Artribune 79

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Emilia Giorgi (a cura di)

Marco Petroni e Fabio Barile giro d'italia: Barletta

Saverio Verini studio visit: Ludovica Anversa

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Valentina Silvestrini

architettura

Lo stallo dell’urbanistica a Milano: parola agli architetti 34

Ferruccio Giromini

opera sexy

Spudorato Amoresano

STORIES

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IED – Istituto Europeo di Design la copertina

Santi Jonathan Di Paola MnemoOS +

Desirée Maida (a cura di) news 18

Dario Moalli libri

Un vecchio-nuovo medium per gli artisti: le mostre

Alberto Villa, Angela Vettese, Anna Detheridge, Laura Cocciolillo

QUALCHE SPUNTO SULLA

BIENNALE D’ARTE

IN CORSO A VENEZIA

Le nostre opinioni sulla "Biennale degli Stranieri": dalla mostra internazionale ai padiglioni, dai modernismi extra-occidentali al mondo del lavoro e del precariato che ruota intorno all'istituzione veneziana

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Niccolò Lucarelli

VIAGGIO NEL PORTOGALLO

Alex Urso (a cura di) short novel

Michele Botton e Pietro Sartori: Boldini e la sua musa

80

Massimiliano Tonelli

Caro politico, puoi sostituire un manager culturale. Ma solo se al suo posto ne metti uno migliore

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Irene Sanesi

Dal quiet al conscious quitting: come la cultura risignifica il mondo del lavoro

83

Santa Nastro (a cura di) talk show

Un confronto su archivi, memoria e futuro

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Fabrizio Federici Il pronto soccorso delle belle arti

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Fausto Politino Arte come magia, arte come memoria. Louise Bourgeois a Roma

66

Nicola Davide Angerame Il marmo di Luni e l’Impero di Roma. La mostra a Genova

68

Giulia Giaume Fermare il tempo e dilatarlo. Calder in mostra a Lugano

Caterina Angelucci (a cura di) osservatorio residenze

Alla residenza Tagli di Stromboli il processo è la chiave

cultura in arabia saudita

Alberto Villa

Lungo la via dell’incenso sulle tracce di antiche civiltà: la valle di AlUla

Claudia Giraud

In Arabia Saudita le stagioni sono festival culturali

CENTRALE: ARTE, NATURA E SPIRITUALITÀ

Coimbra, Aveiro e Viseu tracciano sulla mappa portoghese un triangolo in cui si intrecciano tradizioni, cultura, religione ed eclettiche architetture. Scopriamo le città e i loro dintorni in questo reportage

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Livia Montagnoli

COSÌ L’ART BONUS

HA MODIFICATO IN 10 ANNI IL MECENATISMO

CULTURALE

Nel 2014 l'allora ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini

85

Marcello Faletra Il grande gallerista Giorgio Marconi e l'arte come avventura

Valentina Silvestrini

L’inarrestabile ascesa

architettonica dell’Arabia Saudita

istituiva l'Art Bonus: i top e i flop del maggiore strumento di mecenatismo culturale in Italia a 10 anni dalla sua nascita

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Emma Sedini Federico Barocci. Il pittore della Cristiana Letizia torna a Urbino

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Giulia Giaume Nostalgia ineluttabile. A Genova la grande mostra su un ‘sentimento moderno’

73

Marta Santacatterina Come nasce una grande mostra. E luce sia: intervista al lighting designer Francesco Murano

80

Grandi Mostre in Italia in queste settimane

GIRO D'ITALIA: BARLETTA

Barletta rappresenta, nella mia geografia, un luogo prevalentemente legato alle estati della mia infanzia e dell’adolescenza. Una sostanza sottile, una pellicola invisibile mi connette con questa cittadina vicina a Canosa di Puglia, il paese di nascita di mio padre.

Io sono nato a Galatina, in Salento, dove ho vissuto fino ai 18 anni per poi iniziare un percorso nomade che mi ha portato a Bologna, Milano, New York, Amsterdam e ora a Napoli.

Le estati iniziavano con un viaggio di tutta la famiglia su una Ford Escort grigia. Eravamo in sei, mio padre alla guida, sul sedile accanto mia madre, con in braccio la mia sorellina piccola, nel sedile posteriore io, mio fratello maggiore e l’altra mia sorella.

Una famiglia italiana del Sud pronta per una lunga permanenza, da giugno a fine settembre.

Dal Salento alla BAT, dal sud al nord della Puglia.

Un cerchio sfocato di puntini da connettere: parenti, amici, luoghi, ricordi. Figure avvolte nel movimento di ricostruzione della memoria, dove visivo e olfattivo si confondono. Attorno al Castello di Barletta si addensano i pomeriggi assolati, le corse all’ombra degli alberi nei viali dei giardini pubblici. Fanciulli e fanciulle in festa, urlanti. Il mio accento salentino strideva con il suono dell’idioma barlettano.

Fughe, zoom in controluce nel vivo dei ricordi. Il sale della vicina Margherita di Savoia e la sabbia del litorale barlettano con il porto commerciale dove, di tanto in tanto, mio padre mi portava a pescare. Erano le estati dei mondiali di calcio del 1978 in Argentina e del 1982 in Spagna, ai piedi le Mecap, un brand locale di sneakers, credo che non esista più. Non avevo il tempo di comprendere i cambiamenti intorno, nella città di Barletta. Ascoltavo i commenti a tavola, si citavano famiglie che si arricchivano investendo nel tessile o nella logistica. Il mio corpo, da un anno all’altro, cambiava veloce.

E nell’estate, esplodeva in tutta la sua crescita. In spiaggia, i miei occhi fissavano i particolari: il costume fluo di un amico dell’anno precedente, le alghe sul fianco di una ragazzina. I muscoli tesi di chi giocava a calcio sotto il sole, le caviglie sporche di sabbia, il fuoco del barbecue, l’odore del pesce acquistato dai pescherecci al rientro nel porto. Tutto si ricompone. Barletta è vicino a Molfetta come cantavano, sulla base di New York, New York, Renzo Arbore e Lino Banfi alias Pasquale Zagaria, amico del mio papà che non c’è più.

Da sempre, Barletta ama le sfide e le disfide. Ci sono tornato anche in anni recenti per osservare le sue aperture sull’arte contemporanea grazie alla caparbia Giusy Caroppo che, come affermava Achille Bonito Oliva con il suo noto spirito guascone: “È la curatrice più brava e famosa… di Barletta”. Ma i ricordi, la memoria è più forte delle mostre nel fossato del Castello o dei fascinosi dipinti della gloria barlettana Giuseppe De Nittis, ospitati nella Pinacoteca di Palazzo Della Marra con il suo severo bugnato.

Barletta è il suo mare, è le mie estati invase di nuove amicizie, di corse, fughe nelle ore bestiali della calura meridionale. Il porto, il mare, la spiaggia decentrata e i casermoni popolari, le serrande abbassate lungo strade deserte alla controra. I motorini allineati sui marciapiedi parcheggiati di traverso, ciascuno con i loro adesivi: El Charro, Timberland, Best Company, Levi’s, e poi le scritte sul serbatoio di un Ciao, di un Bravo o di una Vespa “… ti amo”. Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente sono vita e morte che si urlano contro. Non c’era niente da fare a Barletta per chi non ci viveva. Vista da fuori era desolante. Per me era la gioia dell’estate, della luce, dei pomeriggi senza fine. I cartelli ritorti agli svincoli e al rientro, l’immancabile segnale: TUTTE LE DIREZIONI.

Fabio Barile, Among , 2008 - 2021. Courtesy l'autore

a cura di EMILIA GIORGI

MARCO PETRONI teorico e critico del design [testo]
FABIO BARILE [foto]

STUDIO VISIT LUDOVICA ANVERSA

La pittura di Ludovica Anversa è fatta di affioramenti e apparizioni. Dalla tela emergono organismi primordiali, quasi impalpabili; ipotesi di figure che prendono forma attraverso un processo di messa a fuoco graduale, a seguito del quale il dipinto rimane comunque in una zona contesa tra astrazione e figurazione. A partire da questa intrigante indecisione, Anversa propone una pittura insieme primordiale e contemporanea, a volte disidratata e altre animata da colori più squillanti; una pratica tenuta in piedi da felici contrasti che necessita di un tempo di decantazione per essere compresa e penetrata.

In un momento in cui molta pittura, soprattutto quella praticata dagli artisti più giovani, sembra rivolgersi verso una figurazione esplicita e a volte quasi illustrativa, tu prediligi immagini meno nette e risolute. Si tratta di una scelta di natura puramente formale o è anche una presa di posizione che ha a che fare con il modo – spesso frenetico – di produrre e guardare alle immagini oggi?

Come molti, appena ho iniziato a dipingere i miei quadri erano prettamente figurativi. Ho sempre collezionato un’infinità di immagini, in modo quasi bulimico. Col tempo mi sono resa conto che l’idea di “rappresentare”, scegliendo che cosa dipingere, qualcosa che avevo già progettato e, dunque, in qualche modo già visto, mi annoiava. Continuo ad avere tanti spunti visivi mentre dipingo, ma le immagini che guardo servono a segnare la tela e fungono più da diagramma che da soggetto.

Riflettendo sulla quantità di materiale visivo che dobbiamo digerire ogni giorno, più o meno volontariamente, sento la necessità di non produrre e aggiungere ulteriori narrazioni esplicite per lo sguardo. Non penso a un mondo onirico o surreale quando dipingo; preferisco l’idea di allucinazione a quella di sogno. Quando riesco ad allentare la presa dalle immagini che guardo e a farle fluire nel mio vocabolario pittorico, provo un temporaneo ma profondo sollievo. In questo momento definirei i miei quadri semi-astrazioni; mi piace quest’idea di liminalità, di indugiare sotto una soglia e abitarla. Come scrive Byung-Chul Han: “Le soglie possono spaventare o angosciare, possono anche rendere felici o incantare. Le soglie stimolano fantasie rivolte all’Altro”.

Alcuni tuoi dipinti sembrano delle radiografie di embrioni, come se fossero originate da un occhio o un inconscio tecnologico. A questo sguardo “clinico” e apparentemente anestetizzato, si affianca una sensibilità per ciò che è organico, viscerale, vischioso. Come si conciliano queste due dimensioni?

Non so se lo userei come termine per parlare del mio sguardo, ma sicuramente mi interessa quello sguardo “clinico” – come tu lo hai definito – a cui tutti i corpi sono quotidianamente sottoposti.

Quando riesco ad allentare la presa dalle immagini che guardo e a farle fluire nel mio vocabolario pittorico, provo un temporaneo ma profondo sollievo

Ogni rappresentazione tecnologica del corpo, come può essere l’ecografia, si porta dietro dei fantasmi e può essere innovativa e utile, ma anche rafforzare paradigmi di oppressione e controllo.

In questo senso, mi piace che le mie immagini sembrino manifestarsi sotto una sorta di filtro che ne rende la visione indiretta, dal quale sembrano emergere a fatica, ma con grazia. Oppure, che evochino visioni spettrali e intangibili, simili a ectoplasmi.

Dall’altro lato, alcuni miei dipinti si avvicinano maggiormente a residui immersi nella nebbia, a ritrovamenti, altre volte alla carne viva e alla ferita.

Mi interessa sfiorare diverse corde della sensibilità e lasciare l’apertura sufficiente a chi guarda per farsi toccare “dove vuole”.

Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

Mi eccita molto trovare dei riferimenti a posteriori, magari leggendo qualcosa che avevo scelto senza pensare al mio lavoro e che invece finisce per illuminarmi sulla mia stessa pratica.

Rileggo spesso le poesie di Alejandra Pizarnik, con la quale sento un forte legame. Un libro che mi ha ispirata molto di recente è Il corpo lesbico di Monique Witting. Mi piacciono molto i film di Yorgos Lanthimos e di Leos Carax. Poi leggo molti saggi.

C’è una ricerca continua che plasma il mio immaginario e i miei ideali, in primis come persona. Inevitabilmente questa parte si interseca con il lavoro e così alcune opere possono diventare un incipit per parlare di tematiche che mi stanno a cuore.

Però c’è anche una parte immanente alla pittura, vagamente dissociativa, che riguarda solo e soltanto il processo e la materia. Penso alla tela come a un’interfaccia permeabile, una membrana capace di assorbire, inglobare e risputare informazioni e segni.

Che spazio occupa la natura nella tua pittura?

Nonostante le forme biomorfe, fitomorfe e organiche che emergono nei miei dipinti, non dico spesso di ispirarmi alla natura, in quanto credo che la nostra idea di “natura” sia un costrutto complesso e problematico. Molte volte, i miei riferimenti vengono da

Ludovica Anversa è nata nel 1996 a Milano, dove vive e lavora. Ha studiato Pittura e Arti Visive alla NABA di Milano. Le figure nei suoi dipinti abitano spazi non-narrativi, nei quali il corpo emerge come entità permeabile e ricettiva. La sua pittura esplora il confine tra figurazione e astrazione, aprendo un vasto spettro di ombre e impressioni, presenze ambigue e vulnerabili. Ha partecipato alle residenze di Manifattura Tabacchi, Firenze (2020) e Palazzo Monti, Brescia (2020). Le sue mostre includono: Fondazione La Rocca, Pescara (2024); MAC Museo d’arte contemporanea, Lissone (2023), Galleria The Address, Brescia (2023), Galleria Massimo Minini, Brescia (2022), New Galerie, Parigi (2022); ArtNoble, Milano (2021); Galleria Renata Fabbri, Milano (2021); Fondazione Adolfo Pini, Milano (2018). Nel 2021 è stata la vincitrice del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee.

Ludovica Anversa, Autotomia , veduta dell’installazione alla Fondazione La Rocca, 2024
Ludovica Anversa, Autotomia , 2023, olio su lino, 140 x 100 cm ognuno

NEI NUMERI PRECEDENTI

#58 Mattia Pajè

#59 Stefania Carlotti

#61 Lucia Cantò

#62 Giovanni de Cataldo

#63 Giulia Poppi

#64 Leonardo Pellicanò

#65 Ambra Castagnetti

#67 Marco Vitale

#68 Paolo Bufalini

#69 Giuliana Rosso

#70 Alessandro Manfrin

#71 Carmela De Falco

#72 Daniele Di Girolamo

#73 Jacopo Martinotti

#74 Anouk Chambaz

#75 Binta Diaw

#76 Clarissa Baldassarri

#77 Luca Ferrero

#78 Francesco Alberico

quelle che James Elkins chiama “informational images”, ovvero tutte quelle che non hanno direttamente a che fare con le belle arti e che “la storia dell’arte ha trattato [...] come fonti subalterne per l’interpretazione delle belle arti, piuttosto che come immagini interessanti di per sé”. Tra queste ci sono quelle scientifiche, mediche e anatomiche di varie epoche, che sempre Elkins definisce come “l’ombra delle rappresentazioni del corpo nelle belle arti”.

E invece, tra gli artisti visivi, senti di poter dichiarare delle influenze?

Guardo arte di periodi estremamente diversi; allo stesso tempo, cerco di mantenere la distanza necessaria a non rendere il mio lavoro derivativo. Quando osservo il lavoro di altri, cerco di percepire una vicinanza di pensiero. Spero che i miei riferimenti e gli artisti che amo risuonino indirettamente nel mio lavoro. Scegliendone tre dal secolo scorso: Georgia O’ Keeffe, Hilma Af Klint, Forrest Bess.

Hai 28 anni e all’attivo diverse mostre significative, come quella – recente –

Mi interessa sfiorare diverse corde della sensibilità e lasciare l’apertura sufficiente a chi guarda per farsi toccare “dove vuole”

alla Fondazione La Rocca di Pescara o alla galleria Massimo Minini di Brescia. Come valuti la tua condizione di artista in Italia alla soglia dei trenta?

Quali occasioni ti piacerebbe avere e quali sono i tuoi prossimi progetti?

Negli ultimi anni ho cercato di iniziare a costruire un mio network e di fare esperienze qui in Italia che, appunto, fossero significative e creassero una buona base. Rimanere qui mi ha permesso di sviluppare una grande costanza nella mia pratica. Tuttavia, sento che presto avrò l’esigenza di spostarmi maggiormente e spero di avere occasione di fare più esperienze all’estero.

Per quanto riguarda la soglia dei trent’anni, mi auspico che diventi sempre meno un confine cruciale; a volte ho la sensazione che prima si venga percepiti un po’ meno seriamente e, subito dopo, sia molto frequente sentire di non aver fatto abbastanza. I miei progetti più imminenti sono una residenza a Dolomiti Contemporanee e una mostra collettiva a Spazio Contemporanea (Brescia), curata dalla galleria The Address.

Ludovica Anversa, Aurora 2024, olio su lino, 145 x 70 cm
Ludovica Anversa, Shadow , 2024, olio su lino, 145 x 70 cm
Ca’ Pesaro
Galleria Internazionale d’Arte Moderna Santa Croce 2076, 30135 Venezia

LA COPERTINA

MNEMOOS

SANTI JONATHAN DI PAOLA

A ospitare la 15esima rassegna di Manifesta, la biennale d’arte contemporanea itinerante che dal 1996 – anno della sua prima edizione – osserva e riflette sui fenomeni sociopolitici del mondo attuale, sarà la città di Barcellona, insieme a dieci città metropolitane della Catalogna. Manifesta 15 mira a esplorare strutture urbane e di mobilità alternative e nuovi modi per collegare comunità e infrastrutture sociali e artistiche.

In linea con questo obiettivo abbiamo selezionato per questa copertina di Artribune il progetto MnemoOS di Santi Jonathan Di Paola, studente del Corso di Laurea Magistrale in Transdisciplinary Design – Mobility presso IED Torino, che esplora il tema della mobilità con l’obiettivo di promuovere interventi strategici e responsabili, tenendo conto degli impatti sociali, culturali, tecnologici ed economici. Il progetto MnemoOS immagina un futuro in cui ognuno sarà accompagnato da una AI digitale zoomorfa che, crescendo, monitora la carbon footprint dell’individuo e lascia una traccia transgenerazionale accessibile attraverso stazioni-caveau che diventano luoghi di immaginazione collettiva.  Siamo nel 2044. Gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale hanno reso possibile creare agenti intelligenti multimodali per qualsiasi compito, con un’intelligenza simile a quella umana e accesso a qualsiasi tipo di dati in tempo reale.

In provincia

di Salerno torna il Giffoni Film Festival

CATERINA ANGELUCCI L Tra anteprime, eventi speciali, workshop e ospiti d’eccezione la rassegna cinematografica dedicata a bambini e ragazzi inaugura la sua 54esima edizione riflettendo sul concetto di isolamento nelle nuove generazioni. Dal titolo L’illusione della distanza il festival, in programma dal 19 al 28 luglio 2024, indaga la paura dell’altro, del diverso e del lontano insieme a 5000 giurati provenienti da 33 Paesi del mondo per valutare gli oltre 100 film in concorso. Inoltre, sarà possibile incontrare durante il festival Paolo Bonolis, i protagonisti di Io capitano di Matteo Garrone Seydou Sarr e Moustapha Fall, il giornalista Paolo Celata, Egidia Beretta Arrigoni, madre di Vittorio Arrigoni, l’attivista assassinato a Gaza, il consigliere di Papa Francesco Padre Paolo Benanti, Nico Acampora di PizzAut e l’astronauta Walter Villadei, tra gli altri.

MnemoOS è un agente intelligente nato per migliorare l’esperienza della mobilità urbana, con l’obiettivo di far percepire agli utenti il contesto circostante come “vivo”, creando interazioni e connessioni profonde, facendo sentire le persone meno sole. Combina l’esperienza di un Saggio alla natura protettiva di un Guardiano, aiutando gli utenti a rendere ogni viaggio significativo. Crea una narrazione che collega le esperienze di viaggio alla vita dell’utilizzatore e tiene traccia degli spostamenti e della carbon footprint dell’utente, aiutandolo a bilanciare le proprie emissioni attraverso attività compensative.

Scopri i dettagli del progetto seguendo il QR code qui a fianco

IED x ARTRIBUNE

Il progetto Fragile Surface si propone di raccontare attraverso immagini e contenuti multimediali realizzati da studentesse, studenti e Alumni dell’Istituto i temi centrali della contemporaneità. Per il secondo anno di collaborazione abbiamo scelto di affidarci ai temi delle più importanti manifestazioni di arte e design, prendere in prestito spunti di riflessione e restituire immagini fragili ma potenti. Superfici sottili che racchiudono complessi punti di vista.

Le biennali (triennali – quadriennali – quinquennali) sono l’occasione per artisti e designer di riflettere sugli argomenti centrali della contemporaneità. Partendo da manifestazioni del recente passato e tenendo in considerazione le tematiche delle prossime, cercheremo collegamenti espliciti o implicite contrapposizioni e ci interrogheremo proponendo un punto di vista inedito: quello di giovani persone che si affacciano sul futuro.

A Roma una stazione della metro riapre tutta nuova con una grande opera d’arte in collaborazione col Museo MAXXI

VALENTINA MUZI L La stazione Metro A Vittorio Emanuele di Roma torna attiva a luglio 2024 e accoglie i viaggiatori con una grande opera site specific. Si intitola Prospettiva comune, ed è il nuovo intervento firmato da Esther Stocker (Silandro, 1974) che trasforma l’atrio della stazione metropolitana in un grande reticolato con 8mila metri di nastro adesivo nero su fondo bianco. Pareti, soffitti, pilastri e dispositivi di accesso vengono totalmente travolti da linee ortogonali che danno forma a una serie di elementi geometrici, intercettando lo sguardo dei passanti. L’installazione – fruibile fino a dicembre – è frutto della collaborazione tra il Museo MAXXI di Roma e l’azienda di trasporto pubblico ATAC, e si inserisce nell’ambito della mostra record Ambienti 1956 -2010. Environments by women artists II, a cura di Andrea Lissoni, Marina Pugliese e Francesco Stocchi, in programma al museo d’arte contemporanea romano sino al 20 ottobre. “Siamo molto felici di questa collaborazione con ATAC”, racconta il presidente del MAXXI Alessandro Giuli, “che ci permette di portare l’arte del XXI secolo nel cuore della città, a contatto con migliaia di romani e di turisti”.

Nuovi direttori e direttrici per musei e dipartimenti. Tra ipotesi e nomine

GIULIA GIAUME L Cambia il panorama delle direzioni in mezza Italia, tra nomine ufficiali e richieste informali. Vediamole.

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I QUATTRO NUOVI SUPER DIPARTIMENTI

DEL MINISTERO DELLA CULTURA

La riorganizzazione del MiC - che fa capo alla Riforma disposta dal ministro Gennaro Sangiuliano, in vigore dallo scorso 18 maggio - ha previsto la soppressione del Segretariato Generale e la sua sostituzione con 4 dipartimenti tematici, a cui sono stati assegnati altrettanti direttori e direttrici. Sono il DIAG – Dipartimento per l’amministrazione generale con funzioni trasversali, che verrà guidato da Paolo D’Angeli, già a capo della Direzione Generale Bilancio; il DIT – Dipartimento per la tutela del patrimonio culturale e del Paesaggio, che sarà tenuto da Luigi La Rocca, già direttore generale Archeologia, Belle arti e Paesaggio con funzioni di direzione della Soprintendenza Speciale per il PNRR; il DIVA –Dipartimento per la valorizzazione del patrimonio culturale, che è stato assegnato ad Alfonsina Russo, già direttrice del Parco Archeologico del Colosseo; e il DIAC – Dipartimento per le attività culturali, per la cui guida è stato scelto Mario Turetta, già a capo del Segretariato Generale (ora soppresso).

CRISTIANA COLLU ALLA FONDAZIONE

QUERINI STAMPALIA DI VENEZIA

Cristiana Collu è stata selezionata come nuova direttrice della Fondazione Querini Stampalia di Venezia. Uscente da un doppio mandato (di grande successo) alla Galleria Nazionale di Roma, la storica dell’arte, curatrice, manager e docente universitaria approda da settembre, e per tre anni, alla prestigiosa istituzione veneziana (il cui bando aveva fatto molto discutere negli scorsi mesi per via della sua ampiezza). Nata nel 1869 su iniziativa di Giovanni Querini Stampalia, la fondazione ha l’obiettivo di “promuovere il culto dei buoni studi e delle utili discipline”. Ospitata in un palazzo storico restaurato da Carlo Scarpa, con interni curati da Valeriano Pastor e Mario Botta e allestimento di Michele De Lucchi, la fondazione ha un museo con opere di Bellini, Palma il Vecchio Tiepolo e Longhi, una preziosa biblioteca (con quasi 400mila volumi tra manoscritti, incunaboli, cinquecentine, stampe, incisioni e fotografie) e aree dedicate a mostre d’arte contemporanea, che negli anni hanno ospitato artisti di grande fama come Joseph Kosuth, Michelangelo Pistoletto, Kiki Smith, Mona Hatoum, Danh Vō, Isamu Noguchi e Park Seo-Bo.

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CHRISTIAN GRECO CHIAMATO DAL MUSEO DI ÖTZI A BOLZANO Il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco, stimato egittologo e da dieci anni lungimirante guida dell’istituzione, è stato chiamato a dirigere il Museo di Ötzi a Bolzano. La volontà del Museo Archeologico dell’Alto Adige - che ospita e deve il suo nome alla celebre mummia dell’Età del Rame ritrovata nei ghiacci nel 1991 (completa di equipaggiamento e indumenti) - porrebbe un punto alla vicenda delle nomine in scadenza del Museo Egizio. Che oltre al direttore coinvolgono la presidente della Fondazione del Museo delle Antichità Egizie, Evelina Christillin, e il consiglio di amministrazione. Da mesi le successioni sono al centro di polemiche politiche.

DIRETTORE

Massimiliano Tonelli

DIREZIONE

Santa Nastro [vicedirettrice]

Desirée Maida [caporedattrice]

COORDINAMENTO MAGAZINE

Alberto Villa

Giulia Giaume [Grandi Mostre]

REDAZIONE

Caterina Angelucci | Irene Fanizza

Claudia Giraud | Livia Montagnoli

Valentina Muzi | Roberta Pisa

Emma Sedini | Valentina Silvestrini

Alex Urso

PROGETTI SPECIALI

Margherita Cuccia

PROGETTO GRAFICO

Alessandro Naldi

PUBBLICITÀ

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COPERTINA ARTRIBUNE

MnemoOS, Santi Jonathan Di Paola, 2024 Frame da video realizzato con IA Courtesy IED Istituto Europeo di Design - 2024

COPERTINA GRANDI MOSTRE

Louise Bourgeois, Cell XX (Portrait), 2000 Acciaio, tessuto, legno e vetro Private Collection, New York

STAMPA

CSQ — Centro Stampa Quotidiani via dell’Industria 52 — Erbusco (BS)

DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Cuccia

EDITORE & REDAZIONE

Artribune s.r.l. Via Ottavio Gasparri 13/17 — Roma redazione@artribune.com

Cristiana Collu, foto di Adriano Mura

Christian Greco photo Museo Egizio di Torino

Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 184/2011 del 17 giugno 2011

Chiuso in redazione il 18 luglio 2024

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UN VECCHIO-NUOVO MEDIUM PER GLI ARTISTI: LE MOSTRE

Può una mostra essere un medium artistico?

A questa complessa domanda risponde Vincenzo Di Rosa con il suo saggio Mostra come medium pubblicato da Mimesi Edizioni. Questo prezioso volume si addentra in un ambito di studi ancora poco battuto per raccontare come le mostre siano a tutti gli effetti state utilizzate dagli artisti come veri e propri medium con i quali esplorare ed ampliare gli orizzonti espositivi tradizionali. L’approccio proposto dall’autore cambia, o meglio, definisce con consapevolezza il ruolo di mediazione sempre agito dalla mostra, invitando “ad assumere una determinata modalità di visione”. L’altro aspetto specifico delle mostre è che queste si fondano su una dipendenza da altri medium che in essa sono contenuti. Proseguendo nella lettura, l’autore ci accompagna nell’analisi della trasformazione della mostra in medium artistico, quindi agito in prima persona da chi ne è parte “esposta”. Ciò che differenzia la mostra come medium è lo “spostamento dell’attenzione dal singolo oggetto alla rete che tiene assieme i vari oggetti”. A questo aspetto fondamentale vanno aggiunti la sovrapposizione tra pratica artistica e attività curatoriale, così come l’appropriazione simbolica dello spazio espositivo.

A partire da questi aspetti vengono raccontate una serie di mostre particolarmente esplicative, divise per approcci e finalità: le “Mostre Labirinto”, nate in risposta al modello dei White Cube, sono un vero e proprio filone. Esemplificativo di questo genere è l’esposizione Les Immatériaux tenutasi al Centre Pompidou nel 1983 e curata da Jean-Francois Lyotard: in questa mostra l’obiettivo è quello di portare a espressione una tensione instabile e transitoria, facendo smarrire lo spettatore in un dedalo di sensazioni e percorsi. Un’altra tipologia di mostra presa in esame è quella di tipo “Politico-Attivista”: in questo caso, viene presa in analisi l’attività espositiva del Group Material, come la mostra del 1981 intitolata The People’s Choice, per la quale agli abitanti del Lower East Side fu chiesto di portare nello spazio espositivo degli oggetti personali che reputavano importanti, cambiando così il paradigma del concetto di opera d’arte, la sua autorialità e la sua forza di inclusività. Un’altra categoria è quella delle “Mostre Anti-Museo” il cui esempio probabilmente più importante è Viewing Matters: Upstairs Mixed Message del 1996, tenutasi al Museum Boijmans di Rotterdam. In questa mostra Hans Haacke modificò radicalmente l’esposizione permanente del museo olandese e, imitando il caotico display del magazzino del museo, volle rendere visibile l’influenza della storia dell’arte e delle istituzioni sulla costruzione di una coscienza sociale. Raid the Icebox 1 with Andy Warhol è invece una tipologia che si può definire come “Autoritratto”: l’artista, attingendo sempre dal deposito del museo,

Il nuovo libro di Vincenzo Di Rosa approfondisce le modalità attraverso cui la mostra diventa un effettivo medium della pratica artistica, al di là dei mezzi tradizionali. Uno spostamento di fuoco e di scala dell’opera d’arte che ha radici profonde e sviluppi ancora poco esplorati

Vincenzo Di Rosa

Mostra come Medium

Mimesis Edizioni, 2024 pag. 284, € 28,00 ISBN 9788857593265 mimesisedizioni.it

in questo caso il RISD Museum, selezionò totalmente a suo gusto oltre quattrocento oggetti compresi in un arco temporale che andava dal 1.000 a.C. fino al 1966, allestendoli esattamente come si trovavano nel deposito. L’autoritratto di Warhol emerge dal suo gusto e dalla rappresentazione di se stesso, in bilico tra elitario e popolare, tra raffinato e pacchiano.

Ultima tipologia di mostra presa in esame è quella delle “Mostre Fiction”, come quella allestita al Reina Sofia da Dominique Gonzalez-Foerster ed Enrique Vila-Matas, intitolata Splendide Hotel. Questa esposizione prende vita nel corso di due anni su una “storia segreta” scritta da due artisti per configurare lo spazio in cui è stata allestita la mostra “una costellazione finzionale, transitoria fluttuante. Chiude il libro l’analisi approfondita di due esposizioni, una di Philippe Parreno e l’altra di Pierre Huyghe, rappresentative di un approccio, di una modalità artistica, l’arte relazionale, che dagli Anni Novanta ha cambiato radicalmente non solo la concezione di mostra ma anche quella di opera d’arte. Questo ulteriore sviluppo si caratterizza per un coinvolgimento attivo dei luoghi, del tempo, degli spettatori. Quest’ultimi in particolare diventano un elemento vitale e attivo del processo di trasformazione dell’opera e quindi della mostra.

Non sai cosa leggere sotto l’ombrellone? Ecco alcuni consigli

Philippe Descola, L’arte prima dell’arte, Marsilio, 2024

Paola Zoppi, In Messico con Frida Khalo. L’autoritratto come geografia, Giulio Perrone Editore, 2024

Federica Boragina (a cura di), Vincenzo Agnetti. Scritti d’arte (1959-1981), Abscondita, 2024

Per approfondire questi titoli e scoprirne altri, segui il QR code qui in basso

PAROLA ALL’AUTORE

Per approfondire i contenuti del libro e non solo, abbiamo intervistato

Vincenzo

Di Rosa. In

che modo una mostra

può farsi medium? Il curatore diventa quindi un limite all’artista? Quanto sono diffuse le mostre come medium oggi? Le risposte dell’autore.

Qual è il discrimine che esiste tra una mostra tradizionale e una mostra come medium?

Ogni mostra è un medium. Allo stesso modo del cinema, della televisione o della radio, la mostra è un mezzo di comunicazione. Nel libro provo a definire un utilizzo artistico di questo medium. Un utilizzo che differisce in maniera sostanziale da quello canonico. Nelle tradizionali esposizioni d’arte contemporanea ci troviamo difronte a una disposizione di oggetti e opere più o meno coerente, selezionati e ordinati secondo criteri curatoriali o storico-artistici. Queste mostre hanno, generalmente, un carattere transitivo: sono sistemi “al servizio” di ciò che presentano e assolvono a una funzione di mediazione. Le esposizioni-opere, invece, sono mostre che mostrano innanzitutto se stesse. Non sono occasioni dimostrative, ma momenti creativi che rompono i margini della presentazione e mettono al centro la loro logica, il loro funzionamento, piuttosto che gli oggetti, le immagini e gli artefatti che accolgono. Nel libro le paragono a delle “cornici giganti”, delle cornici fuori scala, che invece di “servire” o accompagnare l’opera d’arte, la invadono, la trasfigurano e diventano esse stesse opere d’arte.

Gli artisti hanno avuto e hanno la consapevolezza di utilizzare le mostre come un medium artistico o la mostra diventa un medium perché quest’ultima entra a far parte della poetica e della pratica artistica?

Gli artisti che hanno utilizzato le esposizioni come medium artistico, nella maggior parte dei casi, lo hanno fatto in maniera consapevole, e hanno concepito la curatela come parte integrante della loro pratica artistica. Penso al Group Material, che all’inizio degli Anni Ottanta ha organizzato diverse mostre partecipative in un piccolo spazio nel Lower East Side di New York, o anche a un artista come Fred Wilson che, nel 1992, ha riallestito la collezione del Maryland Historical Society a Baltimora. A partire dagli Anni Novanta, la consapevolezza di un’effettiva “condizione curatoriale” – come l’ha definita David Joselit – ha fatto si che diversi artisti iniziassero ad agire su quello spazio

bio

Vincenzo Di Rosa (1992, Caserta) è assegnista di ricerca all’Università IULM di Milano, dove nel 2021 ha conseguito il dottorato di ricerca in Visual and Media Studies. È stato Visiting Research Scholar all’Università della California di Irvine. Ha pubblicato saggi in volumi e riviste scientifiche ed è autore di diverse voci dell’Enciclopedia dell’Arte Contemporanea della Treccani (2021). È Editor-at-Large di Flash Art Italia.

di confine che esiste tra opera d’arte e spettatore. In questo senso, è stata fondamentale l’attività di artisti come Philippe Parreno, Dominique Gonzalez-Foerster, Maurizio Cattelan, Pierre Huyghe, Thomas Hirschhorn, Sophie Calle, che, in maniera sicuramente differente, hanno pensato i propri lavori in relazione o in risposta a determinati contesti espositivi; hanno ragionato sulle modalità di presentazione delle loro opere, sulla presenza e la posizione dell’osservatore, e hanno quindi spostato il cuore della loro pratica dalla produzione di opere d’arte intese come “oggetti finiti” alla costruzione di situazioni, ambienti, mostre. Si tratta di un metodo progettuale che, volendo ricostruire una piccola genealogia, affonda le sue radici nel Pavillon du Réalisme di Gustave Courbet, nel Kabinett der Abstrakten di El Lissitzky, negli allestimenti duchampiani degli Anni Trenta e Quaranta, nell’ostinata contestazione di Daniel Buren, nel Musée d’Art Moderne - Département des Aigles di Marcel Broodthaers.

Dopo aver letto il libro mi chiedo se la figura del curatore non sia in molti casi un limite nello sviluppo della pratica artistica che potenzialmente potrebbe sempre includere la realiz-

zazione della mostra stessa da parte dell’artista o degli artisti coinvolti. Non credo che per gli artisti interessati a riflettere sulle potenzialità del medium espositivo la figura del curatore costituisca un limite, anzi. Un curatore che si relaziona a una simile pratica deve essere capace di ricalibrare le proprie azioni dal momento che, non potendo più intervenire sulla “scrittura” espositiva, deve in ogni caso facilitare e a rendere accessibile il lavoro dell’artista, assumendo una funzione di mediazione. Il curatore diventa un “limite” quando utilizza le opere d’arte per giustificare le proprie teorie e le proprie convinzioni. Quando tratta gli artisti come figurine per riempire buchi e coprire minoranze. Quando si piega ai ritmi di un sistema ipertrofico che necessita sempre di nuovi contenuti e di nuove tematiche. Quando non ascolta gli artisti, quando ne segue cinquanta, sessanta, settanta, senza conoscerne realmente il lavoro. Quando basa le sue mostre sull’ultimo libro di Theory Quando trasforma l’opera in pretesto e non ne indaga il segreto, il silenzio.

Guardando al panorama attuale vedi un approccio diverso da parte di artisti e curatori nella realizzazione delle mostre? C’è un interrogarsi sulle potenzialità della mostra come medium nel dibattito contemporaneo? Nel panorama contemporaneo vedo senza dubbio una grande attenzione alla questione del display – penso ad alcune mostre di Michael E. Smith e Nina Beir, ma anche al lavoro di tre artisti italiani che apprezzo molto, come Alessandro Di Pietro, Anna Franceschini e Alfredo Aceto. Tuttavia, soprattutto in Italia, credo si insista molto sui linguaggi tradizionali della pittura e della scultura, e sulle sperimentazioni nel campo del video e della fotografia. Non penso che tutti gli artisti debbano necessariamente interrogarsi sulle potenzialità della mostra come medium, ma credo che tutti debbano rendersi conto del “potere” curatoriale, e dell’influenza che ogni atto di mediazione ha sull’opera d’arte. Il libro che ho scritto, sebbene si rivolga a storici dell’arte, a curatori e a critici, spero che in realtà possa servire soprattutto gli artisti.

Cavalli, cavalieri e antiche divinità: Marino Marini in mostra al Forte di Bard

CATERINA ANGELUCCI L Sono cavalli e cavalieri i soggetti più conosciuti di Marino Marini (Pistoia, 1901 – Viareggio, 1980), che nel corso della sua produzione ha trasformato in un tramite per leggere la realtà e la condizione umana. Oltre a questi, anche guerrieri, antiche divinità, giocolieri e danzatrici compongono Arcane fantasie, fino al 3 novembre 2024 al Forte di Bard, in Valle d’Aosta, a cura di Sergio Risaliti. In mostra, tra sculture, dipinti e grafiche, sono presenti opere iconiche dell’artista provenienti dal Museo Marino Marini di Firenze, dalla Piccola danzatrice, un olio su tavola del 1927, al Guerriero, realizzato tra il 1958 e il 1959, concesso dalla Camera dei Deputati e il prezioso Gentiluomo a cavallo del 1937. Tutti questi soggetti, dall’inizio alla fine di una vasta produzione artistica, conservano la presenza di qualcosa di antico e ancestrale, tra ritorno dell’arcaico e supremazia del sogno e della fantasia.

NECROLOGY

PERLA ZÚÑIGA (1996 - 14 LUGLIO 2024)

L SHANNEN DOHERTY (12 APRILE 1971 – 13 LUGLIO 2024)

L BILL VIOLA (25 GENNAIO 1951 – 12 LUGLIO 2024)

L SHELLEY DUVALL (7 LUGLIO 1949 – 11 LUGLIO 2024)

L FRANCESCA TULLI (1956 – 7 LUGLIO 2024)

L AGOSTINO MOROSO (28 AGOSTO 1930 – 26 GIUGNO 2024)

L DONALD SUTHERLAND (17 LUGLIO 1935 – 20 GIUGNO 2024)

L BARBARA GLADSTONE (21 MAGGIO 1935 – 16 GIUGNO 2024)

L ATTILIO CASSINELLI (18 GIUGNO 1923 – 7 GIUGNO 2024)

L MILENA UGOLINI (1931 – 5 GIUGNO 2024)

L BEN VAUTIER (18 LUGLIO 1935 – 5 GIUGNO 2024)

A New York il Metropolitan dedica una mostra alla grande arte senese del Trecento

CATERINA ANGELUCCI L All’alba del Rinascimento, Siena fu decisiva nelle vicende e nell’evoluzione della pratica pittorica, e il Metropolitan Museum of Art di New York ne celebra la storia approfondendo i primi cinquanta anni del Trecento, periodo in cui la città fu epicentro di innovazione e sperimentazione artistica. Siena: The Rise of Painting, 1300–1350, in arrivo in autunno (13 ottobre 2024 – 26 gennaio 2025) in America si sposterà poi in Europa, inaugurando alla National Gallery di Londra (8 marzo – 22 giugno 2025), da cui provengono numerose opere in mostra. Oltre a queste anche prestiti di altri importanti realtà internazionali, per un totale di circa 100 capolavori, tra dipinti, sculture, tessuti e oggetti in metallo, tra cui la Madonna Stoclet di Duccio, l’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti e importanti riunificazioni come la predella della Maestà di Duccio e il Polittico Orsini di Simone Martini.

Cortona On The Move 2024. Il festival di fotografia diffusa in un borgo in Toscana

CLAUDIA GIRAUD L Cortona On The Move, festival di fotografia diffusa nell’omonimo borgo medievale in provincia di Arezzo, sotto la direzione di Paolo Woods e Veronica Nicolardi, quest’anno dura fino al 3 novembre e offre una mostra per i più piccoli. Con un obiettivo costante: “promuovere quel tipo di fotografia che fa riflettere su tematiche importanti”, spiega Nicolardi, “facendo incontrare la comunità in un contesto accessibile. Come una mostra per bambini, pensata per fornire a loro, come a tutti, gli strumenti di comprensione dell’immagine e così del mondo che ci circonda”. Il tema di quest’anno, Body of Evidence, si declina in 6 location e 22 mostre, di cui 4 collettive e 18 individuali. Tra quelle di nuova produzione, c’è Cronache d’acqua - Immagini dal Nord Italia, nata dalla commissione al collettivo di fotografi Cesura, in partnership con Intesa Sanpaolo e Gallerie d’Italia.

Nel Parco Archeologico di Pompei aprirà un museo per bambini

in alto: Marino Marini, Il giocoliere , 1928,. Museo

Marino Marini, Firenze. Foto

Archivio Museo

Marino Marini, Firenze

sopra: ©Pelle Cass

in basso: Museo dei bambini di Pompei

GIULIA GIAUME L Grandi progetti per i più piccoli al Parco Archeologico di Pompei. Dal 2025 – con anticipazioni e attività già da luglio 2024 – l’area archeologica si doterà di uno spazio specifico per giovanissimi visitatori e visitatrici, un vero museo per bambini dove conoscere e scoprire attraverso il gioco la straordinaria storia di Pompei e l’epoca romana. Vi saranno anche proposte di divulgazione scientifica, azioni teatrali e musicali pensate per i bimbi, più o meno giovani, e le loro famiglie, così da permettere loro di sviluppare una connessione duratura con il patrimonio culturale. Il nuovo Pompeii Children’s Museum avrà il suo punto di riferimento nella Casina Rosellino, un edificio ottocentesco all’interno dell’area archeologica. Fortemente voluto dal direttore del Parco Gabriel Zuchtriegel, il museo sarà progettato e realizzato da un gruppo di imprese e associazioni culturali specializzate, che ne cureranno anche la gestione e l’organizzazione, in una partnership pubblico-privata con le imprese culturali del Consorzio Aion e del Gruppo Pleiadi. L’inizio dei lavori, da concludersi entro il nuovo anno, è stato celebrato il 19 giugno da cento bambine e bambini che hanno piantato un albero di noce davanti alla Casina Rosellino e conosciuto il nume tutelare del museo, il Cavallo-Enzo di Mimmo Paladino.

ALLA RESIDENZA TAGLI

DI STROMBOLI IL PROCESSO È LA CHIAVE

a cura di CATERINA ANGELUCCI

Sull’isola di Stromboli, Ilaria e Alvise Baia Curioni organizzano dal 2021 una residenza artistica basata sulla contaminazione disciplinare e votata a restituire, più che un risultato, il processo che lo rende possibile

Conoscere un luogo, filtrarlo e restituirlo attraverso ricerche e medium differenti apre alle infinite possibilità di una visione che non si esaurisce nella contingenza della creazione ma si modula, forma e trasforma ogni volta che questo viene evocato. E a Stromboli, la più settentrionale delle Isole Eolie, la residenza non profit Tagli dal 2021 sostiene e promuove il lavoro di artisti, musicisti e performer, offrendo un periodo di permanenza sull’isola (che va dalle due alle tre settimane a cavallo tra luglio e agosto) e presentando una serie di eventi e mostre pop up durante il periodo invernale, da Milano a Londra. Le due case in cui vengono ospitati i residenti (selezionati tramite open call) sono allo stesso tempo luogo di lavoro e di condivisione quotidiana, scambio di idee, osservazione, ascolto e creazione, in un’atmosfera immersiva e multidisciplinare. Dall’anima segreta dell’isola all’importanza dei processi di creazione fino ai partecipanti della quarta edizione (in programma dal 19 luglio al 4 agosto 2024), ci siamo fatti raccontare Tagli dai suoi fondatori, Ilaria e Alvise Baia Curioni.

CHE COS’È TAGLI

“L’idea di dar vita a una residenza l’abbiamo avuta durante il periodo del Covid, forse anche un po’ per reazione a un lungo periodo d’isolamento. Il punto da cui siamo partiti è l’idea che la contaminazione tra discipline artistiche aiuta la creazione del nuovo. Questa contaminazione succede spesso nella vita di tutti i giorni in maniera naturale, noi abbiamo voluto riproporre questo tipo di situazioni, “stressando” i tempi, dando la possibilità agli artisti di conoscersi e convivere per due settimane in un ambiente che per forza di cose stimola – l’incontro, la discussione e la produzione – la creatività. Volevamo vedere da vicino come si sviluppano i processi creativi, entrandoci in prima persona, inventandoci un luogo che aprisse alla possibilità di qualsiasi tipo di risultato, con meno imposizioni possibili. La residenza consiste in due settimane e mezzo di convivenza tra diversi artisti selezionati attraverso una open call, che si occupano di diverse discipline: fino ad ora abbiamo avuto performer, danzatori, musicisti, coreografi, pittori, scultori, cantautori, fotografi, artisti video, attori. Tagli lascia spazio al processo artistico, portando alla luce quello che è di solito nascosto”.

Volevamo vedere da vicino come si sviluppano i processi creativi, entrandoci in prima persona, inventandoci un luogo che aprisse alla possibilità di qualsiasi tipo di risultato, con meno imposizioni possibili

L’ANIMA SEGRETA DI STROMBOLI

“Il luogo in cui operiamo è decisamente importante. Avere la possibilità di invitare artisti proprio a Stromboli, tra tutti i luoghi possibili, influenza tantissimo i processi. Il fatto stesso di essere in un posto unico al mondo, un vulcano attivo in mezzo al mare, è già di per sé una fonte di ispirazione enorme. Noi chiediamo agli artisti di non fermarsi solo a quello, ma di cercare di capire davvero dove si è: il villaggio di Stromboli, la gente che lo abita, le dinamiche dell’isola, il tempo che viene scandito in una maniera differente dai frenetici ritmi cittadini. Questa “anima segreta” dell’isola, se così si può chiamare, se esplorata con rispetto e sensibilità, dona una libertà del tutto inaspettata ed è proprio questa relazione a facilitare la creazione artistica”.

COME RESTITUIRE

UNA RESIDENZA D’ARTISTA

“Il tema della restituzione è molto delicato, come accennavo prima quando parlavo dell’importanza del processo rispetto al prodotto finale. Noi abbiamo sperimentato molto in questi anni, cercando di volta in volta di proporre delle restituzioni che avessero un senso rispetto al momento del processo artistico su cui volevamo concentrarci. Mi spiego meglio: a Stromboli la restituzione è una Open House, in cui la gente è accolta all’interno del laboratorio pieno, in cui i lavori esposti non sono per forza finiti, in cui le performance proposte non sono per forza complete. Il punto dell’Open House è far capire a chi le visita che tipo di lavoro e di ricerca porta avanti ogni artista. Questo è facilitato anche dal fatto che il luogo di lavoro diventa esso stesso luogo espositivo: cercando di ridurre il più possibile l’intervento curatoriale, lo spettatore gira per gli ambienti e vede un susseguirsi di cose che succedono tra performance e interventi musicali, sentendosi parte integrante del processo”.

IL POST-RESIDENZA

NEI NUMERI PRECEDENTI

#76 Marea Art Project

“Il primo anno con Glitch abbiamo provato a portare la stessa cosa in città, a Milano, in cui abbiamo scelto un luogo, Fucine Vulcano, che richiamava perfettamente quell’idea di laboratorio che volevamo riportare. In altri casi invece, come PostCards from Stromboli a Londra, abbiamo sperimentato una dimensione più classica se così si può dire, più da galleria d’arte, in

Photo Credits: Courtesy Tagli

cui volevamo dar risalto al lavoro finito dopo la residenza. Il “white cube” ci ha comunque permesso di giocare con la dimensione scenografica: il luogo scelto era comunque uno studio d’artista, con un lungo corridoio buio da percorrere per arrivarci, insomma, di forte impatto.

Per quel che riguarda invece Spaces, an open Intimacy ospitata da ArtNoble Gallery e Sassifraga ospitata da Marsèll Paradise, abbiamo deciso di portare l’attenzione su una parte di processo che non avevamo ancora considerato: il post-residenza. Seguire gli artisti anche dopo la residenza, anche a distanza di anni, vedere come si è evoluto il loro lavoro. In quest’ottica abbiamo voluto esporre in queste due occasioni sia lavori fatti in residenza sia alcune evoluzioni della pratica artistica degli ex residenti. Sicuramente il Cielo di Ludovico Orombelli installato da ArtNoble o i lavori di Adelisa Selimbasic da Marsèll che prendevano vita grazie ai loro corrispettivi “reali” KenJii, Celeya e Medusa durante il voguing, sono stati degli esperimenti che abbiamo voluto portare avanti con gli artisti proprio per sottolineare l’importanza del processo.

Il fatto stesso di essere in un posto unico al mondo, un vulcano attivo in mezzo al mare, è già di per sé una fonte di ispirazione enorme

Il processo è quello che accade da un momento A, in cui si ha un’idea, e un momento B, in cui si realizza. È difficile portare alla luce il processo proprio perché è effimero: esiste nel momento stesso in cui ci sei dentro, poi lascia spazio al prodotto finito. Il fatto di fare delle restituzioni “pop-up”, molto brevi e spesso irripetibili, è legato a questa riflessione”.

GLI ARTISTI SELEZIONATI PER LA QUARTA EDIZIONE

“Quest’anno porteremo in residenza sei progetti, per un totale di nove persone: Eugenia Fera, Matteo Pavesi, Aurora Saita, Jacopo Valentini, Flaminia Veronesi, Zhiyu Xiao, Mariangela Di Santo, Carmine Dipace e Giacomo Graziosi. Come sempre abbiamo scelto cercando di mantenere un equilibrio tra discipline (in questo caso ci saranno musica, arti visive e performance) e cercando di scegliere persone che possano trarre ispirazione dalle ricerche altrui. Ogni anno le scelte sono degli atti di fiducia, come è un atto di fiducia nei nostri confronti scegliere di partecipare, non sapendo chi ti sarà compagno nel percorso”.

UOMINI LUCIANO MINGUZZI

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LUNGO LA VIA DELL’INCENSO SULLE TRACCE DI ANTICHE

CIVILTÀ:

LA VALLE DI ALULA

Città fantasma, necropoli mozzafiato, testimonianze di popoli dagli alfabeti dimenticati: le sabbie del deserto arabo nascondono questo e molto altro. Siamo stati nella Valle di AlUla per scoprire come l’Arabia Saudita sta riscoprendo e valorizzando la sua storia millenaria

ALBERTO VILLA

Nel deserto arabo, i contrasti sono costitutivi. La luce non ha sfumature, il sole scolpisce il paesaggio con ombre nette e spigolose. È un luogo in cui la morte pare tanto dominante da celare una vita brulicante, che resiste oggi come migliaia di anni fa. Il nostro viaggio in Arabia Saudita inizia proprio nel cuore del deserto, per la precisione nella Valle di AlUla: una meta che accoglie turisti da tutto il mondo per le sue bellezze paesaggistiche e culturali, e che fonda il proprio futuro – oltre che su avveniristiche architetture come lo specchiante Maraya, progettato dallo studio italiano Gio Forma, o su Wadi AlFann, polo di land art nel deserto – proprio sulla riscoperta delle popolazioni che nel corso dei millenni l’hanno abitata.

sopra: Hegra. Courtesy Royal Commission for AlUla

a destra: La Città Vecchia di AlUla. Courtesy Royal Commission for AlUla

DADAN E LA VIA DELL’INCENSO

AlUla è il nome dell’esteso canyon che ospita un’oasi di eccezionale dimensione e fertilità (nonostante il deserto circostante), tanto oggi quanto ieri: le prime testimonianze umane risalgono al Paleolitico (circa 200mila anni fa). La ricchezza storica e culturale, oltre che naturalistica, è negli ultimi anni oggetto di intensi studi: AlUla conta oggi più di 37mila siti archeologici di differenti dimensioni e periodi archeologici, nei quali sono coinvolte centinaia di archeologi impegnati a far emergere dalla sabbia non solo tombe, reperti e manufatti, ma intere città. È il caso di Dadan, antica capitale dei regni dadanita e lihyanita, susseguitisi nel corso del I millennio a.C. nel controllo della Via dell’Incenso. Il luogo in cui oggi

ARABIA SAUDITA

La Mecca 600 km

risorgono i resti di templi, edifici e piazze era un tempo un luogo strategico: qui, le strade su cui viaggiava l’incenso proveniente dallo Yemen (insieme a molte altre materie preziose, tra cui spezie, essenze, oro e argento) si diramavano, virando da una parte verso il Mar Rosso e dall’altra verso nord, attraversando il deserto fino al Mar Mediterraneo. Non è difficile, in luoghi come questo, lasciar viaggiare la mente a ritroso nel tempo e immaginare carovane, attività quotidiane e riti. Tra questi, quelli funebri che si concludevano con la sepoltura in tombe scavate nelle vicine pareti di roccia, talvolta protette da altorilievi raffiguranti leoni apotropaici.

LA SUGGESTIVA NECROPOLI DI HEGRA

Il controllo della Via dell’Incenso fu una prospettiva allettante anche per i Nabatei, che, poco più a nord di Dadan, fondarono il loro avamposto più meridionale: Hegra. Dell’antica città fondata nel I secolo a.C., oggi rimangono soprattutto le oltre cento tombe familiari, scavate all’interno di monoliti di roccia che emergono dalle sabbie del deserto. Qui la morte è regina: cugina di quella di Petra in Giordania, la necropoli di Hegra sembra una città dell’aldilà, perduta nel tempo e nello spazio. L’importanza di Hegra non si limita alla sua –pur incredibile – suggestione: le iscrizioni, le sepolture e l’architettura (non è difficile notare timpani, triglifi e metope che ne testimoniano la discendenza greca) rivelano importanti indizi circa la cultura, i riti e la politica dei Nabatei. Quest’ultima si esercitava in particolare nel cosiddetto diwan, una sala scavata nella pietra dalla struttura a triclinio, che ad Hegra ha conservato la sua imponenza. Gli scavi archeologici nella necropoli e nella vicina città sono iniziati nel 2002; sei anni più tardi arriva il riconoscimento di patrimonio UNESCO, il primo dei sette oggi presenti in Arabia Saudita.

LA CITTÀ VECCHIA E L’ANCIENT KINGDOM FESTIVAL

Nel cuore dell’oasi, la Città Vecchia di AlUla è un concentrato di architettura e cultura dell’Arabia Saudita, a partire dalla sua prima fioritura nel I Secolo AH (il corrispondente islamico del nostro VIII Secolo d.C.). Nell’aggirarsi tra le mura di fango e gli edifici vuoti che oggi rimangono a testimonianza dell’antico splendore della città, è difficile – da italiani – non pensare di trovarsi in una Pompei delle sabbie: eppure, in quel dedalo tanto intricato e lontano dal nostrano intreccio di cardo e decumano, la vita sta tornando, proprio in un’ottica celebrativa del passato e del presente di questa ricca valle. La Vecchia Città di AlUla è il fulcro dell’Ancient Kingdom Festival, una manifestazione culturale che coinvolge i maggiori siti disseminati nell’oasi per preservare e divulgare le tradizioni dell’Arabia Nordoccidentale. L’oasi di AlUla, tuttavia, non è la sola a partecipare: fanno altrettanto le vicine Khaybar e Tayma, anch’esse centrali nell’antico commercio dell’incenso. Dopo una vivace edizione del 2023, l’Ancient Kingdom Festival tornerà dal 7 al 30 novembre 2024.

LE ISCRIZIONI DI WADI ALNAAM E JABAL IKMAH

Chi desidera conoscere il deserto da vicino, senza farsi mancare una buona dose di storia, non può lasciare AlUla senza una escursione a Wadi AlNaam: anche chiamata Valle degli Struzzi, per l’antica presenza di questi uccelli, è un complesso sistema di canyon in cui, spostandosi in parte a piedi e in parte con dune-buggy, è possibile scoprire le stupefacenti conformazioni delle rocce del deserto arabo, i suoi dromedari e, soprattutto, le antiche iscrizioni rupestri, risalenti ai tempi di Dadan. I soggetti prediletti? Centinaia di struzzi dall’aspetto cubista, insieme a tori, figure umane e quelli che sembrano essere tappeti. Altrettanto suggestive, le iscrizioni del sito di Jabal Ikmah, testimonianze dei tanti viaggiatori che, nel corso dei millenni, hanno attraversato la Valle di AlUla. Alfabeti lontani nel tempo e nello spazio si incontrano sulle pareti rocciose del deserto, tracciando una storia di coesistenze impossibili.

CULTURA IN ARABIA SAUDITA IERI

AlUla Medina Riyad
YEMEN OMAN E.AU. QATAR
Jeddah La Mecca
Dadan
Città Vecchia di AlUla
Wadi alNaam
Jabal Ikmah
Hegra
5km
AlUla Riyadh 900 km

IN ARABIA SAUDITA LE STAGIONI SONO

FESTIVAL CULTURALI

Non coincidono con i passaggi del sole agli equinozi e ai solstizi, ma servono a scandire il ricco calendario annuale di eventi delle 11 località del Regno mediorientale. Ecco cosa è successo (e succederà) nelle città di Riyadh, Jeddah, Diriyah e AlUla

CLAUDIA GIRAUD

Le stagioni saudite (che non vanno confuse con i periodi stagionali dell’anno) sono una grande iniziativa statale per promuovere il turismo e la crescita economica in Arabia Saudita. Lanciate nel 2019 dalla Commissione Saudita per il Turismo e il Patrimonio Nazionale, consistono in una serie di festival culturali che celebrano il patrimonio, la cultura e la storia del paese mediorientale nelle 11 località del Regno, che comprende la parte centrale e occidentale della penisola arabica: ogni stagione si concentra, infatti, su una regione o città diversa, evidenziandone il patrimonio, l’ambiente e la cultura attraverso eventi che includono spettacoli internazionali, concerti, competizioni sportive, mostre e altro ancora. Un ulteriore tassello inserito nel piano pluriennale di sviluppo economico denominato Vision2030, di cui beneficiano, appunto, il campo artistico e culturale in genere. Le principali stagioni sono legate alle città di Riyadh, Jeddah, Diriyah e AlUla.

LA STAGIONE DI RIYADH

La più grande è quella che si svolge a Riyadh: quest’anno parte a ottobre 2024 per durare fino a marzo 2025 e, sotto il tema An Unforgettable Extravaganza!, coinvolge 12 zone della capitale per celebrarne la cultura e l’enogastronomia. Cuore della manifestazione, è il Boulevard Ruh City nell’area nord della città che offre varie attrattive che vanno dalla fontana musicale e danzante alla replica di Times Square di New York, oltre a diversi caffè e ristoranti di cucina locale e internazionale, molti teatri per spettacoli artistici e canori, e il cinema più grande del Regno dell’Arabia Saudita. Nei mesi invernali, la capitale è nota anche per il Noor Riyadh, il festival di light art più grande al mondo che si è concluso lo scorso dicembre. Più a occidente, nel suo quartiere diplomatico, che ospita molte ambasciate straniere, residenze e organizzazioni internazionali, oltre a numerosi hotel di lusso, ristoranti e centri commerciali, è invece

Il festival AZIMUTH ad AlUla

in corso fino al 1 settembre la mostra Unfolding the Embassy: riunisce installazioni, video, fotografie di artisti sauditi, ma anche originari di Kuwait, Egitto, Palestina, Bosnia, Zambia e Belgio, che riflettono sul presente attraverso la lente dell’economia, dell’Antropocene e dell’IA. C’è spazio anche per la musica: fino al 15 agosto c’è After, un set elettronico di headliner internazionali e artisti locali (a cura di MDLBEAST, creatore del famoso festival musicale Soundstorm) che si esibiscono ogni settimana, dopo ogni gara della Esports World Cup, una nuova competizione in Arabia Saudita, dedicata ai videogiochi sportivi.

LA STAGIONE DI JEDDAH

Quella di Jeddah è la seconda delle stagioni saudite più importanti ed è in corso fino al 17 agosto con una serie di spettacoli musicali, mostre e feste regionali che sono un invito a esplorare le sue spiagge e centri commerciali. Per gli appassionati d’arte c’è quest’anno About Imagine Monet: la più grande esposizione interattiva delle opere del maestro impressionista, con 200 dei dipinti più famosi di Claude Monet proiettati a 360° sui muri e sui pavimenti dell’esclusiva location sul lungomare, lo Jeddah Yacht Club. Il 23 settembre, da non perdere la Giornata Nazionale Saudita, che celebra l’unificazione delle nazioni di Najd e Hijaz: nel 1932, dalla loro unione nacque appunto il Regno dell’Arabia Saudita, dal nome della Casata dei Saud, una famiglia guidata dal primo sovrano saudita, il re Abdulaziz Ibn Saud. Ogni regione dell’Arabia festeggia questa giornata con musica e abiti tradizionali, ma essere a Jeddah in questo giorno ha il valore aggiunto di ammirare i fuochi d’artificio sulla Corniche lungo il Mar Rosso: qui sorge la Moschea Galleggiante, chiamata anche Al-Rahmah mosque, con un lungo pontile che si affaccia sull’acqua. Di sicuro fascino.

LA STAGIONE DI DIRIYAH

Diriyah si trova a circa 20 km dal centro della capitale Riyadh, in uno dei suoi siti archeologici più importanti (dal 2010 è Patrimonio Unesco), da cui deriva l’antica dinastia della famiglia reale saudita, con le sue case in mattone e fango. La stagione omonima, nei mesi che vanno da febbraio ad aprile, celebra la ricca storia della città con eventi come mercati tradizionali, tour storici, gare di cammello. Qui, nella zona industriale del distretto creativo JAX, si svolge dal 2022 la Diriyah Contemporary Art Biennale, il primo evento del genere in Arabia, nato con l’intento di esplorare il ruolo di una biennale d’arte contemporanea in un Paese che sta attraversando un rapido cambiamento sociale, attraverso le opere di artisti sauditi e di tutto il mondo. La seconda edizione intitolata After Rain, si è chiusa a maggio, attirando oltre 222.341 visitatori: più del doppio dell’edizione inaugurale. Di questi, oltre il 32% erano giovani (sotto i 32 anni) e il 4,5% erano bambini (sotto i 18 anni). Mentre, oltre il 75% dei visitatori erano residenti in Arabia Saudita. “L’impressionante numero di visitatori testi-

AZIMUTH, IL BOUTIQUE FESTIVAL DI ALULA. TRA ARTE E MUSICA

L’antica città-oasi di AlUla è una delle principali destinazioni turistiche dell’Arabia Saudita ed è operativa e accessibile ai viaggiatori internazionali da quattro anni. Con queste credenziali si appresta ad ospitare uno degli eventi di punta del palinsesto AlUla Moments, posizionandosi come riferimento della scena musicale locale, grazie all’importante partnership con la compagnia di musica e intrattenimento saudita MDLBEAST (sua l’ideazione del festival elettronico di maggior successo dell’Arabia Saudita, a pochi passi da Riyadh, Soundstorm) che ha aperto da un anno la sua nuova sede nel distretto JAX di Diriyah, il cuore creativo della capitale. Stiamo parlando di AZIMUTH che torna con una quarta edizione da record dal 19 al 21 settembre. Quest’anno il tema Until the Sun Comes Up (fino a quando non sorge il sole) ricalca in pieno la filosofia di questo format in cui musica, arte, cibo e cultura si incontrano per creare un’esperienza di festival diversa dalle altre, con sistemazioni ricettive che riecheggiano lo spirito di AlUla, tra ville chic e fattorie rustiche. Dal tramonto all’alba, per tre giorni sotto le stelle del deserto, i mitici canyon della città-oasi risuoneranno di performance di artisti di alto livello, provenienti dalla regione arabica e non solo. Tra gli headliner del passato ci sono, infatti, nomi come gli statunitensi Jason Derulo (cantautore) e The Chainsmokers (dj e producer), il rapper britannico di origini nigeriane Tinie Tempah, la band indie rock britannica The Kooks, la cantautrice britannica Jorja Smith, la dj e produttrice discografica sudcoreana Peggy Gou e il duo statunitense di musica elettronica Thievery Corporation, che si sono esibiti tra installazioni e arti performative. Il tutto all’insegna della sostenibilità ambientale, affine alla sua natura di evento boutique esclusivo con una capacità limitata, per un’esperienza davvero unica nello spettacolare scenario del deserto di Qa’a Alhaj.

monia il potente ruolo dell’arte nel riunire le persone”, ha riconosciuto Aya Al Bakree, CEO della Diriyah Biennale Foundation organizzatrice dell’evento che ha un solo obiettivo: “coinvolgere e attrarre le comunità locali e accogliere ospiti internazionali per testimoniare e prendere parte alla crescita di una forte scena culturale in Arabia Saudita”.

LA STAGIONE DI ALULA

Situata a 1.100 km da Riyadh, nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, AlUla è un luogo dallo straordinario patrimonio naturale e umano con 7mila anni di storia. Per celebrarli è stato lanciato alla fine del 2021 il brand AlUla Moments – la nuova casa degli eventi di AlUla – che, accanto allo storico Alula Ancient Kingdoms Festival, ha introdotto quattro nuovi festival. A fine dicembre si è svolto Winter at Tantora, la prima celebrazione di AlUla dal punto di vista del patrimonio, della cultura, della moda e della musica. A fine febbraio è andata in scena la terza edizione di AlUla Arts Festival che riunisce eventi ed esperienze di arte antica e arte contemporanea, come l’inedita collaborazione di quest’anno con l’Ithra Art Prize – il più grande premio d’arte del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA). Se a settembre sono ancora da definire le date del nuovo AlUla Wellness Festival, che propone le più recenti pratiche per coinvolgere la mente, il corpo e l’anima, sono invece note quelle dell’evento musicale di punta dell’anno, l’AZIMUTH: dal 19 al 21 settembre, negli spettacolari scenari desertici di Qa’a AlHaj. Infine, a ottobre è tempo di AlUla Skies Festival: i visitatori potranno esplorare i cieli dell’antica città dell’Arabia Saudita attraverso attività come mongolfiere, tour in elicottero, spettacoli di droni, osservazione delle stelle e molto altro.

CULTURA IN ARABIA SAUDITA OGGI

Diriyah, At-Turaif district, foto Claudia Giraud

L’INARRESTABILE ASCESA ARCHITETTONICA DELL’ARABIA SAUDITA

Architetture da record, città di nuova fondazione, l’Expo 2030. Dagli spazi per la cultura alle strutture per sport e intrattenimento, dai parchi urbani (con estensione digitale) alla riqualificazione urbana della Mecca, l’Arabia Saudita sta ridisegnando rapidamente il proprio territorio. Ma a quale prezzo?

La data del 27 settembre 2019 segna uno spartiacque nella storia dell’Arabia Saudita. Coincide con l’annuncio della concessione dei visti turistici ai cittadini di 49 paesi, Italia compresa. La crisi pandemica ha inciso sull’effettiva apertura al turismo del Regno, ma il segnale lanciato quel giorno resta storico. Riflette la volontà politica espressa nel programma strategico Saudi Vision 2030, le cui riforme puntano a una complessiva trasformazione della società locale, a partire dalla diversificazione della sua economia. Fin dall’inizio dell’iter, il ruolo attribuito all’architettura e alle infrastrutture è apparso centrale. A farsi largo sulla stampa sono state soprattutto operazioni legate a faraoniche e controverse di nuova fondazione. Ma, a ben guardare, si possono individuare molteplici azioni promosse in ambito architettonico.

I NUOVI MUSEI DI ALULA

A Venezia, alla 18. Mostra Internazionale di Architettura, la partecipazione dell’Arabia Saudita è stata ampia e diversificata. Oltre all’analisi del concetto di eredità, proposta nel “materico” padiglione nazionale IRTH إرث, e alla mostra Zero Gravity Urbanism, che nell’Abbazia di San Gregorio ha voluto dissipare i dubbi attorno al modello urbanistico THE LINE, durante la preview stampa Lina Ghotmeh e Asif Khan sono stati nominati progettisti di due musei che sorgeranno ad AlUla, nel nord-ovest dell’Arabia. Selezionati tramite un concorso internazionale, sono stati rispettivamente incaricati dalla Royal Commission for AlUla (RCU) della realizzazione del Museo d’arte contemporanea di AlUla e del Museo della Via dell’Incenso. Si tratta dei “primi di quindici beni culturali che verranno sviluppati nell’ambito del Masterplan Journey Through Time di AlUla”, ha specificato in quell’occasione l’architetto Khaled Azzam, autore del masterplan in questione. “Con diversi padiglioni nei giardini, il museo presenta una costante interazione tra arte e natura, catturando l’essenza di questo luogo unico”, ha anticipato Ghotmeh. Prendendo le distanze dal convenzionale assetto museale Khan ha sviluppato un concept esteso allo spazio pubblico del quartiere di AlJadidah con “gallerie e spazi dedicati alle esperienze sensoriali e all’apprendimento”.

sopra: Schiattarella Associati , Diriyah Art Futures.

Photo Hassan A Alshatti © Schiattarella Associati

a destra: Populous, Qiddiya City Esports Arena. Render courtesy Populous

L’IMPEGNO ITALIANO NEL PRESENTE E NEL FUTURO DELL’ARABIA

SAUDITA

In attesa dei cantieri, nel centro storico di Jeddah, dallo scorso 10 giugno il teamLab Borderless Jeddah accoglie i visitatori in quasi 10.000 mq di superficie espositiva. Primo museo in Medio Oriente del noto collettivo artistico internazionale, riunisce una selezione di installazioni digitali nel complesso denominato Culture Square (sede anche del Red Sea Film Festival), il cui masterplan e il progetto architettonico sono opera di Schiattarella Associati. Attivo da oltre un decennio nel regno saudita, lo studio italiano si prepara all’apertura – nell’autunno 2024 – del Diriyah Art Futures, un hub per le arti digitali costruito a nord-ovest di Riyadh che rappresenta un unicum (non solo) per il Paese. Nei suoi 6.500 mq include spazi espositivi e amministrativi, studi riservati agli artisti, residenze, spazi per la vendita d’arte, aule per la formazione e una scuola: un luogo, in altre parole, in cui

le opere d’arte prenderanno forma, ma saranno anche studiate, fruite e acquistate. Per la sua composizione gli architetti dello studio romano hanno voluto “dare forma plastica al vuoto, sia all’esterno che verso l’interno, finendo per generare uno speciale rapporto con la luce”, come ci hanno recentemente raccontato. Un “vuoto multidirezionale, con cui provochiamo l’artista digitale incoraggiandolo a concepire opere ad hoc per questo spazio, date le sue potenzialità infinite”.

NON SOLO MUSEI: IN ARRIVO UN GRANDE PARCO A RIYADH

Parallelamente nella capitale saudita, LAND Italia e Schiattarella Associati lavorano insieme all’Al Urubah Park, un’infrastruttura verde-blu di 75 ettari, commissionata dalla Royal Commission for Riyadh City. Nel futuro parco saranno piantumati oltre 10.000 alberi, osservabili anche in quota passeggiando lungo i 2,7 chilometri del sopraelevato Garden Boulevard. Servizi e attività ricreative ed educative caratterizzeranno questo spazio pubblico, dotato anche di una spiaggia urbana, un’esplanade sportiva, un anfiteatro verde, quattro giardini tematici. L’Al Urubah Park avrà poi un’estensione digitale e il contributo della realtà aumentata sarà funzionale alla consapevolezza ambientale. Ne è convinto l’architetto paesaggista e co-founder di LAND Andreas Kipar, per il quale il sito “grazie all’integrazione armoniosa di natura e tecnologia, promette significativi vantaggi ambientali e uno standard di vita elevato per cittadini e visitatori, in conformità con il Quality of Life Program delineato nella Vision 2030”. Grandi eventi, intrattenimento e sport costituiscono ulteriori capitoli sui quali l’Arabia Saudita spinge per il proprio avvenire. Lo schiacciante successo di Riyadh (su Roma e Busan) come sede dell’Expo 2030 costituisce solo la più evidente tra le iniziative in campo.

LA GRANDE ARENA DI QIDDIYA

Forse ancora sconosciuta ai più, Qiddiya è la città designata come “capital for entertainment, sports and culture” dell’Arabia Saudita. Quaranta minuti di automobile la separano dalla capitale nazionale e nel giro di qualche anno potrebbe divenire un punto di riferimento regionale, con interventi come il più lungo circuito di Formula 1 del mondo, il mega water park Aquarabia o il Qiddiya Gaming and Esports District. All’interno di quest’ultimo sorgerà la Qiddiya City

Esports Arena, firmata da Populous. Raggiunta da Artribune, Shireen Hamdan – Global Director and General Manager di Populous KSA – ha spiegato: “Crediamo nella creazione di luoghi che uniscano le persone in tutto il mondo e nel potere dello sport di unire le persone. Il nostro lavoro in Arabia Saudita rientra nel quadro di Vision 2030, per promuovere la diversificazione economica e arricchire la vita della popolazione saudita. Questo è probabilmente l’aspetto più gratificante: contribuire a portare lo sport, l’intrattenimento e l’attività fisica al popolo saudita, in particolare ai giovani del Regno”. Un riferimento opportuno, poiché oltre il 60% dei 36 milioni di abitanti sauditi ha meno di 30 anni. A loro si indirizza l’arena disegnata dal colosso Populous, che ha all’attivo alcuni dei più celebri impianti sportivi e d’intrattenimento al mondo. Dotata di dispositivi senza precedenti, come “la più grande area schermi video combinata mai realizzata in un’arena”, con oltre 5000 postazioni tattili 4D, per un’esperienza sensoriale estesa anche all’odorato, e avanzatissimi sistemi audiovisivi, l’arena integrerà elementi della cultura locale. “L’Arabia Saudita ha un patrimonio culturale e architettonico incredibilmente ricco, risalente a migliaia di anni fa. Progetti come lo stadio Prince Mohammed bin Salman e la Qiddiya City Esports Arena hanno innegabilmente un aspetto futuristico” ha aggiunto Shireen Hamdan, “onorare questa eredità era fondamentale per il brief ed è una componente vitale nella creazione di un’esperienza autentica. Ad esempio, all’interno della Qiddiya City Esports Arena, il nostro team ha creato un concetto di “souk” alimentare con molteplici bancarelle e punti ristoro, facendo riferimento ai famosi mercati che si trovano in Arabia Saudita e nel Medio Oriente”.

IL FUTURO DELLA MECCA

CULTURA IN ARABIA SAUDITA DOMANI

SAUDISCAPES: L’ARABIA SAUDITA E LE SUE TRASFORMAZIONI

Cosa accade quando un territorio è oggetto di una metamorfosi profonda e repentina? Quanto va incontro al rischio di disperdere le proprie radici? Pubblicato da Nero Editions e promosso da Schiattarella Associati, il libro Saudiscapes. A polyphonic journey in Saudi Arabia adotta le parole della curatrice Emilia Giorgi e gli scatti della fotografa Giovanna Silva per fissare su carta un momento irripetibile nella storia del Regno: quello che ha preceduto l’apertura al turismo e la definitiva accelerazione delle trasformazioni urbane, ormai in corso non solo nelle principali città. Attraversando Riyadh e Jeddah nel 2019, insieme agli architetti Amedeo e Andrea Schiattarella, le due autrici hanno catturato l’essenza dell’architettura tradizionale saudita, tra frammenti, orditure, strutture e dettagli che rischiano di scomparire. Il risultato è un volume che restituisce, in immagini e riflessioni, lo spirito di un tempo sospeso in uno stato in evoluzione.

Non ha bisogno di presentazioni La Mecca, città sacra dell’Islam che nella Masjid al-Haram custodisce la venerata Kaaba. In previsione del raggiungimento, entro il 2030, di quota 30 milioni di pellegrini per l’Umrah (“versione minore” dell’annuale Hajj), One Works si sta occupando del Masar Urban Development Project su incarico di Umm Alqura for Development & Construction. Su un’area di 120 ettari, lungo il percorso di 3,6 km che dalla nuova stazione ferroviaria di Haramain (sulla linea di alta velocità La Mecca-Gedda) condurrà fino alla Kaaba, prenderà forma boulevard pedonale multifunzionale, ritmato da una pavimentazione a onde. Lungo circa il doppio degli Champs-Élysées parigini, sarà affiancato da residenze, strutture ricettive, commerciali e sanitarie, servizi di interesse pubblico, ristoranti, parcheggi, aree verdi e da alcune piazze, dotate di coperture in acciaio e rete a evocazione delle volte islamiche in pietra. Uno spazio pubblico di nuova concezione, che migliorando l’accessibilità del luogo a oggi probabilmente più frequentato del Paese, garantirà aree di sosta e ombra. E, soprattutto, la sicurezza che fin qui troppo spesso è mancata ai pellegrini.

LO STALLO DELL’URBANISTICA A MILANO: PAROLA AGLI ARCHITETTI

di VALENTINA SILVESTRINI

Incertezza e preoccupazione sono tra gli stati d’animo che emergono leggendo le riflessioni di architetti e professionisti milanesi che, in risposta all’invito di Artribune, hanno scelto di raccontare il loro punto di vista sullo “stallo urbanistico” che si sta palesando nel capoluogo lombardo. Sentimenti condivisi anche da quella parte della cittadinanza milanese che guarda con attenzione alle inchieste con cui, già da alcuni mesi, la procura di Milano sta esaminando le possibili errate interpretazioni nei permessi concessi dal Comune per la realizzazione di progetti immobiliari di varia entità. I tecnici dell’amministrazione comunale ritengono di aver agito nel rispetto delle norme; i pubblici ministeri contestano il ricorso alla SCIA (Segnalazione certificata di inizio attività) in specifici casi in cui, a loro avviso, l’autorizzazione necessaria avrebbe dovuto essere il permesso di costruire. Un groviglio che, mentre andiamo in stampa, resta senza soluzione: il 16 luglio la maggioranza ha infatti ritirato a sorpresa il cosiddetto emendamento “salva Milano”. Ai componenti della commissione parlamentare impegnati nella sua valutazione, lo scorso 11 luglio un gruppo di urbanisti, architetti, giuristi e costituzionalisti aveva indirizzato una “lettera-appello” per chiedere, in estrema sintesi, di non interrompere il lavoro degli inquirenti con una sorta di “condono”. Almeno per il momento, dunque, lo scenario resta in stand-by; le nuove iniziative immobiliari, promosse anche da investitori internazionali, stentano a decollare, con le ovvie conseguenze sull’intero comparto; il Comune non incassa più gli oneri di concessione; gli studi rivolgono con maggiore interesse lo sguardo all’estero; i cittadini attendo che la giustizia faccia il suo corso. Le opinioni raccolte da Artribune offrono traiettorie di analisi sulle direzioni intraprese nello sviluppo immobiliare del capoluogo lombardo, sulla “reputazione urbanistica” della città, sulle prospettive professionali interne ai diversi studi, sulla ben nota stratificazione normativa che affligge alcuni settori produttivi in Italia. Qualche esempio? “Fermo restando che gli abusi devono essere individuati e perseguiti, a nostro avviso è necessario risolvere questa complessità intervenendo in modo più radicale sul quadro normativo e sulle procedure amministrative dando la possibilità agli operatori di usufruire di strumenti aggiornati, coerenti e snelli, con indicazioni chiare sia sulle procedure da seguire sia sui tempi di approvazione dei diversi iter”, auspica l’architetta Monica Tricario, Partner&Co-founder dello studio Piuarch. “Forse dovremmo ripartire da una domanda: che cosa hanno prodotto i recenti interventi di questi ultimi vent’anni a Milano, oggetto delle note inchieste? Sicuramente una tendenza allo sviluppo in altezza. Se da un lato sono evidenti i benefici ambientali in termini di riduzione di consumo di suolo, come ha reagito Milano, la città della permanenza dei tracciati, degli allineamenti stradali, la città compatta con i suoi “palazzotti bassi”, con i suoi cortili e i suoi giardini interni?”, si interroga l’architetto Paolo Brescia, Co-Founding Partner dello studio OBR.

Tutti i contributi estesi sono disponibili seguendo il QR code a fianco:

dall'alto in basso: Artist’s Impression of the New Generation hub, Centre Pompidou © Moreau Kusunoki in collaboration with Frida Escobedo Studio

MCA - Mario Cucinella Architects, E-building di Ferrari, Maranello. Photo © Duccio Malagamba

Mostra Rivelazioni . Dettaglio dell’installazione Souffle di Juliette Minchin © Cinestudio Italy

OSSERVATORIO RIGENERAZIONE

SI PUNTA AL 2030 PER IL CENTRE POMPIDOU

Capitale olimpica 2024, Parigi si appresta a rinunciare al polo culturale progettato da Piano, Franchini e Rogers per un quinquennio. Lo studio

Moreau Kusunoki (in cordata con Frida Escobedo Studio) si è recentemente aggiudicato il concorso per il primo intervento di ristrutturazione nella storia del Centre Pompidou. I lavori avranno inizio ad aprile 2026, con chiusura al pubblico della sede già da settembre 2025. L’investimento pubblico supera i 260 milioni di euro ed è considerato indispensabile per adeguare la struttura, che nel 2027 taglierà il traguardo dei cinquant’anni dall’apertura, agli attuali standard ambientali, sanitari, energetici, di sicurezza e accessibilità.

LA RIGENERAZIONE DELL’AREA INDUSTRIALE FERRARI

INIZIA CON MARIO CUCINELLA ARCHITECTS

Costruito sulle impronte di precedenti stabilimenti, senza consumo di nuovo suolo, il nuovo E-building di Ferrari è stato disegnato da MCA – Mario Cucinella Architects. Con una superficie totale di 42.500 mq, distribuita tra due piani principali e due ammezzati, all’esterno il volume è ritmato da una facciata in cui si alternano vetrate opaline e trasparenti. Dispone di “strutture progettate per raggiungere i massimi livelli di prestazione energetica e tecnologica con un basso impatto ambientale, l’utilizzo di fonti rinnovabili e l’innesto di nuove aree verdi”, precisa l’architetto Cucinella. Nel polo di Maranello sono inoltre presenti edifici progettati dagli architetti Piano, Visconti, Sturchio, Nouvel e Fuksas.

L’ARTE CONTEMPORANEA

APRE IL CANTIERE DEL SANT’ORSOLA A FIRENZE

Per tutta l’estate (fino al 27 ottobre), porte aperte in alcuni degli spazi dell’ex convento di Sant’Orsola, il complesso monumentale nel centro storico fiorentino oggetto dal 2023 di uno dei principali interventi di rigenerazione urbana promossi nel capoluogo toscano. In attesa (entro il 2026) della riapertura – con il museo, la scuola d’arte e design, il caffè letterario, i laboratori artigianali, gli spazi per gli artisti in residenza e per la ristorazione – la sede è parzialmente accessibile grazie alla mostra Rivelazioni. Curata da Morgane Lucquet Laforgue, Direttrice del (nascente) Museo Sant’Orsola, riunisce le opere site-specific realizzate dalle artiste Juliette Minchin e Marta Roberti.

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OPERA SEXY

SPUDORATO AMORESANO

FERRUCCIO GIROMINI

Chi segue più o meno regolarmente queste cronachette dell’immaginario erotico artistico sa che da tempo risulta che le nostre scelte, quasi obbligate, finiscono per cadere sempre più facilmente su artiste donne, non di rado di tendenza omosessuale, e quasi sempre straniere. Per una volta vogliamo sorprenderci, noi per primi, scovando un artista maschio, perdipiù italiano: merce invero doppiamente rara È evidente come nel mondo intero l’attuale sentimento generale dinanzi alla rappresentazione del desiderio sessuale si sia molto modificato: a una esplosione dell’esaltazione della sessualità femminile e a un’accresciuta emersione e accettazione di quella ecumenicamente LGBTQIA+, fino a poco fa tutte neglette e addirittura respinte, per converso ora si guarda con non malcelato sospetto alla tradizionale manifestazione della libido maschile, ormai marchiata come “patriarcale” in modo irrimediabile e spesso acritico. Ebbene, se l’erotismo è anche trasgressione, stavolta punteremo con audacia, e quasi con sfida, sulle opere di un desiderante maschio dichiarato. Il quale inoltre è, come si diceva, un prodotto della nostra cultura autoctona, fieramente mediterranea. Cosa si vuol dire con ciò? Che Alex Amoresano (nomen omen!), campano, vivente e operante a Napoli, non ha vergogna di confessare e dare alle stampe (agli schermi digitali) i vividi esiti della sua bramosa fantasia etero. Cresciuto nel disinvolto ambiente del fumetto, del cartone animato, dell’illustrazione, ambiente che rimane il suo principale bacino di riferimento anche professionale, a latere Amoresano si concede il capriccioso divertimento di accendere l’immaginazione propria e altrui con ritratti impudenti di giovani donne colte nell’offerta di sé, visioni che l’artista confina perlopiù sui suoi profili social. E la mediterraneità traspare nella solarità sostanziale dell’operazione, improntata alla leggerezza dello scambio comportamentale tra lui e loro, modelle –ora brunette longilinee, ora biondone maggiorate –che appaiono allegramente provocanti, spudorate e volentieri sorridenti. Il tutto tratteggiato con tecniche variate, tra segni veloci e pennellate espressive, in una moderna sintesi del tutto confidenziale. Ne risulta uno specchio insolito di sessualità vivace e serena, gioiosa, per una volta immune da problematiche involuzioni esistenziali, da psicolabilità autodistruttive, da revanscismi neurotici, da più o meno latenti sadomasochismi. Per troppa gente il sesso è un labirinto spinoso. Qui invece sempre contento lui, contente tutte loro, contentezza generale: l’amore sano. Merce rarissima, appunto, al giorno d’oggi.

@amoresanart

Tra spazi espositivi e studi d’artista. Ecco tutte le nuove realtà dedicate all’arte contemporanea di Roma

VALENTINA MUZI L Sempre più spesso galleristi e artisti scelgono la Capitale per aprire nuove sedi, produrre progetti espositivi, residenze e/o condurre studi e ricerche, trovando nel patrimonio storico artistico romano una continua fonte di ispirazione. Di seguito una raccolta delle realtà più recenti che negli ultimi mesi stanno animando il quartiere di Ostiense, San Lorenzo e Via Salaria

1

Rappresenta artisti internazionali, affermati ed emergenti la galleria di Rolando Anselmi, fondata a Berlino nel 2013 e arrivata a Roma (la sua città) nel 2020. A quest’ultima ora si aggiunge un secondo spazio nell’edificio in via di Tor Fiorenza che il gallerista intende riservare agli artisti che inviterà a risiedere nella Capitale per incoraggiare la produzione di opere originali e in situ, in stretto dialogo con la città e il suo patrimonio storico artistico. A inaugurare questo nuovo format è la pittrice ceca Adéla Janska (Olomouc, 1981) che risiederà nella città capitolina per tutta la durata dell’estate, lavorando alla mostra di restituzione che presenterà a settembre.

2

Conosciuto anche come “palazzo decorato”, Palazzo Sartorio sorge nel quartiere di San Lorenzo, all’incrocio tra Via Tiburtina e Via dei Reti. Tra momenti di abbandono e altri di attività, l’immobile ha trovato una nuova vita con l’arrivo dell’artista Paolo William Tamburella che, dal 2009, abita l’ex atelier dello scultore ottocentesco Giuseppe Maria Sartorio (da cui prende il nome). Ad animare lo storico palazzo sono anche gli studi di Emiliano Maggi, Davide Quayola, Cyril De Commarque, Tommaso Fagioli e Costanza Chia che in occasione di un open studio – su invito – hanno accompagnato curatori e collezionisti a scoprire la storia del palazzo romano e ad approfondire le ricerche di ognuno nei propri atelier.

3

Dopo dieci anni, Gregorio de Luca Comandini e Saverio Villirillo hanno deciso di chiudere il progetto NONE Collective per dare vita a Liminal Space, un nuovo spazio espositivo interamente dedicato all’arte digitale all’interno del loro studio in via Libetta 21, nel quartiere di Ostiense a Roma. A inaugurare Liminal Space è stata una performance partecipativa con il pubblico per abbattere i muri dello spazio, contribuendo così alla sua demolizione e conseguentemente alla sua rinascita. Ad animare Liminal Space saranno due mostre annuali (una in autunno e una in primavera) e un programma di appuntamenti mensili di Simposio con talk e performance live che ruotano attorno alla digital art.

Nel centro di Verona apre la prima sede italiana della Peter Frey Gallery

GIULIA GIAUME L Ha aperto un nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea nel cuore di Verona. In Via Rosa 6, a cinque minuti a piedi da Piazza delle Erbe, è stata inaugurata il 31 maggio scorso la Peter Frey Gallery, terza sede dell’omonimo gallerista austriaco, dopo quelle di Vienna e Salisburgo, per molti anni rappresentante di artisti come Hermann Nitsch e Christian Ludwig Attersee. Diretto da Camilla Santi, lo spazio ospita ora una mostra personale di Yves Hayat. “Il progetto è nato un po’ perché Peter è sempre stato affezionato a Verona ma anche perché nel nostro roster abbiamo artisti italiani come Antonella Zazzera e Roberto Almagno, e altri che non sono italiani ma che vorrebbero farsi conoscere qui”, racconta la direttrice Santi. “Questo è il nostro primo interesse: connettere i nostri artisti, perlopiù tedeschi e austriaci, con l’Italia. In un secondo momento vorremmo coinvolgere anche nuovi artisti italiani”.

Novità a Venezia: Carsten Höller a Palazzo Diedo e Giorgio Vasari alle Gallerie dell’Accademia

DESIRÉE MAIDA L Due interventi, uno di arte contemporanea e l’altro di arte antica, contraddistinguono gli spazi di due edifici veneziani, Palazzo Diedo e le Gallerie dell’Accademia. Nel primo –centro culturale inaugurato ufficialmente in occasione della 60. Mostra Internazionale d’arte per volontà del filantropo Nicolas Berggruen – a dominare gli ambienti interni è Doubt Staircase (Scala del Dubbio), opera di Carsten Höller che consiste in una scala a chiocciola con balaustre in metallo, pietra di Vicenza e marmorino, che collega i piani nobili di Palazzo Diedo. Höller l’ha ideata con una inclinazione di 5 gradi, in teoria irrilevante da chi fruisce della struttura, ma percettibile quanto basta per provocare in chi la attraversa un senso di ambiguità e di incertezza, tutte caratteristiche tipiche della poetica dell’artista. È una ricomposizione quella che vede protagonista il soffitto ligneo di Ca’ Corner Spinelli a Venezia, dipinto nel 1542 da Giorgio Vasari, composto da nove tavole poi andate smembrate e che dal 28 agosto saranno nuovamente riunite e fruibili al pubblico presso le Gallerie dell’Accademia, “in una sala interamente dedicata lungo la loggia palladiana” ed esposte “rigorosamente a soffitto, in un ambiente immersivo che ripropone con attenzione e cura la camera di Palazzo Corner cui era destinata, riportando il visitatore indietro nel tempo”, sottolinea una nota dell’istituzione.

Giorgio Vasari, La Carità, dettaglio. Tavola, cm 266 x 153,4. Esterno, Milano, Pinacoteca di Brera Credit © Gallerie dell'Accademia, Archivio fotografico, foto Matteo De Fina, 2021, "su concessione del Ministero della Cultura"

Arte pubblica a Milano: un’opera dell’artista

Maria Cristina Carlini al Giambellino

CATERINA ANGELUCCI L Con oltre quattro metri di altezza e realizzata con materiali di recupero quali legno e acciaio corten, la scultura Obelisco di Maria Cristina Carlini (Varese, 1942) arriva in Piazza Berlinguer a Milano (in zona Giambellino), aggiungendosi ad altre tre sculture donate alla città dall’artista: La porta della giustizia (2007) esposta all’interno del cortile della Corte dei Conti, Vento (2013) nel Parco-Scultura dell’Idroscalo e La Nuova città che sale (2014) presso la Fiera di Milano-Rho. “L’opera racchiude in sé il legame con la storia e con la contemporaneità. Nel passato l’obelisco era un simbolo di riconoscimento, di celebrazione e di ricordo, un’identificazione del luogo e del racconto di cui si faceva portavoce. Nella mia scultura ne ho reinterpretato il significato affiancando alla memoria, all’antico e all’arcaico il contemporaneo, resi attraverso l’utilizzo del legno di recupero, che a sua volta ha un vissuto, e dell’acciaio corten. La loro unione diviene testimonianza di un tempo passato accanto al mio vissuto e alla mia storia”, racconta ad Artribune Carlini commentando la sua ultima opera donata a Milano.

a fianco: Maria Cristina Carlini
a sinistra: Maria Cristina Carlini, Obelisco, 2015, legno di recupero e Acciaio Corten, cm 420x230x170
Obelisco Piazza Enrico Berlinguer
Vento Idroscalo di Milano Segrate Via Circonvallazione 29
La porta della giustizia Corte dei Conti Via Marina 5
La Nuova città che sale Fiera Milano Strada Statale Sempione 28

12 giugno - 8 settembre 2024

NAZIONALE

Lorenzo Peretti (1871-1953)

Natura e mistero

Lorenzo Peretti

Natura e mistero (1871-1953)

A cura di Elena Pontiggia

“L’arte non è decorazione, è sentimento, è verità”

“L’arte non è decorazione, è sentimento, è verità”

Lorenzo Peretti

Lorenzo Peretti Natura e mistero (1871-1953)

26 maggio 26 ottobre 2024

26 maggio - 26 ottobre

Venerdì 15 - 19

“L’arte non è decorazione, è sentimento, è verità”

Lorenzo Peretti

10 - 13 | 15 - 19 Sabato

Domenica 10 - 13 | 15 - 19

26 maggio 26 ottobre 2024

Venerdì 15 - 19 10 - 13 | 15 - 19 Sabato

Domenica 10 - 13 | 15 - 19

Casa De Rodis, Piazza Mercato Domodossola (VB) collezioneposcio.it

Casa De Rodis

Piazza Mercato

Domodossola (VB)

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Piazza Mercato

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QUALCHE SPUNTO SULLA BIENNALE D’ARTE IN CORSO A VENEZIA

L’ultima Biennale Arte del mandato presidenziale di Roberto Cicutto (e la prima di Pietrangelo Buttafuoco) ha fatto parlare di sé a partire dalla nomina del suo curatore, Adriano Pedrosa: il primo direttore artistico della Biennale Arte di Venezia nato e operativo nel sud globale (nel suo caso il Brasile, dove dirige il Museu de Arte de São Paulo), nonché dichiaratamente queer. La sua intenzione di portare le minoranze, storicamente sottorappresentate dal sistema artistico occidentale, al centro del dibattito pubblico e istituzionale è senza dubbio riuscita, pur con le evidenti difficoltà che analizzeremo nelle pagine seguenti, anche attraverso citazioni dagli articoli a firma di esperti del settore usciti sul nostro sito in questi mesi e che potete recuperare seguendo i relativi QR code. Si prosegue con una riflessione sui padiglioni nazionali, che soprattutto quest’anno rivelano la loro capacità di interpretare la tematica delineata dal direttore artistico in modo originale, anche allontanandosi parecchio da una più debole esposizione centrale. In seguito, vedremo quanto il passato sia importante per questa Biennale: se è vero che la mostra di Adriano Pedrosa è forse la meno “contemporanea” della storia recente dell’istituzione veneziana, presentando una maggioranza di artisti defunti, è altrettanto vero che una tale rilettura storica dei modernismi extra-occidentali non poteva attendere oltre. Infine, metteremo il naso fuori dalla Biennale, non per parlare delle tante e meritevoli mostre che animano Venezia quest’anno (su tutte, quelle di Pierre Huyghe a Punta della Dogana e di Willem de Kooning alle Gallerie dell’Accademia), né del micelio di gallerie internazionali che nutre sempre più l’humus artistico cittadino negli ultimi anni (fenomeno che abbiamo approfondito nello scorso numero di Artribune Magazine): usciremo ancora più dalle maglie istituzionali, per comprendere come la Biennale impatti sul lavoro culturale insieme a chi vi convive quotidianamente.

Le nostre opinioni sulla “Biennale degli Stranieri”: una mostra internazionale debole, ma con valide partecipazioni nazionali.

Tra ambizioni di riscrittura del passato e illuminazione di percorsi futuribili, ecco cosa rimane della 60esima Esposizione

Internazionale d’Arte di Venezia

a destra: Il curatore Adriano Pedrosa e il presidente Pietrangelo Buttafuoco di fronte al Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale di Venezia, 2024. Foto Irene Fanizza

in alto a destra: “Stranieri Ovunque”, 60. Esposizione Internazionale d’Arte, La Biennale di Venezia, 2024. Installation view alle Corderie dell’Arsenale. Foto Irene Fanizza

in alto a sinistra e in basso: Installation view al Padiglione Centrale dei Giardini. Foto Irene Fanizza

STRANIERI OVUNQUE. UNA MOSTRA TERMINALE, PIÙ CHE GERMINALE

ALBERTO VILLA

Nella sua mostra Stranieri Ovunque, il curatore Adriano Pedrosa prometteva bellezza, e la bellezza c’è: nei colori della diversità, così come nei baci che popolano i dipinti di Louis Fratino, i mosaici di Omar Mismar, i pannelli di Aloïse Corbaz. C’è bellezza anche nel racconto della genitorialità queer di Charmaine Poh, o nelle sciamaniche visioni di Elyla e Joshua Serafini. Bellezze pressoché incontrovertibili, e, infatti riconosciute dalla critica nazionale e internazionale. Bellezze che, tuttavia, in un contesto altamente politico come quello delineato da Adriano Pedrosa, convergono nel dubbio che la bellezza possa davvero salvare il mondo. Anche considerando i lavori più interessanti, sono poche le opere che lasciano un segno incisivo durante l’esperienza di visita. Una carenza che, se da un lato è dovuta anche – inevitabilmente – all’occhio occidentale di chi scrive, dall’altra emerge in funzione di una precisa scelta curatoriale, votata più all’inclusione della minoranza che a una ricerca di stampo qualitativo. Più che le opere, a regnare – come ha sapientemente notato Christian Caliandro sul n°78 di Artribune Magazine –sono le didascalie, manifesti del vero contenuto di questa Biennale: la provenienza geografica, l’identità queer, il fatto che per la prima volta l’artista in questione partecipi alla kermesse veneziana. Tutte questioni assolutamente centrali nel mondo (dell’arte e non solo)

“Si potrebbe quasi dire che l’intera esposizione rappresenti il trionfo definitivo e insuperabile dello shabby chic globale” – Christian Caliandro

di oggi, che probabilmente non necessitavano di essere così fortemente esplicite per essere efficaci: potevano emergere, come la violenza narrata dalle video-interviste da cui Gabrielle Goliath ha sottratto i frammenti effettivamente parlati, dalle spontanee reticenze, dai non detti. La retorica dello straniero come condizione di tutti (e ovunque) non è supportata dalla selezione degli artisti, che corrisponde all’idea di straniero da una prospettiva geografica e ideologica evidentemente occidentale. Le opere presentate sono limitate da una cornice non fisica ma concettuale, che ha sì il nobile merito di rendere visibili gli invisibili, ma al prezzo di presentare l’invisibilità come unica sostanziale ragione di tale visibilità. Un’occasione perduta per una Biennale di Venezia che fosse inclusiva senza giustificazioni, accogliendo gli sforzi decoloniali degli ultimi vent’anni per costruire finalmente l’esempio di un’istituzione occidentale aperta verso gli stranieri non solo perché stranieri. Il rischio di questa forzatura non è limitato a Venezia e ai mesi d’apertura della sua Biennale, ma si riverbera nella potenziale e globale perdita di sincera attenzione alle tematiche decoloniali, indigene e queer, allineandole a quella che molti pensano essere meramente una bolla pronta a scoppiare (e, forse, ormai scoppiata), quando invece è molto di più.

Stranieri Ovunque è una mostra terminale, più che germinale, anche prendendo in considerazione le mere stati-

stiche, catalogo alla mano. Se è vero che la rilettura del passato in ottica post e decoloniale riesce nel far emergere diversi modernismi, non bianchi ed extra-occidentali, dall’altro è difficile non notare che oltre la metà degli artisti presentati sono deceduti. A ciò è da ricondurre anche la pervasiva e decisamente ingombrante presenza della pittura (oltre il 70% degli artisti in mostra utilizza questo medium) e, più in generale, di opere a parete. Con questo non si intende che la pittura non riesca a interpretare l’oggi in modo accurato – i dipinti di Giulia Andreani e Frieda Toranzo Jaeger, per esempio, dimostrano felicemente il contrario –, ma che è stato scelto un approccio passatista anche nella selezione delle modalità del fare arte, soprattutto se confrontate con le possibilità offerte (non solo in Occidente) dalle innovazioni tecnologiche. Grandi assenti, se non in rari casi, sono proprio le installazioni e la tecnologia, spesso foriere di prospettive differenti e sfidanti. Difficile pensare che la condizione di straniero, queer o indigeno possa essere rappresentata esclusivamente in modo tradizionale e didascalico; i Padiglioni, per fortuna, dimostrano il contrario: quello dell’Australia, con la potente installazione dell’aborigeno Archie Moore che ha vinto il Leone d’Oro, conferma una possibilità davvero poco esplorata alle Corderie dell’Arsenale e nel Padiglione Centrale dei Giardini, quella di non limitarsi ai più tradizionali dipinti e tessuti che, pur indubbiamente degni di rappresentazione, contribuiscono a stringere la mostra in una gabbia di folklorismo, soprattutto quando in sovrabbondanza. Un effetto senza dubbio opposto rispetto a quello preannunciato, di certo non abbastanza rappresentativo della diversità di cui questa Biennale ha fatto la sua bandiera e fallimentare nel dare vero rilievo alle produzioni contemporanee di altre geografie, che risultano celebrate ma decontestualizzate in quello che è ancora il tempio dell’arte occidentale.

LA STRUTTURA “MULTICELLULARE” DELLA BIENNALE È UNA BENEDIZIONE

Meno male che ci sono i padiglioni. Niente è stato più discusso nella storia della Biennale di Venezia, con lo stigma di nazionalismo, sovranismo, colonialismo e altre parole d’ordine che oggi fanno più paura di ieri. Se le portano appresso soprattutto quelli collocati ai Giardini, nati dal 1907 in poi: quando, appunto, l’idea di Nazione andava per la maggiore e i filosofi dell’idealismo tedesco dedicavano all’identità nazionale apologie che – ancora non si sapeva – avrebbero drammaticamente condotto al male.

Però adesso è un’altra faccenda. I padiglioni nazionali della Biennale di Venezia non sono confinati alle potenze che, in un’orbita bellica di primo Novecento avrebbero potuto avere voce in capitolo. La struttura “multicellulare” che Lawrence Alloway, negli Anni Sessanta, vedeva come una debolezza della mostra, oggi è una benedizione, perché impedisce che ci sia una pro-

“Il buono è che non c’è traccia di lavori furbi, questo perché il progetto è appassionato e coscienzioso. Peccato che sul piano qualitativo ci sia poco di che esaltarsi” –Pericle Guaglianone

spettiva univoca a guidare la mostra. Anche quando lo sguardo del curatore centrale è avanzato e rispettoso delle differenze, come, almeno sulla carta, si annunciava quello di Adriano Pedrosa, rischia sempre di essere troppo univoco per riservare sorprese e per rispecchiare davvero il polimorfismo dell’arte contemporanea. Avere una via d’uscita dal pensiero unico è sempre un vantaggio. E alla fine, guardando la mostra centrale, si capisce che molti curatori dei padiglioni hanno volentieri obbedito alla parola di Pedrosa, ma almeno lo hanno fatto con fantasia. In effetti la maggior parte dei Padiglioni parla di alterità etnica e di decolonizzazione. Non ci portano tanto lontano dalle premesse di Pedrosa i due padiglioni premiati con Leone d’Oro e Menzione. La giuria ha rispettato le linee di forza della mostra principale. Così abbiamo un premio maggiore all’Australia, un padiglione “quieto”, com’è stato definito, ma a modo suo bollente: 65.000 anni di storia del continente risultano iscritti sulle pareti e sul soffitto; a terra un torrente lascia galleggiare i documenti di Stati che paiono perduti, fragili, e però anche violenti nel loro ricordare le difficoltà delle prime immigrazioni e la quantità di incarcerazioni che hanno implicato. L’artista Archie Moore sembra perdonare e accusare nel medesimo tempo, comprendendo come in una terra di nessuno, o piuttosto di popolazioni incapaci di difendersi, non avrebbero potuto instal-

ANGELA VETTESE
in alto: Biennale Arte di Venezia 2024, Padiglione Francia. Foto Irene Fanizza
a destra: Il Padiglione Italia di Massimo Bartolini a cura di Luca Cerizza alla Biennale Arte di Venezia 2024. Foto Irene Fanizza

larsi che disperati pieni di attitudine alla violenza.

La menzione speciale come partecipazione nazionale è stata data alla Repubblica del Kosovo, solo pochi anni fa rappresentata clandestinamente da Sislej Xhafa che dava calci a un pallone. Tempo, guerre, consapevolezza e denaro sono passati sotto i ponti. Ora siamo sul bordo del femminismo e dello sfruttamento: l’installazione di Doruntina Kastrati rievoca il lavoro industriale femminilizzato. L’industria dolciaria turca trasferita in Kosovo diventa l’occasione per ricordare il dolore alle ginocchia delle operaie. Facendo riferimento sia ai gusci di noce utilizzati nelle delizie turche prodotte in fabbrica, sia alle parti mediche utilizzate per sostituire le ginocchia ammalate, un soundtrack dolceamaro ribadisce il messaggio di una civiltà che è diventata produttiva, ma a un prezzo difficilmente sostenibile.

L’attitudine post documenta 15 ai collettivi si esprime in Brasile, dove lavora il collettivo della Comunità Tupinambá dalla Serra do Padeiro e Olivença a Bahia, con Olinda Tupinamba e Ziel Karapotó. L’idea dominante è quella di un ritorno alle origini, di una restituzione del maltolto in un orizzonte naturale, dove il ricordo di un certo uccello tropicale coincide con la rivendicazione di una perduta autonomia etnica ed etica. La liberazione dall’eredità coloniale si rideclina nel freddo della Groenlandia presso il Padiglione Danimarca, dove le fotografie del nativo Inuuteq Storch, e quelle che si è fatto prestare da archivi irraggiungibili, trasmettono un percorso storico e archivistico che inizia intorno al 1900. Un itinerario non dissimile si ritrova nel Padiglione dei Paesi Nordici, che recuperano segni, volti, modalità architettoniche e materiali costruttivi delle civiltà autoctone. Se vogliamo utilizzare la categoria del bello unita a quella dell’alterità, spicca il padiglione francese: sulla corteccia degli alberi della pioggia o sulle rocce delle coste della Martinica, ovviamente territori in cerca di un’autonomia culturale rinnovata, spiccano gli elementi naturali inconsueti che l’artista Julien Creuzet ha saputo mettere in evidenza. La palma per la realizzazione più significativa, semplice da guardare ma complessa nella realizzazione, è il film di Wael Shawky per il Padiglione Egitto su di una breve rivoluzione avvenuta ai tempi della Regina Vittoria. Teatrale, curato nella sceneggiatura da musical stilizzato, attento alle coreografie, ai costumi, ai colori, alla musica, il film procede nella poetica di Shawky protesa verso due direzioni: mostrare la

“Un atto di coraggio, questo fuggire da nomi prevedibili e vendibili, che però non consola dell’eccesso di opere etnografiche, documentarie, a volte al limite della manifattura iperlocale di arazzi, ricamini e ricordini” – Angela Vettese

storia dalla parte di chi non ha vinto e prestare un’attenzione maniacale all’oggetto finale in termini di armonia e potenza comunicativa.

Una potenza inusitata scaturisce da un padiglione poco menzionato, quello del Venezuela, dove il lavoro di matrice cinetico-costruttiva di Juvenal Ravelo ricorda le installazioni e i quadri di artisti come Anuskiewickz, Vasarely, Agam e rammenta che l’idea di opera relazionale è incominciata anche da questi esperimenti. Il cinetismo degli Anni Sessanta torna a parlarci senza mai avere avuto il successo e la comprensione che meritava.

L’elenco delle sorprese potrebbe continuare con Spagna, Inghilterra, Polonia, Olanda e un Padiglione Italia onesto, monumentale, a cavallo tra il nostro nazionale estetismo e l’internazionalità della musica – quanta musica in questa Biennale! – per cui dobbiamo ringraziare l’azione elegante e più che matura di Massimo Bartolini.

Una nota finale tocca i padiglioni di Israele e Russia, entrambi chiusi (al posto della Russia c’è la Bolivia) e capaci di fare arrivare la guerra anche qui. Un ultimissimo cenno va a tutti i Paesi che, non avendo un sistema dell’arte abbastanza scaltro, hanno ceduto a curatori (ma soprattutto imprenditori) italiani la loro realizzazione. L’artista è autoctono, il denaro è straniero, il guadagno completamente locale, nel senso di Venezia o di un’Italia cialtrona. Succede.

“L’impressione generale è che questa Biennale scelga di non parlare del presente ma piuttosto di riscrivere il passato” – Ludovico Pratesi

MODERNISMI A TUTTE LE

LATITUDINI

ANNA DETHERIDGE

Il modernismo fa la sua comparsa sulla scena globale a ridosso del collasso dei grandi Imperi. La Grande Russia soccombe nella Rivoluzione del 1917, l’Impero Austro Ungarico l’anno successivo. Questo in Europa. La fine del colonialismo nel continente africano, in America Latina e nel Sud-est asiatico arriva in ondate dai primi decenni del XX secolo al secondo dopoguerra.

Mentre l’Europa perde progressivamente il suo status di culla della civiltà, il concetto di modernità si afferma, quindi, come una grammatica universale di cui “appropriarsi” da parte delle élite colte delle città capitali del cosiddetto Sud del mondo globalizzato. Il linguaggio della modernità prorompe come un desiderio o ancor più un bisogno di quelle élite di artisti, letterati e intellettuali, istruiti e cosmopoliti, di trovare la propria voce. Non certo attraverso un nativismo delle origini, ma come intellighenzia in grado di esprimere una propria cultura, modi di sentire e di stare al mondo dentro il linguaggio del loro tempo.

Spesso le narrazioni rovesciano le storie egemoniche eurocentriche, sia nella letteratura sia nelle arti, dal Dadaismo al Cubismo, fino al Surrealismo. I percorsi di artisti africani e latinoamericani preparano una nuova epistemologia modernista, accompagnata da grandi entusiasmi, teorizzazioni e manifesti politici, e da ironia feroce nei riguardi del potere eurocentrico. Tale affermazione era caratterizzata, tuttavia da molte contraddizioni. La nozione stessa di libertà artistica era sicuramente antitetica al colonialismo, ma allo stesso tempo faceva parte di quella stessa cultura che aveva nutrito questi artisti, assorbita nelle scuole e nelle università dell’Occidente.

Alla Biennale di Venezia 2024 a cura del brasiliano Adriano Pedrosa, un nucleo storico di dipinti dedicato alla pittura astratta nel mondo è una piccola chicca che permette di entrare in punta di piedi nel mondo colto e rarefatto dell’astrazione geometrica

E se in Europa primeggiano il Suprematismo delle avanguardie “russe”, il minimalismo dell’inglese Ben Nicholson che si ispira al classicismo rinascimentale italiano, l’estrema sintesi dei pae-

“Cosa rimane alla fine di un percorso se non riesco a trasformarlo in una esperienza di cultura e di storia? Colpa mia? O di chi non mi mette in grado di metabolizzare, elaborare un pensiero e mi lascia solo l’opzione di cedere a un’accettazione passiva o peggio all’unica categoria che mi resta: la domanda se mi piace o non piace…?” – Alessandra Mammì

saggi naturali di Piet Mondrian e il movimento De Stijl, dalle rigorose ortogonali e dai colori primari, gli artisti del sud globale rispondono prendendo a prestito quelle stesse formule, ma modificandole radicalmente. Tra gli aspetti più interessanti del modernismo nascente sono le diverse modalità con cui viene teorizzato e testimoniato dai dibattiti e dai manifesti prodotti in quegli anni di fervore politico e culturale in tante parti del mondo. Tra le figure di riferimento vi è, a esempio, il brasiliano Oswald de Andrade, poeta e panflettista che nella Revista de Antropofagia dichiara provocatoriamente che “soltanto il cannibalismo ci unisce”. Si tratta di una sfida aperta al predominio culturale occidentale che vede quella nera come “primitiva” e “selvaggia”. Nel suo Manifesto An-

tropófago, Oswald de Andrade tenta di sovvertire i tabù contemporanei definendo la cultura brasiliana “antropofaga”, in grado di scegliersi i bocconi migliori e più appetitosi delle culture altrui. Nell’atto stesso di ingerire, sia chi ingerisce, sia l’ingerito sono trasformati. Il linguaggio estremo e i giochi di parole articolano binomi quali civiltà e barbarie, cosmopolita e primitivo. Ma per gli artisti africani, la ricerca di un’identità in opposizione all’eurocentrismo egemonico era sicuramente più complicata. Tra coloro che per primi hanno contribuito a forgiare una diversa percezione della propria differenza, Aimé Cesaire, poeta e politico della Martinica insieme a Leopold Senghor, intellettuale e futuro primo presidente del Senegal con altri autori africani e caraibici fondono nel 1947

Négritude, gruppo letterario e politico che rivendica con orgoglio l’identità nera, contro quella coloniale francese. In seguito, però, il tema dell’autenticità africana viene criticata come espressione di un “essenzialismo”, ossia di una mentalità colonizzata e una riproposizione (e dunque non una vera sfida) dell’ideologia dei bianchi. Più tardi Césaire insieme a Frantz Fanon, autore nel 1961 di I Dannati della Terra, pongono le basi di una dialettica politica tutt’interna alla Storia africana che rinnegherà una supposta “autenticità” mitizzata (di cui viene accusato, invece, Senghor). Riconoscono che la cultura europea costituisce parte della persona africana contemporanea, ma integrano i valori europei in una nuova sintesi. Il merito di questi importanti intellettuali africani, entrambi della Martinica, è che sono stati gli iniziatori di un pensiero che riconosce la complessità della loro eredità composita, una sintesi di valori che afferma con forza la centralità della dignità umana e l’originalità di forme d’arte diversificate. A queste avanguardie dei Paesi emergenti non sfuggivano le enormi contraddizioni tra la condizione delle masse diseredate da un lato e il loro status di cittadini in grado di vivere in maniera “moderna”, o privilegiata, la propria emancipazione. Ma il processo di libera-

zione veniva visto come una dialettica tra Storia e Cultura, un percorso realistico di affermazione che cercava una propria cifra all’interno di una poetica e di un’estetica contemporanee. Lo spazio della tela in quegli anni era il campo di battaglia dove si concentrava la lotta per il potere di espressione, il luogo privilegiato della visibilità artistica. Il progetto moderno dell’arte passa attraverso la pittura e in particolare attraverso ciò che Filiberto Menna chiamava astrazione analitica. L’attualità di un grande critico e intellettuale italiano in gran parte dimenticato in patria sta ancora oggi nella chiarezza del suo pensiero sulla differenza tra rappresentare e significare. La rilevanza e la bellezza della pittura astratta geometrica fondata su una “matematica plastica” teorizzata da M.H.J. Schoenmaekers in dialogo con Mondrian nei primi decenni del Novecento ha toccato molti talenti in tutto il mondo, compresi molti artisti attivi cinquant’anni dopo, presenti per la prima volta nel Nucleo Storico di questa Biennale: da Mohammad Ehsaei in Iran, Saliba Douaihy del Libano, Carmen Herrera, nata a Havana e vissuta a New York, Anwar Jalal Shemza, nato in Pakistan e vissuto nel Regno Unito, Esther Mahlangu sudafricana di discendenza Ndebele, fino agli artisti della Scuola di

Nucleo Storico, Astrazioni Installation view al Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale di Venezia, 2024.

Foto Irene Fanizza

Casablanca: Mohammed Chebaa, Mohamed Hamidi, Mohammed Kacimi e Mohamed Melehi attivi soprattutto negli Anni Sessanta.

Forgiando liberamente altre geometrie, talvolta calligrafiche, per risignificare l’arte a diverse latitudini, le ortogonali diventano a volte curve suadenti che ricordano la grazia di antiche scritte calligrafiche oppure le onde, simbolo della Scuola di Casablanca. Molti di loro non sono stati soltanto artisti, ma maestri e docenti attenti alla pedagogia, che vedevano il loro ruolo al servizio della società.

L’astrazione europea diventa lo spazio aperto di soggettività e realtà sociopolitiche diverse, una spazialità per misurarsi con le altre modernità emergenti. E così, col tempo, ogni Paese costruisce una propria Storia che non segue le logiche storicistiche europee: prima le avanguardie storiche, poi il modernismo, e oggi il multiculturalismo. Negli altri continenti le Storie si sovrappongono e si relazionano secondo logiche e latitudini diverse. Dalla teoria e dalle pratiche di tutti questi artisti, emerge una storia dell’arte postcoloniale che rivive e rivaluta le proprie vicende secondo narrazioni costruite a partire dal rapporto diretto di ognuno con la propria esperienza culturale e sociale.

BIENNALE DI VENEZIA E DIRITTI DEL LAVORO. IL CASO BIENNALOCENE

Specchio del più ampio e problematico mondo del lavoro culturale, l’ecosistema della Biennale non è esente da radicate criticità strutturali. Mancanza di un salario minimo, esternalizzazioni e deresponsabilizzazione da parte dell’istituzione nei confronti delle condizioni di lavoro più svariate, sempre di competenza dei singoli padiglioni e mai dell’organizzazione centrale. E poi ancora confusione contrattuale, applicazione di contratti di settori non pertinenti, mancata tutela della sicurezza sul lavoro. Nella sua complessità, la Biennale ingloba tutte le criticità tipiche del lavoro nel mondo dell’arte. Un lavoro che non è percepito come un diritto, ma come un privilegio o una passione, e che in quanto tale viene spesso non retribuito. Per far fronte comune contro questa situazione, un gruppo di lavoratori si è costituito in assemblea, dando vita, nel maggio del 2023, al progetto Biennalocene: uno spazio di auto-organizzazione e di mobilitazione – facilitato da Sale Docks, Institute of Radical Imagination, ADL Cobas e Mi Riconosci? – per lottare contro le condizioni di precarietà e sfruttamento che caratterizzano il settore artistico nella laguna veneziana. Nel corso dei mesi, i ragazzi e le ragazze di Biennalocene hanno dato vita alla Carta metropolitana del lavoro culturale, mettendo nero su bianco i diritti dei lavoratori del settore: mediatori culturali, addetti alle pulizie, artisti, performer, curatori, guardasala, lavo-

Courtesy Biennalocene. Foto Nicolò Zanatta

ratori dipendenti o autonomi. Artribune li ha incontrati per approfondire il progetto e farsi raccontare, in prima persona, le criticità del lavoro culturale e, nello specifico, quelle legate alla Biennale.

Quando, come e da quali esigenze nasce il progetto?

Davide Giacometti: Biennalocene nasce da un lavoro che è stato fatto da alcuni componenti dell’Institute of Radical Imagination che, collaborando con il padiglione tedesco della Biennale dell’anno scorso, hanno lavorato su una performance-inchiesta, partendo da una serie di interviste fatte ai lavoratori dell’arte qui a Venezia. Il primo appuntamento “pubblico” si è svolto durante le vernici dell’anno scorso alla Giudecca. Durante questa performance, tante persone hanno “interpretato loro stesse”, in un format che sembrava quello di un’assemblea aperta, raccontando le difficoltà della condizione di questi lavoratori a Venezia, basandosi sulla loro esperienza. Alcuni di loro indossavano una maschera che ne celava l’identità, perché in questo settore c’è molta ritorsione, c’è molta paura nel raccontare quello che succede vera-

mente in questo campo. E quindi c’è bisogno di questa “rete di salvataggio” per essere sicuri che tutte queste storie non portino a problemi successivi. Da lì in poi si è entrati nella seconda fase: creare un’assemblea permanente con i lavoratori dell’arte a Venezia. Ci siamo incontrati circa una volta al mese a Sale Docks e abbiamo steso la Carta dei Diritti per i Lavoratori dell’Arte, che per noi è un punto di partenza per un dialogo con le istituzioni e le realtà che operano in questo settore.

Nella vostra Carta chiedete il salario minimo e l’applicazione del contratto federculture. Vi va di entrare nel dettaglio dell’importanza di questi punti?

Federica Pasini: La carta è stata scritta sulla base dei racconti delle persone che venivano alle assemblee, quindi il contenuto si basa sulle mancanze che abbiamo riscontrato e sui diritti che vengono sistematicamente negati a chi, purtroppo, lavora in questo settore in generale (ma la Biennale, appunto, non fa eccezione). Si tratta di diritti basilari, come il salario minimo, che purtroppo in Italia ancora non abbiamo ed è necessario, perché esistono dei contratti che prevedono dei salari davvero molto bassi. Vengono applicati soprattutto il contratto multiservizi, il contratto servizi fiduciari, in qualche caso, servizi ausiliari, che sono più o meno la stessa cosa. Parliamo sempre di salari sotto i 10€/ora. Nella Carta facciamo riferimento al contratto Federculture perché è il contratto giusto, è il contratto di settore che non viene mai applicato, o comunque lo applicano pochissime istituzioni e solitamente sempre ai livelli più alti, quindi ai dirigenti o ai conservatori, ai curatori, ma mai a chi svolge le mansioni al contatto con il pubblico.

Un altro punto fondamentale è la riduzione delle esternalizzazioni.

F. P.: Sì, l’obiettivo è limitare l’esternalizzazione solo quando necessaria e, anche in quel caso, ovviamente, applicare i contratti corretti. Nella Carta si

“Con luci e ombre, più ombre al primo sguardo e luci da mettere a fuoco solo dopo

riflessioni approfondite, la mostra perde in spessore quando guarda agli “artistas populares” e li inserisce in modalità espositive a loro, per l’appunto, estranee” – Marilena di Tursi

LAURA COCCIOLILLO

parla anche di lavoro autonomo coatto, che è solo un escamotage per non pagare contributi. E questo succede purtroppo in moltissimi istituti a Venezia. E poi ci sono veramente cose fondamentali come la pausa pranzo, le ferie, una serie di diritti fondamentali che molto spesso non vengono rispettati. Anche la sicurezza sul lavoro. Purtroppo, soprattutto per quanto riguarda la Biennale, ogni padiglione nazionale si gestisce da solo, non ci sono delle linee guida, dei regolamenti. Biennale non impone niente, anche perché sostiene di non poterlo fare, e quindi ogni padiglione nazionale gestisce autonomamente l’allestimento e il costo del lavoro. E ci sono le situazioni più disparate, ogni nazione fa come vuole, non rispettando la legge italiana per quanto riguarda sia gli inquadramenti dei lavoratori sia le norme di sicurezza. Questo è un po’ il segreto di Pulcinella, nel senso che tutti lo sanno, ma nessuno lo dice. Io non so sinceramente quale sia il grado di consapevolezza della Biennale, ma penso ci sia.

D. G.: Nella questione esternalizzazioni sta un po’ tutto il punto della questione, ed è il punto su cui poi il Biennale e le istituzioni se ne lavano le mani. Loro fanno i bandi, mettono le clausole, però poi chi è che va a controllare? Nessuno. E anche quando abbiamo portato all’attenzione di Biennale su queste questioni, la risposta è sempre stata che “è tutto quanto all’interno dei confini della legge, non siamo noi direttamente che ci occupiamo di queste cose”.

Quali sono nello specifico delle problematiche legate alla Biennale?

F. P.: Per me il problema principale di Biennale è che l’istituzione ha i suoi dipendenti – che sono circa 150, assunti con contratti regolari, pagati il giusto –e poi c’è un sostrato di lavoratori e lavoratrici che mandano avanti la Biennale (anche per quanto riguarda tutti gli eventi collaterali i padiglioni nazionali), che non vengono tutelati direttamente dalla Biennale, ma che devono sottostare alle regole dei singoli organizzatori. E questo porta a una frammentazione, a una diversificazione degli inquadramenti, dei contratti, un trattamento diverso dei lavoratori in ogni singola situazione. Quindi c’è anche una deresponsabilizzazione da parte dell’istituzione che, nonostante sia una delle esposizioni d’arte contemporanea più importanti del mondo, riesce ad andare avanti grazie purtroppo allo sfruttamento della forza lavoro.

Secondo voi quali sono le motivazioni che ostacolano la denuncia e il fare

“Spostando sul piano simbolico conflitti reali che restano inespressi sul piano politico, ci si nutre dell’idea che l’esperienza artistica sia riducibile a una pedagogia etica, rimuovendo così il nodo cruciale di una specifica efficacia estetica che resta ancora il termine fondamentale con cui valutare un’opera d’arte e la riuscita di una mostra” – Stefano Chiodi

rete nel contesto specifico del settore culturale?

Irene Falson: Siccome in questo grande insieme si muovono così tanti agenti, è difficile per lavoratori giovani – che magari sono alla prima esperienza lavorativa post-università – far sistema. Anche perché il mondo dell’arte sembra un ambiente chiuso ed elitario, in cui mettersi a dire “io questa cosa non l’accetto” fa quasi pensare che stai perdendo delle possibilità. E poi c’è un’ignoranza di base rispetto ai contratti di lavoro. Io per prima mi sono trovata con questo contratto che non sapevo effettivamente leggere. Ed è difficile far sistema e parlare con lavoratori perché siamo tutti quanti con situazioni contrattuali diverse, con problematiche diverse, e tutto questo va a favore dell’istituzione che se ne lava ulteriormente le mani.

F. P.: Inoltre, nel settore culturale c’è un profondissimo problema di abuso di lavoro gratuito, che sia volontariato, che sia tirocinio non pagato. C’è una competizione al ribasso estrema, perché se c’è qualcuno che lavora gratis, ci sarà sempre gente che lavora a due euro l’ora, dal momento che il ground zero è proprio non essere pagati. E questo ha anche poi un impatto a livello sociale, perché si pensa che la cultura non sia un vero lavoro, ma un’occupazione da privilegiati che possono permetterti di studiare tutta la vita e a 40 anni magari raggiungere dei posti dirigenziali, oppure possono permetterti di lavorare gratuitamente perché tanto hanno le spalle coperte. Abbiamo anche un problema in termini di narrazione verso l’esterno.

D. G.: Però devo dire che negli ultimi anni, secondo me, sempre più persone si trovano nella situazione di dire “no, aspetta, questo non può essere giusto,

quello che è successo a me non voglio che succeda a un’altra persona”. E devo dire che c’è molta spinta dalla nuova generazione. Infatti, ogni volta che facciamo un’assemblea ci sono sempre persone nuove. E c’è anche chi mi dice “io ormai so che finirò così per i prossimi due mesi, però poi voglio che questa roba non continui su qualcun altro”.

Sentite che da parte delle istituzioni e degli altri enti c’è collaborazione, una volontà di andare verso una direzione comune?

D. G.: La nostra idea è quella di presentare alle varie istituzioni la nostra carta, avere un incontro e confrontarci sui punti della carta e vedere se magari si possono migliorare le condizioni dei propri lavoratori. Qualche riscontro positivo l’abbiamo avuto, ad esempio con Palazzo Grassi. C’è stata una richiesta di miglioramento con gli aumenti di salario, ma anche del riconoscimento delle ore di formazione personale, ad esempio per lo studio che le guide portano avanti individualmente. Inizialmente la risposta è stata un po’ fredda, poi c’è stata una sorta di mediazione, e noi abbiamo facilitato un incontro tra l’istituzione e i lavoratori, che sono riusciti ad ottenere dei miglioramenti. Il riscontro per noi è positivo, soprattutto perché ha creato un caso, un precedente in cui una grande istituzione ha collaborato. Dall’altro lato, però, ci sono tutte le aziende che operano al di sotto. E nel modo in cui funzionano le cose –quindi tra esternalizzazioni, concessioni di padiglioni e quant’altro – hanno libertà per queste aziende di fare quello che vogliono. Quindi il punto della questione, secondo noi, sta nel cercare il dialogo con le istituzioni, ma soprattutto nello “scoperchiare” quello che è il metodo di lavoro di determinati attori che operano nel settore.

E per il futuro?

D.G.: Da una parte, sicuramente continueremo un lavoro di sensibilizzazione nei confronti delle istituzioni. E dall’altra, invece, continueremo a monitorare e segnalare quel che avviene ad un livello un po’ più basso, che non è magari la grande istituzione, ma che però poi è quella che fa girare il sistema. Perché poi è lì, è in queste pieghe, è nello scarico delle responsabilità che si giocano i diritti dei lavoratori.

Panorama del centro storico di Coimbra. Courtesy Center of Portugal
Praça de Dom Duarte, a Viseu. Courtesy Center of Portugal
Le saline di Aveiro. Courtesy Center of Portugal

VIAGGIO NEL PORTOGALLO

CENTRALE: ARTE, NATURA E SPIRITUALITÀ

Alla scoperta del Portogallo Centrale, una regione ricca di arte e di storia compresa tra i fiumi Tago e Douro: cattedrali barocche, monasteri, musei, il Fado e tanto altro, sono l’anima di un territorio legato alle tradizioni, ma capace anche di guardare al futuro

27 a.C.

14 d.C.

AVEIRO VISEU

COIMBRA

In questi anni, sotto il regno di Ottaviano Augusto, viene fondata la romana Aeminium, futura Coimbra.

711 I Mori conquistano la Penisola Iberica, Portogallo compreso. Lʼantica Cunimbriga diventa Kulūmriyya.

871

1434 Il sovrano Edoardo del Portogallo  concede alla città di Aveiro il privilegio di tenere una libera fiera annuale, ancora oggi conosciuta come “Fiera di marzo”.

1475

Nasce la Contea di Coimbra, con capitale la città omonima.

959 In una donazione testamentaria della contessa Mumadona Dias al monastero di  Guimarães compare per la prima volta il nome del borgo di Aveiro.

1290 La bolla di papa Niccolò IV riconosce lʼEstudoGeral, più tardi noto come Università di Coimbra.

NICCOLÒ LUCARELLI

oimbra, Aveiro e Viseu sono fra i centri più interessanti e ricchi di storia della regione del Portogallo Centrale, sviluppatasi sotto l’Impero Romano, rifiorita sotto il dominio arabo così come fra il Rinascimento e il Barocco, di cui conserva ancora importanti testimonianze artistiche e architettoniche. La regione è sempre stata culturalmente viva e ospita, a Coimbra, una delle università più antiche d’Europa, che probabilmente nell’Ottocento ha contribuito alla diffusione del Fado. E ancora, dal Monastero di Santa Joana all’Art Nouveau nella città di Aveiro, dal Museu Nacional Grão Vasco all’associazione culturale Gira Sol Azul, passato e presente di un territorio vivace e affascinante.

Nasce a Viseu il pittore Vasco Fernandes, fra i massimi esponenti del Rinascimento portoghese.

1560 A Coimbra viene istituito il Tribunale dellʼInquisizione che rimarrà in funzione fino al 1821.

1728 Si inaugura a Coimbra la Biblioetca Joanina.

1774 Papa Clemente XIV istituisce la Diocesi di Aveiro.

1811 A marzo, dopo sei mesi di scontri, le truppe anglo-portoghesi guidate dal generale Wellington bloccano nella battaglia di Bussaco lʼavanzata delle truppe francesi verso Lisbona.

1856 A Coimbra vengono introdotti il telegrafo e lʼilluminazione pubblica a gas.

1929 Nasce ad Aveiro José Manuel Cerqueira Afonso dos Santos,cantante, compositore e figura centrale nel movimento per il rinnovamento della musica portoghese negli anni ‘60. Fu anche attivista contro Salazar.

1969 Si apre con la Crise Academica allʼUniversità di Coimbra il clima sociale che porterà alla Rivoluzione dei Garofani.

1974 La Rivoluzione dei Garofani pone fine allʼEstado Novo fondato da Salazar nel 1932.

1985 Nasce il “Gruppo Coimbra” che riunisce le migliori  università  multidisciplinari europee.

2015 Si tiene a Coimbra la prima edizione di Anozero, la Biennale dʼarte contemporanea che è oggi la più importante del Portogallo.

Porto
Lisbona

COIMBRA

Coimbra sorge sul sito dell’antica città romana di Aeminium, della quale è ancora visibile lo splendido criptoportico, all’epoca parte del Foro, risalente al I Secolo d.C. La città sorgeva lungo la strada Antonina che collegava Olisipo (Lisbona) a Bracara Augusta (Braga), e grazie al fiume Mondego rivestiva grande importanza commerciale. Con la caduta dell’Impero Romano, l’insicurezza portata dalle invasioni barbariche causò massicce migrazioni interne e l’abbandono di numerose città; fra queste, la vicina Cunimbriga, la cui popolazione, dopo l’ennesima scorreria visigota, si trasferì in massa attorno al 580 nella vicina Aeminium, più sicura e facilmente difendibile grazie alla sua posizione collinare; questa migrazione portò appunto al cambio del nome, che nei secoli si è trasformato in Coimbra.

Passati i Secoli Bui, l’alba di una nuova civiltà sorse anche qui, grazie ai Mori che nel 711 conquistarono la Penisola Iberica; Cunimbriga fu ribattezzata Kulūmriyya, diventando un importante centro commerciale con una forte comunità mozarabica e una grande moschea. Nell’878 Hermenegildo Guterres riconquistò la città e le terre di Viseu, Lamego e Feira; la Contea di Coimbra fu quindi il primo regno cristiano fondato nel Portogallo musulmano. I Mori la ripresero nel 987, ma tornò definitivamente cristiana nel 1064; perse però il rango di capitale, a favore di Guimarães. Del pur affascinante passato arabo non restano purtroppo tracce perché, tornata sotto dominio cristiano, la città fu interessata da profonde modifiche urbanistiche. Nell’XI Secolo, sulle rovine del Foro fu riedificato il Palazzo Vescovile, che nel 1910 divenne la sede del Museu Nacional de Machado de Castro, ed è sotto tutela UNESCO dal 2013. Dalla fine dell’XI Secolo, terminate le scorrerie e con la pacificazione del Portogallo, l’antica città collinare, dove vivevano gli aristocratici e il clero, cominciò a “riconquistare” anche la zona lungo il Mondego, e la città bassa, o Baixa, rivide fiorire i quartieri popolari che ospitavano il commercio e l’artigianato. A seguito di questa nuova importanza, all’inizio del XII Secolo fu proclamata capitale del regno del Portogallo, sostituita poi da Lisbona nel 1255.

La rinascita definitiva della città avvenne grazie all’Università, fondata nel 1290 dal sovrano Dinis I come Estudo Geral Português; è la più grande del Portogallo (37.000 studenti, ad oggi) ed è annoverata fra le più antiche d’Europa. La sede storica si trova ancora oggi nel complesso del Paço Real da Alcáçova, oggi noto come Paço das Escolas. Città principalmente di studio e di pensiero, rimase sostanzialmente invariata fra il Cinquecento e l’Ottocento, quando fu abbattuta la cinta muraria per la modernizzazione urbanistica voluta dal Marchese di Pombal (oggi si conserva soltanto la porta di Almedina, con relativa torre, all’epoca il punto d’ingresso principale della città alta). L’instaurazione della Repubblica nel 1910, che pose fine al regno dei Braganza, portò in tutto il Paese una profonda instabilità politica, cui pose fine il colpo di Stato militare del 28 maggio 1926. Di questa situazione approfittò António de Oliveira Salazar, fondatore dell’Estado Novo e dittatore dal 1932 al 1936. Anche Coimbra ovviamente visse i difficili decenni dell’autoritarismo, ma fu dalla sua Università che, nel 1969, cominciò la spinta per la democratizzazione del Paese.

IL FADO

Con Porto e Lisbona, Coimbra è una delle capitali nazionali del Fado, genere musicale tipico del Portogallo, la cui origine è però assai controversa: una tradizione lo vorrebbe di derivazione moresca, precisamente dall’antica xácara; un’altra ritiene che il Fado sia nato negli ambienti della piccola malavita di Lisbona, a fine Ottocento. Infine, una versione assai romantica lo vuole inventato da Maria Severa Onofriana, figlia di un gitano e di una prostituta, che cantava e suonava la chitarra per le strade di Mouraria, quartiere popolare di Lisbona. Morì ad appena 26 anni, nel 1846, a causa della tubercolosi, ma la sua leggenda è ancora viva nel folklore portoghese. Qualunque sia la verità, il Fado, con il trascorrere dei decenni acquisì una grande ricchezza melodica e complessità ritmica, diventando più letterario e più artistico. Solitamente è cantato da una sola persona, accompagnata da una chitarra classica (chiamata viola) e una chitarra portoghese, che deriva dall’antica cetra ma ha anche le influenze del sitar indiano (conosciuto a Goa). I temi tipici del Fado sono la nostalgia, la gelosia, piccole storie di vita popolare e la corrida. Fra i grandi nomi di ieri e di oggi, Arturo Paredes, Ercilia Costa, Amália Rodrigues, Carlos Ramos, Ana Moura, Raquel Tavares. A Coimbra, però, il Fado, noto anche come Canção de Coimbra, è particolarmente legato all’ambiente universitario, sia perché tanti dei suoi interpreti sono appunto ex studenti, sia perché molte canzoni sono legate alla vita universitaria, comprese le serenate alle giovani lavandaie. Anche qui, l’origine è controversa: secondo alcuni deriva da melodie suonate dagli studenti brasiliani che, dal 1860, frequentavano l’Università locale; secondo altri, fu portato a Coimbra da studenti di Lisbona. Un’altra versione la fa derivare dalle liriche dei trovatori medievali. E forse, nel Fado di Coimbra c’è un po’ di tutto questo. Ascoltarlo, anche senza comprendere completamente le parole, è comunque un ottimo modo per entrare nello stato d’animo del popolo portoghese, orgoglioso e introverso, ma anche passionale e sognatore. Il Fado de Coimbra è solitamente cantato da un uomo, accompagnato da una chitarra classica e da una chitarra di Coimbra, che differisce dalla portoghese nell’accordatura. Fra i luoghi principali per ascoltarlo, il Fado ao Centro, fondato nel 2013 da ex studenti universitari, e il Café Santa Cruz, ricavato negli spazi dell’omonima chiesa cinquecentesca sconsacrata, con eleganti arredi Art Nouveau che dialogano con l’architettura rinascimentale. È forse uno dei luoghi più eclettici in cui ascoltare il Fado, e se si ha fortuna si può assistere a un concerto di Antonio Dinis, la cui voce tenorile ne fa uno dei più rappresentativi interpreti della cosiddetta “vecchia guardia”. Oggi, comunque, anche grazie alla scuola del Fado ao Centro, si sta formando una nuova generazione che contribuirà a tenere viva questa affascinante tradizione musicale.

LA BIENNALE DI COIMBRA

ANOZERO, la Biennale d’arte contemporanea più im portante del Portogallo si svolge in varie sedi della città di Coimbra. Nell’anno che segna il cinquante simo anniversario della Rivoluzione dei garofani che rovesciò l’Estado Novo fondato da Salazar e durato quasi mezzo secolo, aprendo la strada a una transizione democratica nel Paese, circa 50 artisti provenienti da Angola, Argentina, Brasile, Francia, Germania, Mozambico, Portogallo, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti si confrontano sul concetto di libertà. O fantasma de libertade (Il fantasma della libertà) è infatti il titolo scelto per questa edizione che cade in un importante anniversario della storia portoghese, un modo per riflettere sull’effettivo accesso alla libertà, e le barriere che invece ancora oggi rendono schiave milioni di persone. Fino al 30 giugno 2024

QUATTRO DOMANDE A CARLOS ANTUNES, DIRETTORE GENERALE DELLA BIENNALE

Perché è nata la Biennale di Coimbra?

Organizzata dal 2013 dal Circolo di Belle Arti di Coimbra, dal Comune di Coimbra e dall’Università di Coimbra, Anozero è un tentativo di comprendere il significato simbolico e pratico di questa nuova realtà cittadina. Propone un confronto tra arte contemporanea e patrimonio, esplorando i rischi e le molteplici possibilità ad esso associati evitandone la dannosa

sopra: Carlo Antunes, direttore della Biennale di Coimbra. Courtesy As Beiras

a sinistra: Il PaçodasEscolas, sede storica dell’Università di Coimbra. Courtesy Center of Portugal

ALBERTO MARTINS E LA “CRISE ACADÉMICA” DEL 1969

È probabilmente la pagina più importante della storia dell’Università, perché si fonde con uno dei momenti cruciali della storia del Portogallo del Novecento. La crisi iniziò il 17 aprile 1969, quando al presidente del consiglio generale dell’Associazione accademica, Alberto Martins, fu impedito di parlare nel corso dell’inaugurazione dell’edificio della facoltà di matematica, occasione in cui erano presenti vari figure politiche di primo piano. Gli studenti, che già protestavano chiedendo la reintegrazione degli insegnanti e la democratizzazione dell’istruzione superiore, occuparono l’aula dove si svolgeva l’inaugurazione e nei giorni successivi proclamarono uno sciopero generale studentesco che ebbe l’85% di partecipazione. Il 6 maggio il governo ordinò la chiusura dell’Università, ma lo sciopero continuò fino a settembre. Coimbra fu occupata dalle forze di polizia, diversi capi del movimento studentesco furono arrestati, e molti altri furono costretti ad arruolarsi nell’esercito e a prendere parte alle guerre coloniali in Angola e Mozambico.

Ma ognuno di quei giovani si distinse per l’audacia, il coraggio, il distacco dalle comodità quotidiane, il dovere etico di lottare per una società migliore, l’amore per la libertà. Come primo risultato, in settembreil ministro dell’Istruzione e il rettore dell’Università si dimisero, e fu il primo segnale di crisi del regime che in qualche modo dette coraggio al resto del Paese e portò, passo dopo passo, a maggiore una presa di coscienza delle possibilità di riottenere la democrazia. Anche se la Rivoluzione dei Garofani dell’aprile 1974 nacque in ambito militare, è comunque figlia di un nuovo clima politico che prese le mosse da Coimbra e dalla sua Università.Dopo la rivoluzione Alberto Martins, che nel frattempo si era laureato in Giurisprudenza, entrò in politica nelle file del Partito Socialista, e fino al suo ritiro nel 2017 è stato più volte parlamentare e ministro, e nel 2019 è tornato a Coimbra per la commemorazione del 50° anniversario di quella “crisi” che aprì le porte alla democrazia.

cristallizzazione. Anozero è, quindi, un programma d’azione per la città che, attraverso la messa in discussione sistematica del territorio in cui è inscritta, può contribuire alla costruzione di un’epoca culturale attiva e trasformativa.

Come ha reagito la città e come è coinvolto il pubblico?

Coimbra aveva altri progetti significativi purtroppo non più attivi. La Biennale fa rivivere l’ambizione culturale internazionale della città, e il pubblico l’ha accolta con entusiasmo; è oggi il progetto culturale più rilevante della città e sicuramente uno dei più significativi del Paese. Ciò porta energia positiva alla città e contribuisce a rafforzare la sua autostima, vitale per la vita urbana. Al di là della sua ambizione internazionale e della naturale circolazione di artisti, curatori e pubblico esterno, la Biennale cerca continuamente un impegno locale. Per questa edizione, oltre al programma didattico, il programma convergente prevede un’ottantina di proposte provenienti da artisti e collettivi locali, istituzioni e centri d’arte.

La Biennale collabora con istituzioni culturali straniere?

Dobbiamo cercare continuamente affiliazioni e partner stranieri per aspirare a un ambito internazionale. È un cammino lento per acquisire fiducia, ma sta procedendo. Molte di queste istituzioni sono ora partner abituali della Biennale e forniscono sostegno agli artisti dei loro paesi. Ma c’è curiosità su Anozero anche da parte di altre biennali. Le biennali devono trovare strategie di collaborazione per servire meglio gli interessi degli artisti e del pubblico, con evidente vantaggio economico. Ad esempio, stiamo coproducendo un’opera di Robert Grabis per la Biennale di Lione e un’altra di Jeremy Deller per Manifesta.

Qual è il futuro della Biennale, considerando il progetto di trasformare Santa Clara a Nova in un albergo?

Che un monastero abbandonato e recuperato come sede di una biennale d’arte contemporanea, che così ringiovanisce, si riempie di vita, creando un luogo di speranza, possa ora diventare oggetto di un concorso per trasformarlo in un hotel di lusso, è un chiaro segno dei tempi in cui viviamo. Solo i più ignari potrebbero negare l’evidenza: la crescita della Biennale e il progressivo riconoscimento internazionale, testimoniati sia dai regolari inviti a partecipare ai maggiori forum internazionali sia dal crescente numero di giornalisti nazionali e stranieri, così come la crescita nel numero di pubblico locale, nazionale e internazionale. Niente di tutto ciò deve trarre in inganno: la strada da percorrere sarà lunga, ma sarà sicuramente imperdonabile impedire la continuazione di questo percorso, condannando la biennale alla chiusura e interrompendo la sua missione.

AVEIRO

I primi insediamenti umani nella zona di Aveiro risalgono al Neolitico, ma un primo sviluppo lo si ebbe con la presenza romana, che fece di questo villaggio affacciato su una laguna uno dei più importanti centri iberici per la produzione del sale, che sussiste ancora oggi con gli stessi metodi artigianali del passato. La laguna costituisce un affascinante ecosistema, rifugio di una consistente fauna avicola, compresi i fenicotteri rosa. Un’estesa rete di sentieri e piste ciclabili ne fanno una meta piacevole da dove respirare il profumo dell’Oceano, che con le sue maree garantisce la freschezza dell’acqua. Il sale continuò a rimanere importante anche nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano, ma Aveiro è anche legata al Mosteiro de Jesus, dove alla fine del Quattrocento visse l’Infanta Joana, ancora oggi molto venerata in tutto il Portogallo. Tra il XVI e il XVII Secolo, l’instabilità della foce del fiume Boco provocò la quasi chiusura dello sbocco sul mare, impedendo l’utilizzo del porto e creando ristagno nelle acque della laguna, che a sua volta provocò la diminuzione del commercio e una massiccia emigrazione. Soltanto dal 1808, con lo scavo del Canal dos Botirões, del Canal Central, del Canal do Côjo, del Canal das Pirâmides, del Canal de São Roque e del Canal do Paraíso, sui quali si affaccia ancora oggi, Aveiro conobbe un nuovo periodo di prosperità, che si tradusse sia in nuovi edifici nel tipico stile portoghese dalle facciate ricoperte di azulejos (la vecchia stazione ferroviaria ne è uno degli esempi migliori), sia nello stile dell’Art Nouveau, che ebbe i suoi migliori interpreti negli architetti Ernest Korrodi e Francisco Augusto da Silva Rocha; ancora oggi il centro storico è costellato di questi begli edifici dalle facciate e gli azulejos floreali, 29 dei quali sono monumenti nazionali classificati.

AVEIRO E SANTA JOANA

Pur essendo ufficialmente “soltanto” Beata, la città la venera come una santa; è l’Infanta Joana, figlia del Re Alfonso V che nel 1475, appena ventitrenne, decise di abbracciare la vita claustrale nell’allora Mosteiro de Jesus, dove visse fino al 1490, anno della prematura scomparsa a causa della tubercolosi. Sin da bambina aveva dimostrata inclinazione per la vita religiosa, e dopo essere stata reggente del regno nel 1471, al tempo della spedizione del padre su Arzila, al suo ritorno gli comunicò la solenne decisione. In quanto potenziale erede al trono non pronunciò mai i voti di suora domenicana, ma visse come se lo avesse fatto, seguendo scrupolosamente le regole di vita dell’ordine fino alla morte. Nella sua pur breve vita compì numerose opere di carità a favore dei poveri, guadagnando l’affetto e la ricono -

Aveiro, la vecchia stazione ferroviaria. Courtesy Center of Portugal

scenza della cittadinanza, che nei secoli non hai smesso di ricordarla e venerarla. Proclamata Beata nel 1693 da Innocenzo XII, nel 1965 Paolo VI la dichiarò protettrice speciale della città di Aveiro. Con le soppressioni del 1834 anche il Monastero de Jesus fu costretto a chiudere, sopravvivendo però fino al 1874, anno della scomparsa dell’ultima monaca.Nel 1882 l’edificio fu ceduto al Terz’Ordine Domenicano, che lo trasformò nel Collegio di Santa Giovanna, dedito a opere di carità. Ma l’instaurazione della Repubblica nel 1910 portò allo scioglimento del Collegio, che l’anno successivo fu sostituito dall’attuale Museu de Aveiro. Ciò non ha però cancellata la venerazione popolare, e in tutto il Portogallo, ma in particolare ad Aveiro, il 12 maggio di ogni anno si festeggia ancora oggi Santa Joana, la regina dei poveri e degli umili.

Fra i luoghi simbolo della città, la Cappella di São Gonçalo (o Gonçalinho nell’affettuoso diminutivo popolare) nel quartiere di Beira Mar, edificata nel 1714 in pietra di Ançã e a pianta esagonale. Il portale della facciata è sormontato da una nicchia contenente la statua seicentesca di São Gonçalo de Amarante, al quale si attribuisce il potere di curare le malattie delle ossa e risolvere i problemi coniugali. Ogni anno, nella domenica più vicina al 10 gennaio, si festeggia il santo con una messa e con il rito del lancio delle cavacas (focacce secche a base di albume d’uovo e farina, ricoperte di zucchero) dall’alto della cupola verso la folla radunata nella piazza antistante, a simboleggiare il “pagamento” delle grazie ricevute. Un momento di festa e di gioia, con i fedeli che con i recipienti più svariati “battagliano” per raccogliere i dolci.

Un altro monumento sacro di rilievo è la Igreja das Carmelitas, fino al 1834 parte dell’antico convento delle Carmelitane, il cui chiostro è oggi sede della polizia. Se la facciata è poco appariscente, l’interno non delude il visitatore: grandiosi pannelli barocchi di azulejos azzurri e bianchi con scene bibliche e dei pellegrini sulla via di Compostela, sono sormontati da ricche cornici in legno intagliato e dorato che racchiudono raffigurazioni di santi appartenenti all’ordine carmelitano. Infine, insieme all’altare dorato, completano questa chiesa piccola ma suggestiva le pitture su legno che rivestono il soffitto della navata con scene della vita di Santa Teresa de Jesus. Aveiro è però una città che non vive di sola storia, ma è anzi al centro di uno sviluppo economico di tutto rispetto, che va dall’industria tecnologica all’eterna produzione di sale pregiato. Inoltre, quest’anno, la città è Capitale Portoghese della Cultura, titolo che premia il suo dinamismo e la sua visione del futuro che si gioca sul patrimonio artistico e su quello industriale.

AVEIRO CAPITALE PORTOGHESE DELLA CULTURA

Polo tecnologico e centro universitario, oltre che cittadino di tradizioni storiche importanti, Aveiro è da sempre legata alla laguna e all’Oceano, sospesa fra l’acqua e la terra, sempre capace di reinventarsi e di guardare al futuro. Il 2024 la vede capitale culturale del Paese, con un vasto programma che va dall’arte alla gastronomia, dal teatro alla letteratura. Ecco i principali appuntamenti estivi.

20 giugno - 31 luglio

1 Teatro Aveirense

“…AFTER ONCE AGAIN PULSING WITH ALL YOUR SENSES THE EARTH IN THE ROUND”

Portogallo, anni ’40 del Novecento, l’esplorazione mineraria si espande nel Centro e nel Nord del Paese, con un’attenzione particolare sul tungsteno, minerale che veniva utilizzato per la produzione dell’acciaio e di altre leghe metalliche, essenziali per l’industria delle armi. Sostenuto da un regime dittatoriale monopartitico e da un’Europa in fermento, nel pieno della

Seconda guerra mondiale, Salazar tenta con giochi di prestigio diplomatici di rafforzare la neutralità portoghese nel conflitto, ma finisce per negoziare l’esplorazione e la vendita del tungsteno sia con i tedeschi sia con gli alleati..

8 giugno - 22 settembre

2 Museu de Arte Nova

THE ART NOUVEAU WORLD. THE TRANSFORMATION OF NATURE

Attraverso una selezione di sculture, suppellettili, opera grafiche e pittoriche, la mostra racconta come l’Art Nouveau riuscì a trasformare la natura in un’opera d’arte.

25 maggio - 22 settembre

3 Galeria da Antiga Capitania

PASSADO E FUTURO DO AZULEJO EM PORTUGAL

Aveiro è una città dai paesaggi urbani segnati indelebilmente dagli Azulejo; per questo guarda con attenzione al passato ma anche al futuro di questa raffinata forma di espressione artistica. Una mostra articolata in ambiti che comprendono gli stessi spazi urbani.

13 luglio - 22 settembre

4 Museu de Aveiro/Santa Joana IMAGINÁRIO COLETIVO: OBRAS DA COLEÇÃO DE ARTE

CONTEMPORÂNEA DO ESTADO

Una collettiva a cura di Sandra Vieira Jürgens che ha selezionato opere di artisti portoghesi e internazionali accomunate dalla riflessione sulla sostenibilità

17 - 21 luglio

5 Baixa de Santo António FESTIVAL DOS CANAIS

Festival multidisciplinare che spazia dalla musica al teatro di strada agli spettacoli circensi, promosso dall’amministrazione comunale di Aveiro e organizzato dal Teatro Aveirense. Si svolge nel parco Baixa de Santo António, una delle aree verdi più grandi della città.

LA PORCELLANA DI VISTA ALEGRE

Dal 1824, in questo villaggio nei pressi di Ílhavo si produce la prima e più famosa porcellana del Portogallo, per iniziativa di José Ferreira Pinto Basto. Un’avventura industriale all’avanguardia, poiché già all’epoca attorno alla fabbrica sorse un villaggio, ancora oggi visibile, destinato agli operai, che qui avevano le loro abitazioni, ma anche il teatro, la mensa, e l’asilo per i figli. Negli anni, numerosi artisti hanno collaborato con l’azienda, per la produzione di pezzi in serie limitata: fra gli ultimi Lourdes Castro, Nicolas de Crecy, Cyril Pedrosa. Parte degli storici stabilimenti ospita oggi il museo, aperto nel 1964 e membro dell’Itinerario Europeo del Patrimonio Industriale. La collezione ripercorre tutta la storia della produzione interna, dal 1824

25 - 27 luglio

6 Praça Marquês de Pombal

JAM. HIP HOP & JAZZ

Un evento curato da Rui Miguel Abreu che nasce dalla ricerca di spazi di confluenza tra il jazz più moderno e altri generi musicali, in particolare con l’hip hop, stabilendo ponti tra questi due mondi e incoraggiando incontri tra pubblici, generazioni e sensibilità diverse.

19 settembre

1 Teatro Aveirense

C LA VIE

Con C la Vie Serge Aimé Coulibaly crea una nuova storia iniziatica contemporanea per esplorare la vita e il nostro modo di essere nel mondo. Al centro di questo viaggio iniziatico c’è l’incontro: con la musica, con l’altro, con la realtà, con il tempo, con il pianeta, con la persona amata e così via. L’unica cosa che conta è il tentativo di entrare in sintonia con il mondo.

La fabbrica di porcellana di Vista Alegre

Praça Delgado

SANTAR, IL VILLAGGIO-GIARDINO

Incastonato fra i vigneti della Beira, poco a sud di Viseu, Santar è un antico villaggio medievale ingranditosi fra il Cinquecento e il Settecento, caratterizzato da edifici nel tipico granito locale. La particolarità è che il villaggio racchiude come uno scrigno cinque splendidi giardini terrazzati, dove alberi e piante secolari si alternano ai vigneti; ognuna delle tenute produce diversi tipi di vino, che vengono commercializzati sotto l’etichetta Santar Vila Jardim. Dal 2013, infatti, la famiglia Vasconcellos e Souza, erede della casata dei Conti di Santar e Magalhães, ha coinvolto gli altri proprietari nella conservazione e valorizzazione del patrimonio locale, creando una sorta di “consorzio” che unisce le tenute in un unico percorso museale a cielo aperto fra storia e natura. Il giardino-museo coinvolge anche la comunità locale in progetti di agricoltura sociale, culturali e di beneficenza, nel nome del rispetto della natura, delle proprie origini, e della concordia civile.

VISEU

Circondata dalle montagne e dai fiumi Vouga e Dão, Viseu è la città natale di Vasco Fernandes (c. 14751542), uno dei più importanti pittori del Rinascimento portoghese; le numerose chiese che costellano il gradevole e colorato centro storico ne fanno uno scrigno di arte e architettura sacra. Il primo insediamento nell’area dell’odierna Viseu è temporalmente riconducibile all’Età del Ferro, ma acquisì importanza in epoca romana e poi visigotica, per la sua posizione vicina alle principali vie commerciali. A Viseu è associata la figura di Viriato, celebre condottiero lusitano del II secolo a.C., nato probabilmente in questa zona, che combatté per l’indipendenza del suo popolo dal dominio romano fino alla sua morte. Occupata nell’VIII Secolo dagli Arabi, durante la Reconquista subì assedi e distruzioni a più riprese, fino al 1058 quando tornò stabilmente sotto la Contea Portucalense. Nel 1415 nacque il Ducato di Viseu, per decisione di Juan I che lo affidò al figlio Enrique, futuro “Navigatore”. Dopo secoli di anonimato, la città riconquistò una certa importanza e avviò l’espansione urbanistica nell’attuale zona centrale, conosciuta come Rossio, edificata a partire dal 1534. Ancora oggi lungo le strade principali si affacciano case del XVI secolo con grondaie e finestre gotiche, segno di un “conservatorismo” architettonico che ancora competeva con il più raffinato stile rinascimentale. Fra il XIV e il XV Secolo, tra Rua da Senhora da Boa Morte e Rua do Hilário, si trovava la Juderia, o ghetto ebraico, ma non ne rimangono purtroppo tracce visibili, dopo che nel 1496 l’Editto di Espulsione costrinse gli ebrei a lasciare il Portogallo o convertirsi al cattolicesimo. Resta comunque l’atmosfera dei secoli passati, che a Viseu è forse più evidente che in città come Aveiro o Coimbra: città commerciali e universitarie, sono logicamente più aperte ai contatti con altre culture e stili di vita. Invece, a Viseu si respira ancora l’aria del vecchio Portogallo, fra piccoli caffè, botteghe tradizionali di artigianato, case in stile senza eccessi monumentali che sembrano meditare nostalgicamente. La cattedrale, nota come Sé de Viseu, risale al XII Secolo, ma fu ampiamente ristrutturata fra il XIII e il XIV sotto la supervisione dei vescovi Egas e João Vicente, che però rispettarono l’originale stile roma-

Igreja da Misericordia, Viseu. Foto Kutsal Amac Kuruhan

nico. Nel periodo manuelino alle navate si aggiunsero le volte a crociera, e la cattedrale ebbe il suo chiostro. Poi, fra Seicento e Settecento, il Barocco portò con sé ricche opere di intaglio, maiolica e pittura che modificarono l’originale sobrietà degli interni. Sull’altro lato della piazza sorge la settecentesca Igreja da Misericórdia, che pur avendo una sola navata accoglie pregevoli opere ottocentesche come il gruppo scultoreo Visitazione, di José Monteiro Nelas, e alcuni dipinti, fra cui Nostra Signora dei Dolori, di António José Pereira. Il Museu Nacional Grão Vasco è il più importante della città dedicato al pittore quattrocentesco, nato a Viseu, Vasco Fernandes. Ma la città non vive di sola memoria, avendo un attivo substrato culturale contemporaneo; ad esempio, l’associazione culturale Gira Sol Azul, diretta da Ana Bento e Bruno Pinto, mira a sviluppare attività artistiche, musicali, teatrali, eccetera, coinvolgendo le scuole e la comunità locale. Dal 2013 organizza il Viseu Jazz Festival, i cui concerti si tengono in vari luoghi, fra cui il Museo Grão Vasco, la Pousada de Viseu e il Parque Aquilino Ribeiro che, con il giardino di Praça da Republica e il Jardim Tomás Ribeiro, è uno dei tanti piacevoli spazi verdi che impreziosiscono la tranquilla ma affascinante Viseu.

LA FORESTA DI BUSSACO

Fra le bellezze naturali del Portogallo Centrale, quest’area protetta situata sul Monte Bussaco a 547 metri di altezza, vasta 115 ettari, occupa quella che un tempo era la pertinenza di un monastero dell’ordine Carmelitano, costruito fra il 1628 e il 1630. Accanto alla vita contemplativa che la foresta permetteva loro, i monaci si prendevano cura della foresta, piantandovi anche nuovi alberi e piante. Della struttura del monastero restano oggi le mura e le undici porte che circondano quello che un tempo era il parco dei monaci, e le cappelle con le stazioni della Via Crucis. Dal 1917 accoglie il lussuoso e raffinato Palace Hotel, monumento nazionale classificato che ancora permette di rivivere fiabesche atmosfere d’altri tempi. La foresta ospita anche numerose specie arboree esotiche, fra cui il cedro del Messico, introdotto a Bussaco dai monaci nel lontano XVII Secolo. L’esemplare più vecchio, detto Cedro di San Giuseppe, pare risalire a 350 anni fa. La foresta, e soprattutto il giardino monumentale che sorge nei pressi della residenza neo-manuelina, ospitano anche una collezione di 180 esemplari di Camelia Japonica, la cui fioritura tra febbraio e maggio costituisce una spettacolare nota di profumi e colori.

LA STORIA

DEL PORTOGALLO CENTRALE IN 7 MUSEI

Spaziano dall’arte sacra – specchio della profonda spiritualità del popolo portoghese – alla scienza, dall’architettura alla marineria, e sono spesso ospitati in edifici monumentali. Nell’area compresa fra Coimbra, Aveiro e Viseu sorgono musei che offrono un ampio spaccato degli usi e costumi della regione.

1 MUSEU NACIONAL DE MACHADO DE CASTRO

Intitolata allo scultore Joaquim Machado de Castro (1731 – 1822), fu aperto al pubblico nel 1913, nelle sale dell’ex Palazzo Vescovile di Coimbra. Attualmente in fase di parziale ristrutturazione, oltre a inglobare il criptoportico romano, conserva una prestigiosa collezione di pittura portoghese e fiamminga del XVI e XVII Secolo, oltre a una vasta collezione scultura che va dall’XI al XVIII Secolo, il cui nucleo più rappresentativo riguarda la produzione scultorea cittadina fra Trecento e Cinquecento, spesso in pietra di Ançã. Fra i capolavori del genere, il Cristo morto nella Tomba proveniente dal Monastero di Santa Clara-a-Velha. Nonostante le sue antiche fondamenta, il Museo consta di un moderno edificio progettato nel 2014 da Gonçalo Byrne, in cui sono conservate le sezioni di scultura, pittura, oreficeria.

2 MUSEO DELLA SCIENZA DELL’UNIVERSITÀ

Ospitato in un edificio neoclassico, vanta collezioni scientifiche fra le più antiche e importanti del Paese; la maggior parte degli oggetti risale alla Riforma Pombalina dell’Università, avvenuta nell’ultimo quarto del XVIII

Secolo: assieme alle nuove facoltà di matematica e filosofia, nacque anche il Gabinetto di Storia Naturale, che fu il primo museo universitario portoghese, che dal 2006 riunisce la collezione di strumenti scientifici del XVIII e XIX

Secolo del Museo di Fisica e le collezioni di botanica, zoologia, antropologia e mineralogia del Museo di Storia Naturale, così come quelle dell’Osservatorio Astronomico e dell’Istituto Geofisico dell’Università di Coimbra. Le collezioni antropologiche ed etnologiche comprendono 500 scheletri completi e 2.000 teschi raccolti principalmente nell’Ottocento in Angola, Brasile, Goa, Guinea, Macao, Mozambico, Sao Tomé e Timor.

3 BIBLIOTECA JOANINA

Sorge all’interno della sede storica dell’Università di Coimbra, nell’ex Paço Real da Alcáçova. Edificata fra il 1717 e il 1728 per volere del sovrano João V, è considerata una delle biblioteche barocche più belle d’Europa, e riunisce quasi 70.000 volumi, la maggior parte dei quali si trovano al piano nobile, che è appunto visitabile. È composta da tre sale comunicanti tramite splendide arcate tardo-barocche con intarsi in legno dorato; alle pareti, raffinate decorazioni in oro su fondi verdi, rossi e neri, spesso con scene orientali di Goa e Macao, realizzate dal pittore Manuel da Silva. La Biblioteca conserva volumi che datano dal Medioevo al XIX Secolo, ed è la testimonianza più importante della storia culturale cittadina.

4 MUSEU DE AVEIRO

Sorge nel complesso del quattrocentesco Convento de Jesus, dove l’Infanta Joana si ritirò nel 1472 e dove morì nel 1490, appena trentottenne. Dal 1911, il Convento ospita il Museu de Aveiro e la sua vastissima collezione di pittura, scultura, pannelli in ceramica, oreficeria a tema sacro, oltre a rari codici del XV e del XVI Secolo. La collezione pittorica consta di una serie di dipinti su tavola di scuola portoghese, fiamminga e italiana, databili fra il Quattrocento e il Settecento. Il Museo accoglie ancora oggi la tomba di Santa Joana, con finissimi intarsi di marmi policromi, eseguita nel primo Settecento su disegno dell’architetto Manuel Antunes, e il suo ritratto, attribuito alla scuola di Nuno Gonçalves.

5 MUSEO DELL’ART NOUVEAU

Si trova ad Aveiro, nella Casa Major Pessoa, uno degli edifici architettonicamente più belli della città. Progettato da Ernest Korrodi e Francisco Augusto da Silva Rocha, è caratterizzato dalla facciata in pietra squadrata con ringhiere floreali in ferro battuto ai balconi. La sommità del tetto è sormontata da un’aquila, tema che si ripresenta anche all’interno, insieme ad altri concernenti animali e fiori, impressi sui tradizionali azulejos portoghesi. All’interno del piccolo edificio si ammirano alcune belle vetrate dipinte, la scala a chiocciola in ferro battuto, e una collezioni di piccoli oggetti della Belle Époque, fra cui vasi in ceramica e scatole artistiche.

6 MUSEO MARITTIMO

Fondato nella cittadina di Ílhavo nel 1937 e ospitato dal 2001 in un bell’edificio contemporaneo progettato dagli architetti Nuno Mateus e José Mateus in collaborazione con lo studio francese ARX, il museo è dedicato alla società e alla cultura marinara della regione e ospita una collezione di barche tipiche della zona, alcune originali, altre fedelmente riprodotte, fra cui quelle usate per la raccolta delle alghe nella vicina laguna, per il trasporto del sale, per la pesca: una sala è specificamente dedicata alla pesca dei merluzzi, ancora oggi una delle principali attività economiche portoghesi; tuttavia, in passato si svolgeva in condizioni assai dure, per sei mesi al largo delle coste canadesi. La terza sala è dedicata alle esplorazioni marittime cinquecentesche e all’evoluzione della marineria dal Medioevo a oggi. Completano il Museo un acquario e una collezione di circa 5mila conchiglie e stelle marine, una delle più grandi d’Europa.

7 MUSEU NACIONAL GRÃO VASCO

Fondato a Viseu nel 1916 e profondamente ristrutturato tra il 2001 e il 2003, il museo occupa il Palazzo Três Escalões, dove un tempo si trovava il seminario. All’interno della collezione (che comprende Belle Arti e arti applicate) spiccano le pale d’altare dell’artista quattrocentesco Vasco Fernandes, detto Grão Vasco; fra i pezzi più notevoli per l’eleganza e l’espressività delle figure, un ciclo di pannelli con le storie della vita di Cristo proveniente dalla Cappella Mor de Sé di Viseu. Inoltre, pitture del XIX e XX secolo di Columbano Bordalo Pinheiro, José Malhoa, Soares dos Reis, António Ramalho e Sousa Lopes.

Alegre Mira Cantanhede
Figueira da Foz
COIMBRA
Santar
Foresta di Bussaco
Anadia
Tondela Carregal do Sal
Santa Comba Dão Arganil
5km
Oliveira do Hospital
Oliveira di Barro

LIVIA MONTAGNOLI

Siamo tutti mecenati”. A dieci anni esatti dall’entrata in vigore dell’Art Bonus, è questo il mantra più utilizzato nella campagna di comunicazione che vuole promuovere, presso una platea sempre più trasversale, lo strumento di sostegno al mecenatismo culturale più significativo dell’ordinamento italiano, in esecuzione di un principio fondamentale sancito dalla Costituzione all’articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”.

Al 31 maggio 2014 data il Decreto-legge n. 83 contenente “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”, convertito in legge nel luglio dello stesso anno. Un’operazione promossa con forza dall’allora ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini, che introduceva così, nel panorama fiscale italiano, lo strumento dell’Art Bonus, operativo dal 2015: un credito di imposta volto a favorire le erogazioni liberali a sostegno della cultura, e dunque del patrimonio culturale pubblico nazionale (con le specifiche e i limiti che vedremo).

COSÌ L’ART BONUS HA MODIFICATO IN 10 ANNI IL MECENATISMO

CULTURALE

Risale al 2014 la legge che istituisce

l’Art Bonus, il principale strumento di mecenatismo culturale dell’ordinamento italiano. Dieci anni dopo, possiamo trarre alcune conclusioni sui pregi, difetti, potenzialità e limiti di questa misura

I

Mecenati sul territorio nazionale +41.500

donazioni di associazioni e fondazioni bancarie

5mila → € 450mln / € 90.000

donazioni di imprese

10mila → € 430mln / € 43.000

donazioni di privati cittadini

25mila → € 42mln / € 1.680

2.500

euro raccolti +€ 900mln

enti che hanno utilizzato Art Bonus

700 enti di spettacolo

±300 musei

60 archivi

35 siti archeologici

60 complessi monumentali

+6.100

importo minimo della donazione 20€

65%

il credito dʼimposta rispetto allʼimporto donato tramite erogazione liberale per il sostegno alla cultura

gli interventi pubblicati sulla piattaforma per essere finanziati

+2.500

beni culturali pubblici da restaurare sul sito di artbonus.gov.it

+1.100

beni di amministrazioni comunali +250 gestiti dal Ministero della Cultura

±300

beni pubblici gestiti concessionari o affidatari privati

PIÙ DELLA METÀ DEI PROGETTI DI RESTAURO GIÀ REALIZZATI

“Dieci anni fa, nel concepire l’Art Bonus, abbiamo studiato modelli internazionali di successo come il mecenatismo culturale diffuso negli Stati Uniti e in altri Paesi europei” spiega oggi l’ex ministro “In particolare, ci siamo ispirati a normative che incentivano le donazioni private al patrimonio culturale, offrendo agevolazioni fiscali significative ai donatori. E l’Art Bonus, che continua a essere un incentivo fiscale importante, è ancora il più forte in Europa per favorire il mecenatismo culturale”.

Oltre al vantaggio fiscale –un credito d’imposta (da ripartire in tre quote annuali) in capo al donatore pari al 65% dell’importo erogato per valorizzare cultura e spettacolo – la nuova norma mirava sin dall’inizio a stimolare quel sentimento di appartenenza sociale e culturale che dovrebbe indurre tutti a favorire la conservazione della propria identità culturale, con l’obiettivo di trasmetterla alle generazioni future. Facendo anche appello al senso civico e provando a intercettare l’attaccamento individuale o la vicinanza a determinati beni e istituzioni culturali

STRUMENTO

legati a doppio filo con il territorio d’appartenenza. L’Art Bonus si prefiggeva quindi una funzione educativa sulla collettività al di là delle manifeste ricadute pratiche dello strumento, in origine previsto in via temporanea per i periodi d’imposta dal 2014 al 2016, poi reso permanente.

COME FUNZIONA L’ART BONUS

Tutti, come si è detto, possono donare, che si tratti di enti non commerciali, imprese e società cooperative, persone fisiche (dipendenti, pensionati, persone fisiche non titolari di partita Iva, lavoratori occasionali, lavoratori autonomi titolari di partita Iva, dal 2023 anche se a regime forfettario). E si può scegliere di dichiararsi o restare anonimi. Ma non sono ammesse donazioni in contanti, per garantire la sacrosanta tracciabilità delle operazioni, di cui peraltro i beneficiari sono obbligati a dare pubblicità – nel dettaglio dell’ammontare delle erogazioni ricevute e del loro impiego con aggiornamento mensile – sulla piattaforma online che facilita le donazioni stesse.

La Torre Garisenda a rischio stabilito, Bologna

Puntuale è invece la casistica di interventi che possono beneficiare della raccolta: operazioni di manutenzione, restauro e protezioni di beni culturali pubblici; sostegno degli Istituti e luoghi della cultura di appartenenza pubblica, delle fondazioni lirico-sinfoniche, dei teatri, dei festival, dei centri di produzione teatrale e di danza, dei circhi e degli spettacoli viaggianti; realizzazione di nuove strutture o potenziamento delle esistenti di enti o istituzioni pubbliche che, senza scopo di lucro, svolgono esclusivamente attività nello spettacolo. Un elenco che evidenzia il suo limite più discusso: i possibili destinatari delle erogazioni sono Comuni, Regioni, Province, Città Metropolitane e altri enti direttamente collegati ad attività culturali, mentre continuano a essere escluse le erogazioni a favore di beni culturali di proprietà privata e di enti ecclesiastici. Tradendo l’articolo 113 del Codice dei Beni Culturali in tema di valorizzazione dei beni culturali di proprietà privata qualora siano adibiti alla fruizione pubblica. Focalizzandosi sui beneficiari “ammessi”, d’altro canto, è possibile individuare un altro limite indiretto della pur lodevole normativa: l’Art Bonus funziona laddove le amministrazioni locali credono nello strumento e si impegnano per promuoverlo. Cerchiamo di capire perché.

UNO STRUMENTO EFFICACE

MA CHE MOSTRA I SUOI LIMITI

Oggi i numeri sembrano dare ragione a chi nello strumento ha creduto: in 10 anni l’Art Bonus ha sollecitato la raccolta di oltre 900 milioni di euro, coinvolgendo oltre 41mila mecenati. Ma navigando sulla piattaforma che ben adempie allo scopo della trasparenza e della tracciabilità delle operazioni si possono evincere dati “scomposti” più indicativi. In termini di distribuzione sul territorio nazionale, l’utilizzo dell’Art Bonus è molto discontinuo: tra le regioni, la Toscana vanta il maggior numero di beneficiari (529) seguita dalla Lombardia (399), che però detiene il primato per ammontare delle donazioni, sospinta dai numeri più che lusinghieri di enti come la Fondazione Teatro La Scala, che da sola ha finora raccolto oltre 170 milioni di euro (in generale, in tutta la Penisola, si dimostrano molto capaci di attrarre il mecenatismo tutte le grandi fondazioni teatrali e lirico-sinfoniche, dal Regio di Torino

Dal 2016, al percorso dell’Art Bonus è associato il concorso omonimo, promosso dal Ministero della Cultura e da ALES –in esecuzione di quello che è il suo compito primario: farsi interfaccia nella comunicazione tra beneficiari e donatori –per sensibilizzare i cittadini dei diversi territori a sostenere le istituzioni culturali e diffondere la cultura della donazione a favore di progetti culturali. Un’iniziativa volta a gratificare beneficiari e mecenati, sollecitando questi ultimi a votare online gli interventi a favore del patrimonio ritenuti particolarmente virtuosi e significativi. Semplice il regolamento: si vota per due “campionati” distinti (Beni e luoghi della cultura / Spettacoli dal vivo), solo per raccolte fondi aperte da non più di tre anni e chiuse con successo; e non si vince nulla, se non la gratificazione dell’affetto e della vicinanza dei propri mecenati. Negli anni il premio ha toccato diverse località della Penisola, mettendo in luce l’attività di musei, amministrazioni locali, fondazione teatrali. Ma il 2024 ha fatto registrare un record di voti in favore dell’Accademia Carrara di Bergamo, che ha vinto il concorso con un numero di preferenze (oltre 26mila su un totale di 224mila espresse) mai raggiunto prima, avendo la meglio su 40 finalisti (e 381 progetti candidati nella fase preliminare).

Lo storico museo bergamasco, oggi gestito dall’omonima Fondazione, ha vinto presentando il progetto di riallestimento della collezione finanziato tramite Art Bonus nel 2023. E incarna alla perfezione lo spirito dello strumento, essendo

al Maggio Fiorentino, dall’Arena di Verona all’Accademia di Santa Cecilia a Roma, al Donizetti di Bergamo, al San Carlo di Napoli). Seguono, per capillarità degli interventi, regioni come il Piemonte, l’Emilia-Romagna e il Veneto. Fanalini di coda, con meno di una decina di interventi attivati ciascuna, sono Molise, Basilicata e Valle d’Aosta.

Il Nord Italia, nel complesso, beneficia anche di donazioni più cospicue, per la maggior concentrazione di istituti bancari e grandi imprese. “La reale diffusione dell’Art Bonus è avvenuta dove la presenza delle Fondazioni Bancarie è più intensa e, di conseguenza, le realtà locali, pubbliche e private, sono più abituate a immaginare progetti e trovare controparti con cui sostenerli”, spiega Franco Broccardi, segretario della commissione di Economia della Cultura presso il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili e consulente per le politiche fiscali di Federculture “Il Ministero tramite la sua partecipata ALES ha svolto un enorme e appassionato lavoro di sensibilizzazione su tutto il territorio nazionale, coinvolgendo spesso le associazioni professionali e di categoria con riscontri alterni. La capacità progettuale da parte delle amministrazioni locali e la loro attivazione è un ulteriore tassello mancante perché l’Art Bonus possa dirsi davvero un successo”.

dalle origini un’istituzione culturale fondata sul mecenatismo: dal 1796 a oggi, sono 13mila le opere – molti i capolavori della storia dell’arte – confluite tramite donazione, pratica che si rinnova grazie a una fitta trama di relazioni di partenariato e collaborazioni strutturali tra il museo e un centinaio di imprese del territorio. L’Art Bonus ha dato ulteriore slancio, ma solo a partire dal 2021, “quando tramite interpello al Ministero della Cultura e all’Agenzia delle Entrate abbiamo ottenuto l’autorizzazione a beneficiarne non solo per restauri, ma anche per altre attività e donazioni”, spiega Gianpietro Bonaldi, General Manager della Fondazione, ente privato, sì, ma impegnato gestire un patrimonio pubblico senza scopo di lucro. Da allora l’Art Bonus ha avuto un’efficacia crescente: “Se nel 2022 abbiamo raccolto 590mila euro, nel ‘23 siamo passati a oltre 1 milione e 160 mila euro. La conferma che lo strumento è adatto a noi: abbiamo un profilo scientifico altissimo, ma come fondazione privata il nostro modello di governance ci induce a una gestione del patrimonio di tipo manageriale. Dal 2015 abbiamo costruito forti relazioni con il mondo dell’impresa e dell’associazionismo, e l’Art Bonus ci ha permesso di consolidarle”. E se da un lato si rafforza il legame con le imprese – “a patto di sapergli raccontare i benefit di un investimento in cultura” – dall’altro l’Accademia Carrara può contare “sulla partecipazione attiva di Bergamo e dei suoi cittadini”. Un ecosistema peculiare che spiega anche la vittoria del concorso con numeri record.

IN TERMINI DI DISTRIBUZIONE

SUL TERRITORIO NAZIONALE, L’UTILIZZO DELL’ART BONUS

In un confronto tra città d’arte, per esempio, Firenze batte Roma: l’amministrazione comunale fiorentina, in questi dieci anni, ha evidentemente creduto nello strumento, sottoponendo molte decine di interventi alle erogazioni liberali.

C’è poi il tema, che prescinde dalle amministrazioni pubbliche, dell’accentramento di risorse da parte di siti culturali più noti o capaci di farsi pubblicità. “Art Bonus è una misura di straordinario valore che in parte ha segnato un nuovo corso nel rapporto tra pubblico e privato nel sostegno alla cultura ai monumenti e alla produzione culturale” sottolinea a riguardo l’Assessore alla Cultura di Milano, Tommaso Sacchi “Però è necessario non guardare esclusivamente alle istituzioni culturali più note, ma anche a quelle preziosissime realtà che evidentemente fanno un po’ più fatica a essere raccontate. Il patrimonio della nostra città è composto da tantissime realtà diverse e ognuna merita più sostegno possibile”.

In Piemonte ed Emilia-Romagna, invece, la distribuzione di interventi completati con successo sembra essere più equa, anche a sostegno di siti “minori”.

CHI SONO I MECENATI IN ITALIA?

Vale la pena, infine, aprire un interrogativo sulla natura dei mecenati. Solo il 4% dei 900 milioni raccolti finora, infatti, proviene da donazioni di privati. Influisce sul dato una capacità di spesa nettamente inferiore rispetto ad associazioni, fondazioni e imprese; ed è invece importante sottolineare il numero delle loro donazioni, che ha superato quota 25mila (a fronte di 5mila donazioni di enti non commerciali per un

totale di 450 milioni di euro e 10mila donazioni di imprese per 430 milioni di euro), dimostrando che si può fare leva sulla condivisione di identità culturale, sul senso civico e sulla responsabilità intergenerazionale dei cittadini. “Ma i risultati potrebbero essere migliori se soprattutto i piccoli Comuni sapessero far leva sul senso di appartenenza. C’è un problema di sensibilizzazione al patrimonio culturale, in Italia abbiamo ancora molta strada da fare. Si pensi al tema sulla bellezza uscito tra le tracce dell’ultimo esame di maturità: è stato, tra tutti, il meno scelto dagli studenti. Non è un caso”, sottolinea Broccardi. D’altro canto, non si può non evidenziare come fondazioni bancarie ed enti affini – a oggi categoria più generosa – abbiano semplicemente spostato sull’Art Bonus ciò che già mettevano sul piatto con altre forme di mecenatismo o sponsorizzazioni.

ART BONUS, RESTAURO E TUTELA DEL PATRIMONIO

Tra gli obiettivi sicuramente centrati dell’Art Bonus c’è invece l’impegno per rendere economicamente sostenibili le attività di restauro e manutenzione del patrimonio. Un obiettivo approfondito nel 2016 a comprendere interventi di manutenzione, protezione e restauro anche di beni culturali di interesse religioso presenti nei Comuni dei territori di Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria colpiti dal sisma del Centro Italia

Tra le donazioni raccolte allo scopo rientra il finanziamento pari a 6,64 milioni di euro che Intesa Sanpaolo ha destinato al Comune di Amatrice per la ricostruzione e il restauro della chiesa di San Francesco.

Accademia Carrara di Bergamo, il nuovo allestimento finanziato con Art Bonus nel 2023. Photo Gianfranco Rota

“La parabola in crescita dell’Art Bonus è rispecchiata dal caso dell’Opificio delle Pietre Dure, che si occupa di opere che appartengono ad altri. Dunque per noi le donazioni si configurano come sostegno all’attività dell’istituto nell’impegno a favore di una determinata opera” spiega Emanuela Daffra, Soprintendente dell’istituto del MiC dedicato al restauro, basato a Firenze “Penso al primo tra gli interventi di cui OPD ha

CHI FU MECENATE: L’ARTE COME PROPAGANDA

Gaio Cilnio Mecenate (68-8 a.C.), fu un politico romano particolarmente vicino ad Augusto, suo consigliere e alleato. Ma il suo nome è entrato nel vocabolario comune per l’azione di sostegno svolta in favore delle arti e degli artisti: protettore dei cosiddetti poeti augustei –Orazio, Virgilio, Vario Rufo – agì da ministro della cultura ante litteram, destinando parte delle sue ingenti ricchezze a incoraggiare la produzione artistica (anche in ottica propagandistica) del circolo di intellettuali e letterati di cui si circondò. A lui Virgilio dedicò le Georgiche

MECENATISMO CULTURALE. COME FUNZIONA NEL RESTO D’EUROPA?

SPAGNA

Data al 2002 la legge che disciplina gli incentivi fiscali al mecenatismo, applicabili alle donazioni in favore di enti senza scopo di lucro, Stato ed enti locali, Comunità autonome, università pubbliche, organismi pubblici di ricerca dipendenti dallo Stato. La legge riconosce la possibilità delle deduzioni a donazioni effettuate in denaro, in beni o in diritti. L’importo deducibile è calcolato sul valore della donazione, ma con percentuali diverse per persone fisiche e società. La legge di bilancio annuale può stabilire inoltre alcune attività prioritarie di mecenatismo, per cui alle relative donazioni si applica un aumento fino a cinque punti percentuali delle quote deducibili.

beneficiato, risalente al 2016: grazie a Prada si è potuto concludere il restauro ‘impossibile’ dell’Ultima Cena di Vasari in Santa Croce. A partire da allora le donazioni si sono succedute con ritmo annuale, senza interrompersi se non nel 2020, assecondando con naturalezza alcune di quelle che chiamerei ‘vocazioni identitarie’”. E proprio il lavoro dell’OPD alimentato dell’Art Bonus porta all’attenzione un altro caso virtuoso legato al terremoto del 2016: “Esemplare è il contributo erogato da OVS per restaurare la tela di Vincenzo Manenti, Madonna col Bambino e Santi, proveniente dalla Chiesa di San Benedetto a Norcia distrutta nel terremoto, dopo avere conosciuto l’articolata attività di Opificio per il recupero dei beni nelle zone colpite dal sisma Art Bonus è anche uno straordinario

L'ART BONUS FUNZIONA

strumento di educazione alla responsabilità, importantissimo per stabilire un dialogo efficace tra restauro e mecenatismo”. I contributi più significativi in tal senso, prosegue Daffra, “vengono dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze: proprio perché Opificio opera in modo articolato e ogni restauro è progettato con cura, è fondamentale il sostegno all’intera struttura. E aggiungo che per realtà come la nostra sarebbe fondamentale individuare e diffondere l’informazione su modalità di sgravio fiscale per i cittadini stranieri, anche turisti, che ci volessero supportare”.

Più di recente, l’urgenza di mettere in sicurezza la pericolante Torre Garisenda di Bologna ha sollecitato, grazie alla campagna Art Bonus avviata dal Comune (Sosteniamo le due Torri, con testimonial d’eccezione come Gianni Morandi e Cesare Cremonini), una grande partecipazione collettiva. Finora la raccolta ancora aperta ha ottenuto oltre 2 milioni e 715mila euro in erogazioni liberali, e vanta numerosissime donazioni private: spesso piccoli importi, però pienamente fedeli allo spirito del mecenatismo culturale.

REGNO UNITO

La disciplina tributaria inglese contempla, in una varietà di casi, il riconoscimento di specifici vantaggi fiscali a favore dei privati, riferiti alle spese da questi sostenute per la conservazione di beni culturali oppure per la promozione di iniziative o attività di rilievo culturale. Un primo tipo di agevolazione si riferisce alle tasse di successione previste per la conservazione e la gestione di beni di interesse storicoartistico pervenuti in via ereditaria: per beneficiare delle esenzioni fiscali è necessario concedere accesso pubblico ai siti e alle opere che vi sono conservate. Per quel che riguarda le donazioni, al fine di incoraggiare le iniziative a carattere filantropico e mecenatistico, sono diverse le forme di esenzione fiscale. La regola generale è fissata dall’Inheritance Tax del 1984, che stabilisce il principio dell’esenzione fiscale a fronte di donazioni di cui siano beneficiarie determinate istituzioni museali nazionali; dal 2012, la donazione allo Stato di beni culturali di particolare importanza è compensata da un contenimento del prelievo fiscale annuale operato sui redditi dei mecenati (solo se sono persone fisiche). Al 2016 risale il Culture White Paper in materia di politiche culturali, che ha introdotto incentivi fiscali per il finanziamento di iniziative attraverso forme di crowdfunding, sotto l’egida dell’Arts Council of England e dell’Heritage Lottery Fund.

GERMANIA

La politica culturale tedesca sottostà al modello federale: la promozione della cultura e delle arti rientra tra le competenze dei singoli Länder che, insieme ai Comuni, finanziano la maggior parte degli enti culturali. L’arte e la cultura, oltre a essere sostenute dal settore pubblico, sono promosse e finanziate in misura considerevole anche da privati (singoli e imprese). Il sostegno da parte delle imprese può essere distinto in tre modalità: mecenatismo (Mäzenatentum), sponsorizzazioni (Sponsoring) e donazioni (Spendenwesen). Queste ultime, effettuate per scopi di pubblica utilità, sono per loro natura volontarie, non hanno vincoli giuridici e godono di vantaggi fiscali, poiché sono riconosciute come spese straordinarie e possono essere detratte nella misura massima del 20% del reddito complessivo o, in alternativa e solo per le imprese private, entro il limite del 4 per mille del fatturato annuo e dei salari e stipendi.

FRANCIA

La legge sul mecenatismo, le associazioni e le fondazioni – che molto ha ispirato l’Art Bonus italiano – data al primo agosto 2003 e si fonda su misure d’incentivo per chi effettua un dono (in denaro, in natura o in competenza) a un organismo per sostenere un’opera d’interesse generale. Se il beneficiario della donazione rientra tra gli organismi che possono godere di forme di “mecenatismo deducibile”, i donatori avranno diritto ad alcune agevolazioni fiscali (è previsto anche il mecenatismo d’impresa a favore dell’organizzazione di mostre d’arte contemporanea, con una riduzione d’imposta pari al 60% dell’ammontare della donazione). Possono beneficiare del cosiddetto “mecenatismo deducibile” non solo Stato ed enti pubblici, fondazioni e associazioni di utilità pubblica, musei nazionali, associazioni no profit, ed enti per lo spettacolo, ma anche fondazioni d’impresa, monumenti storici privati ed enti di ricerca di interesse generale. Specifiche agevolazioni fiscali sono previste inoltre per l’impresa donatrice in caso di finanziamento all’acquisto di un bene culturale riconosciuto “tesoro nazionale o “opera di grande interesse patrimoniale” a vantaggio di una collezione pubblica. In tale caso, il donatore ha diritto ad una riduzione d’imposta pari al 90% dell’ammontare del versamento effettuato. Un’impresa può infine contribuire a un determinato progetto o evento non attraverso un finanziamento in denaro, ma mediante la fornitura dei mezzi (prodotti o servizi) necessari alla causa che intende sostenere. Se il mecenate è privato, la riduzione d’imposta è pari al 66% delle somme versate, nel limite annuale del 20% del reddito imponibile.

L’ART BONUS IN 4 CASI. TRA RACCOLTE DI SUCCESSO E TRAGUARDI FUTURI

TEATRO ALLA SCALA, MILANO

In Italia, la Fondazione meneghina vanta il primato per ammontare di donazioni ricevute, con notevole distacco rispetto a tutti gli altri beneficiari. Promotrice di raccolte annuali sin dal 2015, a oggi ha ricevuto oltre 170 milioni di euro in erogazioni liberali, cui dovrà sommarsi, alla fine del 2024, l’importo della campagna in corso. Oltre alle cospicue donazioni di imprese ed enti non commerciali, lo storico delle raccolte vede anche la partecipazione di diversi privati cittadini, per generiche attività di “sostegno” della Fondazione senza scopo di lucro nata nel 1997 per perseguire la diffusione dell’arte musicale valorizzando la storia del Teatro fondato nel 1778.

GIARDINI REALI, VENEZIA

Esempio di come un utilizzo mirato del mecenatismo culturale possa restituire alla cittadinanza spazi urbani storici altrimenti destinati al degrado, i Giardini Reali adiacenti a Piazza San Marco hanno riaperto al pubblico nel 2019, a seguito di una campagna di restauro promossa da Venice Garden Foundations, organismo nato nel 2014 per la valorizzazione e la conservazione di giardini e parchi. Originati dalla riforma napoleonica dell’Area Marciana, i Giardini hanno beneficiato di un restauro architettonico e botanico, finanziato anche grazie a oltre 3 milioni e 800mila euro in erogazioni liberali. È in corso una nuova raccolta per sostenere la manutenzione del verde, per un totale di 550mila euro (in Laguna si è attivata una dinamica analoga sull’Isola di San Giorgio: il complesso monumentale gestito dalla Fondazione Cini ha ricevuto dal 2021 a oggi oltre 14 milioni di euro in erogazioni liberali per manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio).

A fronte della necessità di restaurare uno dei simboli più popolari della città, il Comune di Firenze ha varato nel 2022 un progetto di conservazione di Ponte Vecchio, che vedrà l’inizio dei lavori nell’autunno 2024, dopo le indagini diagnostiche preliminari. Per l’intervento, l’amministrazione aveva stanziato due milioni di euro, che ora affronterà solo per la metà dell’importo. Il 50% del finanziamento, infatti, sarà sostenuto dalla famiglia Antinori, proprietaria dell’azienda vitivinicola Marchesi Antinori, per celebrare i 50 anni del vino Tignanello, entrato in commercio nel 1974. Una donazione che il nobile casato toscano effettuerà usufruendo del meccanismo dell’Art Bonus.

MAUSOLEO DI AUGUSTO, ROMA

Grazie ai 700mila euro donati dalla maison Bulgari usufruendo dell’Art Bonus, il Comune di Roma sta procedendo al riallestimento interno del Mausoleo di Augusto, colpevolmente abbandonato all’incuria da molti decenni. Il monumento funerario costruito nel 28 a.C. per Augusto e la sua famiglia, più volte rimaneggiato nei secoli a seguire, tornerà dunque accessibile al pubblico nel 2026 grazie al progetto museale di studio OMA. Ma a Roma, la neonata Fondazione Bulgari ha già finanziato, con lo stesso meccanismo, il recupero dell’Area Sacra di Largo Argentina (500mila euro) e il restauro del Vittoriano (240mila euro).

PONTE VECCHIO, FIRENZE

10 ANNI DI ART BONUS. IL BILANCIO DI DARIO FRANCESCHINI

A dieci anni di distanza, l’Art Bonus si può considerare un successo? I risultati ottenuti finora hanno soddisfatto le aspettative? Sarebbe opportuno introdurre qualche accorgimento?

Dopo dieci anni, l’Art Bonus può essere considerato sicuramente un grande successo nazionale. Ha raccolto un notevole numero di donazioni, circa un miliardo di euro, da parte di oltre 40mila mecenati che hanno permesso il finanziamento di numerosi progetti culturali. Tuttavia, c’è ancora spazio per miglioramenti, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione delle donazioni. Servono campagne di comunicazione e promozione della misura per favorirne la conoscenza anche in quei territori e regioni dove ha avuto meno successo. Bisogna incentivare il più possibile le iniziative dal basso, delle comunità, che anche in forma di crowdfunding sostengono realtà culturali significative per le loro identità. A riguardo, bisogna rendere ancora più semplici queste forme di condivisione.

ART BONUS: I TOP E I FLOP IN BREVE

Uno strumento a burocrazia “zero” che rende facilissimo donare

Un aiuto importante alla sostenibilità economica del restauro

La trasparenza delle operazioni nel rapporto tra mecenati e beneficiari

Un punto di forza e un limite (o più) dell’Art Bonus?

L’Art Bonus ha incentivato le donazioni al patrimonio culturale, creando un meccanismo virtuoso di collaborazione tra pubblico e privato. Uno dei limiti è la concentrazione delle donazioni su grandi e note realtà culturali, lasciando spesso in ombra le piccole e medie istituzioni. Per superare questo limite, serve un nuovo impulso portando nel pubblico figure professionali dedicate alla raccolta dei fondi e alla gestione dei rapporti con i nuovi mecenati. C’è poi il tema del patrimonio culturale privato. È ora di aprire una discussione in Parlamento su questo tema, verificando cosa è stato realizzato in altri Paesi senza preconcetti, puntando ad arrivare a un’estensione anche in Italia che preservi le donazioni al pubblico e metta dei limiti chiari per evitare abusi.

Come si potrebbe agire per favorire una distribuzione capillare delle donazioni a fronte dell’enorme fram-

La mancanza di “formazione” delle amministrazioni locali, che per prime dovrebbero favorire la diffusione dello strumento

La distribuzione disomogenea degli interventi, tanto a livello geografico che per importanza dei siti culturali

Un coinvolgimento non ancora sufficiente dei privati cittadini

mentazione e diffusione del patrimonio culturale sul territorio nazionale?

Per favorire una distribuzione più diffusa delle donazioni, bisogna promuovere la conoscenza di realtà culturali meno note attraverso campagne di comunicazione dedicate. Si dovrebbero creare piattaforme online che mettano in contatto donatori con una vasta gamma di progetti culturali, inclusi quelli meno conosciuti.

Purtroppo, constato che l’attuale governo non sembra puntare molto su questa misura. Sbagliano, dovrebbero promuoverla e crederci di più, non solo per aumentare i fondi per la tutela, ma soprattutto per il suo grande valore educativo. Gli anglosassoni parlano da molto tempo di “Give back”. Anche in Italia dobbiamo favorire questa cultura; è arrivato il momento di restituire. Non vorrei che le resistenze sull’Art Bonus derivino dal fatto che la misura è nata in un’altra stagione politica ed è fortemente legata alla gestione del Ministero della Cultura che porta il mio nome.

Ma più in generale a che punto è il mecenatismo culturale oggi in Italia? Forse siamo ancora indietro rispetto alla possibilità di percepirlo come una forma di arricchimento collettivo?

Il mecenatismo culturale in Italia è in crescita, ma c’è ancora molta strada da fare. La cultura del mecenatismo non è ancora completamente radicata come forma di arricchimento collettivo. Molti italiani non vedono ancora il sostegno alla cultura come un dovere civico e un’opportunità per contribuire al bene comune. È necessario continuare a lavorare sulla sensibilizzazione del pubblico e sulla semplificazione delle procedure per le donazioni, affinché il mecenatismo culturale diventi una pratica diffusa e riconosciuta. Come ho detto più volte quando ero Ministro della Cultura, vorrei che arrivasse il momento in cui un’impresa, soprattutto una grande impresa che esporta nel mondo, si vergogni se non destina una parte dei propri utili al patrimonio culturale del Paese. Mi aspetto che la cultura del “Give back” anglosassone diventi più sentita in Italia: chi interviene in cultura lo deve fare per vocazione morale.

IL FUTURO DELL’ART BONUS: COME MIGLIORARLO?

IL PARERE DI FRANCO BROCCARDI

Co-fondatore dello studio Lombard DCA di Milano, dottore commercialista esperto in economia della cultura

Con l’Art Bonus si è cercato, innanzitutto, di fare del mecenatismo un valore diffuso, intensificando i rapporti tra pubblico e privato nell’interesse del settore culturale e coinvol gendo anche i privati cittadini. A oggi le loro donazioni rappresentano il 4% della cifra complessiva raccolta. Si è attivato un circuito virtuoso oppure no?

L’Art Bonus ha luci e ombre. In questi dieci anni si è dato vita a un progetto di rivitalizzazione del mecenatismo culturale ed è certamente un fatto mirabile. Però il coinvolgimento dei privati cittadini non è ancora soddisfacente. Al netto dei singoli importi versati che non sono ovviamente paragonabili rispetto a quelli delle imprese e, soprattutto, delle Fondazioni Bancarie, quello che manca è una reale capillarità dei progetti e il conseguente coinvolgimento dei piccoli mecenati, soprattutto in ben specifiche aree del nostro territorio sia in termini di latitudine – i versamenti si concentrano soprattutto al Nord – che di dimensione urbana: i progetti nei luoghi piccoli, quelli in cui maggiore dovrebbe essere il senso di appartenenza che sta alla base del mecenatismo, sono percentualmente risibili.

Per quanto riguarda le imprese e gli enti, l’Art Bonus confligge con le sponsorizzazioni?

Si tratta di forme diverse di sostegno e che, almeno in teoria, rivelano un approccio differente di sostegno alla cultura. La sponsorizzazione basa la propria essenza sul rapporto a prestazioni corrispettive (onerosità in cambio di visibilità) e necessita una comprovata inerenza del costo rispetto alla produzione dei ricavi (tema questo assai dibattuto). Le erogazioni liberali, tra cui ricade l’Art Bonus, non prevedono altro che un “pubblico ringraziamento” che non è in alcun modo paragonabile alla visibilità data dalla sponsorizzazione.

Quali sono i punti di forza e i limiti dell’Art Bonus per come si configura oggi?

La forza dell’Art Bonus sta nella sua idea di prossimità, di educazione al mecena-

tismo partendo da progetti vicini alle comunità. Un valore che diventa un limite nel momento in cui la vera diffusione dello strumento, che dovrebbe avvenire con progetti sentiti propri soprattutto in borghi e città di medio piccola dimensione, si scontra con l’incapacità organizzativa di strutture già di per sé sottodimensionate e che o non conoscono l’esistenza dell’Art Bonus o non hanno comunque la disponibilità/ capacità di metterlo in funzione. E questo è davvero un peccato anche perché gli aspetti burocratici dell’Art Bonus sono davvero prossimi allo zero.

Come si potrebbe allora alimentarne la diffusione?

Il sostegno alla cultura, in Italia, vive in una intricata selva fiscale di detrazioni, deduzioni, percentuali di reddito e misure massime. Sarebbe invece opportuno rivedere la normativa dell’Art bonus al fine di creare, sul modello francese, un credito d’imposta applicabile a tutto il mecenatismo culturale, dando origine a un’unica agevolazione fiscale che potremmo definire “Bonus cultura”. Sarebbe anche auspicabile l’estensione della platea dei beneficiari delle erogazioni liberali a tutte le forme di produzione artistica e culturale, quindi anche mostre, festival di varia natura, incontri in studio, attività di ricerca e di istruzione. Utile, inoltre, comprendere anche le donazioni in natura: risulta particolarmente interessante per le imprese godere del credito d’imposta anche per la fornitura di prestazioni e servizi.

Altro attuale limite, facilmente risolvibile, riguarda la possibilità di cessione del credito a istituti di credito o altri soggetti privati così come suggerito anche dal Consiglio Nazionale del Notariato. La cessione del credito può rappresentare anche un volano per favorire il coinvolgimento di soggetti stranieri che, in mancanza di redditi in Italia, non avrebbero altrimenti alcuna possibilità di beneficiare del credito d’imposta.

E sarebbe utile ampliare obiettivi e beneficiari dell’Art Bonus anche a vantaggio del mercato dell’arte o dei beni culturali privati destinati alla fruizione pubblica?

Estendere le agevolazioni anche all’acquisto di opere d’arte contemporanea di artisti italiani avrebbe l’indubbio pregio di supportare la produzione artistica del nostro Paese. Il modello francese, per esempio, permette alle imprese che acquistano opere originali di artisti viventi e le iscrivono in un conto immobilizzato di dedurre il costo di acquisto dal risultato dell’esercizio e dei quattro esercizi successivi. Per godere di questa agevolazione le imprese francesi devono esporre in un luogo accessibile al pubblico o ai dipendenti, a eccezione dei propri uffici, l’opera acquista per un periodo di almeno cinque anni. Allo stesso modo l’Italia potrebbe riconoscere i benefici dell’Art Bonus alle imprese che acquistano opere di artisti viventi italiani, le iscrivono tra le immobilizzazioni e le espongono in un luogo accessibile al pubblico.

Altro elemento che potremmo copiare alla Francia riguarda la possibilità di riconoscere il credito d’imposta anche alle transazioni aventi a oggetto i beni sottoposti a vincolo di tutela che ne limitano la circolazione rimediando così al fatto che la limitazione del diritto di libera circolazione, nei fatti, comporta una perdita di valore commerciale del bene quantificabile in non meno del 40%. In Francia le società possono beneficiare di una riduzione d’imposta pari al 90% del costo di acquisto di beni culturali aventi il carattere di tesori nazionali. Questa riduzione d’imposta si applica anche nel caso di acquisto di beni culturali situati in Francia o all’estero, la cui acquisizione sarebbe di grande interesse per il patrimonio nazionale dal punto di vista storico, artistico o archeologico.

BOLDINI E LA SUA MUSA

Sceneggiatura di Michele Botton Disegni di Pietro Sartori

signor boldini?
aperto...
Buongiorno, ho letto l’annuncio che cercate una modella...
Sì, una modella...
con permesso...
Avanti, avanti, si accomodi signorina...
chiamatemi pure Berthe, non siate formale.
Berthe.
Che creatura splendida...
Nacqui a Ferrara il 31 dicembre 1842, ma solo a Parigi, nel 1871, trovai la mia via come pittore...
Inquadra il QR per leggere l'intervista con l'artista

Berthe... mah... forse potrei dipingere qualche quadro con voi...

Ah, volete sfruttarmi per i lavori di fatica... Non morirete di certo a rassettare la casa ogni tanto...

Però un po’ vi piaccio, vero?

Inoltre avrei bisogno di una cameriera, di una governante...
Averla attorno tutto il giorno sarebbe un toccasana per la mia ispirazione artistica...
Non siete male, ma vi renderò ancora pi ù bella.
Non sono male? Oh, questa poi!
Intanto dovreste spogliarvi.
Devo vedervi senza tutti questi orpelli per capire se andate bene.
Certo che andava bene, a chi volevo darla a bere?
È una scusa per vedermi nuda?
Avete forse una scusa per non mostrarvi nuda?
Migliorare ciò che è già bello, per renderlo meraviglioso, non è questo il compito di un pittore? e lei era splendida...
Iniziò così il nostro sodalizio artistico...

non solo.

Oh, insomma, ammettetelo che provate dei sentimenti per me!

Fate tanto l’insensibile, ma qui c’è un cuore che accelera i battiti per me.

Ma io dovevo mantenere la mia immagine di

Macché, ci serviamo a vicenda e nel mentre passiamo momenti piacevoli assieme.

Non posso però negare che Berthe, al tempo, rasentasse la donna perfetta per me. Abbacinante nei miei quadri e...

Si trasferì da me. Non ritrassi mai nessun’altra così tante volte come lei.
Divenne la mia musa, sì
cinico che pensava solo al successo.

voi sì che conoscete bene i miei gusti...

Credo che questo quadro possa aspettare un po’.

...Volgare e lasciva nel privato.

Ne siete sicuro?

È una posa interessante.

ma funzionerebbe meglio con i vestiti addosso.

contessa de rasty, se poteste intercedere per me con la nobiltà parigina ve ne sarei davvero grato.

Ma l’arte... l’arte non poteva mai aspettare davvero. L’arte veniva prima di tutto, l’essere richiesto, apprezzato, era una droga ben pi ù forte dell’amore.

signor boldini, per voi questo e altro...

E ben presto per inserirmi negli ambienti giusti, avrei avuto bisogno di muse diverse...
non c’è spazio per tenerezze in un cuore offuscato dall’ambizione.

CARO POLITICO, PUOI SOSTITUIRE UN MANAGER CULTURALE. MA SOLO SE AL SUO POSTO NE METTI UNO MIGLIORE

MASSIMILIANO TONELLI

FMentre scrivo tramonta il bollente 17 luglio e mi rendo conto che questo mese, ancorché a metà, mi ha più volte costretto a riflettere sul concetto di spoil system. Ci ho riflettuto riguardo a Brescia (circa il rinnovo del direttore della Fondazione Brescia Musei) e ci ho riflettuto anche riguardo a Roma (circa la fine del mandato dell’amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma). Due casi diversi con due esiti diversi. Tutte storie che potete cercarvi su Artribune: troverete due interviste interessanti uscite da poco.  Ma torniamo un po’ indietro: cosa è lo spoil system? È una pratica invalsa a partire dall’Ottocento nei paesi anglosassoni che prevedeva la sostituzione di tutti i dirigenti pubblici e dei funzionari più apicali ogni volta che cambiava governo. Ogni compagine vittoriosa dopo le elezioni, insomma, voleva mettere non solo i suoi rappresentanti politici nei posti chiave, ma anche i suoi uomini di fiducia a livello tecnico. Una strada verosimile per far sì che la macchina amministrativa funzionasse e permettesse al potere politico di applicare fluidamente il proprio programma. Una necessità comprensibile, ma non priva di risvolti potenzialmente negativi.

Un nuovo sindaco può decidere di sostituire un manager culturale (o un direttore di museo, o un direttore artistico di un teatro e così via) senza colpo ferire

In Italia di spoil system abbiamo parlato sempre molto poco nel Novecento. Poi le cose sono cambiate negli Anni Novanta quando alcune riforme permisero ai cittadini di eleggere i loro rappresentanti in maniera diretta. In particolar modo i sindaci a partire dal 1993. Da quel momento lo spoil system è diventato un termine comune sia a livello locale che poi anche nazionale e non di rado si abbatte (con esiti talvolta funesti, talaltra benefici) sulle istituzioni culturali alla stessa stregua di come si abbatte sugli enti municipali o sulle società di servizi. Ma se un’azienda che si occupa di trasporto pubblico o di nettezza urbana ha determinate caratteristiche, una fondazione culturale, un teatro o un museo ne hanno altre decisamente più peculiari per la tipologia di servizio che erogano.

Non sto dicendo che un nuovo sindaco non debba avere l’opportunità e la prerogativa di nominare persone di cui si fida nei posti chiave (altrimenti cosa ha vinto le elezioni a fare?), sto solo dicendo che per quanto riguarda gli enti culturali forse servirebbe una particolare accortezza, una salvaguardia, una capacità di metterle a riparo da un approccio che può risultare dannoso e non rispettare tempi e ritmi che sono diversi da altre tipologie di aziende.

A pensarci bene tutto torna alla nostra capacità di analisi e alla nostra possibilità di avere dati che certifichino una buona o una cattiva gestione riguardo ad un ente culturale. Purtroppo, questi dati spesso non ci sono o sono difficili da estrarre e così un nuovo sindaco può decidere di sostituire un manager culturale (o un direttore di museo, o un direttore artistico di un teatro e così via) senza colpo ferire, tanto le prove del suo buon lavoro non sono certificabili. Così come non saranno certificabili le prove del pessimo lavoro che eventualmente porterà a compimento il nuovo nominato.

Uno spoil system fatto senza costrutto, solo per il gusto di farlo, senza badare alla reale qualità dell’output fa danni significativi dovunque

a sinistra: Daniele Pitteri, amministratore delegato

della Fondazione Musica per Roma

a destra: Stefano Karadjov, Direttore della Fondazione Brescia Musei

Bisognerebbe invece trovare il modo – e non è affatto facile – di dare maggiore rilevanza ai danni inferti da chi decide di interrompere processi gestionali sani sostituendoli con dirigenze magari più fedeli ma meno efficaci, competenti e capaci. Uno spoil system fatto senza costrutto, solo per il gusto di farlo, senza badare alla reale qualità dell’output fa danni significativi dovunque. In ambito culturale fa danni ancora più grandi perché interrompe processi che sono più lenti e articolati di quelli di altri settori. Danni che andrebbero raccontati meglio. Affinché chi li perpetra sia disincentivato a farli, almeno per la volta successiva.

DAL QUIET AL CONSCIOUS QUITTING: COME LA CULTURA RISIGNIFICA IL MONDO DEL LAVORO

Conosciuto anche come “coasting”, il quiet quitting è un fenomeno che ha cominciato a diffondersi in particolare dopo la fase acuta della pandemia, in concomitanza con la nascita di una inedita sensibilità nel mondo del lavoro relativamente all’abbandono silenzioso del proprio posto di lavoro nel nome di nuove priorità. Il fenomeno è apparso in un contesto ambientale caratterizzato da alcuni neologismi frutto del mutato contesto. Per esempio VUCA, un termine che indica come le persone, nel luogo di lavoro ma anche nella vita sociale e familiare, percepiscano più che in passato la vulnerabilità, l’incertezza, la complessità e l’ambiguità di quanto li circonda. I lavoratori e le lavoratrici, con picchi nella Generazione Z, hanno spesso introiettato un approccio YOLO – You Only Live Once – a tal punto da riposizionare la gerarchia dei valori, dei desiderata e delle aspettative di vita e di attività. Già sul finire del 2022 Forbes sceglieva come parola dell’anno “Gaslighting”, intendendo la strumentale e dannosa tendenza di far credere e far percepire una realtà diversa da quella effettiva. Questo contesto così vulnerabile e fragile raccoglie, in parte come effetto in parte come causa, il fenomeno dell’inverno demografico, che forse sarebbe più corretto definire “glaciazione demografica”, poiché, al di là delle simpatie stagionali e di temperatura, è inequivocabile che dopo l’inverno arrivi la primavera, mentre il fenomeno demografico pare essersi posto su una parabola discendente, con una allarmante emergenza per lo strappo di fiducia nei rapporti umani, resistenti all’essere generativi e fecondi – che è cosa ben diversa dall’aspetto riproduttivo in senso stretto. L’isolamento e l’individualismo dell’uomo del Novecento ha in questi anni assunto tratti estremizzati dal fatalismo high-tech con l’onlife (la vita trasferita online) quando dovremmo piuttosto recuperare l’etimo della parola virtuale: da virtus, virtù. Il quiet quitting è a tutti gli effetti la controtendenza alla hustle culture, ovvero il mito di matrice americana che spinge le persone a dedicare la loro vita prevalentemente al lavoro. Una crescente e ininterrotta (potremmo forse azzardare irreversibile) presa di coscienza dell’importanza di ristabilire le priorità e bilanciare la vita lavorativa con quella familiare, affettiva e amicale, relazionale, partecipativa e civica, con un altrettanto crescente interesse verso buone cause di natura ambientale, sociale e culturale, ha come dire “stabilizzato” il fenomeno del quitting spostandolo da un piano silenzioso ad un livello consapevole. Con conscious quitting si intende non tanto una great resignation, quanto una postura resiliente da parte dei lavoratori rispetto a una cultura d’impresa rispettosa dei diritti umani, ambientali, sociali, culturali. Si tratta dell’abbandono consapevole del proprio impiego: invece di continuare a lavorare facendo il minimo indispensabile, i lavoratori che non sono d’accordo con i valori aziendali arrivano ad esprimere un dissenso aperto. Sono soprattutto gli zoomers, come dicevamo, a non essere

COSA DICONO

I DATI SULLA PROPENSIONE AL CAMBIAMENTO DI LAVORO?

Lavoratori italiani che hanno cambiato lavoro negli ultimi 6 mesi

Considerando

17%

Lavoratori italiani che hanno intenzione di farlo nei prossimi 6 mesi

Le principali motivazioni per cambiare lavoro sono: ↓€↑

Retribuzione troppo bassa rispetto al costo della vita

Basso equilibrio tra lavoro e vita privata

Assenza di opportunità di crescita professionale

più disposti a fermarsi in ufficio o tenere il pc acceso per fare straordinari (anche retribuiti), con una anticiclica attrazione (rispetto allo smart working tout court) verso la vita lavorativa in presenza. Una presenza che si struttura con modalità diverse, caratterizzata da una rilevanza, densità e focalizzazione del tempo insieme alla qualità delle relazioni. Motivo per cui si è meno propensi ad utilizzare tempi diversi come i weekend o a caricarsi di responsabilità, lasciando alla variabile economica un ruolo ridefinito dalle logiche del bilanciamento tra il lavoro e tutto il resto, con un tempo che è sempre meno liberato da e sempre più libero per.

Invece di continuare a lavorare facendo il minimo indispensabile, i lavoratori che non sono d’accordo con i valori aziendali arrivano ad esprimere un dissenso aperto

Quale può essere il ruolo della cultura nei suoi diversi linguaggi per fronteggiare un fenomeno che non è negativo di per sé ma i cui impatti potrebbero impoverire le dinamiche economiche in termini di produttività sostenibile? Oggi le imprese più sostenibili e innovative hanno chiaro riguardo alle persone che lavorano in azienda che vi sono due facce di una stessa medaglia: da un lato il costo d’esercizio del lavoro nelle sue diverse componenti, dall’altro l’investimento in soluzioni di welfare aziendale che tengano conto delle esigenze personali (e dunque necessitanti di risposte da personalizzare e non standardizzare) di dipendenti e collaboratori. Quando si parla di cultura d’impresa si intende una visione che porta con sé l’ascolto dei bisogni e l’individuazione di percorsi coerenti con la missione aziendale, esplicitando i valori e la stewardship. Ed è in questa traiettoria che si colloca il welfare con l’addendum culturale. Il mondo della cultura ha compreso da tempo che non è restando “devoted to objects” che si cresce e progredisce, ma collocandosi in una dimensione “driven by purpose” e su questo può avere molto da insegnare alle imprese, spostando l’attenzione dalla mera logica dei compiti a quella degli obiettivi. Il mondo della cultura, ed in particolare quello delle imprese culturali e creative, ha accompagnato la predilezione verso competenze-trama e modelli organizzativi teal (più orizzontali e leggeri) nei quali la componente del dialogo, dell’interazione e della scoperta continua a rappresentare una fonte di restanza, “nonostante” non sia un mondo che brilli per gratificazioni economiche. Nel mondo della cultura, in altre parole, il fenomeno del quitting non ha attecchito come altrove. Questo non è di per sé né positivo né negativo, ma deve far riflettere per immaginare politiche del lavoro rispondenti a un mondo che cambia e al contempo capaci di garantire competitività e sostenibilità al sistema-paese.

IRENE SANESI

UN CONFRONTO SU ARCHIVI, MEMORIA E FUTURO

Il “caso Carla Lonzi” ha riaperto il dibattito sugli archivi d’arte moderna e contemporanea. Qual è lo stato dell’arte? Come si pongono le istituzioni pubbliche a riguardo? Quali sono i rischi di un lavoro non efficace sulla memoria e cosa ci stiamo perdendo? Come intervenire sulla documentazione analogica e digitale?

CECILIA CANZIANI

CURATRICE E STORICA

DELL’ARTE

I più importanti musei internazionali e italiani da tempo hanno individuato nella relazione tra archivio e collezione il nesso attraverso il quale interpretare il museo come luogo di ricerca – le linee guida ICOM indicano del resto chiaramente questa direzione. L’attività di valorizzazione che un’istituzione museale può fare rispetto a un archivio è preziosa e molteplice. A partire dall’organizzazione e fruibilità dei fondi, al coinvolgimento della comunità scientifica nel promuoverne lo studio alla presentazione e prestito di documenti in occasione di mostre, è proprio il museo a dimostrare che l’archivio non ha solo a che fare con la preservazione del passato, ma è un organismo vivo che interroga il presente e che rende attivo e critico il museo stesso. In questo senso il caso del fondo Lonzi presso la Galleria Nazionale è emblematico: la riscoperta della sua figura che ora è nota anche al pubblico più ampio è partita proprio dall’arrivo dell’archivio alla Galleria che lo ha attivato attraverso convegni, mostre, premi, prestiti a cui sono seguite traduzioni, riedizioni degli scritti e interesse in abito internazionale.

STEFANIA MISCETTI GALLERISTA

Conosciamo tutti l’importanza degli archivi per l’arte contemporanea, sia in quanto materiale per gli studiosi sia come fonte e modello concettuale e metodologico per artisti e curatori. È questa consapevolezza che mi ha spinto a donare l’Archivio trentennale dello Studio Stefania Miscetti alla Galleria Nazionale di Roma. In materia di archivi credo sia fondamentale garantire continuità e progettualità, ed è questo il motivo per il quale ho deciso di affidare il mio ad un’istituzione pubblica: a mio avviso sono questi due elementi a dover indirizzare azioni e procedure che ne permettano la salvaguardia e la fruibilità – indispensabili per garantire la sopravvivenza degli archivi analogici nell’era del digitale – ma soprattutto la loro riattivazione. L’istituzione deve sfidare il tempo, superando contingenze e posizioni individuali, essere terreno fertile dove i documenti del passato nutrono l’immaginazione del presente, diventando visioni del futuro.

STEFANO CHIODI

STORICO DELL’ARTE, UNIVERSITÀ ROMA TRE

Tardivamente, dopo decenni di indifferenza, anche in Italia è maturata la consapevolezza che gli archivi delle arti visive contemporanee costituiscono una risorsa essenziale: critici, gallerie, artisti, studiosi, editori, lasciano dietro di sé testimonianze decisive per lo studio e la comprensione dei fatti artistici più recenti. D’altro canto, oggi non si può più immaginare il museo senza il supporto dell’archivio inteso non come “deposito” ma come parte viva dell’attività di ricerca e riflessione critica e come elemento essenziale degli stessi allestimenti di collezioni e mostre. Occorre dunque incrementare le risorse a disposizione delle istituzioni museali, creare o rafforzare al loro interno archivi aperti al passato recente, utilizzando le tecnologie per rendere accessibili documenti e pubblicazioni. Per superare la stantia contrapposizione, tutta italiana, tra la venerazione del passato e il disinteresse verso il presente, va rafforzata in definitiva una visione della storia come processo in perpetuo divenire, di cui i “nuovi” archivi si rivelano una componente essenziale.

CRISTINA BALDACCI

STORICA DELL’ARTE

UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI

VENEZIA

Definire l’arte contemporanea è un processo aperto che necessita di un aggiornamento continuo in termini di coscienza critica e metodologia storica, dove l’archivio, fisico o digitale, detiene un ruolo primario. Costituire, tutelare, prendersi cura degli archivi sono gesti imprescindibili per il contemporaneo (in Italia, Celant e Lonzi sono stati tra i primi a rimarcare l’importanza dell’“archivio come pratica”), tanto per gli storici, quanto per i critici, i curatori, gli stessi artisti e, non ultimi, i funzionari pubblici. Senza un impegno da parte degli enti pubblici museali è arduo garantire la sopravvivenza di materiali fragili ed eterogenei come quelli dei fondi storico-artistici, minacciati da diverse incertezze, tra cui la particolarità dei singoli lasciti, l’inaffidabilità dei sistemi di archiviazione, gli interessi politici ed economici. Controllare gli archivi è avere il potere sulla memoria, per questo è doverosa un’assunzione di responsabilità che li preservi come luoghi di possibilità sempre accessibili.

a cura di SANTA NASTRO

ILARIA BIGNOTTI CURATRICE

Ho personalmente svolto tutto il percorso di studi attraverso il lavoro di spoglio, consultazione e ricerca negli archivi d’arte e lavoro come curatrice scientifica in diversi archivi d’artista. Il problema che per la mia esperienza nell’arco di oltre vent’anni continua a porsi è duplice: da un lato, quello della conservazione adeguata dei materiali cartacei; inutile dire che anche se le istituzioni si fanno carico di acquisizione e deposito di fondi e archivi, non basta “averli”, ma serve che i materiali siano correttamente salvati dall’usura del tempo e, anche, dallo spoglio spesso selvaggio di molti utenti; secondariamente, la digitalizzazione: non serve semplicemente riprodurre i documenti cartacei, ma occorre trovare un sistema di catalogazione e messa a disposizione efficace: altrimenti le carte non parlano. È un impegno complesso e dispendioso, necessario per non disperdere un patrimonio fondamentale. La restituzione dei fondi certo non è l’azione migliore, ma mette in luce l’urgenza che si intervenga, pubblicamente, per far vivere gli archivi, non tenerli in vita come dei malati terminali: e farli vivere significa affidarli a chi li conosce, li studia, li può sistematizzare.

STEFANIA ZULIANI

STORICA DELL’ARTE, UNIVERSITÀ DEGLI STUDI

DI SALERNO

Se alle soglie di questo secolo le ricerche artistiche hanno registrato un produttivo archival impuse (Foster), è innegabile che negli ultimi anni la questione dell’archivio abbia guadagnato una posizione privilegiata all’interno delle dinamiche del sistema espositivo internazionale, incrociando le riflessioni sul museo e, soprattutto, sollecitando anche in Italia specifici progetti curatoriali. Mostrare gli archivi dell’arte non significa però dare soltanto visibilità a documenti e materiali riconducibili all’attività di artisti, critici, collezionisti, riviste o gallerie: ad essere oggetto di attenzione e di esposizione credo debba essere anche, e forse soprattutto, il processo che ha determinato la creazione di un archivio e le ragioni, mai scontate, della sua conservazione. Ogni archivio è infatti frutto di uno scarto, di un consapevole gesto selettivo o di un incidente che nel circoscrivere il passato orienta il futuro. Gli archivi, ha detto Achille Mbembe, in quanto dispositivi mettono in relazione il mondo dei morti e il mondo dei vivi, i documenti sono dei fantasmi a cui dobbiamo dare parola, forma pubblica assumendoci ogni volta il rischio della parzialità. Si tratta di un atto critico e, insieme, politico: Derrida non ha mancato di sottolineare che la qualità di una democrazia si misura dal grado di accessibilità degli archivi. E questo vale naturalmente anche per gli archivi dell’arte.

EVA FRAPICCINI

ARTISTA, DOCENTE

ACCADEMIA DI BRERA

Il caso dell’Archivio Carla Lonzi rivela la crisi di valori condivisi all’interno di un tessuto eterogeneo di operatori del settore culturale, quella del concetto stesso di memoria, parola logora, trasformata in un cartello senza identità. Se non si mappa il patrimonio non è tanto per mancanza di personale, o di spazi, ma per la scellerata accettazione, o inconsapevolezza, che così facendo si cancelli non solo la visibilità di individui, ma anche quella di intere comunità. Mentre qui diventano inaccessibili i lasciti materiali di studiosi e artisti, in altri Paesi conservano i siti Internet di non profit degli Anni Duemila. Preferisco “risorsa” ad “archivio”, perché non finisca come “memoria” e lo dice chi di “risorse” ne ha create diverse. Come ricorda la storica dell’arte Beatrice Von Bismarck parlando dell’archivio di Harald Szeemann, l’acquisizione del Getty di Los Angeles non mirava tanto a ricreare il ritratto di un curatore quanto quello un’intera era, del modo di fare mostre e della produzione culturale di circa quarant’anni. Il caso dell’archivio Lonzi è simile a molti altri, umiliati, dimenticati, come l’Archivio Gramsci ai Cantieri della Zisa di Palermo. Senza la conoscenza della storia di ieri siamo condannati ad assistere alla ripetizione di pratiche vecchie con titoli e mezzi nuovi, ad un panorama di stagnazione culturale.

MARCO SCOTINI CURATORE

Ancora una volta l’Italia non smentisce sé stessa. Non è da credere che un fondo come quello di Carla Lonzi, che avrebbe fatto fiera qualsiasi istituzione culturale internazionale, viene sospeso – al contrario – nel suo comodato d’uso tre anni prima della effettiva scadenza per essere restituito al proprietario. Ammetto comunque che, anche per l’Italia, è un’azione in contro-tendenza visto che musei come il Castello di Rivoli e il MAXXI o istituzioni come la Biennale di Venezia, da qualche anno, hanno cominciato a incorporare archivi di artisti e curatori. Allo stesso modo, Archivi di Stato cercano di lavorare con l’arte contemporanea, mentre archivi d’artista si mobilitano attivamente e autonomamente per mostrare il loro importante operato con iniziative di ampio respiro. Non posso dire: “nulla di nuovo sotto il sole” anche se tutto è ancora da fare. Sta cambiando la nostra percezione del tempo e non ce ne accorgiamo, grazie alle interfacce digitali possiamo concepire archivi dinamici, generativi e non dispositivi retroattivi. Scannerizzare o inventariare non è l’aspetto primario rispetto alle aggregazioni indefinite di passato che il digitale consente. Mentre a noi non spetta altro che celebrare la nostra perdita documentale…

IL PRONTO SOCCORSO DELLE BELLE ARTI

FABRIZIO FEDERICI

Iproblemi che affliggono la tutela del patrimonio artistico italiano sono notoriamente molteplici. Molte volte non si riesce a tutelare: per la mancanza di fondi e di personale, certo (aggravata dalle ultime riforme, che hanno sempre più separato musei e territori, con i secondi che, in molti casi, sono scivolati nell’oblio). Ma non è solo una questione di carenza di risorse: anche quando i soldi ci sono, non vengono spesi nel modo più efficace. Sono impiegati in progetti di studio, catalogazione, restauro, che magari non sono inutili in sé, e anzi spesso hanno una loro plausibilità, ma che il più delle

Il privato di buona volontà, che pure vorrebbe intervenire, è spesso lasciato solo

volte non obbediscono a un criterio che nel campo della tutela ha un’importanza ancora più decisiva, trattandosi di una corsa contro il tempo per salvare beni in pericolo: il criterio della priorità. Prevalgono altre ragioni, burocratiche (legate a questioni di più facile fattibilità, di competenze amministrative, di impegni di spesa), che portano a disperdere le risorse su tanti fronti, anziché concentrarle sui casi più urgenti. Occorre pertanto un ribaltamento radicale del modus operandi, per arrivare ad avere delle soprintendenze-ospedali. La metafora sanitaria può sembrare fuori luogo, in questi tempi di tagli e di liste di attesa infinite: ma non trovo immagine migliore per visualizzare un organismo in cui si badi innanzitutto alla gravità delle situazioni, proprio come in ospedale ci si concentra su chi è in pericolo di vita, rimandando gli interventi meno urgenti.

Operazione preliminare e imprescindibile è quindi quella di stilare, per ogni territorio, la lista delle priorità, che l’organo di tutela deve redigere basandosi non solo sulle proprie, esigue forze, e sulla documentazione d’archivio, ma attraverso un serrato confronto con gli altri enti territoriali, con gli studiosi locali, con le università (ogni angolo delle Penisola è così ricco di testimonianze, che è difficilis-

simo conoscerlo nel dettaglio). Incrociando la stima dell’importanza dei diversi beni artistici e architettonici e la valutazione della gravità del loro stato di conservazione si ottiene la lista dei ‘malati’ (ovviamente da aggiornare di tanto in tanto) che dovrà guidare l’azione di salvaguardia. Si partirà dai primi due, tre casi e su di loro si concentrerà ogni sforzo, magari con un occhio non solo al recupero materiale del bene, ma anche al suo reinserimento sociale, ossia alla sua fruizione e al suo utilizzo, nella prospettiva di una sostenibilità culturale ed economica dell’operazione sul lungo periodo. Solo dopo che i primi casi saranno affrontati e risolti, si potrà scorrere la lista, concentrando gli interventi sui casi successivi.

Occorre un ribaltamento radicale del modus operandi, per arrivare ad avere delle soprintendenze-ospedali

Va da sé che in questa lista di priorità troveranno posto non solo beni pubblici, ma anche di enti non statali, a cominciare naturalmente dalla Chiesa, e di privati, esattamente come in ospedale si cura il paziente senza interes-

Courtesy/ Mo(n)stre

sarsi alla sua provenienza, al suo credo religioso, al suo orientamento sessuale. Importanza storico-artistica e condizioni di conservazione devono essere i soli due criteri guida: e dunque anche edifici e opere di privati saranno presi in considerazione. Nessuno vuole ricoprire privati cittadini di denaro pubblico: piuttosto, la soprintendenza deve assistere il privato da un punto di vista legale ed economico, aiutandolo a individuare possibili fonti di finanziamento pubbliche e private (sponsor) e mettendolo in contatto con le migliori professionalità. Il privato di buona volontà, che pure vorrebbe intervenire, è spesso lasciato solo: così si ricomporrebbe quella frattura che spesso si riscontra tra cittadino e organo di tutela (che invece è chiamato a rapportarsi con rigore con quei privati che lasciano andare in malora i beni di loro proprietà). D’altra parte, nel campo dei beni culturali, la distinzione tra pubblico e privato è spesso artificiosa: prendiamo ad esempio le tante facciate decorate a sgraffito e ad affresco che si sgretolano o svaniscono sotto l’azione delle intemperie, o ancora vengono cancellate da interventi inappropriati. Nella maggior parte dei casi si tratta delle facciate di private abitazioni, ma c’è forse qualcosa di più pubblico di questa forma di street art ante litteram, di cui tutta la cittadinanza può fruire passeggiando in centro, semplicemente alzando gli occhi verso figure e decorazioni che, sbiadite ma ancora leggibili, attendono interventi di recupero non più procrastinabili?

IL GRANDE GALLERISTA GIORGIO MARCONI E L'ARTE COME AVVENTURA

MARCELLO FALETRA

La scomparsa di Giorgio Marconi mi trascina in una spirale di ricordi. È stato tra i galleristi italiani che più di altri hanno provato a sperimentare il luogo dell’esposizione come uno spazio dove arte e cultura, nel senso più ampio della parola, potessero trovare una casa comune. In quello spazio Enrico Baj, di cui Giorgio Marconi è stato un assiduo sostenitore, era di casa. Il suo stile di gallerista è stato quello della delega: per molti anni è stato un grande artista come Emilio Tadini il suo consigliere più fedele. E non va dimenticato che la prima mostra di De Kooning (1989) in una galleria privata in Italia è stata fatta alla galleria Marconi. Ho conosciuto Giorgio Marconi nel 1984. Ero ospite del cantautore Roberto Vecchioni, che abitava nello stesso edificio di Via Tadino a Milano. Di lui mi colpì il fatto che non praticava esclusioni nella scelta delle mostre, purché obbedissero a certi criteri della galleria, uno tra questi, in uso negli Anni Ottanta, era quello di grandi formati. Pitture o installazioni che occupassero e trasformassero lo spazio in modo totale. La pittura o invadeva lo spazio o restava prigioniera della

Di lui mi colpì il fatto che non praticava esclusioni nella scelta delle mostre, purché obbedissero a certi criteri della galleria, uno tra questi, in uso negli Anni Ottanta, era quello di grandi formati

cornice... Nel frattempo i graffiti si riappropriavano dello spazio urbano, con gli esiti che oggi ben conosciamo. Molti grandi artisti sono transitati nella sua galleria, e molti giovani, oggi ben noti. Per anni non l’ho più visto. Nel 2000 invitai Jean Baudrillard per una conferenza all’Accademia di Belle Arti di Palermo, dove insegnavo in quel momento – formalmente fu un seminario che curai con Umberto De Paola, studioso di cinema. E con Baudrillard invitai anche Mario Perniola e Franco Berardi (Bifo). Mi interessava un confronto su certi argomenti che in quel momento erano di frontiera. Qualche giorno prima delle conferenze, un ausiliario mi dice che un certo En-

IL GALLERISTA GIORGIO MARCONI IN 7 DATE

Giorgio Marconi nasce a Milano il 18 luglio 1930

Abbandona gli studi in medicina per aprire lo spazio espositivo Studio Marconi a Milano in Via Tadino 1965

Dopo essere stato per anni un punto di riferimento per il mondo dellʼarte, lo spazio in Via Tadino chiude per riaprire come Galleria Gió Marconi, insieme al figlio di Giorgio, Gió 1992

Riceve il premio ANGAMC alla carriera, conferitogli dallʼAssociazione Nazionale delle Gallerie dʼArte Moderna e Contemporanea 2018

rico Baj voleva parlare con me. Pensai che fosse uno scherzo. E così lasciai perdere. Il giorno dopo si ripresentò la stessa cosa: un certo Enrico Baj mi richiamava. A quel punto alzai la cornetta e risposi. Era proprio Baj. Parlammo di tante cose e del nostro amico comune, che era Baudrillard. Mi disse che desiderava essere a Palermo. Riformulai il progetto in poche ore e lo consegnai in segreteria con grande difficoltà. Andò in porto: Baj rientrò nel progetto. Riepilogando: Baudrillard, Perniola, Bifo, Baj, ma la cosa non finisce qui. Baj mi comunica che a lui si aggrega Giorgio Marconi. Ma a questo punto il progetto era chiuso, per cui Giorgio verrà a sue spese. Il giorno del convegno sono tutti presenti, compreso Giorgio Marconi e la moglie di Baj, Roberta. Il giorno successivo al seminario-convegno (difficile fare la distinzione in quella circostanza), Giorgio su suggerimento di Baj mi chiede di vedere cosa fanno gli studenti. Lo porto nelle aule. Chiamo gli studenti, chiedo loro di mostrare il loro lavoro... molti sfuggono.

Studio Marconi ospita una delle prime mostre italiane di David Hockney 1966

Giorgio Marconi fonda la Fondazione Marconi 2004

Muore a Milano il 20 maggio 2024

Giorgio non conosceva Baudrillard personalmente. È stato il suo caro amico Baj a proiettarlo a Palermo in quella circostanza. Ne fu molto felice. Infatti, si prospettava di fare di Palermo un avamposto mediterraneo della Patafisica... Anche Bifo e Perniola erano entusiasti.

Il giorno dopo Baudrillard, Perniola e Bifo, venne il turno di Baj e di Giorgio Marconi. In un’aula dell’Accademia, si affrontarono vari argomenti, tra cui quello del rapporto tra giovani artisti e galleristi. Ricordo una risposta di Giorgio Marconi ad uno studente che gli aveva chiesto come mai le grandi gallerie non rischiano con i giovani. Una domanda che in un silenzio siderale sembrava già confermare la propria ragione. La risposta di Marconi è stata semplicissima: “Non so cosa significa la parola “giovani”. Nell’arte non esistono le generazioni, ma le avventure... L’arte è un’avventura, e io sono dalla parte dell’avventura”.

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