Gianni Ruffi, Rimbalzo, 1967, particolare, Fondazione Caript, Pistoia | grafica metilene.it
PISTOIA NOVECENTO Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerra
An Overview of the Art of the Post-World War II Period
a cura di / curated by
Alessandra Acocella Annamaria Iacuzzi Caterina Toschi
dal 19 SETTEMBRE 2020
Palazzo de’ Rossi via de’ Rossi 26, Pistoia
Prenotazione obbligatoria www.fondazionepistoiamusei.it
Tutti i giorni dalle ore 10 alle 18. Chiuso il mercoledì e il 25 dicembre
in collaborazione con
media partner
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#56 DIRETTORE Massimiliano Tonelli DIREZIONE Marco Enrico Giacomelli [vice] Santa Nastro [caporedattrice] Arianna Testino [Grandi Mostre] REDAZIONE Irene Fanizza Claudia Giraud Desirée Maida Helga Marsala Roberta Pisa Giulia Ronchi Valentina Silvestrini Valentina Tanni Alex Urso Alessandro Ottenga [project manager] PUBBLICITÀ & MARKETING Cristiana Margiacchi / 393 6586637 Rosa Pittau / 339 2882259 adv@artribune.com Arianna Rosica a.rosica@artribune.com EXTRASETTORE downloadPubblicità s.r.l. via Boscovich 17 - Milano via Sardegna 69 - Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it REDAZIONE via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma redazione@artribune.com PROGETTO GRAFICO Alessandro Naldi STAMPA CSQ - Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 - Erbusco (BS) DIRETTORE RESPONSABILE Marco Enrico Giacomelli EDITORE Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 - Roma Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011 Chiuso in redazione il 20 settembre 2020
Columns
6 L PHOTO ROOM Shaana De Santis Giada De Santis 14 L Massimiliano Tonelli Il troppo stroppia 15 L Fabio Severino
SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
24 L TALK SHOW Santa Nastro
Musei e fondazioni: come sarà la stagione autunno-inverno?
26 L SERIAL VIEWER Santa Nastro Love, Death & Robots
Un anno campale Lorenzo Taiuti In memoria dell’aura
27 L L.I.P. – LOST IN PROJECTION Giulia Pezzoli
16 L Marcello Faletra
NECROLOGY
L’ostaggio Claudio Musso La città dietro l’immagine
17 L Christian Caliandro
Edie, i Counting Crows & la reflection
18 L Franco Broccardi
The Invisible Man
28 L APP.ROPOSITO Simona Caraceni 29 L TOP 10 LOTS Cristina Masturzo 30 L DURALEX Raffaella Pellegrino
Concept store e diritto d’autore
31 L Arianna Testino
Il museo come zoo
The Vault. Il primo caveau digitale targato Art Defender
19 L Renato Barilli
32 L COSE Valentina Tanni
Raffaello impiccato Aldo Premoli Fashion e politica made in USA
34 L GESTIONALIA Irene Sanesi
Un nuovo localismo costituzionale per la cultura
News
36 L ARCHUNTER Marta Atzeni
I Am Human
37 L DIGITAL MUSEUM Maria Elena Colombo
20 L LA COPERTINA Tatanka Journal 21 L OPERA SEXY Ferruccio Giromini Guy Bourdin
22 L ART MUSIC Claudia Giraud
Silenzio di S A R R A M: un disco nato in lockdown
23 L LABORATORIO ILLUSTRATORI Roberta Vanali Shut Up Claudia
Francesca Torzo
Maria Chiara Ciaccheri
39 L Valentina Tanni
Avanti e indietro tra reale e virtuale. Intervista a Daito Manabe
40 L DISTRETTI Marco Enrico Giacomelli Rimini, il chirurgo e Fellini
44 L STUDIO VISIT Treti Galaxie Monia Ben Hamouda
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Stories
46 L Marta Silvi Lituania: le promesse mantenute nel Paese baltico 54 L Cristina Masturzo Le fiere sono morte, viva le fiere!
Ending
80 L SHORT NOVEL Alex Urso Martoz 82 L RECENSIONI 86 L IN FONDO IN FONDO Marco Senaldi
Il collezionista di ossa
In apertura
#22
64 Marta Santacatterina Antonio Ligabue e la voce della natura Opinioni
66 L orenzo Giusti Quale allegria Antonio Natali L’anno di Dante: English-free year
copertina di Maurizio Ceccato
67 Stefano Monti Il dilemma dei servizi aggiuntivi Fabrizio Federici Un’epidemia di immagini Percorsi
63
68 Santa Nastro 3 itinerari di prossimità da Nord a Sud
NEI ALBERTÌ D I R E C T E D
T E N S I O N S
COPERNICO MILANO VIA COPERNICO ANG. VIA LUDIGIANA
Oltreconfine
70 Arianna Piccolo De Chirico, Parigi e la Metafisica Grandi classici
72 Giulia Mura Dopo Raffaello Roma vuole sbancare con l’archeologia Rubriche
74 Claudia Zanfi Arte e paesaggio Lorenzo Madaro Il museo nascosto 75 Marco Enrico Giacomelli Il libro Cristina Masturzo Aste e mercato Recensioni
76 Arianna Testino Henri Cartier-Bresson Angela Madesani La riscoperta di un capolavoro
Questo numero stato fatto da: Augusto Agosta Tota Lucia Antista Elena Arzani Marta Atzeni Caterina Avataneo Paolo Baldacci Renato Barilli Monia Ben Hamouda Ilaria Bonacossa Rosalba Branà Franco Broccardi Andrea Bruciati Christian Caliandro Simona Caraceni Benedetta Carpi De Resmini Stefano Castelli Maurizio Ceccato Maria Chiara Ciaccheri Pippo Ciorra Cristina Cobianchi Maria Elena Colombo Andrea Concas Michele Coppola Cécile Debray Massimo De Carlo Giada De Santis Shaana De Santis Danilo Eccher Marcello Faletra Fabrizio Federici Lorenzo Fiaschi Marco Enrico Giacomelli Federica Maria Giallombardo Silvia Giambrone Claudia Giraud Ferruccio Giromini Lorenzo Giusti Alessandro Guerrini Luca Iozzelli Luca Lo Pinto Niccolò Lucarelli Teresa Macrì Lorenzo Madaro Desirée Maida Daito Manabe Giò Marconi Valerio Marras
Martoz (Alessandro Martorelli) Martina Massimilla Cristina Masturzo Simone Menegoi Beatrice Merz Stefano Monti Giulia Mura Claudio Musso Valentina Muzi Santa Nastro Antonio Natali Manuela Pacella Giulia Pacelli Raffaella Pellegrino Cristiana Perrella Fabio Petrelli Giulia Pezzoli Arianna Piccolo Cesare Pietroiusti Aldo Premoli Francesco Urbano Ragazzi Stefano Raimondi Julija Reklaitė Nicola Ricciardi Caterina Riva Giulia Ronchi Irene Sanesi Marta Santacatterina Marco Senaldi Salvatore Settis Fabio Severino Shut Up Claudia (Claudia Alexandrino) Valentina Silvestrini Marta Silvi Kristina Steiblytė Lorenzo Taiuti Valentina Tanni Arianna Testino Massimiliano Tonelli Francesca Torzo Treti Galaxie Alessandra Troncone Alex Urso Valentina Valentini Roberta Vanali Claudia Zanfi
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#56
SHAANA DE SANTIS [ poetessa ]
rbs? Sfiorivano le viole a Isernia. Sfioriva Isernia, un tempo ridente provincia italiana, situata tra i due fiumi Sordo e Carpino, circondata da una natura avvolgente e incontaminata. Siamo nel centro della penisola, nel fazzoletto di terra benedetta chiamato Molise, la più anonima e surreale regione d’Italia. Isernia ha un vissuto originale: di antichissima fondazione, fu culla della civiltà umana europea prima, colonia latina in seguito alle guerre sannitiche e importante centro nel Medio Evo. Testimonianze storiche sono presenti ovunque, dal centro storico alla campagna circostante, ormai tristemente abbandonate all’incuria del degrado urbano. Il tempo scorre piano qui. La vita si dirama lenta tra merletti a tombolo e pasta e fagioli. Nei vicoli i bambini inseguono ancora sogni sotto forma di palloni arancio, mentre i grandi giocano a fare gli artigiani, cercando tenacemente di tenere a galla una realtà sofferente. I ragazzi vanno a Londra, le strade si svuotano e le attività chiudono i battenti. Com’è profondo qui il mare della crisi. Ma la traccia storica resta, nelle pietre, nelle statue e negli edifici raffinati, in cui è impressa la memoria dei bei tempi andati. Pochi son i turisti a venire a farci visita, testimoni di una realtà spaventosamente allarmante: questi ricordi, impressi nei monumenti, sono calpestati, vinti e mortificati da rifiuti e negligenza diffusa nella manutenzione totalmente assente. Dunque Palazzo Jadopi (importante nella storia architettonica e culturale del centro storico) come deposito della spazzatura; le terme romane dell’acqua sulfurea, cantiere sporco e abbandonato; la chiesetta sconsacrata di Santo Spirito lasciata in balia di se stessa e ancora in piedi per miracolo. Per non parlare dei parcheggi a pagamento, le cui celebri strisce blu hanno devastato strade e luoghi di interesse, scuotendo l’animo e il disappunto generale. C’è tristezza, c’è malcontento a Isernia. Tuttavia, è una lunga storia d’amore quella che lega gli isernini al proprio territorio. Rapporto ambivalente e contrastato. Equivoco e straniante. Come le immagini di Giada De Santis, magici giochi alienanti, in cui la doppia esposizione rende manifesta la bipolarità dello stato delle cose in città. Due facce della stessa medaglia, antico prezioso vs moderno maltrattato. Isernia, Giano bifronte, ritornerai a splendere, sebbene attualmente tu sia in un vortice di polvere.
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URBS ? ISERNIA CITTË CHIUSA
BIO Giada De Santis nasce nel 1994 a Isernia. Laureata in Scienze dell’educazione e Filosofia presso l’università di Chieti e Pescara. Conosce la scuola di fotografia Mood Photography a Pescara, dove decide di investire sulla sua passione. Nel suo primo lavoro affronta il tema dello spopolamento in Molise rievocando la Seconda Guerra Mondiale: nasce così REENACT, con il quale ottiene, nel novembre del 2019, uno spazio espositivo presso Campobasso. Dal bianco e nero passa al colore dando vita a SPIRITUM, un lavoro molto intimo sulla fibrosi cistica. Dà vita a molti lavori, tutti legati alla propria terra di origine, il Molise, in particolare Isernia, ecco perché nasce URBS? Isernia città chiusa, uno spaccato fotografico nel quale si vuole riportare alla luce l’animo e la bellezza di una città che ora muore chiusa nell’oblio. Una riflessione sulla società odierna e sulla chiusura che genera la morte dello spirito. giada_de.santis
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SUL PROSSIMO NUMERO La Algeri di Puoillon fotografata da Daphné Bengoa
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Matteo Montani, Naturans, 100x142 cm
SUE ARROWSMITH - MATTEO MONTANI - NATURA NATURANS 16 settembre - 31 ottobre 2020
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MASSIMILIANO TONELLI [ direttore ]
IL TROPPO STROPPIA
iamo nella più delicata fase di passaggio degli ultimi anni. L’attuale transitare dall’estate all’inverno non sarà ordinario come è sempre stato. Un motivo in più per riflettere sui mesi passati e ipotizzare i futuri. Il fatto di essere stati tutti più o meno costretti a far vacanze italiane direziona le riflessioni sui temi del turismo e del patrimonio. Chiunque questa estate, approfittando delle ferie e delle settimane di minore emergenza pandemica, abbia gironzolato l’Italia con occhio lucido e all’insegna di un turismo accorto, ha (ri)scoperto un Paese incommensurabile. Dal punto di vista del patrimonio culturale, della sua qualità, della distribuzione sul territorio, della biodiversità dello stesso c’è da farsi venire il mal di testa sia nel bene che nel male. Non c’è un angolo che sia dispensato da questa bulimia. Tutto positivo? Abbiamo partecipato a un piccolo forzato workshop sulle meraviglie della nostra nazione e adesso siamo tutti più consapevoli e pronti a popolare con maggiore frequenza le gemme anche più nascoste del patrimonio diffuso di cui siamo dotati? Forse sì, ma ciò non risolve le due grandi sfide che tale abbondanza lancia: la tutela e la valorizzazione del ben di dio che ci ritroviamo. Se la tutela va garantita a tutto ciò che consideriamo “patrimonio”, sulla valorizzazione e in particolare sulla comunicazione occorrono delle riflessioni che sarebbe il caso di articolare proprio ora, dopo tanti mesi “rinchiusi” in Italia. Come comunicare un patrimonio artistico, paesaggistico, artigianale, architettonico, museale semplicemente smisurato? Come evitare sovrapposizioni e cannibalizzazioni? Se la grande quantità di arte nel nostro Paese ci rende orgogliosi e manda in visibilio campanili e regionalismi, osservando questa sovrabbondanza dal punto di vista del marketing i problemi raggiungono e superano le opportunità: il marketing e le strategie di comunicazione si nutrono semmai di scarsezza piuttosto che di ampia disponibilità di prodotto. Insomma, abbiamo troppo e il troppo crea caos, confusione, rumore. Sono indispensabili strategie nazionali, sfruttando la sinergia fra cultura e turismo nel ministero (lavorando in alleanza con quello dell’agricoltura); occorrono scelte profondamente impopolari (alcune realtà semplicemente non vanno comunicate, salvo che su scala locale); bisogna superare i regionalismi; è necessario segmentare i target e comunicare alcuni contenuti solo ad alcuni specifici cluster. Senza questo approccio, la ricchezza diventa solo controproducente casino.
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Come comunicare un patrimonio artistico, paesaggistico, artigianale, architettonico, museale semplicemente smisurato? Come evitare sovrapposizioni e cannibalizzazioni? Se la grande quantità di arte nel nostro Paese ci rende orgogliosi e manda in visibilio campanili e regionalismi, osservando questa sovrabbondanza dal punto di vista del marketing i problemi raggiungono e superano le opportunità.
LORENZO TAIUTI [ critico d’arte e media ]
UN ANNO CAMPALE
IN MEMORIA DELL’AURA
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el film di Christopher Nolan Inception, travolgente riflessione sul rapporto fra spazio, memoria e sogno, fra architettura e mente, accade che le immagini inizino a tremare, le pareti crollino, la realtà sfugga alle leggi di gravità e si frantumi. La realtà è ricostruita digitalmente, una Realtà/Falso che vive nel sogno (artificiale, drogato) di uno dei personaggi. Quando qualcosa mette in dubbio la struttura narrativa e visiva creata, l’illusione si autodistrugge. Le forme dell’arte d’oggi sono basate su una serie di codici dove il rapporto fra visione e concetto ispiratore del lavoro crea un’architettura fragile, che si rinnova continuamente con elementi sempre nuovi e imprevedibili. Un effetto di “sfocatura” sulla realtà si accompagna sempre all’esperienza di visione di un lavoro creativo. Cosa succede al rapporto opera-utente quando questa percezione avviene attraverso un medium di riproduzione? Sta succedendo in musei e gallerie nel periodo della pandeI musei hanno per anni mia. I musei hanno per anni tenuto al minimo la strategia tenuto al minimo del video, nella sacra paura la strategia del video, dei diritti d’immagine, della nella sacra paura desacralizzazione dell’opera, dei diritti d’immagine, della perdita di richiamo del museo quando i suoi contedella desacralizzazione nuti diventano “pubblici”, dell’opera, della perdita della perdita di aura e di mistero. Il che vorrebbe dire, di aura e di mistero. però, che la riproduzione delle opere di Raffaello su segnalibri, scatole di cioccolatini, pubblicità di intimo e quant’altro ha stancato l’attenzione del pubblico. La mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale a Roma è stato un successo fra i maggiori. L’oggetto reale resta il punto centrale dell’esperienza estetica. Il problema è, al contrario, arrivare a costruire un’esperienza mediata dalla riproduzione tecnologica. È un problema di sempre. Il regista francese Henri-Georges Clouzot, nel suo famoso documentario su Picasso, arriva a tradurre l’esperienza statica della pittura in un “time based language” filmando l’atto del dipingere attraverso un vetro. Con i continui cambiamenti e modifiche apportati da Picasso al quadro, quest’ultimo diventava cinema, video, animazione. Il recente spostamento online di Ars Electronica Festival ha tradotto tutto in video-online con un effetto dominante di “televisione digitale”. Le soluzioni per una virtualità online sono all’inizio, e si ricordano le esperienze della videoarte degli Anni Sessanta e Settanta, che proponevano sia la documentazione (happening, performance) sia l’uso parallelo del video in funzione estetica (come il cinema d’artista), che è un percorso cinetico attraverso idee, immagini e percezioni. Questa ricerca sull’immagine “comunicata” dell’arte si trasforma da “nell’epoca della sua riproduzione” (Walter Benjamin) a “nell’epoca della sua comunicazione”. Nuovi linguaggi comunicativi trasformeranno la testimonianza documentaria in prodotto estetico. Un esempio è il video applicato alla danza contemporanea, la “videodanza” degli Anni Ottanta, che ha portato a significative modifiche linguistiche, facendo aderire il video agli spazi e ai movimenti della danza. Per ultimo, ma non ultimo: quando l’olografia, il 3D e tante altre promesse iniziali del digitale diventeranno linguaggi diffusi? Si apriranno nuove strade.
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ome tutto il comparto dell’intrattenimento, anche i servizi culturali sono stati spenti per tre mesi. Poi chi ha potuto, in qualche modo, quest’estate ha aperto, a singhiozzo piuttosto che contingentato. Ma nulla è ancora tornato come prima. Tutti i servizi legati al piacere psico-emotivo, allo stare insieme agli altri, al sollazzo, che, prevedendo fisiologicamente assembramento, in quanto collettivi, socializzanti e inclusivi, sono stati chiusi. Produttori, organizzatori, artisti e consumatori: tutti abbiamo sofferto, ci è stata levato, sottratto, negato un pezzo di vita. Eh sì, perché di quello si tratta. Mi auguro che l’occasione ne abbia dato consapevolezza a tutti. Come spesso si dice, ci si accorge del valore di qualcosa o qualcuno quando non c’è più. Sarebbe interessante fare una ricerca quantitativa – chissà se qualcuno l’ha fatta – che misuri esattamente questo: avresti mai detto che ti sarebbe mancato così tanto andare a teatro, al cinema o a una mostra? Alla luce di questa consapevolezza, cosa saresti disposto a fare per la cultura che prima non facevi o non credevi di poter fare? Ecco, chiederei alle persone che tipo di sacrificio sarebbero disposti a fare (spendere di più per un biglietto? Fare più strada per arrivarci? Faticare o attendere per trovare un posto?). Altresì chiedere agli artisti e ai produttori di cultura cosa hanno maturato in questi mesi di lockdown totale. Sappiamo che nella crisi, nella difficoltà, si ha la possibilità di mettersi in discussione. Si ha l’occasione – preziosa, fondamentale – di migliorarsi, di crescere, addirittura Cambiare pelle, per carità, di risorgere, quando il è faticoso. Altrimenti non cambiamento necessasi chiamerebbe così, bensì rio deve essere profondo. E allora cosa hanno cambiare borsa, calzini capito gli offerenti culo scarpe. Però va fatto. tura? Nei dibattiti ho sentito sempre le stesse cose: la dipendenza dalle sovvenzioni pubbliche, il piattino in mano, poco senso di responsabilità sul fatto che ognuno deve fare la propria parte. Nelle ricette degli esperti osservatori emergono sempre le medesime questioni, che noia: la poca managerialità degli organizzatori, l’assente patrimonializzazione – che più che mai è stata patita. A queste aggiungerei una diffusa mancanza di iniziativa. Sono stati pochi quelli che si sono reinventati, che si sono rimboccati le maniche e, partendo dal digitale, hanno messo a terra pratiche diverse di erogazione. Cambiare pelle, per carità, è faticoso. Però va fatto. La vita ci ha mostrato che anche il mondo che conosciamo come ipertecnolgico è fragile. L’onnipotenza umana non c’è. La miopia di alcune scelte politiche fatte negli anni costringe a tenere a casa miliardi di persone perché non ci sono posti letto sufficienti in ospedale per eventuale respirazione assistita in caso di aggravio. Siamo onnipotenti ma per fare un vaccino ci vogliono dodici mesi, e forse più. La prossimità fra tutti i popoli del mondo, che ci è sembrata una figata senza se e senza ma, invece espone chiunque allo sbaglio di ciascuno. Da questo dramma mondiale si è formata una coscienza collettiva? Un senso di responsabilità in contrapposizione al superficiale senso di onnipotenza? La cultura e l’arte potrebbero fornire degli esempi. Quanto meno degli spunti per riflettere.
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FABIO SEVERINO [ economista della cultura ]
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MARCELLO FALETRA [ saggista ]
CLAUDIO MUSSO [ critico d’arte e docente ]
L’OSTAGGIO
LA CITTÀ DIETRO L’IMMAGINE
l virus crea una sorta di estroversione panica delle nostre percezioni. La sua violenza è anomica – ricava la sua forza dall’arbitrio. Il suo impatto sociale ha molte somiglianze con gli attentati terroristici: uccidere a caso tra la folla. La provocazione di André Breton per il quale l’opera d’arte perfetta era l’azione di sparare a caso sulle folle si è realizzata. Dagli attacchi terroristici di ieri al virus d’oggi, si delinea sempre più una società presa nelle sabbie mobili della condizione di ostaggio. La strategia degli attentati terroristici scaturisce da un eccesso di realtà, cioè concentrando il terrore in un punto che si propaga mediaticamente in uno Stato o Le intrepide crociate anti-virus un continente. mettono in mostra la vanità Il virus, invece, del coraggio come moneta si muove in un difetto di realtà, di scambio della "libertà". come accade con È il sacrificio che si fa di se lo strato d’ozono, stessi per richiamare gli altri che si disgrega sempre più man a sacrifici più grandi. mano che il suo spessore si assottiglia. D’altra parte il virus non ha fretta: aspetta al varco le sue prede, vogliose di “libertà”, e mostra i suoi artigli in un tempo differito: una, due settimane, o più. La sua apocalissi è retrospettica, come I trionfi della morte che popolano l’immaginario medioevale. Il cavaliere dell’Apocalisse, apparendo ex nihilo, sorprende principi e principesse falciandoli senza pietà. Ma lo spettacolo della morte, oggi, è diverso, perché il virus ha sollevato il fatto che la nostra società è divisa. Il virus livella tutti, la cura resta di classe. Se il terrore abolisce il tempo storico della politica, il virus invece spazza via il tempo sociale della relazione. Il terrore comprime per eccesso di realtà (l’attentato), il virus agisce per eccesso di decompressione di essa, come accade nelle nucleari visioni di Bad Trip. Ma sia il terrorismo che la potenza metamorfica del virus hanno questo in comune: la sovraesposizione dello sguardo. Il terrore promuove l’avidità degli occhi: la diffusione mediatica degli attentati terroristici genera un feticismo dell’orrore. Mentre la propagazione del virus genera una specie di soggiorno obbligato davanti allo schermo (il forzato consumo quotidiano di tecnologie ottiche). All’orizzonte di questo stato di cose si profila una terza figura: il negazionista. Dando prova di disobbedienza, vive dell’illusione della libertà. La fede ostinata verso il culto decisionista – “me ne frego!” – prova che la maggior parte del personale autoritario proviene da essa. Le intrepide crociate anti-virus mettono in mostra la vanità del coraggio come moneta di scambio della “libertà”. È il sacrificio che si fa di se stessi per richiamare gli altri a sacrifici più grandi. La compulsione negazionista, come un riflesso condizionato, adotta il disgusto per la precauzione; mostra l’energia viscerale – questa patologia eruttiva, incontinente, delle emozioni – che ha preso il posto della ribellione critica.
ei mesi che sono passati sotto il nome di “Fase 1” abbiamo trascorso diverso tempo alla finestra con gli occhi rivolti verso l’esterno. Al di fuori la città, deserta, silenziosa, apparentemente immobile. Mi sono chiesto più volte cosa stesse cambiando là fuori seppur impercettibilmente proprio sotto il mio naso, e, ancora, quanto quella specifica condizione stesse influenzando ciò che vedevo. Complice la lettura, avvenuta proprio nel medesimo periodo, del noto testo di Mark Fisher Realismo capitalista (2009), la mia posizione di voyeur di paesaggi urbani si è subito affiancata a quella di alcuni protagonisti di recenti film tra fantascienza e distopia. Il primo, ovviamente, è quello che offre a Fisher lo spunto per l’incipit del suo volume, Children of Men (2006) di Alfonso Cuarón. “Sarà il nostro unico sguardo sulla vita delle élite, rintanate lì dentro per proteggersi dagli effetti di una catastrofe”: sono queste le parole con cui il teorico britannico tratteggia una delle scene cardine del film che vede il protagonista Theo Faron dialogare con il cugino Nigel di fronte a una vetrata che incornicia una Londra inerte, nella quale però il genere umano si sta lentamente estinguendo. L’indifferenza che trasuda dalla posa delle due figure fa sembrare la veduta sul fondo una semplice quinta scenica, acuendo la distanza L’ipotesi affascinante dalla tragica realtà riassunta nella battuta “I just è che l’atto del guardare don’t think about it”. non solo influenzi, C’è un’altra finestra o, ma influisca sulla città, meglio, un finestrino dal quale improvvisamente facendo sì che essa non rimanga un foglio di carta è possibile scorgere lo stato delle città: è quello senza spessore. intorno al quale si affollano un gruppo di ribelli in Snowpiercer (2013) di Bong Joon-ho. Uno di loro, dopo i primi istanti di esitazione, esclama: “C’e ancora il cielo…”. Dietro lo skyline glaciale che il regista sudcoreano inquadra al centro dello schermo, tale affermazione sembra lasciare un barlume di speranza per la ripresa della vita in un mondo che, altrimenti, è visibile solamente da un treno in corsa. Le visioni fin qui riportate, anche se molto diverse fra loro, sono accomunate da una passività dello sguardo, oltre che da lampanti elementi iconografici. Per trovare una risposta attiva e dinamica è necessario includere in questo brevissimo elenco l’adattamento cinematografico del fumetto Doctor Strange (2016) di Scott Derrickson. In quest’ultimo caso gli osservatori sono scaraventati nella realtà (o nel suo specchio) che si trasforma letteralmente davanti ai loro occhi (e sotto i loro piedi) evocando la Moriana di Italo Calvino, che “da una parte all’altra […] sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio di immagini”. L’ipotesi affascinante è che l’atto del guardare non solo influenzi, ma influisca sulla città, facendo sì che essa non rimanga un foglio di carta senza spessore.
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CHRISTIAN CALIANDRO [ storico e critico d’arte ]
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LLL A proposito della differenza tra artista e “persona d’azione”. Sì, credo che non si possa fare arte, o scrivere, essendo completamente dentro l’azione, la tempesta, il caos. L’arte e la scrittura provengono (necessariamente?) dal di fuori della vita – da una zona esterna, estranea allo scorrere e al flusso dell’esistenza – quando fai arte o scrivi stai pensando e parlando in realtà da un territorio che non fa parte dell’esperienza quotidiana (infatti, il problema principale di molta arte e letteratura odierne è che la maggior parte degli autori – a differenza forse di altre epoche – pretendono di scrivere tutti dentro, dal di dentro, dall’interno, di parlare una lingua comune “diffusa”, quella della “maggioranza”, e pretendono che questo sia non
A proposito della differenza tra artista e "persona d’azione". Sì, credo che non si possa fare arte, o scrivere, essendo completamente dentro l’azione, la tempesta, il caos. L’arte e la scrittura provengono (necessariamente?) dal di fuori della vita – da una zona esterna, estranea allo scorrere e al flusso dell’esistenza.
solo un vantaggio pratico – che può essere – ma un vanto culturale, una sorta di “abbattimento-delle-barriere” – quando invece si tratta al massimo di un restringimento, di un rinchiudersi ulteriormente all’interno di confini angusti e anzi di un costruire nuove inutili barriere; invece di sfondare, ma sul serio, quelle che ci sono). L’arte/scrittura dal-di-fuori diventa quindi sempre più impervia, e per questo sempre più interessante e decisiva: “Dentro di noi abbiamo un’Ombra: un tipo molto cattivo, molto povero, che dobbiamo accettare” (Carl Gustav Jung). L’arte/scrittura che proviene da un vuoto – e quel vuoto è l’unica cosa vera che esiste, tra moltissime illusorie – l’arte/scrittura come un’interferenza, qualcosa di non previsto né atteso, il contrario dell’attenzione, qualcosa che non solo distrae e distoglie la concentrazione ma che nasce e cresce proprio nell’attimo della distrazione, che prospera sui margini, sugli spigoli, sui lati. (Un suono di campanelli elettronici totalmente distorto e immerso in una coltura ambientale – come soffermarsi sull’atmosfera, sull’aria tra i corpi, sugli spazi che separano gli oggetti piuttosto che su corpi e oggetti stessi. Sugli intervalli.)
La metafora della guerra è (purtroppo) sempre valida. È molto raro il caso di chi racconta dopo aver combattuto: lo standard è piuttosto lo stress post-traumatico, la condizione di mutismo che caratterizza i soldati (Prima Guerra Mondiale, Seconda Guerra Mondiale, Vietnam, Iraq, Afghanistan ecc.). Chi racconta, chi testimonia? Il vigliacco, l’imboscato. Al massimo il reporter embedded, o comunque il giovane giornalista che sta al seguito e a fianco delle pattuglie, ma non nel fuoco dell’azione. È così, per esempio, nel caso di Omaggio alla Catalogna di George Orwell, di Addio alle armi di Ernest Hemingway (che faceva il conducente di ambulanza, e si fece pure ferire) o dei Dispacci di Michael Herr, forse il più bel reportage di guerra che è poi la base per Full Metal Jacket di Kubrick. L’artista/scrittore/testimone deve stare comunque in qualche modo a distanza – a distanza di sicurezza. Per poter raccontare, non deve essere del tutto coinvolto.
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iascoltare tutto – tutti i gruppi degli Anni Novanta e primi Duemila, l’intera discografia dei Radiohead per esempio, i Counting Crows e i Live, gli Helmet, i Prodigy, i Verve, i Gloria Record – riascoltarli come se fosse la prima volta, e in realtà è davvero la prima volta in qualche strano modo – la ripresentazione è la presentazione, la riproduzione è la produzione, e le cose le incontriamo davvero solo nel ricordo, nel recupero, nel riciclaggio, una volta estratte dall’esperienza diretta – un po’ come la pop art risiede davvero non nella superficie ma nella reflection, nel riflesso/riflessione (I’ll be your mirror) come dice Edie Sedgwick allo scettico presentatore Merv Griffin nel 1965 – ed è questa la trasformazione dello sguardo a cui torniamo e dobbiamo tornare sempre; la novità risiede nel modo in cui percepiamo e studiamo e indaghiamo la realtà che ci circonda, non negli strumenti o peggio ancora nelle tecnologie. Solo nel riflesso e nel ricordo il mondo vive in noi. (È la solita questione della distanza rispetto ai fenomeni: nessun soldato di prima linea – posto nel fuoco dell’impegno – ha mai raccontato la guerra; il “testimone” è sempre infatti un vigliacco delle retrovie, un traditore; è uno cioè che ha posto una giusta distanza tra se stesso e il turbine degli eventi, uno che resiste alla brutalità dell’esperienza e che non si fa risucchiare e maciullare da essa, uno che coltiva una forma più sottile e diversamente intensa di disperazione…).
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EDIE, I COUNTING CROWS & LA REFLECTION
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FRANCO BROCCARDI [ dottore commercialista ]
IL MUSEO COME ZOO
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uella del paleocontatto è una teoria secondo cui civiltà aliene sono entrate in contatto con la specie umana già qualche millennio prima di Cristo, così come testimoniato dalle statuette dogū, piccoli oggetti rituali dedicati a fertilità, qualche guarigione o soprattutto maledizioni. Ecco, a pensare ai musei e alle politiche museali, oggi, al rapporto con il pubblico, alle istituzioni, alla cultura in genere e all’idea stessa di museo, il rischio è quello di ritrovarsi nella stessa situazione: un fantaincontro tra elementi estranei che produce, al limite, qualche fertile ricordo e qualche superstizione, sperando che colpisca nel segno. “La storia esiste solo se c’è un domani. E, per contro, un futuro esiste solo se si impedisce al passato di infiltrarsi continuamente nel presente... Di conseguenza, i musei non hanno a che fare con il passato, ma piuttosto con il futuro: l’obiettivo della conservazione non è tanto preservare il passato quanto creare il futuro dello spazio pubblico, il futuro dell’arte e il futuro in quanto tale”, ha scritto Hito Steyerl, ponendosi in fin dei conti una domanda di cui la post-Covid age ha amplificato il bisogno di risposta: qual è la ragione d’essere di un museo? Risposta: la stessa di zoo e acquari (“orrore!”, direte voi). “Gli animali isolati l’uno dall’altro, senza interazione tra specie, hanno finito per dipendere completamente dai loro guardiani”, ha scritto John Berger nella sua raccolta di saggi Sul guardare. La scimmia nuda, tra Desmond Morris e Francesco Gabbani, rivela l’innaturalezza dei comportamenti di chi o ciò che è costretto all’inazione, in cui la prospettiva futura auspicata da Steyerl semplicemente non esiste. Ma siamo sicuri che lo stesso non accada con le opere messe in cattività nei musei quando queste non riescono più a incrociare il pensiero delle persone? Che arte e cultura, ridotti a questo, non finiscano con l’essere strumento di un pensiero unico e illiberale anche quando ammantato di progressismo? Che un museo che riduca la creatività a vetrina, a una semplice esposizione di opere (“orrore!”, dico io), non sia davvero una gabbia non molto diversa da quelle in cui si rinchiudono gli animali per soddisfare una malata curiosità? Gli zoo e gli acquari americani possono essere un buon esempio anche per la risposta che hanno spesso saputo dare. Si tratta di soggetti che possono fare scarso
Il lockdown ha segnato la fine dell’audience engagement, del turismo ipercinetico, della conquista dei luoghi in modalità Risiko. È il passaggio da Disneyland a Dismaland, in cui i musei, come zoo e acquari, devono trasformarsi.
affidamento su erogazioni e contributi (non godono di buona stampa nella loro funzione più evidente, e ci mancherebbe altro), fragili e con una quasi inesistente rete di protezione economica. Sono persino scarsamente percepiti come soggetti non profit, rendendo inutile la possibile leva fiscale nelle pratiche di fundraising e anche per questo si sono abituati a immaginare oltre gli schemi dell’ordinaria esposizione animale, lavorando sulla percezione all’esterno della propria funzione sociale, operando come centri di ricerca scientifica, finanziando campagne di formazione e salvaguardia ambientale, combattendo battaglie contro l’uso della plastica. Diventando un modello fruttuoso, anche in termini economici, dettato dal proprio essere parte funzionale di un meccanismo di welfare più grande. Il lockdown ha segnato la fine dell’audience engagement, del turismo ipercinetico, della conquista dei luoghi in modalità Risiko. È il passaggio da Disneyland a Dismaland, in cui i musei, come zoo e acquari, devono trasformarsi da voyeuristica attrazione turistica a motori di riflessione, formazione, dialogo, discussione e – perché no? – anche protesta. Farsi soggetto politico, perché “museums are not neutral”. Scrollarsi di dosso la sacralità e vestirsi di umanità.
Diventare, quindi, hub, connettori di conoscenze, di pensiero, di persone. Diventare centri sociali evolvendosi da testimonianza di un senso collettivo a imprenditoria sociale. Luoghi prossimi in un senso ampio, perché la prima istanza di prossimità è proprio a carico delle istituzioni culturali. Sono queste che devono farsi accoglienti verso gli impulsi che arrivano dalla società, avvicinarsi e includere in primo luogo le menti nuove e fertili dei giovani. E quindi farsi luoghi ibridi, centri di formazione informale capaci di rapportarsi con soggetti diversi da sé, che siano non profit, pubblici, imprese, privati. Luoghi vivi e capaci di navigare controcorrente per far l’amore come Giuda e Maddalena sulla barchetta di Alessandro Mannarino. Produrre valore e non solo nozionismo, partecipare a pieno titolo a quella che, per chiunque viva al di fuori, è una cosa normale: la vita. E far ballare la scimmia per non ritrovarci nelle braccia dello scimmione impazzito e ribelle di The Square.
ALDO PREMOLI [ trend forecaster e saggista ]
RAFFAELLO IMPICCATO
FASHION E POLITICA MADE IN USA
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a Republican National Convention di fine agosto a Washington si è conclusa dopo quattro giorni di discorsi: del presidente Trump, della first lady Melania, di tutti i figli adulti di Trump, della portavoce di Trump Kellyanne Conway. Tutti hanno lodato le sue politiche che mettono Dio e il Paese prima delle libertà civili e della giustizia sociale. Alla fine c’è stato pure uno spettacolo di fuochi d’artificio che ha tracciato sopra il cielo della Casa Bianca le cinque lettere “TRUMP” tra gli applausi di una folla di sostenitori rigorosamente senza mascherina. Tra le dominatrix che attorniavano il presidente due hanno svettato. Melania e Kimberly Guilfoyle, la fidanzata portoricana del figlio maggiore, con un vestito rosso sangue: Guilfoyle si è prodotta in una imitazione di Eva Perón, terminando il suo speech al grido di “Signore e signori, leader e combattenti per la libertà e il sogno americano, il meglio deve ancora venire!”. Il suo abito intenso è stato particolarmente indicativo dell’approccio fashion alla RNC. Perché se i maschi repubblicani si sono attenuti al consueto abito con cravatta lucida, le donne si sono calate dentro a silhouette sorprendentemente rigide: vita stretta e generosi décolleté. Anche se in Kimberly Guilfoyle questo caso la celebre linea elaborata da Monsieur Christian Dior nella si è prodotta seconda metà degli Anni Quaranta in una imitazione c’entra come i cavoli a merenda. Nel caso di Melania, l’apparizione di una di Eva Perón. giacca verde stretta in vita da doppia cintura e accompagnata da una gonna rigida di ispirazione militare non poteva non ricordare quella di un dittatore pronto alla battaglia. A dire il vero Ivanka Trump – forse per rispetto all’autorevolezza della madre – ha un poco rotto lo schema, scegliendo pantaloni neri piuttosto sciolti in basso e più strutturati in alto, accompagnati da un top con corsetto che lasciava le spalle scoperte. Il rispetto dei ruoli, del resto, è una componente chiave della dottrina MAGA – Make America Great Again. Lo stile alla Convention Democratica era decisamente più rilassato. I maschi democratici vicini alla tradizione sartoriale: abiti azzurro o blu navy accompagnato da cravatta mai sgargiante. Michelle Obama indossava un top di Nanushka in seta marrone, orecchini a cerchio della designer Chari Cuthbert accompagnati da una sottile collana d’oro decorata con le quattro lettere di “VOTE”. Nanushka e Cuthbert sono entrambi estremamente popolari sui social media USA. ByChari ha più di 140mila follower su Instagram e conta tra i suoi fan modelle come Paloma Elsesser e influencer come Rocky Barnes. Ancora: la senatrice Kamala Harris è apparsa a suo agio con l’abito di Altuzarra color melanzana, top di seta e pure delle sneaker Converse. Per finire Jill Biden ha parlato con disinvoltura ed equilibrio da un’aula scolastica indossando un abito verde disegnato da Brandon Maxwell. Nel complesso le ladies che hanno parlato alle convention sono sembrate in un campo e nell’altro donne forti, decise a proiettare un’immagine-moda altrettanto forte. L’abbigliamento è senza dubbio una scelta individuale, ma in questo caso è stata ovviamente anche politica: su quei podi, di fronte a quelle telecamere, si è tradotta in una rappresentazione visiva di una nazione nettamente divisa. Divisa tra Repubblicani e Democratici, ma forse – assai più tragicamente – tra chi si propone di rivestire il ruolo di rappresentante e chi dei rappresentati non importa un fico secco.
L EDITORIALI L
i guardo bene dall’intervenire sul tema del Covid: il pianeta ha già conosciuto, e superato, tante epidemie, che non sarà certo quest’ultima arrivata a sconvolgerne le fondamenta. Oso quindi far risuonare il classico “heri dicebamus”, riprendere cioè a stigmatizzare alcune male tendenze che senza dubbio torneranno a imporsi non appena si tornerà alla normalità. Queste in sostanza consistono nel sovvertire il flusso del tempo e della storia. Lo si coglie nel capriccio già oggi assolutamente dominante, da parte di artisti e critici, di presentare la sequenza delle mostre e delle relative recensioni che hanno meritato appunto in ordine inverso, partendo dalle ultime effettuate e risalendo alle prime. Come se non fosse importante sapere quando i relativi protagonisti hanno cominciato a emergere, in quali occasioni, e con l’appoggio di chi. Cito un fatto correlato, di carattere ben più popolare. Confesso che sono un patito della rubrica RAI Techetecheté, che mi delizia quando mi mostra i giovani cantautori alle loro prime apparizioni, da Morandi a Mina a Milva alla Pavone, e beninteso nella serie ci stanno i presentatori e le presentatrici, anche loro quando apparivano ancora timidi e incerti. Per noi studiosi è sempre importante risalire alle origini, cogliere i vari fenomeni al loro primo apparire, per seguirne poi l’ingrossare, quasi come studiare una valanga quando è appena una increspatura nel manto nevoso. In materia c’è ben di peggio, se si pensa alla mostra di Raffaello a Un pessimo curatore ha Roma, incaricata di celepreteso di giustificare brare al meglio il sommo questo stato di necessità artista. Anche qui si è accampando l’argomento seguito, addirittura nella collocazione delle opere, che gli intenditori fanno un ordine inverso, dagli proprio così. Il che non è ultimi dipinti indietreggiando alle prime maniassolutamente vero. festazioni del genio urbinate. Pare che all’origine di questa perversa trovata ci sia semplicemente una questione di spazio, in quanto gli ultimi dipinti dell’Urbinate, in genere più vasti dei primi, non riuscivano a essere issati al secondo e finale piano della mostra. Ma il guaio è che un pessimo curatore, accanto ai bravi e competenti membri degli Uffizi, ha preteso di giustificare questo stato di necessità accampando l’argomento che gli intenditori fanno proprio così, giudicano le opere capovolgendole. Il che non è assolutamente vero, del resto un artista in continuo mutamento proprio come Raffaello avrebbe avuto bisogno quanto mai di essere colto nei suoi primi passi e seguito nelle sue incessanti trasformazioni; inoltre, a Roma c’erano altre sedi in cui la sua mostra poteva essere tranquillamente ospitata senza “impiccarne” a testa in giù i capolavori, basti pensare al Palaexpo o alle sale di Palazzo Venezia. So bene che le Scuderie sono sede nobile, ma non al punto da sottomettere il Divino artefice a quella innaturale inversione dell’ordine storico.
#56 SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
RENATO BARILLI [ critico d’arte militante ]
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LA COPERTINA I AM HUMAN La morte di George Floyd è solo la vetta della sopraffazione suprematista, figlia della secolare segregazione razziale. Le periferie nere si scoprono emarginate e oppresse dai centri della produzione. Scoppiano i saccheggi, gli incendi, le devastazioni che solo l’oppressione millenaria sa coltivare con infinita pazienza. Con essi in collaborazione con scoppia la repressione NICOLÒ LUCCHI cruenta delle forze reazionarie, baluardi dello status quo, dell’immobilismo, della fine della storia. Riecheggiano frasi di un passato quantomai attuale: “Quando arriverà il nostro turno, non abbelliremo il terrore” (Karl Marx). Black Lives Matter oggi, in tutto il mondo – così come I Am a Man nel 1968, a Memphis – è la rivendicazione della comunità nera, cartelli sbattuti in faccia ai detentori del privilegio bianco del sogno americano. Agli oppressi, del resto, non si lasciano neanche i sogni o la fantasia. La miccia della sopraffazione si consuma lentamente, spostandosi da un continente all’altro, strisciando fra le strade abitate dai diseredati, illuminando gli spazi oscuri della decadente società occidentale. È lì che il razzismo delle periferie dell’America nera incontra la transfobia – erede del patriarcato – e le migliaia di morti nel Mediterraneo sacrificate in nome del privilegio europeo. Il miracolo economico dell’Occidente ha raggiunto l’unico successo possibile per gli oppressi: li ha resi simili, tutti egualmente legati al giogo della fame e della miseria. Questo permette di riconoscersi come vittime dello stesso sistema e di aprire una breccia per l’opportunità di sentirsi parte di un’unica grande matria senza confini: l’umanità.
TATANKA JOURNAL
GIAMPAOLO PROVENZANO Tatanka Journal è una rivista indipendente che dal 2018 racconta l’attualità attraverso le immagini, la grafica e le illustrazioni, coinvolgendo artisti nazionali e internazionali. Nel 2020 inizia la collaborazione con Artribune, insediandosi sulla superficie della rivista per creare un progetto editoriale parallelo, in grado di innescare delle riflessioni che nell’arco del nuovo anno indagheranno il contemporaneo. TATANKA è un progetto di SARA CERADINI, FRANCESCO FADANI, JACOPO UNDARI tatankajournal.com tatankajournal@gmail.com tatanka_journal
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Architettura: nasce il Comitato Permanente per la tutela della Casa Albero di Fregene VALENTINA SILVESTRINI L Ha già ottenuto l’adesione dell’amministrazione comunale di Fiumicino il Comitato Permanente per la Tutela della Casa Albero, costituitosi da qualche settimana su proposta dell’architetto Patrizio Bitelli. L’iniziativa, aperta alla partecipazione gratuita e spontanea di nuovi soci e sostenitori, è nata con il dichiarato intento di tenere costantemente accesi i riflettori su quell’incredibile esempio di architettura brutalista e sperimentale progettato da Giuseppe Perugini, Uga de Plaisant e dal loro figlio Raynaldo Perugini, tra il 1968 e il 1971, situato a ridosso della pineta di Fregene. Oggetto da alcuni anni di atti di vandalismo, concausa della condizione di degrado, la Casa Sperimentale è l’esito di un singolare percorso di progettazione. “Essendo tutti e tre architetti, la casa era un po’ il giocattolo di famiglia. Nel momento della realizzazione ognuno di noi proponeva soluzioni e nascevano discussioni, era una sorta di grande laboratorio, immaginatevi un plastico in scala reale!”, aveva dichiarato Raynaldo Perugini, a sua volta architetto, docente universitario e proprietario dell’immobile. Dopo la scomparsa di Perugini senior, cui è seguita quella di sua moglie, anche lei docente universitaria, la Casa Sperimentale è stata meno frequentata da parte della famiglia. “Un’assenza” parallelamente alla quale si sono verificati vari “atti vandalici che hanno finito per produrre più danni di quelli dovuti allo scorrere del tempo”. Ora, tuttavia, i tempi sembrano maturi per una decisa inversione di rotta. Proprio di recente “è stato ultimato il restauro della cosiddetta Palla, uno dei test-oggetto dell’immobile, insieme alla Casa Albero e ai ‘Cubetti’; è riuscito molto bene”, precisa Bitelli. “Adesso si procederà con gli interni della Casa Albero e con la sostituzione dei vetri. Per gradi cercheremo di risistemare anche il resto, sperando nel sostegno di qualche sponsor e nella possibilità di attivare presto un servizio di vigilanza, in modo tale da evitare nuove azioni vandaliche”.
Tra esperienza e innovazione. A Roma apre Spazio Taverna con le sue serate culturali esperienziali DESIRÉE MAIDA L Non è uno spazio per mostre e nemmeno per talk, ma un posto che “propone esperienze” e in cui “l’arte incontrerà altri mondi, dalla tecnologia all’innovazione”. Con queste parole il direttore artistico Ludovico Pratesi introduce Spazio Taverna, progetto che inaugura il 1° ottobre nel centralissimo Palazzo Taverna a Roma, negli ambienti che negli Anni Settanta hanno ospitato la sede degli indimenticati Incontri Internazionali d’Arte promossi da Graziella Lonardi Buontempo e che hanno visto protagonisti artisti quali Joseph Beuys, Jannis Kounellis, Andy Warhol. Da quell’esperienza artistica coinvolgente e decisiva per il milieu intellettuale della Capitale, e da quella delle avanguardie storiche, nasce Spazio Taverna, con una programmazione di serate che si propongono appunto come esperienze, in cui le dimensioni dello spazio e del tempo diventano protagoniste e, esse stesse, opere d’arte. Spazio Taverna è un progetto promosso e ospitato da EIIS – European Institute for Innovation and Sustainability, istituto che approfondisce i temi legati all’innovazione supportando organizzazioni e aziende nel percorso verso la sostenibilità. Spazio Taverna si pone quindi come obiettivo l’incontro tra arti e imprenditoria. Il 5 ottobre è prevista una serata a porte chiuse trasmessa in streaming, organizzata in omaggio a Graziella Lonardi. Dal 19 ottobre poi inizieranno le serate “esperienziali” insieme a Namsal Siedlecki, Quadriennale di Roma, Silvia Giambrone, Gian Maria Tosatti, Mattatoio di Roma – Angel Moya Garcia, Macro – Luca Lo Pinto. spaziotaverna.it
OPERA SEXY
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GUY BOURDIN guybourdin.org
“Saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blu, ma le gambe, ma le gambe, a me piacciono di più. Saran belli gli occhi azzurri e il nasino un po’ all’insù, ma le gambe, ma le gambe, sono belle ancor di più”: così suonava una popolarissima canzonetta lanciata nel 1938 sulle onde della radio italiana dalle voci di Enzo Aita e del Trio Lescano. Quel particolare feticismo aveva dunque il suo inno ufficiale. Senza cambiare argomento, un altro sguardo indietro (anche se non così lontano) ci porta a riscoprire con lieve complicità estetica l’opera del fotografo parigino Guy Bourdin (1928-1991). Annoverato tra i più noti fotografi internazionali di haute couture del secondo Novecento, le sue immagini volentieri provocatorie sono entrate nella storia esattamente per la specifica preferenza accordata alle estremità inferiori del corpo femminile: gambe snelle e piedi elegantemente calzati, e spesso poco altro a completare il fotogramma. Bourdin aveva sofferto da bambino e adolescente la mancanza della figura materna, che lo aveva anaffettivamente abbandonato fin dalla nascita; il che forse può spiegare la sua successiva ossessione per il corpo femminile, guardato e desiderato dal basso in alto. Ma lasciamo la psicoanalisi agli specialisti. Di fatto, il giovane Guy mosse i primi passi come aspirante pittore, mentre il suo incontro con la fotografia avvenne durante il servizio militare in aviazione, negli anni 1948-49 in Africa, quando si dovette impratichire con le foto aeree. Rientrato a Parigi, riuscì a conoscere Man Ray, che ne fece un suo protégé e che scrisse la presentazione della sua prima mostra di disegni e dipinti nel 1952; invece la prima mostra fotografica avverrà l’anno successivo. E nel 1955 Bourdin entra già nello staff di Vogue Paris in contemporanea con Helmut Newton, che al proposito ebbe a scrivere: “Grazie al suo e al mio lavoro la rivista diventò per molti versi deliziosamente irresistibile, ci completavamo a vicenda. Se ci fosse stato solo lui, o solo io, non avrebbe funzionato”. In effetti si rivela fin da subito un abile e originale image-maker,
per Vogue e Harper’s Bazaar ma presto anche per campagne pubblicitarie di vari marchi di lusso: Chanel, Issey Miyake, Emanuel Ungaro, Gianni Versace, Chloé, Bloomingdale’s, Pentax… E soprattutto per Charles Jourdan, il Ferragamo francese, creatore raffinato di calzature d’alta gamma. E d’alto tacco: Bourdin ci va a nozze. Perché la scarpa può essere – è – un ottimo soggetto surrealista. E il nostro, che oltre a Man Ray idolatra Magritte, Buñuel, anche Balthus e pure Hitchcock, si sbizzarrisce con intrigante audacia a inventare set vividamente colorati e a orchestrare messinscene spiazzanti, dove l’immancabile fulcro è il piede femminile calzato – o scalzo, ma con la calzatura presente a fianco. Pertanto nella sua poetica fotografica – che si caratterizza per nitido iperrealismo, sature cromie pop, tagli inusuali, modalità narrative – stravincono non solo i prodotti da pubblicizzare ma le atmosfere, le situazioni, i suggerimenti di qualcosa di misterioso che sta oltre il riquadro dell’immagine. Qui sta, feet o non feet, la qualità suggestiva (surrealista quanto erotica) della sua visione, che ne ha fatto accogliere stabilmente le opere in sedi prestigiose come la Tate di Londra, il MoMA, il Getty Museum, il San Francisco Museum of Modern Art. Il suo erotismo estetizzante lo accomuna a un altro celebre fotografo suo contemporaneo, Jeanloup Sieff, e all’artista britannico Allen Jones, quello dei tacchi altissimi e polpacci forti e dei famosi tavolini-donna fetish (e oggi ha ancora un erede devoto in Alva Bernadine). Ma la sua piccante sensualità si arricchisce di ironia astuta, tanto che anche lui, come Fellini, si è aggiudicato un aggettivo specifico: bourdinesque. Un’altra sensualità piccante, si diceva: longilinea, ben diversa dunque da quella più paffuta felliniana, ma di profonda tensione estetica e soprattutto spinta immaginativa. Come proseguiva la storica canzonetta? “Quando noi vediamo una ragazza passeggiar, cosa facciam? Noi la seguiam e, con occhio scaltro, poi cerchiam d’indovinar quello che c’è da capo a piè”. Appunto.
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Guy Bourdin per Charles Jourdan, 1979 © Guy Bourdin Estate
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FERRUCCIO GIROMINI [ storico dell'immagine ]
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ART MUSIC
CLAUDIA GIRAUD [ caporedattrice musica ]
Torri dell’Arengario
SILENZIO DI S A R R A M: un disco nato in lockdown
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Palazzo Reale
sarram.bandcamp.com
inaugurata
S A R R A M. Photo Claudio Spanu
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Il Museo del Novecento di Milano potrebbe espandersi nella seconda Torre dell’Arengario
Se per John Cage il silenzio rappresentava la liberazione del suono dalla schiavitù dell’intenzione, in tempo di pandemia assume connotati più tristemente legati alla contingenza, trasformandosi in una condizione di vita, in uno status sociale. “‘Silenzio’ rappresenta ciò che ho sentito e percepito per mesi: l’immobilità”, ci racconta Valerio Marras, che durante il lockdown in Sardegna ha concepito, per il suo progetto solista di matrice strumentale S A R R A M, il nuovo disco chiamandolo proprio Silenzio, “intraducibile in sardo perché nella nostra realtà antica non necessitava di una vera e propria parola per essere descritto o definito”. L’album è un concentrato, in 40 minuti di musica, di drone music, sound design, field recording, ambient music, elettronica, in otto tracce che fanno da colonna sonora ad altrettante testimonianze in ceco, farsi, sardo, tedesco. “Durante il lockdown mi sono venute in mente un sacco di persone conosciute in anni di tour e ho deciso di invitarle a parlare – nella propria lingua madre – del periodo che stavano vivendo”, continua Marras. “Thomas Malotin è ceco e ha scritto una poesia riguardo alla vita dentro quattro mura. Elaheh Mohammadbaghban è persiana e il suo è un discorso politico riguardo alla gestione della pandemia e del virus stesso. Diego Pani è sardo, ma in quel periodo si trovava a Washington DC, dove ha vissuto non solo la pandemia ma anche gli effetti dell’assassinio di George Floyd, vedendo una città in lockdown trasformarsi in una città in rivolta. Dimitrios Kaitsis ha parlato del suo 2020 fino a quel momento, fra alti e bassi; Sarah Kristof della sua nuova routine e di quello che stava succedendo in Austria. Le tre tracce strumentali sono di Gabriele Gasparotti, Daniele Borri e Giona Vinti e rappresentano le testimonianze italiane che si esprimono nella lingua universale della musica”. Successivamente il chitarrista sardo, già in attività con Thank U For Smoking e Charun, ha creato i suoni tramite registrazioni del suo ambiente domestico. Per ultima è arrivata la copertina del disco, nata da una foto. “Tutte le persone coinvolte in ‘Silenzio’ hanno ricevuto lo stesso invito. Nel caso di Paolo ‘Animamundi’ Sanna il messaggio si rivolgeva all’immagine stessa che l’idea alla base del disco avrebbe dovuto riflettere. Per Claudio Spanu di Nubifilm, che ha curato l’interno dell’artwork, è successa la stessa cosa”. Pubblicato a settembre in digitale, Silenzio esce in CD il 4 ottobre.
restauro / espansione
GIULIA RONCHI L È uno dei simboli di Milano e della sua vivacità culturale: il Museo del Novecento, che ospita la collezione civica moderna e contemporanea della città, ha inaugurato nel 2010 in una delle due torri dell’Arengario, quella adiacente a Palazzo Reale, progettata in epoca fascista. Ora c’è chi punta al raddoppio, occupando anche la struttura gemella per ampliare il percorso espositivo e l’offerta culturale con opere inedite e più contemporanee. Ma la strada non è tutta in discesa: ci sono costi, finanziamenti e altri elementi da mettere sul piatto della bilancia per comprendere se sia questo il momento più adatto per procedere; è infatti necessario fare i conti con la crisi causata dal Covid e con gli alti costi del progetto. D’altronde, se da una parte Milano si è dimostrata nel tempo la città della cultura e dell’innovazione, resta paradossale che ancora non abbia istituito un proprio museo del contemporaneo. Tenendo conto della presenza di tante realtà che propongono un’offerta artistica contemporanea aperta alla sperimentazione e al panorama internazionale, come Fondazione Prada e HangarBicocca. Ma di una collezione permanente, organica e aggiornata, ancora non se ne parla. Che possa essere questa l’occasione giusta, con il beneficio per tutto il sistema che ne potrebbe derivare? museodelnovecento.org
I capolavori di Raffaello in alta definizione. E fruibili online gratuitamente Sono sempre più numerose le istituzioni culturali e museali italiane impegnate nella digitalizzazione delle opere delle proprie collezioni, un modo per valorizzare il patrimonio del passato e condividerlo grazie al web con studiosi e appassionati di tutto il mondo. Operazione, questa, che spesso vede protagonista Haltadefinizione, azienda specializzata nella digitalizzazione di beni culturali, che ha già lavorato su capolavori custoditi alla Pinacoteca di Brera e alla Galleria dell’Accademia di Firenze. La società ha di recente aggiunto sul proprio sito sei nuove opere d’arte in gigapixel conservate alla Galleria degli Uffizi e alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, tutte firmate da Raffaello Sanzio. I sei dipinti sono stati selezionati indagando i filoni tematici che contraddistinguono il corpus pittorico di Raffaello, ovvero le Madonne e i ritratti. La Madonna del Cardellino [nella foto, un particolare], il Ritratto di Elisabetta Gonzaga e Guidobaldo di Montefeltro, il Ritratto di Perugino, il Ritratto di Giulio II e la Gravida sono i capolavori che Haltadefinizione ha digitalizzato e reso fruibili online gratuitamente. “Nell’anno delle celebrazioni per i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello abbiamo lavorato per rendere disponibili sul nostro sito molte opere dell’artista Urbinate e favorire, così, la divulgazione e la conoscenza del suo straordinario operato”, ha spiegato il fondatore di Haltadefinizione Luca Ponzio. haltadefinizione.com
LABORATORIO ILLUSTRATORI
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SHUT UP CLAUDIA shutupclaudia.com
tante per noi donne, quello della femminilità, utilizzando un tratto semplice e un disegno molto veloce. All’epoca, quando ho iniziato con Shut Up Claudia, avevo questa esigenza di gridare al mondo che noi donne ce la possiamo fare e siamo piene di cose da dire. Nel tempo questo bisogno non è cambiato ma nell’ultimo periodo ho lavorato molto sul mio linguaggio, perfezionandolo, aggiungendo dei dettagli e studiando meglio la composizione in modo da conferire alle mie illustrazioni più completezza e una miglior realizzazione stilistica.
© Shut Up Claudia per Artribune Magazine
Shut Up Claudia, al secolo Claudia Alexandrino, nasce in Portogallo e vive a Milano. Illustratrice e designer, è interessata soprattutto alla figura femminile, delineata sinteticamente e dai cromatismi accesi, che gravita in spazi senza tempo e senza luogo. Una figura indipendente, irriverente e volitiva, consapevole della propria femminilità. Libera da schemi e sovrastrutture e mai banale, come il suo ambito espressivo. Qual è la tua formazione? Ho conseguito una laurea magistrale in Design della Comunicazione all’Università di Aveiro, in Portogallo, arricchita da una bellissima esperienza di Erasmus al Politecnico di Milano. A livello di studi sono qualificata come designer, ma la vera passione è sempre stata quella del disegno. Quali autori hanno stimolato la tua creatività? Già ai tempi dell’università, giravo con quaderni e un astuccio pieno di colori. Gli autori che hanno più stimolato la mia cre-
atività durante questo percorso sono stati Isidro Ferrer, Alan Fletcher e André da Loba. Quando hai capito che l’illustrazione avrebbe fatto parte del tuo futuro? Mentre ero all’università, ho iniziato un blog online dove digitalizzavo gli sketchbook con le mie illustrazioni, schizzi e idee. Lo avevo chiamato Cala-te Claudia, che in inglese viene tradotto Shut Up Claudia, da cui il mio nome d’arte. Non potevo fare a meno di portare sempre con me questi quaderni e ogni volta che avevo l’occasione disegnavo ed esprimevo i miei pensieri o le mie sensazioni. Grazie a questo ho capito che l’illustrazione sarebbe potuta essere l’espressione della mia creatività. Descrivi il tuo lavoro con tre aggettivi. Sincero, colorato e positivo. Da dove origina la tua ricerca e in quale direzione si sta orientando? Sono partita da un tema molto impor-
Ci spieghi il processo creativo di una tua illustrazione? Quando inizio un progetto, che sia di illustrazione o design, inizio con una fase di ricerca e moodboard analizzando il mercato di riferimento. Successivamente, creo delle mappe concettuali con parole chiave relative al tema e inizio a creare degli schizzi per fissare le prime idee. Dopo questa prima fase, passo al digitale. Scannerizzo gli schizzi e uso l’iPad oppure Photoshop per dare forma al disegno finale, aggiungere colori e texture.
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Il tuo concetto di bellezza. Nonostante le mie illustrazioni siano molto colorate e piene di energia, penso che per me il concetto di bellezza, soprattutto in questo momento della mia vita, sia rappresentato al meglio dalla natura e dalla sua semplicità. Dopo questo periodo di lockdown mi sono molto connessa con la natura e ho imparato sempre più ad apprezzare le cose più semplici.
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ROBERTA VANALI [ critica d’arte e curatrice ]
Hai un sogno in merito alla tua professione? Vorrei disegnare una linea di moda di vestiti per bambini. A cosa lavori in questo frangente e quali sono i prossimi progetti? Al momento, come illustratrice, sto lavorando con un brand per la realizzazione di pattern per astucci per bambini, in vista del rientro a scuola. Sto anche facendo un poster per una mostra collettiva e una piccola collaborazione mensile con Grazia UK, grazie alla mia agenzia di rappresentanza “Opera”. Ci sono in partenza altri progetti molto interessanti, tra cui uno di animazione, ma quello su cui vorrei focalizzarmi nei prossimi mesi è forse il più complicato: rifare il mio sito Internet!
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MUSEI E FONDAZIONI:
COME SARË LA STAGIONE AUTUNNO-INVERNO? SANTA NASTRO [ caporedattrice ]
L’emergenza Covid ha cambiato il modo di fare e fruire le mostre: come sarà la stagione che si apre? Quali sfide dovranno affrontare musei e fondazioni? Cosa può e deve fare la politica per sostenere la cultura? Lo abbiamo chiesto a dieci direttori e presidenti.
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GIÒ MARCONI FONDAZIONE MARCONI – MILANO Il nostro autunno sarà diverso dal solito. Faremo delle mostre ma al tempo stesso ci concederemo anche del tempo per una riorganizzazione generale all’interno della Fondazione. Penso al sito web, al riordino dell’archivio e degli spazi, alla programmazione per il prossimo anno... Tuttavia da questa stagione che inizia mi aspetto un ritorno alla normalità con un bagaglio di nuove esperienze. Sarebbe bello uscire da questa situazione con una rinnovata consapevolezza su quel che facciamo e su come lo facciamo. Mi piacerebbe se dall’emergenza che abbiamo vissuto potesse nascere qualcosa di nuovo. La sfida sarà riuscire a convivere con il virus, intraprendere nuove strade per interagire con il pubblico, senza perdere di vista la prerogativa principale di una sede espositiva: instaurare un rapporto di fiducia con il pubblico e tenere viva l’attenzione, alimentandola con nuovi stimoli e progetti.
BEATRICE MERZ FONDAZIONE MERZ – TORINO Certamente l’innovazione tecnologica è uno dei temi che le istituzioni culturali di ogni genere e misura stanno affrontando, ma non si deve limitare a uno spazio online, sarebbe opportuno ragionare su un progetto dinamico. La sperimentazione è elemento costitutivo del museo contemporaneo, connesso a una logica di
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apertura in termini ricettivi e partecipativi. Per questo è necessario interrogarsi: in una situazione di crisi è sufficiente muoversi in termini esclusivamente di proposta culturale? O occorre anche agire attraverso un vero e proprio atto politico? Il nostro è un ruolo sociale. Quindi è necessario riflettere sulla natura del luogo di cultura a partire non solo dai possibili fruitori, ma dal ruolo giocato dagli stessi artisti e dalle proprie opere, elementi protagonisti delle realtà culturali e civili. E riflettere sulla necessità di desistere dalla bolla nella quale il mondo dell’arte si è auto-generato.
la riapertura: mi aspetto (e spero, per la verità) che la GAMeC continui a essere all’altezza di questo affetto, del calore e della fiducia che le persone hanno dimostrato nei nostri confronti e mi auguro sinceramente che questo rapporto si consolidi e sia da stimolo per il futuro.
CRISTIANA PERRELLA CENTRO PECCI – PRATO
LORENZO GIUSTI GAMEC – BERGAMO Il periodo che abbiamo attraversato ha prodotto e continuerà a produrre dei cambiamenti profondi di cui ancora non siamo pienamente coscienti, e noi operatori culturali ci troviamo a dover ripensare il nostro mondo, rivedere le nostre priorità e scale di valori. Ora più che mai i musei pubblici hanno l’occasione di acquisire una nuova centralità e di incidere nelle politiche culturali e sociali: un museo come la GAMeC ha orgogliosamente riscoperto la propria vocazione civica, e questa cosa ora va preservata, valorizzata e capitalizzata. I musei hanno finalmente l’occasione di ribaltare quell’assioma che nell’ultimo decennio li ha voluti raccontare come volani per il turismo – fraintendendone in buona parte la funzione e la missione – per diventare, invece, un pilastro del welfare. Se pensiamo al nostro caso, la comunità di Bergamo e quella dell’arte ci hanno dimostrato un grande affetto in questi mesi, sia durante il lockdown che ora con
Mi aspetto, nel prossimo futuro, di consolidare il rapporto con il territorio, incrementando la comunità che è intorno al museo e coinvolgendola sempre più attivamente nei nostri programmi. Durante il lockdown e con la riapertura abbiamo cercato di impegnarci a fondo in questo senso. Mi aspetto poi di lavorare molto in Rete, collaborando con altre istituzioni del contemporaneo, in Toscana, in Italia e all’estero. Sono convinta che avremo una buona partecipazione di pubblico, soprattutto di prossimità ma non solo. Penso che tra le sfide che dovranno affrontare i musei nel prossimo futuro ci sia l’essere parte della società, con un ruolo riconosciuto, e non avulsi da essa. La decolonizzazione culturale. L’accesso ai propri contenuti da parte di fasce di pubblico sempre più varie. Alla politica chiederei maggiore ascolto e maggiore considerazione e valorizzazione per il ruolo sociale della cultura. E poi una cosa molto specifica: mezzi economici per incrementare le collezioni dei musei, non solo di quelli statali. Acquisizioni di opere ma anche di archivi, lasciando la libertà ai direttori di sviluppare o rafforzare le identità specifiche delle raccolte della propria istituzione. Sarebbe un modo per dare un impulso a tutto il sistema, coinvolgendo artisti, gallerie, pubblico.
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Per la prossima stagione mi aspetto di tutto, dato che coincide con l’inizio da direttrice del MACTE. Imposterò in questi mesi tutto quello che è il motore del museo per avviare il programma espositivo a inizio 2021. Ho in mente un calendario di incontri che approfondiscano opere e artisti della collezione, che comincino a introdurre nuovi linguaggi e ricerche dell’arte contemporanea. Tra le sfide più importanti che i musei dovranno affrontare nel prossimo futuro c’è quella della digitalizzazione: bisogna pensare a essa come a un nuovo linguaggio artistico, e in parallelo continuare a costruire esperienze espositive curate nel tempo e nello spazio oltre a tener conto dei corpi delle persone.
Nonostante le difficoltà che condizionano il nostro presente, sono felice che Fondazione Pistoia Musei abbia potuto mantenere inalterato il programma espositivo, con due mostre che inaugurano in rapida successione: Sguardi sull’arte dal secondo dopoguerra, con opere della nostra collezione permanente e altre di Intesa Sanpaolo, e poi a novembre la grande antologica dedicata al maestro della fotografia Aurelio Amendola. La nostra è un’istituzione giovane, nata solo nel 2019: il mio auspicio è che, nonostante tutto, riesca sempre più ad affermarsi come centro culturale di riferimento del nostro territorio, proiettandosi al di là di esso, instaurando rapporti e sinergie anche con altre realtà a noi affini. Nel prossimo futuro i musei dovranno affrontare una grande sfida: parlare a pubblici diversi, offrendo momenti di vero approfondimento culturale con un linguaggio e modalità che possano essere apprezzati non necessariamente da tutti, ma che siano in grado di suscitare in molti almeno un po’ di sincera curiosità.
ROSALBA BRANÀ FONDAZIONE PINO PASCALI POLIGNANO A MARE Siamo ancora in emergenza Covid però da maggio a oggi abbiamo potuto constatare un rinnovato interesse verso le nostre proposte espositive; certo l’utenza è un po’ cambiata, meno stranieri e più italiani, ma il museo è un’entità viva e sempre in movimento. Per l’autunno auspichiamo un maggior ritorno alla normalità. Già in epoca lockdown il museo è stato sempre in attività, anche se in modalità virtuale. Inoltre, impossibilitati ad accogliere bambini nei nostri laboratori, abbiamo utilizzato i nostri social per continuare un dialogo a distanza con loro, gestendo video interattivi a cura dei nostri responsabili della sezione didattica, anche quelli molto seguiti. I musei dovranno affrontare diverse sfide per il prossimo futuro. Tra queste: cambiare passo, verificare nuovi percorsi, accompagnarsi a più e diversi “attori”. Far sì che lo spillover, all’origine della pandemia, possa diventare un contagio positivo che possa coinvolgere tutti i linguaggi.
ANDREA BRUCIATI VILLA ADRIANA E VILLA D’ESTE – TIVOLI In questo momento il pubblico è particolarmente coinvolto sugli aspetti di consumo online, che probabilmente continueranno anche in futuro ad avere un ruolo consistente. Il recupero di una certa normalità sensoriale avverrà in tempi piuttosto lunghi ma in questo le Villae si pongono come vintage e pionieristiche, secondo i punti di vista. Siamo stati concepiti come luoghi volti alla meraviglia e al riequilibrio profondo con noi stessi e questo oggi può veramente fare la differenza. Se è vero che i pubblici non si avvicineranno più allo stesso modo, almeno non completamente, è anche palese che cercheranno in noi una diversa dimensione, immersiva, unica nel suo genere. Sono comunque curioso sugli sviluppi di questo dialogo, perché intravedo anche forme di comunicazione e attenzione nuove, alcune anche molto stimolanti. I luoghi di cultura devono quindi accrescere il proprio valore identitario di rappresentazione comune e dovranno essere fautori di un nuovo modo di raccontare: per me le nuove forme di narratività sono fondamentali. Non sarà l’aumento o la diminuzione della richiesta culturale a fare la differenza, ma la sua ridistribuzione e il suo grado di comunicabilità.
LUCA LO PINTO MACRO – ROMA Spero prima di tutto che non si renderanno necessarie ulteriori chiusure, dati i grandi sforzi che il mondo dell’arte ha fatto in questi ultimi mesi non solo per riaprire, ma per ripensare alcune modalità di lavoro e di relazione con il pubblico. Nel caso del Macro ci ha colpito la consapevolezza con cui hanno risposto i visitatori, anche di fronte ad alcune nuove regole e limitazioni, dimostrando l’esistenza di un bisogno profondo di cultura e di nuove forme di socialità. In tal senso credo sia importante che i musei abbiano il coraggio di puntare ancor di più sui contenuti e sul ripensare costantemente il loro ruolo, dando vita a un’offerta quotidiana e continua alternativa al paradigma dei grandi eventi e appuntamenti. Nel caso dei musei di arte contemporanea, penso che non si debba mai dimenticare la centralità degli artisti e far sì che il loro pensiero e linguaggio possano essere lo spunto per definire nuove direzioni.
L TALK SHOW L
LUCA IOZZELLI FONDAZIONE PISTOIA MUSEI
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CATERINA RIVA MACTE – TERMOLI
CESARE PIETROIUSTI AZIENDA SPECIALE PALAEXPO – ROMA Palazzo delle Esposizioni ospiterà un’edizione della Quadriennale d’arte che si profila come la punta più avanzata della sua storia recente, sia per la qualità degli artisti che per il rigore curatoriale. Intitolata Fuori, sarà un viaggio intergenerazionale nella ricerca artistica contemporanea italiana, tra arte, cinema, coreografia, design ecc. Da questa nuova stagione mi aspetto un rinnovato senso di fiducia nei confronti della cultura, e in particolare dell’arte, per dare senso, sostanza, all’esistenza di ognuno di noi. Ai musei toccheranno diverse nuove sfide. Ad esempio il rapporto fra le discipline artistiche e performative, nonché quello tra apparato espositivo e attività formativa: sono due aspetti fondamentali che a mio avviso richiedono di individuare dei veri e propri modelli espositivi nuovi. Alla politica chiedo invece semplificazione. I musei pubblici sono sottoposti a regole spesso superflue che rendono il lavoro inutilmente difficile.
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SERIAL VIEWER
SANTA NASTRO [ caporedattrice ]
LOVE, DEATH & ROBOTS
Nasce Casa Montessori. Un museo a Chiaravalle dove la famosa pedagogista è nata 150 anni fa CLAUDIA GIRAUD L Lo scorso 31 agosto si è celebrato il 150esimo anniversario della nascita di Maria Montessori, scienziata, medico, filosofa, simbolo dei diritti femminili e della pace, una donna che ha rivoluzionato la storia dell’insegnamento con il suo innovativo metodo pedagogico che, pur dando regole, permette ai bambini di esprimersi liberamente: un procedimento praticato in circa 60mila scuole in tutto il mondo. Sky Arte le ha reso omaggio con un documentario realizzato con 3D Produzioni, mentre la città di Chiaravalle, Comune in provincia di Ancona dove è nata la famosa educatrice, le ha dedicato una settimana di festeggiamenti e iniziative sul tema del Ritorno a casa: come quella natale che vedrà la luce a ottobre, completamente rivoluzionata. Il progetto prevede, infatti, un totale ripensamento della sua casa natìa, che diverrà uno spazio dedicato a tutto tondo alla poliedrica figura della scienziata. Il percorso espositivo offrirà, inoltre, un’esperienza di conoscenza diretta dei materiali didattici e degli approcci multisensoriali caratteristici della pedagogia montessoriana. Il tutto cofinanziato da vari partner (tra i quali la Regione Marche) e coordinato da un gruppo di progetto formato dal Comune di Chiaravalle, dalla Fondazione Chiaravalle Montessori, dall’Opera Nazionale Montessori e dall’AMI – Association Montessori Internationale, con Carolina Montessori (bisnipote di Maria) in qualità di presidente onorario.
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fondazionechiaravallemontessori.it È una serie animata, ma mandate a letto i bambini. Love, Death & Robots è uscita nel 2019 per Netflix e pare che stia per uscire una seconda stagione. Creata da Tim Miller (il regista di Deadpool), ricorda vagamente, anche solo per il jingle iniziale dal sound tecnologico, la britannica Black Mirror, anche se la componente distopica qui risulta assolutamente calmierata. Nonostante tutto i generi cui fa riferimento questo ottimo prodotto seriale sono l’horror, il thriller e la fantascienza spesso cyberpunk, sì, ma anche la commedia, strappando non pochi sorrisi qua e là. Tuttavia non si tratta di una serie “leggera”: sesso e violenza non mancano, spesso amplificati da un’animazione eccellente che rende gli ideatori liberi di osare e di conquistare anche l’utente più nerd. Ogni episodio di Love, Death & Robots è molto breve, non dura più di 20 minuti. In uno di questi, un trio di robot si aggira tra le rovine della civiltà umana in cerca di indizi su come vivevamo noi, ormai estinti. Sperimentano il jukebox, la Wii e ci deridono anche un po’, almeno fino a quando non intervengono i gatti. In un altro episodio, un’intera civiltà si evolve all’interno di un vecchio freezer nella casa in cui si trasferisce una giovane coppia alla prima convivenza. E ne accadono delle belle. In un altro ancora, lo yogurt che mangiate ogni mattina progredisce al punto da dominare il mondo, creando una sana società a base di fermenti lattici. La prima stagione conta diciotto episodi tutti da scoprire. L’animazione spazia dal cartoon all’estetica del videogioco, la colonna sonora spacca. Non è necessario vederli in senso cronologico, né tutti insieme. Ogni episodio è a sé, ma è anche vero che uno tira l’altro. USA, 2019-ongoing Soggetto: Tim Miller Genere: commedia, fantascienza, horror Stagioni: 1 | Episodi: 18 | Durata: 6’-17’ a episodio
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Boccata d’arte e Italics: due progetti di valorizzazione dell’arte e del nostro Paese da Galleria Continua DESIRÉE MAIDA & SANTA NASTRO L Sostenere l’arte contemporanea e valorizzare il patrimonio storico e paesaggistico italiano: è questo l’obiettivo che si prefigge Una boccata d’arte, progetto realizzato da Fondazione Elpis in collaborazione con Galleria Continua, che arriva come risposta all’attuale crisi sanitaria globale e alla necessità di riattivare i circuiti culturali del Paese. Quella conclusasi è stata un’estate all’insegna del turismo di prossimità, conseguenza della pandemia e allo stesso tempo occasione per scoprire o riscoprire luoghi a pochi passi da casa scrigni d’arte e cultura: su queste premesse è stata costruita Una boccata d’arte, che fino all’11 ottobre porta le installazioni di 20 artisti italiani in altrettanti borghi del nostro Paese [nella foto, Cervo in Liguria], coinvolgendo così tutte le regioni d’Italia. Sempre da Galleria Continua arriva Italics, che ha messo insieme nove gallerie d’arte in un unico tavolo di lavoro. Sono: Alfonso Artiaco (Napoli), Galleria Continua (San Gimignano), Massimo De Carlo (Milano), Gagosian (Roma), Kaufmann Repetto (Milano), Massimo Minini (Brescia), Franco Noero (Torino), Carlo Orsi (Milano), Galleria dello Scudo (Verona), insieme per costruire una piattaforma volta a sostenere l’arte, il turismo e la cultura in Italia, attraverso il punto di vista dei galleristi. Su impulso del comitato fondatore coinvolge poi altre 51 gallerie: si tratta di un progetto non prettamente commerciale, che avrà una prima versione online. Ma non stiamo parlando di una viewing room, non ci saranno opere con i prezzi: l’obiettivo è la valorizzazione dei territori e delle eccellenze del nostro Paese, anche grazie al coinvolgimento di partner tra istituzioni culturali, musei, fondazioni, ma anche moda, design, ristorazione, ospitalità. “L’obbiettivo”, spiega Lorenzo Fiaschi, co-fondatore, “è di invogliare le persone a venirci a trovare quando sarà possibile viaggiare ancora di più. Non solo nelle grandi città, ma andando a cercare anche le gallerie più piccole o quelle decentrate. I galleristi saranno invitati a dare degli stimoli: l’elemento innovativo è proprio questo”. galleriacontinua.com | unaboccatadarte.it | italics.art
Nominati 13 nuovi superdirettori di musei statali
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MUSEO NAZIONALE ROMANO Stéphane Verger è direttore all’École Pratique des Hautes Études di Parigi e nel Consiglio scientifico del Louvre.
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BIBLIOTECA E COMPLESSO DEI GIROLAMINI DI NAPOLI Antonella Cucciniello è Direttrice della Direzione regionale Musei Calabria e storica dell’arte.
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GALLERIA NAZIONALE DELLE MARCHE DI URBINO Luigi Gallo è ricercatore e curatore delle Scuderie del Quirinale.
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MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI CAGLIARI Francesco Muscolino è Archeologo del MiBACT con responsabilità direttive presso il Parco Archeologico di Pompei.
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MUSEO NAZIONALE D’ABRUZZO DELL’AQUILA Maria Grazia Filetici è Architetto del MiBACT con responsabilità direttive presso il Parco Archeologico del Colosseo. MUSEO NAZIONALE DI MATERA Anna Maria Mauro è Architetto del MiBACT con responsabilità direttive presso il Parco Archeologico di Pompei. PALAZZO DUCALE DI MANTOVA Storico dell’arte del MiBACT con responsabilità direttive presso il Palazzo Ducale di Mantova, Stefano L’Occasio è direttore del polo museale della Lombardia. PALAZZO REALE DI NAPOLI Mario Epifani è direttore di Palazzo Chiablese di Torino e storico dell’arte presso il Museo e Real Bosco di Capodimonte. PARCO ARCHEOLOGICO DI OSTIA ANTICA Alessandro D’Alessio è ricercatore, archeologo e Direttore della Domus Aurea. PARCO ARCHEOLOGICO DI SIBARI Filippo Demma è Archeologo del MiBACT con responsabilità direttive presso il Parco Archeologico dei Campi Flegrei. PINACOTECA NAZIONALE DI BOLOGNA Maria Luisa Pacelli è curatrice delle Gallerie d’arte moderna e contemporanea a Ferrara.
La giovane Cecilia Kass è intrappolata in una relazione violenta e degradante con il ricco e potente luminare dell’ottica Adrian Griffin. Una notte, grazie all’aiuto della sorella Emily, la ragazza riesce abilmente a fuggire dalla fortezza tecnologica del suo aguzzino e a rifugiarsi a casa del detective della polizia James Lanier, suo amico d’infanzia. Ostinatamente barricata nel suo nuovo rifugio, Cecilia tenta di riprendere in mano la sua vita solo dopo la notizia del presunto suicidio di Griffin, ma si rende presto conto che Adrian non solo non è morto, ma che la sua sparizione è solo l’inizio di una persecuzione ancora più crudele ed efferata. Noto al grande pubblico soprattutto per la sceneggiatura di Saw – L’enigmista, scritta a quattro mani con James Wan, Leigh Whannell sorprende con una trasposizione originale ed efficace del classico letterario di H.G. Wells. Al contrario degli adattamenti cinematografici precedenti (quello di James Whale del 1933 e quello di Paul Verhoeven del 2000 per citare gli esempi più fedeli allo spirito del romanzo), il giovane regista australiano utilizza l’opera dello scrittore britannico per mettere in scena un lungometraggio dal forte carattere autoriale che inaspettatamente non assume l’io narrante del folle scienziato, ma la prospettiva terrificante e ansiogena della vittima da lui prescelta. L’uomo invisibile di Whannell si presenta, sin dalla prima scena, come un maniaco del controllo, un violento, un manipolatore, un assassino senza scrupoli che attraverso tecnologie avanzate e sistemi di sorveglianza (divenuti qui efficaci strumenti di tortura) instaura un regno di terrore, imponendo il proprio dominio su ogni aspetto della vita della sua vittima. Sfruttando l’invisibilità, lo scienziato allontana o uccide ferocemente tutti coloro che cercano di aiutare Cecilia (una bravissima Elisabeth Moss), facendo ricadere la colpa su di lei e portandola a essere considerata pazza da famigliari e amici. Il “classico” di Whannell, diffuso solo su piattaforme streaming a causa del lockdown, miscela sapientemente tematiche sociali e politiche generando un’opera di incredibile attualità dove fantascienza, horror e dramma psicologico convergono in una sorta di revenge movie che sottopone il pubblico a uno stato di ansia crescente, un terrore viscerale sapientemente orchestrato da puntuali dissonanze e abili movimenti di camera.
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VITTORIANO E PALAZZO VENEZIA Edith Gabrielli è Direttrice della Direzione regionale Musei del Lazio e storica dell’arte.
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THE INVISIBLE MAN
GALLERIA BORGHESE Francesca Cappelletti è Membro del Comitato scientifico della Galleria Borghese e Direttore scientifico di Fondazione Ermitage Italia.
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GIULIA PEZZOLI [ registrar ]
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GIULIA RONCHI L “Il modello italiano è eccellenza nel mondo”, ha commentato il Ministro Dario Franceschini. Annunciati dal MiBACT i nuovi 13 direttori (per la quasi totalità italiani questa volta), che guideranno musei, parchi archeologici e biblioteche nazionali.
LIP - LOST IN PROJECTON
USA, 2020, 110’ Genere: horror, thriller, fantascienza Regia e sceneggiatura: Leigh Whannell Cast: Elisabeth Moss, Storm Reid, Oliver Jackson-Cohen, Aldis Hodge, Harriet Dyer
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#56
APP.ROPOSITO
SIMONA CARACENI [ docente di virtual environment ]
CONTAGION VR: OUTBREAK
Io la quarantena me la sono vissuta male, e ancora non riesco ad adattarmi, il che non è molto vincente sul versante darwiniano. Sarà accaduto anche a voi di voler indagare le produzioni artistiche inerenti gli scenari pandemici, a cominciare da film, romanzi e ovviamente prodotti multimediali, e sono certa anche che molti hanno cercato di usare la real contagion-outbreak.com tà virtuale per tuffarsi in vecchi mondi, $ 19,99 | early access free in mondi di un non meglio specificato Oculus Rift, HTC Vive, Valve Index “prima”, per tentare di evadere. Ma VR per evadere is for boys, VR per immergersi in scenari pandemici apocalittici is for men. E quindi adesso abbiamo la possibilità di fare un early access al celeberrimo gioco Contagion di sei anni fa, ma in modalità VR con uno scenario applicato: quello di essere first person shooter di un mondo moribondo e contagiosissimo. Spoiler alert: se avete giocato a Contagion in passato saprete che avere Covid-19 fra i propri morbi dà una sicura ragione di vittoria, perché a un certo punto il virus è mutato e ha cambiato sintomi, qualità che sbanca Contagion e vi fa vincere il dominio totale mondiale.
L LOCKDOWN VR: KIDNAPPED
Chiunque abbia un dispositivo VR avrà fatto la prova, durante la quarantena, di entrare nelle chat – lo stesso paradigma delle prime chat in 3D degli Anni Zero, a partire da The Palace fino ad arrivare al momento di hype di Second Life. È assolutamente adorabile vedere quan lockdown.sg to può riscaldare un medium freddo € 8,19 come il dispositivo elettronico associato Oculus Rift, HTC Vive al VR. Questo è un gioco di tipo escape room realizzato con le stesse grafiche delle stanze di chat VR, che propone una situazione che può anche potenzialmente accadere online, o meglio accadeva spesso su Second Life: essere rapito tramite il proprio avatar in uno spazio sconosciuto e dover scappare dalla prigionia. Possiamo prenderlo come un allenamento o enfatizzare in questo modo gli effetti collaterali del VR, a partire dal senso claustrofobico del contenuto che stiamo fruendo.
L DEATH STRANDING
Come Contagion VR: Outbreak è stato rilasciato a novembre 2019, con un tempismo strabiliante, anche Death Stranding è uscito nello stesso periodo. Ed è diventato a metà lockdown italiano il perturbante. Ambientato nel solito futuro distopico, con una grafica spettacolare e una colonna sonora magnifica, conduce negli scenari più spaventosi che kojimaproductions.jp una pandemia può generare con estre € 59,99 mo realismo rispetto a quanto accaduto Windows, PS4, PS5 nel passato prossimo, con una missione da portare a termine e infinite storie parallele. Il gioco, come Contagion, è dedicato ai maggiori di 18 anni, ma può non essere adatto a tutte le sensibilità, anche adulte.
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NECROLOGY MILTON GLASER 26 giugno 1929 – 26 giugno 2020 L ENNIO MORRICONE 10 novembre 1928 – 6 luglio 2020
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GIULIA MARIA CRESPI 6 giugno 1923 – 19 luglio 2020 L EUGENIO GERVASUTI 1928 – 19 luglio 2020 L ORESTE CASALINI 9 luglio 1962 – 20 luglio 2020 L KANSAI YAMAMOTO 8 febbraio 1944 – 21 luglio 2020 L MAURIZIO CALVESI 18 settembre 1927 – 24 luglio 2020 L DARIO D’AMBRA 28 dicembre 1989 – 27 luglio 2020 L ALAN PARKER 14 febbraio 1944 – 31 luglio 2020 L RICCARDO MURELLI 29 settembre 1975 – 1o agosto 2020 L BRUNA SOLETTI 25 novembre 1927 – 3 agosto 2020 L BERNARD STIEGLER o aprile 1952 – 6 agosto 2020 1 L MARIA REBECCA BALLESTRA 21 aprile 1974 – 9 agosto 2020 L FRANCA VALERI 31 luglio 1920 – 9 agosto 2020 L VALERIANO TRUBBIANI 2 dicembre 1937 – 29 agosto 2020 L PHILIPPE DAVERIO 17 ottobre 1949 – 2 settembre 2020 L CINI BOERI 19 giugno 1924 – 9 settembre 2020 L OTTORINO NONFARMALE 26 gennaio 1931 – 10 settembre 2020
TOP 10 LOTS
Artissima Torino: Intesa Sanpaolo è il nuovo partner
artissima.art
DESIRÉE MAIDA L Fiera Milano annuncia il nuovo direttore artistico per il triennio 2021-2023: si tratta di Nicola Ricciardi, che succede così ad Alessandro Rabottini, alla guida di miart per quattro anni. La fiera ha inoltre annunciato le date della prossima edizione, ovvero la 25esima: si terrà dal 9 all’11 aprile 2021. Curatore e critico d’arte contemporanea, Nicola Ricciardi dal 2016 al 2020 è stato Direttore Artistico delle OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino, dove con la sua visione ha contribuito a fare dell’istituzione culturale uno dei principali centri per la produzione e la promozione delle arti visive e performative in Europa. Durante il suo mandato, le OGR hanno organizzato mostre di Tino Sehgal, Susan Hiller, Mike Nelson, Pablo Bronstein, Monica Bonvicini, mostre collettive quali Come una falena alla fiamma, in collaborazione con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Cuore di Tenebra, in collaborazione con il Castello di Rivoli, e la Biennale de l’Image en Mouvement, in collaborazione con il CAC di Ginevra. Ricciardi è stato inoltre assistente curatore di Vincenzo de Bellis per il progetto Ennesima, ha collaborato con Massimiliano Gioni e il team curatoriale della 55. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (2013) e ha partecipato con un progetto collettivo alla settima Biennale di Berlino (2012). miart.it
Francis Bacon, Triptych Inspired by the Oresteia of Aeschylus, 1981 Image courtesy of Sotheby’s
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Francis Bacon, Triptych Inspired by the Oresteia of Aeschylus, 1981 $ 84,550,000 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale
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Roy Lichtenstein, Nude with Joyous Painting, 1994 $ 46,242,500 Christie’s, ONE
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Barnett Newman, Onement V, 1952 $ 30,920,000 Christie’s, ONE
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Brice Marden, Complements, 2004-07 $ 30,920,000 Christie’s, ONE
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Picasso, Les femmes d’Alger (version ‘F’), 1955 $ 29,217,500 Christie’s, ONE
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Clyfford Still, PH-144 (1947-Y-No.1), 1947 $ 28,739,000 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale
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Roy Lichtenstein, White Brushstroke I, 1965 $ 25,417,000 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale
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Ed Ruscha, Annie, 1962 $ 22,975,000 Christie’s, ONE
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René Magritte, L’Arc de Triomphe, 1962 $ 22,918,115 (£ 17,798,750) Christie’s, ONE
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Wayne Thiebaud, Four Pinball Machines, 1962 $ 19,135,000 Christie’s, ONE
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Nicola Ricciardi è il nuovo direttore artistico di miart. Succede ad Alessandro Rabottini
CRISTINA MASTURZO [ esperta di mercato ]
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CLAUDIA GIRAUD L Le collezioni d’arte del Gruppo bancario sono al centro della partnership con Artissima, che vedrà in fiera anche pezzi delle nuove Gallerie d’Italia. Intesa Sanpaolo va a prendere il posto lasciato libero da Unicredit, dopo diciassette anni di partenariato con la fiera, che conferma la sua 27esima edizione dal 6 all’8 novembre, presso gli spazi dell’Oval di Torino. “Poter lavorare insieme alla valorizzazione e promozione dell’arte contemporanea sarà una sfida che svilupperemo nella convinzione che l’arte permette una visione del mondo più sfaccettata e aperta all’innovazione e alla trasformazione sociale”, dichiara la sua direttrice Ilaria Bonacossa. “L’importante investimento su Torino e sul Piemonte di Intesa Sanpaolo con l’apertura di una nuova sede delle Gallerie d’Italia in Piazza San Carlo si affianca alla mission di Artissima”. Infatti, una delle ragioni della collaborazione è proprio legata a questa prossima inaugurazione. “Contiamo di aprire almeno una prima parte delle Gallerie nel Palazzo Turinetti restaurato entro la fine del 2021”, ci confida Michele Coppola, Executive Director Arte, Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo. “Le Gallerie d’Italia – Piazza San Carlo saranno dedicate principalmente alla fotografia, al mondo digitale e all’immagine, ma è evidente che il nucleo fotografico rappresentato dall’Archivio Publiphoto non sarà la sola ragione per andare a vederle”.
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CAMPIONE DI ANALISI: Sotheby’s, The Ginny Williams Collection Evening Sale, 29 giugno 2020 Sotheby’s, Impressionist and Modern Art Evening Sale, 29 giugno 2020 Sotheby’s, Contemporary Art Evening Sale, 29 giugno 2020 Phillips, 20th Century and Contemporary Art Evening Sale, 2 luglio 2020 Christie’s, ONE: A Global Sale of the 20th Century, 10 luglio 2020 I prezzi indicati includono il buyer’s premium.
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DURALEX
RAFFAELLA PELLEGRINO
[ avvocato esperto in proprietà intellettuale ]
CONCEPT STORE E DIRITTO D'AUTORE Anche un concept store può essere tutelato dal diritto d’autore come opera dell’architettura. In questi termini si è pronunciata la Corte di Cassazione (sentenza 30.04.2020, n. 8433) nella controversia promossa da Kiko contro Wycon per violazione dei diritti di utilizzazione economica del progetto di arredamento di interni dei negozi monomarca realizzato su commissione di Kiko da uno studio di architetti. La Cassazione, nel confermare la sentenza della Corte di Appello di Milano (n. 1543/2018), ha ritenuto che nell’allestimento dei punti vendita Wycon (sia nell’impressione visiva d’insieme sia nella composizione strutturale) c’è stata una sostanziale riproduzione degli elementi caratterizzanti il progetto di allestimento dei negozi Kiko. Gli elementi originali tutelabili come insieme unitario e ripresi da Wycon, pur con alcune limitate differenze, sono “l’ingresso open space, con ai lati due grandi grafiche retroilluminate, all’interno, espositori laterali consistenti in strutture continue ed inclinate lungo le pareti, isole a bordo curvilineo posizionate al centro del negozio, presenza di numerosi schermi TV incassati negli espositori inclinati, utilizzazione di combinazioni di medesimi colori, bianco, nero, rosa/viola, e punti di illuminazione che diffondono luci fredde”. La Cassazione ha stabilito un importante principio generale secondo cui un progetto di arredamento di interni è tutelabile come opera dell’architettura, quando ci sia una progettazione unitaria con l’adozione di uno schema in sé definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara chiave stilistica e rifletta l’impronta personale dell’autore. Viene così dato rilievo all’organizzazione dello spazio risultante dalla combinazione di elementi che, pur se comuni o già utilizzati singolarmente, nell’insieme risulti originale, frutto di scelte libere e creative dell’autore, non banali e non funzionali. In questo modo l’architettura non è più intesa solo come l’arte e la tecnica di progettare e costruire edifici ma – in un’accezione più ampia e contemporanea – è anche quell’attività intellettuale volta alla creazione e modificazione degli spazi per renderli fruibili dall’uomo, dove per spazio si intende sia il territorio, il paesaggio, le città e l’edilizia, sia lo spazio interno e la sua organizzazione. È una decisione importante perché mette un punto in un contrasto interpretativo e giurisprudenziale che vedeva tutelabili i progetti di arredamento di interni come opere del disegno industriale oppure come opere dell’architettura ma – in quest’ultimo caso – solo quando gli elementi di arredo erano incorporati strutturalmente con l’immobile.
Massimo De Carlo Pièce Unique: la galleria di Lucio Amelio è il sesto spazio del colosso italiano GIULIA RONCHI L È il sesto spazio espositivo per il noto gallerista milanese (due a Milano, una a Londra, una a Hong Kong e una virtuale): Massimo De Carlo non si ferma e sbarca a Parigi con una nuova sede. Si tratta di Massimo De Carlo Pièce Unique, un’unica vetrina situata in uno storico edificio al 57 di rue de Turenne, la cui struttura è stata rinnovata dall’architetto giapponese Kengo Kuma. L’idea di presentare una sola opera nello spazio rimanda al 1989, quando il mitologico gallerista napoletano Lucio Amelio inaugurava questo nuovo format di galleria nella capitale francese (all’epoca progettata da Cy Twombly), chiamata Pièce Unique [nella foto]. Alla morte di Amelio negli Anni Novanta, il brand e lo spazio furono ereditati dalla sua storica assistente di galleria Marussa Gravagnuolo, che ne ha portato avanti l’attività poi con l’ingresso della socia Christine Lahoud, fondando anche un secondo spazio Pièce Unique Variations, in rue Mazarine. Oggi il concept e il brand del progetto vengono acquisiti e riproposti da Massimo De Carlo, nel rispetto della legacy di Amelio, con una programmazione che dà spazio a soluzioni espositive sperimentali, per introdurre nuove riflessioni e punti di vista nelle regole del sistema artistico. Le modalità rimarranno le stesse del 1989, ma la sede sarà differente, in un palazzo dall’altra parte della Senna. “Quello che ci preme di più ora è la sostenibilità del progetto, una dimensione che permette di privilegiare i contenuti. Avendo una macchina più piccola si è più agili e si può andare dappertutto”, ha affermato De Carlo. Importante sarà l’approccio della tecnologia e del digitale, parte del programma espositivo. massimodecarlo.com
Nasce a Torino un nuovo corso di Filosofia della curatela con la cattedra di Danilo Eccher CLAUDIA GIRAUD L Perché fare il curatore oggi? Cosa significa e cosa comporta nella società attuale scegliere questo tipo di ruolo? Sono alcune delle domande che il nuovo corso di Filosofia della curatela all’Università degli Studi di Torino intende porre ai propri studenti per interrogarli sulle motivazioni profonde alla base di una professione che negli ultimi anni si è un po’ svilita, concentrandosi troppo sul “come” fare una determinata cosa e sbilanciandosi, quindi, sull’aspetto meramente organizzativo e burocratico di un evento artistico. “Il curatore ha dimenticato un po’ l’origine del suo procedere, che è quello conoscitivo e filosofico, legato all’aspetto della ricerca e dell’approfondimento”, racconta ad Artribune Danilo Eccher [photo Holga Mangano], che ha contribuito a far istituire all’ateneo torinese, nella prestigiosa Facoltà di Filosofia, il primo corso di Filosofia della curatela: quindi, una nuova cattedra nata in una facoltà diversa da quella che ci si potrebbe aspettare, ovvero di storia dell’arte, come un antidoto contro i curatori che diventano sempre più tecnici e non si chiedono il perché delle cose. “Sono contento di avviare questo percorso, che potrà in futuro essere sviluppato in altre università italiane e che credo necessario in un momento come questo, in cui non si può più solo ripiegarsi nell’ambito della gestione manageriale o economica”. filosofialm.campusnet.unito.it
5 progetti di arte urbana in Italia VALENTINA MUZI REGGIO CALABRIA Inaugurata il 12 e 13 settembre, Opera di Edoardo Tresoldi, sul lungomare Falcomatà di Reggio Calabria, è la nuova installazione permanente di arte pubblica che intende celebrare la relazione empatica tra ambiente e uomo, giocando con il linguaggio architettonico classico e la trasparenza della Materia Assente.
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TORINO Opera Viva, l’Artista di Quartiere affonda le radici nella lunga vicenda artistica di Alessandro Bulgini. L’artista, che lavora quotidianamente nel quartiere di Barriera di Milano a Torino (ma che ha sviluppato esperienze analoghe in altre città, ad esempio Taranto), condividerà la sua pratica con un gruppo di artisti giovanissimi selezionati da Christian Caliandro, che lavoreranno con l’artista e il curatore in presenza e a distanza fino al 18 ottobre.
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ROMA I fiumi di Roma sono protagonisti di un grande progetto che unisce arte, ambiente e scienza con l’artista e ingegnere Andreco. Flumen si concentra sul Municipio IV di Roma, con un’attenzione particolare sulle aree dell’Aniene, del Tevere e del Parco di Veio. Incontri, performance, mostre, laboratori coinvolgono in una esperienza collettiva grandi e piccoli, alla scoperta dell’ecosistema fluviale della città.
ARIANNA TESTINO Dal 2008 collezionisti, organismi museali e aziende possono commissionare ad Art Defender la tutela e la valorizzazione dei beni artistici di cui dispongono, grazie al mix di servizi offerti dalla società fondata da Alvise di Canossa. A raccontarne i dettagli è Alessandro Guerrini, amministratore delegato di Art Defender. Come nasce The Vault e con quali scopi? Il progetto The Vault nasce nell’ambito di una riflessione più ampia avviata in “tempi non sospetti”, ben prima che l’emergenza sanitaria accelerasse il processo di digitalizzazione del settore dell’arte. The Vault vuole essere uno strumento agile e semplice nella gestione delle opere d’arte: accessibilità da remoto e velocità delle operazioni sono elementi imprescindibili per entrambi.
deposito, condividendo immagini e informazioni con diversi clienti in maniera veloce. È possibile richiedere preventivi e attivare servizi di trasporto, assicurazione, disbrigo di formalità doganali con tempistiche più veloci rispetto alle procedure standard. E per quanto riguarda i collezionisti? The Vault consente, ad esempio, di visualizzare il proprio patrimonio in un ambiente iper-realistico che ricrea quelli dei nostri caveau e di condividerlo, ogni qualvolta lo si desideri, con i consulenti o semplicemente con gli amici!
Quali sono le tipologie dei clienti di Art Defender e le principali richieste che dovete gestire? La nostra offerta di servizi è modulabile sulle esigenze dei diversi interlocutori a cui ci rivolgiamo: Di cosa si tratta, dal collezionista all’oin concreto? Grazie alla tecnoperatore del mercato, dalla realtà museale logia di Artshell e ai all’azienda. servizi offerti da Art Oltre alla rete Defender abbiamo di impianti per la creato un unicum conservazione dei internazionale: un Alessandro Guerrini. Courtesy beni da collezione, caveau digitale dove Collezione Giuseppe Iannaccone abbiamo un team poter archiviare in interno e un network di professiomaniera sicura le proprie collezioni e al tempo stesso fruirne in qualsiasi nisti d’eccellenza strutturati per momento lo si desideri e da qualsirispondere alle richieste più diverasi luogo. The Vault consente anche sificate: dalla gestione della colledi condividere immagini high res e zione corporate all’assistenza a informazioni e di attivare i servizi di chi eredita beni artistici ma non sa art collection management “con un come approcciarli. Abbiamo inolclick!”, in costante contatto col team tre un dipartimento dedicato alle di Art Defender. valutazioni a scopo patrimoniale, assicurativo, bilancistico, successoCome dialoga The Vault con il rio e un’agenzia assicurativa intervostro deposito doganale? na, l’unica in Italia dedicata escluPresso la nostra sede di Bologna sivamente alla copertura dei rischi abbiamo un deposito doganale, dove legati a opere, oggetti d’arte e beni le opere d’arte, le auto da collezioda collezione. Assistiamo infine i nostri clienti nelle fasi di acquine e i preziosi possono essere introdotti in regime di sospensione IVA, sto, di dismissione o nelle divisioni senza limiti di tempo: è un servizio ereditarie. Ci occupiamo inoltre di molto utilizzato da galleristi e dealer catalogazione, verifiche di autentiche possono trovare in The Vault un cità e della redazione di inventari. ulteriore strumento per semplificare la gestione delle proprie opere in artdefender.it
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THE VAULT. IL PRIMO CAVEAU DIGITALE TARGATO ART DEFENDER
NAPOLI In uno spiazzale nei pressi di un’officina di treni per pendolari a Napoli, nella Stazione di Circumflegrea, l’opera dell’artista Jorit si estende nei suoi 1.500 mq con un ritratto in bianco e nero di tre quarti, composto e di profilo di una donna dai tratti eleganti e fieri: sono quelli della famosa attivista afroamericana Rosa Parks, godibili nella loro interezza solo dall’alto. FERMO A Sant’Elpidio a Mare e a Fermo nelle Marche lo street artist Giulio Vesprini realizza due playground: Super Space e Fum2. Per quest’ultimo, nel cuore del Parco della Mentuccia, l’artista ha voluto porre in primo piano l’approccio alla riqualificazione del parco, un punto nevralgico dove far confluire diverse vie: quella della cultura, dello sport e della natura; rimettendo al centro una dimensione armonica dove trovare una nuova connessione con la comunità.
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#56
VALENTINA TANNI [ caporedattrice new media ]
ABBIGLIAMENTO SILENZIOSO
Il gioco del ciclo
Danielle Baskin, designer di San Francisco specializzata in “oggetti distopici trendy”, ha creato una felpa dedicata al popolo degli introversi, la Mute Suit. Sul cappuccio, che va indossato rigorosamente al contrario, sono infatti disegnati i simboli del “muto”, sia audio che video. Al momento è solo un prototipo ma, visto il successo, potrebbe diventare presto acquistabile. daniellebaskin.com
MASCHERINE PER IDIOTI
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Nonostante le linee guida in materia siano molto chiare, si vedono ancora tante persone in giro con la mascherina calata sotto il naso. Ironizza su questa pratica, che rende di fatto vano il presidio sanitario, il comico e scrittore americano Austin Wolf-Sothern, che propone una mascherina con il naso disegnato sopra: “Per tutte le persone che vogliono proteggersi continuando a sembrare degli idioti”. nosemask.threadless.com $ 12
Una collezione di oggetti di design dedicata all’universo femminile. Si chiama Design Innovations for Women ed è un’iniziativa lanciata nel mese di agosto dal MoMA di New York. I prodotti che fanno parte della collezione, disponibili per l’acquisto sia online che nello store di SoHo, sono oggetti innovativi che si posizionano nell’area della sessualità, della riproduzione e dell’attività fisica. “I progetti di design incentrati sul mondo delle donne sono emersi in risposta a questioni che sono state tradizionalmente tabù per decenni. I temi della sessualità e del benessere in relazione al corpo femminile sono ancora troppo spesso evitati e sottorappresentati nel mainstream. Per questo vogliamo far emergere e diffondere i migliori nuovi esempi di questo settore”, ha affermato Chay Costello, direttore associato del merchandising al MoMA. Fra le tante proposte, c’è anche un insolito gioco da tavolo chiamato The Period Game, realizzato grazie a una campagna di crowdfunding partita nel 2019. Si tratta di uno strumento educativo di grande interesse, che unisce l’aspetto ludico con quello educativo, aiutando i più giovani a parlare apertamente di un argomento spesso troppo poco conosciuto e discusso come le mestruazioni, e più in generale, l’apparato sessuale femminile. store.moma.org € 41,95
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VIETATO TOCCARE “Non toccare la mia roba. O la mia faccia, o le mie mani”. Questa è l’ironica scritta che campeggia sulla borraccia/termos disegnata da David Shrigley per il negozio online Third Drawer Down. L’artista inglese, famoso per i suoi irresistibili disegni infantili, firma così un oggetto a tema pandemico, invitando tutti alla cautela in modo divertente. thirddrawerdown.com $ 58
LA LAMPADA CHE LEGGE
Per gli amici appassionati di storia contemporanea, oppure per celebrare un anniversario in modo originale, il puzzle personalizzato del New York Times è un’idea regalo niente male. Potete infatti scegliere di ricevere a casa la versione componibile della copertina del quotidiano americano – da 300, 500 o 1.000 pezzi – di qualsiasi data, dal 1851 a oggi.
L’azienda tecnologica sud-coreana Naver Corp ha sviluppato – ma ancora non è sul mercato – una lampada molto speciale chiamata Clova Lamp. Si tratta di un device che non solo illumina delicatamente la stanza dei bambini prima della nanna, ma si occupa anche di leggere i loro libri ad alta voce. L’intelligenza artificiale è anche in grado di rispondere alle domande sul significato delle parole.
store.nytimes.com $ 50
I COLORI DELLA PIETRA
navercorp.com
L’aspetto richiama in tutto e per tutto quello dei minerali raccolti in mezzo alla natura, ma in realtà si tratta di elegantissimi colori a cera. I Color Gem dello Studio Unto arrivano a casa in una scatola da quattro e man mano che li si utilizza la forma cambia, avvicinandosi sempre più a quella delle vere pietre. Il risultato sul foglio, fatto di scie multicolore, è altrettanto affascinante.
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QUOTIDIANI COMPONIBILI
studiounto.com/shop $ 34
ERRORI DI CARTA
La crisi sanitaria del Covid-19 ha costretto milioni di bambini in tutto il mondo a sospendere la frequenza delle scuole, demandando le attività educative alla famiglia. Per facilitare la gestione del tempo dei più piccoli in casa, magari mentre si lavora in smart-working, il designer Paul Baut propone il prototipo di un orologio che scandisce e ricorda le varie attività della giornata in modo comprensibile e divertente.
L’artista giapponese Monya ha creato un particolarissimo mazzo di carte in cui tutti i cartoncini riproducono un messaggio di errore di Windows XP. Sul retro ci sono delle informazioni dettagliate su come trovare una misteriosa carta jolly (il Joker), che permette di vincere il gioco. Per scoprire di cosa si tratta bisogna però andare su Wikipedia...
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L’ORA DEI BAMBINI
monyaizumi.stores.jp ¥ 2.500
paulbaut.com
IL GIRO DEL MONDO IN RADIO Collegando questa speciale cassa a una app per smartphone, è possibile ascoltare una selezione di 18 stazioni radio provenienti da tutto il mondo: da Tokyo a Buenos Aires, passando per Istanbul, Jakarta e San Paolo. Un viaggio sonoro in giro per il globo che è anche un gioco, grazie a un sistema di sintonizzazione manuale deliziosamente vintage. uncommongoods.com € 101,45
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GESTIONALIA
IRENE SANESI [ dottore commercialista ]
UN NUOVO LOCALISMO COSTITUZIONALE PER LA CULTURA
Opportunità di lavoro nell’arte CLAUDIA GIRAUD POMPEI CERCA UN DIRETTORE Sarà responsabile della gestione del Parco archeologico di Pompei nel suo complesso, inclusa l’organizzazione di mostre ed esposizioni. L’incarico sarà a tempo determinato per la durata di 4 anni, rinnovabile per altri 4, e il compenso annuo lordo sarà pari a 148.837,25 euro più un eventuale premio di risultato di 40mila euro. Scadenza fissata al 3 novembre. FONDAZIONE PISTOIA MUSEI CERCA UN DIRETTORE Il contratto avrà natura di rapporto di lavoro autonomo con durata di 3 anni e i candidati dovranno avere ricoperto funzioni direttive, per almeno un triennio, presso musei e/o analoghe istituzioni culturali, pubbliche o private, o presso enti partecipati e/o controllati da soggetti pubblici, o in istituzioni culturali equivalenti, in Italia o all’estero. Scadenza fissata al 25 settembre.
© Shut Up Claudia per Artribune Magazine
L’espressione presa in prestito nel titolo ci rimanda a un ossimoro apparente, ricongiungendo le istanze particolari dei nostri territori – la dimensione locale, appunto – con la dimensione nazionale fondativa che i padri costituenti prima e la riforma del titolo V poi hanno tratteggiato per il Belpaese. L’articolo 9, “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la scientifica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione” con l’articolo 118, ultimo comma: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”. L’emergenza causata dal Covid ha prodotto reazioni diverse che hanno evidenziato o enfatizzato aspetti come il digitale (in taluni casi con buone dosi di retorica), la spazialità (ben oltre il dicotomico binomio luogo/non-luogo), il lavoro (con nuove complesse dinamiche), la sostenibilità (non solo economica, quanto progettuale), la comunicazione (grande frainteso nell’era pre-Covid, quando i più facevano coincidere la comunicazione con i social e i comunicati stampa). Questa ripartenza può essere una straordinaria occasione per riflettere sui fondamentali: quei punti fermi che nessun virus può spazzare via, le radici imprescindibili senza le quali tronco, rami, foglie, fiori e frutti, in una metafora colturale, non possono darsi. Assume centralità il ruolo della res publica: quell’insieme di soggetti privati e del terzo settore che non sono (solo) lo Stato, come per troppo tempo è stato letto l’articolo 9. Alla fine, infatti, sono sempre i soggetti “driven by purpuse not devoted to object” i veri agenti del cambiamento. Abbiamo da rispolverare la fatidica domanda “per chi?” e non solo “come” operiamo, viviamo, esistiamo. Abbiamo bisogno di riappropriarci di una forma mentis sistemica, come indicano i padri costituenti, senza creare separazioni e riduzionismi, in una dimensione spazio-temporale che costitutivamente nasce per durare, per sopravvivere a chi ne è promotore. Questo nuovo corso che ci viene affidato da un trauma, come sovente è accaduto nella storia, è una chiamata a sostenere percorsi di innovazione ed evoluzione, non soltanto progetti e buone cause. Questo è un punto fondamentale per tracciare il percorso camminando insieme: ciascuno nel proprio quotidiano, nel suo quartiere e nella sua città, sentendosi parte di qualcosa che non è un villaggio globale ma una comunità di persone. Una nuova e contemporanea forma di comunità, i cui riferimenti e radici sono stati la caverna, la piazza, la fontana, l’albero, la costruzione della cattedrale, di cui siamo più figli che eredi.
BANDO MIBACT PER CENSIMENTO ARCHITETTURA ITALIANA DAL 1945 Sono sei gli specialisti di architettura contemporanea da destinare all’aggiornamento del Censimento, selezionati attraverso l’Avviso pubblicato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del MiBACT e dalla Fondazione Scuola dei beni e delle attività culturali: dovranno aggiornare per sei mesi i dati di circa 4.300 schede. Il compenso è di 10mila euro. Scadenza fissata al 13 novembre . BANDO PER LA CULTURA DI FONDAZIONE CARIPLO È destinato al rilancio del settore attraverso la sperimentazione di nuovi modelli di offerta e domanda, con un budget di 8 milioni di euro a sostegno di enti pubblici, ecclesiastico-religiosi e organizzazioni culturali private non profit che presentino progetti localizzati su Milano e Regione Lombardia. Il bando prevede due scadenze: la prima il 29 settembre e la seconda il 15 dicembre. CALL PER PARTECIPARE A BANANE FANZINE Una fanzine illustrata a tiratura limitata sulle banane portata avanti da 5 anni dagli artisti Valerio Veneruso e Davide Spillari per informare sulle problematiche del suo commercio e sfruttamento. La call è aperta a tutti sul tema “apocalisse e banane”, inviando contributi di diversa natura: dalle Illustrazioni ai progetti performativo/musicali. Scadenza fissata al 15 ottobre.
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ARCHUNTER
MARTA ATZENI [ dottoranda in architettura ]
FRANCESCA TORZO francescatorzo.it
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Z33 House for Contemporary Art, Design & Architecture, Hasselt 2020. Photo © Olmo Peeters
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Con una personale alla Triennale di Milano conclusasi a marzo, il primo importante edificio inaugurato a maggio e l’en plein di riconoscimenti nazionali e internazionali, la rivelazione di questi ultimi mesi è senza dubbio Francesca Torzo (Padova, 1975). Alla base del suo successo, una profonda capacità di sintesi delle stratificazioni del tempo, dei luoghi e della mente “per inseguire una visione di qualcosa che ancora non esiste, ma che ospita il mondo in cui viviamo e la sua memoria”. Una paziente arte dell’ascolto, che il talento italiano scopre studiando a Venezia e a Mendrisio, e affina poi nel remoto villaggio di Hadelstein, lavorando a fianco del maestro della lentezza Peter Zumthor. Non stupisce quindi che, quando nel 2008 decide di avviare la sua attività, Torzo trovi nella “posizione defilata” delle colline genovesi la sua location ideale. Con “il tempo e la tranquillità necessari a concentrarsi” la progettista si dedica a interventi nel tessuto storico italiano, in cui tradizioni costruttive e tipologiche si mescolano con originali sperimentazioni linguistiche e materiche: così un’infilata di stanze racchiusa da un sistema a secco si mimetizza nel puzzle di costruzioni in tufo in cui si inserisce; mentre un antico guscio in pietra racchiude una struttura sperimentale in legno, il cui sistema di assemblaggio reinterpreta tecniche e risorse locali. Nel 2011, l’abilità di mescolare memorie si fa poesia nel concorso per la nuova ala del centro per l’arte contemporanea Z33 di Hasselt. Alludendo al labirintico convento adiacente la galleria, la progettista immagina un ensemble di stanze di proporzioni, luci e atmosfere diverse. Avvolta da un muro in mattoni rossi, eco tanto ai rivestimenti medioevali limitrofi quanto alle tecniche romane, la proposta della allora quasi sconosciuta Torzo non solo si aggiudica il primo posto nella competizione, ma anche il Piranesi Award 2018 e l’invito alla Biennale Architettura 2018. Due anni dopo, la sofisticata città nella città è finalmente pronta a ospitare i primi visitatori. E la sua “singolare bellezza e accurata esecuzione” conquistano tanto la giuria del Premio italiano di Architettura, quanto quella del Moira Gemill Prize, che riserva alla sua autrice uno speciale encomio: “Torzo occupa lo stesso spazio di Olgiati o Zumthor, ma va oltre i suoi mentori, raggiungendo un livello di completezza in un settore che spesso non lo consente”. Archiviati i trionfi, l’indagine fra suggestioni vicine e lontane prosegue. Nella quiete dell’atelier genovese l’architetto è ora intenta a reinventare le memorie dell’Estremo Oriente, con una scuola di danza nel villaggio di Bishan e una biblioteca in bambù sulle rive del fiume Yulong. E, dopo la personale Chaosmos dedicatale lo scorso inverno dalla Triennale, l’appuntamento con la poetica di Torzo è prima alla Galleria Maniera di Bruxelles e poi al Museo Maxxi di Roma, dove sarà al centro del progetto espositivo dedicato al Premio Italiano di Architettura.
Perché era lui perché ero io: arte, teatro e fotografia a Parma Nell’ambito di Parma Capitale della Cultura 2020+21, in collaborazione con Reggio Parma Festival, ha preso forma un progetto fotografico con gli attori dell’Ensemble di Teatro Due, il Teatro, e alcuni abitanti della Città di Parma realizzato da Luca Stoppini e in mostra dal 26 settembre presso Palazzo del Governatore di Parma. Si chiama Perché era lui perché ero io. Metamorfosi della città nello spazio del teatro A/R e si configura come una corrispondenza di amorosi sensi tra umanità e luoghi, portando location inedite e inaspettate della città come l’Orto Botanico, bar, osterie, stazioni, a una interazione con attori e artisti (Roberto Abbati, Cristina Cattellani, Paola De Crescenzo, Gigi Dall’Aglio, Davide Gagliardini, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Nanni Tormen ed Emanuele Vezzoli) e cittadini. Con questo progetto l’arte aiuta la vita a riappropriarsi delle città, dopo il trauma collettivo che ci ha portato lontani dai luoghi della nostra esperienza quotidiana. “Se il teatro vuole porsi come riattivazione critica dell’esistente attraverso la sua trasformazione artistica, si rende necessaria una riflessione identitaria che parta dalla storia dei luoghi, ma anche dalle loro mutazioni in atto”, spiegano gli organizzatori. Il progetto è una produzione di Fondazione Teatro Due di Parma, uno dei primi teatri italiani che realizza la propria attività produttiva con un Ensemble Stabile di Attori, in collaborazione con Reggio Parma Festival. teatrodue.org
I capolavori della Pinacoteca di Buckingham Palace per la prima volta raccolti in una mostra GIULIA RONCHI L Tempo di rinnovamento a Buckingham Palace: il palazzo reale sarà presto sottoposto a un intervento di restauro, che porterà alla sostituzione dei tubi in piombo e di altri elementi obsoleti nelle sale di rappresentanza. Tra queste c’è anche la Picture Gallery, che ospita i capolavori di valore inestimabile della Collezione Reale, i quali saranno spostati temporaneamente e inseriti per la prima volta in una mostra. Masterpieces from Buckingham Palace si svolgerà dal 4 dicembre a gennaio 2022 nella Queen’s Gallery di Buckingham Palace: 65 opere della collezione fruibili dal pubblico per oltre un anno. Le tematiche analizzate nella mostra saranno molteplici: a partire dall’eccezionalità tecnica di alcuni pittori, come Autoritratto di Rubens o The Shipbuilder and his Wife di Rembrandt [nella foto, Royal Collection Trust / © Her Majesty Queen Elizabeth II 2020]. Non mancheranno nella collezione le opere dei maestri della pittura italiana. rct.uk
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MARIA CHIARA CIACCHERI museumsforpeople.com
articolati, secondo una prospettiva capace di sfatare molti tabù e altrettanti stereotipi sui contesti di apprendimento informale.
Per questa intervista cambiamo punto di vista, omaggiando l’iniziativa di un singolo professionista, anzi, di una singola professionista, Maria Chiara Ciaccheri, esperta di accessibilità museale e visitor studies. Il suo sito Museums for People è un esempio di grande competenza e grazia, nonché una fonte preziosissima di risorse, non solo bibliografiche.
Perché il sito è in inglese? È una dichiarazione contro il provincialismo? Il sito è in inglese solo perché, avendo tanti colleghi e amici stranieri – soprattutto statunitensi –, volevo uno strumento che permettesse di continuare un dialogo con loro su temi percepiti con ugual urgenza da noi come in altri Paesi. Dal mio punto di vista, avrebbe avuto senso anche in italiano, se non fosse che inizialmente ci tenevo all’anonimato ed ero interessata a osservare i feedback (soprattutto su Instagram), libera dai condizionamenti di chi avrebbe potuto riconoscermi. E poi l’inglese rimane il dominio delle possibilità. In che senso? Un esempio fra i tanti: l’anno scorso, quando il progetto era ancora anonimo, uno dei miei musei preferiti a Londra mi ha invitata a intervenire a una conferenza – il che non è affatto inusuale nel mio percorso, ma in Italia avviene quasi sempre solo a fronte di nomi e percorsi riconoscibili. I disegni, adorabili ed efficaci, sono tuoi. Come hai fatto a imparare? Hai scoperto un tuo talento? E, in ultimo, pensi siano più parlanti di mille parole? In realtà mi è sempre piaciuto disegnare e forse non poteva andare altrimenti, perché nella mia famiglia tutti disegnano: mio papà, ad esempio, credo disegni anche in fila al supermercato. Diventare
consapevoli delle proprie competenze e spendersi per trovar loro spazio anche in ambito professionale è invece una conquista dell’età adulta. E se i disegni dicono più di mille parole, spetta agli altri stabilirlo: la cosa importante (come sostiene chi si occupa di interpretazione) è che non siano le mille parole sbagliate. Nel dubbio, ogni illustrazione è sempre accompagnata da un testo. Accessibilità e digitale. È cambiata la prospettiva? E gli strumenti? E il tuo atteggiamento? Nonostante l’urgenza di questo momento storico, la prospettiva non è molto cambiata. Il digitale è certamente uno strumento per l’accessibilità, perché contribuisce ad articolare ulteriormente i processi di mediazione del museo, moltiplicando le possibilità di accedere ai suoi contenuti. Eppure, al tempo stesso, rimangono senza risposta molteplici interrogativi associati soprattutto a barriere di tipo cognitivo. Cosa intendi? Quello che rilevo, dopo essermene occupata per molti anni, è che l’accessibilità è rimasta vincolata in modo equivoco e spesso esclusivo al concetto di disabilità, e questo ne ha limitato la comprensione del potenziale, soprattutto sul fronte della facilitazione e dell’usabilità: la possibilità di accedere in modo semplice e intuitivo a un contesto o a uno strumento dovrebbe infatti essere parimenti una prerogativa essenziale. In anni recenti, insomma, insisto nella necessità di concepire musei che siano accessibili per tutti, spostando il focus dalle persone ai bisogni, più o meno
Di cosa non si tiene conto con i virtual tour? Penso manchino delle valutazioni analitiche proprio sull’esperienza dell’utente: non se ne conoscono i bisogni, non si analizzano le motivazioni e i bias ricorrenti, e soprattutto, di conseguenza, non si sanno definire strategie efficaci rispondenti a chiari obiettivi. Può capitare con i tour virtuali ma anche con i videogiochi o gli allestimenti più tradizionali – e ogni volta si vede.
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Vuoi dirci da dove è nata l’idea? Da quale bisogno? Museums for People nasce come profilo su Instagram un anno e mezzo fa. L’idea alla base del progetto è la stessa che giustifica parte del mio lavoro: rendere comprensibili contenuti complessi, cercando di sfatare l’equivoco – quando non si ragiona per competenze trasversali – che così facendo si sviliscano. Nella fattispecie, ho provato a rendere più accessibili alcuni concetti chiave dei museum studies.
Quale consapevolezza esiste nei musei italiani sul tema dei bisogni dei visitatori? La consapevolezza delle istituzioni rimane mediamente bassa perché le opportunità formative sono ridotte e mancano percorsi di studio focalizzati sui museum e i visitor studies. La buona notizia, però, è che di generazione in generazione le competenze si vanno rafforzando sempre più, spesso all’incrocio con altri ambiti disciplinari, dagli studi di psicologia ambientale al social design.
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MARIA ELENA COLOMBO [ museum & media specialist ]
Il tuo sito ha una preziosissima sezione dedicata alla bibliografia. Poiché per questa rubrica è un rito, consigliaci uno o due titoli che ritieni fondamentali. Ti citerò due libri che non sono in elenco e non strettamente di museologia. Uno è Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness, il libro scritto da Richard Thaler, premio Nobel per l’economia nel 2017. Per ‘nudge’, o ‘spinta gentile’, si intendono quegli incentivi positivi che permettono di sollecitare qualcuno a far qualcosa liberamente e a fin di bene – un richiamo alle responsabilità che abbiamo anche noi progettisti culturali in termini di facilitazione. L’altro è The Politics of Design. A (Not So) Global Design Manual for Visual Communication di Ruben Pater: un testo che, senza parlar mai dei musei, insegna molto sulle istanze interpretative e di rappresentazione. E per chi fosse interessato ad altri titoli più strettamente legati a musei, accessibilità e visitatori, rimando certamente alla bibliografia sul sito, disponibile ovviamente sia in formato visivo che tradizionale.
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Il murale di Ozmo a Paliano per omaggiare la memoria di Willy Monteiro Duarte
Bottom Up! Crowdfunding per 13 progetti del nuovo festival d’architettura di Torino
GIULIA RONCHI L Nella notte del 6 settembre 2020 Willy Monteiro Duarte, 21enne di origini capoverdiane, veniva brutalmente ucciso in provincia di Frosinone, durante un pestaggio da parte di quattro coetanei. Un’orrenda pagina di cronaca nera nella quale rientrano prevaricazione, delinquenza e odio razziale. Grazie a un’iniziativa promossa da Vanity Fair la sua memoria viene celebrata con un grande murale nel centro storico di Paliano, dove il ragazzo viveva. Un’opera pubblica permanente per tenere viva la memoria del giovane attraverso la street art. A realizzare Per Willy [photo Marco Garofalo] è Ozmo, tra i più noti street artist italiani. “Ho scelto di dipingere la foto nella quale Willy è sorridente, solare e spontaneo. Ho trovato il dettaglio delle mani molto simbolico: a prima vista possono sembrare quasi dei pugni in un gesto di difesa, in realtà le sta usando per sistemarsi il colletto. Il ritratto è pulito, iperrealistico. Come in una tavola antica, l’oro illumina, esalta l’attualità dell’immagine e rimanda al sacro”. Ozmo ha fatto sapere che il compenso per il murale è stato interamente devoluto in beneficenza.
CLAUDIA GIRAUD L La campagna di raccolta fondi sarà attiva fino al 3 novembre, conclusione del festival, nato su impulso dell’Ordine degli Architetti e della Fondazione per l’architettura / Torino.
ozmo.it
RISORGIMENTO SOCIAL CLUB Riprogettazione spazi esterni del Circolo Risorgimento, storica bocciofila ANPI di Barriera di Milano.
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MIRAORTI Un grande parco agricolo sul Sangone, nella zona di Mirafiori, restituirà il verde pubblico ai cittadini.
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E anche Fiac non si farà. Cancellata l’edizione 2020 della fiera parigina SANTA NASTRO L E anche Fiac cancella l’edizione 2020. A comunicarlo la importante fiera francese di arte contemporanea (quasi 200 espositori e 75mila presenze) che avrebbe dovuto tenersi dal 22 al 25 ottobre al Grand Palais a Parigi. È solo l’ennesimo appuntamento di mercato che salta in questo strano anno che ha visto venire meno tutte le manifestazioni programmate. Sono, come è noto, mancate Art Basel Hong Kong, la sorella maggiore svizzera, miart e sono già state rinviate Frieze/Frieze Masters e, in ultima battuta, Art Basel Miami Beach. Mancava solo l’annuncio della Fiac. “La decisione”, spiegano gli organizzatori, “è il risultato di numerosi e costanti confronti con gli espositori, collezionisti, partner. Nonostante la volontà di mantenere gli impegni presi, la fiera non è la posizione di inaugurare una manifestazione che incontri le legittime aspettative di chi vi partecipa”. Inutile spiegare le motivazioni: la crisi sanitaria che sta sconvolgendo il mondo, il progressivo aumento dei contagi, la difficoltà nello spostare cose e persone, tenendo quindi alto il livello della fiera, sarebbero i responsabili di questo ennesimo rinvio. E mentre Art Paris, di dimensioni più contenute e in condizioni più favorevoli, ha tenuto botta aprendo dal 10 al 13 settembre una “edizione della resistenza”, come l’hanno definita i promotori, Fiac ha dovuto capitolare. fiac.it
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CORTILE MONDO, LA NATURA SI FA SCUOLA L’area verde della Scuola Chagall, i cui alunni per il 90% provengono da diverse parti del mondo, diventerà luogo di integrazione e confronto. RUOTA DI SCARTO Per ridurre lo spreco alimentare si vuole creare una cucina mobile in grado di trasformare e distribuire le eccedenze del mercato di Porta Palazzo. WALL COMING! UN NUOVO TEATRO IN CITTÀ Un teatro dentro il carcere minorile Ferrante Aporti di Torino, gestito dai ragazzi: sarà aperto alla città attraverso rassegne culturali. CONVI_INSIEME A VILLARETTO Una Casa del Quartiere, all’interno di un container nella piazza di accesso del quartiere Villaretto, dove mancano servizi, connessioni e spazi pubblici progettati. 28. LO SPAZIO DI MEZZO Un nuovo luogo di scambio culturale sino-italiano, visto che la presenza cinese a Torino è consistente (8mila, di cui 2.300 studenti universitari).
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UNA PIETRA TIRA L’ALTA! Un nuovo parco culturale, ludico e di socialità alla periferia Nord di Torino, a Pietra Alta.
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FORNO SOCIALE S.P.I.G.A. Un forno comunitario in Barriera di Milano per diffondere la cultura del pane con workshop di panificazione.
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10x10 Un’area verde e ombrosa in cortile, rinnovo arredi e attrezzature in occasione dei dieci anni della Casa del Quartiere San Salvario. HEAR ME Per favorire l’inclusione sociale degli utenti psichiatrici nelle strutture che si affacciano sul giardino Piredda, verranno installati strumenti di diffusione sonora e altoparlanti. CORT.LÍ_SPAZIO E TEMPO PER ESSERE Trasformazione dei cortili alberati e comunicanti in centro a Torino in un luogo di connessione delle persone che li abitano. UN’OASI PER VIA PACINI, MILANO Inserimento di pavimentazione artistica, seduta iconica e rinnovo arredo urbano e piante in via Pacini. bottomuptorino.it
VALENTINA TANNI
Kazu Makino, Come Behind Me, So Good!, backstage del video di Daito Manabe. © Ponderosa Music Records
Il tuo lavoro unisce arte, design, musica e programmazione. Qual è il tuo background? Ho studiato musica, matematica e arte. Durante questo percorso ho sviluppato le mie skill principalmente nella composizione di tracce audio e nella programmazione. A proposito di fotogrammetria. Nel recente videoclip che hai realizzato per il brano solista di Kazu Come Behind Me, So Good! hai usato molte tecnologie differenti, ma sicuramente la fotogrammetria è una delle più importanti. Quando hai iniziato a scoprire le potenzialità di questa tecnica? Ho iniziato a usarla per scansionare i corpi dei
ballerini nel 2012. A quel tempo la tecnologia non era ancora sviluppata a sufficienza, quindi la qualità dell’output finale e la risoluzione non erano granché. All’inizio si basava sulla cattura di silhouette bidimensionali, quindi non era possibile registrate le espressioni facciali dei ballerini, oltre che rendere la loro effettiva tridimensionalità. Oggi la fotogrammetria e le tecnologie di visione 4D hanno fatto grandi passi avanti; in questo ultimo video abbiamo potuto digitalizzare in 3D sia i ballerini che le forme del terreno, facendoli coesistere nel medesimo spazio tridimensionale. Avete usato anche i droni per le riprese, giusto? Si, mentre effettuavamo le riprese di test abbiamo deciso di utilizzare anche un drone con il GPS e delle app di navigazione automatica - come Litchi - per programmare la traiettoria di volo. Il nostro obiettivo era realizzare una transizione fluida, senza soluzione di continuità, tra i diversi momenti del giorno, dalla mattina alla notte, in una singola ripresa. In questo videoclip la fotogrammetria si appoggia alla coreografia per esplorare una
tecnica che noi chiamiamo “Seamless Mixed Reality”. Lo stesso concetto lo abbiamo esplorato nella performance della band Perfume fatta al Festival SXSW nel 2015, o anche nel video Cold Stares, di Chance the Rapper e Nosaj Thing. Ma nel caso di Come Behind Me So Good! abbiamo lavorato con molti più ballerini e con una grandissima quantità di dati relativi all’ambiente. Ho letto che costruite in proprio alcuni dei device di cui avete bisogno, come ad esempio i droni. È così? Si, l’ingegnere hardware Motoi Ishibashi si occupa, insieme al suo team, di creare questi device, mente io dirigo il team che scrive il software. Puoi spiegarci meglio l’origine e il senso dell’espressione “seamless mixed reality”? Significa andare avanti e indietro tra il mondo reale e il mondo virtuale senza soluzione di continuità. Nel prossimo futuro la distinzione tra virtuale e reale diventerà sempre più fluida. Nel mondo del cinema è già così, ma anche le espressioni visive in tempo reale seguiranno la stessa strada.
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L’artista giapponese Daito Manabe è una figura poliedrica, sempre alla ricerca di applicazioni inedite e creative per gli strumenti tecnologici. Muovendosi tra il mondo del video, della musica e del software. In questa intervista ci racconta il suo approccio e ci svela il dietro le quinte del suo ultimo incredibile videoclip, realizzato per il brano solista di Kazu Makino (cantante dei Blonde Redhead) Come Behind Me, So Good!.
Credo che questa attitudine “hacker” sia molto importante per gli artisti che usano la tecnologia, oltre che per gli interaction designer. La capacità e la volontà di modificare i tool a disposizione, reinventandoli e cambiando le sue funzioni. Sei d’accordo? Sì. Abbiamo prodotto sempre prodotto video e visual utilizzando un setup assolutamente unico sia in termini di software che di hardware. Non ci sono tantissime difficoltà tecniche nel caso di video come questo perché non si tratta di lavorare in tempo reale, come accade per le performance dal vivo. Tuttavia, ricerca e sviluppo sono assolutamente necessari quando si tratta di esibizioni oppure di progetti che devono essere fruiti con dispositivi speciali. Noi siamo in grado di fare ricerca e sviluppo su software e hardware, ma anche, allo stesso tempo, di creare contenuti. Mentre una grande azienda, come ad esempio Microsoft, sviluppa l’hardware per poi mostrare un video demo, noi creiamo vere opere, con l’obiettivo di lasciare un segno nel mondo. È per questo che molte aziende ci contattano – per fortuna – chiedendoci di far incontrare l’R&D con l’espressione, con i contenuti.
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AVANTI E INDIETRO TRA REALE E VIRTUALE. INTERVISTA A DAITO MANABE
Qual è la tua relazione con la tecnologia intesa come mezzo creativo, in generale? Per me la tecnologia non è un mezzo o uno strumento. È qualcosa di speciale che può fornirmi l’ispirazione per creare. L’intelligenza artificiale stessa, ad esempio, per alcuni può essere uno strumento, ma per me è anche un’infrastruttura e può diventare una nuova modalità di costruzione di consenso sociale. daito.ws
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ABOCAR Il nome di questo ristorante significa “avvicinare”. È quel che è successo a Camilla Corbelli (in sala) e Mariano Guardianelli (in cucina), nati rispettivamente a Rimini e Cordoba e incontrantisi a Valencia. Il locale ha aperto nel 2014 e nel 2018 si è guadagnato la sua prima stella Michelin. via farini 13/15 abocarduecucine.it
PART Di questa nuova iniziativa parliamo diffusamente nelle pagine dei nostri Percorsi. Qui vi basti sapere che il museo è dislocato in due palazzi, dell’Arengario e del Podestà, affacciati sulla medesima piazza in pieno centro. Il luogo ideale da cui partire per esplorare la cittadina romagnola, preferibilmente in bicicletta. piazza cavour palazziarterimini.it
BIBLIOTECA GAMBALUNGA Il testamento di Alessandro Gambalunga, datato 1617, è una miscela fra narcisismo e senso civico: stabilisce infatti che la sua biblioteca sia a disposizione di “tutti li altri della città che volessero per tempo nelle [...] stanze di detta mia casa andarsene a servire”. Sta ancora lì, ogni anno incrementata. via gambalunga 27 bibliotecagambalunga.it
DOMUS DEL CHIRURGO Il chirurgo in oggetto è vissuto nel III secolo. Si visitano – è il caso di dirlo – due ambienti musealizzati, cioè lo studio con il mosaico di Orfeo e quel che doveva essere una sorta di day hospital, e poi si accede all’area archeologica propriamente detta, aperta dal dicembre 2007. Non adatto agli ipocondriaci. piazza ferrari comune.rimini.it
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Rimini, il chirurgo e Fellini Piazzetta ducale
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Arco di Augusto
Un centro cittadino che unisce archeologia e contemporaneità, mentre inaugurano due musei in altrettanti palazzi storici. E poi la passeggiata, magari in bicicletta, verso il mare, fra giovani ristoratori e atmosfere felliniane. A voi otto suggerimenti per il mare d’autunno. AUGEO ART SPACE Inaugurato nel 2014 all’interno di Palazzo Spina, questo spazio per l’arte contemporanea è fra i rari esempi di intervento privato in questo campo. Organizza mostre temporanee ed è anche una residenza per artisti. Ma non solo: il palazzo secentesco è anche una location per eventi, una SPA e una lussuosa suite. corso d’augusto 217 augeo.it/art-space/
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PRIMO PIANO ART GALLERY Altra galleria da tenere d’occhio a Rimini. Qualcuno ne ricorderà la partecipazione a gennaio ad Arte Fiera nell’ambito di Art City, con una mostra di Mauro Pipani . L’attitudine è proprio questa: proposte sinestetiche, che mettono in dialogo musica, performance e immagini in movimento. vicolo san bernardino 1 primopiano.club
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DA LUCIO Tutto nasce con il Necessaire Bistrot cinque anni fa. Tre soci, età sotto i trent’anni. L’esperienza funziona e a fine 2019 nasce l’enoteca Fermenta e la trattoria Da Lucio. Enrico Gori è in sala, Jacopo Ticchi in cucina. Al centro, il pesce, senza buttare via nulla. Frollature e forno a legna, da leccarsi i baffi. 340 9743459 viale amerigo vespucci 71
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GRAND HOTEL Vi proponiamo le chicche, su questa pagina. Ma sui classici talvolta non si può soprassedere. È il caso del fellininano Grand Hotel, con la sua facciata Liberty che guarda al mare, gli arredi settecenteschi, i vetri di Murano al soffitto. Un cinque stelle che ribadisce la sua centralità dal 1908. parco federico fellini grandhotelrimini.com
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TRETI GALAXIE [ art project ]
Monia Ben Hamouda GYMNASIUM, 2020 Courtesy l’artista Non scelgo a priori i materiali che uso. È piuttosto una forma a interessarmi, o magari qualcosa che abbia un collegamento con elementi che sento biografici, in generale legati alla religione. In questo periodo sto lavorando a una serie di opere realizzate con seni in silicone. La mia famiglia parla due lingue differenti, sono figlia di padre tunisino e madre italiana. Con questo lavoro ho voluto creare un simbolo che fosse un agglomerato di due culture. Ho cercato di unire la vicenda biblica di Sant’Agata, la santa a cui sono stati asportati i seni, e l’arte islamica, impiegando la calligrafia per entrare all’interno di una forma figurativa, anche se in teoria per la religione musulmana questo non si potrebbe fare. Non sono frasi. Sono scritte in arabo, però non significano nulla. Diciamo che è un testo che, in realtà, somiglia solamente a un testo. Volevo che l’opera racchiudesse questi due livelli di lettura, partendo da una vicenda che ha a che fare con una parte della mia famiglia e intervenendo per trasformarla in qualcosa che anche la famiglia di mio padre potrebbe comprendere, in qualche modo. E inoltre volevo essere comunque rispettosa nei confronti di una religione che può non condividere quello che faccio.
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NOME E COGNOME: Monia Ben Hamouda ANNO E LUOGO DI NASCITA: 1991, Milano LUOGO DI RESIDENZA: Milano ISTITUTO DI FORMAZIONE: Accademia di Brera MEDIUM PREFERITO: scultura ULTIMA MOSTRA PERSONALE: Extended protection, Allegoric defence, a cura di Camilla Edström, Ödemark CC Gallery, Malmö 2019 ULTIMA MOSTRA COLLETTIVA: Collagen Shadow, a cura di Zoë De Luca, ADA, Roma 2020 PROSSIMA MOSTRA IN PROGRAMMA: Couple, a cura di Lenka Wallon e Richard Bakes, Berlinskej Model, Praga 2020
WORK IN PROGRESS Courtesy l’artista Queste sono le opere che ho fatto durante la quarantena, così come i seni, ma non sono ancora finite. È stato strano lavorarci. Sono fatte con materiali che ho trovato in casa, dato che non potevo uscire. Non disponendo di colori, ho dovuto farmeli io usando delle spezie. Ho cercato di dare a queste opere un’aura cinematografica, quasi fossero oggetti magici rappresentati sul grande schermo. Anche se non risultano figurative, io le vedo come figurative. C’è una tensione verso la figurazione, perché chi fa calligrafia sente il bisogno di inserire parti figurative anche se non può, e credo che questa tensione sia anche in me quando realizzo questi lavori. Mi piace l’idea che possano essere elementi spaventosi, con riferimento al cinema, ma anche elementi positivi, che possano aver guarito qualcuno o che possano essere stati usati durante dei rituali, appunto… Dico “state” perché in qualche modo io colloco queste opere sempre in un tempo passato. Sono state usate. Sono scariche. Come un animale sacrificato, una reliquia di se stesso, ciò che è rimasto dopo una determinata operazione propiziatoria o magica. A volte chiamo questa tensione “forza debole”.
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PREDICTION, 2019 Installation view at Alios 16ème Biennale d’Art Contemporain, Théâtre Cravey Pavilion, La Teste-de-Bûch Courtesy l’artista Ho suonato il pianoforte per tanti anni, ma non l’ho mai amato molto. Quando in studio avevo creato Prediction, mi sono detta: “È un pianoforte. Pazzesco”. Ho detto a Michele Gabriele, con cui condividevo la doppia personale alla Biennale di La Teste-de-Bûch, che sarebbe stato bello avere un pianoforte in mostra. Quando arriviamo in Francia per installare, incredibilmente nello spazio troviamo un pianoforte. Ero sconvolta. Era esattamente quello che volevo ed è successo, quindi è stato poi molto naturale esporla in quel modo. In realtà ho fatto tante opere che appoggiano su mobili. Dato che viviamo in una casa-studio, mi sono trovata spesso a dover posare le opere sui divani, sul letto o sulle sedie. Ho voluto un po’ riproporre questa modalità, perché rispecchiava l’ambiente naturale in cui le sculture sono nate. In una mostra in Svezia, alla CC Gallery, le opere erano esposte su divani e poltrone. Invece di metterle su un plinto o un basamento, ho voluto mettere in mostra lo stesso sguardo che mi ha portato a capire che erano opere, e penso che continuerò a esporre opere sui mobili perché lo trovo estremamente naturale.
EXHAUST, 2018 Courtesy l’artista
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Magari per tutto il giorno non faccio nulla, poi arriva la notte e nel giro di due ore produco l’opera. Non decido quasi mai a priori ciò che devo fare. Assemblo fino ad arrivare a un certo punto. È quasi una sorta di accettazione degli eventi scultorei che avvengono in studio. Mi piace il fatto che le opere siano costituite da elementi che, in potenza, stanno bene insieme, tuttavia, se notate, sono legate con fascette di plastica, come se stessero vicine in maniera forzata. Mi metto in una posizione simile a quella di uno sciamano che attraverso un gesto, come può essere quello di stringere una fascetta o legare assieme degli elementi, inserisce all’interno di una forma tutta una simbologia, una forza. Le fascette di plastica mi permettono di compiere questo gesto, ed è un gesto per me importante, perché è attraverso di esso che assemblo, e assemblare non consiste semplicemente nel creare una forma, ma anche nel darle un nome. L’utilizzo di alcuni materiali nello specifico, come i liquidi, mi restituisce l’idea di una passività dello scolpire: il liquido riempie lo spazio in un modo particolare e si lascia andare, è una forma che io innesco ma che poi fa un po’ quello che vuole. Mi piace questa passività all’interno delle forme che creo.
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LE PROMESSE MANTENUTE NEL PAESE BALTICO MARTA SILVI [ critica d’arte e curatrice ]
Augustas Serapinas, Gym, 2017. Courtesy Emalin, Londra. Photo credits Andrej Vasilenko
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a Lituania è tra i più dinamici Stati europei. Il più grande dei Paesi Baltici (circa un quarto dell’Italia la superficie), gode di uno strettissimo affaccio sul mare. Si tratta di una Repubblica parlamentare molto giovane, la prima a proclamare la propria indipendenza dall’Unione Sovietica l’11 marzo 1990. Storicamente contesa tra Germania e Russia, è sempre stata investita dall’influenza di numerosi Paesi e culture, ciò che ha rallentato la formazione della sua identità artistica nazionale. Quest’anno si celebrano i trent’anni dall’indipendenza, ma già da qualche anno la Lituania non ha perso occasione di farsi conoscere in Italia e all’estero grazie a un programma culturale densissimo e particolarmente lungimirante. Basti pensare al Leone d’oro alla 58. Biennale d’Arte di Venezia.
Ha conquistato l’indipendenza dall’ex Unione Sovietica già nel 1990. Ha spinto forte sull’acceleratore della contemporaneità, facendo tesoro di pregi e difetti degli altri Paesi occidentali. E i risultati dopo trent’anni si vedono eccome: nelle arti visive, nell’architettura, nel teatro e in generale nella consapevolezza culturale dei lituani.
La Lituania ha dato i natali ad artisti straordinari come Jonas Mekas, figura di riferimento del New American Cinema, fondatore della rivista Film Culture e della Filmmakers’ Cooperative, che sarebbe poi evoluta nel prestigioso Anthology Film Archive; e a George Maciunas, architetto, scrittore, compositore e performer, uno dei fondatori e principali animatori di Fluxus. Per la generazione successiva, la memoria storica recente sembra una questione fondamentale, che evidenzia la relazione critica dell’arte contemporanea con fenomeni sociali, politici e culturali, legati all’identità (artistica) post-sovietica. I temi principali dei lavori di Deimantas Narkevičius, ad esempio, sono il ricordo dell’utopia del modernismo, della storia e della memoria sociale, che creano una dicotomia tra ricordo e oblio. Anche la pratica artistica di Nomeda e Gediminas Urbonas, coppia nella vita e nell’arte, inizia con la ricerca d’archivio, ampliandosi poi su tematiche di partecipazione collaborativa, sollevando interrogativi sulla comunità e la coscienza economica e ambientale. Nel 2018 lo Studio Urbonas ha curato lo Swamp Pavilion per la prima partecipazione nazionale della Lituania alla Biennale di Architettura di Venezia.
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GRANDI MAESTRI E MID-CAREER
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THE NEXT GENERATION
Una nuova generazione di artisti si sta affacciando con forza e determinazione. I temi d’indagine si focalizzano sulla condizione ideologica, economica e culturale contemporanea, attraverso ricerche di natura storica, sociologica, antropologica e psicologica, combinate a competenze artistiche interdisciplinari e scenografiche.
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INTELLETTUALI E RICERCA
Tra le figure intellettuali di respiro internazionale più attive e stimolanti vanno citati Raimundas Malašauskas, il cui lavoro curatoriale è modellato sulla fiducia nella creatività del pubblico; Laima Kreivytė, interessata all’interazione fra testo e immagine, alla curatela come pratica artistica e critica; e Kristupas Sabolius, ricercatore al MIT di Boston e docente di filosofia all’Università di Vilnius, particolarmente legato al contesto intellettuale italiano.
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Francesco Urbano Ragazzi, collettivo curatoriale che da New York ha collaborato con Mekas per diversi progetti e che proprio quest’anno ha curato per Humboldt Books la pubblicazione di Jonas Mekas Transcript 04 44’ 14”: Lithuania and the Collapse of the USSR, ci racconta: “La scena artistica lituana deve moltissimo a figure nomadiche, profetiche e globali come Jonas Mekas e George Maciunas. C’è un certo spirito Fluxus che aleggia tra gli artisti emergenti della zona. Penso alle Beer Metaphysics di Vytenis Burokas, allo Young Girls Reading Group di Eglė Kulbokaitė e Dorota Gaweda o alle sculture di Augustas Serapinas, che insistono spesso su spazi laterali o interstiziali. Ma penso anche alla mensa di Autarkia a Vilnius: un luogo che riunisce in maniera informale e specifica le nuove generazioni di artisti e pensatori con le precedenti. Questa particolare attitudine è sempre più riconosciuta e riconoscibile nel panorama internazionale – ne è testimonianza il Leone d’oro all’ultima Biennale di Venezia – ma è il frutto di un lavoro collettivo che, in questi decenni di ritrovata indipendenza, la comunità lituana ha saputo sviluppare. In pieno stile Fluxus, l’arte lituana ha intessuto connessioni e affinità in tutto il mondo, non solo creativamente ma anche attraverso politiche culturali molto energiche”. Tra gli artisti più interessanti nati tra gli Anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, oltre a Lina Lapelytė (che insieme a Rugilė Barzdžiukaitė e Vaiva Grainytė ha dato vita al premiato padiglione Lituania alla Biennale di Venezia 2019) e al citato Augustas Serapinas (uno tra i più giovani artisti invitati alla mostra principale della stessa Biennale, rappresentato dalla galleria APalazzo di Brescia, ha esposto con una personale da Cura basement nel 2018), Gintarė Minelgaitė (GoraParasit), Ieva Savickaitė, Andrej Polukord, Kristina Inčiūraitė, Eglė Budvytytė, Gintaras Didžiapetris. E ancora Julijonas Urbonas ed Emilija Škarnulytė (scelta quest’ultima per rappresentare la Lituania alla XXIII Triennale di Milano nel 2019), che affrontano in maniera originale temi attuali e complessi come quello della denuclearizzazione e dei cambiamenti climatici.
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PALAZZO PRESIDENZIALE
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FIERE 8 ART VILNIUS 2-4 ottobre
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AUTARKIA
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LITHUANIAN PHOTOGRAPHERS ASSOCIATION
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FORMAZIONE SUPERIORE 13 VILNIUS UNIVERSITY 14
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GALLERIE PRIVATE 15 (AV17)
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La scena teatrale risulta particolarmente prolifica e stimolante. Come ci spiega la critica teatrale Kristina Steiblytė, “poiché il teatro professionale lituano ha iniziato a prendere forma solo alla fine del XIX secolo, si è forgiato insieme alla già consolidata figura del regista teatrale. Il ruolo del regista si è poi evoluto affidando l’interpretazione di un testo selezionato a un unico attore, ciò che in epoca sovietica ha spesso contribuito ad aggirare la censura, mentre ora offre al pubblico esperienze teatrali uniche”. Il teatro lituano contemporaneo debutta sul palcoscenico internazionale nel 1984, quando lo spettacolo di Eimuntas Nekrošius Pirosmani, Pirosmani... è invitato al BITEF – Festival Internazionale del Teatro di Belgrado. Valentina Valentini, attenta studiosa dell’opera del regista lituano, scomparso nel 2018 mentre lavorava all’Edipo a Colono per il Napoli
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Una nuova generazione di artisti si sta affacciando con forza e determinazione. Teatro Festival Italia, con cui collaborava da ormai diversi anni, ci racconta l’identità specifica del teatro lituano e l’originalità della regia di Nekrošius: “L’universo di riferimento per il teatro di Nekrošius sono i classici della letteratura, da Shakespeare a Dostoevskij, Gogol, Kafka, Cechov. I suoi spettacoli però non pongono in prima istanza il problema dell’interpretazione del testo. L’organicità fra parola e azione, fra personaggio e attore che si riscontra negli spettacoli di Nekrošius scaturisce da un processo di lavoro in cui il testo non è interpretato autonomamente dal regista secondo chiavi di lettura ideologiche, storiche o filosofiche (secondo la prassi della regia critica in Italia), ma passa attraverso il lavoro degli attori e con gli attori, attraverso una ricerca che si svolge su più livelli: fisico, psicologico, spirituale, guidata dal regista ma non approntata già confezionata, di cui all’attore resta l’esecuzione”. E prosegue: “Questa capacità di Nekrošius di saper raccontare una storia attraverso l’attore e lo spazio scenico fa sì che lo spettatore si trovi coinvolto in un racconto scenico
che assorbe la sua attenzione con un plot da telenovela, un ritmo da vaudeville, le gag di un film comico. Nekrošius rappresenta un tratto peculiare del teatro lituano, la vocazione verso una narrazione visiva e autoriflessiva attraverso cui esprime la sua dimensione critica, in quanto i suoi spettacoli innescano conflitti che collidono con i valori della società lituana postsovietica. Nekrošius ripristina così un rapporto fra teatro e società che è vitale: opporsi ai poteri dominanti vuol dire affermare attraverso la letteratura valori universali, opporsi alla superficie massmediatica del neocapitalismo multinazionale, all’omologazione ai valori estetici della produzione teatrale euro-americana”. Dopo la riconquista dell’indipendenza, si distingue tra le personalità più importanti del teatro lituano contemporaneo quella di Oskaras Koršunovas: lo stile di regia unico e riconoscibile crea un mondo dell’assurdo in cui l’interesse per la posizione dell’individuo nella società si fonde con l’estetica influenzata dal pensiero postmoderno. La scena attuale vanta un terreno molto prolifico in cui si stagliano giovani figure di registi dalle visioni già ben caratterizzate: Agnius Jankevičius, Paulius Ignatavičius, Artūras Areima, Kamilė Gudomonaitė, Jonas Tertelis, Olga Lapina, Paulius Markevičius. Mentre tra i registi stranieri che operano costantemente in Lituania ci sono i polacchi Krystian Lupa e Łukasz Twarkowski, i lettoni Valtris Sīlis e Yana Ross, l’ungherese Arpad Schilling.
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UNO SGUARDO AL TEATRO
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VILNIUS ACADEMY OF ARTS
menonisa.lt
Strumento indispensabile per approfondire la scena culturale lituana è la Lithuanian Culture Guide, pubblicata e aggiornata periodicamente dal Lithuanian Culture Institute, una ricognizione dettagliata su cinema, teatro, architettura, arte, design, musica, danza e letteratura affidata a professionisti e studiosi chiamati a raccontare le radici storiche e la contemporaneità di ciascuna aerea di ricerca.
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1 CAC – CONTEMPORARY ART CENTRE
SPAZI NON PROFIT
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SPAZI ISTITUZIONALI
UNO SGUARDO ALL’ARCHITETTURA
Come ci spiega Julija Reklaitė, architetto ed ex direttrice della Lithuanian Architecture Foundation, nonché addetta culturale per diversi anni in Italia e ora direttrice dello spazio Rupert, a Vilnius: “L’architettura lituana non nasce da una vera evoluzione, quanto dalla particolare situazione storica contingente. La trasformazione economica che ha seguito la restaurazione dell’indipendenza lituana nel 1990 ha generato finalmente una
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LITUANIA CHIAMA ITALIA
BENEDETTA CARPI DE RESMINI
CRISTINA COBIANCHI
Da diversi anni il Lithuanian Culture Institute ha intrapreso un energico programma di viaggi-studio, invitando numerosi professionisti internazionali a scoprire la ricchezza della cultura visiva contemporanea del Paese. Abbiamo chiesto dunque ad alcuni di loro, che dall’Italia hanno conosciuto da vicino questa realtà, una riflessione sulla sua scena artistica e sui nomi su cui puntare.
L’incontro con la Lituania è stato inizialmente filtrato da un romanzo che ho molto amato, Anime Baltiche di Jan Brokken, e successivamente dallo scrittore Roman Gary, ebreo lituano naturalizzato francese. Quello che contraddistingue le ultime generazioni è la puntuale decostruzione della retorica storica, alla ricerca di un linguaggio che non si uniformi alle forze ideologiche o al potere omologante dei mass media. In particolare direi che le artiste donne stanno continuando a sviluppare tematiche interessanti. Come Lina Lapelytė, una delle artiste con cui lavorai già diversi anni fa. Inoltre seguo con interesse il lavoro di Kristina Inčiūraitė: è sempre evocativo di nuovi elementi, che non sono solo legati ai temi dell’identità o della violenza sulle donne. In ultimo vorrei menzionare Mykolas Juodelė, giovanissimo fotografo che è venuto in residenza a Roma per la piattaforma Magic Carpets e che sono sicura avrà una importante carriera come fotoreporter.
La Lituania è un giovane Paese che pensa di investire attraverso la cultura e l’arte, anche contemporanea. Sono giovani i direttori dei musei, il pubblico dei teatri, delle mostre e chi dirige spazi indipendenti come il nostro, perché lì quella che è quasi sparita è la mia generazione, che nella vecchia e assopita Europa occidentale, invece, ancora ricopre spudoratamente tutte le cariche che contano. La comunità è composta di artisti strutturati, ben preparati, appassionati, recettivi, curiosi. Gli artisti più giovani quasi mai parlano direttamente del proprio passato prossimo nelle loro opere, ma alcuni ne mostrano tracce delicate, indelebili, che spesso si trasformano in qualcosa di onirico o in archetipi fondamentali, anche nostri, del “secolo breve”.
stato commissario. “The Swamp School nasceva da una piccola utopia sintetica. L’idea era mettere insieme la vitalità già largamente riconosciuta della scena artistica lituana con quella nascente ma non ancora nota a livello internazionale della nuova generazione di architetti lituani. Il team Urbonas, artisti e curatori del padiglione, aveva il doppio pregio di aver già vinto un premio alla Biennale Arte e di essere molto interessato alle questioni spaziali e ambientali. Per quel che riguarda gli architetti, dato che in fondo si trattava di una Biennale di architettura e che in Lituania ( fortunatamente) non ci sono ancora archistar locali, scegliemmo di sollecitare un impegno collettivo da parte di un gruppo di una quindicina di ‘emergenti’. L’intento è riuscito a metà. I curatori hanno saputo utilizzare un espace trouvé per dare forma alla loro idea spaziale di impegno ecologico-urbanistico. Gli architetti – me compreso – non sono riusciti in quello che doveva essere il vero coup de théâtre della prima partecipazione lituana indipendente alla Biennale Architettura, la realizzazione di un nuovo padiglione temporaneo su un piccolo specchio d’acqua ‘edificabile’ all’angolo della Fondamenta dei Giardini. La sconfitta patita
(burocrazia veneziana e budget) è stata in parte compensata dall’ottimo successo ottenuto. Ora è in lavorazione una pubblicazione che racconti il progetto integrale e tutta l’esperienza”. E per quanto riguarda il confronto fra Italia e Lituania? “La comunità architettonica in Lituania è piccola, modernista, ottimista, agile, certo non ricca ma occupa uno spazio riconosciuto e agibile nella società”, risponde Ciorra. Di contro, “quella italiana è enorme, impoverita, incapace di prendersi dei rischi e ricattabile dalla burocrazia, sempre sottomessa, come un po’ tutto nel nostro Paese, alla ragion di Stato”.
domanda privata. L’afflusso di nuovi materiali e l’arrivo tardivo di echi del postmodernismo hanno creato una situazione unica in cui gli architetti hanno avuto l’opportunità di interpretare, creare e studiare con coraggio”. I nomi che segnala, di “altissima qualità, varietà di stile e di intenzioni” sono quelli di Audrius Ambrasas, Rolandas Palekas e Gintautas Natkevičius, mentre fra i più giovani si distinguono Do architects, Aketuri, SA atelier, Office de Architectura o Isora x Lozuraityte studio, Processoffice, IMPLMNT e PU-PA. “Nel 2016 la Lituania ha partecipato alla Biennale di Architettura di Venezia”, prosegue Reklaitė, “dove insieme a Lettonia ed Estonia ha inaugurato una mostra di grandi dimensioni, il Baltic Pavilion; nel 2018, guidato dai curatori-artisti Nomeda e Gediminas Urbonas, ha affrontato un’idea più ampia, una palude, che non ha confini fisici o nazionali. Alla 17. Biennale la Lituania sarà raccontata da un’idea ancora più originale: la Lithuanian Space Agency rappresenterà il progetto A Planet of People di Julijionas Urbonas”. Pippo Ciorra, senior curator per l’architettura al MAXXI di Roma, ci racconta The Swamp School, il padiglione per la 16. Biennale di Architettura di cui è
critica d’arte e curatrice, direttrice di Latitudo Art Projects.
fondatrice e direttrice di AlbumArte, Roma
IL CONTEMPORANEO NEI MUSEI
Gli spazi dedicati al contemporaneo, spesso sorti nei primi anni di indipendenza e supportati dall’entusiasmo iniziale, sono ormai numerosi specialmente tra Vilnius e Kaunas. Il CAC – Contemporary Art Centre, aperto nel 1992, è diventato la prima istituzione d’arte contemporanea del Paese a essere finanziata dallo Stato. Diretto sin dai suoi primi giorni da Kęstutis Kuizinas, si è distinto per nuove visioni e strategie nell’arte, offrendo concezioni inedite per il pubblico artistico locale. Un
TERESA MACRÌ
MANUELA PACELLA
ALESSANDRA TRONCONE
Il viaggio a Vilnius e Kaunas ha confermato in pieno le mie aspettative verso il Paese baltico: molto ordinato, ma anche con grandi potenzialità dal punto di vista creativo. Del resto, se si pensa che questo territorio ha dato i natali a tre grandi personaggi della cultura come George Maciunas, Jonas Mekas ed Emmanuel Lévinas, si percepisce che il sommesso ordine è minato da un fervore sottopelle, che spesso esplode in fantastiche figure. La memoria politica ancora pesa nella riflessione degli artisti lituani, attraverso le vicissitudini, i conflitti, le occupazioni continue, l’indipendenza nel 1990 dall’ex Unione Sovietica e le ricognizioni storiche che ne alimentano l’appassionato dibattito culturale. Negli ultimi anni ho notato un grande sostegno da parte del governo lituano al mondo dell’arte: il merito del successo del padiglione lituano alla 58. Biennale d’Arte di Venezia in fondo va anche al lavoro di interazione che hanno saputo tessere negli anni.
L’impressione durante il mio viaggio in Lituania è stata di grande vitalità e di una forte organizzazione e volontà di far conoscere l’arte contemporanea lituana all’estero. Tra le conseguenze positive di questo enorme investimento energetico ed economico sono di certo i diversi riconoscimenti internazionali che la Lituania ha avuto negli ultimi anni. Non è assolutamente casuale, infatti, che alcuni nomi di artisti assai dotati siano poi emersi in occasioni quali la Biennale di Venezia del 2019. Tra gli artisti che ho trovato più interessanti, certamente Lina Lapelytė e Gintarė Minelgaitė (GoraParasit).
Rispetto ad altri Paesi dell’ex blocco sovietico, la Lituania è forse quello che più di altri parla un linguaggio propriamente europeo. I segni della sua storia recente sono ben visibili e questo rappresenta un indiscutibile fascino; allo stesso tempo si percepisce una spinta verso il futuro che le nuove generazioni perseguono con grande responsabilità e coscienza. Nonostante ci siano alcune gallerie che operano nel contesto internazionale e il crescente ruolo di attrattore che sta assumendo la fiera ArtVilnius, credo che il circuito commerciale sia ancora limitato, un po’ per il retaggio sovietico, un po’ per l’assenza di un collezionismo diffuso. Gli artisti lavorano principalmente grazie a grants del governo attraverso il Lithuanian Council of Culture e questo facilita forse un’attitudine più sperimentale, in particolare rispetto a linguaggi fluidi come la performance e il video.
Gli spazi dedicati al contemporaneo, spesso sorti nei primi anni di indipendenza, sono ormai numerosi tra Vilnius e Kaunas. ASSOCIAZIONI E ACCADEMIE
La Lithuanian Artists’ Association “è il successore dell’Associazione degli artisti lituani fondata nel 1935, che continua la sua attività creativa e pubblica, e difende e attua attivamente i suoi preziosi valori nella Repubblica indipendente di Lituania”, si legge nel suo statuto. Fondata nel 1989, è presente in divisioni territoriali a Kaunas, Šiauliai, Panevėžys e Klaipėda e gestisce quattro gallerie a Vilnius. Fondata nel 1568, l’Università di Vilnius è considerata la più antica università dell’Europa orientale. Per molto tempo l’unica scuola di istruzione superiore in Lituania, ha salvaguardato la tradizione culturale e scientifica, svolgendo un ruolo significativo nella vita culturale non solo della Lituania, ma anche dei Paesi vicini.
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storica dell’arte e curatrice
La Vilnius Academy of Arts è un’università statale la cui tradizione risale al 1793, anno in cui fu istituito il Dipartimento di Architettura presso l’Università del Granducato di Lituania. Offre programmi in diverse aree di studio (arte, design, architettura e teoria e storia dell’arte). È composta da quattro campus nelle città di Vilnius, Kaunas, Klaipėda e Telšiai. Gestisce un museo, diverse gallerie e spazi espositivi, tra cui Titanikas (Titanic), inaugurato nel 2009, nonché la rinomata Nida Art Colony, aperta sulla costa del Baltico nel 2011, che, insieme a Rupert, centro e residenza artistica costruito sul fiume Neris a Vilnius nel 2013 in un edificio progettato dal pluripremiato architetto lituano Audrius Ambrass, e a Kaunas Artists’ House, inaugurata nel 2018, costituiscono il fiore all’occhiello del programma di residenze internazionali per artisti, curatori, scrittori presenti in Lituania. L’Istituto Italiano di Cultura di Vilnius, inaugurato il 10 gennaio del 2000, ha sede nel centro storico della città, nell’antica accademia ecclesiastica dell’Alumnatas. Una posizione strategica per la promozione e diffusione della lingua e cultura italiana in Lituania attraverso l’organizzazione di corsi e di eventi culturali.
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anno dopo viene fondato il SCCA – Soros Center for Contemporary Art, finanziato da George Soros, che ha notevolmente influenzato lo sviluppo della scena artistica lituana, sostenendo e diffondendo progetti di arte contemporanea a livello internazionale. Nel 2000 il Soros Center è stato riorganizzato come CAIC – Contemporary Art Information Center sotto il Lithuanian Art Museum, diventando successivamente parte della National Gallery of Art, che ha aperto nel 2009 nell’ex Museo della Rivoluzione. Centro culturale multifunzionale, la National Gallery ospita opere d’arte lituana del XX e XXI secolo, mentre le mostre temporanee di solito affiancano l’arte lituana a quella internazionale. Il nuovissimo MO Museum, che aveva già iniziato la sua attività nel 2010 come Modern Art Center, sostenuto dai collezionisti Danguolė e Viktoras Butkus, è l’iniziativa privata più ambiziosa degli ultimi vent’anni. Custodisce una collezione d’arte che va dagli Anni Sessanta ai giorni nostri, all’interno di una struttura d’avanguardia, intima e iconica, progettata da Daniel Libeskind, realizzata in collaborazione con lo studio lituano Do Architects e inaugurata a ottobre 2018.
storica e critica d’arte
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critica d’arte, curatrice indipendente e scrittrice
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ARTISTA E AMBASCIATRICE INTERVISTA A SILVIA GIAMBRONE Con Teatro anatomico ha vinto la nona Biennale di Kaunas nel 2013 e nel 2016 è stata nominata ambasciatrice per Kaunas2022. Parliamo di Lituania con l’artista italiana Silvia Giambrone.
Jacques Lacan sosteneva che dire la verità è impossibile, sono le parole che mancano. L’esperienza artistica lituana invece mi ha fatto pensare che la verità esiste, ma è ubiqua.
Qual è stata la tua impressione la prima volta che hai visitato la Lituania? La prima esperienza in Lituania è stata molto significativa, non solo perché la sua storia interseca i momenti più cruciali della storia d’Europa, ma anche perché mi ha toccato profondamente il bisogno palpabile delle persone con cui ho collaborato di scrivere il proprio tempo presente e futuro attraverso i linguaggi dell’arte e della cultura, per emanciparsi da un passato complesso e trasformarlo in un presente consapevole. La sete di cultura che ho trovato in Lituania è qualcosa che in Italia si è placata da tempo.
Che tipo di sistema artistico hai trovato in Lituania? Un sistema prevalentemente pubblico, qualche associazione e un grosso desiderio di rinnovamento da parte degli studenti nelle Accademie di Belle Arti. Si sentiva ancora molto la gabbia burocratica della macchina sovietica e i grossi sforzi per snellirla e renderla più dinamica. I musei, soprattutto a Kaunas, soffrivano ancora il fatto di essere strutture poco appropriate al contemporaneo. Penso che ci sia molto da imparare da Paesi come la Lituania, non ancora addomesticati alla cultura come intrattenimento o portatrice di status, come ormai sempre più accade da noi.
Partendo da una lettura personale e identitaria, Teatro anatomico ha sollecitato temi sensibili per la comunità lituana? Teatro anatomico appartiene a una serie di opere sul ricamo ed è una performance influenzata dalle mie origini siciliane. Mi lasciavo cucire un colletto ricamato sulla pelle per far emergere il rapporto performativo tra certe pratiche cosiddette femminili e le politiche dell’identità. In Lituania il colletto ricamato aveva un’altra storia: durante l’occupazione sovietica era obbligatorio indossarlo a scuola, tanto che uno dei primi gesti di protesta è stato quello di strapparlo via praticamente e simbolicamente. Per cui Teatro anatomico ha rappresentato anche per loro un momento di verità, una verità ancora forse impronunciabile. Questa esperienza mi ha mostrato la natura ambigua della verità delle immagini.
Qualche anticipazione su Kaunas Capitale Europea della Cultura 2022? A partire dalla sua storia, Kaunas sta lavorando sul ripensare cosa significhi essere una città contemporanea, quali sono le vere istanze che definiscono il contemporaneo e come declinarle. L’aspetto performativo e il coinvolgimento della cittadinanza saranno centrali, perché per Kaunas l’arte ha una importante missione di ridefinizione identitaria ma senza perdere le peculiarità specifiche dell’arte, i suoi strumenti poetici ed estetici. Quello che Kaunas2022 ha messo al centro della propria missione è il quesito urgente che riguarda tutte le città d’Europa in un momento nel quale i valori costituenti sono in crisi, ovvero: cosa significa essere una capitale europea?
GLI SPAZI NON PROFIT
Gli spazi non profit sono una realtà particolarmente attiva e stimolante sul territorio. Tra questi da segnalare la Lithuanian Interdisciplinary Artists’ Association (LeTMeKoo, LIAA, LTMKS), fondata nel 1997, un’organizzazione gestita da artisti che conta più di centoventi membri tra professionisti più giovani e già affermati. Organizza e produce mostre, eventi e residenze, diffonde varie pubblicazioni e rappresenta artisti in varie situazioni socio-politiche. Fino al 2014 la LTMKS ha organizzato i suoi progetti in vari spazi sparsi nella città. In seguito ha istituito un gallery project space che segue una programmazione annuale. La galleria più recente, Atletika, è stata aperta a settembre 2019 ed è lo spazio espositivo più grande che LTMKS abbia avuto finora. Tutte queste gallerie si trovano a Sodas 2123, un centro culturale polifunzionale gestito dalla Lithuanian Interdisciplinary Artists’ Association che fornisce laboratori, studi d’artista, spazi espositivi e organizza workshop, performance, residenze per una grande varietà di discipline. La Lithuanian Photographers Association promuove la fotografia lituana e protegge i diritti d’autore dei suoi membri organizzando mostre in Lituania e all’estero, seminari (dal 1973 un seminario
ArtVilnius è l’unica fiera d’arte contemporanea in Lituania e il più grande evento di arti visive nell’Europa orientale.
internazionale a Nida), conferenze, incontri, discussioni e pubblicazioni. L’associazione e i suoi dipartimenti gestiscono quattro gallerie tra Vilnius, Kaunas e Klaipėda. Autarkia è uno luogo visionario e, come riporta il suo statement, “un centro diurno per artisti, un club di interessi, uno spazio ufficio per esperienze putative e soluzioni immaginarie, un bistrot di gastronomia sperimentale, una galleria e un incubatore di progetti”. Editorial, fondato nel 2017 da Neringa Černiauskaitė e Vitalija Jasaitė, rispettivamente redattori capo delle riviste Artnews.lt ed Echo Gone Wrong, è un project space che ospita le redazioni stesse. Si dedica ad artisti emergenti lituani e internazionali, invitandoli a esporre le proprie visioni in un contesto non istituzionale e non commerciale; organizza
inoltre una serie di talk, performance ed eventi. Infine, Lokomotif è uno spazio molto particolare aperto a mostre d’arte contemporanea, laboratori, residenze, concerti. Inaugurato nella primavera 2019 al secondo piano dell’edificio della stazione ferroviaria di Lentvaris, nell’appartamento costruito nel 1862 come residenza dello zar, si trova a quindici minuti di treno dal centro di Vilnius.
LE GALLERIE PRIVATE
Il passaggio da un’economia pianificata a un’economia di libero mercato ha incoraggiato anche la creazione di diverse gallerie private: prima fra tutte Vartai, nata nei primi anni dell’indipendenza; rappresenta artisti emergenti e affermati, tra gli altri, Žilvinas Kempinas e Aidas Bareikis. Tra le gallerie più giovani e intraprendenti, (AV17), fondata nel 2011, è una delle poche gallerie lituane che espone esclusivamente oggetti, sculture e installazioni d’arte contemporanea. Contour Art Gallery è invece una galleria itinerante che mira a valorizzare i suoi artisti cercando i luoghi più adatti a ciascun lavoro, creando nuovi contesti per le loro idee e diverse prospettive e approcci all’opera d’arte. Meno Niša Gallery è una delle principali gallerie d’arte contemporanea in
#56 Lituania, con sede nel centro storico di Vilnius. La direttrice, Diana Stomienė, è presidente dell’associazione Lithuanian Art Galleries e direttrice dal 2009 di ArtVilnius. La galleria rappresenta sia artisti affermati che giovani promesse, con particolare attenzione alla promozione di nuovi media, installazioni e performance. The Rooster Gallery si concentra sui giovani artisti lituani. Adottando nuovi schemi, come il noleggio delle opere d’arte, non si vincola a una sede permanente ma espone le opere di ogni artista in uno spazio ogni volta differente.
FIERE E BIENNALI
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Curatore associato presso Arcade e DEMO Moving Image Festival, assistente curatrice presso Serpentine Galleries di Londra, nonché assistente curatrice al Padiglione della Lituania 2019 curato da Lucia Pietroiusti, Caterina Avataneo ci racconta ciò che ancora non sapete della performance lituana vincitrice alla scorsa Biennale di Venezia. Come ti sei avvicinata alla scena artistica lituana? Ho visitato per la prima volta la Lituania e in particolare Kaunas e il Creature Performance Art Festival nel 2015. Da allora il mio interesse per la scena artistica lituana è rimasto vivo e acceso. Nel 2018 ho avuto la fortuna di essere coinvolta nella produzione di uno screening e Q&A di Jonas Mekas al Cinema Peckhamplex di Londra. L’evento era organizzato da Serpentine Galleries e dal Lithuanian Cultural Institute, ed è in quest’occasione che io e Lucia Pietroiusti ci siamo conosciute. Quali i passaggi che hanno portato al successo del padiglione? Il Padiglione Lituania era localizzato in un magazzino della Marina Militare, a pochi minuti dall’Arsenale. La scelta dello spazio è stata fondamentale per la realizzazione di Sun & Sea (Marina), perché l’opera performance si sviluppava su una spiaggia artificiale popolata per otto ore al giorno da cantanti e comparse (inclusi cani) e osservata dall’alto di un ballatoio. Il team di cantanti era formato da molte voci locali, e anche il catalogo/ vinile è stato un progetto, su design di Åbäke, prodotto e stampato dalle Grafiche Veneziane e MaleFatte – Rio Terà dei Pensieri, una cooperativa che lavora con i detenuti della prigione di Santa Maria Maggiore. Come spiegheresti l’interesse di buona parte della giovane generazione di artisti lituani (e non solo) verso il linguaggio performativo? A titolo puramente interpretativo, farei riferimento a Rosalind Krauss, che già alla fine degli Anni Novanta parlava di “Post-Medium Condition”, non solo pensando ad artisti lituani ma in generale alla crescita di pratiche artistiche che abbandonano l’interesse per la purezza del medium per focalizzarsi su modi diversi di articolare le complessità del mondo odierno. Arte ed estetica manifestano sempre di più un interesse per contributi interdisciplinari e l’utilizzo della performance facilita questo crossover. Più recentemente Dorothea von Hantelmann, proprio parlando di linguaggio performativo più che di performance, ha osservato che l’audience di oggi è più propensa ad attribuire significato all’esperienza che un’opera produce più che all’opera stessa. È quindi interessante osservare come gli artisti stiano negoziando il proprio coinvolgimento con il sistema capitalista in modo consapevole. Il lavoro di Robertas Narkus cade qui a pennello, ma anche quelli di Augustas Serapinas, Anastasia Sosunova e altri ancora.
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. . . . Rugile Barzdziukaite, Vaiva Grainyte e Lina Lapelyte, Sun & Sea (Marina), Biennale Arti Visive, Venezia 2019. Photo Andrej Vasilenko © Courtesy the artists
ArtVilnius è l’unica fiera d’arte contemporanea in Lituania e il più grande evento di arti visive nell’Europa orientale. Inaugurata nel 2009, è stato uno dei prodotti di punta di Vilnius Capitale Europea della Cultura. Negli ultimi dieci anni la fiera si è espansa e si sta ritagliando il suo posto sulla scena artistica internazionale. Ogni anno ArtVilnius conta circa 23mila visitatori, con una sessantina di gallerie provenienti da diversi Paesi. Quest’anno è stata posticipata causa Covid. Kaunas, seconda città della Lituania per popolazione, è stata capitale provvisoria durante l’invasione polacca tra il 1920 e il 1940, momento di notevole sviluppo industriale e urbanistico. Nella sua storia annovera anche diverse ferite: invasa prima dalle truppe sovietiche nel 1940, poi dai tedeschi nel 1941, subisce l’eccidio del Forte IX dell’intera popolazione ebraica (circa 40mila persone), oltre a migliaia di ebrei deportati dalla Germania e dall’Austria. La città vanta una lunga tradizione nella manifattura tessile tanto da inaugurare la Textile Biennial nel 1997, che nel 2013 si affranca estendendo la propria visione ad arti visive, video, performance, danza contemporanea, sound art e prendendo il nome di Kaunas Biennial. Nel 2015 Nicolas Bourriaud cura la mostra principale. L’edizione del 2019 è affidata a un team di curatori internazionali, tra cui l’italiana Alessandra Troncone. Kaunas è inoltre stata scelta come Capitale Europea della Cultura nel 2022. Quanto alla Baltic Triennial, è uno dei principali eventi di arte contemporanea nel Nord Europa. Fondata nel 1979, mentre il Paese era sotto l’occupazione dell’Unione Sovietica, dopo il restauro dell’indipendenza nel 1990, il CAC ne è diventato l’organizzatore e l’ospite, mentre l’aspetto internazionale della Triennale si è gradualmente ampliato. La 13esima edizione, nel 2017, è stata diretta dal curatore francese Vincent Honoré mentre la prossima, in programma per il 2021, sarà curata da Valentinas Klimašauskas e João Laia. Pandemia permettendo.
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DIETRO LE QUINTE DEL LEONE D’ORO INTERVISTA A CATERINA AVATANEO
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LE FIERE SONO MORTE VIVA LE FIERE CRISTINA MASTURZO [ esperta di mercato ]
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olo meno di sei mesi fa, chiunque avesse provato a interrogarsi sul futuro delle fiere d’arte non avrebbe potuto fare a meno di constatare il sovraffollamento delle agende internazionali del mercato, fino a un vero e proprio allarme sul rischio di una saturazione di eventi, economicamente e fisicamente insostenibili. Ma questo accadeva, appunto, più o meno sei mesi fa.
ARTE E PANDEMIA
Nel frattempo, l’impatto di una pandemia e delle conseguenti misure di distanziamento sociale ha sovvertito le strutture dell’intero settore, determinando un rallentamento massivo del sistema produttivo, espositivo e commerciale. E la più grande preoccupazione, ora, per gli operatori – restando su un piano strettamente professionale – non è tanto, o non è più, se le fiere siano troppe e/o troppo costose, quanto piuttosto come riuscire a restare in piedi controvento. Ma, a maggior ragione in una contingenza in cui il rischio è che a saltare siano non solo le trattative di un periodo limitato, quanto tutto un modello di business, vale ancora la pena concentrarsi sulle informazioni di cui disponiamo. E aprire a un’analisi dello stato di salute del formato fiera e di quanto le gallerie siano a quello legate a doppio filo, seppure nell’ottica di una riconsiderazione dello stesso alla luce dei nuovi scenari presenti e futuri. Vexata quaestio, certo, quella dell’impatto delle fiere d’arte sull’economia del comparto, ma è anche un interrogativo tutt’altro che ozioso, proprio dovendosi ancora misurare con la vulnerabilità di fronte a un evento inaspettato, che non ha risparmiato nemmeno il calendario fieristico, con conseguenze ancora tutte da misurare. Dalla cancellazione di Art Basel a Hong Kong e a Basilea – e il lancio delle prime Online Viewing Rooms – allo slittamento, prima a settembre e poi solo in
© Walter Larteri per Artribune Magazine
modalità online, di miart, fino al recente stop dell’edizione dicembrina di Art Basel a Miami e di FIAC a Parigi, ad aver mostrato la propria fragilità è, difatti, un intero modello di marketplace basato sulla mobilità continua dei suoi operatori.
I DATI DELL’ART MARKET REPORT
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Un modello che da quegli scambi reiterati era in gran parte alimentato, nel mondo che conoscevamo, andando così a configurare le fiere come uno dei principali volani delle attività economiche. Già prima dell’emergenza pandemia, il mercato dell’arte ha registrato nel 2019 un’inversione nei volumi di affari: dopo due anni di crescita, evidenzia lo UBS and Art Basel Global Art Market Report 2020, il valore globale delle vendite si è attestato su $ 64.1 miliardi, -5% rispetto al 2018. I canali di vendita confermano in prima linea le gallerie, con un aggregato di $ 36.8 miliardi (+2%). Subito dopo le aste, con transazioni per $ 24.2 miliardi (-17%) e le fiere, con vendite per $ 16.6 miliardi (-1%). Invariato rispetto al 2018 il numero delle partecipazioni agli eventi fieristici della maggioranza delle gallerie: 4 nel 2019, come nel 2018 (una in meno rispetto alle dichiarate per 2017 e 2016). Se dunque le mostre in galleria restano le leve portanti del business model dell’arte e il luogo privilegiato di incontro e scambio di informazioni tra artisti, pubblico, collezionisti ed esperti, le fiere, dove sarebbe avvenuto il 46% delle vendite realizzate dalle gallerie nel 2019, si configurano a tutti gli effetti come un comparto essenziale nello scacchiere del sistema. Per quanto sia difficile quantificarne la ricaduta in termini numerici, visto che le fiere non divulgano report o dati aggregati sui volumi d’affari generati – fatte rare eccezioni determinate dalla pubblicità della proprietà o gestione – è evidente quanto esse siano un tassello strategico per la circolazione delle opere, la costruzione di relazioni e la creazione di valore per gli artisti. Sempre in base al Report 2020, la proliferazione delle kermesse fieristiche ha costituito il trend più significativo nelle ultime due decadi. Se nel 2000 si contavano all’incirca 55 fiere, si è arrivati a quasi 300 appuntamenti nel 2018 – più di 50 nati negli ultimi dieci anni e 20 solo tra 2018 e 2019 – pur a fronte di altri che lasciano il passo, come se un tetto di sostenibilità si fosse raggiunto e la contrazione fosse la risposta a nuove istanze e attitudini. Di sicuro i numeri dei visitatori costantemente in crescita (1.2 milioni per il 2019) hanno dato ragione ai board delle fiere, e le città che le ospitano confermano l’interesse per un comparto con un indotto significativo e indiscusse potenzialità di branding e rebranding territoriale.
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Questa inchiesta era in programma da mesi; anzi, era perfino già scritta. Si parlava della pressoché ineluttabile necessità delle fiere, ma anche e soprattutto dell’esigenza di fermarsi un attimo e di affrontare l’"affaticamento da fiera" in maniera radicale. Come sappiamo tutti, ci si è fermati davvero, e ben più che un attimo. Dunque, cosa abbiamo imparato dal lockdown? Che prospettive abbiamo per il futuro, in fatto di fiere e mercato?
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VARIAZIONE NELLE VENDITE TOTALI DELLE GALLERIE DAL PRIMO SEMESTRE 2019 AL PRIMO SEMESTRE 2020 -36%
-39%
-47%
-33%
-36%
-36%
-35%
Tutte le gallerie
sotto $ 250k
$ 250k $ 500k
$ 500k $ 1m
$ 1m $ 5m
$ 5m $ 10m
oltre $ 10m
0
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-20%
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-40%
-50%
L’IMPATTO DEL COVID-19
A fornire nuove coordinate quantitative sullo scenario attuale e sulle sfide imposte dal forzoso blocco delle attività arriva The Impact of COVID-19 on the Gallery Sector, mid-year survey di Art Basel e UBS curata da Clare McAndrew, sulla base di un campione di 795 gallerie attive nel settore dell’arte moderna e contemporanea, insieme a 360 collezionisti tra gli High Net Worth, tra USA, UK, Europa e Asia. L’83% delle gallerie raggiunte dichiara un calo delle vendite tra il 36% e il 43%, con quegli operatori già finanziariamente fragili più esposti ora al rischio chiusura e i loro lavoratori pericolosamente in bilico (un terzo delle gallerie segnala già tagli al personale). Se uno share considerevole delle entrate delle gallerie arrivava, come dicevamo, dalle fiere, la diffusa cancellazione ha portato il turnover annuale lì generato dal 46% al 16% nella prima metà del 2020. E sono in molti a dichiarare che non potranno che ridurre ulteriormente la propria partecipazione a eventi futuri, anche in considerazione di una riorganizzazione del lavoro online, che fa segnare uno share in crescita dal 10% del 2019 al 37% della prima metà 2020.
L’83% delle gallerie dichiara un calo delle vendite tra il 36% e il 43%, con operatori esposti ora al rischio chiusura e i loro lavoratori in bilico. THE BRIGHT SIDE
Non tutto il male vien per nuocere, però, quindi proviamo a tirar su la testa e a guardare anche le opportunità, se possibile. Molti galleristi dichiarano, infatti, di aver guadagnato nuovi clienti proprio grazie a un più convinto impegno a rafforzare la propria presenza online, riuscendo così ad allargare la propria base di domanda. E incoraggiante sembrerebbe anche la disposizione manifestata dai collezionisti a supportare le gallerie nella difficoltà: il 92% del campione dichiara di avere acquisito almeno un’opera nei primi sei mesi dell’anno e il 16% ha speso più di $ 1 milione, con una alta percentuale di Millennial tra i big spender. Sempre nella lista dei fattori a segno più andrebbe inserita anche l’indubbia
Fonte © Arts Economics (2020)
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collaborazione tra colleghi del settore, con la condivisione, in progetti comuni, di spese promozionali e di comunicazione e clienti. Sforzi collaborativi e partnership si sono visti sin dall’inizio, con le grandi gallerie come Hauser & Wirth e David Zwirner – ma anche Massimo De Carlo, in casa nostra – che hanno aperto le proprie piattaforme online alle gallerie più piccole per mostre e progetti virtuali. E anche dalle fiere sono arrivati segnali di solidarietà (tralasciando invece condotte meno edificanti, con anticipi e fee trattenuti), con progetti di nuovi format espositivi online e social gratuitamente offerti alle proprie gallerie espositrici (Fondamenta di Artissima è uno di questi, per citare un esempio virtuoso italiano).
FIERA, QUANTO MI COSTI
Ma qual è lo scotto, o meglio, il costo che gli operatori hanno dovuto mettere in conto finora per essere in fiera? Perché la spesa è senza dubbio il vulnus principale del meccanismo. Nel 2019 l’aggregato dei costi è stato di $ 4.6 miliardi (-4% rispetto al 2018). Una delle voci che pesano di più è naturalmente il prezzo dello stand, i cui canoni variano in base a tipologia, superficie, posizione, customizzazione e fiera stessa.
16 NASCITE 1913 The Armory Show è l'antesignano delle fiere moderne
1967 Art Cologne, la prima fiera d'arte
1970 Art Basel, tuttora la fiera più importante al mondo
1974 FIAC a Parigi, col nome Premier Salon International d’Art contemporain
1982 Arco Madrid, la fiera spesso più visitata d'Europa
1988 TEFAF a Maastricht miscela arte, antichità e design
1994 Artissima a Torino, controcanto supercontemporaneo ad Arte Fiera
1995 miart a Milano è la terzogenita nel panorama italiano
2002 Art Basel Miami, costola dell'evento svizzero Zona Maco a Città del Messico, leader in area centro-sudamericana
2003 Frieze a Londra, emanazione dell'omonima rivista
2004 Nasce VOLTA, capostipite delle fiere "curate" ArtVerona si candida a rappresentare il mercato nazionale
2007 Art Dubai, la leader dell'area MENASA
2013 Art Basel inaugura l'edizione di Hong Kong
LE FIERE DIGITALI
Il primo è un risultato senza dubbio positivo. La sbornia digitale ha prodotto una tale mole di documenti, contenuti, archivi anche un po’ disordinati ma esistenti, che oggi gli studenti di arte contemporanea non hanno più scuse per essere sempre informati o approfondire. Mentre le fiere saltavano, soccombendo all’impossibilità di far ritrovare quantità esponenziali di persone e merci provenienti da tutto il mondo, nascevano le versioni digitali, le viewing room e simili, esperimento già parzialmente tentato – con presupposti ovviamente diversi – dalla Vip Art Fair e da Dream, che nonostante l’essenza prettamente digitale sceglieva comunque di legarsi a una art week. L’epoca Covid invece fa di necessità virtù e nascono dunque le versioni online di Art Basel, di Nada, che fonda Fair, si attendono di nuovo Basilea, miart e Frieze e non si può non citare, anche se differente e non “sostitutiva”, la piattaforma Fondamenta di Artissima.
LE PIATTAFORME ONLINE
I criteri sono simili: ci si dà convegno in un dato periodo, si presentano le opere e, laddove le cose vanno bene, parte la trattativa. Un mercato, quello dell’online, già però corposamente occupato dalle piattaforme Artsy, Artspace, in Italia dal recente progetto Artshare, e così via. Non ci sono ancora molti dati a riguardo: Art Basel in conclusione della Art Basel HK online salutava con grande entusiasmo i 250mila visitatori della versione digitale contro gli 88mila della versione in presenza. Se il buongiorno si vede dal mattino, questo è sicuramente un ottimo dato. Ma è sempre così? Come raccontava Andrea Concas in un incontro cui abbiamo partecipato insieme per il Linea Festival alla Fondazione Pino Pascali: “La mancata ‘fisicità dei luoghi per l’arte e la cultura ha trovato una prima tangibile risposta nel digitale, con protagoniste Viewing Room, Virtual Tour e tanto altro, che spesso, purtroppo, si sono rivelate delle vere e proprie cattedrali nel deserto. Oggi per essere presenti online non è più sufficiente aprire il proprio profilo social, un sito web o utilizzare soluzioni per richiamare
l’esperienza del fisico. Il pubblico sul web è diverso, attivo, esigente e si confronta all’interno di vere e proprie community dell’arte, ma per raggiungerlo servono le giuste strategie, promozioni e investimenti proprio come per il fisico. I protagonisti dell’arte hanno bisogno di una vera e puntuale Art Digital Strategy che porti a risultati concreti e tracciabili, nel breve, medio e lungo periodo all’insegna di una vera e sostenibile Arte 3.0”.
IL PRESENTE? LE FIERE PICCOLE
Se le “grandi” trovano spazio sul digitale, aspettando le evoluzioni di un futuro più sicuro, le “piccole” potrebbero resistere in presenza. Non è stato questo purtroppo il caso di Liste che, pur avendo annunciato la volontà di andare avanti in barba alla cancellazione di Art Basel, ha dovuto poi tuttavia capitolare di fronte al nuovo incremento dei contagi. Ma è il caso ad esempio di Art Paris, che sceglie comunque di andare avanti nonostante la situazione a Parigi non sia delle più rosee. Ma come è stato in passato, con istanze ed esigenze diverse da oggi, per le Biennali, prima grandi contenitori sparsi in tutto il mondo, poi progetti di piccolo taglio con una vocazione territoriale, anche le ex fiere collaterali potrebbero prendersi una sorta di rivincita. Soprattutto quelle con un approccio curatoriale definito, con una community affezionata e una clientela sartoriale, interessata e appassionata a una proposta e a un taglio ben specifici. Il che prescinde dai grandi mercati, che troveranno comunque la propria strada. Forse si riporterà in auge un po’ di sperimentazione, sicuramente per un po’ dovremo dimenticarci il gigantismo – senza nessuna accezione né positiva né negativa – da fiera.
LE ART WEEK
Non sono da meno le art week, che consentono visite contingentate e controllabili, spesso all’aria aperta e di mantenere l’esperienza diretta, intima e privata dell’opera, anche nello spazio pubblico – in queste settimane si sono tenute a Bruxelles, Zurigo, Madrid e anche a Milano, annunciata in pompa magna dal Comune con la voglia di riportare la gente in una città ferita e affaticata dal Covid. Sembrano vincere anche i progetti in prossimità, quelli legati alla capitalizzazione dei territori, alla risignificazione degli stessi, delle tradizioni, delle esigenze di comunità. Sembrano, ovviamente. Anche perché fare pronostici è difficile in uno scenario nazionale e internazionale che cambia giorno dopo giorno e sicuramente gli esperimenti che oggi stiamo portando avanti sono solo l’inizio di un cambiamento di stile di vita epocale. E il dibattito sulle nuove soluzioni e strategie resta aperto e in continua evoluzione. Ciò che è certo è che l’arte contemporanea continua a torto o a ragione a privilegiare il lato umano. Ma può anche diventare un grande strumento sociale, culturale e politico di riappropriazione dei territori e di condivisione sociale. Con la giusta a distanza, e sicuramente all’aperto. Anche in inverno.
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Arte Fiera a Bologna, la decana delle fiere italiane
Mentre il mondo intero teme e guarda con apprensione a una possibile seconda ondata del contagio, il sistema dell’arte soffre delle continue cancellazioni e rinvii di fiere, biennali, mostre. Non tutte però. La tendenza generale non è strutturata, ovvero come in tutte le situazioni “in corso” si naviga a vista e si cerca di capire come procedere. E in un sistema “vecchio” a livello generazionale come quello dell’arte contemporanea italiana, formulare nuove proposte in linea con i tempi è più difficile. La tensione generale sembra quella di ripristinare lo status quo, piuttosto che riadattare lo stile di vita alle esigenze che questa rivoluzione epocale inevitabilmente ci impone. Nonostante tutto va riconosciuto al mondo dell’arte di essersi seriamente tuffato a tutti gli effetti nell’avventura del digitale, almeno in fase di lockdown, momento incerto ma ricco di suggestioni e di voglia di fare. Ma con quali risultati?
#56 SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
FIERISTICHE
ARTE E CORONAVIRUS: VINCERANNO GLI EVENTI DI PICCOLO TAGLIO?
SANTA NASTRO
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SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
#56
Intanto, di sicuro, le fiere hanno recepito le istanze espresse da più parti in favore di una riduzione per le piccole e medie gallerie, consapevoli di non poter rinunciare alla loro partecipazione per la propria sopravvivenza futura, e diverse sono quelle ad aver introdotto sistemi scalari. Art Basel ha ad esempio implementato nuovi modelli di prezzi a scaglioni e decrescenti per dar loro respiro, con riduzioni intorno all’8-9% sulle fee, e l’eliminazione di quel 5% di incremento rispetto al 2018 sui prezzi al metro quadro, mentre diverse misure di supporto sono da sempre previste per le sezioni di Statements e Feature e per chi partecipa alla fiera per la prima e la seconda volta. Sommandole tutte, queste revisioni potrebbero così andare a interessare e supportare i due terzi degli espositori. Su terreni simili si sono mosse Frieze, FIAC e altre, si preannuncia, le seguiranno.
LE VOCI DEI BIG
Già su questa linea, a maggio 2018 David Zwirner, alla conferenza The New York Times Art Leaders Network a Berlino, suggeriva, con Pace Gallery, Thaddaeus Ropac e Marc Payot di Hauser & Wirth, come le mega-gallerie dovessero, a suo avviso, assumere un ruolo sussidiario per le più piccole nell’accesso alle fiere. Nella stessa occasione Marc Spiegler, direttore globale di Art Basel, ampliava ulteriormente la prospettiva, mettendo sul tavolo la necessità di trovare strategie che, non solo alle fiere, impattino davvero sui destini delle gallerie e sull’ecosistema dell’arte. Pensando, in particolare, da un lato a misure contrattuali ed economiche mutuate da altri mercati, come quello dello sport (che risarciscano le gallerie se un artista cambia scuderia per gravitare verso una mega), e dall’altro a come facilitare l’accesso al credito. Una questione, quella creditizia, che torna di questi tempi centrale, se è vero che uno dei grandi problemi resta proprio il cash flow, tra le ingenti spese vive di produzione e promozione e i pagamenti delle vendite solitamente lenti e inefficienti. E allora potrebbero, si chiedeva Spiegler, le mega offrirsi come garanti per le mid? O non sarebbe anche ipotizzabile un fondo di supporto, con la collaborazione delle città e delle amministrazioni o, perché no, delle case d’asta, ovvero di tutti quei soggetti che beneficiano del lavoro che le gallerie non ancora established svolgono per la costruzione delle carriere degli artisti?
LA SITUAZIONE ITALIANA Se ci focalizziamo sull’Italia e le sue quattro principali fiere, nel momento in cui scriviamo la situazione è la seguente: ArtVerona, inizialmente prevista a metà ottobre, dunque in apertura della stagione 2020/2021, è stata posticipata all’11-13 dicembre. La posizione del neodirettore, Stefano Raimondi, è propositiva, come ci raccontava in piena pandemia parlando di “fiera permanente”: “Intendo un evento che lungo tutto l’anno assolva, attraverso servizi digitali ma non solo, la funzione di piattaforma di incontro e dialogo tra i diversi operatori, anticipando a livello commerciale la possibilità di visione, approfondimento e acquisto delle opere. Sicuramente questa situazione è uno stimolo a sondare nuove modalità di relazione con la community, a verificare cosa può essere intrapreso ed efficace in campo digitale, inteso come momento alternativo e integrato a quello fisico”. A seguire temporalmente arriva Artissima a Torino. In questo caso le date sono confermate, quindi, se la situazione sanitaria restasse invariata, l’appuntamento è per il 6-8 novembre. Edizione in forma “fisica” dopo il progetto Fondamenta tenutosi online a giugno, che però la direttrice Ilaria Bonacossa descriveva come “una fiera più piccola in cui sia più facile gestire l’afflusso del pubblico, che probabilmente dovrà essere contingentato. Forse nei primi giorni si potrebbero limitare gli ingressi ad addetti ai lavori e ai collezionisti, facendo sì che le persone possano accedere agli spazi espositivi alternandosi. Immagino alcuni progetti collaterali adattati a una fruizione digitale, per permettere anche a chi non potrà essere a Torino di godere della ricerca e dei contenuti della fiera”. A inizio 2021, l’appuntamento tradizionale è con la decana Arte Fiera a Bologna. Le date restano quelle delle 22-24 gennaio, con il direttore Simone Menegoi che ragiona in maniera sistemica, sottolineando come l’”accesso digitale sarà uno dei lasciti a lungo termine della vita post-Covid (e pre-vaccino)” Fin qui, casi di fiere che si sono svolte prima della pandemia (Arte Fiera 2020) o che erano già programmate per il dopo-lockdown (ArtVerona e Artissima). Chi invece ha dovuto confrontarsi direttamente con il Covid-19 è stata la milanese miart. Costretta a cancellare l’edizione “in presenza” prevista a marzo, è slittata a settembre e in versione totalmente digitale. Una sfida ulteriore per il direttore uscente, Alessandro Rabottini, a cui succede Nicola Ricciardi, la cui posizione è diplomaticamente critica: “Dirigere miart è una sfida entusiasmante e, se da una parte mi impegnerò per garantire solidità e continuità al percorso tracciato prima di me da Vincenzo de Bellis e Alessandro Rabottini con grande lungimiranza, dall’altra sarà necessario capire come i nostri interlocutori, le gallerie, hanno intenzione di rispondere a un mondo che è inevitabilmente cambiato. miart ha appena concluso con successo la sua prima edizione digitale, ma per il prossimo anno credo sia necessario affiancare ai nuovi strumenti con cui ci siamo confrontati un coinvolgimento diretto e fisico delle persone. La fruizione della cultura non può essere totalmente digitale”. MARCO ENRICO GIACOMELLI ARTISSIMA Torino direttrice: Ilaria Bonacossa 6-8 novembre artissima.art
LE PROPOSTE ITALIANE
In direzione analoga, in Italia, si sono orientate anche le proposte raccolte dal Forum dell’arte contemporanea italiana, quest’anno tenutosi esclusivamente in modalità online, ma sempre finalizzato a evidenziare, anche agli interlocutori
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ARTE FIERA Bologna direttore: Simone Menegoi 22-24 gennaio artefiera.it
MIART Milano direttore: Nicola Ricciardi 9-11 aprile miart.it
ARTVERONA Verona direttore: Stefano Raimondi 11-13 dicembre artverona.it
QUOTA MEDIA DI VENDITE PER CANALI DI VENDITA (FATTURATO PONDERATO) 37% Fiere intercontinentali
27%
9% Fiere continentali
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7% Online
40%
7%
29%
Online terze parti
3%
Altro
8%
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7% 8%
37%
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I°SEMESTRE
2019
2020
SATURAZIONE E FAIRTIGUE 29% 27%
7%
9%
Fonte © Arts Economics (2020)
politici, possibili “strategie di miglioramento del sistema dell’arte nel medio e nel lungo termine”. Tra queste, ad esempio, comune e trasversale a diversi tavoli di lavoro, è stata la richiesta di una riforma dell’Art Bonus, “al fine di includere tra i beneficiari anche il settore del contemporaneo, finalizzato alla ricerca e alla produzione artistica, agli enti culturali, e alle stesse gallerie che svolgano un’attività di ricerca, come richiesto anche dal Comitato delle Fondazioni dell’arte contemporanea”, si legge nel documento di sintesi della fine di maggio.
L’ART MARKET CONFIDENCE INDEX
Ai diversi fattori di criticità per la salute del mercato va aggiunta poi la sua fisionomia sempre più top-heavy, con una domanda che si fa sempre più selettiva al grido di “Buy the right work, from the right period, with a good story, by the right artist, at the right time”. E un accenno a come i collezionisti più spregiudicati vadano polarizzando gli acquisti in grossolane etichette di “the best” e “the rest”,
Nel 2020 pre-Covid si contavano almeno 255 fiere, con rassegne in ogni periodo e angolo del globo. alla ricerca di quelli che il collezionista e imprenditore belga Alain Servais ha definito VBA – Very Bankable Artists, ovvero artisti le cui opere sono facilmente convertibili in denaro. Se la maggior parte delle gallerie rischia di sparire senza i realizzi in fiera, quest’ultima resta tuttavia, come si è visto, il modo più costoso per vendere arte. Senza contare quegli strani circoli viziosi, in cui i collezionisti non comprano nelle settimane/mesi precedenti alle fiere per paura che le gallerie stiano loro offrendo opere “minori” per salvare le migliori da portare in fiera. E la concentrazione degli interessi su artisti percepiti come già
Fairtigue. L’abbiamo sperimentata tutti, forse nemmeno sapendo che qualcuno aveva dato un nome a quella condizione di spossatezza e stanchezza determinata dal partecipare a troppe fiere. Si è iniziato a parlarne comunemente intorno al 2005, da quando il settore fieristico ha raggiunto la scala, le proporzioni e i numeri che fino a poco tempo fa conoscevamo. Il gioco di parole – fair+fatigue – funziona meglio in inglese, ma restituisce di certo quella diffusa insofferenza che montava nei confronti della natura e della sostenibilità di questo tipo di eventi. Solo per il 2020 e in tempi pre-Covid, The Art Newspaper contava almeno 255 fiere in calendario, con rassegne in ogni periodo e angolo del globo, da Basilea a Nuova Dehli, da Auckland a Berlino, da Miami a Parigi, da Città del Messico a Saint Moritz a Hong Kong, da Los Angeles a Cape Town, da Marrakesh a Manila. Solo in Italia sullo scacchiere si contano, in una selezione strettissima da cui escludiamo decine di rassegne regionali, almeno 4 fiere principali, da Artissima a miart, passando per la più storica Arte Fiera e la più emergente ArtVerona, a cui aggiungere la nuova ROMA Arte in Nuvola. Se pensiamo poi alle tante fiere-satellite e collaterali in coincidenza con le main e i vari esperimenti alternativi, da DAMA a Granpalazzo, appare chiaro come la fatica da fiera sia diventata, a un tratto, la condizione comune per un artworld globale e muscolare.
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#56 SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
Gallerie
“sicuri”, mentre sarebbero proprio le gallerie degli artisti emergenti a necessitare di più investimenti e fiducia. Intanto l’Art Market Confidence Index (by Artprice.com), che prova a tracciare in tempo reale proprio quella variabile impalpabile della “fiducia” degli attori del mercato, continua a mostrare segno positivo, con un valore crescente negli ultimi sei mesi, dal +4,5% rilevato a fine febbraio all’attuale +14,1% (ultima rilevazione 9 settembre 2020), evidenziando un certo ottimismo degli operatori verso il prossimo futuro e il forte interesse della maggioranza del campione d’analisi nell’acquisto di opere d’arte. Se il mercato mostra quindi segni di confidence, sottolineava tempo fa Thierry Ehrmann, fondatore di Artprice e CEO di ArtMarket.com, non va però dimenticato che “la sua crescita si basa sulla fiducia […]. Ciascuna opera d’arte è unica, ma raramente viene vista in modo isolato”, quanto piuttosto in relazione e collegamento con quello che abbiamo già visto altrove e in un altro momento. Tutti gli elementi del sistema sono, cioè, o dovrebbero essere, punti nodali di pari incidenza all’interno di un contesto, di un network essenziale per consolidare la ricezione delle opere e il loro valore, anche economico.
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#56
Eppure, da più parti negli ultimi anni, e ancor prima che gli spostamenti e gli assembramenti fossero impossibili, si era iniziato a mettere in questione un modello incentrato sulla presenza reiterata – e a tratti ossessiva – alle grandi kermesse.
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10%
Diversi erano infatti i segnali che rivelavano quanto la necessità di rinnovamento fosse stata interiorizzata e implementata anche nello stesso comparto delle fiere. In questa prospettiva può essere considerato quello slittamento significativo – non solo strategico, ma anche ontologico e fenomenologico – che ha trasformato il format fiera, dall’essere originariamente e fondamentalmente marketplace al diventare un vero e proprio happening culturale, in un’ibridazione che si smarca dal mercato e investe su un immaginario simbolico, su una allure inedita, decisamente intellettuale e curatoriale. A conferma di questo shift, e della diffusione delle fiere curate, di recente la riflessione che investe la fiera è stata spesso associata e sovrapposta, nelle conversazioni e nelle analisi degli osservatori, a quella sulle Biennali e su quella biennial fever che è stato uno dei luoghi riflessivi più discussi e controversi nella teoria dell’arte, almeno dagli Anni Novanta, così come la “fierizzazione” o la “biennalizzazione delle fiere” (Paco Barragán) potrebbe esserlo, invece, per gli ultimi due decenni. Le fiere sono diventate di sicuro, infatti, le nuove mete di un aggiornato Grand Tour, insieme ai grandi eventi biennali, ponendosi come dispositivi culturali e sperimentando nuovi approcci dichiaratamente curatoriali. Coerentemente con questo processo di costruzione di valore simbolico, è tornato centrale il ruolo del curatore, sempre più spesso scelto, in virtù di un capitale distintivo, culturale e di network, per dirigere le fiere e/o facilitare progetti culturali ed eventi collaterali.
Per oltre mezzo secolo le gallerie hanno giocato un ruolo pivotale nella creazione di un contesto per le opere degli artisti, appena fuori dagli studi dove erano nate. Al rovescio, al netto dell’attuale sospensione/digitalizzazione dei grandi eventi fieristici, la maggior parte degli incontri che il pubblico fa di quei lavori si è spostata gradualmente negli stand delle fiere. Se questo rischiava di schiacciare tutto quel contesto utile a illuminare le connessioni vitali all’interno della pratica di un artista e di quella in relazione a colleghi, ispirazioni condivise, nutrimenti che si incrociano, ora ci troviamo, tutti, a interrogarci su quanto capitale relazionale, e non solo, venga meno nell’impossibilità di incontrare fisicamente le persone e le opere.
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sotto $ 250k
40%
50%
38% 16%
DA MARKETPLACE A HAPPENING CULTURALE
DAL CONTEXT COLLAPSE ALLA VIRTUALITÀ
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QUOTA DELLE VENDITE IN FIERA NEL 2019 VS PRIMO SEMESTRE 2020
$ 250k $ 500k
43% 18%
$ 500k $ 1m
45% 21%
$ 1m $ 5m
43% 19%
$ 5m $ 10m
47% 19%
oltre $ 10m
47% 14%
2019
2020
Non è la fiera in sé quella che può essere messa in discussione. Piuttosto l’attenzione si sposta su come e cosa, di quel format, si può salvaguardare e migliorare. E ai tentativi di sottrarsi a quella deriva da context collapse paventata tempo fa dalla fondatrice della fiera Independent, Elizabeth Dee, che accentuava le insidie originate da proporzioni fuori controllo di fiere cresciute troppo e/o troppo in fretta – si sostituisce ora la necessità di sopravvivere, e di farlo grazie, ma al tempo stesso nonostante, la virtualizzazione delle relazioni e il sovraccarico di contenuti extra, in un comparto che vive di compresenza e partecipazione.
Fonte © Arts Economics (2020)
LA MIGLIOR FIERA POSSIBILE
Speriamo risulti chiaro che, per un mercato in cui gli artisti ricavino un profitto e un reddito dal proprio lavoro e le gallerie abbiano un margine di crescita, non è la fiera in sé quella che può essere messa in discussione, soprattutto in questo momento in cui siamo obbligati, quasi in ogni caso, a farne a meno, o di cui ipotizzare – né tantomeno augurarsi – una dismissione. Piuttosto l’attenzione si sposta su come e cosa, di quel format, si può salvaguardare e migliorare, anche approfittando della contingenza attuale, fra tecnologia, ibridazione di virtuale e reale, prossimità ed ecosistemi locali. A cominciare dalla sua capacità di creare network produttivi, per esempio, e di essere una piattaforma in grado di offrire ai collezionisti e al pubblico non solo quello che hanno già visto, ma anche e soprattutto ciò che non conoscono ancora. E di essere ancora lo strumento per promuovere scene e contesti anche locali. Sarà certo in futuro sempre più vitale trovare le leve giuste per differenziarsi e costruire identità nette, con un focus puntato sulla mission, sulla propria ragione
UTILIZZO DELLE PIATTAFORME ONLINE NEL PRIMO SEMESTRE 2020
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13%
13%
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siti delle gallerie
siti degli artisti
viewingroom delle gallerie
viewingroom delle fiere piattaforme online di terze parti
aste online
Navigazione per altri usi
Non usato
QUALCHE BEST PRACTICE Collaborazioni intra-settore
COLLABORAZIONI DELLE GALLERIE NEL 2020 Collaborazioni intra-nazionali
Collaborazioni internazionali Collaborazioni con musei / istituzioni
Collaborazioni extra-settore
Altro
78%
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Fonte © Arts Economics (2020)
Dall’estero sono arrivate e arrivano per ora diverse modalità di risposta messe in campo da fiere e gallerie. Per un’Art Paris che sceglie di presidiare fisicamente il Grand Palais, senza drastici cambiamenti di paradigma, a Bruxelles il gallerista Maruani Mercier lancia la Warehouse Fair, una piccola fiera destinata a una domanda interna – e il Belgio può permetterselo, vista l’alta densità di collezionisti in suolo nazionale – e aperta a una dozzina di gallerie locali, sulla scia di quanto ideato anche da Johann König con la sua Messe in St. Agnes, micro-evento fieristico nella ex-chiesa in cui ha sede la galleria. In parallelo, i galleristi internazionali hanno iniziato a sperimentare anche le possibili ibridazioni tra online e offline. König Galerie ed Esther Schipper a Berlino e Thaddaeus Ropac a Londra hanno previsto, infatti, delle appendici reali ai booth digitali approntati per l’ultima Art Basel, offrendo così a visitatori e collezionisti in città la possibilità di vedere dal vivo non solo le opere presentate virtualmente in fiera, ma una expanded version di quei booth, una realtà in questo caso davvero “aumentata” di opere e progetti aggiuntivi concepiti per gli spazi fisici delle gallerie. E chissà allora che all’adrenalinica concentrazione di corridoi interi da visitare, tutti insieme, tutti nello stesso momento, con tempo e attenzione necessariamente ridotti, non subentri un nuovo rapporto tra offerta e domanda, più disteso e dedicato, seppure attraverso il filtro della virtualità. E che le fiere non possano, al contempo, tentare nuove strade per accentuare identità specifiche, rappresentare istanze più ampie e dialogare anche con i propri contesti di prossimità, nella certezza che l’era delle fiere non sia ancora finita, per fortuna.
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Utilizzato per acquistare arte
altri social network
#56 SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
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sufficiente, piuttosto che sul brand, così da costruire effettivamente esperienze di senso per collezionisti, galleristi e pubblico. Ricalibrare le proprie strategie, innovarsi ed evolversi tastando il terreno e sentendo il polso di galleristi e collezionisti, scommettere sul rischio e sulla ricerca: questo forse ci si augura per innamorarci – di nuovo – delle fiere. Se molti operatori sembrano aver fatto un passo indietro rispetto all’ossessione presenzialista di qualche anno fa, sperimentando al contempo approcci alternativi (mostre e progetti collaborativi come Condo, ad esempio), le fiere costituiscono ancora una grande fetta del turnover annuale e, spesso, l’unica possibilità di incontrare nuovi mercati e collezionisti. Per cui è tutto da osservare il modo in cui esse andranno a riconfigurarsi nell’immediato futuro, percorrendo forse la strada ibrida – come hanno fatto le case d’asta – tra presenza digitale e reale.
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LIGABUE / PARMA • DE CHIRICO / PARIGI • MARMI TORLONIA / ROMA
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#22
IN APERTURA / LIGABUE / PARMA
Antonio Ligabue e la voce della natura Marta Santacatterina n artista amatissimo, alla cui fama hanno senz’altro contribuito da un lato una vita tormentata e dolorosa, dall’altro interpretazioni cinematografiche memorabili, l’ultima delle quali ha visto come protagonista Elio Germano, diretto da Giorgio Diritti in Volevo nascondermi. Stiamo parlando di Antonio Ligabue e chi ama il cinema ricorderà pure il precedente capolavoro (correva l’anno 1977) di Salvatore Nocita, su sceneggiatura di Cesare Zavattini e con Flavio Bucci che, commuovendo ed emozionando, impersonò il pittore svizzero che trascorse per gran parte della sua vita a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia. Un pittore a lungo tenuto ai margini e considerato marginale: prima dalla comunità rurale di cui fece parte, che lo considerava un “matto”, poi dalla critica d’arte, che lo incasellò nella categoria degli artisti naïf. A rileggere la vita e l’opera di Ligabue, sfatando critiche e narrazioni superficiali, ha contribuito la Fondazione guidata da Augusto Agosta Tota il quale, da ragazzino, conobbe personalmente “Toni” Ligabue: da allora ha promosso numerose esposizioni e iniziative a livello internazionale, volte a valorizzarne un’arte oggi definita espressionista.
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LA MOSTRA A PARMA
La lunga premessa è funzionale a presentare la mostra, ospite del Palazzo Tarasconi di Parma, su Antonio Ligabue, cui fa da controcanto contemporaneo la ricerca dello scultore Michele Vitaloni. Il minimo comun denominatore tra i due artisti è esplicitato dal sottotitolo: Dare voce alla natura, quella natura con cui il pittore ebbe un rapporto profondo, viscerale, testimoniato dalle opere coloratissime e potenti, che paiono quasi gridare. Proprio come faceva Ligabue che, dipingendo o modellando nella creta gli animali selvaggi o quelli che popolavano le aie e le stalle di Gualtieri, si immedesimava a tal punto da ruggire, ululare, ringhiare, imitandone la gestualità. Non stupisce che all’epoca lo si considerasse un folle, anche a causa di altri atteggiamenti bizzarri, come il percuotersi la tempia con una pietra, fino a sanguinare, per liberarsi dai “cattivi umori” (in molti autoritratti si può notare la ferita). Ligabue si salvò dal manicomio, che pur lo ospitò più volte, grazie all’intercessione dell’amico artista Antonio Mozzali, nonché al suo talento artistico, riconosciuto da Marino Mazzacurati che lo accolse nel suo atelier e gli offrì una buona formazione artistica.
LA PITTURA DI LIGABUE
Tra le ben ottantatré opere di Ligabue esposte a Parma, dai primi lavori “sgrammaticati” e un po’ ingenui alle opere mature, con il loro linguaggio ben definito, rivestono un ruolo primario i suoi adorati animali. Oltre alle celebri bestie feroci, tra i soggetti ricorrenti – simbolici di una archetipica lotta per la sopravvivenza – vi sono i galli in combattimento, e poi mucche, cani, cavalli, talvolta calati in paesaggi che nulla hanno a che fare con la Pianura Padana: in queste opere riemerge lo skyline della Svizzera, dove il pittore visse una difficile infanzia. La mostra non trascura i ritratti “umani” realizzati da Ligabue, e ancor più sorprendenti
fino al 30 maggio
LIGABUE E VITALONI. Dare voce alla natura PALAZZO TARASCONI Strada Farini 37 – Parma a cura di Augusto Agosta Tota, Marzio Dall’Acqua e Vittorio Sgarbi 0521 242703 fondazionearchivioligabue.it
in alto: © Maurizio Ceccato per Grandi Mostre a destra: Antonio Ligabue, Vedova nera, 1951
sono gli autoritratti: lo sguardo magnetico, le giacchette lise, le rughe che solcano il viso e talvolta la barba incolta, persino una mosca gigante e sproporzionata che si appoggia sulla fronte. Un dettaglio, come spiega un raffinato studioso dell’artista, Marzio Dall’Acqua, che veniva aggiunto da Ligabue quando una mosca si appoggiava al quadro che stava dipingendo.
IL DIALOGO CON VITALONI
Accanto ai dipinti fanno capolino alcune fusioni in bronzo di Ligabue, ma la mostra ha una doppia anima, rappresentata dalle creazioni di Michele Vitaloni, esponente della Wildlife Art nato due anni dopo la morte di “Toni”, e che condivide con lui un senso del naturale potente e irrinunciabile. Vitaloni trascorre lunghi periodi della sua vita in Africa e dagli animali che incontra trae ispirazione per sculture iperrealistiche sorprendenti – in mostra c’è addirittura un rinoceronte a grandezza naturale! –, persino inquietanti nel loro eccesso di “verità”. L’inedito accostamento è valorizzato dall’allestimento di Cesare Inzerillo, artista e scenografo palermitano che si è confrontato con l’ultimo protagonista di questa mostra: l’edificio che la ospita. Il secentesco Palazzo Tarasconi, il cui restauro filologico in fase di completamento ha riportato alle origini gli ambienti antichi e le decorazioni, tra cui molti affreschi. I suggestivi spazi interrati delle cantine sono quindi diventati un nuovo, eccezionale luogo espositivo, ulteriore fattore che senza dubbio attirerà l’interesse e la curiosità dei visitatori.
IN APERTURA / LIGABUE / PARMA
1899 Nasce a Zurigo
Entra in un collegio per ragazzi problematici, dove spicca per l’abilità nel disegno
Dipinge, scolpisce con l’argilla e incontra lo scultore Marino Mazzacurati
1913
1927-1928
Viene ricoverato nella clinica psichiatrica di Pfäfers 1917
1919 Espulso dalla Svizzera, arriva in Italia, a Reggio Emilia, quindi a Gualtieri
1937 È internato per la prima volta nell’ospedale psichiatrico di San Lazzaro di Reggio Emilia e poi dimesso
1965 Muore al ricovero Carri di Gualtieri 1962 È colpito da paresi
1948 La sua fama si diffonde tra critici e galleristi
1961 Una sua mostra è allestita a Roma
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PAROLA AD AUGUSTO AGOSTA TOTA Presidente della Fondazione Archivio Antonio Ligabue Quando si è cominciato a pensare a questa mostra? Un anno fa, quando ho conosciuto il proprietario di Palazzo Tarasconi, Corrado Galloni, un giovane imprenditore che, dopo aver acquistato lo stabile, ha intrapreso un lungo lavoro di restauro. Ha consentito che io e Vittorio Sgarbi visitassimo il cantiere e immediatamente ci siamo detti: “Sarebbe bello allestire qui una mostra su Ligabue”. Cosa vi ha convinti a scegliere questo palazzo e qual è stata la reazione del proprietario? Il palazzo è una sorpresa, sia per gli spazi incantevoli sia per gli affreschi che si sono conservati ai piani superiori. Alla proposta di
utilizzare le vastissime cantine per allestire la mostra, Galloni ha subito manifestato disponibilità e grande entusiasmo. Abbiamo intenzione di farle diventare una nuova sede per mostre ed eventi culturali in pieno centro a Parma. A chi è venuta l’idea di accostare Ligabue a Vitaloni? A me: già da tempo tenevo d’occhio i lavori, impressionanti, di Michele Vitaloni, artista che trovo abbia molte similitudini con il “nostro” Ligabue: le immagini sembrano scaturire dal di dentro di entrambi gli artisti, come se fosse un loro bisogno dipingere o scolpire gli animali. Credo che il binomio funzionerà, perché lavorano con lo stesso obiettivo: dare voce alla natura.
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OPINIONI
Quale allegria
L’anno di Dante: English-free year
Lorenzo Giusti direttore della GAMeC di Bergamo
Antonio Natali storico dell’arte
he non sia più il caso di fare finta che sia sempre un carnevale, come cantava Lucio Dalla in una delle sue canzoni più belle, ce ne siamo resi conto tutti ormai. Non occorre osservare il mondo da chissà quale distanza per capire che i problemi di oggi sono assoluti. Ho riflettuto prima di spendere questo termine. All’inizio avevo scritto “sistemici”, ma poi ho preferito peccare di approssimazione piuttosto che di inefficacia. Problemi assoluti richiedono sforzi supremi. E l’impegno che oggi ci viene richiesto non saprei come altro definirlo. Supremo significa superiore a qualsiasi altro. Ecosistemi al collasso, epidemie, carestie che bussano alle porte anche dei popoli meno abituati al sacrificio.
affaello è stato meno fortunato di Leonardo. Nel 2019 le celebrazioni per il quinto centenario della morte del Vinci non sono state turbate da un morbo aggressivo, com’è invece toccato nel 2020 alle rievocazioni per la stessa ricorrenza di Raffaello, stravolte dall’isolamento forzato. Il 2020 quasi volge al termine, ma le nubi ancora campeggiano, minacciose, nei nostri cieli, facendo temere un autunno tormentato e incertezze nuove. E intanto spunta il terzo centenario ineludibile per la cultura italiana: nel 2021 saranno sette secoli dalla morte di Dante e l’inquietudine alligna fra coloro che a giusta ragione vogliono celebrarlo, ma paventano un nuovo confinamento collettivo. Per serbare di lui memoria devota e grata c’è tuttavia un modo che non implica rischi economici e che avrebbe, per converso, effetti benefici sull’educazione dei giovani. Un modo che in questi tempi di conformismo intellettuale e di provincialismo camuffato farà storcere la bocca ai più. Parlo d’un “voto”. Un voto di quelli che si fanno alla Madonna e ai santi: nell’anno di Dante impegniamoci tutti a non ricorrere a quei lemmi inglesi che infarciscono i nostri discorsi.
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BERGAMO, LA PANDEMIA, IL CAMBIAMENTO
La città dove vivo è stata per mesi il centro della pandemia globale. Oggi possiamo parlare al passato perché nel frattempo altri centri nel mondo hanno preso il posto di Bergamo. Ma ci sono stati giorni in cui davanti avevamo il buio. E in quei giorni ci siamo promessi l’un l’altro che se l’emergenza fosse passata non saremmo tornati a fare ciò che facevamo prima, come lo facevamo prima, ma ci saremmo impegnati seriamente per cambiare le cose. Oggi che siamo al cospetto di quella promessa ci tremano le gambe. E il sorriso ci è venuto meno. Perché l’idea del cambiamento – un cambiamento radicale – può essere un enorme freno prima ancora che una leva. Non si sa da che parte iniziare, ci si sente sopraffatti e non si riesce a muovere un passo. Psicologia spicciola, facilmente appurabile.
CANTARE NELLE DIFFICOLTÀ
Ad agosto ho trascorso due settimane in un paesino dell’Appenino toscano, dove la mia famiglia ha una casa e dove non c’è molto altro da fare a parte leggere e camminare. Il luogo ideale per riflettere. Ma non vi dico il supplizio,
l’ansia che mi ha procurato il pensiero della parola data. Poi un ricordo mi è venuto in soccorso: l’immagine degli alpini e degli artigiani bergamaschi che intonano i cori della curva dell’Atalanta mentre in sette giorni tirano su l’ospedale da campo. La gente come noi non molla mai, cantavano. Ho ripensato a quando, da ragazzo, qualcuno ha provato a spiegarmi che bisogna sempre cantare nelle difficoltà. E che ogni percorso, anche il più impervio, inizia sempre con un primo passo.
Cantavano i partigiani nei boschi attorno ai paesi rastrellati. Se hanno cantato loro possiamo farlo anche noi Cantavano i soldati nelle trincee dell’altopiano e le mondine nelle risaie. Cantavano i marinai nei lunghi viaggi lontano da casa e gli schiavi neri nei campi di cotone. Cantavano i partigiani nei boschi attorno ai paesi rastrellati e gli operai nelle fabbriche occupate. Se hanno cantato loro possiamo farlo anche noi.
UN PASSO ALLA VOLTA
In una delle ultime puntate di Radio GAMeC, Ragnar Kjartansson ha imbracciato la chitarra e ha improvvisato il Cielo in una stanza di Gino Paoli. È stato un momento magico. La Fondazione Trussardi ha annunciato che dal 22 settembre potremo ascoltare ogni giorno quella canzone nella Chiesa di San Carlo al Lazzaretto a Milano – dove i Cappuccini davano conforto agli appestati –, interpretata da diversi cantanti, come in un accompagnamento infinito. Mi sembra un progetto bellissimo. Per gli uomini liberi e capaci di avventure la difficoltà del cambiamento è un passaggio che matura la conquista di obiettivi più grandi. Mal di poco allora se dovremo cambiare tutto. Lo faremo cantando e un passo alla volta avanzeremo.
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Nell’anno di Dante impegniamoci tutti a non ricorrere a quei lemmi inglesi che infarciscono i nostri discorsi TORNARE ALLA LINGUA ITALIANA
Lemmi cavati dal vocabolario inglese con la convinzione stupida che, al pari di gemme preziose, nobilitino i concetti esibiti e ne mascherino la vacuità. Parole desunte da una lingua ch’è indispensabile per il dialogo fra genti diverse. Parole però che sovente vanno a sostituire quelle nostrali; anche quando quest’ultime
sarebbero incomparabilmente più pertinenti e belle. Non si capisce perché si voglia imbastardire l’eloquio dolce e al contempo vibrante delle nostre terre con l’inserzione sempre più frequente e spesso incongrua del gergo inglese. Almeno nell’anno dedicato a Dante (che la lingua italiana ha reso sacra) si potrebbero santiddio evitare gli ammiccamenti anglofoni e le scorciatoie linguistiche anglosassoni; che sono alla fine espedienti volgari per nascondere la pigrizia di chi neppure più si sforza di cercare il vocabolo italiano appropriato. E intanto la nostra lingua impercettibilmente declina, pervasa dai troppi lockdown, smartworking (in voga al momento), mission, step, startup, target, brand, trendy, abstract, all inclusive, fake news, e giù per la scesa fino alla fatidica location.
IL PARADOSSO DELLA LOCATION
A proposito: una volta un regista italiano venne agli Uffizi per chiedermi d’utilizzare la Galleria come location. La parola risuonò nelle mie orecchie come una schioppettata. Visto ch’era un regista lo invitai a girare di nuovo la scena: lo pregai d’uscire dalla stanza e di rientrarvi riformulando la stessa domanda nella nostra comune lingua. S’era soltanto all’inizio. A distanza di anni temo che location sia l’unico vocabolo che oggi noi italiani si comprenda al volo quando si ragioni d’ambienti, di luoghi, di spazi. A questi pensieri non è sottesa un’aspirazione autarchica, bensì il desiderio d’avvalorare, soprattutto nei giovani, la consapevolezza della nobiltà d’una lingua (la nostra) universalmente riconosciuta come una delle più liriche. Dante si merita un po’ di rispetto. Perlomeno nel 2021.
OPINIONI
Il dilemma dei servizi aggiuntivi
Un’epidemia di immagini
Stefano Monti economista della cultura
Fabrizio Federici storico dell'arte
ecentemente il Consiglio di Stato ha emanato alcune sentenze che riguardano da vicino il settore museale e, più nel dettaglio, il settore dei servizi cosiddetti aggiuntivi, come introdotti nella loro forma iniziale dalla ormai celebre Legge Ronchey nel 1993. Tali sentenze, il cui perno centrale è la sostanziale differenza tra servizi aggiuntivi (servizi di assistenza culturale e di ospitalità attivati presso i luoghi e gli istituti di cultura) e servizi complementari (come quelli di biglietteria, vigilanza e pulizia), possono rappresentare un segnale prodromico di un nuovo assetto organizzativo del mercato. Non è escluso, infatti, che, a fronte di tali sentenze, il Ministero possa adottare una politica di tipo più interventistico, modificando in modo considerevole il settore.
è da scommettere che una delle principali sfide in cui si cimenterà l’arte pubblica negli anni a venire sarà la commemorazione della pandemia che sta sconvolgendo il mondo nel 2020. Monumenti in ricordo delle vittime, monumenti agli “eroi”. Il monumento, a dire il vero, non gode di buona salute, e non da adesso (ci rifletteva su già nel 2010 la purtroppo ultima Biennale di Scultura di Carrara, dal titolo eloquente di Post monument). Le vicende legate al movimento Black Lives Matter hanno dato un’ultima spallata a cippi e statue. È vero che in questo caso non si ha a che fare con mercanti di schiavi e giornalisti con spose bambine. Il tema è condiviso, e tuttavia il modo di affrontarlo in un’eventuale monumentalizzazione può sollevare polemiche: ricordare semplicemente le vittime o evidenziare le mancanze perché certe cose non si ripetano? Disastro naturale e inevitabile o ribellione del pianeta all’uomo? Come si può, da un lato, celebrare l’eroismo del personale medico e, dall’altro, non sostenere la sanità con politiche e fondi adeguati?
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IL MERCATO DELLE MOSTRE
Le possibili conseguenze sono molteplici e gli elementi informativi ancora troppo pochi per poter fornire stime credibili basate sui fatti. Gli scenari sono tra i più vasti: dall’ingresso di un nuovo soggetto economico, di natura pubblica o in ogni caso riconducibile al settore pubblico, per la gestione di taluni servizi, a un maggior livello di liberalizzazione del mercato, con il moltiplicarsi di soggetti privati che però dovrebbero concorrere con i colossi del settore. Una tale modifica del mercato potrebbe portare a un rinvigorito interesse da parte degli attuali operatori principali verso il mercato delle mostre. Nel caso in cui le dimensioni del mercato dovessero ridursi, gli attuali operatori si troverebbero a dover individuare nuovi mercati di riferimento, al fine di garantire il volume di fatturato necessario per le loro dimensioni imprenditoriali, che dal 1993 a oggi sono notevolmente cresciute. Tali operatori, già attivi nel settore mostre, andrebbero a incrementare la propria presenza in questo mercato. Senza dubbio si potrebbero generare anche difficoltà: in fondo, i servizi aggiuntivi sono
stati creati per garantire ai visitatori un livello di fruibilità maggiore rispetto a quanto potessero fare i soli soggetti pubblici.
OPPORTUNITÀ E SERVIZI
A fronte di tali criticità, tuttavia, non mancherebbero spiragli di opportunità: sotto il profilo strategico, la modifica degli equilibri potrebbe comportare nuove alleanze tra soggetti che fino a ieri si trovavano in condizioni di concorrenza. Soprattutto, potrebbe essere l’opportunità di andare a “completare” il mercato: ragionando con una stretta logica market-oriented, per poter raggiungere flussi di visitatori idonei a rendere la produzione di mostre sostenibile nel tempo sarebbe necessario iniziare a declinare il “prodotto mostra” in differenti dimensioni, considerando non solo la “grande mostra”, che continuerebbe a esistere, ma anche la circuitazione di “mini-mostre” pure nei cosiddetti musei minori, che potrebbero rappresentare quella coda lunga del mercato raramente considerata in questo settore.
Non solo “grandi mostre”, ma anche “mini-mostre” nei cosiddetti musei minori SETTORE PUBBLICO E CULTURA
Questo tipo di impostazione potrebbe, a sua volta, attivare molteplici e prolifici effetti, sia in termini di flusso di cassa per gli operatori, sia in termini di partecipazione culturale. È chiaro, dunque, che qualsivoglia modifica apportata al settore da parte del legislatore debba avvenire secondo un preciso disegno di politica economica. Non sono ammessi errori.
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VIRUS E MONUMENTI
Se, dunque, di monumenti tradizionali se ne faranno ancora (già mi immagino la spugnosa sfera del virus che, gigantesca e bronzea, riluce al centro di una rotonda, nel traffico che non si arresta), più spesso si occuperanno lo spazio pubblico e la percezione dei cittadini in maniera meno invasiva, attraverso video, performance, installazioni. Quanto al linguaggio che verrà adottato, possiamo dedurre, dalle immagini circolate nei mesi scorsi e dalle statue e dai memoriali che si stanno già progettando ed erigendo, che l’aspetto delle opere sarà in larga parte molto tradizionale e molto (troppo) comunicativo, con la figurazione a farla da padrona e l’infermiere e, soprattutto, l’infermiera come personaggio più ricorrente. Una scelta “di retroguardia” appare, per certi versi, inevitabile: da decenni il mondo non
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conosceva un fenomeno di tale portata universale, che riguarda tutti; e a tutti l’arte sembra volersi rivolgere, correndo il rischio di apparire scontata.
Oggi, più che nell’intervento divino, si confida nella ricerca scientifica DALLA RELIGIONE ALLA SCIENZA
Nel passato, invece, la costruzione di monumenti ed edifici legati a epidemie assumeva spesso vesti innovative: pensiamo alle rutilanti guglie note come “colonne della peste” che ancora si levano in numerose città dell’Europa centrale, o a capolavori architettonici nati per adempiere un voto, come i templi veneziani del Redentore e della Salute. Non si tratta però di monumenti intesi a ricordare un dramma e le sue vittime, quanto piuttosto di atti di ringraziamento alla divinità per aver posto fine alla tragedia. Oggi, più che nell’intervento divino, si confida nella ricerca scientifica e nell’osservanza di alcune regole di comportamento; e tuttavia la Chiesa ha dimostrato di non aver perso la sua capacità di dare vita a immagini potenti, come testimonia in particolare la preghiera che Papa Francesco ha rivolto a Dio, in una Piazza San Pietro deserta, sotto un cielo fosco, lo scorso 27 marzo.
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PERCORSI / 3 ITINERARI
3 itinerari di prossimità da Nord a Sud Santa Nastro OPERA Via Sant’Antonio da Padova 3 011 1950 7972 operatorino.it
fino al 31 gennaio CAPA IN COLOR SALE CHIABLESE MUSEI REALI DI TORINO Piazzetta Reale 1 museireali.beniculturali.it
TORINO
CUNEO
CAPPELLA DEL BAROLO La Morra (CN) Coordinate GPS 44°37’41.312”N 7°56’41.824”E ceretto.com PART – PALAZZI DELL’ARTE RIMINI Piazza Cavour 26 0541 793879 palazziarterimini.it
dal 28 novembre al 28 febbraio 2021 CALEIDOSCOPICA. IL MONDO ILLUSTRATO DI OLIMPIA ZAGNOLI CHIOSTRI DI SAN PIETRO Via Emilia San Pietro 44
Tutti conoscono il Robert Capa in bianco e nero, quello dei reportage di guerra e delle foto rubate alla vita. Pochi invece sanno che il grande fotografo di origine ungherese, nato nel 1913 e scomparso nel 1954, ha avviato nell’ultimo quindicennio della sua vita una ricca produzione a colori. A raccontarla per la prima volta in Italia è Capa in color, mostra curata dall’International Center of Photography di New York, con 150 scatti, nelle Sale Chiablese dei Musei Reali di Torino. Ritratti, storie di persone e la fusione tra colore e reportage: per scoprire un Capa inedito fino al 31 gennaio. Bisognerà spostarsi dalla città, ma questa destinazione è veramente da non perdere. Si tratta della famosa Cappella del Barolo, costruita nel 1914 per i vignaioli e mai consacrata. Dal 1970 è di proprietà della famiglia Ceretto che l’ha riqualificata e le ha restituito vita invitando gli artisti Sol LeWitt e David Tremlett nel 1999 a trasformarla in qualcosa di nuovo. Oggi la coloratissima cappella metafisica è meta di turisti e appassionati d’arte. E anche di amanti del vino che la riscoprono davanti a un buon calice di Barolo. RIMINI E REGGIO EMILIA
IL MUSEO
REGGIO EMILIA
MACRAMÈ Via Francesco Crispi 3 0522 580693 macrame.re
LA MOSTRA
IL LUOGO
LA MORRA
dal 17 ottobre al 10 gennaio TRUE FICTIONS. AI CONFINI DELLA REALTÀ PALAZZO MAGNANI Corso Garibaldi 31 0522 444446 palazzomagnani.it
TORINO
RIMINI
Siamo a Rimini e ad accoglierci c’è una grande collezione, in un museo appena nato. All’interno di Palazzo dell’Arengo e del Palazzo del Podestà vede la luce il nuovo PART – Palazzi dell’Arte Rimini, un progetto con governance mista, pubblico-privata. I visitatori potranno qui scoprire non solo le bellezze delle due sedi, ma anche la collezione legata alla Fondazione San Patrignano, da anni impegnata nel recupero di persone tossicodipendenti. “Abbiamo intrapreso la via della collezione di opere d’arte contemporanea come riserva patrimoniale e coinvolto artisti, galleristi e collezionisti che hanno creduto e credono nel progetto e che apprezzano il lavoro svolto dalla comunità. Le relazioni tra gli artisti stanno dando vita anche ad attività di collaborazione tra gli artisti stessi e i ragazzi e le ragazze di San Patrignano. Inoltre, in una prospettiva di comune condivisione e sensibilità, le opere affrontano i temi al cuore della comunità di San Patrignano: l’emarginazione, il disagio sociale, l’accoglienza, la rinascita”, ha commentato Letizia Moratti, co-fondatrice della Fondazione San Patrignano.
PERCORSI / 3 ITINERARI
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LA MOSTRA
Ci spostiamo a Reggio Emilia alla Fondazione Palazzo Magnani, che porta il nome del famoso collezionista e critico Luigi Magnani. E dal quale assume la vocazione di luogo votato alla cultura e alla sperimentazione nelle arti visive. Dal 2010 Fondazione con governance pubblico-privata e con in capo la gestione del festival Fotografia Europea, rimandato quest’anno al 2021, ospita in autunno due importanti appuntamenti: True Fictions. Ai confini della realtà, promossa dalla Fondazione a Palazzo Magnani a Reggio Emilia è curata da Walter Guadagnini, con opere da Jeff Wall a Cindy Sherman; e dal 28 novembre al 28 febbraio, negli spazi espositivi dei Chiostri di San Pietro, Caleidoscopica di Olimpia Zagnoli: dieci anni di carriera della illustratrice originaria di Reggio Emilia. NAPOLI
LA MOSTRA
Andiamo nel capoluogo campano per una mostra in uno dei musei più importanti e attivi dello Stivale. Siamo al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ospite della mostra Gli Etruschi e il MANN, a cura del direttore Paolo Giulierini e di Valerio Nizzo. L’esposizione, che attraversa sei secoli offrendo al pubblico reperti e manufatti risalenti ai secoli X-IV, segna l’inizio di un nuovo corso al museo, inaugurando un progetto di allestimento durevole nel tempo. “Gli Etruschi al MANN”, spiega infatti Giulierini, “tornano per restare. Non solo con una mostra raffinata e dall’altissimo rigore scientifico, ma con l’annuncio dell’allestimento permanente che restituirà alla fruizione del pubblico un altro fondamentale pezzo della storia del nostro Museo, ‘casa’ dei tesori di Pompei ed Ercolano, così come custode di eredità molto più antiche”.
IL LUOGO
Il monumento per eccellenza di Napoli è la sua metropolitana, grazie al progetto le Stazioni dell’Arte ideato e coordinato da Achille Bonito Oliva. Tutti conoscono ormai gli interventi di Michelangelo Pistoletto, Mimmo Paladino e Joseph Kosuth. Negli scorsi anni le linee sotterranee della città si sono arricchite di nuovi interventi, con l’arrivo delle opere di Anish Kapoor a Monte Sant’Angelo e le opere site specific di Luciano Romano, Enzo Palumbo e Gian Maria Tosatti a PiscinolaScampia, nell’ambito del progetto di riqualificazione urbana Lo Scambiapassi.
Robert Capa, Capucine, modella e attrice francese al balcone, Roma, agosto 1951. © Robert Capa, International Center of Photography - Magnum Photos
SUD Ristorante Via Santi Pietro e Paolo 8 081 0202708 sudristorante.it
QUARTO
NAPOLI
fino al 31 maggio GLI ETRUSCHI E IL MANN MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI Piazza Museo 19 museoarcheologiconapoli.it
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OLTRECONFINE / DE CHIRICO / PARIGI
De Chirico, Parigi e la Metafisica Arianna Piccolo ulla Terra. Ci sono molti più enigmi nell’ombra di un uomo che cammina al sole che in tutte le religioni passate, presenti e future”. Con queste poche parole, pronunciate nel 1911, Giorgio de Chirico (Volos, 1888 – Roma, 1978) rintracciò il senso della sua pratica artistica, al centro della mostra a lui dedicata dal Musée de l’Orangerie di Parigi.
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PAROLA ALLA DIRETTRICE CÉCILE DEBRAY
“L’artista italiano è stato sostenuto a Parigi dal 1913-14 da Guillaume Apollinaire e Paul Guillaume. Quest’ultimo, fondatore della collezione del Musée de l’Orangerie, fu il mercante dell’opera ‘metafisica’ di de Chirico. Tuttavia, nessuna opera vi figura più oggi, poiché i suoi dipinti sono stati venduti da Domenica Walter, la vedova del gallerista. È il grande assente che vogliamo mostrare nel momento della nuova presentazione delle collezioni. Abbiamo fatto appello a uno dei migliori intenditori del pittore, Paolo Baldacci, per la curatela della mostra accanto a Cécile Girardeau, conservatrice del Musée de l’Orangerie”, afferma Cécile Debray, direttrice del Musée de l’Orangerie. E sui rapporti intrattenuti in
Francia dal pittore italiano prosegue: “Il legame tra Apollinaire, che inventa la terminologia della ‘pittura metafisica’, e de Chirico è ben noto. Qui torniamo al primo soggiorno parigino, al suo incontro con il poeta che lo introduce presso il giovane mercante Paul Guillaume ma anche ai suoi amici artisti o scrittori come il giovane
Breton. De Chirico, alla fine della sua vita, ha in qualche modo rinnegato questo periodo che lo collegava all’avanguardia artistica. Ha riscritto molto questa storia. Cerchiamo di rimettere in evidenza la radicalità e l’inventiva di questo momento che Apollinaire incarna enormemente”.
fino al 14 dicembre
Il percorso espositivo si snoda in tre sezioni – “Monaco: La proto-metafisica”, “Parigi: La metafisica”, “Ferrara: La grande follia de mondo” – riunendo un totale di novantuno opere, di cui quarantotto dipinti e una serie di documenti tratti dall’Archivio dell’Arte metafisica, grazie ai quali si sono ricostruite le vicende e le influenze artistiche e filosofiche che hanno caratterizzato l’opera dell’artista. “I quadri di de Chirico sono enigmatici, se non ermetici, e così i loro titoli, e spesso si considera la sua opera come una creazione particolare, totalmente a parte. L’esposizione è volta a mostrare come la sua arte si inserisce in un contesto artistico preciso fatto di scambi, di influenze, che permette di meglio decifrare, di esplicitare il cammino del pittore: la sua concezione ciclica del tempo, il suo approccio poetico al reale e agli oggetti, l’influenza della Grande Guerra negli ultimi dipinti...”, conclude Debray.
GIORGIO DE CHIRICO La peinture métaphysique MUSÉE DE L’ORANGERIE Jardin de Tuileries – Parigi a cura di Paolo Baldacci e Cécile Girardeau Catalogo Coédition Musée d’Orsay/Hazan +33 (0)144778007 musee-orangerie.fr in alto: Giorgio de Chirico, Composition métaphysique, 1914, Collezione privata © Etro Collection/Manusardi SRL © ADAGP, Paris, 2020 Giorgio de Chirico, L’incertitude du poète, 1913, Tate, Londra. Photo © Tate, Dist. RMN-Grand Palais / Tate Photography © ADAGP, Paris, 2020
LA MOSTRA A PARIGI E LE OPERE
OLTRECONFINE / DE CHIRICO / PARIGI
LA GEOGRAFIA DI GIORGIO DE CHIRICO
New York 9 1936-37
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Monaco di Baviera 2 1908
5 1911 Parigi 1925 8
Ferrara 6 1915
3 1909 Milano
4 1910 Firenze
1 1888 ∆ Volos 7 1919 Roma 10 1944 11 1978 Ω
INTERVISTA AL CURATORE PAOLO BALDACCI Sotto quale lente si è voluta analizzare l’opera di de Chirico? Per la prima volta viene esaminata l’influenza delle avanguardie moderniste di Parigi sull’arte di de Chirico. La nostra tesi, ben dimostrata in catalogo ma forse meno evidente in mostra a causa delle difficoltà del momento, è che de Chirico arrivò a Parigi nel 1911 con un pensiero artistico già perfettamente formato ma un’esperienza pittorica ancora limitata a quella del tardo Romanticismo tedesco. La sua concezione artistica, la Metafisica, non era antimoderna ma scavalcava le ideologie moderniste anticipando di almeno un decennio temi e idee che si sarebbero affermati tra le due guerre, e proponeva precocemente pratiche postmoderne, come la reinvenzione architettonica manierista e l’uso di un archivio visivo di immagini. Ma è ben documentabile che de Chirico poté costruire il suo efficacissimo sistema di comunicazione visiva solo nel quotidiano contatto e confronto con le innovazioni delle avanguardie, dalle quali prese tutto ciò che poteva dare maggior forza all’espressione del suo pensiero. Ne concludiamo che de Chirico è andato al di là del moderno servendosi del modernismo.
Ci riassume l’apporto culturale ed estetico che Germania e Italia hanno dato all’opera dell’artista? Psicologicamente e intellettualmente de Chirico ha un animus germanico, incline alle cifre romantiche dell’interiorità e della profondità, alla solitudine e al sogno. Il pensiero che sta alla base della Metafisica è quasi tutto di origine tedesca. Avvertì tuttavia il pericolo delle derive irrazionali e sulfuree del Romanticismo, che contrastò con la ricerca e conquista di un equilibrio classico, a cui contribuirono la giovanile esperienza greca e la profonda cultura letteraria, filosofica e storica di cui si dotò nei venticinque mesi trascorsi a Milano e a Firenze tra il 1909 e il 1911. Una formazione molto avanzata per quel tempo e indirizzata soprattutto allo studio delle civiltà antiche, della storia delle religioni e dei sostrati simbolici della comunicazione linguistica e visiva. In questa cultura, e nell’esperienza estetica artistica, architettonica e archeologica del contesto italico, si radica la sua scelta di italianità, che costituì un elemento fondante del suo stato d’animo creativo: quel “sentimento della preistoria” che si nutre non solo di reminiscenze greche filtrate attraverso Nietzsche, ma soprattutto
dell’elaborazione di immagini archetipe di una classicità senza tempo dettategli dai resti delle antichità romane e trasformate in una “lingua morta” di profonda efficacia poetica. Alle origini del linguaggio metafisico vi è poi la riflessione sulla poetica di Leopardi, italiano ma tra i massimi interpreti europei di una classicità nutrita di inquietudine romantica. E sul contributo dell’esperienza francese cosa può dirci? La Francia, allora il centro della modernità, gli permise di esprimersi con la libertà e l’efficacia formale appresa dalle avanguardie. A parte Rimbaud, dal quale prende l’intuizione linguistico poetica dell’abolizione del senso nell’espressione artistica, e Matisse, che rivoluzionò completamente l’impostazione spaziale dei suoi quadri, de Chirico non deve molto altro alla cultura e all’arte francese, ma sicuramente deve moltissimo all’atmosfera di assoluta libertà che si respirava in Francia. Non per nulla, il meglio di sé e della sua inventività lo ha sempre espresso quando viveva a Parigi, negli Anni Dieci, e negli Anni Venti e Trenta.
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GRANDI CLASSICI / MARMI TORLONIA / ROMA
Dopo Raffaello Roma vuole sbancare con l’archeologia Giulia Mura rende finalmente il via a ottobre, presso Villa Caffarelli, in una Roma che, nonostante la pandemia, stila un calendario espositivo di spessore, la mostra dedicata alla Collezione Torlonia, selezione di circa novanta pezzi (su oltre seicento in totale) tra busti, rilievi, statue, sarcofagi ed elementi decorativi restaurati a cura di Anna Maria Carruba con il contributo di Bulgari. Dopo 145 anni dalla nascita del Museo Torlonia, rimasto aperto fino agli Anni Quaranta del Novecento, in seguito all’accordo tra la Fondazione – istituita nel 2014 da Alessandro Torlonia – e il Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, la raccolta è presentata nella Capitale. Prima tappa di un tour che la porterà in giro per il mondo, dando risalto a capolavori studiati da decenni solo attraverso riproduzioni.
P
I TEMI DELLA MOSTRA
Il fil rouge della mostra è la storia del collezionismo. La raccolta del Museo Torlonia si presenta, infatti, come una collezione di collezioni, uno spaccato della storia del collezionismo di antichità dal XV al XIX secolo. Un tema, questo, che a Roma, a partire dal Quattrocento, portò alla formazione di quella pratica socio-culturale di raccogliere sculture antiche negli spazi privati, destinata a dare impulso allo studio dell’archeologia, alla “scienza” degli antiquarii e allo sviluppo di ricche collezioni private. Rappresentare in mostra il Museo Torlonia – che presto avrà una nuova sede, scelta al termine del tour espositivo – vuol dire non solo far conoscere illustri esempi di scultura antica, ma anche mettere in luce un processo culturale in cui Roma e l’Italia ebbero un primato incontestabile.
IL PERCORSO ESPOSITIVO
La rassegna è caratterizzata da una sequenza cronologico-concettuale “a ritroso” che inizia dall’evocazione di come sarà il Museo Torlonia e dalla sua sezione più impressionante, i ritratti. A seguire, riflettori puntati sui ritrovamenti ottocenteschi nella proprietà Torlonia, sugli esiti del collezionismo settecentesco, sulla raccolta secentesca di Vincenzo Giustiniani e infine sulle opere di cui è documentata la presenza in raccolte del Quattro e Cinquecento. Fondamentale qui era far sì che l’allestimento non prevalesse sulle opere ma coadiuvasse la linea concettuale e narrativa della mostra, rendendola leggibile a tutti, specialisti e visitatori. Obiettivo primario era creare una osmosi significativa tra i contenuti storici, i Musei Capitolini e i loro spazi, alcuni dei quali riaperti al pubblico per l’occasione. Il percorso, infatti, si lega all’adiacente Esedra di Marco Aurelio, restituendo concretamente il nesso fra gli albori del collezionismo privato di antichità e i bronzi del Laterano donati alla città da Sisto IV nel 1471.
dal 14 ottobre al 29 giugno
I MARMI TORLONIA Collezionare capolavori MUSEI CAPITOLINI – VILLA CAFFARELLI Via di Villa Caffarelli – Roma a cura di Salvatore Settis e Carlo Gasparri Catalogo Electa 06 0608 torloniamarbles.it in basso: Collezione Torlonia, Hestia Giustiniani, © Fondazione Torlonia, photo Lorenzo De Masi a destra: Collezione Torlonia, c.d. Eutidemo, © Fondazione Torlonia, photo Lorenzo De Masi
GRANDI CLASSICI / MARMI TORLONIA / ROMA
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I NUMERI DELLA MOSTRA
93 5 6 620 1875 LE OPERE
LE SEZIONI
I SECOLI PRESI IN ESAME
I MARMI DELLA COLLEZIONE TORLONIA
PAROLA AL CURATORE SALVATORE SETTIS La scelta del suo nome come curatore è stata unanime. Così come la convergenza di intenti tra il Ministero, la Fondazione e il co-curatore Carlo Gasparri, archeologo che per la famiglia da quarant’anni si occupa di restauri. Un progetto scientifico co-firmato, che non ha mai subito modifiche rispetto a quello presentato all’inizio di questa avventura, quattro anni fa. Cosa vedremo esposto in mostra e perché? Il principio che ci ha guidati è stato rendere visibile ed evidente, a tutti i visitatori – addetti al settore e non – che questa mostra è solo un’anticipazione di quello che sarà il Museo Torlonia. Tutto parla di lui, evocandolo: ecco spiegato il percorso a ritroso, che parte dai giorni nostri e poi va indietro, fino al Quattro-Cinquecento, passando per i rinvenimenti ottocenteschi e il collezionismo del Settecento e del Seicento. Qual è stato il criterio curatoriale che vi ha portato alla scelta dei pezzi e quanto tempo avete impiegato per trovare il giusto numero? I pezzi finali sono novantatré. Ci abbiamo messo diversi mesi, direi cinque-sei, ma le confesso che è stato un rimaneggiamento continuo, perché talvolta ci accorgevamo di alcuni pezzi migliori e li abbiamo sostituiti. Abbiamo scelto facendo convergere due criteri: uno qualitativo (la bellezza delle singole opere) e uno connesso all’interesse del racconto, all’idea cioè di rappresentare al meglio la formazione della collezione nei secoli. Tra i pezzi scelti ce n’è uno preferito? Grande attenzione è stata posta alla selezione dei ritratti imperiali (i Torlonia ne possiedono centotrenta in ottimo stato). Studiando la collezione abbiamo trovato questa statua, intera – non manca nulla! – risalente al III secolo d.C.: è una fanciulla sconosciuta, il cui panneggio dell’abito e il modo in cui il marmo simula la stoffa trasparente sul busto e sulla mano sono strepitosi. Delicata ma iperrealistica. E in condizioni perfette. Direi che mi ha sorpreso. Purtroppo non sappiamo chi sia la giovane donna!
Parliamo, infine, del suo rapporto con l’architetto David Chipperfield, che ha curato l’allestimento. È soddisfatto del risultato finale? Nelle mostre che ho curato ho sempre ricercato – e ottenuto, anche in questo caso – che ci fosse un dialogo serrato tra le parti, le opere e lo spazio. Questo implica avere da subito uno scambio con il progettista, poiché ritengo che il criterio dell’allestimento e il criterio della narrazione debbano sposarsi. In questo caso l’architetto Chipperfield fu scelto, con mio pieno benestare, dall’allora sovrintendente Prosperetti. Lo avevamo apprezzato per il suo lavoro di ricucitura al Neues Museum di Berlino, in cui era stato capace di rimettere insieme i pezzi di un contenitore storico danneggiato, attualizzandolo ma mantenendone intatte le tracce. Un grande segno di sensibilità estetica e storica, esattamente quello che serviva anche a noi. È stato più volte qui, sia per osservare bene la collezione che gli ambienti dei Musei Capitolini. Abbiamo lavorato in un’ottica di valorizzazione e reciproco rispetto, ripercorrendo lo stile narrativo della mostra attraverso artifici mnemonici, come la rievocazione cromatica (il rosso pompeiano della prima sala o il verde prato dell’ultima, ad esempio). C’è un continuum tra i colori delle pareti e il pavimento di cotto scuro delle sale, con grande attenzione all’aspetto illumino-tecnico, centrale quando si parla di scultura. In generale, è una mostra poco scritta, con didascalie sobrie. Non volevamo essere troppo dettagliati: volevamo solo poter finalmente raccontare una bella storia.
L’ANNO DI ISTITUZIONE DEL MUSEO TORLONIA
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RUBRICHE
ARTE E PAESAGGIO
IL MUSEO NASCOSTO
In un viaggio tra i giardini d’Italia non può mancare il rinascimentale Giardino Giusti, sulla Collina di San Zeno a Verona. Meno conosciuto rispetto ad altri giardini all'italiana, si apre a sorpresa dietro al cinquecentesco Palazzo Giusti, prolungamento ideale del palazzo medesimo. L’impianto del giardino fu creato alla fine del 1300, sulla base del tradizionale hortus conclusus, ovvero un giardino per coltivare ortaggi e frutta, circondato da mura. Attualmente si presenta nella forma ideata nel 1570 dal conte Agostino Giusti, Cavaliere della Repubblica Veneta e Gentiluomo del Granduca di Toscana, raffinato collezionista d’arte di autori quali Veronese, Bassano, Moretto, Parmigianino. La parte storica del giardino è stata impostata geometricamente, vicino a fonti d’acqua, racchiusa da una fila di alti cipressi, tra cui il “Cipresso di Goethe”, pianta secolare di oltre seicento anni, citata dallo scrittore nel suo Viaggio in Italia. LA VEGETAZIONE DEL GIARDINO GIUSTI Aiuole quadrangolari con fantasiosi disegni geometrici, statue di Minerva e Apollo, fontane con delfini, fregi e lapidi provenienti da scavi archeologici, scalinate e grotte artificiali sono disposte ai lati del lungo viale centrale di cipressi che porta ai terrazzamenti superiori. Il Belvedere offre una spettacolare vista d’insieme sull’intero giardino con palazzo. Da qui si gode inoltre di uno dei panorami più belli su tutta la città di Verona e sul fiume Adige. Per i viali sono state scelte piante sempreverdi, oltre a siepi di bosso topiate. Salendo al Belvedere la vegetazione diventa più naturalistica e variata. Appaiono alberature diverse, cespugli più bassi e ammassati, alcune fioriture semplici come rose canine, garofani, acanti, varie erbe aromatiche, oltre a magnifici esemplari di alberi da frutto coltivati “a spalliera”. Il parco ha poi subito varie trasformazioni nel tempo, fino all’ultimo restauro del 1930, che ha ripristinato l’assetto originario. DAL PALAZZO AL GIARDINO All’interno del giardino sono di rilievo alcuni dettagli architettonici come le serre per gli agrumi addossate all’antico muro di cinta; una serie di statue dello scultore Bernardino Ridolfi, genero di Falconetto e collaboratore di Palladio; una grotta artificiale scavata nel tufo con colonne e travature che le danno l’aspetto di un tempietto greco, in origine rivestita di conchiglie, coralli e mosaici e con giochi d’acqua. L’accesso a questo giardino “segreto” avviene attraverso un ampio portale sul fronte di Palazzo Giusti, bell’edificio costruito con il classico impianto a U, frammenti di antiche pitture sulla facciata e una rara collezione di epigrafi latine nell’androne. All’interno del Palazzo le ampie sale offrono un percorso nella storia della famiglia Giusti, attraverso oggetti e arredi originari. Claudia Zanfi
VERONA
GIARDINO E PALAZZO GIUSTI
Via Giardino Giusti 2 045 8034029 giardinogiusti.com
Giardino Giusti, Verona, photo Claudia Zanfi
Poco più di duemila abitanti e tante opere d’arte diffuse per il paese, a stretto contatto con lo sguardo quotidiano di chi vi transita: Casacalenda, in Molise, è un caso speciale. Da oltre trent’anni l’impegno dell’architetto Massimo Palumbo, che oggi dirige il museo, di tanti amici dell’arte e soprattutto degli artisti (maestri anche di generosità) consente di potersi immergere in una collezione diffusa che privilegia i linguaggi della scultura e che include opere e interventi di alcuni tra i più grandi artisti italiani della seconda metà degli Anni Sessanta. GLI ARTISTI DI CASACALENDA Il grande arcobaleno di Carlo Lorenzetti svetta tra cielo e terra, indicando la via. Quella di Casacalenda è votata all’arte. Dice bene Lorenzo Canova, docente di storia dell’arte proprio nell’ateneo molisano: “La Galleria Civica Franco Libertucci diventa un ulteriore cardine di continuità all’interno di questa lunga vicenda che ha saputo unire artisti di valore nazionale e internazionale, nel tentativo, forse, di riscoprire il significato di un’arte che possa essere ancora un elemento basilare della storia e dell’esistenza di una comunità che vuole dare un senso più profondo alla sua memoria e al suo futuro”. Già, la comunità. Qui vive per esempio – dividendosi con Roma – Baldo Diodato, artista napoletano classe 1938. Il suo studio potrebbe diventare parte integrante di un percorso diffuso con vocazione artistica: le sculture degli Anni Sessanta dal sapore minimal convivono con i calchi di sanpietrini e altre pavimentazioni e superfici degli ultimi trent’anni di ricerca attraverso cui “progetta il passato”, come ricorda Achille Bonito Oliva, suo compagno di strada e altro amico di Casacalenda e del museo. UN GRAND TOUR IN MOLISE La grande installazione Efesto di Hidetoshi Nagasawa, il poeta gigante effigiato in una enorme scultura di Costas Varotsos, le finestre di un palazzo storico oscurate dalle superfici plastiche dello stesso Diodato. E poi, nel museo, Achille Pace, Annalisa Pintucci, Pino Pipoli, Fabio Mauri, Virginia Ryan, Felice Levini, H.H. Lim, Luca Maria Patella, Paolo Laudisa, Teodosio Magnoni e molti altri. Insieme ci ricordano la forza intrinseca della periferia, dei territori altri, dei paesaggi poco battuti, nell’arte come nella geografia. E allora un grand tour nell’arte in Molise potrebbe incominciare proprio da questo borgo, denso di spazi aperti della visione, rintracciando l’energia sottesa a ogni singolo passo di un doppio museo che vive la dimensione propria di un tempo dilatato, in divenire. Lorenzo Madaro
CASACALENDA
GALLERIA CIVICA D’ARTE CONTEMPORANEA “FRANCO LIBERTUCCI” Via Emilio De Gennaro 78 338 2725437
Baldo Diodato, Poker di stelle, 2010
RUBRICHE
IL LIBRO
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ASTE E MERCATO
Se cercherete su Google qualche informazione in più su questo libro, vi imbatterete in una storia ambientata fra la Virginia e Washington DC. È la storia dei coniugi Loving, inizia nel 1958 e non si tratta di un simpatico aneddoto di come l’amore non possa che sbocciare se si porta un cognome del genere. È invece la storia – a lieto fine, almeno questo – di una coppia mista, lui bianco e lei nera, che in sacrosanto spregio del Racial Integrity Act si sposarono e diedero la vita a tre figli. La loro battaglia legale durò anni ma infine la Corte Suprema diede loro ragione e cancellò quella norma assurda (solo l’Alabama si incaponì a mantenerla e inasprirla fino al 1970). STORIA E PREGIUDIZI Quel senso di disapprovazione, o almeno di tollerante imbarazzo (“potete fare quello che volete, ma fatelo a casa vostra, lontano dallo sguardo dei bambini”), è il medesimo che in tanti, troppi, provano osservando una coppia omosessuale. La storia si ripete, applicando i medesimi schemi a soggetti differenti. Chissà se Hugh Nini e Neal Treadwell hanno pensato a Grey Villet – il fotografo che raccontò per Life la storia dei coniugi Loving – quando, vent’anni fa, hanno scoperto in un negozio d’antiquariato a Dallas quello scatto realizzato intorno al 1920, un po’ sbiadito, che ritrae “due giovanotti” palesemente innamorati. È una domanda che abbiamo rivolto loro, e la risposta potrete leggerla su artribune.com. UNA COLLEZIONE STRABILIANTE Ma chi sono Hugh e Neal? Sono una coppia di collezionisti che, senza averlo deciso a tavolino, hanno messo insieme una raccolta strabiliante, ora pubblicata in un libro edito in quattro lingue e in uscita a ottobre. Perché quella prima foto scovata in Texas è soltanto la prima di una lunga serie: un anno dopo fu la volta di una coppia di soldati fotografati negli Anni Quaranta, cheek to cheek, e passo dopo passo la collezione ha acquisito la consistenza numerica di 2.800 foto, realizzate dalla metà del XIX secolo alla metà del secolo successivo. LEGGERE LE FOTOGRAFIE Per leggerle si può scegliere uno degli infiniti criteri con i quali osserviamo le immagini: Hugh e Neal raccontano che loro prediligono osservare gli sguardi dei soggetti, evidenza (o meno) di un amore reciproco; personalmente mi sono concentrato sulla bocca, che spesso rende i volti e le loro espressioni diversi l’uno dall’altro all’interno della coppia. Intendo dire che quasi sempre emerge l’elemento più estroverso, più coraggioso, più ostinato: è l’uomo che sorride, che ha proposto al suo compagno di scattare quella foto, che gli ha detto “non preoccuparti”. L’espressione di chi, abbracciando il proprio compagno di fronte a un obiettivo, ha combattuto per una tessera della gigantesca lotta per i diritti civili. Marco Enrico Giacomelli
LOVING. UNA STORIA FOTOGRAFICA
5 Continents, Milano 2020 Pagg. 336, € 49 ISBN 9788874399291 fivecontinentseditions.com
Quando, in primavera, abbiamo raccolto le prime impressioni sulle strategie necessarie a far fronte al lockdown, le case d’asta hanno manifestato una rapida capacità di reazione e un ottimismo, seppur cauto, rispetto a un mercato da virare online. Gli operatori hanno di certo tratto vantaggio dall’esperienza consolidata sul web, presidiando da tempo la Rete con le vendite online, e dai rapporti di fiducia con i bidder che, da anni, affollano le sale room anche virtualmente, ai telefoni e in streaming. La verifica sullo stato di salute del mercato non può però che arrivare dall’analisi delle prime sessioni estive. Riorganizzatisi in tempi record, con un calendario più mobile e cataloghi più variegati, i giganti globali del settore, Christie’s e Sotheby’s, si sono orientati su “aste ibride”, un mix tra presenza online e reale, con dirette in streaming e partecipazione fisica in sala, dove possibile. A fronteggiarsi, fra i top lot con aggiudicazioni a otto cifre, Francis Bacon e Roy Lichtenstein. CHRISTIE’S Nude with Joyous Painting (1994) di Roy Lichtenstein, aggiudicato a Hong Kong per 46.2 milioni di dollari, è stato il lotto di maggior valore per Christie’s e la sua ONE. Impegno muscolare senza precedenti, per logistica e tecnologia, per l’asta-evento a staffetta del 10 luglio: quattro città e quattro ore di vendite ininterrotte, trasmesse attraverso la piattaforma Christie’s LIVE™, per un sale total di 421 milioni di dollari. Una vera maratona tra i grandi hub del mercato, Hong Kong, Parigi, Londra e New York, con in catalogo opere dall’Impressionismo al contemporaneo (è di giugno la notizia della fusione dei due dipartimenti di Impressionist & Modern Art e Post-War & Contemporary Art). SOTHEBY’S Secondo posto per fatturato per Sotheby’s il 29 giugno, con un totale da 363.2 milioni di dollari, in una sessione durata più di quattro ore e divisa in tre parti, in streaming a Hong Kong, Londra e New York. E non poteva esserci un test migliore per saggiare la fiducia del mercato se non offrire un’opera come Triptych Inspired by the Oresteia of Aeschylus (1981) di Francis Bacon, con una provenienza di prestigio e la presenza in tutte le maggiori retrospettive. L’aggiudicazione a 84.6 milioni di dollari diventa il terzo miglior risultato in asta per l’artista. IL TEST DELLE SESSIONI IBRIDE Se le cifre pre-lockdown restano lontane (circa -50% rispetto alle aste “reali” di maggio 2019), questa nuova modalità operativa resterà, certo, uno spartiacque nella storia del settore. E se guardiamo alle sessioni ibride come test sulla fiducia di cui il mercato può godere, i risultati fugano in parte i dubbi rispetto a una quota di resistenza di consignor e acquirenti (pur con tutte le garanzie messe in campo). Cristina Masturzo
ASTE IBRIDE CHRISTIE'S SOTHEBY'S
Roy Lichtenstein, Nude with Joyous Painting (part.), 1994. Photo courtesy Christie’s Images Ltd 2020
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RECENSIONI
fino al 20 marzo
fino al 10 gennaio
PALAZZO GRASSI Campo San Samuele 3231 – Venezia a cura di Annie Leibovitz, Wim Wenders, Javier Cercas, Sylvie Aubenas, François Pinault Catalogo Marsilio Editori 041 2001057 palazzograssi.it
PALAZZO FAVA Via Manzoni 2 – Bologna a cura di Mauro Natale e Cecilia Cavalca Catalogo Silvana Editoriale 051 19936305 genusbononiae.it
HENRI CARTIER-BRESSON
Equilibrio. È questa la sensazione che sfiora lo sguardo quando si posa su una delle fotografie di Henri Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 – Montjustin, 2004). Equilibrio compositivo, formale, di stati d’animo. La mostra di Palazzo Grassi mette in fila – al pari della fotografia per Cartier-Bresson rispetto a testa, occhio e cuore – cinque punti di vista sulla sua storia e su un corpus di scatti enigmatico quanto affascinante, la Master Collection “assemblata” dallo stesso Cartier-Bresson nel 1973, su richiesta degli amici e mecenati John e Dominique de Menil, che lo invitarono a scegliere le sue immagini migliori. Cartier-Bresson ne selezionò 385, senza mai chiarire i criteri alla base della sua decisione. A oggi sono sei gli esemplari esistenti della preziosa Master Collection e uno di questi fu acquistato da François Pinault, dando il via al “gioco” che innerva la mostra. Lo stesso Pinault – insieme alla fotografa Annie Leibovitz, allo scrittore Javier Cercas, al regista Wim Wenders e a Sylvie Aubenas, conservatrice della Bibliothèque National de France – è stato chiamato a scegliere una cinquantina di scatti fra quelli voluti da Cartier-Bresson, senza conoscere le preferenze degli altri curatori e stabilendo in piena autonomia l’allestimento finale delle opere. CARTIER-BRESSON SECONDO I CURATORI François Pinault guarda alla strada e alla quotidianità come scenario nel quale calare la propria selezione, summa e conseguenza di un fare da
LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO
collezionista che affonda le radici in una nostalgia del tutto umana, costellata di ricordi e associazioni inaspettate. Ricordi e sprazzi emotivi nella cui traccia si inscrivono anche le scelte messe in atto da Annie Leibovitz, che nel 1976, al suo debutto come fotografa per la rivista Rolling Stone, incontrò Cartier-Bresson, “rubandogli” una serie di ritratti mai pubblicati, perché avrebbe significato, come lui stesso le spiegò, renderlo riconoscibile alla moltitudine e dunque impedirgli di continuare a immortalare la strada. Per lo scrittore Javier Cercas la poetica di Cartier-Bresson non era un terreno familiare, ma è diventata uno spazio di vicinanza e corrispondenze, basti pensare al comune sfondo di indagine sulla Guerra civile spagnola. LE SCELTE DI WIM WENDERS E SYLVIE AUBENAS Le scelte di Wim Wenders, sono disposte e illuminate alla guisa dei fotogrammi che compongono una pellicola e incentrate sullo sguardo del cineasta, per il quale è ancora vivido il ricordo dell'incontro con Cartier-Bresson. Sylvie Aubenas non si sottrae al proprio ruolo di conservatrice e di storica della fotografia, anzi, lo trasforma in bussola per orientare decisioni visibili nella parte finale della mostra. Le uniche pareti colorate dell’intera rassegna accolgono immagini che parlano di gioco – d’azzardo –, di riflessi e di un doppio che racchiude il sé e l’altro da sé.
Henri Cartier-Bresson, Lac Sevan, Arménie, URSS, 1972, 1973 © Fondation Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos
Arianna Testino
La mostra allestita a Bologna negli ambienti di Palazzo Fava, che ospita gli affreschi dei Carracci, presenta una storia appassionante. Una storia che racconta le vicende del Polittico Griffoni per il quale collaborano due artisti straordinari, Francesco del Cossa e il suo allievo Ercole de’ Roberti, facenti parte di quella Officina Ferrarese del Quattrocento tanto studiata da Roberto Longhi. L’opera, composta da una serie di dipinti racchiusi in una monumentale cornice realizzata dall’intagliatore cremasco Agostino de’ Marchi, originariamente decorava l’altare della Cappella di Floriano Griffoni, nella grande basilica di San Petronio a Bologna. Mauro Natale, curatore della rassegna insieme a Cecilia Cavalca, spiega: “La mostra muove nell’ambito di quel recupero storiografico del ruolo che ebbe Bologna come centro di convergenza e di saldatura di diverse espressioni figurative nella seconda metà del Quattrocento”. IL POLITTICO GRIFFONI IERI E OGGI All’inizio del Settecento l’opera viene smembrata per motivi di eredità e danaro, vicende che vedono protagonisti nobili spiantati e clero. I dipinti che componevano il polittico diventano dei quadri, facilmente commerciabili. La loro sorte è segnata e nell’Ottocento l’opera viene dispersa. Oggetto di studio da parte di alcuni fra i più importanti storici dell’arte tra Ottocento e Novecento, oggi la troviamo ricostruita. Ma la storia dell’ex polittico è scritta e le diverse opere, a fine mostra, torneranno a essere divise in nove
importanti sedi museali dell’intero globo: la National Gallery di Londra, la National Gallery of Art di Washington, il Louvre, il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, la Pinacoteca di Brera, i Musei Vaticani, la Fondazione Cini di Venezia, la Pinacoteca Nazionale di Ferrara e Villa Cagnola alla Gazzada, nei pressi di Varese. LE TECNICHE RICOSTRUTTIVE E LA STORIA DELL’ARTE Abbiamo oggi l’occasione di vedere riuniti i diversi dipinti che componevano il grande dipinto. È, tuttavia, mancante la cornice lignea originaria. Ci pare incredibile che un oggetto di tale preziosità e bellezza possa essere stato smembrato. Ma noi sappiamo bene che l’arte è stata ed è spesso valutata attraverso le mode culturali del momento. E un polittico di questo genere nella Bologna settecentesca non suscitava grande interesse. La mostra offre anche un’occasione di studio delle diverse metodologie ricostruttive della storia dell’arte attraverso documenti originali, modelli architettonici, fotografie ad alta risoluzione e utili testi di sala che guidano il visitatore curioso. Angela Madesani
La riscoperta di un capolavoro, exhibition view at Palazzo Fava, Piano 1, Sala Giasone, Bologna 2020. Photo Paolo Righi
8 channel video and sound installation © William Kentridge
William Kentridge More Sweetly Play the Dance 03.09—02.12.2020 Antico Arsenale della Repubblica di Amalfi
Progetto artistico curato da / Artistic project curated by Galleria Lia Rumma Curato e realizzato nell’ambito del progetto Amalfi e Oltre da / Curated and realized as part of Amalfi e Oltre by Scabec S.p.A. www.scabec.it/williamkentridge
— Archivi del Contemporaneo
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CASA D‘ASTE
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Martoz (al secolo Alessandro Martorelli) è nato ad Assisi nel 1990. Nome di punta della nona arte italiana, è da poco in libreria con un nuovo fumetto: una crime-story a sfondo sociale. Lo abbiamo intervistato e ci siamo fatti lasciare una tavola inedita. Cosa vuol dire per te essere fumettista? Nel fumetto sei regista, scenografo, costumista, sceneggiatore, light designer. Sei spaventosamente libero di creare. Significa poter dare vita a cose che altrimenti non esisterebbero. È la mia forma preferita di comunicazione visiva e, per certi versi, riassume in sé tutte le altre.
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Martoz
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Sei riconosciuto per i tuoi disegni “spigolosi”. Cosa ti piace raccontare con le tue immagini? Le sensazioni: quelle dei personaggi, quelle dei lettori e le mie. Trovo che il disegno “deformato” sia più realistico di quello realistico, più rappresentativo ed efficace. Mi piacciono i disegni vivi.
L SHORT NOVEL L
Sembri a tuo agio sia con le grandi dimensioni – come dimostrano le tue scorribande nella street art – che su tela, carta e formati ridotti. La maggior parte del tempo agisco su carta, ma non per questo si tratta del terreno più facile. La street art rappresenta per me un evento speciale, una gita fuori porta. Mi piace dipingere sul cemento nudo e piatto, accarezzarlo, starci insieme. Quando mi commissionano una pittura murale, per forza di cose passo giornate intere abbracciato alla (malcapitata) parete ed è sempre la storia di una piccola amicizia. Pulire il muro, preparare l’acqua e il telo per proteggere il pavimento, mescolare i colori: è un rito a dir poco religioso. Il tuo ultimo fumetto, scritto insieme a Lorenzo Palloni, si chiama Terranera ed è uscito da poco per Feltrinelli Comics. Si tratta della difficile storia di tre giovanissimi migranti che “lavorano” in un campo di pomodori gestito dalla camorra. Oltraggiati da un Paese inospitale, vengono coinvolti in un tour criminale lungo lo stivale, con l’obiettivo di incendiare alcune discariche. È una storia spietata, solo in parte distopica, che racconta un’Italia oscura e incapace di integrare. Quanto credi ci sia ancora bisogno, oggi, di sottolineare le asperità del nostro sistema politico e culturale anche attraverso un linguaggio apparentemente spensierato come quello dei balloon? Ora più che mai. Il fumetto è uno strumento agile, perfetto per veicolare contenuti attraverso l’intrattenimento. Ha un’arma in più rispetto ai settori del cinema e delle serie tv: è un mondo piccolo che non subisce censura. Come vedi il domani e quanto pensi che la pandemia ci abbia cambiati? Sono abbastanza pessimista, o forse solo arrabbiato con certi miei simili. Ripongo grandi speranze nella cultura e nell’informazione. La pandemia non ci ha cambiati più di tanto, non abbastanza. alemartoz
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SETTEMBRE L OTTOBRE 2020
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Trisha Baga, Self Portrait with Webbed Feet: Calcified Encasing for Virtual Assistant, 2018 Installation view at Pirelli HangarBicocca, Milano 2020. Photo Agostino Osio
L RECENSIONI L
TRISHA BAGA
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Tangerine Dream, Franz Kafka the Castle, 2013 Installation view at Fondazione Prada, Milano 2020. Photo Andrea Rossetti
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MILANO
MILANO
fino al 10 gennaio HANGAR BICOCCA hangarbicocca.org
fino al 25 ottobre FONDAZIONE PRADA fondazioneprada.org
La mescolanza è il tratto saliente del nostro immaginario, sembra dirci la rappresentazione della nostra epoca fornita da Trisha Baga (Venice, FL, 1985). Non mescolanza nel senso di un fecondo melting pot ma un forsennato mix di cultura alta (poca), popolare e soprattutto tecnologia. Costruita come una grande installazione che riunisce diverse opere, la mostra ha la forma di un museo dissennato, sospeso fra tecniche classiche, ritrovati tecnologici, slanci onirici e trivialità pop. Un’esposizione non facilmente leggibile, tra grande dispendio di energia produttiva e atmosfera lo-fi, che trova i suoi momenti più felici nelle proposte in apparenza più semplici. Tra le videoinstallazioni spiccano le ceramiche: dopo un gruppo di barboncini-sfingi, sfila un campionario di oggetti quotidiani fossilizzati, grumi di materia che sfiorano l’astrazione ma evocano la corporalità, personaggi come Ru Paul e Elvis Presley con dispositivo Alexa incorporato. Alle pareti, una proiezione di immagini fisse ricorda ironicamente ciò che si suppone debba invece essere un museo: un concerto di reperti classificati e organizzati secondo uno schema predefinito. Il posto principale in mostra
è però lasciato alla produzione video. Immagini sovrapposte, di qualità visiva volutamente bassa, si succedono e sovrappongono sullo schermo. Come se si trattasse di documentari o reportage amatoriali, interrotti da stimoli parassiti riguardanti l’estetica preconfezionata del mainstream. Il punto centrale è in definitiva l’influenza dei mezzi tecnologici e di Internet con la loro logica sparsa. Il loro imperio spunta “in controluce” in ognuna delle immagini proiettate. Impossibile uscirne, sembrano dire i video: ogni immagine, qualunque grana possieda, è aleatoria, virtuale, patinata anche se sporca, aleggiante come un fantasma. E l’ambientazione delle videoinstallazioni, circondate da oggetti di recupero o d’arredo, aggiunge un tocco di ambiguità tra concreto e ologrammatico. La mostra stessa si sfilaccia man mano che la si percorre e smorza gli spunti narrativi che sembra introdurre. E diventa impossibile capire quanto questo sia un difetto oppure una freddezza programmata, per rispecchiare un’epoca spersonalizzata proprio perché sovraccarica di stimoli. STEFANO CASTELLI
Concepita dal curatore Udo Kittelman come una trilogia coesistente, la mostra si ispira a tre romanzi incompiuti di Franz Kafka: America, Il processo e Il castello ‒ che, secondo l’esecutore testamentario dello scrittore Max Brod, biografo e amico di Kafka, rappresentano una Trilogia della solitudine. K si traduce come un invito a sperimentare e mira a enfatizzare il legame simmetrico e ambivalente che esiste tra vari linguaggi d’arte. Tre possibili incontri creativi per un’interpretazione d’insieme dell’opera di Kafka attraverso la presentazione simultanea di un’installazione, di un film e di una produzione musicale. Le tre parti possono essere lette insieme come un’allegoria della vita o, come sosteneva lo scrittore, “tutte queste parabole si prefiggono davvero di dire semplicemente che l’incomprensibile è incomprensibile, e lo sappiamo già”. Il percorso parte dall’opera (inedita in Italia) di Martin Kippenberger, The Happy End of Franz Kafka’s “Amerika” (1994). Basata su America (1927), l’opera reinterpreta la sequenza in cui il protagonista Karl Rossman, dopo aver viaggiato nel Paese, si propone per un’occupazione al “teatro più grande del mondo”. L’artista esplora l’utopia immaginaria del
mondo del lavoro, trasponendo in una vasta installazione l’immagine letteraria dei colloqui collettivi del romanzo. Si tratta di una sorta di ufficio abbandonato, dal pavimento disegnato come un campo da calcio, con notevoli pezzi di design (come la sedia sospesa di Bonacina), circondato da gradinate su cui soffermarsi per immaginare dialoghi e atmosfere. C’è una sinestesia alienante: avvicinandosi a una scrivania si possono sentire delle voci mentre poco distante viene trasmessa Funkytown dei Lipps. Nella sala cinematografica, la proiezione de Il processo di Orson Welles ci lascia immergere nei fotogrammi in bianco e nero i cui contrasti esaltano la crudezza narrativa. La pellicola è del ‘62 ma anticipa magistralmente l’allucinazione postmoderna (come l’assiale claustrofobico delle scrivanie nell’open space). Completa il trittico l’album dei Tangerine Dream che contiene brevi “descrizioni immaginarie”, tratte dal diario di Kafka, a corredare ciascun brano. The Castle (2013) è diffuso in loop all’interno della Cisterna, dove ci si può sedere su dei pouf immersi in luci malva volutamente oniriche. LUCIA ANTISTA
MARIO AIRÒ TORINO
Youssef Nabil, In Love, Denver, 2012 Courtesy the artist. Pinault Collection
FEDERICA MARIA GIALLOMBARDO
YOUSSEF NABIL
GIULIO PAOLINI MILANO
fino al 20 marzo PALAZZO GRASSI palazzograssi.it
fino al 3 ottobre MASSIMO DE CARLO massimodecarlo.com
afferma Nabil nella conversazione con André Aciman riportata in catalogo. “Ho scoperto tutto un mondo grazie al cinema: l’idea che puoi fuggire dalla tua vita e dalla tua storia per due ore o giù di lì e immergerti nell’esistenza di qualcun altro. Poi torni alla realtà perché quella non era che la scoperta di una magia”. È la medesima magia che si respira osservando le opere di Nabil, visioni di un Egitto “altro”, fatto di colori acidi e donne libere, di orientamenti sessuali non stigmatizzati e di un’autonomia artistica non imbrigliabile. Un Egitto nel quale Nabil vorrebbe tornare, dopo essersene allontanato nel 2003, recidendo radici che percorrono gli scatti realizzati dall’altra parte del mondo, a Los Angeles. Il parossismo tra realtà e fantasia si raggiunge in I Will Go to Paradise (2008), la serie che conclude l’itinerario espositivo. Vestito con abiti tradizionali, Nabil avanza verso il mare, inabissandosi sotto la luce del tramonto. Ritorno alla terra d’origine o definitiva condanna? La risposta sfugge, inseguendo i raggi di un ultimo sole senza stagione.
ARIANNA TESTINO
Prima personale di Giulio Paolini (Genova, 1940) a Palazzo Belgioioso. Il fregio a pavimento si presta a ospitare Expositio: la scena rappresentata, dal sapore metafisico, è inserita con perfezione millimetrica al centro del quadrato. Il titolo della mostra, Il mondo nuovo, è ispirato all’affresco del Tiepolo ambientato a Venezia nel 1791, dove i protagonisti, di spalle, volgono lo sguardo verso un cosmorama che permette di ammirare paesaggi esotici. La Rivoluzione francese è in corso e scardina antiche certezze. In questa analogia con il nostro tempo si inserisce l’opera omonima come un oracolo sulla parete di fondo, la cui profezia si esaurisce nella cornice centrale vuota. Illuminante Fuori tempo nella saletta attigua: una clessidra coricata non segna il tempo, invitando a vivere il qui e ora.
L RECENSIONI L
VENEZIA
Abbandonare la propria terra significa tranciare radici involontarie, che parlano di generazioni, famiglia, memoria. Lo sa bene Youssef Nabil (Il Cairo, 1972), costretto a lasciare l’Egitto per inseguire i propri sogni. Eppure quella terra buttata alle spalle conserva il sapore di un luogo nel quale fare ritorno, almeno con l’immaginazione, sovrapponendo al limite delle tradizioni la libertà suggerita dal colore, da scatti “proibiti”, dove cinema, pittura e fotografia si tendono la mano, in uno sforzo estetico, e concettuale, frutto di un taglio quasi chirurgico rispetto ai propri natali. L’Egitto evocato da Nabil ha tonalità sgargianti, dipinte a mano dall’artista su stampe alla gelatina d’argento, in bilico fra una tecnica antica e un presente fuori sincrono, dove Nabil non riesce a guadagnare spazio e identità. Eppure il rimando all’Egitto non si inabissa, ma spicca nelle istantanee che ritraggono la cantante Natacha Atlas provocatoriamente intenta a fumare hashish o l’intreccio di gambe fra due uomini in Deux Djellabas (2007). Un Egitto lontano, che trova nel cinema la sua ragion d’essere e nella realtà il suo contrario. “Una delle cose che mi faceva felice in Egitto era il cinema”,
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fino al 3 ottobre TUCCI RUSSO tuccirusso.com
La letizia è lo scheletro delle opere di Mario Airò (Pavia, 1961) in quanto pratica quotidiana attraverso la quale si levigano le idee dalla mente al mondo. Si tratta di sculture e installazioni che hanno richiesto concentrazione e silenzio. Ben si presta in tal senso il segno sull’acqua: in Modellare l’acqua, petali in ceramica bianca sono percorsi da un rivolo d’acqua, raccolto infine in un lavandino; in Reflets dans l’eau, il compensato marino reagisce alla tempera gialla, imitando i guizzi di luce sull’acqua in movimento. Anche il paesaggio acquatico è piegato all’esigenza di riflessione oltre il normale orizzonte, coinvolgendo gli osservatori: Dolmen (Lo scoglio di Rapallo dove Ezra guardava lontano) è un frottage plastificato di uno scoglio, montato su una panca di legno su cui sedersi.
MARTINA MASSIMILLA
GIDEON RUBIN MILANO
fino al 10 ottobre MONICA DE CARDENAS monicadecardenas.com
L’antologica di Gideon Rubin (Tel Aviv, 1973) è basata sul processo di spersonalizzazione dei volti di persone-fantasma colte in momenti di vita quotidiana, eliminandone i tratti somatici o prediligendo altre parti del corpo. Attribuire naso, bocca e occhi alle figure ritratte diventa secondario: le azioni sono talmente comuni da poter riguardare chiunque e le pose sono così riconoscibili da renderne comprensibile il carattere e l’intento. Le immagini si pongono esattamente a metà strada tra rappresentazione e astrazione: sono spoglie, prive di indizi di lettura, evocative e rese ambigue dall’apparente banalità delle scene. Utilizzando l’espediente dell’anonimato, Rubin propone una tematizzazione della raffigurabilità del volto in un’epoca in cui sembra aver perso ogni significato. GIULIA PACELLI
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Carlo Benvenuto, Senza titolo, 1999, particolare Collezione Silvia Medici e Luca Dezzani
Wladyslaw Strzeminski, Architectural Compositions, 1928-29. Installation view at Collezione Maramotti, Reggio Emilia 2020. Photo Andrea Rossetti
CARLO BENVENUTO
STRZEMIŃSKI | DEININGER
fino al 18 ottobre MART mart.trento.it
fino al 6 dicembre COLLEZIONE MARAMOTTI collezionemaramotti.org
L RECENSIONI L
ROVERETO
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Le fotografie di Carlo Benvenuto (Stresa, 1966) non sono “pittoriche” in senso pieno: l’ambiguità va oltre il mero gioco fotografia-pittura, creando una dialettica molto più frastagliata. Né sono morandiane, pur vivendo di oggetti ed esplorandone la dimensione metafisica (non a caso l’opera di Morandi inserita in mostra è un ritratto e non una natura morta – gli altri due autori che si affiancano a Benvenuto, da lui scelti, sono Guttuso e de Chirico). E non sono neanche definibili “suggestive”: l’impatto visivo straniante si stempera in una dimensione tanto di sensoriale quanto intellettuale. Uno specchio su un tavolo, un bicchiere che fluttua nel vuoto, un punto di luce che sovrasta un tavolo creando un tramonto tanto artificiale quanto “vero”: sono i soggetti protagonisti delle opere di Benvenuto, ai quali una mera descrizione non rende merito. Meglio immergersi in esse come accade nella mostra al MART, che riunisce le opere secondo assonanze sufficientemente vaghe per non essere didascaliche, dando vita a una successione di sottili variazioni. Fino al “fuori programma” della stanza dedicata all’autoritratto – in senso quanto mai anticonvenzionale:
è tutta questione di riflessi e l’effigie dell’artista compare solo in un piccolo dipinto (in mostra, alla prevalenza delle foto si affianca la presenza di scultura e pittura). Lo spettatore è catturato in una rete di movimenti statici perfettamente orchestrati ma precari e ambigui. Ci si interroga su verosimiglianza e surrealtà, su “chi” (l’autore, il caso, il nostro occhio) abbia posto gli oggetti in tali relazioni incongrue ma “perfette”, sulla tecnica (analogica, per la cronaca) e sullo strumento (il banco ottico). E poi ci si lascia andare al percorso visivo che ogni fotografia contiene. E alle sensazioni tattili suscitate dalle fotografie grazie alla loro grana ambigua: appartiene all’immagine o all’oggetto? Rappresenta la verità dell’oggetto che emerge grazie alla scala 1:1 o si crea internamente all’opera? Guardando le fotografie si entra in una dimensione allo stesso tempo scintillante e dimessa, sommessa e perciò eloquente. Gli oggetti in sé rinunciano a parte della loro forza per lasciar spazio alla relazione tra le cose. E in queste relazioni risiede la verità dell’opera di Benvenuto, al di là di realismi di sorta, paragoni o verosimiglianze. STEFANO CASTELLI
REGGIO EMILIA
Quattro dipinti dell’avanguardista Władysław Strzemiński (Minsk, 1893 – Łódź, 1952) rappresentano il fulcro della particolare ispirazione pittorica che ha dato vita a Two Thoughts, ciclo di opere di Svenja Deininger (Vienna, 1974). Strzemiński, allievo di Malevičodello socialista sovietico. La pittura, spogliata delle componenti narrative, dei riferimenti temporali e degli elementi spirituali simbolici, si estende, universalmente pura, sulla superficie piana. Il dialogo tra i due artisti è di notevole impatto. All’ingresso siamo accolti dai quattro dipinti di Strzemiński, identici nelle dimensioni, forti nei contrasti cromatici, densi nell’impasto materico e nel chiaro rimando all’architettura. Attraversato il corridoio, entriamo nel luminoso spazio che ospita la rilettura moderna di Deininger, caratterizzata da un’identità precisa ed elegante, che sembra colmare quel lasso temporale di un secolo che separa le due produzioni. Lo spazio si dilata, si restringe, in forme dinamiche, invisibilmente collegate. Le cromie evocano quelle di Tano Festa, così come le sagome astratte, ispirate a oggetti del vissuto quotidiano, rievocano
Giorgio Morandi. La resa materica, data dall’impasto del colore a olio con polveri di gesso, marmo o colla, dà vita a composizioni estremamente lisce, che catturano e riflettono la luce, spesso in modo simile alla seta e ai tessuti preziosi. La meticolosa sovrapposizione degli strati di pittura crea un sorprendente effetto volumetrico, suggerendo ardite peregrinazioni dello sguardo. Le tele di Deininger sono lavorate su ambo i lati e l’accostamento di tinte piatte, morbide e setose, ruvide e opache, sono un contrasto animato, incessante e virtuoso, che alimenta la sensazione di straniamento del pensiero, l’immaginazione pura. L’artista non suggerisce una chiave di lettura formale, al contrario libera lo sguardo da qualsiasi interpretazione precostituita, guidandolo tuttavia attraverso un viaggio pittorico di assoluta compostezza tecnica.
ELENA ARZANI
FRANCESCA BANCHELLI FIRENZE
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Ritratto di pensatore greco, copia romana di età flavia. Archivio ICCD GFN
VALENTINA SILVESTRINI
MARIO CRESCI ROMA
KEVIN FRANCIS GRAY FIRENZE
fino al 21 dicembre MUSEO STEFANO BARDINI musefirenze.it
gli strumenti della contemporaneità, generando nuovi segni e nuove forme, in un dialogo silenzioso e sotterraneo, il cui tema centrale nuovamente è il corpo, pregno però di una nuova psyché, di nuovi sensi e di nuovi significati socio-antropologici. Il rievocare icone attraverso le fotocopie è l’ulteriore lavoro, presentato alla galleria Matèria; un diario personale, ricco di appunti, fotografie fotocopiate, segni, memorie e ricorsi, in cui si sostituisce ancora una volta alla macchina fotografica la fotocopiatrice, intesa come strumento anonimo della modernità. Queste doppie pagine della serie Analogie e Memoria si originano dal bisogno di manipolare nuovamente la materia fotografica, per mezzo di un radicale smembramento dei processi tipici della camera oscura, volti ora a ricreare nuove figurazioni, che alludono, come nel caso delle immagini esposte presso l’ICCD, a icone contemporanee. Anche la pellicola Cronistorie, girata intorno al 1970, rievoca, in una lentezza atavica tipica della dimensione onirica, il perturbante di Freud, in cui riti, processioni religiose, maschere, sacrifici animali alludono a un tempo alterato. FABIO PETRELLI
La bellezza classica si scontra con le incertezze della contemporaneità nella rilettura di Kevin Francis Gray (Armagh, 1972), scultore che, con il non finito e la distorsione dei tratti somatici, compie una profonda analisi psicologica. Virtuosismi tecnici che non hanno solo valenza estetica, perché permeano le opere del senso della caducità dell’esistenza. Si avverte il contrasto fra la serenità del marmo e del bronzo e l’inquietudine suscitata da questi corpi tormentati che sembrano soffocare un grido di disagio esistenziale. Un tensione accentuata dal gioco di luci e ombre, pieni e vuoti, superfici ora spigolose ora più morbide, ora lisce ora grezze. Pur nella distorsione, la scultura di Gray resta sempre profondamente umana e umanistica, nella miglior tradizione rinascimentale.
L RECENSIONI L
fino al 30 ottobre ICCD | MATÈRIA iccd.beniculturali.it | materiagallery.com
Sono il tempo e la memoria i due elementi che scandiscono la ricerca fotografica di Mario Cresci (Chiavari, 1942), in cui emerge un interesse che confina con i territori dell’arte contemporanea grazie a un proprio fondamento linguistico, dove forti, però, appaiono i rimandi a una riflessione analitica che si articola intorno alle strutture e ai moduli visivi della fotografia documentaria. In questo tempo labile, cristallino e immobile si generano “presenze” che nuovamente tornano, come se la giostra dei ricordi portasse indentro, di molto, a quei paesaggi e a quella gente in bianco e nero di un tempo ancestrale e distratto, che oggi popola i cimiteri delle nostre reminiscenze, i cui frammenti statici, e poi luttuosamente mossi, non sono altro che l’espressione consapevole di un tempo reale ma profondamente distante. Quei ritratti melanconici dei contadini di Puglia e di Lucania oggi si confrontano con le effigie immacolate tratte da alcune serie fotografiche di statuaria classica che fanno parte dell’archivio del Gabinetto Fotografico Nazionale. È su questa sequenza, come in quella dell’archivio del ritrattista Mario Nunes Vais, che Cresci manipola l’immagine, e lo fa con
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fino al 12 ottobre MUSEO NOVECENTO museonovecento.it
Si abbracciano, si baciano, dialogano i fuggitivi che popolano le tele di Francesca Banchelli (Montevarchi, 1981). Possono essere abbozzati in esili silhouette o appena accennati tramite memorie di laconici visi; in altri casi, invece, si impongono in vertiginose visioni inondate di colori saturi. Sospese in tempi e luoghi indefiniti, queste figure sembrano capaci di annullare la distanza concettuale che le dovrebbe separare dagli uomini ritratti da Scipione nell’Apocalisse del 1930. Profeticamente scelta da Banchelli in epoca pre-pandemica, l’opera si carica oggi di sinistri riflessi. Eppure, anche grazie alle concrete tracce materiche delle opere installative e per la carica cromatica dei dipinti, Banchelli fa largo a una duplice prospettiva: tragica fine o nuova genesi.
NICCOLÒ LUCARELLI
STANLEY WHITNEY ROMA
fino al 17 ottobre GAGOSIAN gagosian.com
Nelle opere di Stanley Whitney (Philadelphia, 1946) c’è un’America caratterizzata da un rosso cardinale sviluppato in loco, insieme a un’Italia contraddistinta da un rosso vermiglio, lo stesso degli affreschi di Boscoreale al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Questo è solo uno degli accordi cromatici che lega le due sfere culturali, lì dove i colori di un glorioso passato camminano mano nella mano con quelli del presente all’interno di uno schema geometrico che guarda alle imponenti facciate del Colosseo, di Palazzo Farnese nonché ai ripiani delle urne funerarie del Museo Nazionale Etrusco. L’intero corpus di opere ha il ritmo deciso e allo stesso tempo morbido del jazz, mai ridondante e libero dagli schemi. VALENTINA MUZI
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on ci siamo ancora ripresi dallo yacht di Banksy, che invece di veleggiare per la Martinica va a salvare migranti a Lampedusa, che ecco ne salta fuori un’altra. E il caso è, se possibile, ancora più ghiotto, ancora più favolosamente appetitoso per gli eterni/istantanei dibattiti da social. In sintesi, l’artista britannico Saul Fletcher, presente con una grande installazione alla Punta della Dogana di Venezia (Fondazione Pinault) nell’ambito della collettiva Untitled 2020 (fino al 12 dicembre), ha ucciso lo scorso 22 luglio, a Berlino, la compagna, la storica dell’arte e curatrice statunitense Rebeccah Blum, per poi togliersi la vita. Come conseguenza del femminicidio di Fletcher, Punta della Dogana ha ritirato l’opera del fotografo britannico, aggiungendo una scarna nota nel proprio sito in cui si afferma che “Palazzo Grassi – Punta della Dogana ha deciso di rimuovere l’opera dell’artista Saul Fletcher nel rispetto della memoria di Rebeccah Blum, per esprimere solidarietà nei confronti di tutte le donne oggetto di violenza” (così la pagina web il 4 settembre 2020). La gallerista Alison Jacques, che aveva Fletcher tra i propri artisti, ha scelto immediatamente di fare lo stesso, non solo ritirando le sue opere, ma addirittura cancellando tutte le tracce dell’artista dal suo sito. Queste decisioni hanno innescato la tipica controversia virtuale: è giusto rimuovere le opere e la memoria di esse se l’artista che le ha fatte si è macchiato di una grave colpa? Oppure no, dato che l’opera è un prodotto che una volta uscito dallo studio vive una vita indipendente? Hanno ragione Punta della Dogana e la Jacques oppure gli artisti e i curatori che invece hanno protestato definendo
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queste scelte “censura”? O anche: non dovremmo fare una seria riflessione etica sui valori che intendiamo trasmettere con l’arte (e di conseguenza è sacrosanto togliere l’opera di Fletcher e anzi cancellarne le tracce), oppure quel che conta è solo l’arte, e quindi se il lavoro di Fletcher era interessante prima che diventasse un femminicida, logicamente lo resta anche dopo? Quello che hanno di bello (e atroce) queste domande, è che esse ci spingono, anzi ci obbligano, a prendere partito: con un like o con un tweet, con una riflessione a caldo o con un articolo ben ponderato, nessuno vuole che usciamo dall’alternativa secca: sei a favore o sei contro? Voti sì o voti no? Da che parte stai? Tuttavia, è esattamente qui che dovremmo esitare. Non è che tra il sì e il no ci sia una terza alternativa: è che questa logica spietatamente (barra ingenuamente) binaria non dice tutto, anzi offusca proprio il punto su cui dovremmo sforzarci di tenere estremamente vigile la nostra attenzione. Facciamo un esperimento mentale: se Fletcher fosse stato uno sconosciuto poeta interesserebbe a qualcuno se le sue poesie fossero tolte da un’oscura antologia letteraria londinese? E se fosse stato invece uno scienziato, saremmo disposti a distruggere e cancellare le sue scoperte, magari fondamentali? Ma Fletcher (abbastanza conosciuto e ben rappresentato, ma non una star) era diventato improvvisamente più noto di quanto non fosse proprio grazie alla Fondazione Pinault. È evidente che i partigiani del “teniamolo” e quelli del “togliamolo”, pur immaginandosi di avere opinioni diverse – anzi opposte –, condividono inconsapevolmente il medesimo frame, l’invisibile cornice ideologica
di riferimento. Per entrambi, quel che ha davvero significato è essere selezionati da Pinault: per tutti, anzi, il vero senso di un’opera non risiede in se stessa, ma nel prestigio (sovente semplicemente economico) di chi la espone. Nel comunicato della Fondazione Pinault un dettaglio è rivelatore: “Palazzo Grassi ha deciso…”, si dice, come se “Palazzo Grassi” non fosse semplicemente la sede fisica di una mostra, ma una sorta di Istituzione dotata di una propria, quasi divina, volontà, in grado di esprimere giudizi in terza persona e prendere decisioni indipendentemente da ogni ingerenza umana – al di là, ad esempio, di ogni responsabilità curatoriale. Le cose insomma vanno un po’ come in The Square, il film di Ruben Östlund del 2017, in cui artisti e curatori sono politicamente così corretti, che poi se ne fregano altamente di un povero cristo che chiede l’elemosina. Ma c’è di più: questa cecità nei confronti dello sfondo ideologico si riflette nell’incapacità totale di osservare davvero lo specifico che si ha davanti, di “guardare dentro” le opere d’arte: e, forse, se uno psicologo avesse scrutato in quelle di Fletcher, vi avrebbe trovato le tracce di un potenziale collezionista di ossa.
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IL COLLEZIONISTA DI OSSA testo e screenshot di
MARCO SENALDI [ filosofo ] L
Vasily Kandinsky, Paesaggio con macchie rosse, n. 2 (Landschaft mit roten Flecken, Nr. 2), 1913. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia.
emozióne [sostantivo femminile] Forte impressione, turbamento, eccitazione.
Ti aspettiamo. Il museo è aperto tutti giorni, da mercoledì a lunedì. Prenota la tua visita su guggenheim-venice.it
Dorsoduro 701, Venezia guggenheim-venice.it