotto le travature. In particolare i cicli decorativi dipinti da Guercino – staccati e musealizzati in varie epoche, non senza dispersioni – che si possono ora ammirare da vicino sono quelli di casa Pannini e di casa Chiarelli. Qui, i paesaggi, la caccia, le scene campestri la fanno da padrone. Infine – e ancora una volta proveniente dalla Pinacoteca Civica di Cento – a poche decine di chilometri di distanza è esposta al pubblico un’altra tela di Guercino del 1618, la Madonna della Ghiara. Questa fa parte della mostra Da Guercino a Boulanger. La Madonna di Reggio, in corso al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia fino all’8 marzo.


DIETRO LE QUINTE

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Rinascere dopo il terremoto di Katia Buratti

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inascimento Marchigiano. Opere restaurate dai luoghi del sisma è la mostra che restituisce a tutti i visitatori, e soprattutto alle comunità colpite ormai più di tre anni fa, una parte dell’imponente patrimonio culturale danneggiato dal terremoto. Bisogna spingersi nel cuore delle Marche, ad Ascoli Piceno, tra le mura del Forte Malatesta, attraversarne il cortile con lo sguardo attratto dalle linee architettoniche pensate da Giuliano da Sangallo, e penetrare nelle sale che dal 1835 al 1981 sono state carcere, per poter ammirare le trentasette opere restaurate con il contributo dell’ANCI – Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e Pio Sodalizio dei Piceni. L’iniziativa è nata dalla volontà dei due enti di partecipare al recupero del patrimonio danneggiato scaturita nell’ottobre del 2016, subito dopo l’ennesima scossa che ha devastato il Centro Italia coinvolgendo ben tre regioni – Marche, Umbria e Abruzzo. Allora rispose alla richiesta Pierluigi Moriconi per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, che di terremoto, come dipendente del Ministero per i Beni Culturali, ne ha già un altro inciso nella memoria. Quello del 1997, quando, in servizio nella Soprintendenza umbra, durante un sopralluogo presso la Basilica di Assisi, perse i due colleghi, Bruno Brunacci e Claudio Bugiantella. Moriconi ‒ co-curatore della mostra insieme a Stefano Papetti ‒ era ispettore della Soprintendenza e coordinatore delle operazioni di recupero e messa in sicurezza del patrimonio: “Abbiamo subito iniziato a stilare una lista ‒ per ovvie ragioni selettiva ‒ di beni, contattando ogni comune e diocesi coinvolte più duramente, per poter in poco tempo dare il via alle operazioni di restauro”. LA MOSTRA AD ASCOLI L’intenzione condivisa con il direttore dei musei civici di Ascoli Piceno è stata quella di poter restituire alle comunità locali quei segni identitari di un luogo, in molti casi devastato e non più ricostruibile, che è stato casa, vita, e famiglia. La distruzione di intere chiese, edifici storici, centri abitati ha riguardato un territorio che coinvolge la provincia di Fermo, Macerata, Ascoli Piceno e in parte Ancona, fatto di minuscoli centri, frazioni, borghi: “Basta considerare che i danni al patrimonio culturale sommati di Umbria, Lazio e Abruzzo non superano di un terzo quelli subiti dalla regione Marche”,

sottolinea Moriconi. I curatori hanno voluto inoltre riunire professionisti e restauratori legati alle Marche ‒ o perché nati in regione o perché qui attivi ‒ e università locali, rendendo evidente la capacità di rinascita della comunità marchigiana. Si struttura così il progetto espositivo, esito di un lavoro silente e poco mediatico portato avanti da Soprintendenza e Nucleo Tutela del Patrimonio dei Carabinieri. GLI ARTISTI E I LUOGHI Nel compiere il viaggio fra le tavole del XV secolo di Vittore Crivelli e Jacobello del Fiore, fino alla voci artistiche che connotano il XVII e il XVIII secolo marchigiano come quelle di Baglione, del Cavalier d’Arpino e di Serodine, non si può dimenticare la complessità delle operazioni preliminari al godimento di tanta bellezza. “Ci siamo adoperati per mesi affinché dalle macerie si potesse salvare il possibile, con sopralluoghi, recupero e messa in sicurezza nei depositi”, afferma Moriconi. Si può criticare la reale necessità, a fronte di tante abitazioni distrutte; ma sono gli stessi abitanti delle frazioni devastate ad aver chiesto a gran voce che qualcosa di bello potesse essere salvato da quella distruzione. Per tale motivo, accanto a capolavori indiscussi della storia dell’arte si sono volute opere importanti per le comunità locali, ma non di alto valore storico-artistico, nell’intento di salvare, far rinascere e restituire gli unici elementi superstiti di nuclei abitativi e chiese che non esistono più e probabilmente non saranno più ricostruiti. Come la Madonna in trono con Bambino di Porchiano di Ascoli Piceno o la tela con i santi Pietro e Paolo di Capodacqua di Arquata del Tronto. La mostra, a carattere itinerante, sarà accolta da febbraio nelle sale della sede del Pio Sodalizio dei Piceni a Roma e infine, nel periodo estivo, a Senigallia. Al termine le opere torneranno negli otto depositi allestiti sul territorio, tutti dotati di vigilanza antropica e ambientale e impianti fondamentali ‒ oltre che per la conservazione del patrimonio danneggiato in attesa della ricollocazione nei contesti di origine, laddove possibile – anche per l’allestimento di piccole mostre che possano riavvicinare le comunità al loro patrimonio. fino al 2 febbraio

RINASCIMENTO MARCHIGIANO

a cura di Sefano Papetti e Pierluigi Moriconi Catalogo ErreBi Grafiche Ripesi FORTE MALATESTA – Ascoli Piceno Via delle Terme 0736 298213 ascolimusei.it

Jacobello del Fiore, Scene della vita di Santa Lucia – Lucia riceve l’Eucarestia (part.), 1410 ca., Pinacoteca Civica, Palazzo dei Priori, Fermo


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RUBRICHE

Arte e paesaggio

Il museo nascosto

ochi sanno che la città di Mosca offre un itinerario verde sorprendente: 96 parchi, 18 giardini, 4 orti botanici. È la metropoli più verde al mondo, con 27 metri quadrati di verde a persona rispetto ai 7,5 di Londra e gli 8,6 di New York. Il parco più popolare è Gor’kij Park, fondato nel 1928 e reso famoso dall’omonimo film. Attraversato dal fiume Moskova, si snoda per 70 ettari con varie attrazioni, padiglioni, ristoranti, laghi, campi da tennis, skatepark. Qui ha sede Garage, noto centro d’arte contemporanea, progettato dallo Studio OMA. Garage sviluppa un dialogo tra spazio interno ed esterno, custodendo un giardino di graminacee sul retro della galleria e installando opere nel parco.

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PARCHI E ORTI BOTANICI Non lontano si apre la distesa del Muzeon Park of Arts, con il complesso della Galleria Tret’jakov, insieme di musei dedicati al Realismo socialista. Il percorso verde è puntellato da 700 statue di autorità sovietiche smantellate con la caduta del Muro. Da Stalin al capo della polizia segreta, le sculture si alternano a suggestive aiuole e arredi urbani contemporanei. Il giardino Neskuchny è il più antico di Mosca, usato dagli zar come parco privato. All’interno del giardino ha sede il Teatro Verde, il più grande anfiteatro all’aperto d’Europa, in grado di ospitare oltre 15mila persone. Aptekarskiy è l’antico orto botanico di Mosca, fondato da Pietro il Grande nel 1706. Le prime erbe mediche furono piantate qui. Oggi è il giardino dell’Università Statale, con una vasta gamma di piante e spezie. In pieno centro c’è il giardino Ermitage, molto frequentato dai giovani per aperitivi e concerti all’aperto. Elegante parco urbano in stile parigino, offre teatri, bar, piste da ballo, bancarelle di libri in mezzo a prati fioriti. GIARDINI SEGRETI A pochi passi dalla Piazza Rossa e dal Cremlino, Zaryadye Park è il nuovo parco pubblico della città. Progettato dallo studio Diller Scofidio + Renfro nel cuore di Mosca, si trova al posto dello storico Hotel Rossija (il più grande hotel del mondo, demolito nel 2007). L’originale progetto prevede diverse funzioni: parco, piazza urbana, spazio culturale e ricreativo. Le architetture in pannelli di vetro ricurvo e la vegetazione delle quattro zone climatiche russe creano una dialettica tra artificio e natura. La sinuosa passerella a forbice, che si spinge con un alto balzo sopra al fiume, è oggi la terrazza più fotografata della città. Ma il giardino “segreto” più suggestivo resta sicuramente quello sul retro della residenza Hamovniki, abitazione moscovita di Tolstoj, un’oasi di pace e di verde, dove il grande scrittore amava rifugiarsi e passeggiare, creando i suoi capolavori letterari. Claudia Zanfi

MOSCA

Metropoli verde a sorpresa

Zaryadye Park Mosca Photo Claudia Zanfi

ntrare a Villa Brandi, appena fuori Siena, è un’immersione totale in un confronto costante tra epoche, stili, predilezioni, amori. Gli stessi che hanno caratterizzato gli interessi culturali ed esistenziali del padrone di casa, lo storico e critico d’arte Cesare Brandi, che qui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita per poi donarla allo Stato italiano, con la consapevolezza che questo patrimonio dovesse diventare patrimonio comune.

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ARTE E VITA Nel peregrinare tra le residenze speciali del paese, tra studi d’artista e case di collezionisti innamorati dell’arte, una tappa in questa villa – l’impianto originario è del XVI, attribuito a Baldassarre Peruzzi –, che dal XVIII secolo è stata proprietà della famiglia Brandi, è inevitabile, poiché qui si percepiscono altre sfumature di un discorso che coniuga arte e vita, quelle che riguardano l’esistenza di uno studioso d’eccezione, amante della bellezza. Ma anche di mille, sfaccettati interessi intellettuali – e professionali – che hanno visto Cesare Brandi impegnato, sin dal 1938 – anno in cui lo fonda insieme a Giulio Carlo Argan –, nell’Istituto Centrale del Restauro prima (fino al 1959) e poi nell’insegnamento, nell’ateneo di Palermo e poi a Roma, dov’è stato anche Accademico di San Luca (ma è impossibile sintetizzare la carriera di questo uomo iperattivo e dai più variegati interessi). Qui c’era però il suo mondo, tra memorabilia dei suoi viaggi – a pensarci bene, Brandi è soprattutto un viaggiatore e questa è la definizione che più caratterizza la pluralità del suo intenso percorso nell’arte –, la ricca biblioteca e le opere d’arte di Filippo de Pisis, Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Toti Scialoja, Alberto Burri e altri suoi compagni di strada, tra cui lo straordinario scultore del vento (e del cielo) Eliseo Mattiacci, autore della cancellata da cui si accede al parco e quindi alla villa. CASA E TRADIZIONE I saloni con i soffitti cassettonati, la mobilia settecentesca, la cucina con il grande lavabo realizzato con il marmo giallo di Siena e il girarrosto meccanico azionato da un peso, il cotto al pavimento, i letti in ferro e le carte da parati, un vecchio pianoforte, oggetto di culto di Casa Brandi (la madre di Cesare era musicista), sono tutte tappe di un percorso in cui la vita domestica si coniuga con la tradizione toscana del vivere in campagna secondo i dettami della borghesia. E poi un consiglio: affacciatevi dalla piccola veranda del secondo piano, vi aspetta una veduta mozzafiato di Siena. E, nella vicina Tinaia, settanta fotografie scelte fra le 13mila della fototeca raccontano la vita di Brandi, tra amici, studi, viaggi e, naturalmente, lunghe permanenze in questo suo luogo del cuore. Il luogo del costante approdo. Lorenzo Madaro

SIENA

Villa Brandi

Strada di Busseto 42 0577 221127

Casa Museo Villa Brandi a Vignano


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Aste e mercato

Il libro

enz’altro il punto di vista da cui scriviamo influenza la lettura dei fatti, ma è piuttosto condivisa la valutazione: con l’arrivo di Gabriele Finaldi alla direzione, la storia gloriosa della National Gallery di Londra ha ricevuto un ulteriore impulso. D’altra parte parliamo di uno studioso che già aveva fatto cose mirabili al Prado di Madrid. Dal 2015 è tornato a casa, per certi versi: nella capitale britannica si è infatti svolta buona parte della sua formazione accademica e proprio alla National Gallery aveva già lavorato dal 1992 al 2002. Giusto un anno fa ha messo a segno un “colpaccio”, facendo acquisire l’Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria di Artemisia Gentileschi, e ce lo aveva raccontato con un editoriale su queste colonne, sottolineando la portata politica di un gesto del genere: “L’ultimo quadro di una pittrice antica prima di questo a entrare nella nostra collezione fu una composizione di fiori di Rachel Ruysch nel lontanissimo 1974. L’intervallo è stato troppo lungo, ma ora si è chiuso. Artemisia regna a Trafalgar Square”.

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I DIPINTI DELLA NATIONAL GALLERY Adesso torniamo a Finaldi per un motivo altrettanto importante: la pubblicazione di un corposo volume edito dalla National Gallery e distribuito dalla Yale University Press. Si tratta della presentazione di 275 dipinti conservati nel museo, coprendo un arco storico e sociale che va “dal tempo in cui i dipinti in legno, oro e lapislazzuli adornavano gli altari delle chiese italiane medievali o erano appesi nelle camere da letto dei mercanti olandesi, fino al volgere del XX secolo, quando gli artisti si dibatterono in potenti forme espressive in lavori che ruppero con la tradizione del passato” (notare la scrittura colta e al tempo stesso chiara di Finaldi). OPERE E ARTISTI In un libro confezionato a dovere, si parte da Margarito d’Arezzo, Cimabue, Duccio, Giotto e Masaccio per poi spostarsi nelle Fiandre con Jan van Eyck (per dire: sono qui i Coniugi Arnolfini) e Rogier van der Weyden, si torna in Italia con la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (sì, pure lei è a Londra) insieme al Mantegna e Giovanni Bellini e Piero della Francesca, poi un piccolo soprassalto fiammingo con Dirk Bouts e si fa ritorno nella Penisola con Antonello da Messina e il Perugino, ancora un occhio alle Fiandre con Hans Memling e poi Botticelli e Carlo Crivelli, chiudendo con Dürer accostato a Leonardo (la Vergine delle Rocce, ci siamo intesi?). E questa è una selezione piuttosto stringata del primo capitolo, che va dal 1250 alle soglie del Cinquecento. Se dovessimo dare un consiglio: lo acquistate prima di partire, lo studiate, poi andate a Londra per visitare il museo e infine tornate a riguardare il libro nel vostro salotto. Naturalmente è un consiglio ricorsivo. Marco Enrico Giacomelli

GABRIELE FINALDI

The National Gallery Masterpieces of Painting

National Gallery Company, Londra 2019 Distribuito da Yale University Press Pagg. 392, £ 50 ISBN 9781857096484

na day sale perfetta è arrivata nell’ultima parte dell’anno per Phillips New York. La sessione del 13 novembre dell’asta di 20th Century & Contemporary Art ha fatto registrare infatti il più alto fatturato per una vendita diurna: 40.2 milioni di dollari in totale, con un +58% rispetto all’anno scorso e un venduto per lotti dell’85% e 88% per valore. Espressione di un middle market in crescita, solido e risoluto, come segnalato da Phillips post-asta, queste ultime performance ridanno respiro a un’area vibrante e attraente per sempre più collezionisti a livello globale e fanno ben sperare per questo 2020 appena iniziato Oltre il top lot della mattina di Josef Albers, Homage to the Square: Silent Gray, 1.3 milioni di dollari, tante sono state le aggiudicazioni ben oltre le stime previste e i nuovi record, non senza una certa sorpresa, all’Afternoon Session. Su tutti, ottimi i risultati – con spunti e ricadute di interesse per il futuro – di Julie Curtiss, Nicolas Party, Tschabalala Self, Loie Hollowell, Jonathan Lyndon Chase, Shara Hughes, e i record di Jaume Plensa, Ann Craven, Noah Davis.

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UN RECORD PER MARIA LASSNIG World Auction Record aggiornato anche per Maria Lassnig, presente in catalogo con quattro lotti da una stessa prestigiosa collezione. Da una stima di 280.000-350.000 dollari, Competition III, olio su tela del 2000 (acquisito dal consignor alla Friedrich Petzel Gallery di New York nel 2002), è stato aggiudicato al 450 di Park Avenue per 704.000 dollari, circa 640.000 euro, correggendo il precedente del 2014 di 491.000 euro. Trova quindi oggi nuovo riconoscimento sul mercato una ricerca prolifica e perfettamente compiuta sulla rappresentazione pittorica del corpo – il proprio, femminile – come dispositivo e metafora, come strumento primario di realizzazione del sé, di auto-consapevolezza, auto-individuazione, liberazione. MOSTRE E PREMI In una carriera durata settant’anni tra Vienna, Parigi, New York, e poi di nuovo Vienna, Maria Lassnig, prima artista donna a ricevere il Grand Austrian State Prize nel 1988 e Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale di Venezia nel 2013, ha trovato solo in una fase avanzata della sua opera lo spazio meritato. Negli ultimi cinque anni a lei sono state dedicate importanti retrospettive al MoMA PS1, alla Tate Liverpool, al Kunstmuseum di Basilea e nel 2019, in occasione del centenario della nascita, una grande mostra in collaborazione tra Stedelijk Museum di Amsterdam e Albertina Museum di Vienna, Maria Lassnig. Ways Of Being, oltre al solo show da Hauser and Wirth a Zurigo. Come lascito, poco prima della morte nel 2014, l’artista ha immaginato il Maria Lassnig Prize, un premio biennale (2017 e 2019) istituito dalla omonima fondazione che sostiene e riconosce il lavoro delle artiste mid career. Cristina Masturzo

NEW YORK

Phillips

MARIA LASSNIG

Maria Lassnig, Competition III (part.), 2000. Courtesy Phillips


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FIERA NAZIONALE e INTERNAZIONALE ARTE MODERNA ARTE CONTEMPORANEA

LA NUVOLA ROMA EUR 14- 17 MAGGIO 2020 A Roma arriva la grande arte moderna e contemporanea. Lo fa in modo autorevole e prestigioso con “Roma Arte in Nuvola”, una mostra-mercato di ampio respiro allestita dal 14 al 17 maggio 2020 nel Centro Congressi dell’EUR progettato da Massimiliano Fuksas con la scenografica struttura della Nuvola che vi è sospesa all’interno. Una manifestazione che mira a colmare un vuoto di proposta nella Capitale e ha l’ambizione di diventare il polo di riferimento del collezionismo dell’Italia del Centro e del Sud, avvalendosi della curatela dello storico dell’arte spagnolo Kosme de Barañano e della direzione generale di Alessandro Nicosia, esperto da oltre 30 anni nell’organizzazione di eventi culturali e di comunicazione integrata e con la supervisione scientifica di Adriana Polveroni. La fiera vuole essere un laboratorio di coesistenza di diversi linguaggi e realtà (gallerie, fondazioni, istituzioni) in grado di dare voce a esigenze a volte poco corrisposte del sistema dell’arte, muovendosi sulle linee di confine di differenti codici artistici e coinvolgendone tutte le parti in gioco per offrire al pubblico un mosaico compiuto dello stato attuale dell’arte delle sue prospettive.

È UNA PRODUZIONE



ALEX URSO [ artista e curatore ]

Tra i tanti fumettisti ospitati in questi anni sul nostro magazine non poteva mancare Tuono Pettinato (Pisa, 1976). Lo abbiamo incontrato per parlare del suo nuovo libro: un omaggio ai gattini, così come la tavola inedita che ci ha regalato.

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Tuono Pettinato

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Cosa significa per te essere fumettista? Un fumettista è un gatto che passa la maggior parte del tempo a catturare un topo e il resto del tempo a mostrarlo in giro. Da quanti anni hai la matita in mano? Ho disegnato cagnolini ossessivamente da quando ho scoperto Snoopy e i Peanuts. Sono cresciuto assieme a un gruppo di autori fenomenali, i Superamici, e ho cominciato a pubblicare biografie di personaggi storici. Adesso ho realizzato un fumetto che parla di gattini.

Da dov’è saltata fuori l’idea di raccontare la vita di un gatto randagio? Credo che questo nuovo fumetto sia in qualche modo imparentato con Corpicino, un fumetto di finzione ma con molta realtà dentro, che avevo pubblicato nel 2013. Entrambi i libri nascevano da un bisogno di spiegarmi alcuni lati oscuri del mondo che mi circonda.

SHORT NOVEL

Il titolo del libro è Chatwin. Ce lo racconti? Un paio di anni fa mi sono fissato con i volantini dei gattini smarriti. Mi hanno fatto pensare a una comunicazione sotterranea. Da qui è nata l’idea di raccontare le disavventure di un gatto domestico che decide di scappare di casa.

Nel fumetto ognuno dei felini protagonisti sembra personificare pregi e difetti degli uomini... Non è facile ricostruire una socialità gattesca una volta che si è scappati di casa. Chatwin ha bisogno di apprendere dai libri degli umani il bisogno di cercare il suo lato gattesco fuori dalle mura domestiche. Nel suo percorso incontra diversi tipi di società gattesche, quella crudele di Rudolph, quella vagabonda e trascendentalista di Walt e quella malinconica di Dharma. Nei tuoi fumetti il lettore è di fronte a un tenero inganno: sotto disegnini falsamente innocui si nascondono personaggi spesso spietati, riferimenti intellettuali e citazioni musicali. Immagini un lettore ideale quando scrivi? Il lettore che già mi conosce ha capito il mio gioco ed è ben lieto di cadere nelle mie trappole. Al lettore che sfoglia il mio libro per la prima volta auguro di non fermarsi all’apparentemente innocuo disegno cartoonesco e di lasciarsi invece straziare dal dolore come noi altri. Troppo comodo, uscire illesi dai fumetti. Cosa ci riserva per il futuro lo scrigno magico di Tuono Pettinato? Cagnolini, anzitutto. Poi un libro per bimbi, che mi vede nel ruolo di sceneggiatore. E poi un ritorno a oriente verso il Paese del Sol Levante. Mi han detto che anche lì è pieno di gattini.

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Berlinde de Bruyckere, Aletheia, on-vergeten. Installation view at Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino 2019. Photo © Mirjam Devriendt

BERLINDE DE BRUYCKERE

RICHARD ARTSCHWAGER

fino al 15 marzo FONDAZIONE SANDRETTO RE REBAUDENGO fsrr.org

fino al 2 febbraio MART mart.trento.it

RECENSIONI

TORINO

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Richard Artschwager, Door }, 1983-84. Collezione Kerstin Hiller & Helmut Schmelzer, in prestito al Neues Museum Nürnberg

Pensando all’opera di Berlinde De Bruyckere (Gand, 1964) vengono in mente carne, strati di pelle, stracci, lembi, stoffe consunte, ossa e tronchi. Molte sue sculture hanno un’impronta di riconoscibilità: nel loro essere distorte, al primo sguardo rimandano a un che di familiare, perché vediamo un corpo umano, tronchi di alberi, sagome di cavalli. Non sono opere per le quali è sufficiente un’occhiata veloce, ma richiedono di essere esaminate, forse proprio in quanto corpi presentificati. Aletheia è in questo senso inconsueta, perché viene meno il rimando al distinguibile, forse eccettuata quella sorta di cavallina-totemica che è Palindroom (2019), abbandonata a sé in una stanza asettica. Aletheia si impone immediatamente in tutta la sua monumentalità attraverso il primo comparto di sculture che gravano nel corridoio, generalmente fruito come anticamera delle sale espositive, contraddistinte da un ossimorico minimalismo organico-minerale. Sembrano cumuli di pelli impietrite, calcificate, impilate su bancali; l’impressione è quella di trovarsi in un deposito: l’“orizzonte di familiarità” non si offre quindi solo nell’opera, ma nell’ambiente stesso. Siamo in un laboratorio di pelli – analogo a quello in cui l’artista si è recata per scegliere dei pezzami equini per le sue sculture e che

l’ha vivamente impressionata. Generando una fredda luce da mattatoio, le lampade industriali che pendono dal soffitto della sala principale, la più grande, invasa dal sale, svelano ulteriormente l’allusione alla concia delle pelli. “Che cosa accade in quell’istante? Come render conto del passaggio dall’illusione alla disillusione? E soprattutto: una volta scoperto il trucco, la figura di cera perde il suo potere e, con esso, anche il suo fascino?”. È ficcante questa domanda che Pietro Conte si pone nel libro In carne e cera, sottintendendo però che intuire che si tratti di un simulacro è più perturbante dell’esperire l’originale. La cera riveste le pelli, ed essendo la cera per antonomasia sostituto della carne, determina un circolo vizioso dove somiglianza e dissomiglianza, apparizione e sparizione si fondono. La cera, materia duttile, impregnando ogni cosa e contaminandola incarna il fantasma di una mancanza. La componente violentemente sacrale si dispiega al termine di Aletheia, attraverso un trittico di opere in cui la complicità tra materiali si manifesta in una sinfonia di pelle, cera, stracci e carta da parati, che ricorda i corpi appesi degli animali dipinti da ChaÏm Soutine.

CLAUDIA SANTERONI

ROVERETO

Percorrere la corposa monografica di Richard Artschwager (Washington, 1923 – Albany, 2013) significa sorprendersi a ogni passo: accettare di rivedere le proprie categorie acquisite lasciarsi andare all’incontro con l’opera senza cercare di afferrarla del tutto o definirla. Quelle dell’artista americano sono opere-oggetto inclassificabili. Saltano in aria e perdono di senso le dicotomie; si sfocia in un terreno dai confini sfrangiati, denso di slancio intellettuale ma anche di stimoli tattili, corporei, corporali. La forza del lavoro di Artschwager nasce da un gesto originario: la decisione di confondere forma e funzione, oggetto d’uso e opera d’arte, Pop e Minimalismo (le due scelte obbligate negli Anni Sessanta). E la decisione di utilizzare materiali industriali, la fòrmica su tutti. I “mobili” sono le opere simbolo: sculture che evocano la forma (e la funzione) di sedie, scrivanie, pianoforti, persino di arredi sacri. Il manufatto è presentato nella sua concretezza, ma si sottrae alla cognizione e all’individuazione a causa di diverse incongruenze (i tasti del pianoforte “disegnati” dall’intarsio, ad esempio). L’oggetto d’uso risulta amputato eppure perfezionato, monco e potenziato. Delle cose rimane solo l’idea, che però ha forma tattile e paradossalmente monumentale. Altro processo di ibridazione innescato da Artschwager è

quello tra pittura e scultura: i dipinti sono concrezioni paradossalmente impressioniste di figura e materia, di eleganza e trivialità. Materiali di provenienza industriale come il celotex danno il tono tanto quanto l’immagine, proponendo una versione “deviata”, junkie, della società di massa. Allestita senza ordine cronologico e sfruttando appieno lo spazio, innescando “incontri” tra gruppi di opere e spettatore, la mostra si struttura come una sessione di free jazz. A un inizio fitto ma più sommesso e ordinato, che presenta una gamma completa dei diversi filoni dell’artista, segue una seconda parte felicemente cacofonica. Qui l’esposizione esplode in una serie di porte/ portali, casse per il trasporto/bare, dipinti falsamente di genere, il già citato pianoforte, i dipinti/zerbino... I monumentali segni di punteggiatura fatti in setole di plastica (le opere più note dell’artista) costituiscono poi un segno di interpunzione anche per lo svolgersi della mostra: arrivano a metà percorso e sono un momento di apertura e respiro che coordina i due tempi. Sabotare il processo univoco di nominazione delle cose è in fondo il malizioso, ironico, colto progetto di Artschwager. Per dar vita a un mondo anarchico, dalle identità rivedibili, fatto di una bizzarra comunanza tra uomo, natura e manufatto. STEFANO CASTELLI


PHILLIP LAI TORINO

Hidetoshi Nagasawa, Groviglio di quanta, 2014. Installation view at Palazzo Reale, Napoli 2019. Photo Alessandra Cardone & Luciano Basagni © Polo museale della Campania

HIDETOSHI NAGASAWA NAPOLI

#53 GENNAIO L FEBBRAIO 2020

fino al 15 febbraio FRANCO NOERO franconoero.com

Tutto nella personale di Phillip Lai (Kuala Lumpur, 1969) sembra essere prodotto a livello industriale, tranne poi scoprire un’incredibile manualità e un maniacale controllo di misure, colori e allestimento, per un lavoro che rimanda alla massificazione e alla sovrapproduzione occidentale. Dalle bacinelle in cast di resina ai sostegni d’acciaio che ospitano bottiglie di plastica sabbiate, le opere riflettono sul concetto di consumo, spreco e abbondanza, e sull’irrazionale bisogno di continuare a produrre a costo di distruggere la produzione stessa. L’opera che svela a pieno la ricerca di Lai è Facts are Presented Only as they Arise, una lunga fila di contenitori dipinti di giallo, che ricorda il sacrificio degli africani in coda per l’acqua e la sovrapproduzione occidentale, i cui rifiuti finiscono per essere riutilizzati nei Paesi più poveri. Dal reale al sublime, questa sorta di illusione ottica si svela solo dopo averne ricercato l’origine e compreso il pensiero. ANGELA PASTORE

L BICE LAZZARI FIRENZE

Filosofia di un viaggio a bordo di una bicicletta, dall’Oriente all’Occidente, nelle sculture di Hidetoshi Nagasawa (Tonei, 1940 – Ponderano, 2018) con la mostra Sotto il cielo e sopra la terra. A cura di Anna Imponente, direttore del Polo museale della Campania, e realizzata con Paolo Mascilli Migliorini, direttore di Palazzo Reale, la rassegna è un ricongiungersi di motivi che trovano il proprio tempo e il proprio spazio nelle architetture del Palazzo, dove sembra quasi che ogni opera sia sempre stata lì, mimetizzata nei colori, nelle forme e nei vuoti che si intrecciano in uno dei luoghi simbolo di Napoli. Si intrecciano fino a maturare il senso di quelle sensazioni che l’artista nel 1966 ha provato durante un viaggio durato un anno e mezzo, dal Giappone all’Italia: un percorso diventato poi un ponte di culture tra Asia, Turchia, Brindisi fino ad arrivare a Milano: un’esperienza che ha spinto poi Hidetoshi a dichiarare che “per capire una cultura ce ne vuole sempre un’altra”. Ed è proprio così, perché in realtà si tratta di un viaggio soprattutto interiore che l’artista giapponese ha riproposto nelle grandi sculture Pozzo nel cielo (1995-2004) nel Cortile d’Onore, Barca (1983-88), in ottone e carta, posta su una parete dello Scalone monumentale, e anche in Groviglio di quanta (2014) e Matteo Ricci

(2010): otto elementi realizzati in marmo di Carrara e acciaio posti a terra richiamano in un certo senso il gioco Shanghai o Mikado, per ritornare alle origini orientali dello scultore. Quella di Hidetoshi è un un’arte leggera, sospesa ed elegante nelle forme e nella materia, che trova riscontro nella filosofia del viaggio compiuto e quindi nella ricerca dei materiali. In collaborazione con la Fondazione CAMUSAC – Cassino Museo d’Arte Contemporanea, diretta da Bruno Corà, con il contributo di Ryoma Nagasawa, la mostra include anche una selezione di opere grafiche di paesaggi e galassie realizzate in cera e carboncino che riconducono al concetto di spazio proprio dei giardini orientali. Dopo Umen Ikeda, con Hidetoshi Nagasawa il Palazzo Reale si fa ancora una volta portavoce di un pezzo d’Oriente in una città cosmopolita quale è Napoli, sinonimo di apertura e confronto tra le differenze.

FABIO PARIANTE

fino al 13 febbraio MUSEO NOVECENTO museonovecento.it

RECENSIONI

fino al 10 marzo PALAZZO REALE palazzorealenapoli.it

Vale la pena ascoltare Bice Lazzari (Venezia, 1900 – Roma, 1981) e illustrare le traiettorie della sua arte: dagli esordi figurativi all’astrazione e allo sconfinamento tra pratiche, materiali, discipline. È una delle opportunità concesse dalla retrospettiva La poetica del segno che introduce la figura dell’autrice con oltre 70 tra dipinti, disegni, poesie e manufatti, e un’intensa videointervista. Scomparsa nel 1981 e con una formazione tra arte e musica, Lazzari emerge per la sua propensione sperimentale che, dopo tessuti, colori a olio e tempere, la condurrà verso l’acrilico. Il percorso rivela la progressiva definizione di un vocabolario sempre più essenziale, equilibrato, restituito in composizioni in cui segni elementari e si alternano a campiture libere. Acquisendo un ritmo che evoca la dimensione musicale. VALENTINA SILVESTRINI

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GIUSEPPE DE MATTIA ROMA

fino al 21 gennaio MATÈRIA materiagallery.com

Un lessico che spazia tra materiali, colori, odori. Siamo catapultati in una luce verde abbagliante, degna della criptonite dell’universo DC. Vergata con la calligrafia di Giuseppe De Mattia (Bari, 1980), l’insegna “Frutta e Verdura” conduce a un ulteriore ambiente: un banco oltre l’altezza naturale, uno stand espositivo “fieristico”; in bella mostra i prodotti migliori, organizzati secondo uno schema cromatico preciso, con alcuni intrusi. Da una parte una natura morta destinata a marcire; dall’altra delle simulazioni in ceramica di Faenza. Dov’è il confine tra verità e finzione? Quali sono i prodotti originali e qual è il loro valore artistico, se basta “scotchare” una banana alla parete o ingurgitarla per promuovere dibattito? De Mattia scopre le regole del gioco con la sua operazione ironica, permettendo ai visitatori di portare a casa un alimento stagionale ormai ammuffito, ma avvolto in una carta d’artista. GIORGIA BASILI

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GENNAIO L FEBBRAIO 2020

#53

IN FONDO IN FONDO

Courtesy Museo Licini, Ascoli Piceno

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arte contemporanea forse verrà cancellata in toto – ma, se ne rimarrà memoria, sarà ricordata soprattutto per una cosa: per la sua capacità indiscutibile di unire l’alto e il basso, l’ideale e il reale, il sublime impalpabile e il totalmente volgare. Non a caso, viene inaugurata dalla vicenda, ormai secolare, di un orinatoio (intitolato Fountain, 1917) che avrebbe dovuto essere esposto come scultura e che invece venne rifiutato perché giudicato “indecente” proprio da una commissione che si era autonominata “Società degli artisti indipendenti”. Se per taluni Fountain mancava di originalità e di buon gusto, per altri rappresentava un pezzo non solo artistico, ma anche dotato di una certa “bellezza”, quasi un “Buddha delle sale da bagno”. Come è noto, Marcel Duchamp, che lo aveva presentato in forma pseudonima (sotto le mentite spoglie di R. Mutt), e che era Commissario della Society of Independent Artists, rassegnò le dimissioni dopo questo rifiuto, dato che la (presunta) “indipendenza” della Società di cui faceva parte, cioè la libertà da ogni regola, gusto o appartenenza artistica, era stata messa alla berlina e chiaramente smascherata. Fin qui la storia raccontata da tutti i manuali – senonché recentemente ha iniziato a circolare la voce, sempre più insistente, che Duchamp non sia l’autore dell’opera-beffa, ma abbia rubato l’idea a un personaggio anche più radicale di lui, la baronessa Elsa von FreytagLoringhoven. Nella contro-vulgata giocano molti indizi: il fatto che la firma sull’orinatoio non sia di Duchamp; il fatto che lui stesso parli di un’“amica” che

L'

avrebbe consegnato l’oggetto alla Society per esporlo; il fatto che Elsa sia l’autrice o coautrice di almeno un ready-made; ma soprattutto il fatto che sia stata dimenticata e solo di recente riscoperta (grazie alla monografia di Irene Gammel, 2002, che la lungimirante editoria italiana si ostina a ignorare…), morta, per giunta, sola e in miseria. Non è che Duchamp abbia goduto di una fama istantanea nemmeno lui, se si pensa che ebbe la sua prima retrospettiva all’età di 76 anni – ma, in tempi di #metoo, la tentazione di smascherare uno smascheratore (maschio) era troppo ghiotta per passare inosservata. Tutto bene, anzi benissimo … se non che quest’affascinante ipotesi è una fake news. Lo dimostra con dovizia di particolari uno degli studiosi duchampiani più informati al mondo, cioè Stefan Banz, autore di Marcel Duchamp: Richard Mutt’s Fountain (Verlag fur Moderne Kunst / Les presses du réel / Les éditions KMD, 2019), e lo fa oltre ogni ragionevole dubbio – a partire da dettagli ineffabili, come l’indirizzo sull’etichetta di Fountain nella foto di Stieglitz, che era effettivamente quello di Louise Norton, fino a solide testimonianze di prima mano prese dai giornali dell’epoca. Il certosino lavoro di Banz è ammirevole e non necessita di altri commenti: io aggiungerei solo che, se davvero Duchamp si fosse appropriato di un’opera della “baronessa”, sarebbe difficile spiegare perché costei (che, come ricorda Banz, non temeva gli scandali) non abbia reagito, e anzi si sia prestata a collaborare con Duchamp per la realizzazione del film (perduto) Elsa shaving her pubic hair, nel 1921…

Tutto quello che si può dire è che a quei tempi, a loro modo eroici, certe provocazioni erano nell’aria. Ne dà conto Claudia Salaris nel suo fantastico libro Alla festa della rivoluzione. Artisti libertari con D’Annunzio a Fiume (Il Mulino, 2002, nuova ed. 2019), che fa strage di luoghi comuni e ci consegna l’avventura fiumana sotto un punto di vista inedito e rivoluzionario. Tra i mille episodi evocati, spicca quello in cui il mitico Guido Keller, barone aviatore sodale di Baracca, intrepido nudista e fiumano della prima ora, aveva pensato bene di “lanciare” dal proprio aereo non un orinatoio, ma un più prosaico pitale nientemeno che sulla sede del Parlamento romano, nel novembre del 1920, in segno di spregio per la debolezza dimostrata dai politici italiani alla Conferenza di pace del 1919. Keller aveva agito di certo all’insaputa della beffa duchampiana, ma il suo non è forse uno sberleffo di analogo tenore? E che dire di questo Paesaggio astratto/Merda (1950) di Osvaldo Licini, che sembra presagire di un decennio la “merda d’artista” di Piero Manzoni?

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PITALI, ORINATOI E SUBLIMI SCHIFEZZE testo di

MARCO SENALDI [ filosofo ] L


MAESTRI FIAMMINGHI 2018-2020

RUBENS – BRUEGEL – VAN EYCK

VIAGGIA NELLE FIANDRE, LA TERRA DEI MAESTRI FIAMMINGHI


FIRENZE

MUSEO NOVECENTO PALAZZO VECCHIO

24.01 — 30.04.2020 27.01 — 23.02.2020

FIRENZE

MUSEO NOVECENTO

24.01 — 30.04.2020 museonovecento.it


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