Elisa Cristiana Cattaneo e Maurizio Montagna giro d'italia: Prato
Saverio Verini studio visit: Letizia Lucchetti
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Valentina Silvestrini architettura
Fare rigenerazione oltre le aree urbane italiane
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Cristina Masturzo mercato
Case d'asta: espansioni e nuove acquisizioni in italia e all’estero
STORIES
Alberto Villa Raccontare e rappresentare i corpi non conformi + Desirée Maida (a cura di) news
Alberto Villa
dietro la copertina Le visioni perturbanti di Marta Blue
Dario Moalli libri Il corpo performativo, fotografico, politico nell’arte italiana degli Anni Settanta
Caterina Angelucci (a cura di) osservatorio curatori La pratica context-specific del collettivo Mixta
Valentina Tanni window
Elisabetta Roncati queerspectives Ahmed Umar il mio corpo non è quello della tradizione. Ma danzo lo stesso
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Desirée Maida
FENOMENOLOGIA DEL BODY SHAMING. LA PROSPETTIVA (E I CORPI) DELLA STORIA
DELL’ARTE
Il canone è il filo rosso che collega storia dell’arte e giudizio dei corpi non conformi. Leggiamo il body shaming attraverso la lente artistica, per comprenderne origini, problematicità e soluzioni
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Dario Bragaglia
LIONE: LA CITTÀ CHE
CONTINUA A CAMBIARE IN MEGLIO
Nel mese d’inaugurazione della sua biennale d’arte contemporanea, vi raccontiamo Lione e i tanti cambiamenti (urbanistici e culturali) che la vedono protagonista in questi anni
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Emma Sedini
AGE-FRIENDLY MUSEUM: VERSO UN MUSEO A MISURA (ANCHE) DI ANZIANI
Con l’avanzare dell’età media della nostra popolazione, l’accessibilità dei luoghi della cultura alle persone meno giovani è un tema non più rimandabile. Ecco qual è la situazione in Italia
Alex Urso (a cura di) short novel Kalina Muhova La vedo in ogni cosa
Santa Nastro (a cura di) talk show Musei italiani e accessibilità
Massimiliano Tonelli Alessandro Giuli vai e spacca tutto
Angela Vettese Il futuro é pericoloso. Lo dicono i nostri corpi (e l'arte)
Anna Detheridge Le arti e il corpo sofferente
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Fabrizio Federici Musei e mostre: convivenza inevitabile
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Angela Madesani Lo sguardo di Gianni Berengo Gardin sulle ceramiche Marazzi di Sassuolo
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Stefano Castelli
Baj tra Milano e la Liguria. Quando l’arte radicale sa essere spiritosa
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Nicola Davide Angerame Uno straniero di nome Picasso, due mostre curate dalla sua biografa Annie Cohen-Solal
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Fausto Politino
Helen Frankenthaler: dipingere senza regole. La mostra a Firenze
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Marta Santacatterina Dietro le grandi mostre. Come viaggiano le opere d’arte
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Grandi Mostre in Italia in queste settimane
Scopri il Vittoriano e Palazzo Venezia Sei secoli di
GIRO D'ITALIA: PRATO
a cura di EMILIA GIORGI
ELISA CRISTIANA CATTANEO teorica e paesaggista [testo]
MAURIZIO MONTAGNA [foto]
Andrea Branzi, in uno dei nostri dialoghi, aveva identificato precisamente Prato come l’origine della città continua e omogenea, la città potenziale che, una volta deterritorializzata dal contesto originario, si trasforma in un’astrazione capace poi di riterritorializzarsi in nuove geografie, storie e contesti. È in questa circolarità radicale – che inquadra Prato sia come la genesi poi astratta sia come l’espressione concreta della No-Stop city – che si definisce il senso e la forma del suo spazio urbano. Si tratta di una forma del possibile, al contempo storica e visionaria, teorica e iper-reale. Una città che emerge come fosse dotata di un’epigenesi sdoppiata, con un’incessante capacità di auto-ridisegnarsi ciclicamente, che trova nel continuo dinamismo il proprio equilibrio. In questa oscillazione, la sua costruzione tangibile si manifesta in spazi molecolari. Prato si configura infatti quasi come diverse città dentro una città, come una proliferazione di spazi poliedrici, non finiti ed enunciativi piuttosto che esplicativi e determinati. Come città proteiforme, l’intreccio di queste componenti plurali, apparentemente autonome ed eterogenee, la rivela tuttavia come una città relazionale, definita da connessioni intangibili ma pervasive. È una città insieme polimorfa ma irriducibile, concatenata, che accoglie in modo globale i suoi abitanti, compresi quelli appartenenti al mondo naturale. Queste spazialità diffuse hanno come fine non la definizione stabile di una forma, ma sono luoghi destabilizzanti e resilienti, capaci di innescare nuove relazioni inaspettate, distanti dai principi d’ordine novecenteschi e dalla tradizionale “messa in posa” dell’urbano. Come se il carattere della città fosse giocato non solo nella risoluzione del
Le operazioni urbanistiche in atto si contrappongono allo sviluppo urbano canonico e sono fuori dalla logica del protocollo: da un lato, si assiste ad un innesto sottrattivo e di fenditura al corpo dell’architettura, con la Natura intesa come nuovo “vivente” (Emanuele Coccia, 2019) urbano; dall’altro, l’entropia diventa un principio strategico, attraverso un’economia basata sul riuso e lo scarto, come ricorda anche Malaparte in Maledetti Toscani. Queste tassonomie si specificano in dispositivi ancora più instabili – dagli spazi dei Macrolotti in fase di forestazione alle matasse di cardato che vanno e vengono – ma che riconducono i termini ecologia ed economia alla loro radice comune. Sovvertendo le logiche urbane convenzionali, l’apertura al mondo naturale e all’entropia, si genera nella città una topologia discreta e indeterminata, globale e locale, che produce nuovi pattern senza figure, misure multiple e differenziate, a-scalari, che interagiscono con la costruzione solida della città storica, creando nuove spazialità spiazzanti, eterogenee, dissimili ma co-esistenti. Nel contesto della scienza della pianificazione, è la costruzione della città attraverso categorie propositivamente “deboli”, con fondamenti basati sul pensiero della differenza e della pluralità. Prato è quindi un luogo che evita regole a-priori, accogliendo intrusioni, incidenze. In un certo senso, è lo specchio concreto di ciò che Latour affermava nel 2020 a proposito di Gaia: “Più impariamo a ragionare Gaia, più si accresce l’eterogeneità della Terra. Dire che una zona è eterogenea significa insistere ancora una volta sulle preoccupazioni generative e sulla mescolanza degli esseri da cui dipende la sua abitabilità a lungo termine. È quindi necessario inventare modelli ad hoc, adattati a ogni fenomeno e praticamente a ogni sito, fino a fare l’inventario di tutti i vari intrecci”. Come intreccio latouriano, Prato si avvicina ad un oligopticon, uno spazio concettuale e materiale in cui mondo e pensiero transitano senza mai cristallizzarsi, dove l’instabilità conduce alla neutralizzazione di ogni fissazione, sia ideologica che formale.
STUDIO VISIT LETIZIA LUCCHETTI
di SAVERIO VERINI
La pittura di Letizia Lucchetti ha la spontaneità di un disegno fatto su un foglio di carta. Lo sfondo, quasi sempre a malapena abbozzato, è un pretesto per far emergere figure tornite, che sembrano tracciate con dei grandi pastelli. Simili a delle statuine, sono loro le vere protagoniste delle opere: a guardarle bene, somigliano a chincaglierie provenienti da un negozio d’antiquariato incantato, ingrandite a dismisura. Ma i grandi formati dei suoi dipinti –e delle figure in essi contenute – non devono trarre in inganno. Le opere di Lucchetti non nascono dall’esagerazione di un ricordo infantile o dalla memoria di una qualche casa dei nonni; al contrario, si tratta di cose a lei vicine, a portata di mano, magari appoggiate su uno scaffale della camera da letto. Piccole cose che diventano grandi, in un’espansione del quotidiano, una dilatazione dell’ordinario e dei suoi limiti. Anche i titoli tendono a un ampliamento dell’opera e delle sue potenziali letture, manifestando una spensieratezza che corrisponde perfettamente allo stato d’animo dal quale la pittura di Lucchetti sembra scaturire.
Nel tuo lavoro coesistono tensioni diverse: un certo “primitivismo” fatto di figure abbozzate, ma anche pennellate dolci e guizzanti. Quali sono gli autori ai quali guardi e che influenzano la tua pratica?
Ogni volta che mi viene posta questa domanda sono sempre un po’ in difficoltà, come se ogni anno della mia vita avessi una pittura preferita che a volte ho la fortuna di vedere dal vivo. Come Filippo de Pisis, Rose Wylie, Luc Tuymans. Tutte pitture molto diverse tra loro, ma ognuna con qualcosa che mi attrae. Per esempio, in questi ultimi mesi il mio quadro preferito è Play Within a Play di David Hockney. Ne parlavo un po’ di giorni fa con un mio grande amico pittore, in fin dei conti possiamo ammirare e assorbire a distanza questi grandi nomi della pittura; forse l’unica cosa importante che può influenzare davvero il nostro pensiero e la pittura è solamente la vita che viviamo tutti i giorni, quello che vediamo nelle nostre giornate, i discorsi che si fanno con gli amici per la costruzione di una buona pittura. Ora che vivo in un piccolo paese delle Marche ha senso parlare di qualcosa che non ho vissuto e che non mi appartiene? Basta solo essere onesti con sé stessi.
La pittura è probabilmente il mezzo con più secoli di storia alle spalle: una storia consolidata, conosciuta, analizzata, imitata, contraddetta. Dopo tutto questo tempo, le trasformazioni in pittura si manifestano attraverso spostamenti minimi, millimetrici. Ecco, ti chiedo: in quale direzione hai deciso di percorrere quel millimetro?
Credo di percorrere anche meno di un millimetro, ed è già un passo ambizioso. In alcuni momenti penso di stare ferma sullo stesso punto finché non mi chiedo: ma cos’è importante? Trattare la tela come un foglio di carta o trattare il foglio come una tela? Forse i fogli
L’unica cosa importante che può influenzare davvero il nostro pensiero e la pittura è solamente la vita che viviamo tutti i giorni
devono rimanere disegni e le tele devono rimanere quadri, con la loro nobile aura. E quindi a volte tratto la tela come tratto il foglio e viceversa, delle volte no. Faccio quadri che possono essere solo quadri e disegni che non possono essere altro che disegni. Ho diverse scatole nelle quali li divido con scritto sopra: “disegni ok”, “disegni casuali”, “disegni che non si possono dipingere”. Magari tra vent’anni mi renderò conto che i disegni che non si possono dipingere in realtà possono essere quadri. Ma forse lì avrò fatto quel mezzo millimetro in più per poterti dare una risposta più precisa. Per ora mi piace vacillare su questo piccolo punto e cadere ogni tanto da un lato e ogni tanto dall’altro.
C’è un momento in cui hai pensato che avresti voluto fare l’artista o, comunque, in cui hai realizzato la tua attrazione per l’arte? Un ricordo, un aneddoto, una piccola epifania…
Non credo ci sia stato un momento preciso, però mi viene in mente questa storiella di quando avevo 10 o 11 anni. Ho un fratello più grande di me di due anni, quando ero appena entrata alle medie lui stava facendo l’ultimo anno. Mi piaceva disegnare e forse mi veniva anche abbastanza bene, con la consapevolezza con cui può disegnare una bambina di quell’età. Per farla breve, mio fratello odiava fare qualsiasi cosa richiedesse una matita o un pennello e io facevo sia i miei che i suoi compiti. Ogni volta che questi compiti venivano riportati in classe, io arrivavo a stento alla sufficienza, mio fratello sempre voti altissimi. Mi ricordo ancora il fastidio di quell’ingiustizia; quindi, forse per ribellione, ho continuato per tutti questi anni. Alla fine, l’ho presa un po’ troppo seriamente questa faccenda dell’arte.
Hai venticinque anni, ma non ti sono mancati riconoscimenti, come la recente residenza nell’ambito del programma Nuovo Forno del Pane promosso dal MAMbo o mostre in gallerie. Come valuti la tua esperienza da artista emergente in Italia? Ti capita mai di confrontarti con i coetanei o i compagni di Accademia? Qual è l’umore della tua generazione rispetto alla condizione di “giovane artista” nel nostro Paese?
Su questo ho pareri contrastanti, che dipendono dai periodi più o meno ottimisti della mia vita. Credo che rispetto a un po’ di anni fa ci sia un’attenzione
Letizia Lucchetti è nata nel 1999 ad Ancona. Si è formata all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra le principali esposizioni si segnalano quelle alla NEVVEN Gallery (Bologna, 2024) al MLAC – Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea (Roma, 2024), Adiacenze (Bologna 2023), RizzutoGallery (Palermo, 2023) e LABS Contemporary Art (Bologna, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il premio Art Up Opentour Award e, recentemente, ha preso parte alla Residenza Nuovo Forno del Pane promossa dal Mambo (2024). Attualmente vive e lavora ad Agugliano, Ancona.
STUDIO VISIT
Letizia Lucchetti, Il Principe dei Sogni 2023, olio su tela, 95 x 75 cm. Courtesy Nevven Gallery, photo
Letizia Lucchetti, Forever Safe, the Secret to Their Deeds , 2023, olio su tela, 200 x 170 cm. Courtesy Nevven Gallery e l’artista
Letizia Lucchetti, Quando abbiamo deciso di comprare tutte le guerre , 2023, olio su tela, 95 x 75 cm.
NEI NUMERI PRECEDENTI
#58 Mattia Pajè
#59 Stefania Carlotti
#61 Lucia Cantò
#62 Giovanni de Cataldo
#63 Giulia Poppi
#64 Leonardo Pellicanò
#65 Ambra Castagnetti
#67 Marco Vitale
#68 Paolo Bufalini
#69 Giuliana Rosso
#70 Alessandro Manfrin
#71 Carmela De Falco
#72 Daniele Di Girolamo
#73 Jacopo Martinotti
#74 Anouk Chambaz
#75 Binta Diaw
#76 Clarissa Baldassarri
#77 Luca Ferrero
#78 Francesco Alberico
#79 Ludovica Anversa
maggiore ai giovani artisti, non so se questa possa essere solamente una moda passeggera. Ma a noi giovani pittori (o artisti) dà uno spiraglio di luce. Ogni tanto però mi spaventa l’idea di poter essere risucchiati da qualcosa di molto più grande di noi, di essere quel giocattolo nuovo che puoi ammirare finché non ne troverai un altro con dei colori migliori. Per il momento mi aggrappo alla sola preoccupazione che per me ha senso, e cioè quella di fare delle belle mostre e dei bei lavori, cercando di dimenticare tutte le altre questioni di cui non ho alcuna responsabilità o potere.
Se ne parla spesso, con gli altri amici pittori, alcuni sono più preoccupati, ad altri basta dipingere tutti i giorni in studio per poter essere in pace. Ognuno reagisce a proprio modo. Ho amici che lavorano con la pittura fuori dall’Italia, sicuramente ci sono delle dinamiche migliori per una costruzione di un futuro da artista. In ogni caso l’incertezza del futuro sta lì sotto il tuo letto e ogni tanto nella notte ti fa cadere le coperte di dosso, la mattina ti svegli tutto raf-
Per il momento mi aggrappo alla sola preoccupazione che per me ha senso, e cioè quella di fare delle belle mostre e dei bei lavori
freddato. Però come la maggior parte dei raffreddori della notte passano appena inizia il pomeriggio.
A cosa stai lavorando in questo momento? Hai in programma qualche mostra?
In questo momento non ho nessuna mostra in programma e ti devo dire che mi sta facendo bene lavorare con la consapevolezza che non ho nessuna scadenza, o qualcosa da produrre “per forza”. Ho appena finito di sistemare il nuovo studio, per il momento starò nelle Marche per concentrarmi solo sui prossimi lavori.
Sto portando avanti due serie diverse, la prima iniziata in residenza – diversa anche a livello tecnico da tutte le altre –, e un’altra che riguarda tutti gli oggetti che non potrò mai avere. Non so se un giorno ci potrò fare qualcosa o non le vedrà mai nessuno, sono quadri che nascono prima di tutto per me stessa e non per forza per essere mostrati, sono in studio e non urlano a nessuno “guardami sono qui per essere visto”. Per me vivono bene anche così.
RACCONTARE E RAPPRESENTARE I CORPI NON CONFORMI
ALBERTO VILLA
“I pazienti affetti da cancro”, scriveva Susan Sontag nel suo Malattia come metafora (1978), “vengono ingannati non solo perché la malattia è (o si pensa che sia) una condanna a morte, ma anche perché viene percepita come oscena, nel senso originario del termine: nefasta, abominevole, ripugnante per i sensi”. Lo sapeva bene l’artista statunitense Hannah Wilke, che nel 1987 ha ricevuto la diagnosi del linfoma che la portò alla morte nel 1993, all’età di 52 anni. Gli ultimi tre anni della sua malattia li ha consegnati al mondo in forma di fotografia: la serie Intra-Venus racconta il decadimento del corpo di Wilke, alla faccia dei canoni che vedono bellezza solo all’interno di un corpo sano. La malattia è solo una delle tante – umanissime – occasioni che comportano l’esclusione di un corpo dal nostro sguardo e dalle vetrine della società.
Già Foucault parlava, in relazione ai detenuti, di come allontanare l’indesiderato non sia una soluzione, ma un eser-
cizio di biopotere. Per questo motivo, i corpi non conformi – spesso nascosti, dimenticati, evitati – sono al centro di questo numero di Artribune Magazine, a partire dalla cover di Marta Blue, in cui la cicatrice, come racconta lei stessa nell’intervista che segue, da ferita e disturbo diventa segno di caratterizzazione.
Sul corpo (performativo, fotografico e politico) si interroga anche Gaia Cipollone nel suo libro Corpi a fuoco, qui recensito da Dario Moalli e raccontato dall’autrice in un’intervista.
La non conformità del sudanese Ahmed Umar non è tanto nel suo corpo, quanto nel contesto in cui lo utilizza: la danza nuziale tradizionale che ha portato alla 60. Esposizione Internazionale Arte di Venezia è infatti riservata esclusivamente alle donne. Ce ne parla su invito di Elisabetta Roncati, nella rubrica Queerspectives.
Desirée Maida ci guida attraverso la storia dell’arte e i suoi canoni, terreno fertile per le radici del body shaming contemporaneo, mentre Emma Sedini
In arrivo a Firenze BIAF 2024. Novità e anticipazioni
CATERINA ANGELUCCI L Ci sono nomi di antica tradizione come Colnaghi (fondata nel Settecento), la londinese Agnews (che ha avviato la sua attività nel 1817), la galleria Enrico Frascione (alla BIAF dalla prima edizione nel 1959) e ancora Botticelli Antichità, Bacarelli e Longari tra i partecipanti (per un totale di 80 gallerie) della 33esima edizione – in programma dal 28 settembre al 6 ottobre 2024 a Palazzo Corsini – della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze, cui si aggiungono quelli di gallerie di recente istituzione o dirette da giovani quali Caretto & Occhinegro e Romano Fine Arts. Mentre entrano per la prima volta a far parte della rassegna Flavio Gianassi di Londra – che esporrà un’accurata selezione di dipinti e sculture italiane dal XIV al XVII Secolo, tra i quali una grande croce dipinta di Giovanni da Rimini e tre piccoli tondi di Bicci di Lorenzo –, Lullo Pampoulides sempre di Londra e Rob Smeets di Ginevra.
analizza il panorama museale italiano alla ricerca delle problematiche e delle buone pratiche in termini di accessibilità per gli anziani, target con esigenze specifiche e dalla rilevanza sociale di immediata importanza.
L’accessibilità museale, in termini più ampi e trasversali, è invece al centro del talk show coordinato da Santa Nastro, dove professionisti del settore si esprimono sui concetti di Design for All e inclusività dei pubblici.
Si conclude con gli editoriali di Angela Vettese e Anna Detheridge, entrambi dedicati a diverse accezioni della conformità corporale e mentale, analizzata attraverso eminenti esempi della storia dell’arte e della scienza.
Una tematica, quella del corpo, che va oltre le pagine di questo magazine e sfocia in quelle dello Speciale Moda che lo accompagna: nel supplemento curato da Alessia Caliendo, tutto il corpo, anche i suoi angoli più intimi, diventano argomento di racconto, ricerca, rivendicazione.
Ma soprattutto, abbiamo voluto indagare il corpo nel suo farsi bandiera della battaglia contro il tabù e l’esclusione. Perché, per riprendere e omaggiare di nuovo Hannah Wilke, “il pregiudizio visivo ha causato guerre mondiali, mutilazioni, ostilità e alienazioni generate dalla paura dell’altro”.
Inizia a Sarajevo la costruzione del museo d’arte contemporanea Ars Aevi
Ars Aevi, render del progetto di RPBW
LIVIA MONTAGNOLI L Era il 1992 quando, nella Sarajevo ridotta in macerie dal conflitto serbo-bosniaco, Enver Hadžiomerspahić piantava il germe del museo di arte contemporanea Ars Aevi, forma di resistenza culturale alla tragedia della guerra. Allora, in una città ancora lontana da un ritorno alla normalità, il progetto nasceva nella forma di un’alleanza con centri d’arte contemporanea di altri Paesi geograficamente e culturalmente vicini alla Bosnia-Erzegovina, con l’idea di creare una collezione per il museo in nuce, in attesa della sua realizzazione. Nel 2014 le opere conservate in un deposito temporaneo erano già più di 150, in un mix di nomi affermati sulla scena internazionale e artisti emergenti, da Pistoletto a Kounellis, Kosuth, Soskic, Salvadori, Buren, Kapoor, Viola, e molti altri. Al progetto architettonico, invece, lavorò Renzo Piano, a titolo gratuito in qualità di ambasciatore UNESCO. Oggi le opere della collezione sono in gran parte esposte presso la Vijećnica, sede della Municipalità ed ex Biblioteca Nazionale. Ma l’ultimo anno è stato fondamentale per arrivare all’avvio della fase esecutiva del progetto di realizzazione del museo, curato dallo studio di Sarajevo Non Stop sotto la supervisione di RPBW. Sarà il fondo fiduciario multi-donatori promosso dall’UNESCO a favorire la raccolta delle risorse necessarie alla realizzazione dell’edificio e alla manutenzione delle opere della collezione, che nel frattempo si apprezzano grazie al tour virtuale proposto sul sito web di Ars Aevi. arsaevi.ba
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Nuovi spazi, iniziative e progetti a (e da) Palermo
Era un sogno custodito da tanti anni nel cassetto quello che si è concretizzato lo scorso 30 agosto con l’inaugurazione della mostra LAGUNA, con protagonisti gli artisti Katharina Maderthaner e Francesco De Grandi. Con queste parole Giovanni Rizzuto – titolare insieme alla moglie Eva Oliveri della RizzutoGallery di Palermo – racconta il nuovo spazio espositivo di recente aperto a Düsseldorf, a Flingern, quartiere della città tedesca un tempo ex distretto industriale poi riconvertito in zona residenziale, e oggi sede di numerose gallerie d’arte contemporanea. “Sono tanti i motivi che ci hanno spinto ad aprire questa nuova sede”, ci racconta Rizzuto, “non ultimo il fatto che Palermo e Düsseldorf si parlano da tanto tempo, tra progetti e collaborazioni che durano da anni. Ma soprattutto, noi abbiamo sempre avuto un feeling particolare con la Germania, diversi nostri collezionisti sono tedeschi, e il loro modo di approcciarsi e di esperire l’arte è molto simile al nostro: una grande attenzione nei confronti degli artisti”.
“Dopo Favara e Mazzarino, Farm Cultural Park nel 2025 aprirà un Temporary Farm per cinque anni anche a Palermo, in un posto speciale a pochi metri dai meravigliosi Quattro Canti: l’Ex Collegio dei Crociferi”. Con un post condiviso sui propri profili social, il centro culturale di fama internazionale nato a Favara, in provincia di Agrigento, dalla visione del notaio Andrea Bartoli e dall’avvocato Florinda Saieva, annuncia l’apertura del nuovo avamposto nel capoluogo siciliano. Qui il prossimo anno sorgerà il Museo delle Città del Mondo, “una sorta di ‘the best of Countless Cities’ nell’ambito della Biennale di Farm nel 2025. Oltre ad accogliere le città più incredibili del mondo e le storie più di ispirazione, il Museo ospiterà una Biblioteca dedicata ai temi delle Città del Mondo, e uno spazio laboratorio per accogliere ricercatori e studenti”. Il centro includerà inoltre la scuola SOU, Plurals, uno spazio laboratoriale per teenager, e Place Jemaa el-Fnaa, un piccolo shop del Museo.
La Grande Brera al Palazzo Reale di Palermo. La seduzione del classico in mostra : è questo il titolo della rassegna che vede la Pinacoteca di Brera e la Fondazione Federico II unite in una collaborazione che ha portato da Milano fino a Palermo cinque capolavori scultorei di Antonio Canova ( Maddalena penitente e Vestale ; di quest’ultima è stata realizzata una riproduzione in 3D in scala 1 a 1 per la fruizione di ipovedenti e non vedenti), Giovanni Pandiani ( Egle al fonte ), Giovanni Spertini ( La scrittrice - la fidanzata italiana ) e Pietro Magni (La leggitrice ). “Nelle sale espositive di Palazzo Reale le opere di Brera vengono narrate ed entrano in dialogo con l’architettura e con i valori culturali e testimoniali di un luogo che promana bellezza e, assieme, il senso profondo del dialogo fra culture”, spiega Angelo Crespi, Direttore Generale della Pinacoteca di Brera.
Ha inaugurato il 12 settembre In Via Cluverio, Officina, nuovo spazio multidisciplinare che sorge negli ambienti recuperati di Via Cluverio 7. Un progetto nato dalla determinazione della direttrice artistica Josephine Flasseur, artista francese giunta a Palermo e rimasta ammaliata dall’atmosfera e dal potenziale culturale della città: “Palermo è una città affascinante, dura, spumeggiante. È intrisa di una bellezza drammatica, caotica, magistrale. A Palermo ritrovo il potente respiro base di tutte le creazioni”, spiega Flasseur. “Officina” non è soltanto spazio espositivo, ma accoglierà anche artisti in residenza, con aree dedicate al design. A inaugurare il nuovo spazio è SINOPIA, mostra di Michele Canzoneri con opere musicali di Giovanni Damiani, in corso fino al 24 ottobre 2024.
Iniziamo dalla cover del nuovo Artribune Magazine: in questo numero si parla di corpi non conformi e canoni di bellezza. Nella tua foto, la simmetria labbra (simbolo universale di attrattività) è interrotta da una profonda cicatrice obliqua. Ci racconti la genesi di questo lavoro?
Questa foto è nata principalmente come simbolo di resilienza. La cicatrice potrebbe essere associata ad un senso di vulnerabilità e imperfezione, ma ho scelto di conferirle una connotazione più affine ad un forte senso di identità. Negli ultimi anni, mi sono dedicata all’esplorazione della mia mente attraverso sedute di ipnosi regressiva. Parte del mio lavoro tratta la teoria del trauma trans-generazionale, che si basa sul concetto di inconscio collettivo elaborato da Jung. Mi sto dedicando ad un’analisi approfondita per comprendere la natura e le origini di alcuni traumi, e il motivo per cui questi ultimi spesso emergano come ricordi distorti e parziali. Questo processo di esplorazione mi aiuta a comprendere se le mie attuali sensazioni siano il risultato di esperienze personali, derivate da educazione familiare o influenze ambientali, o se siano eredità emotive e psicologiche che ho assorbito senza esserne completamente consapevole. Questa immagine rappresenta uno dei primi risultati di questo esperimento.
Il corpo è un tema che esplori in molte tue opere, spesso sottolineandone lati disturbanti: ventri attraversati dallo stelo di una rosa, chiavi che sembrano intrappolate tra lo sterno e la pelle, spire di serpenti che abitano un ventre. Che ruolo ha per te il perturbante?
LE VISIONI PERTURBANTI DI MARTA BLUE
Sulla cover del numero che avete tra le mani, compare un’opera di Marta Blue, fotografa e creative director il cui lavoro ha conquistato le copertine delle più importanti riviste internazionali (persino l’ambitissimo New York Times). In occasione della sua mostra personale da FIUTO Art Space in provincia di Ascoli Piceno, non potevamo lasciarci sfuggire l’occasione di chiacchierare con lei della sua pratica e della sua estetica tanto peculiare quanto disturbante.
Il perturbante è una sorta di premonizione. È qualcosa di estremamente intimo e familiare che rimane sopito nella memoria fino ad un certo punto. È il momento esatto in cui qualcosa di nascosto, spesso doloroso e inquietante, sta per riemergere violentemente. Il perturbante ha un ruolo centrale nella mia produzione e io tendo a rappresentare proprio questo specifico istante: quando riesci a percepire che c’è qualcosa sotto la superficie, ma non sai esattamente cosa stia per accadere.
In un mondo saturo di rappresentazione dell’orrore reale, l’arte ha ancora il potere di scandalizzare? Sì, l’arte ha ancora questo potere, e dal mio punto di vista l’arte ci offre una visione unica ed estremamente individuale della società. Io stessa ricorro all’uso di simbologie e combinazioni estetiche per comunicare tendenze attuali e pensieri socialmente specifici, e questo spesso provoca reazioni emotivamente molto forti, anche se lo stesso “orrore” viene raccontato dai media. Ritengo inoltre che il percorso personale e il contesto culturale di chi osserva siano assolutamente rilevanti nel modo in cui un’opera d’arte viene percepita. L’arte ha ancora il potere di scandalizzare attraverso la sua individualità, anche in un mondo dove l’orrore reale è costantemente presente, e ciò che riesce a scandalizzare è, a mio avviso, sempre estremamente potente sulle masse.
Raccontaci il tuo processo creativo, dall’idea alla versione definitiva. Quando si parla di processo creativo, si tende a pensare che tutto nasca prima dall’idea. Per me, invece, è nel processo creativo che si racchiude imprescindibilmente una visione. È davvero molto raro che un concetto nasca in maniera spontanea e totalmente disconnessa dalla realtà. L’idea nasce da qualcosa che già sto vivendo e, quando riesco ad individuarla, mi concentro sullo sviluppo della stessa. A causa dei temi che tratto, spesso il processo creativo si fonde con la mia vita e con le mie abitudini: tendo a frequentare il minor numero possibile di persone, passo più tempo libero da sola e, banalmente, cambiano anche la mia alimentazione, la musica che ascolto e ciò che scelgo accuratamente di leggere. Durante il processo creativo sono altamente influenzabile, e questo modus operandi mi dà la possibilità di mantenere un alto livello di concentrazione per il periodo necessario. Quando riesco a immedesimarmi completamente in questa vibrazione e in ciò che voglio comunicare, ho già la mia versione definitiva della storia.
In alcuni tuoi lavori noto un interesse nei confronti dell’estetica puritana, veicolato principalmente dal vestiario (colletti in pizzo, cuffie per i capelli). Perché?
Affrontando temi piuttosto delicati ho
la necessità di “ingabbiare” una specifica sensazione attraverso i dettagli. Nel tempo ho cercato di rievocare un particolare periodo storico in cui alcuni processi di vita quotidiana erano certamente ed estremamente rigorosi, ma dal mio punto di vista l’estetica si trasforma inevitabilmente in concetto. Tuttavia, fatico io stessa ad etichettarla come estetica puritana, principalmente perché si pone l’attenzione su un problema specifico correndo il rischio di dare una definizione molto rigida e troppo determinante ai fini dell’opera stessa.
Pensi che oggi l’estetica gothic sia in un periodo di revival? Se sì, quali sono i motivi a tuo avviso?
Credo che alla base ci sia un certo senso di nostalgia, specialmente per le nuove generazioni, dove sentirsi connessi a un immaginario passato “non vissuto” così dark e oscuro può, in modo sorprendente, provocare un forte senso di appartenenza. Per me, l’estetica goth rappresenta uno stile ben definito, che può persino diventare una peculiarità distintiva: non riguarda esclusivamente la moda o la musica, ma costituisce una vera e propria espressione di identità. Se non ci limitiamo agli Anni Novanta, possiamo fare un salto fino al
XII secolo, dove l’arte, essendo strettamente legata alla spiritualità e alla morte, ha portato lo stile gothic ad una singolare evoluzione verso tematiche sempre più oscure e macabre. Quindi sì, penso che l’estetica gothic sia in una fase di assoluto revival, soprattutto per via di tematiche più universali e senza tempo, particolarmente rilevanti in questo periodo storico, dove la ricerca di autenticità è strettamente connessa al senso di appartenenza.
Il tuo lavoro è molto apprezzato in Italia e all’estero: tra i traguardi che hai raggiunto ci sono le collaborazioni con testate come il New York Times e Vogue. Qual è il tuo più grande successo fin ora?
Vorrei sicuramente menzionare la cover story We Have Been Misled About Menopause, realizzata per il New York Times lo scorso anno insieme a Kathy Ryan. Questa è stata la mia prima cover su una testata internazionale, e ne sono particolarmente orgogliosa non solo per l’importanza del progetto ma anche per l’esperienza straordinaria che ha rappresentato per me. Essere coinvolta in questo lavoro mi ha offerto l’opportunità unica di iniziare a collaborare con persone estremamente competenti e creative; ha avuto un impatto personale
profondo, poiché ha segnato un importante traguardo nella mia carriera e ha confermato la mia dedizione per lo storytelling su temi altamente complessi e socialmente rilevanti.
Attualmente è possibile vedere i tuoi lavori presso FIUTO Art Space a Ripatransone (AP), nella mostra curata da Alex Urso e intitolata Summer of Fear. Com’è nata l’idea di questa mostra?
La mostra è nata su richiesta di Alex Urso, artista e curatore di FIUTO Art Space, piccola ma ambiziosa realtà in provincia di Ascoli Piceno. La galleria ha sede nel borgo di Ripatransone, in un contesto paesaggistico splendido ma indubbiamente distante dai grandi centri culturali del Paese. Anche per queste ragioni mi sono lasciata conquistare dal coraggio di Alex, accettando la sua sfida.
La mostra, dal titolo Summer of Fearin corso fino al 6 ottobre – presenta una selezione diversificata di opere: si tratta di immagini, parte delle quali inedite, incluse in alcune delle serie più rappresentative della mia produzione recente. Portare le mie foto in un contesto disabituato al contemporaneo è stata una bella sfida, sia per me che per la galleria.
Il titolo è curioso: cosa ti fa paura dell’estate?
in alto: Marta Blue, Your heart is an Ocean , 2022, dalla serie Anatomy of Evil
a sinistra: Marta Blue, Forget me not , 2023, dalla serie Anatomy of Evil
Per scoprire altre opere di Marta Blue, inquadra il QR code qui in basso
Summer of Fear non rappresenta la paura di qualcosa, bensì un’epifania. L’epifania di qualcosa di spaventoso ma pur sempre una rivelazione. Immagina un’estate che all’apparenza è destinata a essere come tutte le altre: calda, luminosa, vivace. Tuttavia, durante questa stagione, una serie di eventi portano alla luce verità terribili, che sconvolgono il tuo senso di sicurezza e normalità. Invece di limitarsi ad una semplice sensazione di paura, questo periodo diventa un momento di cruciale illuminazione. La paura, in questo contesto, non è l’obiettivo finale ma un catalizzatore per una trasformazione più profonda. Summer of Fear diventa quindi non solo un periodo di angoscia, ma un’occasione per confrontarsi con realtà nascoste e per riemergere con una nuova visione, come se l’orrore rivelato aprisse la porta a una nuova forma di chiarezza.
Qualche spoiler sui prossimi progetti?
Per il momento Summer of Fear è il principale progetto personale in corso di cui posso parlare, posso solo dire che sono in fase di scripting per qualcosa di davvero speciale.
L’Atlante Farnese vola a Osaka per Expo 2025
LIVIA MONTAGNOLI L Sarà l’Atlante Farnese, conservato al MANN di Napoli, a rappresentare l’Italia in occasione di Expo 2025 a Osaka. La scultura di epoca romana volerà per la prima volta in Asia per rappresentare i valori del viaggio e dell’incontro tra culture al centro del Padiglione Italia, che Mario Cucinella dedica alla Città ideale del Rinascimento. Il nome che la statua – copia del II secolo d.C. da originale ellenistico, alta quasi due metri – porta in dote deriva dal più celebre dei suoi proprietari, Alessandro Farnese, che la acquistò nel Cinquecento, contribuendo alla sua fortuna collezionistica. Solo nel 1816, la scultura confluirà nelle collezioni del futuro Real Museo Borbonico. La decisione di portare l’Atlante in Giappone ha un forte valore simbolico: il Padiglione Italia si prefigge l’obiettivo di raccontare il futuro attraverso l’innovazione tecnologica, però ancorandosi al pensiero filosofico e umanistico che discende dalla cultura antica greco-romana.
Il nuovo archivio online del Musée Picasso di Parigi
LIVIA MONTAGNOLI L Entro la fine del 2024, il Musée Picasso di Parigi inaugurerà un centro di ricerca destinato a studiosi e artisti in residenza. Nel frattempo, l’imponente lavoro di digitalizzazione dei materiali provenienti dagli archivi dell’artista spagnolo confluisce in un portale online, accessibile a tutti, con l’obiettivo di condividere la collezione del museo. Il nuovo archivio digitale del museo parigino ospitato nell’Hôtel Salé del Marais riunisce dipinti e sculture di Picasso, un corpus di 19mila fotografie, disegni e stampe, ma anche documenti, video, interviste e saggi che aiutano a comprendere il suo lavoro. Intanto, negli antichi locali di servizio dell’Hôtel de Rohan, ristrutturati per ospitare una sala consultazione e uno spazio per conferenze, sta nascendo il Centre d’Études Picasso che finalizzerà la missione del museo nato nel 1976, oggi punto di riferimento mondiale per la conservazione e la conoscenza dell’opera dell’artista.
Le cento bare di Yoko Ono arrivano al Palazzo della Ragione di Padova
Atlante Farnese, Collezione Farnese, MANN
Yoko Ono, Padova, photo Irene Fanizza
Le ultime nomine del mondo dell’arte: Siddall alla National Portrait Gallery, Viola per la Bienal de Art Paiz
LIVIA MONTAGNOLI L A Londra, l’autunno 2024 si apre con una nuova direttrice per la National Portrait Gallery. Victoria Siddall è la prima donna a occupare il ruolo nella storia del museo oggetto di una recente e ambiziosa ristrutturazione, che ha dato il la a una nuova fase di crescita della longeva istituzione. E a Siddall, figura di spicco del sistema culturale britannico e internazionale con solide esperienze nel circuito del mercato dell’arte (a lei si deve il lancio di Frieze Masters nel 2012) e un profilo impegnato sul fronte dell’ambientalismo, spetterà il compito di propiziarla, raccogliendo l’eredità dell’ex direttore Nicholas Cullinan, che molto bene ha fatto. Voliamo invece in America Centrale per registrare la nomina di Eugenio Viola come curatore della Bienal de Art Paiz 2025, evento artistico più importante dell’area, che si terrà in Guatemala da novembre 2025 a febbraio 2026. Il critico d’arte napoletano lavorerà sulla pluralità e sull’inclusione, assecondando l’idea della manifestazione che offre al pubblico nuovi modi per accedere all’arte contemporanea.
GIULIA GIAUME L Dieci bare per dieci file, fino a riempire un salone intero: cento casse da morto dell’artistar Yoko Ono sono comparse al Palazzo della Ragione di Padova il 7 settembre 2024. Le bare di legno chiaro e di diverse dimensioni, da cui gemmano altrettante piante di ulivo, sono una reiterazione, l’ultima, di una celebre opera dell’artista Fluxus: Ex It, un pensiero doloroso sulla morte ma anche un omaggio alla vita e alla rinascita. “È la memoria di ogni razza, di ogni Paese. È la memoria del genocidio: il dolore, l’orrore e la salvezza. I morti volevano che ricordassimo, credo. Le nostre lacrime aiuteranno a guarire la memoria”, ha commentato Ono. L’opera dell’artista giapponese, oggi 91enne, fa il giro del mondo dal 1997, ma è nata qui, nel Salone dell’antico tribunale della città, dove sarà esposta fino a febbraio 2025. Un “ritorno” reso possibile dal curatore d’arte contemporanea e amico dell’artista Paolo De Grandis, scomparso nel maggio di quest’anno.
L’Accademia Carrara di Bergamo apre un grande giardino pubblico in città
GIULIA GIAUME L Giunge a compimento, con un grande spazio verde aperto alla cittadinanza, il nuovo volto dell’Accademia Carrara di Bergamo. Il giardino dell’istituzione bergamasca, corredato da passerella in collegamento con il museo e un bistrot tutto nuovo, è infatti l’ultimo tassello della rivoluzione iniziata con il riallestimento della collezione permanente nel 2022. Ora, dal 20 settembre, il progetto giunge a compimento, e la Carrara si apre ancora di più alla città e consegna ai suoi abitanti uno spazio non solo da vivere, ma anche da frequentare seguendo una apposita programmazione culturale. Il progetto di riqualificazione è firmato dall’architetto Antonio Ravalli con la collaborazione di INOUT architettura per la parte paesaggistica, che include anche il camminamento – che permette, oltre all’ingresso indipendente da Via della Noca, anche il passaggio diretto dall’ultima sala del museo – e il nuovo bistrot.
Apre la più grande mostra di Giorgio Morandi a New York. A curarla è un gallerista italiano
VALENTINA MUZI L A due anni dalla mostra Giorgio Morandi. Tempo sospeso, ospitata nella galleria Mattia De Luca a Roma, tra aprile e luglio 2022, il progetto espositivo si amplia grazie a opere provenienti da prestigiose collezioni private e museali. Così prende forma Giorgio Morandi – Time Suspended II a New York, negli spazi di una storica casa nell’Upper East Side di Manhattan, dal 26 settembre al 26 novembre 2024. Il progetto vede la curatela di Marilena Pasquali, fondatrice e direttrice del Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna, e del gallerista Mattia De Luca, il quale spiega che “la mostra di Giorgio Morandi animerà sei stanze su due piani con sessanta opere, includendo le iconiche nature morte, i paesaggi e i dipinti di fiori”. Tra le opere spiccano “15 lavori provenienti dalla collezione di proprietà di Giovanardi, amico di Morandi”, conclude De Luca.
Novità e anticipazioni da ArtVerona 2024
CATERINA ANGELUCCI L Torna dall’11 al 13 ottobre 2024 ArtVerona, la fiera d’arte moderna e contemporanea sotto la direzione di Stefano Raimondi con la vicedirezione artistica di Elena Forin. Tra gallerie, spazi no profit, istituzioni e imprese del territorio, la 19esima edizione segna un importante rinnovamento in termini qualitativi. Ecco le novità.
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Sono 130 le gallerie accolte nei padiglioni 11 e 12 di Veronafiere, tra cui Mazzoleni, Galleria Michela Rizzo, RizzutoGallery e Frittelli Arte Contemporanea.
Tra i progetti speciali Red Carpet, alla sua quarta edizione, quest’anno ospita l’intervento di Ugo Rondinone, mentre Habitat – tra gli stand in fiera e la Galleria d’Arte Moderna Achille Forti – presenta focus su Fabio Mauri e Mario Merz.
In fiera grande attenzione dedicata anche agli spazi indipendenti, tra cui Cinevetrina, Esposizioni Sud Est, Fondazione FBI e Viola Spettri.
Tornano, infine, Attraverso Veronetta, a cura di Maria Marinelli, e il live di Nicolas Ballario che quest’anno è dedicato a Jeff Koons.
Palazzo Ducale
Parco Ducale
Complesso Monumentale della Pillotta
Biblioteche e boschi urbani nei musei di Torino. Due novità
VALENTINA MUZI L Dopo il successo del Bosco degli scrittori nato in occasione del Salone del Libro del 2022, in collaborazione con la società Àboca, il progetto Urban Woods si espande e affonda le sue radici nelle Gallerie d’Italia, a Piazza San Carlo, trasformando la corte interna del museo in un’oasi verde. Ulivi, betulle, lecci ed eucalipti compongono il bosco urbano di Palazzo Turinetti, facendosi portavoce dell’impegno per la sostenibilità ambientale di Intesa Sanpaolo. Un impegno che, negli anni, si è declinato in mostre come La fragile meraviglia di Paolo Pellegrin, ospitata alle Gallerie d’Italia nel maggio del 2022, nelle foto dedicate all’acqua realizzate dal collettivo Cesura, nelle immagini degli oceani di Cristina Mittemeier, e che continuerà con American Nature, progetto fotografico di Mitch Epstein che aprirà al pubblico il prossimo 17 ottobre (e sarà fruibile sino al 2 marzo 2025), creando dialoghi inediti con il bosco di Piazza San Carlo. Tra le novità spicca anche la nascita della nuova biblioteca al MAO – Museo d’Arte Orientale di Torino, un’area che prende forma al quarto piano di Palazzo Mazzonis e che comprende circa mille volumi dedicati alla storia dell’arte orientale, suddivisi per aree geografiche (Sud-est asiatico, Giappone e Cina), a cui si aggiungono cataloghi di mostre e case d’asta.
100 anni di Gianfranco Baruchello: gli eventi per celebrarlo
LIVIA MONTAGNOLI L Ricorre nel 2024 il centenario dalla nascita di Gianfranco Baruchello, scomparso all’inizio del 2023. E la Fondazione Baruchello, ideata nel 1998 dall’artista livornese con sua moglie Carla Subrizi, lo omaggia con una ricca programmazione, a partire dalla mostra che il Centre Pompidou ospiterà dal 25 ottobre a marzo 2025. Una retrospettiva che mutua il titolo – Doux comme saveur – dal film omonimo che raccoglie 24 ore di interviste condotte dallo stesso Baruchello a operai e pasticceri, come a importanti esponenti del mondo della cultura, risultato di un progetto sul sapore dolce concepito dall’artista nel 1978. Tutte le iniziative per il centenario cercheranno infatti di valorizzare la complessità artistica di Baruchello sotto la supervisione di Carla Subrizi in qualità di curatrice del programma culturale. A novembre sarà dunque pubblicato il volume Baruchello. Certe idee, monografia che ricostruisce l’opera completa dell’artista, e avviato il workshop Baruchello. The Garden as a joint agent, iniziativa rivolta a studenti, giovani curatori e artisti. Mentre a gennaio 2025 si terrà a Roma il convegno internazionale Il Possibile: Istruzioni per l’uso. Studi sull’opera di Gianfranco Baruchello Ed entro il 2026 uscirà il catalogo ragionato a cui la Fondazione sta lavorando da più di dieci anni.
NECROLOGY
JOSEPH MARIONI (1943 – 6 SETTEMBRE 2024)
L REBECCA HORN (24 MARZO 1944 – 6 SETTEMBRE 2024)
L ALAIN DELON (8 NOVEMBRE 1935 – 18 AGOSTO 2024)
Monastero di San Paolo
Correggio 500: il percorso immersivo a Parma
LIVIA MONTAGNOLI L A 500 anni dalla realizzazione dell’Assunzione della Vergine sulla cupola di San Giovanni Evangelista, il Correggio viene celebrato con un’esperienza digitale immersiva proposta a chi visita Parma. Il percorso Correggio 500 si articola tra la basilica e il monastero di San Giovanni Evangelista e il monastero di San Paolo, per scoprire anche la Camera della Badessa, che l’artista affrescò prima della cupola, tra il 1518 e il 1519. Fulcro è l’installazione Il cielo per un instante in terra su progetto fotografico di Lucio Rossi
L KASPER KÖNIG (21 NOVEMBRE 1943 – 9 AGOSTO 2024)
L GABRIELLA CARDAZZO (1939 – 4 AGOSTO 2024)
L CLAUDIO CERRITELLI (1953 – 1 AGOSTO 2024)
L ROBERTO HERLITZKA (2 OTTOBRE 1937 – 31 LUGLIO 2024)
L EDOARDO DI MAURO (1960 – 30 LUGLIO 2024)
L GIUSEPPE DESIATO (1935 – 28 LUGLIO 2024)
L SERGIO RAGALZI (1951 – 26 LUGLIO 2024)
L JEAN – PIERRE GHYSELS (20 SETTEMBRE 1932 – 23 LUGLIO 1924)
Basilica di San Giovanni Evangelista
IL CORPO PERFORMATIVO, FOTOGRAFICO, POLITICO
NELL’ARTE ITALIANA DEGLI ANNI SETTANTA
Una ricognizione, anche fotografica, della performance italiana degli Anni Settanta, attraverso le pratiche di artiste chiave e da riscoprire: Lucia Poli, Marcella Campagnano, Agnese De Donato e Lina Mangiacapre
di DARIO MOALLI
Corpi a fuoco di Giada Cipollone esplora l’intersezione tra fotografia, performance e politica, facendo emergere come questi ambiti siano stati trasformati dal pensiero femminista e dalle pratiche sperimentali dell’epoca. Il saggio, inoltre, offre una mappa dettagliata delle artiste che, attraverso una visione radicale e innovativa, hanno sfidato le norme artistiche tradizionali.
Nella prima parte del volume vengono affrontate le dinamiche che intercorrono tra fotografia e performance, focalizzandosi sulle loro funzioni documentarie e sul modo in cui l’immagine performativa può superare la semplice registrazione di un evento teatrale. Attraverso concetti come “performatività dell’immagine”, l’autrice espande la riflessione sull’arte performativa, interrogandosi su come la fotografia non si limiti a essere un testimone passivo, ma diventi essa stessa un atto creativo e politico. Il contributo del femminismo appare centrale: il corpo femminile, ripreso e rappresentato, diventa uno spazio di resistenza e trasformazione.
Nella seconda parte l’autrice si concentra su figure chiave della scena artistica italiana, anche se tutt’oggi ancora poco conosciute, come Lucia Poli, Marcella Campagnano, Agnese De Donato e Lina Mangiacapre. Attraverso una rigorosa ricerca archivistica e interviste, Cipollone ricostruisce le biografie e le pratiche artistiche di queste donne, evidenziando come abbiano sfidato i ruoli di genere e creato nuovi spazi di visibilità e agency per le donne nell’arte. La combinazione di teatro, fotografia e performance, che queste artiste hanno utilizzato ha creato nuovi modelli estetici e politici, capaci di ridefinire la visibilità e la rappresentazione del corpo femminile.
Al centro del libro c’è il tema del corpo “insorto” e la nozione di performatività, intesa non solo come qualità dell’azione scenica, ma anche come una strategia politica. Le artiste presenti nel volume utilizzano la performance non solo per mettere in discussione la rappresentazione visiva, ma anche per sfidare le strutture sociali e culturali dominanti.
L’aspetto più interessante di Corpi a fuoco è l’approfondita analisi di una fase cruciale della storia artistica italiana, spesso trascurata, e la sua capacità di connettere la fotografia alla politica e alla sperimentazione teatrale. Giada Cipollone non si limita a descrivere eventi e opere, ma offre uno sguardo critico e innovativo che spinge a riconsiderare il ruolo dell’arte come spazio di sovversione e resistenza. In particolare, il legame tra immagine e corpo è indagato con profondità, restituendo al lettore una rifles-
sione sulla materialità del corpo nell’arte performativa, e come questo sia stato utilizzato per sfidare i modelli tradizionali di rappresentazione. Questo libro si distingue per lo sguardo inedito sull’intersezione di tre tematiche, teatro, fotografia e femminismo, che raramente sono state analizzate costruendo, come in questo caso, uno studio che prendesse in analisi gli aspetti specifici di ciascuna tematica per estrarne le peculiarità del periodo e della ricerca artistica. Cipollone riesce a cogliere la complessità delle pratiche artistiche esaminate, collocandole in un più ampio contesto storico e politico, senza perdere di vista l’importanza delle esperienze personali delle artiste. Inoltre, la scelta di includere materiali d’archivio e immagini inedite arricchisce ulteriormente il volume, offrendo un’esperienza visiva che accompagna il lettore nel viaggio attraverso l’arte performativa degli Anni Settanta.
Corpi a fuoco è un importate tassello per comprendere il contributo delle donne nella trasformazione del panorama artistico e culturale italiano, nonché un esempio eccellente di come l’arte possa essere un mezzo potente per la riflessione politica e sociale.
Corpi a fuoco, Giada Cipollone Marsilio, 2024 pag. 176, 17 € marsilioeditori.it ISBN 9788829790104
Se cerchi altri libri sul rapporto tra corpo e arte contemporanea, inquadra il QR code qui a fianco per leggere l’intervista ad Angela Vettese sul suo nuovo libro La rivolta del corpo (Laterza, 2024)
PAROLA ALL’AUTRICE
Per approfondire i temi trattati in Corpi a fuoco, abbiamo
intervistato l’autrice e ricercatrice Giada Cipollone
Come è nata l’idea di questo libro che intreccia performance, fotografia e femminismo? E come hai portato avanti la ricerca?
Il libro nasce nell’ambito del progetto di ricerca ERC “INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979)”, ospitato dall’Università Iuav di Venezia e diretto da Annalisa Sacchi. InCommon ha studiato la scena della neoavanguardia teatrale in Italia con un approccio che ha messo a valore il carattere relazionale della creazione performativa e il nesso tra le pratiche artistiche e le forme politiche, espresse in quegli anni dai movimenti sociali, tra cui il femminismo. Nel mio percorso personale, nel quadro di INCOMMON, mi sono da subito occupata della relazione tra fotografia e performance, da sempre al centro dei miei interessi di ricerca: mi sono messa sulle tracce delle artiste e degli artisti che in quegli anni seguivano la scena della sperimentazione. Nella fase iniziale mi sono occupata della raccolta di immagini, che potessero andare a popolare l’atlante digitale di INCOMMON. Lo studio degli archivi e gli incontri con le persone mi hanno però, in una seconda fase, fatto notare una certa concentrazione di esperienze, che facevano emergere una zona inedita di intersezione tra fotografia, teatro sperimentale e femminismo.
Al centro di questa intersezione emerge il corpo. Perché diventa centrale la corporeità in quel periodo e in quelle pratiche?
Il corpo, a partire dagli Anni Sessanta, insorge contro una tradizione di pensiero, che lo riduce a strumento di applicazione, vettore o cassa di risonanza di idee superiori, prodotte nell’altrove della mente. Rivendica per sé una presa di parola e una potenza autonoma della propria espressione materiale, come dimostra l’esplosione della body art. La triangolazione delle pratiche fotografiche e performative con il femminismo accelera in particolare la critica specifica a una corporeità, quella femminile, giostrata tanto sulla scena quanto nelle immagini dal polo maschile della creazione. Il corpo, nei processi fotografici e in quelli performativi, sperimenta le possibilità del proprio esporsi, fino anche all’inflazione, per poter eccedere le norme e sovvertire le estetiche e le abitudini rappresentative.
Quali altri aspetti sono emersi da questa intersezione che si definisce in periodo storico molto preciso, gli Anni Settanta?
Uno degli aspetti per me più interessanti ha riguardato l’osservazione dell’energia relazionale dei processi creativi, che fa circolare idee e affetti. Da studiose si tende a osservare, a volte feticizzare, il prodotto della creazione come deposito di una singolarità, quella dell’autore, solipsistica ed eccezionale; come studiose di teatro, inoltre, si guarda spesso all’immagine fotografica in un’ottica strumentale alla scena, fonte superstite e documento per la memoria dell’effimero. La logica dell’archivio, premiale solo nei confronti dei resti materiali, trascura le soggettività che partecipano ai processi, l’elemento intrattenibile dei loro scambi. In questa intersezione, la fotografia non emerge tanto come strumento per la produzione di
bio
Giada Cipollone è ricercatrice a tempo determinato all’Università Iuav di Venezia. È stata assegnista di ricerca e docente a contratto all’Univer -
immagini (che documentano il teatro) ma come un territorio comune di incontro, di pratica artistica e politica, per le artiste che la frequentano.
La vitalità di quel periodo e delle ricerche si riflette nelle sfumature delle pratiche delle artiste che hai analizzato. Penso ad esempio ad Agnese De Donato, che, sintetizzando molto, prima apre una libreria e in seguito diventa fotografa. È come se le artiste che racconti nel saggio avessero deciso, più o meno consapevolmente, di non avere un ruolo, una passione, un “titolo” definito e questo ha permesso loro di esplorare liberamente, di stare in spazi liminali. Forse anche per questo, molte di loro, sono poco conosciute o quasi dimenticate.
Molte delle artiste di cui parlo hanno assegnato un enorme valore all’incontro, alla discussione collettiva, alla sperimentazione anche non finalizzata della ricerca, fotografica e performativa, piuttosto che alla fabbricazione di opere da immettere nel mercato dell’arte. Alcune di loro non si sono nemmeno professionalizzate in modo stabile dentro una pratica. Marcella Campagnano, con cui ho un legame speciale da molto tempo, rifiuta ancora oggi di definirsi come fotografa: per lei la fotografia ha rappresentato un modo di tenere traccia dell’esperienza.
Agnese De Donato – che ho conosciuto solo attraverso i racconti della nuora e affidataria dell’archivio, Francesca Dantini – segue Carla Tatò mentre legge Ibsen alle donne della periferia romana: non pubblicherà quegli scatti, non punta l’obiettivo sull’immagine, la sua apprezzabilità, la sua elezione a fonte documentaria di un evento effimero. La fotografia è in quel momento per lei una materia per stare con, una pratica di auto-formazione, condivisione e politicizzazione di un processo artistico e collettivo.
All’incrocio tra fotografia, performance e femminismo negli Anni Settanta si mette all’opera un laboratorio continuo per le idee dell’arte, che credo abbia lasciato in eredità al futuro un grande serbatoio di costruzione e scambio di saperi e pratiche, fuori dagli obblighi produttivi e dentro il valore di un fare insieme e comune.
LA PRATICA CONTEXT-SPECIFIC DEL
COLLETTIVO MIXTA
Ècoordinato da Silvia Mazzella (1993) e Arianna Maestrale (1996) insieme a Sabrina Deiana (2000), Giacomo Saccomanno (1999) e Lorenzo Ramos (1994) Mixta, il collettivo curatoriale con base a Genova che dal 2019 collabora con musei, gallerie e istituzioni per realizzare interventi in contesti e spazi pubblici. Mixta è un organismo ibrido che promuove la creazione artistica intervenendo nell’intermezzo che accoglie comunicazione visiva, project management e ricerca accademica.
Il collettivo cura ogni aspetto di eventi complessi e compositi, che spesso vanno ben oltre i confini fisici e concettuali della semplice “mostra”. Da sempre, infatti, l’obiettivo di Mixta è quello di facilitare la divulgazione dei linguaggi artistici contemporanei di artiste e artisti emergenti, focalizzando l’attenzione sia sull’innovazione del panorama internazionale sia sull’accessibilità e l’apertura del mondo dell’arte a pubblici che ne rimangono spesso esclusi.
L’approccio è ben più radicale del semplice sitespecific: ogni luogo nel quale interviene Mixta ha tante storie da raccontare e altrettante persone che lo abitano e lo rappresentano a cura di CATERINA ANGELUCCI
L’area di interesse è principalmente il territorio ligure, in cui i curatori propongono interventi d’arte contemporanea che costituiscano finestre di scambio e dialogo tra gli operatori del settore e i cittadini. A ogni progetto espositivo è per questo affiancato un apparato di talk, laboratori e visite guidate studiato per il contesto e pensato per coinvolgere il pubblico non solo nella fruizione degli eventi ma, soprattutto, nella realizzazione. L’approccio, dunque, è ben più radicale del semplice site-specific: ogni luogo nel quale interviene Mixta ha tante storie da raccontare e altrettante persone che lo abitano e lo rappresentano. Ecco perché gli interventi proposti possono più propriamente essere definiti context-specific e molte volte anche community-based, come nel caso del festival Divago, in programma tra il 26 e il 29 settembre 2024 a Genova. Ce ne parlano i componenti di Mixta nelle prossime righe.
LA NUOVA EDIZIONE DI DIVAGO “È dai tempi dell’Accademia che ci siamo rese conto di avere tanti strumenti da mettere in campo e poco spazio per poterci mettere in gioco in una città, Genova, che fatica visibilmente a reggere il passo della cultura e dell’arte globalizzata. Il nostro lavoro infatti è spinto sia dal tentativo di riscatto del nostro territorio e sia dal desiderio di studiare e approfondire un contesto così complesso e ricco del panorama contemporaneo che è l’arte negli spazi pubblici. Nella prassi, il nostro intento è quello attivare nuove modalità di interazione, dialogo e sostenibilità in quei ritagli di spazio urbano che possiamo definire zone grigie. Le zone grigie su cui lavoriamo da anni sono Via del Campo e l’ex ghetto ebraico di Genova: luoghi connotati da una forte storia, simboli (turistici) di una Genova di mare, bella e
forte, dove la prostituzione incontra la poesia e la povertà suona poetica come i testi di De Andrè. Ma Via del Campo, se vai a visitarla, delude tutte queste aspettative turistiche. Ciò che trovi nei fatti in via del Campo è un ambiente socialmente problematico. Quotidiani locali e talvolta nazionali denunciano malavita, spaccio e prostituzione, e i cittadini se possono ne stanno lontani. Via del Campo è oggi una zona periferica in pieno centro, spesso militarizzata, quotidianamente attraversata da squadre di poliziotti e plotoni di croceristi confusi. Questo mix di simboli e narrazioni genera un sottovuoto di senso che ci affascina e ci guida nella nostra avventura di arte pubblica, da sempre rivolgendo l’attenzione a ciò che più conta di un territorio: gli esseri umani che lo vivono. La ricerca di Divago è una pratica che fonde artisti, curatori, interlocutori e pubblico e approfondisce il potenziale delle zone grigie, libere di essere sperimentate collettivamente attraverso nuovi significati”.
L’INTERVENTO DI ELIAS CAFMEYER PER L’EDIZIONE 2024
“L’affissione del grande manifesto 6x3m in Via Cantore a Genova è parte dell’operazione dell’artista belga Elias Cafmeyer (1990). SCAM è un manifesto che rappresenta un finto annuncio pensato appositamente per sollecitare la sensibilità e accendere gli animi di chi difende
Dal 2019 Mixta ha ideato e realizzato tre edizioni del Festival indipendente Divago a Genova; otto grandi mostre collettive in collaborazione con enti tra i quali Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo, Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce, Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura; ha collaborato con Luca Vitone, Anna Daneri, Pinksummer, Luca Lo Pinto e Gianluca Marziani
CURATORI
Isabella Nardon e Jacopo Noera, Miscellanea , Divago 2024
a sinistra: Team Divago, foto di Silvia Mazzella
Greg Jager, Out of focus , Divago 2024
Elias Cafmeyer, SCAM , via Cantore Genova, Divago 2024, foto di Silvia Mazzella
Marco Augusto Basso e Pietro Lugaro, Manifesto dal ciclo di performance situazioniste Sidun di Mefistofeledocumenta, Divago 2021
NEI NUMERI
PRECEDENTI
#46 Marta Cereda
#47 Vasco Forconi
#49 Greta Scarpa
#50 Federico Montagna
#52 Pierre Dupont
#54 Giovanni Paolin
#58 Arianna Desideri
#61 Marta Orsola Sironi
#63 Caterina Avataneo
#65 Giuliana Benassi
#68 Erinni
#71 Collettivo Amigdala
#72 Caterina Angelucci
#74 Gaia Bobò
#77 Arnold Braho
tradizioni e identità territoriali dall’avanzata del consumo di massa generalizzato e indistinto. Quello delle aperture dei supermercati, a Genova, è un nervo scoperto nell’opinione pubblica, e l’intento dell’artista è di rendere evidente quanto a volte sia facile la polarizzazione nel dibattito. “Un nuovo supermercato in via del Campo. Il marchio è una “truffa” artistica, ma sembra vero nella città delle grandi catene” recita il titolo del recente articolo di Repubblica, e il tenore dei commenti sul post Facebook di Good Morning Genova varia da “Continuate a votare Bucci, che con i supermercati continua a dare da mangiare ai maiali” a “se un contenitore da 250 gr di fragole mi costa 2.99 all’Eurospin e 5 euro nel negozio di vicinato, io dove vado”. L’operazione è naturalmente molto delicata, e al di là della provocazione nasconde una sottile ricerca artistica che affronta i campi dell’informazione e delle polarizzazioni politiche nel terreno spesso dato per scontato dello spazio visuale pubblico e dei social network. SCAM è uno dei nove progetti artistici selezionati per questa edizione di Divago, che quest’anno ha come focus
principale la valorizzazione delle identità presenti sul territorio, siano genovesi o straniere. Su questo e altri temi si interrogano gli artisti della terza edizione, che sono stati in residenza nell’antico ghetto ebraico questa primavera per restituire ora alla cittadinanza una visione partecipata e viva del quartiere, delle culture che ospita, e delle contraddizioni che rappresenta”.
divago festival
Genova, 26 – 29 settembre Via del Campo Artisti dell’edizione 2024: Alice Paltrinieri, Chiara Mecenero, Collettivo Shibboleth, Daniel González, Elias Cafmeyer, Gaia Coals, Greg Jager, Luca Conte aka Gerolamore, Isabella Nardon & Jacopo Noera.
Zone espositive: Via del Campo, Piazza del Campo, Piazza san Marcellino, Piazza Vacchero, Piazza don Andrea Gallo e Chiesa di San Marcellino
Per maggiori informazioni, segui il QR code qui a fianco
di VALENTINA TANNI
UN MILIONE DI CASELLE (PIÙ UNA SORPRESA)
“Ho creato un sito web. Si chiama One Million Checkboxes. Contiene un milione di caselle di controllo. Se cliccate su una casella, apparirà selezionata per tutti”. Presenta così la sua idea al pubblico, lo scorso 27 giugno, il programmatore americano Nolen Royalty, più noto online con il nickname eieio. Il progetto, rimasto attivo per due settimane, prende ispirazione da casi precedenti, come l’ormai storico The Million Dollar Homepage (2005), ideato da uno studente inglese per pagarsi l’università e divenuto un web fenomeno di portata globale, e il più recente r/Place (2022-23), tela collaborativa ospitata da Reddit. La pagina di Royalty, semplice ma a suo modo geniale, attira da subito l’attenzione di tante persone in giro per il mondo, che iniziano a cliccare le caselline per mettere e togliere le spunte. Alcuni vogliono completare la pagina, accedendole tutte (anche servendosi di bot automatici), mentre altri si ostinano a ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo. In ogni caso, il sito è sempre affollato e diventa ogni giorno più popolare. A pochi giorni dalla pubblicazione, il 3 luglio, One Million Checkboxes, ha già accumulato oltre 400.000 visitatori unici. Nel frattempo, invade le pagine di magazine e quotidiani: il Washington Post lo chiama “il sito più inutile del mondo”, mentre Callie Holtermann del New York Times scrive che si tratta di “un caso di studio involontario sul comportamento delle persone su Internet”.
Ma non è finita qui: qualche giorno dopo la messa online, Royalty si accorge di alcune anomalie nel codice del sito, e pensa subito di essere stato attaccato da un hacker. La verità, emersa poco dopo, è di gran lunga più interessante: alcuni adolescenti si lasciavano messaggi segreti utilizzando le sequenze di caselle per comunicare in codice ASCII, collaborando poi all’invenzione di modalità di uso imprevisto del gioco, producendo scritte, QR code e immagini in movimento. Un intervento a sorpresa che ha entusiasmato i geek di tutto il mondo, compreso lo stesso Nolen Royalty, che ha così commentato: “È stato un vero spasso. Costruite altri siti web stupidi! Internet può ancora essere un posto divertente”.
onemillioncheckboxes.com
MEME-POESIE
IN FORMATO VIDEO
Il “corecore” è un genere video molto interessante che circola da qualche tempo sulle piattaforme social. Si tratta di filmati di poche decine di secondi, composti da frammenti di found footage giustapposti con un criterio apparentemente casuale: spezzoni di film, TikTok, clip prese da telegiornali e show televisivi, interviste, schermate di videogame, animazioni e fumetti. Il montaggio rapido di elementi eterogenei punta ad evocare emozioni intense in chi guarda, trasformando i video in delle “meme-poesie” (la definizione è del giornalista americano Kieran Press-Reynolds), ma favorendo anche la riflessione su un tema molto attuale come l’overload informativo. Per farsi un’idea del loro aspetto, basta dare un’occhiata agli account TikTok di John Rising (@highenquiries) e Jordan Stone (@ jrdnstn).
tiktok.com
DIVANI, GORILLA E INTELLIGENZE ARTIFICIALI
I programmi di intelligenza artificiale generativa, si sa, possono produrre qualsiasi immagine a partire da un input testuale. Sfruttando questa caratteristica, milioni di utenti nel mondo si divertono ogni giorno a mettere insieme le visioni più improbabili e sorprendenti, servendosi del potere creativo della combinatoria. Da qualche tempo, tuttavia, hanno iniziato a farlo anche i siti di e-commerce, che sempre più spesso mettono in vendita oggetti che non esistono, pubblicizzandoli tramite immagini sintetiche. Oggetti che talvolta vengono davvero ordinati dai clienti, costringendo i produttori a trasferirli sul piano della realtà. È quello che è successo di recente a una fabbrica di mobili cinese, che ha dovuto mettere in produzione dei bizzarri divani a forma di gorilla, partoriti dalla fantasia surreale di una AI generativa.
Un vero paradiso online per i nostalgici delle audiocassette. Tapedeck.org è un archivio interamente dedicato a un supporto ormai obsoleto, ma che vanta tantissimi appassionati in giro per il mondo. Creato e gestito dall’artista e graphic designer tedesco Neck, contiene centinaia di modelli diversi, tutti rigorosamente categorizzati e ricercabili per casa di produzione, durata, tipologia e colore. “Esiste un’incredibile gamma di design, a partire dalle cassette funzionali dei primi Anni Sessanta, passando per la giocosità colorata delle audiocassette degli Anni Settanta fino alle sorprendenti variazioni di forma degli Anni Ottanta e Novanta”, spiega l’autore.
tapedeck.org
VIDEOCLIP GENERATI
Il festival di arte e cultura digitale Ars Electronica, che si svolge ogni anno a Linz, in Austria, assegna dei premi ai progetti più interessanti che utilizzano la tecnologia. Durante l’ultima edizione, svoltasi dal 4 all’8 Settembre, sono state premiate anche alcune produzioni realizzate con le intelligenze artificiali generative. Il primo posto è andato al videoclip della canzone The Hardest Part della band Washed realizzato da Paul Trillo usando Sora, il programma text-to-video di OpenAI. Ma non tutti hanno apprezzato la scelta... paultrillo.com
Quanto tempo trascorriamo ogni giorno di fronte allo smartphone? E quanto di questo tempo lo impieghiamo scorrendo compulsivamente brevi video su piattaforme come Instagram e TikTok? Sono queste le domande a cui cerca di rispondere l’artista americano Ben Grosser con il suo progetto Stuck in the Scroll. Una confessione pubblica sotto forma di sito web, oltre che un tentativo di riflettere sulla dipendenza da contenuti che affligge la maggioranza della popolazione occidentale.
stuckinthescroll.com
DA DOVE VENGO?
Ana Min Wein (Where Am I From?) è un cortometraggio che esplora temi come l’identità, la memoria e la migrazione. L’autrice si chiama Nouf Aljowaysir ed è una giovane new media artist saudita trapiantata negli Stati Uniti. Nel corto, che è possibile vedere online, due voci vengono contrapposte: quella dell’autrice e quella di un’intelligenza artificiale, generando un contrasto poetico e straniante e rivelando stereotipi e pregiudizi insiti nella programmazione algoritmica.
filmfreeway.com/AnaMinWein
UNA VOLTA SOLA, E NON DI PIÙ
Siamo abituati a concepire i siti web come risorse sempre disponibili, che possono essere consultate più e più volte, in tutte le occasioni in cui si ha voglia o necessità di farlo. L’autore di Onlyvisitonce.com ha pensato di contraddire questa convenzione e produrre una pagina che è possibile visitare soltanto una volta, simulando l’unicità delle esperienze offline. Una volta entrati, però, troverete qualcuno ad aspettarvi, insieme alle tracce di chi è passato prima di voi.
onlyvisitonce.com
LA STORIA DELL’ARTE SU
YOUTUBE
Una ventina di video per iniziare il proprio viaggio nel mondo della storia dell’arte. Se conoscete un po’ di inglese e avete bisogno di un corso intensivo e compatto, la nuova serie Crash Course Art History, scritta e presentata da Sarah Urist Green, è un ottimo punto di partenza. Con uno stile divertente e accessibile, ma privo di semplificazioni eccessive, la curatrice e autrice americana affronta numerosi temi cruciali, spaziando dall’antichità al contemporaneo.
@crashcourse
IL TEMPO SCROLLA
AHMED UMAR
IL MIO CORPO NON È QUELLO DELLA TRADIZIONE. MA DANZO LO STESSO
A cura di ELISABETTA RONCATI
“I tamburi fanno cadere tutti noi in uno stato di estasi e amore immenso. I suoi occhi sono rivolti verso il cielo, con grazia, come se stesse sussurrando segreti al divino. Mia madre si appresta a interpretare, come un essere acquatico scivola dolcemente sull’acqua, la nostra danza tradizionale. Oscilla a sinistra e a destra con le spalle mentre i suoi fianchi si muovono su e giù”.
Questo è uno dei ricordi più cari che ho di mia madre e della danza in generale. Mi chiamo Ahmed, orgogliosamente soprannominato “cocco di mamma” e “Talitin”, che letteralmente si traduce in “il terzo di due ragazze”. Un insulto sudanese per indicare un giovane come me che ama la compagnia e le attività delle donne. Sono cresciuto alla Mecca in una famiglia che adorava la vita, la musica, le tradizioni e Allah.
Finora la mia esistenza è stata un gioco di equilibri tra opposti vivendo da persona non binaria in un corpo maschile all’interno di una società patriarcale.
Così la storia che vi narro inizia nel momento in cui sono stato allontanato dal mondo fantastico che le donne avevano creato con passione: la Danza Nuziale Noi, popolo sudanese, nonostante la dolorosa storia coloniale, siamo avidi cercatori di gioia. Ad esempio, i nostri matrimoni si compongono di circa sette giorni di festa. La sposa conclude le cerimonie con un ballo per intrattenere tutti i partecipanti: la Danza Nuziale, un patrimonio immateriale tramandato da migliaia di anni. È una delle poche tradizioni che ha resistito alla colonizzazione araba, inglese e alle molteplici ondate della cosiddetta islamizzazione della società del Sudan. La sposa è vestita con un indumento di frange di pelle, il Rahat, con il busto adornato da monete d’oro e perline, poiché i seni non erano sessualizzati in molte tribù storiche. La sua entrata è un evento grandioso: coperta con il Firkat AlGarmasis, un tessuto di seta, si svela e inizia a danzare su una serie di canzoni scelte dalla maestra di danza e canto, chiamata in arabo Allama. Anni fa la Danza Nuziale era un evento aperto a tutti, ma, dopo quattro decenni e mezzo di dittature che hanno stigmatizzato i corpi delle donne, gli abiti sono diventati integrali e l’intera cerimonia è esclusivamente per femmine Sono stato affascinato dalla danza fin
Vincitore della venticinquesima edizione del Baloise Art Prize, Ahmed Umar (Sudan, 1988; vive e lavora in Norvegia) è un artista sudanese che punta a lasciare il segno a livello internazionale. Lo fa a partire dalla Biennale Arte di Venezia 2024: qui ha presentato la performance Talitin – (The Third) di cui ci narrerà la genesi nelle prossime righe.
dalla prima infanzia. Spesso mi trovavo a imitare mia madre con grande disapprovazione di mio padre. Credeva, rafforzato dalla cultura e dalla religione, che il binarismo di genere fosse l’unico modo di esistere. Crescendo le aspettative patriarcali sono diventate più marcate. Il mondo che frequentavo da bambino era vietato: la mia presenza e la danza erano considerate inadeguate. Un duro promemoria delle rigide norme di genere che dettavano ciò che era accettabile per me come maschio nella nostra società.
Ahmed Umar, Talitin –
(The Third) , 2024. Photo
Jakob H. Svensen
Tuttavia, tale estromissione ha segnato l’inizio del viaggio per sfidare le leggi, per sondare il delicato equilibrio tra tradizione ed espressione personale, tra le aspettative sociali e l’autenticità del proprio essere. Ho iniziato questa battaglia al matrimonio di mia cugina, scappando dal balcone e osservando lo stesso la sua Danza Nuziale. Sognavo di essere un danzatore alla Mecca, in una società che vedeva la musica come lo strumento del diavolo per corromperci. Nessuna Allama era disposta a trasmettere a un corpo maschile l’eredità delle nostre antenate, fino a quando ho incontrato Asia Madani, una professionista del Cairo. Mi sono così trasferito in Egitto dove ho conosciuto anche Alsarah, un’artista e danzatrice
sudanese con cui è nata una magica alchimia. Assieme abbiamo progettato la mia Danza Nuziale scegliendo venticinque canzoni e diversi balli sudanesi. La mia intenzione è quella di presentare la danza con il rispetto che merita: armoniosa, seria, audace, irradiando amore. Non è solo un ballo tradizionalmente femminile presentato da un corpo maschile. Nel riappropriarmi di un’attività comunitaria fatta con orgoglio sono così tornato al mondo felice di cui facevo parte prima dei dieci anni di età. Ho ripreso possesso dell’insulto usato per degradarmi, Talitin – , che è diventato il titolo della performance presentata alla 60. Biennale Arte di Venezia. Guidato da Alsarah ho condiviso la mia Danza Nuziale due volte alla Sala D’Armi nell’Arsenale. Così a Venezia è nato un legame che unisce generazioni di donne sudanesi al mondo. Coperto con il mio Firkat AlGarmasis, accompagnato da Alsarah, sono andato al centro del Berish, un insieme di tappeti intrecciati con foglie di palma, mentre è iniziata la musica di Asia Madani. Ho rivolto i miei occhi verso l’alto e ho sussurrato al divino che speravo di assomigliare anche io, come mia madre in passato, a un essere acquatico che scivola dolcemente sull’acqua
FARE RIGENERAZIONE OLTRE LE AREE URBANE ITALIANE
VALENTINA SILVESTRINI
Londa (Firenze) e Lama di Reno, nel comune di Marzabotto (Bologna), sono località probabilmente di non immediata geolocalizzazione. Abitate ciascuna da circa 2mila residenti, sorgono rispettivamente nella Valdisieve, alle porte del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, e a ridosso della valle del Reno, il principale fiume dell’Emilia-Romagna. Due percorsi di rigenerazione, del tutto indipendenti tra loro, coinvolgono in questi anni i due paesi e offrono un’istantanea degli sforzi in campo, al di fuori delle principali aree urbane del Paese, anche per effetto degli investimenti trainati dal PNRR.
Dalla collaborazione tra i comuni di Londa e San Godenzo (Firenze) con LAMA Impresa Sociale (società cooperativa fiorentina che si occupa di accompagnare organizzazioni ed enti in processi di trasformazione e rigenerazione territoriale e urbana, in ottica sostenibile) è nato il piano di rigenerazione territoriale a base culturale Montagna Fiorentina. “Comprende una molteplicità di linee di interventi, che potremmo definire software e hardware” spiega la curatrice e mediatrice culturale Martina Aiazzi Mancini, che in prima persona si occupa di uno dei progetti cardine del programma: la residenza d’artista A dimora. Dopo il debutto nel 2023, nell’estate 2024 gli artisti Tommaso Mannucci (Monograff), Arianna Pace e Ornella Cardillo hanno vissuto e lavorato a Londa, realizzando tre opere a carattere permanente – un murales nel centro del paese; un giardino/paesaggio incastonato nella collina; una scultura luminosa sulle rive del lago –, svelate alla comunità e al pubblico il secondo weekend di settembre. Per il 2025 “cercheremo con tutte le nostre forze di promuovere una open call tra gli artisti” anticipa Aiazzi Mancini, convinta che “la formula della residenza artistica abbia una tale potenza, specialmente in Italia, da essere la modalità giusta per esprimere pienamente le necessità di una comunità come quella di Londra, così come delle aree interne e di quelle fuori dai grandi centri culturali, ovvero in territori con i quali forse non saremmo mai entrati in connessione”. Rigenerazione urbana, mobilità sostenibile, corridoi ecologici sono tra i vocaboli utili per comprendere l’entità del progetto
con cui il gruppo guidato dagli architetti di Baustudio sta recuperando un lotto di circa 20mila mq nell’ex cartiera di Lama di Reno. Entro il 2026, nello stabilimento dismesso da quasi due decenni si insedieranno “una velostazione e una ciclofficina, oltre a residenze ibride e temporanee, spazi culturali, per coworking e start-up. In più, il cosiddetto “podio”, ovvero una grande piazza aperta ma coperta, potrà ospitare eventi, mercati, sagre, iniziative culturali” racconta l’architetta progettista Sara Malagoli di Baustudio, precisando che uno dei punti di forza del
OSSERVATORIO RIGENERAZIONE
progetto è “l’aver voluto mantenere più superficie costruita rispetto a quella richiesta nel bando”. Esperienze di rilievo culturale e architettonico che potrebbero incidere nel futuro di luoghi carichi di memorie storiche e attrattivi dal punto di vista ambientale, ma forse ancora sconosciuti ai più.
Per saperne di più, leggi l’intervista a Martina Aiazzi
Mancini scannerizzando il QR code qui a fianco
ACPV ARCHITECTS IN CAMPO PER LA RIGENERAZIONE DELL’EX FIERA DI ROMA
È un “progetto guarda alle energie latenti della città e, attraverso un disegno urbano pensato con precisi obiettivi, le fa diventare strumenti etici del progetto. La Città della Gioia restituisce un senso e uno scopo a una grande porzione urbana di Roma, rendendo lo spazio pubblico una esperienza educativa, inclusiva e intergenerazionale”: con queste parole Patricia Viel, CEO e Founder di ACPV ARCHITECTS, introduce il masterplan con cui il suo studio, in team con ARUP, Asset e Parcnouveau, si è aggiudicato il concorso per la riconversione dell’ex Fiera di Roma. Decarbonizzazione, resilienza climatica e circolarità sono tra i principi che ispirano il progetto vincitore che, tra le altre peculiarità, prevede di destinare a verde e servizi il 50% delle superfici disponibili.
MCA - MARIO CUCINELLA ARCHITECTS DAI COLLI BOLOGNESI ALLA VALLE D’AOSTA Una manciata di giorni separa l’inaugurazione del New Campus di Bologna Business School e della nuova sede dell’Università della Valle d’Aosta, entrambi “al debutto” a settembre 2024. Due poli didattici distinti, promossi da soggetti diversi, accomunati dalla progettazione affidata all’architetto Mario Cucinella e al suo studio. In particolare, il campus sui colli bolognesi sorge a ridosso di Villa Guastavillani, sede storica della BBS, ed è l’esito del recupero di due edifici presenti nel sito (la casa colonica e un ex forno) e della riconfigurazione di ulteriori tre manufatti esistenti. Oltre all’impianto architettonico, MCA ha disegnato gli interni. Per Cucinella, “il nuovo edificio si relaziona con il paesaggio quale elemento unificatore e generatore, sviluppando un dialogo empatico tra l’ambiente circostante e l’architettura.”
APRIRÀ ENTRO IL 2024 IL MUSEO MITORAJ A PIETRASANTA
Conto alla rovescia nella “capitale culturale” della Versilia per l’inaugurazione del Museo Mitoraj. Come anticipato ad Artribune dall’architetto Paolo Brescia, dal 2000 alla guida dello studio OBR con Tommaso Principi, la sede museale dedicata allo scultore scomparso il 6 ottobre 2014 è prossima all’apertura. Già pronta la piazza-giardino di fronte al nascente polo, che si insedia nell’ex mercato coperto della città. La struttura recuperata, come precisato da Brescia, è “composta da una serie di “funghi”, ovvero pilastri che si espandono in altezza formando dei “maxi capitelli”. Tolto il superfluo, abbiamo a disposizione una pianta completamente libera, priva di pareti. Una condizione di partenza che anziché porci vincoli spaziali, è diventata sinonimo di libertà e che, anche nei prossimi anni, assicurerà la massima flessibilità d’uso.”
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di CRISTINA MASTURZO CASE D'ASTA: ESPANSIONI E NUOVE ACQUISIZIONI IN ITALIA E ALL’ESTERO
yʼs
Parigi
Milano Il Ponte Casa dʼAste
Abu Dhabi Hong Kong
UN FONDO D’INVESTIMENTI SOVRANO DEGLI EMIRATI
È arrivata in pieno agosto la notizia che il fondo so vrano con sede ad Abu Dhabi acquisterà una partecipazione di minoranza nella casa d’aste Sotheby’s, di proprietà del miliardario e collezionista d’arte franco-israeliano Patrick Drahi. Entro la fine del 2024 sono previsti investimenti per un miliardo di dollari, una iniezione di capitali salvifica per ridurre l’indebitamento del gruppo Altice di Drahi e rilanciare la crescita della maison.
Patrick Drahi, proprietario di Sotheby's
IL FONDO ADQ DIVENTA
PROPRIETARIO DI MINORANZA DI SOTHEBY’S Il fondo ADQ dovrebbe acquistare azioni di nuova emissione di Sotheby’s, mentre pare ci saranno nuovi investimenti anche del miliardario franco-israeliano Patrick Drahi, che ha acquisito la casa nel 2019, per un investimento totale di 1 miliardo di dollari, in cui resta garantita la maggioranza della proprietà alla controllata di Drahi BidFair.
È la prima volta che il fondo ADQ di Abu Dhabi si affaccia sul mercato dell’arte. Fondato nel 2018 e attivo già in diversi settori strategici, dall’energia alla sanità, dal food all’agricoltura, il fondo sovrano scommette ora sul mar-
chio Sotheby’s e arriva nel momento in cui il magnate delle telecomunicazioni Patrick Drahi deve far fronte a un indebitamento da 60 miliardi di dollari.
GLI INVESTIMENTI PER I NUOVI PIANI DI CRESCITA DI SOTHEBY’S
Le nuove prospettive di investimento rispondono alla visione della holding ADQ, impegnata in una diversificazione economica con ritorni significativi per Abu Dhabi. L’aumento di capitale che sarà reso possibile dall’entrata in campo del fondo e dagli investimenti integrativi di Drahi punta a rasserenare il bilancio di Sotheby’s e a rilanciarne le opportunità di crescita, così come a ridurre l’indebitamento finanziario del colosso della comunicazione Altice, di cui Patrick Drahi è fondatore e azionista di controllo, in difficoltà a causa del rialzo dei tassi di interesse sul denaro degli ultimi anni. Il magnate e collezionista ha acquisito nel 2019 per circa 3,7 miliardi di dollari la casa inglese, che è tornata così a essere una società non quotata, dopo 31 anni al New York Stock Exchange.
I MAXI-DEBITI DI DRAHI E LE NUOVE OPPORTUNITÀ DELLA PROPRIETÀ DI ADQ
La notizia dell’investimento di ADQ era in una certa misura attesa dagli addetti ai lavori: la possibilità di nuove partecipazioni di minoranza era all’orizzonte almeno dal 2021 e si era fatta più concreta già nel 2023, quando un altro fondo sovrano del Golfo – era allora la Qatar Investment Authority – sembrava interessato a quote minoritarie della casa d’aste rese disponibili da Drahi, messo alle strette dalle mutate condizioni finanziarie che avevano favorito la costruzione del suo impero delle telecomunicazioni.
“Siamo lieti di dare il benvenuto ad ADQ come azionista di Sotheby’s”, è il commento rilasciato dall’amministratore delegato di Sotheby’s Charles Stewart, che ha dichiarato: “Condividiamo la loro visione a lungo termine della nostra attività e questo investimento è una testimonianza dei risultati raggiunti finora e del nostro significativo potenziale di crescita futura”
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Londra
CHRISTIE’S E SOTHEBY’S RILANCIANO CON L’ESPANSIONE A ORIENTE
In quel di Hong Kong, Christie’s e Sotheby’s gareggiano con le aperture di nuove lussuosissime sedi operative e di rappresentanza, sebbene non tutti i conti sembrino tornare, soprattutto considerando che non molto tempo fa le due maison hanno dovuto procedere a robusti tagli di personale, muovendosi in uno scenario raramente lineare o univoco, che richiede costanti aggiustamenti strategici e altrettanto continui monitoraggi sulle tendenze in avvicinamento.
MONET E VAN GOGH MILIONARI PER LA PRIMA ASTA NEL NUOVO QUARTIER GENERALE DI CHRISTIE’S A HONG KONG
Annunciato con tutto l’anticipo del caso tre anni fa è arrivato finalmente il momento per Christie’s di inaugurare il quartier generale Asia Pacific a Hong Kong. La nuova sede si sviluppa per circa 5mila metri quadri, dal 6° al 9° piano dell’iconico grattacielo The Henderson, progettato da Zaha Hadid Architects nel Central Business District, e
mira a essere un grande hub per l’arte e il lusso nell’ex colonia britannica, con sale vendita, gallerie espositive e spazi dedicati agli uffici e ai clienti. Per celebrarne l’apertura sono già in calendario le sessioni speciali di vendite dei prossimi tre mesi, a partire dal 26 e 27 settembre 2024, con i cataloghi di 20th/21st Century Art, e una selezione di ceramica cinese, con l’asta The Au Bak Ling Collection, curata dallo stesso collezionista. A ottobre sarà poi il turno delle Luxury sales, seguite, a novembre, dall’arte asiatica.
Tra i top lot più attesi Nymphéas (189799) di Claude Monet, che arriva ora per la prima volta agli incanti con una stima di HK$200-280 milioni, circa 2535 milioni di dollari, e Vincent van Gogh, Les canots amarrés, con una stima record di HK$230-380 milioni, 30-50 milioni di dollari.
SOTHEBY’S INAUGURA LA NUOVA SEDE DI HONG KONG
Nonostante le intemperie finanziarie del patron Drahi, anche Sotheby’s continua a puntare all’espansione verso
Est e non solo, e, in attesa del nuovo quartier generale al Breuer Building di New York e della nuova sede nel distretto dell’arte e del lusso a Parigi, la casa ha inaugurato la Sotheby’s Maison a Hong Kong, progettata dallo studio internazionale di architettura di Rotterdam MVRDV. Nel distretto finanziario della città, presso la Chater House, la nuova sede di Sotheby’s, ispirata ai simbolismi del Taoismo e di grande impatto scenografico, occupa più di 2.200 metri quadri ed è stata progettata dallo studio olandese come uno spazio commerciale in grado di diventare anche un luogo di incontro e produzione culturale.
LA CASA D’ASTE ITALIANA IL PONTE ENTRA NEL GRUPPO FRANCESE MILLON
Dopo le anticipazioni di quest’estate, che forzavano un po’ la mano alle comunicazioni ufficiali dei diretti interessati, a settembre è stato ufficialmente confermato che la casa d’aste italiana Il Ponte – con base a Milano nelle due sedi di Palazzo Crivelli in via Pontaccio, a Brera, e in via Medici del Vascello, nel quartiere di Santa Giulia –è stata acquisita dai francesi Millon & Associés, già attivi nel mercato dell’arte attraverso le aste, tra le altre, del parigino Hotel Drouot. Una quota di minoranza resterà a quanto pare nelle mani dei fondatori italiani, così come non sarebbero previsti sommovimenti nei vertici gestionali, ma il cambiamento è di quelli di peso, per uno dei principali operatori del mercato dell’arte italiano.
Rossella Novarini, Direttrice generale Il Ponte Casa d'Aste
I FRANCESI MILLON & ASSOCIÉS ACQUISISCONO
LA MAGGIORANZA DELLA
CASA IL PONTE
“Siamo orgogliosi ed entusiasti di unirci alla famiglia Millon”, ha dichiarato Rossella Novarini, Direttore Generale de Il Ponte Casa d’Aste. “Questo non solo evidenzia e valorizza il nostro impegno di lunga data, ma amplifica anche il nostro posizionamento nel mercato dell’arte, delineando nuovi orizzonti di crescita e innovazione”.
L’entrata in campo come investitore di maggioranza dei francesi Millon & Associés, e quindi di un investitore straniero, non attiva dunque particolari allarmi, quanto, piuttosto, potrebbe essere letta come conferma dell’attrattività dell’azienda e dei suoi conti. Non dovrebbe subire infatti scossoni, per quanto è dato sapere a oggi, nessuno dei dipartimenti dedicati ad arte e collezionabili, in termini di esperti e direzione, è anzi previsto che lo staff si ampli e si arricchisca così la proposta e l’offerta della casa.
“L’unione con Il Ponte Casa d’Aste è una scelta di grande significato. Fin dall’inizio siamo stati affascinati dalla sua solida reputazione e prestigioso posizionamento nel mercato italiano. I suoi dirigenti sono l’anima di questa casa
d’aste”, ha segnalato il Presidente di Millon, Alexandre Millon. “Concepiamo il nostro lavoro come quello di un intermediario di fiducia al di là delle legislazioni e delle specificità di ogni paese. Questa acquisizione ci permette di fare una mossa strategica e perseguire la nostra espansione internazionale”.
LA NUOVA PROPRIETÀ FRANCESE DE IL PONTE
CASA D’ASTE
Con la nuova acquisizione de Il Ponte, intanto, la francese Millon & Associés, attiva in Francia dal XIX secolo e oggi presente anche a Nizza e Bruxelles oltre che con uffici sparsi in tutto il mondo, si espande per la prima volta sul territorio italiano e sul suo mercato dell’arte, che a livello mondiale conta per fatturato molto meno della Francia, con una percentuale di share dello 0,5% rispetto al 7% francese (stando ai dati dell’Art Market Report 2024 di Art Basel & UBS). E che pure sconta politiche fiscali meno strategiche e propulsive, al momento, rispetto alla cugina francese. È anche la prima volta che un gruppo internazionale del settore acquisisce una casa d’aste italiana.
Christie's Hong Kong Render by Cosmoscube
FENOMENOLOGIA DEL BODY SHAMING
LA PROSPETTIVA (E I CORPI) DELLA STORIA DELL’ARTE
L’arte può essere un’efficace lente di ingrandimento sui fenomeni sociali e, se si parla di body shaming, ha anche una responsabilità non indifferente.
Vediamo come i canoni della storia dell’arte influenzano il nostro modo di guardare (e giudicare) i corpi
“Se i nostri occhi vedessero le anime invece dei corpi, quanto sarebbe diversa la nostra idea di bellezza” (Frida Kahlo)
DESIRÉE MAIDA
Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” dice un proverbio tra i più noti, pronunciati e utilizzati, soprattutto quando si vuole rivendicare il diritto di far valere il proprio gusto personale. Una sorta di enunciato estetico dalla genuinità tipica di tutto ciò che rientra nell’ambito popolare, con matrice e finalità anche democratica: sembrerebbe che dinanzi all’espressione e alla ricerca della bellezza, nessuno possa essere criticabile e/o censurabile. In teoria.
In pratica pare che le cose non vadano così: l’espressione del proprio gusto – e quindi della propria opinione – lascia spesso posto a un inquietante e insano diritto a quello che si crede essere una sorta di facoltà di giudizio, che invece altro non è che critica feroce, denigrazione, calunnia, volontà di annientare dignità e valore della cosa o della persona che si sta “giudicando”. Una tendenza, questa, che accomuna gli esseri umani di qualsiasi epoca, luogo e cultura, e che si estrinseca in particolar modo nei confronti di altri esseri umani. Se, come dice il proverbio, “è bello ciò che piace” – tesi che, nella sua semplicità, trova un’aulica origine nella definizione che si trova nella Summa Theologiae di Tommaso d’Aquino, secondo cui il bello è “ciò che, quando viene percepito, piace” –perché ci si sente in diritto di decretare come “non bello” – e quindi indegno – ciò che non piace? Il concetto di bello e il suo contrario – la cui denominazione, restando in ambito popolare, sarebbe quella di “brutto” – entrano così a gamba tesissima quando a essere sotto giudizio è il corpo (naturalmente quello degli altri): il nostro involucro, ciò che ci contraddistingue, ci rende riconoscibili, lo strumento attraverso cui entriamo in relazione con il mondo e le persone, ci esprimiamo e creiamo, prendiamo posizione politica, ci concediamo e opponiamo, riceviamo e diamo piacere, facciamo rivoluzioni.
Allora perché i corpi – ovvero le persone – diventano bersaglio di critiche che spesso sfociano in atti di violenza psicologica e fisica?
GIUDICARE IL CORPO.
IL BODY SHAMING E L’ATTENUANTE DEI CANONI ESTETICI
Il body shaming, ovvero la pratica di offendere qualcuna o qualcuno per il proprio aspetto fisico, è un fenomeno che negli ultimi anni sta assistendo a una preoccupante impennata, anche e soprattutto a causa dei social media: questi, infatti, sono le piattaforme in cui il body shaming trova i suoi principali strumenti di diffusione, colpendo persone di ogni genere ed età. Come sottolineato da Save the Children in un articolo pubblicato il 6 ottobre 2023 dal titolo Body shaming, significato e l’impatto dei social media, il body shaming è “una forma di violenza che sfrutta l’insicurezza corporea (la sensazione di disagio o insoddisfazione riguardo al proprio aspetto fisico) e assume spesso le forme del bullismo/cyberbullismo o dell’hate speech legati all’aspetto fisico. Il body shaming può diventare anche una manifestazione della violenza di genere, circostanza che rende bambine e ragazze ampliamente esposte a offese e aggressioni basate su commenti negativi relativi al loro corpo: il body shaming è parte di una cultura che promuove la disuguaglianza di genere e contribuisce a una mentalità sessista”. Alla base di questo fenomeno sarebbe dunque la con-
Sandro Botticelli, Nascita di Venere , 1485. Firenze, Galleria degli Uffizi
9 adolescenti su 10 hanno subito body shaming almeno una volta
3 adolescenti su 10 subiscono body shaming quotidianamente
Che rapporto hanno i giovani con il proprio corpo?
1 su 4 non riesce a guardarsi nudo quando è da solo
1 su 3 palesa forte disagio nel mostrarsi senza vestiti agli altri
Il body shaming contro le ragazze è soprattutto legato ai luoghi comuni sul ciclo mestruale
per il 55% degli intervistati il problema è il peso corporeo per il 44% lʼaspetto di braccia, gambe e fianchi per il 43% caratteristiche o difetti del viso
8 ragazze su 10 si sono sentite dire almeno una volta la frase “sei nervosa? Hai il ciclo” 6 ragazze su 10 vengono criticate di irritabilità
4 ragazze su 10 vengono criticate di lamentosità
A subire maggiormente il body shaming sono le ragazze
la percentuale di ragazze che subisce body shaming è aumentata dal 30% al 34%
Fonte: Domande Scomode sullʼadolescenza, ricerca condotta nel 2021 da Skuola.net in collaborazione con Lines e Tampax che ha coinvolto 6mila giovani tra i 10 e i 17 anni
vinzione diffusa che un corpo non può essere considerato “bello” o “conforme” se non risponde a determinati canoni, ovvero a sistemi di regole che riguardano elementi e caratteristiche propri di qualcuno o di qualcosa considerato bello. Canoni e definizioni del concetto di bello sono tra i temi maggiormente trattati da filosofi e pensatori di tutti i tempi, contribuendo alla creazione di numerosissime e articolate pagine di storia di teoria dell’estetica. A partire da Platone, che nel Simposio sottolineava come Bello e Bene (ovvero l’etica) fossero la stessa cosa, anche se poi in ambito artistico i Greci seguissero pedissequamente il , ovvero il trattato scritto dallo scultore Policleto sulle proporzioni dell’anatomia umana, che devono basarsi sulla simmetria. Teorie, queste, enfatizzate nel Rinascimento da Leon Battista Alberti, che nel trattato De re aedificatoria (1452) definisce il bello come “certo consenso e concordantia delle parti”, sebbene facesse riferimento all’ambito architettonico: il canone della simmetria, anche in questo caso, continua a guidare la visione estetica più diffusa. Tale visione “pratica” è innalzata a una sfera “ideale” da Leonardo da Vinci, che con il
L’ESPRESSIONE
GUSTO LASCIA SPESSO POSTO
suo Uomo Vitruviano (1490) rappresenta le proporzioni ideali del corpo umano, le cui armonia e perfezione sono dettate anche da una componente spirituale che lo avvicina molto alla filosofia platonica. Insistendo ancora in ambito figurativo, vale la pena forzare una riflessione: se le opere d’arte possono essere considerate i mass e social media di una volta (e forse tuttora lo sono, in diversa maniera), attraverso di esse allora sono stati veicolati modelli di bellezza che hanno determinato anche le correnti del gusto e le conseguenti occasioni di paragone. Ancora oggi, quando si vogliono enfatizzare la grazia e l’avvenenza di un corpo femminile, e la virilità e il vigore di un corpo maschile, le esclamazioni più frequenti sono: “sembra la Venere di Botticelli!”, “somiglia a un Bronzo di Riace!”.
Anche l’arte ha dunque contribuito alla diffusione di modelli di bellezza ideale, forse realistica, ma non reale. Gli stessi modelli irreali che oggi circolano sui social media, e i cui canoni sono determinati dall’utilizzo di filtri, effetti di vario tipo, tool di imbellettatura e Intelligenza Artificiale. Un quadro, questo, che oggi porta molti giovani a subire “pressioni sociali derivanti dalla diffusione di un’idea irreale di corpo perfetto a cui conformarsi (soprattutto nel caso di ragazze e bambine)”, continuiamo a leggere sul sito di Save the Children. “Diffusione a cui tutti i media, non solo i social, contribuiscono, in maniera quasi inscalfibile, nonostante campagne di sensibilizzazione e una diffusione di una cultura più sensibile e volta al contrasto degli stereotipi”
COME RISPONDE LA POLITICA ITALIANA AL BODY SHAMING?
Risale allo scorso anno la proposta di legge presentata in Parlamento per l’istituzione della Giornata nazionale contro la denigrazione dell’aspetto fisico (body shaming), indicando come data per la ricorrenza quella del 16 maggio. Nella proposta – che si compone di sei articoli, viene sottolineato che “il body shaming o derisione del corpo è l’atto di deridere e/o discriminare una persona per il suo aspetto fisico. Nel body shaming il carattere fisico – viene presa di mira qualsiasi caratteristica fisica umana –viene colpito perché considerato non aderente ai canoni estetici della cultura in cui la vittima vive e non ha importanza che sia anormale o dannoso per la salute, né che la vittima abbia la possibilità di modificarlo o no. Il canone estetico, spesso lontano dalle caratteristiche di un corpo umano comune o sano, è posto come normale e necessario per considerare una persona apprezzabile e degna di rispetto: il corpo della vittima”, continuiamo a leggere, “è al contrario considerato anormale, nonostante sia in genere più simile a quello della maggioranza della popolazione rispetto al modello estetico, e la vittima viene colpevolizzata e indotta alla vergogna, riducendone l’autostima e conducendola potenzialmente a problemi come ansia, depressione, disturbi alimentari e, in casi estremi, al suicidio”.
L’ARTE NON HA SOLO RAPPRESENTATO
IL “BELLO” E IL “CONFORME”
Eppure, andando a ricercare nello sterminato repertorio della storia dell’arte, ci rendiamo conto che sono tantissime le rappresentazioni di corpi che oggi sono considerati dai più “non belli” e “non conformi”, relativamente ai canoni e ai modelli che abbiamo come riferimento e che hanno determinato la nostra struttura di pensiero e di giudizio. Nell’epoca in cui quelle raffigurazioni sono sorte, però, esse rappresentavano ideali, canoni e gusti del loro tempo, facendosi portavoce anche di simbologie e messaggi dal più ampio e complesso significato. Ha un aspetto decisamente diverso rispetto alla celeberrima Venere di Botticelli la Venere di Willendorf, piccola statua in pietra calcarea risalente al 30.00025.000 a.C. (e conservata al Naturhistorisches Museum di Vienna) che rappresenta una donna con vulva, seno e fianchi molto pronunciati, caratteristiche che la ricondurrebbero ai culti della Madre Terra, come simbolo di fertilità e abbondanza. Nel Paleolitico era dunque questo l’ideale di bellezza femminile; oggi una donna con queste peculiarità sarebbe bersaglio di body shaming online e offline. Forzando ancora questi concetti e facendo un volo pindarico formale e temporale, l’ideale di magrezza tanto osannato in età contemporanea viene messo sotto accusa nel 2007 durante la Milano Fashion Week: il fotografo Oliviero Toscani firma per il marchio Nolita una campagna pubblicitaria in cui a essere protagonista è Isabelle Caro, modella affetta da anoressia (morta nel 2010). Un corpo scheletrico, di soli 31 chili, nudo, che non nasconde i segni della malattia, anzi li evidenzia: anche Caro è una Venere, molto lontana da quelle di Willendorf e di Botticelli, ma come queste è un’icona del suo tempo. “Mi sono
in alto: Venere di Willendorf , 30000-25000 a.C.
(MatthiasKabel - Opera propria)
a destra: Illustrazione di Chiaralascura
Belle di Faccia
ANCHE L’ARTE HA
CONTRIBUITO ALLA
DIFFUSIONE DI MODELLI DI
BELLEZZA IDEALE, FORSE
REALISTICA, MA NON REALE
nascosta e coperta per troppo tempo: adesso voglio mostrarmi senza paura, anche se so che il mio corpo ripugna”, dichiarava Caro. “Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito hanno un senso solo se possono essere d’aiuto a chi è caduto nella trappola da cui io sto cercando di uscire”. Un’immagine cruda, che ribalta iconografie e canoni di ogni tempo ed epoca, spingendoci a metterle in discussione: la pressione psicologica che porta tantissime persone ad avere dubbi sul proprio aspetto fisico per via di stereotipi imposti da cultura, società, moda, mass e social media è una piaga da affrontare e combattere, dal punto di vista culturale e anche politico.
MASS E SOCIAL MEDIA NELLA
DIFFUSIONE DEL BODY SHAMING
Gli strumenti di comunicazione di oggi, soprattutto i social network, rappresentano il terreno fertile per la diffusione del fenomeno del body shaming. Odio gratuito che colpisce tutti, dai bambini e ragazzi bullizzati nelle scuole e sui propri profili social fino ai personaggi noti e anche meno noti che però lo diventano proprio perché colpiti dagli haters. Ricordiamo la vicenda di Armine Harutyunyan, modella di origini armene lanciata da Gucci che nel 2020 è stata al centro di un acceso dibattito per via dei tratti del suo volto non convenzionali rispetto ai canoni attuali (o classici?): naso adunco, viso molto affilato, sopracciglia folte. “La modella brutta di Gucci” viene definita, ma in un’intervista rilasciata ai tempi degli attacchi ricevuti, Harutyunyan ha risposto: “Credo che le persone siano spaventate da tutto quello che è diverso. A parole è facile essere aperti al nuovo, ma poi quando ci si trovano davanti non lo capiscono, non sanno come reagire, e allora attaccano. Per questo non vale la pena di preoccuparsi troppo di loro”
È invece recente il polverone mediatico che ha colpito Imane Khelif, pugile algerina che ha vinto la medaglia d’oro pesi welter femminili alle ultime Olimpiadi di Parigi. La causa che ha scaturito episodi di body shaming e odio nei confronti della sportiva sarebbe il livello “alto” del suo testosterone, comunque conside-
rato dal Comitato Olimpico Internazionale idoneo per la competizione. Ma non dall’opinione pubblica: Khelif è stata definita “uomo”, “trans” (anche da un ministro della Repubblica Italiana), ed è stata oggetto di frasi e allusioni volgari di ogni sorta. Una degenerazione che ha portato la Procura di Parigi ad avviare un’indagine per “molestie informatiche a causa del genere, insulto pubblico a causa del genere, provocazione pubblica alla discriminazione e insulto pubblico a causa dell’origine”
COSA È LA BELLEZZA?
Dal percorso intrapreso finora, emerge quindi come ogni epoca abbia avuto i propri ideali di bellezza. Ma chi li ha stabiliti? Chi decide cosa è bello e cosa non lo è?
A queste domande possiamo provare a rispondere consultando le teorie di Pierre Bordieu, sociologo francese tra i più influenti della seconda metà del Novecento. Nel 1979 scrive La Distinction. Critique sociale du jugement (La Distinzione. Critica sociale del gusto), saggio nato da una ricerca condotta negli Anni Sessanta sui gusti e le preferenze di consumo dei francesi, coinvolgendo diversi target sociali. Un’analisi complessa, dai risvolti antropologici rivelatori da cui possiamo trarre concetti interessati ai fini della nostra trattazione. La teoria del consumo elaborata da Bordieu è implicitamente anche una teoria dell’estetica, basata su diversi concetti di “capitale”, tra cui quello “economico” (beni materiali) e “culturale” (istruzione). Da entrambi dipenderebbero gusti estetici, preferenze di consumo e stili di vita di persone appartenenti alle diverse classi sociali, provocando inevitabili discrepanze: chi dispone di un capitale inferiore è portato ad accettare il gusto e la visione di chi è dotato di capitale superiore; questi ultimi, quindi, in
ABBATTERE I CANONI ESTETICI PER COMBATTERE IL BODY SHAMING. IL PROGETTO BELLE DI FACCIA
L’arte, come spesso accade, permette di osservare i fenomeni e le evoluzioni della società da una prospettiva trasversale, fornendo validi spunti di riflessione e le chiavi di lettura più opportune per affrontare problematiche le cui origini fondano le proprie radici nella forma mentis degli esseri umani. I canoni estetici – e, di conseguenza, i canoni di giudizio – tramandati, codificati e strutturanti il nostro sistema culturale non sono più sufficienti o validi per comprendere, interpretare e vivere il mondo contemporaneo, un mondo in cui tutti hanno il diritto di apparire ed essere se stessi, anche attraverso la divulgazione e la sensibilizzazione su temi scottanti come il body shaming. Prende le mosse da queste premesse Belle di Faccia, progetto nato dall’impegno di Mara Mibelli e Chiara Meloni, “due donne grasse cresciute negli Anni Novanta e amiche da circa un ventennio”, ci raccontano. “ Belle di Faccia nasce dalla nostra esperienza e dalla nostra rabbia. Abbiamo deciso di parlare pubblicamente della grassofobia, tema di cui parlavamo tra di noi da tempo, provando a riportare al centro del discorso body positive i corpi grassi. Instagram ci sembrava il posto giusto per fare divulgazione sul tema, il progetto ha raggiunto un pubblico vasto e da lì abbiamo deciso di trasformarlo in associazione”. Nel profilo Instagram di Belle di Faccia, i post hanno una precisa struttura: le illustrazioni realizzate da Chiara Meloni (in arte Chiaralascura) accompagnano testi che di volta in volta affrontano diversi aspetti del body shaming, invitando alla riflessione. “La dimensione individuale della body positivity e il suo mettere l’accento sul self love anziché sulla discriminazione sistemica ci interessavano poco, quindi volevamo affrontare il tema da un punto di vista politico e incentrarlo sulla fat liberation”, ci spiegano Mibelli e Meloni. “Per questo usare l’illustrazione ci è sembrato più sensato che usare le nostre foto o centrare le nostre storie personali”. Con uno scopo ben preciso: “il nostro obiettivo è la liberazione del corpo grasso dallo stigma e dalla discriminazione. La body positivity ha saccheggiato ed edulcorato le idee della fat liberation e tornare alle origini femministe, queer e politiche della liberazione del corpo, sensibilizzare sull’argomento e prendere spazio come persone grasse sono gli strumenti che abbiamo cercato di utilizzare. La grassofobia non è scomparsa”, continuano, “ma dal 2018 in poi se ne parla sempre di più, non è un argomento così sconosciuto, e molti collettivi e spazi femministi lo considerano come un tema da affrontare”
L’impegno di Mibelli e Meloni si concretizza anche offline, partecipando a discussioni sul tema con altre associazioni e collettivi; inoltre, “abbiamo recentemente scritto un saggio per un’antologia sui Fat Studies della Routledge”, concludono, “e siamo docenti a un master in cui le professioniste della salute imparano a smontare i loro bias sulle persone grasse e a essere più inclusive nella loro pratica”
IL BODY PAINTING
CONTRO IL BODY SHAMING. IL PROGETTO FOTOGRAFICO DELL’ARTISTA ELIŠKA SKY
Ricerca, sperimenta e propone nuovi modelli di bellezza attraverso “forme audaci, colori vivaci e surrealismo” Eliška Sky, fotografa ceca il cui lavoro esplora le forme del corpo umano e la sostenibilità, focalizzandosi sui temi dell’inclusività e dell’accettazione. Oltre alla direzione artistica e alla scenografia per la performance Bohemian Gravity per il Teatro Nazionale di Praga e alla realizzazione del progetto futuristico World 2.0 pubblicato su VOGUE CS, Eliška Sky ha dedicato un lavoro – in corso – ai corpi femminili, alla loro diversità e bellezza, dal titolo Womaneroes, presentato in Italia nel 2021 nell’ambito di PhEST – Festival Internazionale di Fotografia e Arte di Monopoli (Bari). “Womaneroes è un progetto fotografico che celebra la forza, la bellezza e la diversità delle donne di varie taglie ed età”, ci racconta l’artista. “In un mondo saturo di standard di bellezza irrealistici e body shaming, la serie cerca di sfidare e sovvertire queste norme presentando donne che hanno coraggiosamente abbracciato i propri corpi attraverso il potere trasformativo del body painting. Adornandosi con colori e motivi vivaci, queste donne rivendicano la proprietà dei propri corpi, simboleggiando la loro forza e sicurezza. Il progetto”, conclude Sky, “ridefinisce quindi la figura femminile come una forma colorata, giocosa e potente, dove tutte le conformazioni e le taglie sono benvenute. Women as heroes, Womaneroes”
quanto “dominanti”, eserciterebbero una forma di “violenza simbolica” – ovvero un’imposizione della propria visione del mondo, e quindi del gusto – nei confronti dei “dominati”. Una forma di violenza “dolce”, la definisce Bordieu, che porterebbe di conseguenza anche alla determinazione di ciò che è bello e di ciò che non lo è. È tutta una questione di status symbol allora, di stereotipi cui ispirarsi e conformarsi, e se non si può o non si è interessati a spingersi nel marasma dell’omologazione, il rischio che si corre è lo shaming, di qualsiasi natura esso sia. La strada da percorrere è invece quella che prevede nuovi valori, di natura ideale, sociale ed estetica, e i corpi sono – o devono essere – immagine e strumento di cambiamento. Anche perché, a voler inseguire a tutti i costi un’idea di bellezza più effimera che reale, il rischio cui si può incorrere è quello prospettato dallo scrittore e commediografo britannico William Somerset Maugham nel suo romanzo Cakes and Ale (1930; in
GLI STRUMENTI DI
italiano noto con il titolo Lo scheletro nell’armadio): “Il bello è un vicolo cieco. È la cima di una montagna che, una volta raggiunta, non conduce in nessun luogo”.
VERSO UN CORPO DAI NUOVI CANONI. ALCUNI ESEMPI TRATTI DALL’ARTE CONTEMPORANEA
Alla necessità di cambiamento di visione sui corpi hanno contribuito, nel corso del Novecento e fino a oggi, artisti e opere del panorama contemporaneo, con ricerche e poetiche che, oltre a fare clamore e suscitare spesso scandalo o critiche, hanno innescato una riflessione sul tema.
È del 1932 un film considerato tra i migliori cult di tutti i tempi, Freaks: la pellicola diretta da Tod Browning racconta le macabre vicende che accadono in un circo in cui si esibiscono i “freaks”, persone considerate “mostri” per via delle loro malformazioni fisiche. I cosiddetti “fenomeni da baraccone” che suscitano ludibrio e disgusto nei visitatori del circo sono nani, donne barbute, gemelle siamesi, ermafroditi, persone senza braccia e gambe e affette da sindromi e patologie che hanno portato alla deformazione dei loro corpi.
Interesse e profonda empatia per coloro che vengono considerati “freaks” in senso ampio – venendo, di conseguenza, ghettizzati ed emarginati dalla so-
Eliška Sky, Womaneroes
cietà – sono la base del lavoro fotografico di Diane Arbus, i cui celebri scatti (realizzati soprattutto negli Anni Sessanta) mostrano un’umanità che solitamente resta nascosta (persone con malformazioni fisiche, transessuali, prostitute, pazienti psichiatrici), con la sensibilità e la sincerità tipiche di chi si avvicina al prossimo senza posizioni e giudizi aprioristici: “quelli che nascono mostri sono l’aristocrazia del mondo dell’emarginazione”, sottolineava Arbus. “Quasi tutti attraversano la vita temendo le esperienze traumatiche. I mostri sono nati insieme al loro trauma. Hanno superato il loro esame nella vita, sono degli aristocratici. Io mi adatto alle cose malmesse. Non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io”
IL BELLO È UN VICOLO CIECO. È LA CIMA DI UNA
MONTAGNA
CHE, UNA VOLTA RAGGIUNTA, NON CONDUCE IN NESSUN LUOGO
In tempi più recenti, a mettere in luce il lato oscuro dell’ossessione per i canoni estetici è stata la performer ORLAN che, dal 1986 al 1993, ha sottoposto il proprio corpo a tantissime operazioni chirurgiche, documentate attraverso video. Ha così apportato modifiche al suo aspetto, implementando anche vistose protesi facciali, alla ricerca di un’ideale di bellezza femminile ma anche per sovvertire questo concetto.
L’attenzione per la chirurgia plastica ha fortemente segnato la pittura di Jenny Saville, ex Young British Artist la cui ricerca verte sul corpo femminile: negli
a sinistra: Daisy Earles, attrice e circense affetta da nanismo che ha interpretato il ruolo di Frida nel film Freaks di Tod Browning
a destra: Fernando Botero, The Bathroom , 1989. Oil on canvas, 249x205 cm. Collezione privata
Anni Novanta l’artista si reca a New York, dove ha la possibilità di osservare da vicino il lavoro del chirurgo plastico Barry Martin Weintraub, approfondendo così come pelle e tessuti possano essere modellati e trasformati. I corpi di Jenny Saville appaiono monumentali – la medesima monumentalità che caratterizza le figure dipinte dai maestri del Rinascimento –, e allo stesso tempo dalle membra distorte e ingrandite, sono schiacciati dal loro stesso peso e anche dalle pressioni della vita, trasgredendo ogni tipo di canone di bellezza e riscrivendone di nuovi: “non dipingo donne ripugnanti e grosse. Dipingo donne che sono state indotte a pensare di essere grosse e ripugnanti”, ha dichiarato Saville.
La più nota – e per certi aspetti ludica, a livelli mainstream – forma di sovvertimento della rappresentazione della bellezza ideale è sicuramente quella espressa in pittura e scultura da Fernando Botero, artista scomparso lo scorso anno e a cui verrà dedicata una grande mostra a Palazzo Bonaparte a Roma dal 17 settembre 2024 al 19 gennaio 2025. Le sue opere sono celebri a livello mondiale per le fattezze che contraddistinguono i personaggi rappresentati: donne, uomini e bambini dalle fisicità corpulente e dalle forme tondeggianti. Cifra stilistica, questa, che ha portato Botero a essere definito come l’artista che dipinge persone in sovrappeso, sebbene questa non fosse la sua finalità: “Non dipingo donne grasse. Nessuno mi crede ma è vero. Quello che dipingo sono i volumi”, raccontava Botero in un’intervista a El Mundo. “Mi interessa il volume, la sensualità della forma. Se dipingo una donna, un uomo, un cane o un cavallo, lo faccio sempre con questa idea del volume, non è che ho un’ossessione per le donne grasse”.
BODY SHAMING E SESSISMO. IL RACCONTO DELL’ARTISTA IVANA PIA LORUSSO
Classe 1995, Ivana Pia Lorusso è un’artista e attivista trans-femminista la cui ricerca verte sul corpo, in particolare quelli femminili, riflettendo e criticando le dinamiche che portano al giudizio e alla discriminazione per via dei canoni estetici imposti dalla società. Una ricerca, questa, che porta l’artista a combattere una “battaglia contro l’oppressione estetica”, come da lei definita, utilizzando diversi media e linguaggi e ponendo il suo stesso corpo al centro del suo lavoro. Temi, questi, che Lorusso ha indagato lo scorso anno, durante il suo periodo di residenza presso gli spazi di VOGA Art Project a Bari, culminato poi nella mostra My Hairy Daydream (La Mia Pelosa Fantasticheria). Ecco cosa ci ha raccontato l’artista.
Il tuo lavoro indaga il tema del corpo e tutte le dinamiche che portano a percepirlo in un certo modo per via delle pressioni estetiche, sociali e culturali imposte. Come mai hai scelto questo ambito di ricerca? Cosa ti ha spinto?
Quella di occuparmi di questioni di genere e, in particolar modo della questione dell’abitare il corpo – un corpo liberato dall’oppressione estetica, dalla normatività dei canoni estetici – è stata la risposta a una serie senza fine di giudizi non richiesti sul mio aspetto fisico. Ho iniziato seriamente a preoccuparmi di quanto sessismo avessero interiorizzato le mie pari quando una mia amica, nel farmi una visita a casa, si scandalizzò nel vedermi i baffi.
Come hai reagito?
Oggi sorrido ancora, ma allora ero davvero incazzata. Quel giorno stesso, inviai ad Alessandro Passaro una foto di me che mi pettinavo le ascelle, prontamente lui ne face un ritratto. Da allora ho iniziato a studiare, a leggere, a confrontarmi: sapevo di non essere sola. Sapevo che qualcun* altr* come me viveva quell’oppressione e che, solo trovando persone alleate nei libri, nelle collettive transfemministe, così come nella gente non politicizzata, avrei potuto trasformare quel carico oppressivo nella mia missione.
Le tue esperienze hanno preso corpo nella mostra presso VOGA Art Project. Attraverso quali media le hai raccontate? Quali messaggi hai voluto lanciare?
My Hairy Daydream è stata l’occasione per portare i temi della normatività sui corpi a un pubblico vasto, non politicizzato e dalle età più disparate. Assieme allo staff di Voga ho progettato la mostra come una sinfonia nella quale potessero coesistere opere dal carattere riottoso come EPANASTASI e il MANIFESTO CONTRO L’OPPRESSIONE ESTETICA, accanto a opere dal carattere giocoso, paraculistico, come MARIO, un gigantesco pelo di stoffa – quel pelo sfuggito al trattamento estetico al quale era stato sottoposto il corpo. Ho permesso alle persone di immaginare come sarebbero state con i peli delle gambe tinte in Pink Olid, per dirne solo uno dei 12 colori esposti nel campionario di tinte per peli delle gambe intitolato Happy Lazy Leg Hair. Ho accolto i visitatori in sala con il suono assordante di un rasoio perennemente accesso che rimandasse alla rasatura progressiva dello scalpo sul quale ho inciso in handpoke tattoo la frase Fight Aesthetic Oppression. Infine, ho provocato lo stupore e il disgusto portando sulla scena ciò che decenni di corpi magri e glabri imposti dai media hanno reso osceno, installando in mostra le tavole del MANIFESTO sulle quali ho inciso statement politici su strisce depilatorie scartate dalla depilazione.
La risposta del pubblico è stata positiva. Ho intrattenuto decine di dialoghi durante i tre mesi in cui ho personalmente presidiato lo spazio. Ringrazio ancora lo staff di Voga per avermi dato man forte e questa preziosa occasione.
4 CAPOLAVORI DELLA STORIA DELL’ARTE CON PERSONAGGI DAI CORPI DIVERSAMENTE BELLI
DUCCIO DI BUONINSEGNA, MADONNA GUALINO
La tavola dipinta tra il 1280 e il 1283 da Duccio di Buoninsegna rappresenta la tipica scena conosciuta, in termini iconografici, come Madonna con il Bambino. La denominazione di Madonna Gualino deriva dalla provenienza dell’opera: essa, infatti, fa parte della Collezione Riccardo Gualino, custodita presso la Galleria Sabauda di Torino. In questa sede, il dipinto di Duccio da Buoninsegna viene preso come esempio di un modus operandi molto diffuso nel Medioevo: rappresentare Gesù Bambino con fattezze che hanno molto poco di “grazioso” e “carino”. Nella Madonna Gualino, Gesù è raffigurato con avanzata calvizie e un’espressione del volto che poco si addice alla sua tenera età. Pare che questa “moda” di rappresentare il Bambino derivi da una concezione di natura teologica: essa trae ispirazione dall’idea di Homunculus (“piccolo uomo”), ovvero di uomo completamente formato anche se ancora in fasce, come si riteneva che fosse Gesù, profeta e figlio di Dio.
QUENTIS METSYS, DONNA GROTTESCA
Attribuito a Quentis Metsys, pittore fiammingo della Scuola di Anversa molto noto nella sua epoca, il dipinto conosciuto anche con il titolo Duchessa brutta è stato realizzato tra il 1525 e il 1530, ed è conservato alla National Gallery di Londra. Per la realizzazione dell’opera, pare che Metsys abbia tratto ispirazione dalle caricature di Leonardo da Vinci; altrettanto probabile è che la donna rappresentata abbia a sua volta ispirato il pittore britannico John Tenniel per illustrare la Duchessa, antagonista della Regina di Cuori nel romanzo Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll (1865).
DOMENICO GHIRLANDAIO, RITRATTO DI VECCHIO CON NIPOTE
Risale al 1490 circa ed è conservato al Louvre di Parigi Ritratto di vecchio con nipote, dipinto di Domenico Ghirlandaio che ritrae l’inusuale coppia di soggetti nonno-nipote. Ciò che cattura subito l’attenzione è la figura dell’anziano, il cui volto è straordinariamente rappresentato in ogni dettaglio, anche quelli meno gradevoli dal punto di vista estetico: a ergersi con forza e carattere dal suo viso sono il naso dalla forma bitorzoluta e il grosso neo sulla fronte stempiata. Il disegno preparatorio del volto dell’uomo si trovava nel Libro de’ disegni di Giorgio Vasari; oggi è custodito al Nationalmuseum di Stoccolma, ed è così commentato dallo storico dell’arte Bernard Berenson: “La fronte è larga e rupestre, e i ciuffi di capelli che hanno resistito alla calvizie sembrano concentrare in sé la vitalità dell’intera maschera facciale: sulla quale troneggia un sorprendente, stupefacente nasone bitorzoluto, grinzoso come una mela cotogna e gibboso come una patata in germinazione. Tale deformità, tuttavia, non è repellente, né menoma la dignità di quel volto”
AGNOLO BRONZINO, RITRATTO DEL NANO MORGANTE
Nano Morgante è il soprannome di Braccio di Bartolo, uno dei nani buffoni che vissero alla corte di Cosimo I de’ Medici. Fu proprio quest’ultimo a commissionare ad Agnolo Bronzino il Ritratto di Nano Morgante, un doppio dipinto (ha sia fronte sia retro) realizzato nel 1553 e custodito a Palazzo Pitti a Firenze. La tela rappresenta il personaggio nelle vesti (sebbene sia nudo) di “uccellatore”, ovvero cacciatore di volatili di piccole dimensioni (a quei tempi, la caccia ad animali di taglia superiore era destinata solo a persone di alto rango). Il fronte dell’opera ritrae il Nano Morgante prima della caccia, con una civetta utilizzata come esca e due farfalle che gli coprono i genitali; il retro invece mostra il “post caccia”, mostrando allo spettatore la preda catturata. Una ironica e puntuale descrizione del dipinto ci arriva da Giorgio Vasari, che nella Vita di Bronzino racconta che “ritrasse poi Bronzino, al duca Cosimo, Morgante nano, ignudo, tutto intero, et in due modi, cioè da un lato del quadro il dinanzi e dall’altro il didietro, con quella stravaganza di membra mostruose che ha quel nano: la qual pittura in quel genere è bella e meravigliosa”.
dall'alto verso il basso:
Duccio di Buoninsegna, Madonna Gualino , 1280-1283. Torino, Galleria Sabauda
Quentin Metsys, Donna grottesca , 1525-1530. Londra, National Gallery
Domenico Ghirlandaio, Ritratto di nonno con nipote , 1490 ca. Parigi, Musée du Louvre
La città viene fondata sulle colline che dominano la confluenza della Saône e del Rodano dove già esisteva un villaggio dei Galli conosciuto con il nome di Condate.
Lʼarcivescovo di Lione ottiene con bolla pontificia di Gregorio VII lo status di primate delle Gallie. Urbano II confermerà i privilegi nel 1095.
Lione entra nel Regno di Francia dopo un lungo braccio di ferro fra il potere ecclesiastico e il reame capetingio in piena espansione.
1476
1743
Lione è una delle capitali della stampa in Europa. La tipografia a caratteri mobili viene introdotta da Barthélémy Buyer che pubblica un testo del cardinale Lotario (futuro papa Innocenzo III).
Jean-Pierre Christin, con lʼaiuto del vetraio italiano Pierre Casati mette a punto il primo termometro a mercurio. Verrà ribattezzato il “termometro di Lione” e utilizzato in campo metereologico, medico e nella cultura del baco da seta.
1793
1815
Lione si oppone al potere giacobino e perde il suo nome. Le truppe repubblicane assediano e bombardano la città che si arrende. Lione diventa sulle carte Ville-affranchie, città liberata.
André-Marie Ampère viene eletto allʼAccademia delle Scienze. Lo scienziato lionese autodidatta è conosciuto soprattutto per i suoi studi sullʼelettricità che gettano le basi della moderna elettrodinamica.
LIONE: LA CITTÀ CHE CONTINUA A CAMBIARE IN MEGLIO
Centro urbano dalla storia millenaria, Lione è sempre stata una città chiave nel commercio e nella storia francese ed europea. Scopriamone i quartieri, i musei, i progetti per il futuro e quelli di successo già in corso. Tra cui un’importante biennale d’arte contemporanea
DARIO BRAGAGLIA
I1862
1831
Viene inaugurata la prima funicolare del mondo e contemporaneamente Michel Félizat costruisce i primi bateaux-mouches che oggi abbiniamo alla Senna e a Parigi. In realtà hanno la loro origine nel quartiere La Mouche di Lione.
La prima rivolta dei Canuts, gli operai della seta. Altri sollevamenti, repressi nel sangue, si ebbero nel 1834 e nel 1848. I Canuts furono i primi a battersi per il miglioramento delle condizioni di lavoro e per un salario minimo.
1901 Creazione delle prime targhe automobilistiche: nel marzo del 1900 il sindaco di Lione esige che gli automobilisti che circolano nel parco della Tête dʼOr siano muniti di un numero dʼordine da fissare sul retro della vettura.
1983
Viene inaugurata Part-Dieu per accogliere i treni della prima rete ad alta velocità fra Lione e Parigi: la nuova stazione costata lʼequivalente di 51 milioni di euro toglierà traffico alla storica stazione ottocentesca di Perrache.
motivi per visitare Lione – terza città di Francia per numero di abitanti (un po’ più di mezzo milione nel 2021) e seconda area metropolitana del Paese transalpino con una popolazione di oltre un milione e mezzo – sono molti, anche se forse non così evidenti rispetto ad altre metropoli europee della stessa dimensione. La città sorge alla confluenza della Saône nel Rodano e vanta, su un territorio urbano relativamente ristretto, un patrimonio archeologico, architettonico e urbanistico che spazia dalle vestigia di Lugdunum, la capitale della Gallia Lugdunense fondata dai Romani nel 43 a.C., al quartiere medievale e rinascimentale del Vieux Lyon. Poco più decentrati, i grattacieli della Part Dieu e l’area della Confluence –uno dei progetti di recupero urbano più importanti a livello europeo – rappresentano la metropoli del XXI Secolo con un aspetto risolutamente contemporaneo. Se a questo si aggiunge un’intensa vita culturale, con alcuni appuntamenti di livello internazionale che richiamano centinaia di migliaia di visitatori, abbiamo il quadro di quella che è la seconda città turistica di Francia. I grandi eventi che scandiscono il corso delle stagioni sono il festival del Quai du Polar (il più importante appuntamento europeo dedicato alla letteratura poliziesca, in aprile) poi le Nuits de Fourvière (le rappresentazioni che si svolgono in giugno e luglio nel teatro romano sulla collina che domina la città), le Biennali di Danza e d’Arte contemporanea (ad anni alternati), il Festival Lumière (in ottobre) che celebra la città dove, grazie ai fratelli Auguste e Louis Lumière, è nato il cinema. L’anno si chiude, nei giorni attorno all’8 dicembre con l’evento più partecipato, la Fête des Lumières che richiama milioni visitatori da tutto il mondo. È dal 1852 che, per celebrare la festa dell’Immacolata Concezione, i Lionesi appendono luminarie alle loro finestre. Negli anni l’evento ha perso la sua connotazione più strettamente religiosa per diventare un grande spettacolo di luci e suoni che coinvolge per quattro notti tutto il centro storico e altri luoghi decentrati con scenografie mozzafiato sui monumenti e siti più importanti della città, a partire dalla cattedrale di Saint-Jean.
PART-DIEU:
IL QUARTIERE DEGLI AFFARI
Per anni c’è stato solo il Crayon, il “matitone”, a stagliarsi nel cielo di Lione. Il grattacielo del 1977 alto 165 metri costruito da Araldo Cossutta & Associates era all’epoca il quarto edificio più alto di Francia, ma ancora oggi – ribattezzato Tour Part-Dieu – è famoso per ospitare, agli ultimi piani, l’hotel più elevato d’Europa. Poi nel 1990 arriva la Tour Swiss Life, la gemellina di 82 metri. Nel corso degli ultimi 10/15 anni il rinnovamento del quartiere di Part-Dieu ha subito un’accelerazione significativa: nel 2010 viene eretta la Tour Oxygène, nel 2015 è la volta della Tour Incity che raggiunge i 200 metri e diviene il più alto edificio di Lione (e il più alto grattacielo di Francia, esclusa Parigi). Poi la Tour Silex e infine, nel 2023, la Tour To_Lyon realizzata dall’archistar Dominique Perrault (fra i suoi progetti, la Bibliothèque Nationale de France a Parigi) che per il momento – vista l’opposizione dell’attuale maggioranza politica –alla costruzione di nuovi grattacieli - conclude lo sviluppo verticale di quello che il secondo quartiere d’affari di Francia (dopo la Défence).
L’imponente edificio nero di 42 piani, 170 metri di altezza, 60mila metri quadrati di uffici e un hotel di 168 camere rafforza l’importanza economica di un distretto che ha attualmente una disponibilità di circa 1,3 milioni di metri quadrati di uffici dove lavorano 60 mila persone, con una mobilità di 140 mila passeggeri al giorno nella stazione della PartDieu. Lo snodo ferroviario (700 treni al giorno di cui 150 TGV), il grande centro commerciale (30 milioni di visitatori/anno), la più grande biblioteca pubblica di Francia (3,2 milioni di opere) sono gli altri poli di attrazione di un quartiere che continua a rinnovarsi.
LIONE, CAPITALE GASTRONOMICA
DELLA FRANCIA
Nel delineare il ritratto di Lione e nell’evidenziarne la sua attrattività non va dimenticato che sul piano gastronomico la città si vanta da tempo di essere la “capitale gastronomica” del Paese: merito della cucina delle celebri Mères Lyonnais e poi di Paul Bocuse, uno dei più celebri chef del mondo. Con la nouvelle cuisine ha portato fama internazionale alla ristorazione locale e francese in generale, tanto che le autorità cittadine gli hanno dedicato – lui ancora vivente – le moderne Halles (il mercato coperto) di Cours Lafayette. In ogni caso, fra una visita culturale e l’altra, a Lione non mancheranno le tentazioni della tavola, dai popolari Bouchons Lyonnais ai numerosi indirizzi stellati, visto che la città ha il più alto rapporto ristoranti/abitanti di Francia (con oltre 4000 locali).
LA COLLINA DI FOURVIÈRE
Per avere uno sguardo d’insieme e scoprire le origini di una città che vanta oltre duemila anni di storia, la scelta migliore è salire con la “ficelle”, la funicolare, che dalla piazza della cattedrale sale in pochi minuti sulla collina di Fourvière, dominata dalla Basilica di Notre-Dame. Lo stile degli interni della chiesa, costruita su progetto degli architetti Pierre Bossan e Sainte-Marie Perrin fra il 1872 e il 1896, può piacere o
meno (è un trionfo del neoromanico e del neobizantino con abbondante ricchezza di marmi, dorature, mosaici, vetrate), ma il sito – anche per la sua posizione panoramica – accoglie più di due milioni e mezzo di visitatori ogni anno ed è il più frequentato della regione Auvergne-Rhône-Alpes. Per scoprire angoli inconsueti di quello che è uno dei simboli di Lione, suggeriamo uno dei “tour insoliti” che vengono organizzati regolarmente, in particolare quello sui tetti. Districandosi fra stretti camminamenti e scalette si arriva a salire su una delle quattro torri angolari alte 48 metri (rappresentano le virtù cardinali) con vista a picco sullo skyline cittadino, la Saône, il Rodano. Nelle giornate limpide lo sguardo corre fino alle Alpi con il candore dei ghiacciai del Monte Bianco che si distingue nettamente.
IL CUORE ANTICO DI LIONE
La basilica è stata costruita sull’area che ospitava l’antico foro di Traiano e per scoprire altri resti della città romana è sufficiente scendere pochi minuti verso Lugdunum, il sito che ospita i resti più spettacolari dell’antica capitale della Gallia: il grande teatro costruito nel I Secolo a.C. e ampliato nel I Secolo d.C., capace di ospitare migliaia di spettatori, il più piccolo Odeon e il Musée Lugdunum, splendido museo archeologico dedicato alla civiltà gallo-romana. Quasi inavvertitamente scendendo ancora dalla collina di Fourvière si passa dalla città romana a quella medievale e rinascimentale. La Montée du Gourguillon (che percorriamo in discesa) e le altre ripide stradine portano nel cuore del quartiere di Saint-Georges che assieme a quelli di Saint-Jean e Saint-Paul formano il Vieux-Lyon, la vecchia Lione, l’insieme urbanistico stretto fra la collina e le rive della Saône che è stato il cuore della città medievale e rinascimentale prima che questa si allargasse oltre l’altra riva del fiume. Percorrendo questa parte di città rimasta particolarmente integra e che non a caso fin dal 1998 è entrata a far parte, assieme ad altri tre quartieri storici (Fourvière, Croix-Rousse e Presqu’île), del patrimonio tutelato dall’UNESCO, possiamo immaginare la Lione del XVXVI secolo, all’apice della sua potenza commerciale e finanziaria
Hôtel de Ville
Opéra de Lyon
Parco della Tête d'Or
Galerie Estades
Basilique Notre Dame de Fourvière
Cathédral Saint-Jean
Henri Chartier
Justice
LA LIONE DELL’ARTE E DELLA CULTURA
MUSÉE DES CONFLUENCES
1 Il museo costruito in posizione scenografica alla confluenza della Saône e del Rodano è, per la sua audace architettura decostruttivista realizzata da Coop Himmelb(l)au (apertura a fine 2014), uno dei simboli in vetro e acciaio della Lione contemporanea. Eredita il patrimonio del Museo Guimet e propone sui 3000 metri quadrati di esposizione permanente un percorso dedicato alla storia naturale, all’antropologia, alla storia delle società e delle civilizzazioni. Vengono organizzate 4/5 esposizioni temporanee all’anno. museedesconfluences.fr
MUSÉE LUMIÈRE
MUSÉE DES BEAUX-ARTS
2 Si trova in pieno centro, affacciato sulla vasta Place des Terreaux che ha al centro la splendida Fontaine Bartholdi realizzata dallo scultore autore della Statua della Libertà di New York. Per la ricchezza delle sue collezioni che spaziano dalle antichità egiziane all’arte contemporanea, allestite lungo un percorso di 7mila metri quadrati e 70 sale, è considerato uno dei più importanti musei di Francia, dopo il Louvre. Bello anche il giardino del chiostro di questa antica abbazia trasformata in museo in epoca rivoluzionaria. Una sala del ristorante al primo piano è decorata con un’opera monumentale di Raoul Dufy. mba-lyon.fr
4 Il museo si trova nel quartiere di Monplaisir nella storica dimora della famiglia Lumière e ripercorre le tappe del pre-cinema e dell’invenzione del cinematografo. Di fronte al museo, sul lato opposto del giardino, c’è l’Hangar du Premier Film che appare come scenario del primo film girato dai fratelli Lumière, il famoso Sortie d’usine. Oggi ospita la sala cinematografica dell’Institut Lumière che ogni anno organizza il Festival Lumière (quest’anno dal 12 al 20 ottobre). A ricevere il prestigioso premio che porta il nome degli inventori del cinema sarà, il 18 ottobre, Isabelle Huppert che succederà a Wim Wenders. institut-lumiere.org
MUSÉE D’ART CONTEMPORAIN
3 Il museo ha trovato spazio, dal 1995, in un’ala della Cité Internationale, un vasto insieme di edifici realizzati da Renzo Piano che ospitano un centro congressi, sale cinematografiche, uffici, hotels, ristoranti. Si trova nella parte settentrionale della città, fra Il Rodano e il magnifico parco della Tête d’Or (da non mancare). La facciata che prospetta sul parco è ancora quella realizzata negli anni 20 del Novecento da Charles Meysson per l’atrio del vecchio palazzo delle fiere e ora dialoga con i volumi in mattoni rossi dell’architetto genovese. Il macLyon è uno dei tre principali centri espositivi della Biennale di Arte Contemporanea. mac-lyon.com
MUSÉE DE L’IMPRIMERIE ET DE COMMUNICATION GRAPHIQUE
5 Rue de la Poulaillerie è una stretta viuzza nel cuore della Presqu’Île. Qui, in un palazzo rinascimentale, ha sede il museo dedicato alla stampa a caratteri mobili, da Gutenberg alla fotocomposizione. Una delle più importanti collezioni del suo genere che rende omaggio al ruolo di Lione nella storia della tipografia, soprattutto nel periodo fra la fine del XV secolo e la metà del XVI, quando la città rivaleggiava in questo campo con Venezia e Lipsia. Oltre alla collezione permanente vengono organizzate interessanti esposizioni temporanee: fino al 22 settembre c’è una bella mostra dedicata al regista d’animazione giapponese Hayao Miyazaki. imprimerie.lyon.fr
Galerie Platini
Galerie Valérie Eymeric
LIONE: DA SEMPRE UN CENTRO DEL COMMERCIO EUROPEO
Passaggio obbligato fra Parigi e l’Italia, in collegamento con le altre grandi città commerciali d’Europa come Anversa, Genova, Firenze, Venezia, Lisbona, a Lione confluiscono merci di ogni tipo e fin dal 1494 si organizzano quattro grandi fiere che attraggono migliaia di stranieri a ogni edizione. I tessuti (in particolare la seta) e la stampa sono fra i settori di punta dell’economia locale. I mercanti-banchieri che commerciano denaro, oltre alle merci sono all’apice della gerarchia sociale e molti sono stranieri. I fiorentini hanno un ruolo importante, ma non mancano lucchesi e genovesi. Medici, Gondi, Gagliano, Capponi, Bonvisi, Guadagni, ecco i nomi delle dinastie italiane che controllano il commercio a Lione: nel XVI Secolo fra le circa 170 grandi società commerciali, 143 sono italiane. E molti di loro ottengono le “lettere di naturalità” e vengono naturalizzati francesi: così Guadagni diventa Gadagne, il nome che ancora oggi identifica il Musée d’Histoire
de Lyon, uno dei luoghi più interessanti da visitare nella vecchia Lione, assieme alla Cattedrale di SaintJean con l’orologio astronomico, al Musée des Arts de la Marionnette (Guignol è la marionetta più famosa), a Place de la Trinité, a Place du Change (è a Lione che nel 1506 viene creata la prima Borsa francese) e alla Rue du Boeuf.
I QUARTIERI DI LIONE, TRA PASSATO E CONTEMPORANEITÀ
Non lasciatevi intimidire dall’austerità delle facciate: percorrendo i traboules, i passaggi interni che collegano due strade parallele, si possono attraversare gli edifici rinascimentali da una via all’altra scoprendo cortili con scaloni monumentali e ricche decorazioni (la mappa dei traboules accessibili ai visitatori è disponibile all’Ufficio del turismo in place Bellecour). Un analogo e interessante percorso attraverso i traboules si fa nel quartiere della Croix-Rousse. Anticamente era stata ribattezzata la “collina che lavora”, in contrapposizione a Fourvière, “la collina che prega”. Questa era infatti la zona dei canuts, i lavoratori della seta e la storia operaia del quartiere è testimoniata dalle abitazioni con alti soffitti adatti ad ospitare le macchine per la lavorazione dei tessuti. Oggi la CroixRousse è un quartiere abitato da molti giovani, dove si
possono ammirare le migliori opere di street-art della città. Una tradizione, quella di dipingere i muri, che a Lione ha una lunga storia: al termine della discesa dalla collina, sulle rive della Saône, si incontra infatti il Fresque des Lyonnais célèbres (1994), il più fotografato dei grandi affreschi che si trovano un po’ in tutta la città. Questo, in particolare, ha una superficie di 800 metri quadrati, ed è dedicato alle celebrities lionesi: dall’imperatore romano Claudio, al regista Bertrand Tavernier, da Antoine e Louis Lumière a Paul Bocuse.
LA PRESQU’ÎLE, IL CUORE PULSANTE DELLA CITTÀ
La penisola stretta fra le rive della Saône e del Rodano è l’altra grande area storica di Lione, anche se di aspetto decisamente più moderno rispetto al Vieux-Lyon. Se la famosa Rue Mercière, la grande via degli stampatori, ci fa ancora ritornare ad una urbanizzazione cinquecentesca, gran parte del quartiere subì profonde trasformazioni nel XIX secolo e l’aspetto ottocentesco, con grandi vie commerciali punteggiate dalle insegne del lusso, è quello che prevale come immagine generale. Stiamo parlando di una grande area che si estende dalla storica stazione di Perrache, a Sud, fino alla grande Place Bellecour. Poi, risalendo
CONFLUENCE: ALL’INCONTRO DEI DUE FUMI DI LIONE È NATO UN QUARTIERE AVVENIRISTICO
Il quartiere della Confluence costituisce la parte sud della Presqu’île, una striscia di terra che va man mano restringendosi, da Place Carnot dietro la stazione di Perrache fino all’estrema punta meridionale, dove proprio alla confluenza della Saône nel Rodano, sorge uno degli edifici simbolo della Lione contemporanea, il Musée des Confluences Fino a una trentina di anni fa questa era una zona industriale, sede di un mercato all’ingrosso, del porto industriale Rambaud e della prigione di Saint-Paul, oggi diventata un campus universitario. Dai primi Anni 2000 è partito il progetto di rigenerazione, “una delle più importanti iniziative urbanistiche in Francia” nelle parole del sindaco di Lione, Grégory Doucet. Già oggi Confluence – la fine del progetto che insite su un’area di 150 ettari è previsto attorno al 2030 – è il quartiere più all’avanguardia e più eco-sostenibile della città. Grandi nomi dell’architettura internazionale hanno lasciato la loro firma: la sede del Consiglio Regionale Auvergne Rhône- Alpes è di Christian de Portzamparc, vari edifici residenziali di Massimiliano Fuksas, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, il Cube Orange, l’iconico palazzo per uffici, è un progetto di Jakob + MacFarlane Architects. A qualche centinaio di metri, il quasi gemello Cube Vert ospita la sede della rete televisiva Euronews, mentre il Pavillon 8 sede di GL Events è opera di Odile Decq. Ma sono solo alcuni esempi, l’elenco dei nomi potrebbe continuare con quelli di Tania Concko, Kengo Kuma, Jean Nouvel, Rudy Ricciotti (Pavillon 52), Jean-Michel Wilmotte e altri. Insomma, un vero e proprio parco divertimenti per gli archilovers. A questo si deve aggiungere il recupero di vecchie strutture industriali come i silos della Sucrière (l’ex zuccherificio), oggi diventato spazio espositivo. I nuovi isolati popolati di locali e hotel, il grande centro commerciale, i bacini d’acqua e le zone verdi fanno della Confluence un quartiere molto piacevole da vivere e facilmente raggiungibile dal centro città sia con le nuove linee tramviarie, sia via fiume sui battelli del servizio Vaporetto.
L’esplorazione di questa zona della città si completa attraversando il ponte pedonale e tramviario sul Rodano (intitolato a Raymond Barre) che ci porta nel quartiere di Gerland. A pochi metri dal fiume, c’è da dare un’occhiata all’imponente Halle Tony Garnier, l’ex mattatoio municipale oggi utilizzato per eventi e concerti. Prende il nome dal suo progettista, il famoso architetto e urbanista lionese a cui è dedicato un Museo urbano nel vicino quartiere des États-Unis da lui progettato.
PASSAGGIO OBBLIGATO FRA PARIGI E
L’ITALIA, IN COLLEGAMENTO CON LE ALTRE GRANDI CITTÀ COMMERCIALI
D’EUROPA COME ANVERSA, GENOVA, FIRENZE, VENEZIA, LISBONA, A LIONE
CONFLUISCONO MERCI DI OGNI TIPO
Il Musée des Confluences.
verso Nord si incontrano le più raccolte Place des Célestins e des Jacobins, fino ad arrivare a Place des Terreaux, alle pendici della collina della Croix-Rousse. Un’area urbana chiusa idealmente da edifici simbolo, con diverse valenze, della città: il fastoso Hôtel de Ville, il Musée des Beaux Arts e l’Opéra National de Lyon, riammodernata da Jean Nouvel una trentina di anni fa. Non devono trarre in inganno le grandi prospettive rettilinee dei maggiori assi viari (oggi in gran parte pedonalizzati) che attraversano da nord a sud la Presqu’île: Rue du Président Édouard Herriot, Rue Victor Hugo, Rue de la République. Le piccole traverse e le vie laterali conservano tutto il fascino della ricca città borghese ottocentesca, con tanti punti d’interesse un po’ defilati: la Basilique Saint-Martin-d’Ainay, unica chiesa romanica di Lione, o il Musée des Tissus et des Arts Décoratifs nella parte a sud di Place Bellecourt. La piazza è uno dei centri nevralgici della vita cittadina: sotto di essa si incrociano due linee della metropolitana e inevitabilmente
Photo Quentin Lafont
COME CAMBIA LIONE. INTERVISTA A BÉATRICE VESSILLER
L’anima contemporanea di Lione è confermata dai diversi progetti in corso, che puntano a trasformare la città, soprattutto in termini di vivibilità: aree pedonali e ciclabili, più verde e meno cemento. Ce lo racconta Béatrice Vessiller, Vicepresidente con delega all’urbanistica della Métropole de Lyon (Città Metropolitana).
Part-Dieu e Confluence sono i due grandi progetti urbanisti con cui Lione si confronta da anni e che impegneranno la città metropolitana almeno fino al 2030. Qual è l’approccio dell’amministrazione ecologista in carica dal 2020 su questi temi? Abbiamo voluto riorientare i progetti di Part-Dieu e di Confluence che erano già molto avanzati. Beninteso la programmazione sta comunque andando avanti, ma le nostre parole d’ordine sono state quelle di rigenerare piuttosto che demolire per dare spazio alla costruzione di nuovi edifici. E poi vegetalizzazione, pedonalizzazione, riduzione degli spazi dedicati al terziario a favore dell’edilizia abitativa a prezzi calmierati.
Gerard Collomb, scomparso a fine 2023, sindaco di Lione quasi ininterrottamente dal 2001 al 2020, amava i grattacieli di Part-Dieu. Un approccio che la nuova maggioranza politica non ha condiviso.
Abbiamo stoppato la costruzione di nuove torri sia a Part Dieu sia a Confluence. Gli edifici oltre i 50 metri di altezza sono sottoposti in Francia a regolamentazioni molto costose. Abbiamo preferito dare priorità agli spazi pubblici, rendere piacevoli e fresche le aree pedonali, ridurre la circolazione delle auto e favorire quella pedonale e su due ruote, che a Lione sta avendo un incremento esponenziale, perché le rive del Rodano offrono molte opportunità per le vie ciclabili. Nel quartiere Confluence non si costruirà più un secondo parcheggio ed è stata bloccata la costruzione di due grattacieli.
Dunque, meno terziario, più edilizia abitativa, più alberi e biodiversità, più terreni permeabili e meno cemento. Qualche esempio di cosa state facendo in questa direzione? Il parco della Place du Lac, di fronte all’Hôtel de la Métropole verrà raddoppiato, proseguiremo la trasformazione di un asse importante come Rue Garibaldi, favorendo la circolazione dei pedoni e delle biciclette, presto ci sarà una zona a traffico limitato in centro e siamo sempre più restrittivi per quel che riguarda la circolazione dei veicoli ad alte emissioni nelle zone all’in-
l’enorme spazio, con al centro la statua di Luigi XIV, è uno dei luoghi privilegiati per gli appuntamenti. In un angolo, più defilata e meno pomposa, c’è la statua che omaggia un lionese che dalle rive del Rodano si è involato, non solo metaforicamente, per i lidi più esotici del globo: Antoine de Saint-Exupéry è rappresentato in compagnia del Piccolo Principe, il suo personaggio più famoso.
COSA NON PERDERE ALLA PRESQU’ÎLE
Le curiosità non mancano anche a nord di Place Bellecour. Lato Saône, il Théâtre des Célestins è uno dei rari teatri francesi, assieme alla Comédie Française e al Théâtre de l’Odéon a poter vantare più di due secoli di rappresentazioni (seppur interrotte da incendi devastanti). L’ultimo restauro concluso nel 2005 ha ridato splendore alla Grande Salle all’italiana foderata di velluti rossi. Curioso contrasto con la classicità del teatro, il parcheggio sotterraneo, opera degli architetti Michel Targe e Jean-Michel Wilmotte (1996), è impreziosito da Sens dessus dessous, un’opera di Daniel Buren. A poche decine di metri, sulle rive del Rodano, da qualche anno rivive in tutta la sua maestosità la facciata lunga 375 metri del Grand Hôtel Dieu, l’ospedale fondato nel XII secolo e rinnovato in forme classiche nel 1755 dall’architetto Jacques-Germain
terno del Périphérique. E Lione, sta diventando sempre più una città a portata di bambini con la chiusura al traffico delle strade davanti alle scuole.
Tre luoghi simbolo della Lione che immaginate per il futuro. La Place Béraudier, davanti alla stazione di Part-Dieu, i cui lavori stanno per terminare, con la piazza bassa dove è attiva una stazione di interscambio fra chi si muove in bici, ci sono circa 1500 posti di stazionamento, e poi utilizza il treno o la metropolitana. Molto interessante anche l’edificio ribattezzato Essentiel in corso di costruzione nel quartiere Confluence ad opera di Baumschlager Eberle Architekten: nel 2025 sarà il primo immobile bioclimatico realizzato in Francia e garantirà una temperatura compresa fra i 22° e i 26° C, estate e inverno, senza uso del riscaldamento o del raffreddamento. Infine a Villeurbanne si sta costruendo, sotto il coordinamento dell’architetto Nicolas Michelin, un nuovo eco-quartiere che sarà il prolungamento del celebre Gratte-Ciel, l’avveniristico complesso realizzato negli Anni Trenta del Novecento da Môrice Leroux.
NON LASCIATEVI INTIMIDIRE
DALL’AUSTERITÀ DELLE FACCIATE: PERCORRENDO I TRABOULES, SI POSSONO ATTRAVERSARE
GLI EDIFICI RINASCIMENTALI DA UNA
VIA ALL’ALTRA SCOPRENDO CORTILI CON SCALONI MONUMENTALI E RICCHE DECORAZIONI
in alto: Béatrice Vessiller
Vice Presidente Métropole de Lyon
a destra: Isabelle
Bertolotti (Direttrice artistica Biennale d'Art Contemporain de Lyon) e Alexia Fabre (curatrice edizione 2024)
Photo Blandine Soulage
Soufflot, a cui si deve anche lo splendido Grand Dôme che corona questo enorme complesso architettonico. Oggi fa da scenario al bar dell’Hotel Intercontinental, senza dubbio uno dei più belli del mondo. Terminata la sua funzione ospedaliera (nel 1532 qui esercitò un certo François Rabelais che, sempre a Lione, pubblicherà il suo libro più famoso, Pantagruel et Gargantua), l’edificio è stato sottoposto a un radicale rinnovamento curato dagli architetti Albert Constantin e Didier Repellin (è stato per 4 anni il più grande cantiere privato d’Europa) ed ha riaperto al pubblico nel 2019: nei suoi sette cortili si succedono boutique della moda, dell’arredamento, del benessere, caffè, ristoranti, un hotel di lusso, ma anche luoghi dedicati all’intrattenimento e alla cultura come il Musée de l’Illusion, il Musée Soieries Brochier (dedicato alla tradizione della lavorazione della seta) e gli spazi della Cité Internationale de la Gastronomie (uno dei luoghi della Biennale d’Art Contemporain).
INTERVISTA A ISABELLE BERTOLOTTI, DIRETTRICE DELLA BIENNALE D’ARTE
CONTEMPORANEA DI LIONE
Dal 21 settembre 2024 al 5 gennaio 2025 va in scena la 17. edizione della Biennale de Lyon che alterna, di anno in anno, un programma dedicato alla danza e all’arte contemporanea. Nata nel 1991 su iniziativa di Thierry Raspail (direttore artistico storico dal 1991 al 2017) si è imposta nel corso di una trentina d’anni come la manifestazione di riferimento in Francia per quel che riguarda l’arte contemporanea. L’edizione del 2022 ha avuto circa 250 mila visitatori ed è un evento sempre molto atteso, in particolare dalle giovani generazioni: il 46% del pubblico è costituito da ragazzi con meno di 26 anni.
Per la terza volta, la direttrice artistica della Biennale è Isabelle Bertolotti, affiancata come curatrice ospite per questa edizione da Alexia Fabre, direttrice dell’École nationale supérieure des Beaux-Arts di Parigi.
Questa edizione, che ha come tema Les voix des fleuves - Crossing the water, coinvolge tre siti principali di esposizione, di cui due sono delle novità
Sì, oltre al Musée d’Art Contemporain (macLyon) alla Cité Internationale nella zona Nord della città, quest’anno abbiamo a disposizione gli spazi della Cité Internationale de la Gastronomie all’interno dell’antico Hôtel Dieu, lo storico ospedale lionese che ha ospitato personaggi come Rabelais. A Sud, c’è la nuova sede espositiva de Les Grandes Locos, le vecchie officine delle ferrovie francesi, dove venivano riparati i locomotori. Il MAC è dedicato alle opere più fragili che richiedono un controllo più attento, mentre le ex officine ferroviarie, con i loro immensi spazi, permettono di installare opere monumentali. Ma la Biennale è una manifestazione di lunga durata che non insiste solo sulla città, bensì su tutta l’area metropolitana lionese e la regione Auvergne-Rhône-Alpes. Abbiamo opere che incontrano il pubblico più generico nel parcheggio Saint-Antoine, nella stazione della metropolitana di Part-Dieu, nel chiostro del Musée des Beaux Arts, all’Institut d’Art Contemporain di Villeurbanne e al Musée Gallo-Romain di Saint-Romain-en-Gal presso Vienne, mescolando le carte fra classicità e contemporaneità.
Il tema di quest’anno allude all’importanza dei fiumi, delle acque come metafora dell’incontro e dello scambio.
Il Rodano attraversa Lione da Nord a Sud e ha sempre giocato un ruolo importante nella storia e nella vita della città. Significativamente, i tre luoghi principali di esposizione si trovano sul fiume: le metafore possono essere molte. Il grande fiume possente che stratifica sedimenti formato da tanti piccoli corsi d’acqua che lo alimentano; i ponti che creano collegamenti fra due sponde e territori diversi; l’immigrazione, le popolazioni che si spostano anche sfruttando le acque, i temi dell’accoglienza. Gli artisti invitati –quest’anno sono un’ottantina e hanno dato vita a 50 nuovi progetti – si sono confrontati con il savoir-faire legato alla storia industriale della città e della regione. La tecnica della dentelle (il pizzo, ndr), o del tessuto Jacquard sono stati la base per creare una grande bande dessinée, altri artisti si sono ispirati alla storia dei quartieri per creare murales, altri ancora hanno preso spunto dai tatuaggi dei prigionieri studiati dall’antropologo criminale lionese Alexandre Lacassagne.
Chi sono i visitatori della Biennale d’art contemporain?
Mettendo insieme artisti locali e internazionali, di differenti generazioni che
operano nel campo della scultura, della pittura, delle installazioni sonore e visive, delle arti performative abbiamo l’ambizione di rivolgerci anche al grande pubblico di non specialisti, di differenti fasce sociali e di età. È da un paio di decenni che il rapporto con l’arte contemporanea è decisamente cambiato, non possiamo più parlare soltanto ad una fascia di amatori con le giuste conoscenze e i codici per interpretare le opere e la letteratura critica. Sempre meno si sente dire “Non ci vado, non fa per me”, le giovani generazioni hanno una confidenza maggiore con l’arte contemporanea. Per parte nostra – ma è una tendenza di tutti i musei e luoghi d’arte – abbiamo prestato molta attenzione ai testi esplicativi, alle audioguide e ad altri supporti, anche in lingue straniere, a produrre dei contenuti per i social. Gli artisti contemporanei sono meno conosciuti dal grande pubblico rispetto a personaggi del mondo musicale o del cinema: abbiamo cercato di sviluppare lo storytelling, di far scoprire il dietro le quinte dell’attività creativa per fare in modo che si abbiamo maggiori informazioni sull’opera che si vedrà esposta.
AGE-FRIENDLY MUSEUM:
VERSO UN MUSEO A MISURA (ANCHE) DI ANZIANI
EMMA SEDINI
Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità e di godere delle arti”. La Dichiarazione dei Diritti Umani parla chiaro: chiunque deve poter accedere alla cultura, e dunque ai luoghi in cui questa si sviluppa ed è fruibile. I dati raccolti sul territorio italiano, però, comunicano una situazione contraddittoria a questo diritto.
Per quel che riguarda la fascia più anziana della popolazione (65 anni e più), solo il 24,6% anziani ha visitato un museo nel 2018, a dispetto di ciò che si potrebbe pensare. Non basta il tanto tempo libero della pensione. Ad allontanare dai luoghi della cultura ci possono essere diversi ostacoli e difficoltà, che rendono i musei scomodi, fonte di disagio o del tutto inaccessibili. E molti dei motivi principali si riconducono al corpo segnato dall’età. Un corpo certo diverso da quello degli adulti in forze, dai giovani, e persino dalle persone con disabilità, in cui spesso gli anziani sono genericamente inclusi. E ciò che rende tutto più difficile è lo stigma diffuso attorno alle persone anziane, viste come ipersensibili, poco produttive, scomode da gestire, e persino un fardello sociale
Se però si considerano le stime per il futuro – nel 2050 gli over 65 saranno circa il 35% della popolazione mondiale (ilSole24Ore, 2024) con picchi nei Paesi dell’Occidente – ignorare e nascondere il problema è un palliativo dai minuti contati. E questo vale anche nel mondo della cultura e dei musei che – al contrario – potrebbero rivelarsi risorse straordinarie, fino ad ora quasi mai sfruttate. Sostenere che l’arte faccia bene a corpo e mente è ormai più che un detto comune: è un fatto scientifico. Le esperienze artistiche e culturali possono avere un impatto concreto sul benessere fisico, psicologico, mentale, e sociale, contrastando l’invecchiamento e le malattie annesse (demenza, Alzheimer, depressione…). Sono dunque occasioni di grande valore, tanto per la persona anziana, quanto per chi sta attorno e per l’intera società.
Parola d’ordine: accessibilità
Perché questo ideale si realizzi – perché i musei e gli altri luoghi della cultura diventino fucine di esperienze benefiche per gli anziani – c’è una precondizione: la piena accessibilità e la creazione di contesti e attività che rispondano ai bisogni specifici degli anziani, allontanando gli stigmi e promuovendo piuttosto un’attenzione e un’accoglienza inclusiva, che sappia valorizzare il patrimonio di storia, esperienze e vissuti, di chi ha alle spalle sessantacinque e più primavere. Corpo, mente, sensibilità: un profilo particolare da approcciare, quello delle persone anziane. Complesso, e che ancora trova poche risposte da parte dei musei. Si pensa ai bambini, alle persone con
Quanto sono accessibili i musei italiani per le persone anziane? Una domanda che tocca una delle frontiere della museologia del futuro. In una società dalle aspettative di vita sempre più lunghe, è essenziale capire i bisogni specifici di un corpo e una mente non più giovani. E disegnare soluzioni adeguate. Abbiamo raccolto le testimonianze e i progetti più interessanti di chi si è già posto il problema
disabilità, e si semplifica includendoli in quest’ultima – generica – categoria, spesso demoralizzando il potenziale (mancato) visitatore. Ci sono numerosi studi e progetti che affrontano patologie particolari (Alzheimer, Parkinson e demenza) ma quasi niente rivolto a chi – semplicemente – non è più giovane, ma neppure soffre di simili disturbi. La scarsità di modelli su come comportarsi per accogliere questo pubblico finisce per allontanare, anziché stimolare a prendere l’iniziativa.
È ora di superare i pregiudizi, dando voce a questo target potenzialmente di grande valore – i dati ci dicono che i (pochi) visitatori anziani sono anche i più affezionati, con un 12% (risultato migliore) di visite ripetute nel 2018 (fonte: ISTAT) – e del tutto inesplorato. Con questo obiettivo, aspirando a contribuire al discorso che punta a un museo age-friendly in grado di accogliere prontamente anche gli anziani (senza per questo distogliere l’attenzione dagli altri pubblici) abbiamo sondato il terreno. Abbiamo raccolto testimonianze, pratiche, output di esperimenti e studi, e conoscenze accumulate dagli enti e ricercatori internazionali che già si sono posti simili domande. Poi qui, nella Penisola, ci siamo fatti raccontare – da chi li ha vissuti e ideati – i progetti più interessanti pensati su misura per i pubblici anziani. In nome di un’accoglienza che non sia divisiva, ma insegni a rispettare, accettare (e accettarsi), e valorizzare anche corpi e menti non più giovani, ma ancora meritevoli di attenzione e dignità.
QUANTO SONO ACCESSIBILI
I MUSEI ITALIANI
PER GLI ANZIANI? IL QUADRO
I NUMERI COMPLESSIVI
Secondo quanto riportato dall’ISTAT nella più recente Indagine sui musei e le istituzioni similari (2018), c’è ancora un po’ di lavoro da fare prima di poter raggiungere un buon livello di accessibilità. Considerando un totale di 3.501 musei attivi, e un complesso di visitatori ( record rispetto agli anni precedenti) di oltre 63 milioni, gli anziani non superano il 20%. Le percentuali maggiori si registrano al Sud, ma il dato è poco indicativo, considerando il grande numero di turisti giovani che frequentano le grandi città del Centro e del Nord. A livello di popolazione italiana, gli over 65 che hanno visitato almeno un museo nel periodo di riferimento sono il 24,6%. Vale però il detto “pochi ma buoni”. Si tratta infatti del target di età più fedele in termini di assiduità di presenza –una potenziale miniera d’oro per i musei che riescono a conquistarne la fiducia – con il 12% di individui che hanno visitato più volte un museo nell’anno. In paragone, i giovani tra gli 11 e i 17 si attestano al 6% scarso.
LE STRUTTURE E I SERVIZI MUSEALI PER L’ACCESSIBILITÀ
Analizzando lo scenario in termini di strutture e servizi adeguati a soddisfare molti comuni bisogni dei visitatori più fragili, si notano luci e ombre. L’Italia è storicamente tra i Paesi più all’avanguardia in termini di misure per l’eliminazione delle barriere architettoniche (le prime regole risalgono al 1971). I musei riflettono almeno in parte questa realtà, con il 63% di strutture adeguate. Ma si cade altrove.
Solo il 34% ha personale di assistenza disponibile, e pochissimi (15%) offrono materiali e percorsi a supporto di coloro che hanno esigenze di udito e vista, o ridotte capacità cognitive. Nonostante sia chiara l’importanza di disporre di sedute e aree di sosta lungo il percorso, solo un museo su tre sembra essere attrezzato. Un ultimo dato da citare riguarda le campagne di comunicazione dell’offerta e delle attività culturali. Un quarto i musei che nel 2018 hanno organizzato una campagna specifica per il target di persone anziane. I riconosciuti effetti molto positivi di queste azioni promozionali (fonte: Giammanco et al., 2022) suggeriscono che sia uno dei primi aspetti su cui i musei che vogliono essere age-friendly devono lavorare.
L’opportunità di investire in accessibilità museale si è presentata proprio di recente, con i fondi messi a disposizione dal P.N.R.R. per il triennio 2022-2025. Una parte di essi è infatti destinata agli interventi in archivi, biblioteche e musei. I progetti sono in itinere, il tempo ne rivelerà gli effetti.
Segni Spontanei, MA*GA. Courtesy MA*GA
MUSEI A MISURA DI ANZIANI. OTTO CASI DALL’ITALIA
ATTIVITÀ PER UNIRE E NON PER DIVIDERE. L’ACCADEMIA CARRARA DI BERGAMO
1Rispondere ai bisogni specifici dei pubblici fragili è una sfida delicata. Come già accennato, incombe sempre il rischio di sviluppare iniziative che dividono e isolano, a discapito dell’accessibilità. Come è vero per le soluzioni di universal design, anche le attività culturali dovrebbero puntare a includere, e non separare. Ovviamente non tutti i casi lo permettono. L’Accademia Carrara offre alcuni spunti di progetti fruibili da tutti, adulti o anziani che siano. Chi ne è incuriosito può unirsi, senza limiti di età.
Si tratta di idee nate sì in principio per esigenze particolari – come per persone con demenza e per i loro caregiver – ma che sono oggi proposte aperte a chiunque voglia vivere il museo in modo diverso: più lento, riflessivo e ricco di stimoli emotivi. Una spinta all’inclusione e ad un’accessibilità sempre più ampia. Custodire le memorie, il primo progetto, prevede percorsi visita su misura per un pubblico anziano (ma non solo) con poche opere, scelte con cura nei temi e nelle storie che hanno alle spalle. L’obiettivo è creare da un lato esperienze adatte alle particolari capacità cognitive e psicologiche dei partecipanti, e dall’altro offrire visite lente e insolite a chi si vuole aggregare.
Un’altra iniziativa che continua a raccogliere successi è Dance well. Nato per persone malate di Parkinson, è diventato un appuntamento per un pubblico molto più vasto, attirato dall’idea di migliorare la propria mobilità danzando circondati dalla bellezza delle opere del Museo I benefici? Motori, ma anche emotivi e sociali.
La terza proposta – Una Carrara al mese. Il museo visto dai Centri per Tutte le Età – coinvolge nello i pazienti delle RSA e i loro caregiver in percorsi di slow art appositamente pensati per facilitarne accessibilità e coinvolgimento: dalla scelta degli artisti, fino alle immagini da inserire nei materiali comunicativi. Quest’ultimo caso dimostra come – anche laddove il target richiede iniziative specifiche – l’offerta possa (e debba) essere estesa anche a coloro che li circondano e vivono accanto a loro.
PROGETTARE UN MUSEO LIQUIDO
CHE SI ADATTA AI BISOGNI REALI E VIRTUALI. IL MUSEO ARCHEOLOGICO DI CAGLIARI
2L’idea di costruire un Museo Liquido – un ente vivo, capace di adattarsi all’evolversi dei bisogni della società – prende forma dalle esigenze dei visitatori, tanto reali ma ancor più virtuali. E porta a sviluppare soluzioni che migliorino l’accessibilità fisica in loco, e la comunicazione digitale. Questa è la strada seguita dal Museo Archeologico Nazionale di Cagliari a partire dal 2014, e che guida tutt’ora i nuovi investimenti innovativi. Tra le iniziative per abbattere varie barriere – cognitive, sensoriali, fisiche e tecnologiche –spiccano queste ultime: azioni a supporto di una fruizione virtuale ricca e inclusiva. Considerando l’entità del Grey digital divide odierno, le barriere tecnologiche risultano particolarmente significative per il pubblico più anziano. In risposta, il Museo Liquido facilita l’esperienza online, offrendo un sito web costruito secondo le direttive AGID (Agenzia Italiana per il Digitale) per l’accessibilità, che include informazioni utili e una Digital Library con i reperti in collezione. Data la significatività dei cataloghi digitali come fonte informativa per gli anziani si tratta di una novità potenzialmente molto utile. E lo stesso vale per il tour virtuale, che consente di visitare le sale del museo per immagini anche da casa. Un’opportunità preziosa per chi si trova impossibilitato a uscire e muoversi. È infatti dimostrato che anche le semplici esperienze artistiche virtuali – svolte, ad esempio, in un contesto di cura ospedaliero – possono avere un effetto positivo sulla psicologia e il benessere dei partecipanti. Una risorsa preziosa, quella de digitale nei musei, che crea promesse per un futuro in cui siano accessibili – e dunque utili – anche a chi per motivi di fragilità non può sempre raggiungerli di persona.
COME
RACCONTARE L’ARTE CONTEMPORANEA AGLI ANZIANI. IL MUDAC DI CARRARA
Cinzia Compalati, Direttrice MUDAC
Andrea Ginocchi, esperto in educational del MUDAC
3Il pubblico più anziano, indipendentemente dalle capacità mentali, possiede un patrimonio di esperienze ed emozioni in grado di entrare in relazione e arricchire qualsiasi tipo di collezione museale, anche di arte contemporanea. Questa è la convinzione del MUDAC di Carrara, che guarda oltre le barriere cognitive che spesso si associano all’arte più recente e innovativa. Nel raccontare le opere agli anziani in modo efficace, tutto dipende da alcune accortezze che – se applicate – permettono di raggiungere grandi risultati. Si tratta, ad esempio, di sviluppare una narrazione molto chiara, di usare toni di voce abbastanza alti, scegliendo percorsi con punti di sosta per poter ammirare le opere nei tempi e nei modi adeguati al target. Così facendo, il museo diventa un luogo di cura nel senso ampio del termine: un posto piacevole e accogliente per tutti. Mettendo in pratica queste linee guida, il MUDAC – che è inoltre parte del circuito MTA (Musei Toscani per l’Alzheimer) – ha dato vita al primo ciclo di incontri dedicati agli anziani ospiti di due RSA locali. Con il progetto L’arte che è in noi, opere di arte contemporanea come quelle di Gigi Guadagnucci, Fabio Viale e Aldo Mondino, si sono svuotate dei loro significati originari, diventando una chiave per dialogare con questo pubblico particolare. Grazie a tecniche narrative specifiche – come il TimeSlips – e strumenti in grado di riattivare i sensi (musica, conchiglie, foulards di seta) l’arte si fa terreno fertile per rievocare emozioni, riattivare la mente e il cuore, e persino per realizzare arte performativa che abbia come protagonisti gli anziani stessi.
LA SLOW ART PER RISCOPRIRE UNA FRUIZIONE ADATTA A TUTTI. I MUSEI DI PISTOIA
Alessio Bertini, responsabile attività educative dei Musei di Pistoia
4Con il progetto il Piacere dell’arte, Fondazione Pistoia Musei (un altro membro del circuito MTA) dimostra come esperienze di slow art – osservazioni lente di 45 minuti davanti a una sola opera – si possano rivelare occasioni preziose per avvicinare il pubblico più anziano all’arte, ma non solo. Il racconto di chi le ha vissute, di chi ha partecipato a questi momenti di contemplazione e discussione in cui ciascuno può esprimersi, testimonia come l’arte lenta sia di valore per tutti i partecipanti. È infatti un modo nuovo – diverso dalla solita frenesia di visita – per entrare in contatto con i musei.
Per quel che riguarda nello specifico le persone fragili a cui le attività di slow art sono rivolte, i benefici vanno oltre l’avvicinamento all’arte. Ciascun appuntamento è pensato per stimolare una discussione, che arriva a toccare – a partire dall’opera – anche temi di solito difficili da affrontare nel quotidiano per un anziano, ma molto attuali. Sessualità, stupro, violenze: discorsi che l’arte lenta permette di affrontare. In ultimo, lo svolgimento delle sessioni a museo aperto, insieme al resto dei visitatori, aiuta a combattere il senso di isolamento e lo stigma che rischia di crearsi attorno a queste persone. Un ulteriore fattore che dimostra come la slow art sia fatta per unire e non dividere.
IL DIGITALE A SERVIZIO DELLE PERSONE ANZIANE.
IL PROGETTO DEL LABIRINTO DELLA MASONE
5Rimanendo in ambito tecnologico, il Labirinto della Masone di Fontanellato (PR) offre un secondo esempio di come il digitale – a dispetto delle situazioni in cui è visto come ostacolo – possa essere integrato nelle esperienze culturali per favorirne l’accessibilità. Parliamo del nuovo progetto dedicato ai pubblici più fragili realizzato con il team di professionisti di Spazio Geco, che si concretizzerà nell’inverno 2024. È per loro un grande passo avanti in termini di inclusività e tecnologia, che prevede la realizzazione di una piattaforma web, su cui verrà digitalizzato tutto il Parco Culturale del Labirinto. Museo, parco botanico e servizi, diventeranno fruibili in digitale, con strumenti e format adatti a tutte le esigenze. Particolare attenzione è infatti stata dedicata a studiare le soluzioni ideali per chi – come le persone anziane – vede spesso la tecnologia come un ostacolo. Grazie alla possibilità di modificare font, dimensioni e contrasti dei contenuti, la piattaforma permetterà un facile utilizzo anche da parte di chi ha difficoltà di vista e apprendimento. Così facendo, sarà possibile scoprire il Labirinto in modo nuovo, con allestimenti e materiali immersivi e interattivi e alla portata di tutti. Ma c’è di più. Il progetto si propone di agire su un’altra barriera che limita l’accesso alla cultura. Quella della raggiungibilità del museo, per chi ha limitazioni motorie, e non può spostarsi da casa. La piattaforma offrirà infatti tour virtuali da remoto e la possibilità di assistere agli eventi in streaming, così da rendere efficace la partecipazione culturale anche per chi non può esserci sempre fisicamente.
TAI CHI E ATTIVITÀ MOTORIA PER IL BENESSERE FISICO DEGLI ANZIANI. IL PROGETTO DI BRESCIA MUSEI
Il 2024 è stato un anno di grandi progetti sperimentali per i Musei di Brescia, che sono valsi la vittoria del Bando Cariplo per la Cultura 2026. Progetti che partono proprio dai bisogni fisici del corpo segnato dall’età, e ripensano il Museo come luogo benefico per combattere le debolezze e promuovere al contempo la cultura. Nei mesi estivi, due volte la settimana, il parco di Santa Giulia ha ospitato un corso di Tai Chi, con visite guidate alla Collezione. Un’iniziativa pilota, dal duplice intento di mantenere in forma le persone anziane e far scoprire loro le bellezze del Museo.
Il Bando Cariplo finanzierà un ulteriore progetto, previsto da settembre 2024 a maggio 2025. Il lunedì – giorno di normale chiusura – diventerà l’occasione per sfruttare le sale vuote per attività fisiche e motorie. I target in questo caso saranno le persone che soffrono di diabete (tra cui si contano numerosi anziani) – per le quali è importantissimo fare movimento – che potranno anche partecipare a un programma di passeggiate città, per scoprire nuovi luoghi culturali e artistici del territorio.
COME RENDERE ACCESSIBILE A TUTTI UN PARCO ARCHEOLOGICO? LA RISPOSTA DI POMPEI
Per chi – come le persone anziane – ha difficoltà fisiche e motorie, i parchi archeologici sono spesso visti come un luogo inaccessibile. Troppi dislivelli, superfici sconnesse e scivolose, e percorsi lunghi e faticosi. Tutte fonti di timore, che scoraggiano la visita, imponendo un’insormontabile barriera fisica nei confronti di molte bellezze italiane. Il Parco Archeologico di Pompei, però, dimostra che cambiare è possibile. Con Pompei per tutti – percorso inaugurato a fine 2016 – parte del sito diventa accessibile a tutti, fornendo un modello di inclusività applicabile anche in altri contesti. Il progetto deriva dal riscontro di diverse esigenze fisiche del pubblico, a cui si è cercato di rispondere creando elementi di collegamento metallici, che consentano una fruizione sicura e agevole di un tracciato lungo oltre tre chilometri. Allo stesso tempo, però, la presenza di queste strutture è poco invasiva, sviluppata a partire dalla morfologia del terreno, e non danneggia dunque il patrimonio storico-artistico preesistente. Si tratta di una soluzione che dimostra come sia possibile rendere accessibile anche ai più fragili i siti archeologici, senza che questo vada a discapito della loro bellezza e integrità.
VISITARE MOSTRE DI ARTE CONTEMPORANEA PER SENTIRSI GIOVANI. IL CASO DEL CHIOSTRO DEL BRAMANTE
Natalia De Marco, Direttrice Chiostro del Bramante
Accanto a musei che si trovano ad affrontare situazioni di pubblici particolarmente fragili, non manca l’eccezione che conferma la regola e testimonia la varietà di ciò che genericamente definiamo anziani. L’esperienza recente del Chiostro del Bramante di Roma – affermato polo culturale dal passato di grandi mostre di arte antica e moderna – racconta un risvolto inatteso ma molto promettente. Da quando ha cambiato la programmazione orientandola all’arte contemporanea, dopo un primo periodo di calo, il numero di visitatori non più giovanissimi è esploso. Mossi dal desiderio di rigenerarsi, dimenticare le preoccupazioni e sentirsi giovani, gli anziani sono ormai un pubblico numeroso delle mostre innovative e interattive che il Chiostro propone. Di più: danno prova di rimanere pienamente soddisfatti da queste occasioni, consapevoli di aver fatto qualcosa di culturalmente “elevato” e al contempo “alla moda”, che possono raccontare ai loro amici e familiari. Questa testimonianza esprime uno dei risvolti positivi che l’arte di oggi può avere sul pubblico anziano, che si sente così pienamente partecipe della vita culturale normalmente attribuita ai target più giovani. Dal lato organizzativo del museo, questo interesse inatteso richiede di pensare in modo differenziato tanto la comunicazione, quanto il materiale a corredo delle esposizioni. Se per i giovani funzionano i social e QR code, le persone anziane si incuriosiscono soprattutto vedendo le pubblicità sui manifesti appesi in città, o grazie al passaparola dei conoscenti. E preferiscono una brochure stampata a caratteri grandi, piuttosto che un link da fotografare e aprire sul cellulare. Tutte informazioni da prendere come base per disegnare i progetti futuri, intesi a un’accessibilità sempre più universale e differenziata a seconda dei bisogni.
AGE-FRIENDLY MUSEUM: BISOGNI E RISPOSTE
Influenzati dal “bello” assoluto greco, che – a dispetto dei secoli e dei tentativi di superarlo – ancora pervade il mondo occidentale, si tende a nascondere un corpo che mostri i segni dell’età. Una pelle non più elastica e con qualche ruga, gambe che faticano a raggiungere le distanze di un tempo. E risorse fisiche, mentali ed emotive ridotte, se paragonate all’instancabilità di qualche decennio prima. È la condizione che accomuna una fetta di popolazione sempre più consistente, e che diventa spesso oggetto di vergogna. Tanto per chi ne è il soggetto, quanto per gli altri attorno, che non vi prestano attenzione, o non sanno come comportarsi e finiscono per rimanere inerti. Le prospettive future di una società sempre più anziana rendono urgente un cambio di atteggiamento. Età non significa difformità. È solo un altro stadio della vita - in passato molto più breve e dunque meno consideratoche oggi richiede nuova attenzione. Attenzione a cogliere le differenze e le caratteristiche che meritano risposte e azioni adeguate. A livello museale – esattamente come avviene per i bambini – il pubblico di una certa età ha bisogni specifici, dettati dal fisico, dalla psicologia e dai sensi più fragili. Sulla base degli studi internazionali condotti sui visitatori più anziani, vi proponiamo qui un profilo medio con gli aspetti più importanti da considerare.
1
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Motivi di visita dei musei
→ Fare esperienze insolite e imparare qualcosa di nuovo
→ Incontrare e interagire con nuove persone, passare il tempo con nipoti e famiglia
→ Sentirsi giovani, visitando mostre ed eventi di arte contemporanea “alla moda”
Fonti informative su musei e attività culturali
→ Esperienze personali e conoscenze pregresse
→ Passaparola di amici e parenti
→ Manifesti pubblicitari
→ Centri per anziani e altri luoghi di frequentazione abituale
→ Televisione e radio
→ Quotidiani e riviste
Mezzi di comunicazione più usati
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→ Telefono
→ Posta elettronica
→ Facebook
Livello di conoscenza artistico-culturale
→ Due segmenti polarizzati:
→ Conoscenza molto bassa, spesso associata a difficoltà di comprensione che richiede pochi e semplici concetti, vicini al quotidiano
→ Conoscenza medio-alta, e curiosità ad approfondire
Bisogni fisici e di comfort di visita
→ Aree di sosta per riposarsi lungo il percorso
→ Ascensori per evitare la fatica delle scale
→ Atmosfera silenziosa e tranquilla
→ Aree parcheggio riservate
Difficoltà sensoriali e percettive
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→ Limitazioni uditive che richiedono toni di voce e suoni di livello adeguato
→ Limitazioni visive e necessità di testi stampati con font grandi che facilitino la lettura
→ Limitazioni cognitive ed esigenze di contenuti semplificati con un linguaggio adeguato, privo di neologismi
Competenze tecnologiche
7
→ Ridotte capacità di utilizzo di dispositivi tecnologici,
→ Ridotte competenze nell’accesso a Internet e siti web
→ Necessità di dispositivi e interfacce semplificati
in alto: Ascensore Fall and Fruit, Accademia Carrara, Bergamo
in questa pagina: sopra: Attività per il pubblico anziano, MUDAC, Carrara
sotto: Progetto Arte per tutte le età, Accademia Carrara, Bergamo
a fianco in alto: Attività per anziani, Pistoia Musei. Photo Giulia Del Vento
in basso: Progetto Arte per tutte le età, Accademia Carrara, Bergamo
COMFORT SENZA DIVISIONI. IL PROFILO DEL MUSEO ACCESSIBILE
Date le necessità e le caratteristiche delle persone più anziane, un museo age-friendly deve fornire adeguate risposte. Risposte utili ad assecondare le fragilità corporee, mentali e sensoriali, che mirino a unire i pubblici e non a dividerli. Non c’è nulla di più desolante - per chi è consapevole di avere qualche difficoltà – del sentirsi stigmatizzato e separato dagli altri nelle esperienze. Come esplicita il principio dello universal design – suggerito tra le linee guida museali del MIC – ciascuna soluzione deve puntare alla fruizione universale, e non a creare strade separate. Finora, i pochi studi specifici sull’argomento hanno identificato nove dimensioni di accessibilità museale – formulate a partire dai bisogni prima discussi – che potrebbero impattare l’esperienza di visita delle persone anziane. Ciascuna merita attenzione, con l’intento di mettere a punto azioni a supporto che consentano a ciascuno di vivere esperienze di qualità secondo i propri bisogni. Il primo aspetto – quello più evidente – riguarda l’accessibilità fisica, migliorabile con la realizzazione di ascensori, rampe e servizi igienici adatti a tutti indifferentemente. Molto importante è poi assicurare il comfort di visita, che richiede silenzio, tranquillità, e spazi in cui ci possa riposare durante la visita. Mentre panche e sedie distribuite su tutto il percorso alleviano la fatica fisica, uno sviluppo strategico del calendario di visite e attività per il target più anziano possono garantire esperienze prive del disagio causato dal sovraffollamento degli spazi. Scegliere fasce orarie “protette” – come il primo pomeriggio dei giorni feriali – è una buona regola non scritta da adattare al contesto museale. Si passa poi a riflettere sulle complicazioni sensoriali, dovute a problemi di udito o di vista, frequenti con l’età. In merito a ciò, si consigliano approcci easy-to-read (uno stile di scrittura facilitato in font, dimensioni e contenuto) ad alcuni supporti scritti – mobili e fissi – accanto a guide e personale formato, che sappia tenere un tono di voce forte, chiaro, e dalla velocità moderata. La formazione dello staff è utile anche per risolvere le difficoltà di interazione sociale che gli anziani posso incontrare al museo. Avere qualcuno consapevole su come gestire al meglio le attività di gruppo è infatti determinante per il successo delle attività, che dipendono molto dal clima e dalla fiducia che si costruisce tra i partecipanti.
Un altro aspetto chiave riguarda l’accessibilità dei contenuti culturali. La scelta dei temi, delle opere e degli artisti, è molto delicata e deve valutare diversi aspetti. Da un lato, il livello di difficoltà va moderato, soprattutto se il target è dichiaratamente soggetto a disturbi cognitivi (come Alzheimer o demenza). Semplicità e connessione con aspetti familiari o quotidiani sono le strategie guida più consigliate. In merito ai soggetti artistici su cui incentrare le attività, molti dei musei intervistati cercano storie legate al vissuto degli anziani, o che possano essere fonte di ricordi positivi. Da evitare – come racconta l’esperienza del MA*GA – sono i temi esplicitamente connessi al corpo, o alla riflessione sulla propria persona. Molte persone hanno infatti timore di guardarsi allo specchio, incapaci di riconoscersi. La delicatezza di questa questione è un rischio che – senza un progetto specifico alle spalle – è meglio non affrontare in contesto museale.
Gli ultimi aspetti chiave da considerare sono la raggiungibilità del museo – che deve tenere conto dei mezzi di spostamento usati e dell’importanza di prevedere parcheggi e fermate taxi/bus nei dintorni – e la comunicazione. Quest’ultima e forse uno dei più rilevanti e che più può influenzare la partecipazione del pubblico anziano. Considerando le preferenze di canali e le fonti informative più utilizzate dagli anziani, diventa importante sviluppare campagne promozionali ad hoc. Gli studi e l’esperienza suggeriscono di investire sui media tradizionali, ma ancor più su quelle persone o associazioni capaci di fare da “tramite” tra il museo e il target finale. Si parla di centri per anziani e case di cura o riposo, ma anche sui loro familiari più giovani e sui coetanei “già visitatori”. In questi casi, il passaparola di amici e parenti è il miglior canale di comunicazione che si possa pensare.
(Fonti: Giammanco et al. (2022) ; Miglietta (2017) ; Alén et al. (2012) ; Veall et al. (2017) ; Dupuis (2022) ; Hsieh (2010) )
COME ESSERE UN MUSEO AGE-FRIENDLY? QUALCHE CONSIGLIO DA CHI SE NE OCCUPA
Viste le esigenze degli anziani in termini fisici, sensoriali e cognitivi, quali sono le azioni essenziali da intraprendere per un museo?
Al di là dell’abbattimento delle barriere architettoniche – scale e forti dislivelli – è essenziale cominciare dall’accoglienza, con personale pronto ad assistere fin dal primo contatto, mostrando sensibilità di linguaggio e attenzione a chi, tra il pubblico, dimostra maggior fragilità. Lungo il percorso, dovrebbero poi essere presenti sedute per riposarsi all’occorrenza, e materiale informativo scritto con caratteri e contenuti accessibili.
E come facilitare per loro un’esperienza di visita tranquilla e silenziosa?
Se il museo viene preavvertito dell’arrivo di persone dichiaratamente anziane e fragili – come accade da noi per visite e attività di gruppo – si cerca di favorire il silenzio giocando sull’orario e sul calendario. I giorni ideali sono quelli lavorativi, soprattutto il venerdì, e le fasce orarie del primo pomeriggio o della mattina. Quando, invece, ci si trova tra i partecipanti di un giro guidato visitatori molto anziani, è l’accompagnatore stesso a curarsi di modulare la visita, cercando di sostare nei luoghi meno affollati.
Parliamo proprio delle visite guidate. Suggerimenti particolari? In aggiunta a quanto detto, è importante moderare la velocità degli spostamenti, assicurandosi che nessuno rimanga indietro o faccia troppa fatica. La durata, poi, non deve superare i 40 minuti, poiché un percorso più lungo finirebbe per stancare troppo i partecipanti.
Tra le iniziative rivolte alle fasce anziane più fragili, molti musei hanno
Marika Brocca – referente per le attività con i pubblici fragili e la terza età del MA*GA di Gallarate – ci ha illustrato le pratiche, le attenzioni, e i trucchi del mestiere da mettere in atto per accogliere al meglio i visitatori più anziani.
cominciato a collaborare con case di riposo o altre strutture del territorio. In base alla vostra esperienza, qual è l’approccio giusto con cui costruire questi progetti? Il punto di partenza è capire la fragilità specifica di chi si ha davanti. L’anziano ha una sua storia personale, ed è con questa che arriva al museo. Bisogna tenere conto che queste persone vivono proiettate nel loro tempo e nella loro quotidianità. Ne deriva che – nel pensare alle opere e ai temi da includere nei percorsi – si deve trovare una connessione tra l’arte del museo e i ricordi vissuti dall’anziano.
Quali sono – oltre allo staff del museo – le figure chiave nell’organizzazione di queste esperienze per i più fragili? Accanto al personale interno – che deve essere adeguatamente istruito sulla loro presenza e su come comportarsi –è importantissimo il ruolo svolto dagli psicologi. Per ciascun progetto ci confrontiamo con loro, così da mettere a punto attività pensate ad hoc in ogni aspetto: dai materiali cartacei a supporto, ai “segreti del mestiere” per con-
durre il gruppo al meglio, evitando che qualcuno vada in confusione. Tutte le visite e i laboratori per pubblici speciali sono prenotati e concordati in anticipo con i rispettivi educatori e caregiver (familiari/persone a supporto).
Quando si tratta di coinvolgere in modo attivo i partecipanti – come nelle attività manuali – l’assistenza di questi ultimi è necessaria per la riuscita.
In questo contesto, l’interazione è un punto molto delicato. Come si instaura un dialogo positivo con gli anziani?
Il metodo migliore è strutturare un racconto semplice e poco interattivo, considerando che le persone coinvolte sono spesso timide e insicure. Se, però, qualcuno vuole parlare o fare una domanda, non va ignorato. In questi casi, tendiamo a dare spazio ai partecipanti, modulando il dialogo in modo tale che anche altri – se desiderano – possano prendersi il loro momento di parola, arginando eventuali eccessi. Tutto si gioca in un delicato equilibrio, un po’ come fosse una danza che noi educatori siamo chiamati a condurre.
Lo sguardo di Gianni Berengo Gardin sulle ceramiche
Marazzi di Sassuolo
Angela Madesani
Celebra i cinquant’anni dall’invenzione di un brevetto rivoluzionario nel settore ceramico, quello della monocottura rapida, la mostra Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci a Sassuolo. Le immagini del maestro italiano, oggi novantaquattrenne, sono esposte nelle Sale della Musica, degli Incanti e dei Sogni di Palazzo Ducale.
GLI SCATTI INDUSTRIALI A COLORI
È il 1977 quando Gianni Berengo Gardin viene chiamato dalla Marazzi a documentare le nuove linee ‘veloci’, che producono tonnellate di piastrelle per le nuove case degli italiani. Il suo sodalizio con l’industria aveva preso il via a Milano nel 1965 quando comincia a lavorare per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli, e soprattutto per Olivetti.
Quelle alle quali dà vita sono immagini completamente diverse dalle sue più note, in bianco e nero, in cui l’uomo è protagonista. Sono queste, infatti, fotografie a colori in cui si colgono le forme degli oggetti, la velocità della produzione. I soggetti seriali, i macchinari, gli ambienti proposti riescono a rendere l’atmosfera all’avanguardia di quel particolare momento della storia dell’industria italiana. Ogni tanto sbuca qualche traccia umana, una mano, un braccio, ma il lavoro è incentrato sugli oggetti e sul loro ritmo fenomenico.
FOTO “SOGNANTI, COLORATE, QUASI ASTRATTE”
“Mi fu chiaro subito come la sfida professionale fosse quella di riuscire a cogliere il flusso veloce dei colori, la scia dinamica delle forme. Il colore, che ho usato sempre poco, si imponeva,
quindi, come scelta”, racconta l’artista. “Provai inoltre a lavorare in modo diverso da quel che normalmente facevo. Qui cambiavo spesso la distanza, avvicinandomi molto ai soggetti, per riuscire a cogliere i dettagli, i frammenti di quel che vedevo e realizzare così foto diverse dalle altre: sognanti, colorate, quasi astratte”. La mostra è accompagnata da un volume, pubblicato da Contrasto, con i testi della curatrice Alessandra Mauro e dello stesso Gianni Berengo Gardin, che va ad arricchire la sua gigantesca produzione libraria, costituita da più di 250 volumi.
Si tratta, dunque, di un’occasione di scoperta di una parte inedita del lavoro di uno dei più noti fotografi italiani, una scoperta per certi versi spiazzante per quanti pensano a un autore dedicato perlopiù a tematiche squisitamente sociali in cui le persone sono protagoniste.
Artribune ha chiesto ad Alessandra Mauro, curatrice della mostra, di raccontare la storia del lavoro che Berengo Gardin ha realizzato per Marazzi.
Con uno strano gioco numerico quarantasette anni fa un fotografo di quarantasette anni ha accettato un incarico per realizzare delle immagini a colori: un’insolita situazione per Gianni Berengo Gardin. Ma come ogni bravo fotografo, e come è nella sua indole, Berengo si mette al lavoro e cerca di cogliere il meglio di quel che accade intorno a lui e dell’atmosfera in cui si trova. Del resto, non avrebbe avuto senso, nel tripudio di velocità e colori, lavorare in bianco e nero.
Come mai le foto sono a oggi ancora inedite?
Questo era un lavoro su commissione e le diapositive sono rimaste da Marazzi fino a quando la volontà di storicizzare e valorizzare gli interventi artistici fatti, nel tempo, non ha fatto riemergere questo piccolo, grande lavoro. Così, qualche anno fa ci siamo messi in moto: abbiamo recuperato le diapositive, le abbiamo scelte, scansite, realizzato un bellissimo volume e ora, appunto, questa mostra.
Ci troviamo di fronte a immagini molto vivaci in cui emerge un Berengo Gardin particolare. Vogliamo parlare dell’originalità di queste fotografie?
Queste immagini rappresentano un vero unicum nella produzione di Berengo Gardin. Io per prima, che penso di conoscere bene l’archivio Berengo, sono rimasta molto colpita. Non sono certo le prime foto a colori realizzate dall’autore, che per il Touring aveva lavorato con questo linguaggio in alcune situazioni e reportage, ma qui assistiamo a un passaggio in più: il colore non solo è utilizzato in modo sostanziale, ma sembra che il fotografo si sia fatto trascinare dall’essenza stessa dei colori inseguendoli lungo le “linee veloci” e realizzando delle composizioni astratte nuovissime per lui e per il fotogiornalismo dell’epoca.
Dal 12 settembre al 3 novembre 2024
GIANNI BERENGO GARDIN. MARAZZI, LE LINEE VELOCI
A cura di Alessandra Mauro Palazzo Ducale
Piazzale della Rosa, 10 - Sassuolo gallerie-estensi.beniculturali.it
Nel tuo testo in catalogo hai scritto che il fotografo in questa serie “abbandona la giusta distanza del fotografo sociale, quella che da sempre lui utilizzata per ritrarre le persone, si avvicina agli ingranaggi e realizza una serie di visioni macro per un racconto quasi astratto fatto di elementi isolati, di forme dinamiche, di strisce di colore che girano e si perdono, di mani sapienti che si muovono sui nastri. (…) dimostra non solo di riuscire a muoversi come sempre con attenzione esatta e sottile poesia, ma di riuscire anche a fermare, in tanti frammenti di secondo, il tempo colorato e veloce del lavoro che cambia”. Che traccia ha lasciato quel lavoro nella ricerca di Berengo Gardin? Io credo che più che una traccia, queste foto siano una testimonianza formidabile di come funzioni l’occhio del fotografo. Certo, ognuno ha uno stile; ognuno ha un approccio particolare che, soprattutto nel caso di Berengo Gardin, l’autore ama seguire e riproporre, pur con tutte le variazioni che il caso suggerisce. Ma un grande fotografo deve avere anche la duttilità di sguardo e di pensiero per cogliere al volo la peculiarità della situazione che ha di fronte. Deve avere l’intelligenza di inventare ogni volta una modalità narrativa nuova, avvincente e commisurata con quel che deve riprendere: in questo caso, l’emozione della velocità e dei nuovi tempi che arrivano. E come sempre, anche qui, Berengo ha dato prova di essere un grande autore e il suo, è un grande sguardo sull’Italia.
Il Palazzo Ducale, era la residenza estiva e “delizia” della corte estense e una delle più importanti residenze barocche dell’Italia settentrionale
La grande chiesa di San Francesco con il Santo Tronco, crocifisso miracoloso esposto al bacio dei fedeli il giovedì e venerdì santo e portato in processione
Il vicino Castello di Montegibbio, dove è anche custodita l’acetaia comunale di Sassuolo, curata dai Custodi dell’Arte dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena
MARAZZI, BREVE STORIA DI UN’AZIENDA ITALIANA
La prima fabbrica di Marazzi Ceramiche nasce nel 1935, in pieno fascismo, a Sassuolo, in provincia di Modena. L’azienda, che in quel momento era una delle poche, si distingue per l’attitudine alla sperimentazione che la porta a utilizzare le tecnologie più avanzate. Quella che era nata come una vicenda legata al mondo dell’artigianato diventa ben presto una storia industriale. Per comprendere il senso di questo lungo cammino è utile leggere le parole di Filippo Marazzi, presidente dell’azienda dal 1978 al 2012: “Trasformare la materia attraverso la forma, la luce e il colore per renderla viva: questo per Marazzi è fare ceramica una vocazione e un impegno che si sono nel tempo estesi a un più ampio disegno di ricerca, in cui l’azienda ha coinvolto artisti, architetti, designer”. Il dialogo con l’arte inizia sin da subito e negli anni ’40 si instaura un rapporto con Venerio Martini, che continua poi con Giò Ponti e Alberto Rosselli con cui nasce la piastrella “quattro volte curva”. Degli anni ’70 è l’incontro con il mondo della moda. A metà dello stesso decennio Marazzi avvia il lungo rapporto con Luigi Ghirri, oggetto di una recente mostra. Nello stesso periodo cresce il Crogiòlo, un centro di ricerca aperto ad architetti, designer, artisti e fotografi di fama internazionale, in cui nascono le Sperimentazioni, piastrelle d’autore. Rimarcando quella relazione tra la produzione di Marazzi e le diverse espressioni artistiche: “una storia”, ricorda l’amministratore delegato di Marazzi Group Mauro Vandini, è “che più volte si è intrecciata e ha incontrato grandi maestri dell’obiettivo, come Luigi Ghirri, Charles Traub o Cuchi White, e della matita, come Giò Ponti, Nino Caruso o Paco Rabanne, lasciandoli ogni volta liberi di sperimentare e di raccontare Marazzi dal loro punto di vista”. Spazio quindi alle fotografie di Gianni Berengo Gardin, in cui si riscopre “la fabbrica di allora e quell’attitudine alla sperimentazione che Marazzi ha continuato a coltivare nel tempo, affiancando alla ricerca di nuovi prodotti e processi, la promozione di letture differenti, personali, d’autore, della ceramica e del lavoro, che rappresentano oggi per noi un patrimonio inestimabile, accumulato in ormai 90 anni di storia, e una fonte inesauribile di ispirazione”.
a sinistra: Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci, installation view, Palazzo Ducale, Sassuolo.
Baj tra Milano e la Liguria. Quando l’arte radicale sa essere spiritosa
Stefano Castelli
La linea ironica è spesso rimasta sottotraccia, nell’arte italiana. Non sono mancati, nel corso del secondo Novecento, spunti di raffinato humour e forme di espressione spiritose nel senso più alto del termine. Questi sono stati tuttavia relegati in secondo piano a causa della seriosità di stili dominanti come l’Informale prima e il generale concettualismo poi. Con una grande eccezione: Enrico Baj (Milano, 1924 - Vergiate, Varese, 2003), uno dei massimi rappresentanti di questo approccio, con la sua filosofia Patafisica e con la sua costante capacità di analizzare le evoluzioni della società - anche ponendosi in forte opposizione - e di trovare la sintesi espressiva più felice e paradossale.
Risulta dunque più che meritata la grande celebrazione che gli riservano nel centenario dalla nascita Milano, con un’antologica al Palazzo Reale, Savona e Albissola, con una mostra in più sedi che analizza il suo lavoro con la ceramica. Baj chez Baj è il titolo generale dell’iniziativa, non solo per sottolineare l’unità del lavoro dell’artista – le sue incursioni nelle arti “minori” non sono per nulla divertissement secondarima anche perché Milano e la Liguria sono tra i “suoi” luoghi, dove visse ed ebbe esperienze professionali importanti.
Un affascinante palazzo ottocentesco pieno di gallerie d’arte contemporanea nel suggestivo Quadrilatero del Silenzio in Porta Venezia, in via Rossini
Il nuovo Parco della Luce dell’edificio Monte Rosa 91 del Renzo Piano Building Workshop con tre grandi opere d’arte pubblica di Cecchini, Arienti e Airò
Magico, laboratorio d’incisione nascosto nel cortile verde di Palazzo Galloni sui Navigli
DALL’ARTE NUCLEARE ALLA FUSIONE DI INFORMALE, DADAISMO E SURREALISMO
Al Palazzo Reale, con la curatela di Chiara Gatti e di Roberta Cerini Baj, cinquanta opere coprono il periodo primi anni Cinquanta-inizio Duemila, dimostrando la varietà assoluta di continue invenzioni che però non sono mai estemporanee: l’eclettismo della sua ricerca attinge a piene mani da istanze, cultura visiva e materiali della società di massa (per alcuni aspetti, la sua poetica è stata approssimativamente assimilata al Pop). Il Nuclearismo, naturalmente, rimane una delle sue invenzioni maggiori. Dopo la Seconda Guerra Mondiale,
prima della ricostruzione e del boom, il mondo si trovava stretto nelle prime fasi della Guerra Fredda, mentre l’arte cercava di metabolizzare l’eredità delle Avanguardie storiche e soprattutto del Surrealismo. Ecco che questa prima fase di Baj, con principale sodale Sergio Dangelo, fonde in maniera imprevista l’Informale allora imperante e il lascito di Dadaismo e Surrealismo, ironizzando allo stesso tempo in maniera impagabile sulla seriosità della nuova ricerca pittorica. La sua “bad painting” ante litteram, in parte ispirata dal gruppo Cobra, rappresenta in questo periodo inquietanti masse di materia e “non colore”, nelle quali si trovano incastonate immagini tratte dalla
Palazzo Reale
comunicazione, figure che si aggirano prive di coordinate spaziali e temporali.
BAJ, FUSTIGATORE DELLA
CULTURA DI MASSA SENZA ERGERSI A MORALISTA
Non mancano poi ovviamente in mostra i suoi cicli successivi, molti dei quali celebri (ma forse non sempre considerati appieno): le Dame e i Generali, ad esempio, rimangono anche a distanza di decenni perfette analisi della vanità del potere, della ricerca di una velleitaria distinzione dell’individuo all’interno di una società massificata, della superbia che caratterizza l’affermazione mondana. I cicli degli Ultracorpi, degli Specchi, del Meccano, dei Mobili e dell’Apocalisse fanno poi capire come la sua analisi della cultura di massa sia leggermente decentrata rispetto alla mera introduzione nell’opera d’arte di spunti e oggetti comuni, come invece faceva la Pop Art. I suoi materiali sono invece da subito “nostalgici”, franchi nel dichiarare la loro fattura artigianale e un po’ desolata anche quando vorrebbero ostentare il lusso. Radicale e antiborghese, Baj fustiga i costumi senza ergersi a maestro di morale, ma “sporcandosi le mani”.
I FUNERALI DELL’ANARCHICO PINELLI
La mostra milanese diventa ancor più importante grazie alla presenza dei Funerali dell’anarchico Pinelli, che tornano nella sala delle Cariatidi a dodici anni dalla precedente esposizione nello stesso luogo. E soprattutto a cinquantadue anni dalla loro mancata esposizione. Nel 1972, la monumentale opera doveva essere presentata al Palazzo Reale. L’uccisione del commissario Calabresi fece considerare inopportuna l’iniziativa e la mostra venne annullata. Oggi l’opinione pubblica, che è priva di una definitiva verità processuale sulla morte di Pinelli ma nutre pochi dubbi su come andarono le cose (anche tramite l’intermediazione e la divulgazione di grandi artisti come Dario Fo), può ritrovare un monumento di impegno civile che si ispira liberamente alla Guernica di Picasso, testimoniando e allo stesso tempo superando un’altra grande ispirazione che influenzò massicciamente l’arte del secondo Dopoguerra, quella del maestro spagnolo.
BAJ E LA CERAMICA
L’importante opera in ceramica di Baj è un’ulteriore conferma del suo approccio libero e della sua statura di innovatore. In un periodo in cui in Italia la pratica delle arti minori finiva addirittura per penalizzare un artista (si pensi a Fausto Melotti), lui ne fece parte integrante della
BAJ. UNA VITA
1924
Nasce a Milano 1938
Primi tentativi pittorici
1945
Si iscrive all’Accademia di Brera
Prima personale alla Galleria San Fedele di Milano 1952
Manifesto dell’Arte nucleare
1951
Primo catalogo generale 1974
Si trasferisce a Vergiate
Fine anni Settanta 1982
Mancata esposizione dei Funerali dell’anarchico Pinelli al Palazzo Reale di Milano 1973
Viaggi in Messico e in egitto
Personale al Palazzo della Ragione di Mantova 1984
Scenografia per l’Ubu Re di Jarry a Parigi
Dall’8 ottobre al 9 febbraio
BAJ CHEZ BAJ
Partecipa alla Biennale di Venezia con una sala 1972
Primi anni Novanta lavora alla Bottega Gatti di Faenza per realizzare le sue ceramiche “mitologiche”
2001
Retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma
A cura di Chiara Gatti e di Roberta Cerini Baj Palazzo Reale
Piazza del Duomo, 12 - Milano palazzorealemilano.it
Dall’8 ottobre al 9 febbraio
BAJ CHEZ BAJ
A cura di Luca Bochicchio
Museo della Ceramica di Savona, Centro Esposizioni e Casa Museo Jorn di Albissola
Marina musa.savona.it
in alto a sinistra: Enrico Baj, Berenice 1960, olio e collage su tela, 92x73 cm, Archivio Enrico Baj, Vergiate
in basso: Enrico Baj, Folla, 1992, maiolica dipinta in policromia, cm 65x531. Collezione Confartigianato Ravenna. Courtesy Archivio Baj, Vergiate
1953
Fondazione con Asger Jorn del Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista
1954
Partecipa all’Incontro internazionale della ceramica a Savona
Prima mostra a New York 1964
1960
2003
Muore a Vergiate (Varese)
2012 I Funerali dell’anarchico Pinelli vengono finalmente esposti nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale
sua ricerca. La mostra ligure, curata da Luca Bochicchio e suddivisa tra il Museo della Ceramica di Savona, il Centro Esposizioni di Albissola Marina e la Casa Museo Jorn sempre ad Albisola, racconta della sua produzione che fu già all’epoca esposta in loco ma anche in altri centri nodali della ceramica come Faenza. Particolarmente significative sono le ceramiche del periodo Nucleare, con la materia che trionfa nel diventare massa allo stesso tempo compatta e frastagliata, capace di irridere con la sua paradossale raffinatezza all’idea classica di “decorazione”. Così come sono notevoli quelle che testimoniano del postsurrealismo e quelle che giocano apertamente con il concetto di kitsch. Concetto quest’ultimo con il quale in fondo Baj ha giocato lungo tutta la sua carriera, fermandosi sempre al perfetto punto di congiunzione tra una volontà di testimonianza fedele della cultura diffusa e una capacità di trasfigurazione immaginifica, abile nel ridare spazio all’estetica in un mondo seriale e “preconfezionato”.
Uno straniero di nome Picasso, due mostre curate dalla sua biografa Annie Cohen-Solal
Nicola Davide Angerame
Annie Cohen-Solal è affabile, non ha il sopracciglio alzato dei critici d’arte eppure il suo approccio a Picasso rappresenta una rivoluzione che passa per due mostre, due cataloghi con contributi privilegiati e una biografia di oltre 600 pagine (Picasso. Una vita da straniero, Marsilio). Insieme, questi raccontano un Picasso straniero nella sua patria d’elezione, la Francia, e un Picasso poeta alle prese con le Metamorfosi di Ovidio e gli affreschi di Giulio Romano. Nelle due sedi di mostra, il Palazzo Reale di Milano e Palazzo Te a Mantova, sono raccolte 130 opere e molti documenti, con percorsi realizzati in collaborazione con il Musée national Picasso-Paris e il Musée National de l’Histoire de l’Immigration di Parigi, più la famiglia Picasso.
Con un approccio da sociologa dell’arte, e mossa da empatia, la doppia curatrice accede ad archivi e documenti a cui nessuno era ancora giunto, svelandoci un Picasso osteggiato ma vittorioso sulle guerre e sui nazionalismi, quello francese in primis. Ebrea sefardita, Annie Cohen-Solal è nata in Algeria, come suo zio Jacques Derrida: straniera a modo suo, a 28 anni, nel 1985, scrive una biografia su Sartre che diventa un best-seller; da allora la sua carriera non conosce confini. Oggi insegna alla Bocconi e vive tra Milano, Parigi e Cortona.
INTERVISTA AD ANNIE COHENSOLAL, CURATRICE DELLE DUE MOSTRE SU PICASSO
Cosa sarebbe stata l’arte di Picasso se non fosse rimasto straniero nella sua patria d’elezione, la Francia?
Avrebbe comunque dipinto Guernica, ne sono certa. Sono entrata nella vita di Picasso leggendo tutti i cataloghi custoditi all’École normale supérieure di Parigi, poi ho scritto un libro inchiesta. Da quando Leo Castelli mi introdusse all’arte americana, mi sono dedicata all’arte dal punto di vista dell’immigrazione, è l’originalità del mio lavoro. Da 40 anni ne scrivo con questo approccio.
Cosa la lega a Picasso?
Lui è rifiutato dalla Francia perché non appartiene al sangue e alla terra; è quel che ho sentito io, in quanto ebrea, arrivando in Francia dall’Algeria a 14 anni. Negli archivi della prefettura ho ritrovato quello “sguardo dell’altro” che, come diceva Sartre, ti trasforma in uno straniero.
Si sentiva così Picasso arrivando a Parigi?
Sapeva anche di essere un genio, dialogava con Velázquez. A 14 anni aveva copiato il ritratto di Filippo IV e la sua copia è meglio dell’originale. Eppure sei anni dopo, nella Francia dell’affaire Dreyfus, per la polizia è un reietto. Picasso entra dalla porta di servizio, con i catalani che sono stigmatizzati come anarchici. La sua vita interiore si riflette nella corrispondenza e nella sua arte. Gli archivi del Museo Picasso contano ancora 200mila documenti inediti, io ho letto le 4mila lettere della madre, che gli scrive quasi ogni giorno per 40 anni. Nel 1931 lui esprime la sua vulnerabilità con il Minotauro cieco guidato nella notte da una bambina. Nell’inamovibile I saltimbanchi di Washington (da cui esponiamo una copia) si identifica con Arlecchino; è un quadro che racconta la xenofobia e che ha ispirato sia Rilke sia Apollinaire. Tutta l’arte di Picasso è filosofica.
Picasso richiede la cittadinanza francese soltanto nel 1940 e gli viene negata, malgrado sia appoggiato da politici influenti. Nel 1940 è uno straniero vulnerabile in Francia e “artista degenerato” in Germania, oltre che esule del franchismo in Spagna. Ha paura
dal 20 settembre 2024 al 2 febbraio 2025 PICASSO LO STRANIERO
Curata da Annie Cohen-Solal
Palazzo Reale
Piazza del Duomo, 12 - Milano palazzorealemilano.it
gruppo con Teseo, I secolo d.C., White marble, 50 × 116 × 42 cm, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Inv. 124665, Su concessione del Ministero della culturaMuseo Nazionale Romano. Photo Di Mino
di morire e chiede la cittadinanza. Ma già nel 1927 può diventare francese per una nuova legge e non ne fa richiesta. La mia domanda è: perché non gli interessa? Nel 1947, quando Picasso dona dieci opere allo Stato, Georges Salles, il direttore degli Musei francesi, dichiara: “Oggi finisce il divorzio tra lo stato francese e il genio” e gli viene elargito lo status di “residente privilegiato”. Però Picasso non diventerà mai francese: negli anni Sessanta rifiuterà la legione d’onore e la cittadinanza che gli offre André Malraux.
Il catalogo della mostra di Milano ricostruisce la storia de I saltimbanchi
Nel 1908, André Level, un collezionista molto interessante, va al Bateau Lavoir e lo acquista da Picasso, il quale ha bisogno di soldi per un viaggio. Qui, Level vede anche Les Demoiselles d’Avignon. Sono due momenti estetici diversi, separati da soli due anni di intervallo, 1905 e 1907. Level compra I saltimbanchi per mille franchi con l’accordo di pagare Picasso un diritto di seguito che nel 1914 sarà di 4mila franchi. Quando manda l’assegno, Level scrive a Picasso in un francese del Settecento, barocco, spiegandogli che lo ammira. È un altro “sguardo dell’altro” che Picasso avverte e che saprà sfruttare circondandosi di persone di primissima qualità. Il che lo rende uno stratega infallibile.
Poi c’è la questione urticante del “Kubismo”, come viene ribattezzato dai facinorosi nazionalisti francesi.
Praticamente, in Francia il Cubismo è invisibile. Intanto il mercante Daniel-Henri Kahnweiler lo vende nell’intero mondo oc cidentale, realizzando la prima globalizzazione economica in arte; quindi, Djagilev conosce Pi casso e il Cubismo in Russia. Per ca pire, serve tornare al periodo 18701914, quando il nemico più grande della Francia è la Germania. E sono proprio alcuni tedeschi ebrei a riconoscere il Cubismo. Come Picasso, anche loro vi vono a Parigi fuori dalle istituzioni, in una nazione rigidissima che ha allora nella polizia degli stranieri e nell’accademia di belle arti due istituti conservatori e nazionalisti. Nel 1914, Picasso diventa ricchissimo e il Cubi smo viene osannato in tutti gli imperi dell’est. Intanto a Parigi vengono seque strate 800 opere cubiste poi svendute in un’asta terribile, dal ‘21 al ‘23, e trat tate come un bottino di guerra. Tutto ciò fa di Picasso una vittima collate rale della xenofobia contro i tedeschi.
Les Demoiselles d’Avignon, MoMA, è un altro capitolo di questa storia xenofoba.
Nel 1939 Alfred Barr, direttore del MoMA, compra il quadro che André Breton aveva consigliato a Jacques Doucet di acquistare per donarlo al Louvre, il quale lo rifiuta. Barr farà di tutto per averlo, vi riconosce il genio di Picasso, teso tra eros e thanatos. Sei mesi dopo, un poliziotto ignoto scriverà di Picasso: “Questo straniero non ha nessuna qualità per diventare francese”. Il potere esorbitante che questo poliziotto ha su Picasso è paradossale, ma è anche una radioscopia della Francia di allora; ed è uno scandalo che uno dei più grandi pittori del secolo fosse trattato così, perdendo anche il suo nome: è una parabola quasi religiosa.
Picasso si difende anche con la poesia, tema della mostra di Palazzo Te a Mantova. Diventa poeta nel 1935 in un periodo di crisi senza uscita, sia politica sia professionale e personale. Fa una poesia dada. La mostra mette a confronto due trasgressori, Giulio Romano verso il papato e Picasso verso l’opera accademica di suo padre. È un percorso inedito incentrato sulle Metamorfosi di Ovidio che Picasso esegue su richiesta di Albert Skira nel 1931.
Quale oggetto di Picasso l’ha più colpita? L’agenda degli indirizzi, piccolissima, dove stipava tutti i suoi contatti, intersecando gli eterogenei mondi che frequentava. Ho studiato con Erving Goffman e pratico la micro-sociologia, interessandomi ai segni “deboli”.
Nel 1968 il ministro della Cultura, André Malraux, crea una legge per dotare i musei francesi delle opere di Picasso. Possiamo dire, con Jean-Jacques Neuer, che non è stato Picasso a diventare francese, ma la Francia a divenire picassiana?
Assolutamente sì. Quando si trattò del nome di Claude e Paloma, che sono nati “fuori del matrimonio” e non avevano il diritto di portare il nome del padre, anche se lui li aveva riconosciuti, Picasso impone un cambio di legge sulla famiglia.
L’8 aprile 1973 Picasso muore a Mougins. Quale eredità lascia?
La Francia era ipercentralizzata e Picasso l’ha decentralizzata andando a stabilirsi a sud nel 1955. Diventando comunista ottiene
visibilità e libertà. Ma è dissidente: nel 1953 il suo ritratto di uno Stalin contadino non piace agli ortodossi del partito, che vogliono cacciarlo, ma lui serve alla causa e quindi ancora una volta vince su chi lo avversa. Mi hanno impressionato le lettere dei tanti sindaci comunisti che gli chiedono un’opera per le loro città. Lui acconsente e così facendo modernizza la Francia. Picasso è lo straniero in cui la Francia nazionalista può specchiarsi, è il suo sguardo altro. Lo si vede anche nella sua scelta di lavorare come ceramista, con gli artigiani: feconda il nobile con il prosaico e l’alto con il basso, elevando gli artigiani contro gli accademici. A partire da una dimensione locale, Picasso costruisce la sua fama globale.
Ed infine c’è Gósol, il villaggio disperso sui Pirenei.
Torniamo al 1906, il sogno di Picasso è quello di essere superiore a Matisse, ma non gli riesce subito, è la chiave del mio libro. Così lascia Parigi e parte per questa comunità di contrabbandieri dove la polizia non ha mai messo piede. In lui avviene una trasformazione esistenziale. Dopo cento giorni passati con Pep Fondevila, il nonagenario capo del villaggio, apprende l’economia del contrabbando e capisce come deve vivere a Parigi. Picasso è un artista dotato ma è anche uno stratega politico e la sua lezione dice che non bisogna mai farsi vittime e che serve ribaltare le stigmate. Torna quindi a Parigi e finisce il ritratto di Gertrude Stein come maschera. Supera Matisse e diventa leader dell’avanguardia. Ho passato due estati a Gósol e nelle sue opere ritrovo tutto ciò.
Visitare la casa di Andrea Mantegna, un piccolo capolavoro di architettura quattrocentesca che lo stesso artista costruì e utilizzò come abitazione e studio
Godere dello skyline della città gonzaghesca dall’acqua, navigando tra i laghi di Mantova, la valle del Mincio e il Po
Visitare il Teatro Scientifico Bibiena, costruito tra il 1767 e il 1769 con una pianta a forma di campana e disposto su più ordini di palchetti lignei
Helen Frankenthaler: dipingere senza regole. La mostra a Firenze
Fausto Politino
Figura fondamentale nella seconda generazione di pittori astratti americani del dopoguerra, Helen Frankenthaler (New York, 1928 - Darien, 2011) si è imposta come una delle maggiori artiste della sua generazione. A questa donna, forse non molto nota fra il grande pubblico, Palazzo Strozzi dedica la retrospettiva, Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, mettendo insieme un’ampia selezione di opere realizzate tra il 1953 e il 2002.
LA FORMAZIONE E L’ASCESA
DI HELEN FRANKENTHALER
Con sguardo luminoso, il sorriso accennato, seduta a terra in una postura che trasuda sicurezza, fra mille colori che rispecchiano un sicuro talento: così si presenta la giovane artista, in uno scatto di Gordon Parks del ‘57. Proveniente da una famiglia colta e benestante, nel 1950 a ventidue anni mostra di sentirsi a proprio agio in quella realtà artistica sorta durante gli Anni Quaranta e frequentata da pittori musicisti scrittori d’avanguardia, che prenderà il nome di New York School. Il 1950 è un anno clou per Frankenthaler. Terminati gli studi conosce Clement Greenberg, critico d’arte del settimanale progressista The Nation e convinto assertore dell’Abstract Expressionism. Nessuno meglio di lui poteva introdurla e guidarla, nell’ambiente artistico-culturale di New York e suggerirle di perfezionarsi nella scuola di Hans Hofmann, che dal 1932 era stato maestro di numerosi esponenti dell’avanguardia americana. È proprio l’impatto con le opere di quest’ultimo ad averle suggerito, qualche tempo dopo, l’elaborazione della sua originale tecnica soak-stain. Nell’autunno dello stesso anno visita una personale di Jackson Pollock, dopo tre anni di dripping giunto all’apice della carriera. Ne rimane fortemente impressionata: “Lì c’era tutto. Volevo viverci in quella terra. Dovevo proprio viverci, e padroneggiarne il linguaggio”.
L’ESORDIO E LA FAMA
Il 1951 è l’anno dell’esordio di Helen Frankenthaler. Due sono le occasioni: una mostra collettiva in primavera, una esposizione personale in autunno. Alla prima partecipa insieme a una novantina di artisti della New York School, al Ninth Street Show. La ventitreenne pittrice espone accanto a Clement Greenberg, Elaine e Willem de Kooning, Joan Mitchell, Lee Krasner, Jackson Pollock, Robert Motherwell, Hans Hofmann, Ad Reinhardt, Robert Rauschenberg. L’evento fu accolto molto bene sia dalla
critica sia dal pubblico. La sua prima personale si tiene invece nella galleria Tibor de Nagy, editore e mercante d’arte di origine ungherese. La galleria, avrebbe raccontato l’artista, era dinamica e creativa, forniva opportunità: “Vi era un forte senso di cameratismo e di energia, di sperimentazione”. Si inserisce in un ambiente dove gli artisti non si limitano a parlare solo di pittura: discutono di spiritualità zen, di filosofia esistenzialista, di psicologia gestaltica. Un ambiente dove sono accostate la teoria di Pollock, il cui dripping sostiene l’automatismo della mano rispetto alla vigilanza dell’occhio, e quindi l’autonomia del dipinto rispetto alla consapevolezza del pittore, e la scrittura spontanea di Kerouac. Impressionata da tecniche e teorie degli espressionisti astratti, Frankenthaler riesce a instaurare un proprio stile e un metodo unico. Dedicandosi alle forme, al colore e privilegiando la luminosità
NUOVE PROSPETTIVE. IL 1952
È in questo contesto, nel 1952, che la ventiquattrenne Frankenthaler dipinge Mountains and Sea, un’opera destinata ad aprire nuove prospettive indirizzando l’arte americana verso gli Anni Sessanta. Con una tecnica nuova, l’artista fa cambiare rotta all’Abstract Expressionism spingendolo verso i nuovi orizzonti del color field painting e, in prospettiva, della Lyrical Abstraction. È così che apre, secondo alcuni, il varco che dall’eccitata tendenza emotiva e gestuale dell’action painting porta al più tranquillo e sereno linguaggio dei campi di colore, fino allo stile spontaneo e romantico che
avrebbe contraddistinto gli astrattisti lirici. Frankenthaler crea l’opera tornando da una vacanza a Cape Breton, nella parte settentrionale della penisola canadese della Nuova Scozia: inzuppa dall’alto il tessuto di una tela senza tenderla, riuscendo così a ottenere degli effetti fluttuanti simili a quelli dell’acquerello. È la nascita del soak-stain. Pur non essendo una dichiarata raffigurazione di paesaggi marini e montani della Nuova Scozia, il dipinto la rievoca con strisciate di blu che incrociano zone di verde. È l’alba di una nuova visione.
Dal 27 settembre al 26 gennaio HELEN FRANKENTHALER. DIPINGERE SENZA REGOLE
Dietro le grandi mostre. Come viaggiano le opere d’arte
Marta Santacatterina
Chi può accedere alle sale delle mostre prima della loro inaugurazione incrocia spesso dei professionisti muniti di carrelli, avvitatori, livelle e che indossano magliette blu con il logo di Arterìa, una società leader in Italia per i trasporti di opere d’arte. Tanto per fare qualche esempio, nel 2024 ha movimentato i capolavori per le mostre Rome, the Eternal City del Tokyo Metropolitan Art Museum e Preraffaelliti a Forlì, e i bronzi di San Casciano per le esposizioni di Roma, Napoli, Reggio Calabria. L’amministratore delegato Antonio Addari ci spiega come si svolgono quelle operazioni delicate, e fondamentali, per l’organizzazione dei grandi eventi espositivi.
Ci racconta in breve la storia della vostra azienda?
Arterìa nacque nel 2000 per iniziativa del presidente Alvise di Canossa che acquisì quattro aziende storiche, incorporando le loro maestranze e i manager, con l’obiettivo di creare una società che potesse competere a livello internazionale nella movimentazione delle opere d’arte. Oggi abbiamo quattro sedi principali a Milano, Firenze, Roma e Venezia, più una all’aeroporto di Malpensa e un’altra più piccola a Torino; collaborano con noi più di cento professionisti tra autisti, imballatori, art handler, restauratori e personale per il coordinamento. Ci occupiamo anche di logistica per beni di lusso e per opere di collezioni private, gallerie, case d’asta.
Come si svolge il vostro lavoro?
Per prima cosa forniamo agli organizzatori delle mostre un budget. Nel momento in cui ci viene affidato l’incarico, redigiamo uno studio della logistica considerando le dimensioni delle opere, le provenienze, quali oggetti possono viaggiare su camion e quali in aereo. Contattiamo poi i prestatori per raccogliere le loro richieste sul tipo di imballaggio, sulla spedizione, sull’accompagnamento di un funzionario del museo. Si mette quindi a punto il programma degli arrivi e si stabiliscono i tempi per l’allestimento con l’organizzatore, quando è richiesto. Consegniamo quindi le casse, le apriamo e controlliamo le condizioni di arrivo (il controllo avviene anche in partenza e a chiusura della mostra), poi procediamo con l’allestimento e, a fine mostra, con il ritiro delle opere e la restituzione ai prestatori.
Come affrontate la questione della sicurezza? È cruciale evitare il danneggiamento dell’opera, ma se è imballata bene i rischi sono minimi: i camion hanno sospensioni pneumatiche, sono monitorati da remoto, non rimangono mai fuori la notte e non vengono mai abbandonati, quindi i furti sono quasi impossibili. Adottiamo inoltre soluzioni che regolano le condizioni di umidità e temperatura per scongiurare i danni per variazione microclimatica. Le aree di maggior rischio sono quella aeroportuale e le le fasi di allestimento della mostra: nella prima la movimentazione può essere fatta solo dal personale dell’aeroporto, che non ha una una formazione specifica ed è per questo che la “supervisione”
TRASPORTI SOSTENIBILI CON LA NAVETTA
A proposito di costi, Antonio Addari illustra un progetto di Arterìa che sta avendo successo: “Abbiamo attivato un servizio di sharing che, due volte alla settimana, collega gli aeroporti di Milano e Fiumicino con le nostre sedi. Riusciamo così a caricare su un camion più opere destinate alle mostre o per altre tipologie di servizi con budget più limitati. Oggi un un mezzo “Fine Art” con due autisti che percorre la tratta Roma-Milano può costare 2mila euro, mentre con la navetta il costo può limitarsi a 300 euro per una singola opera. Il vantaggio è doppio: ambientale ed economico”.
da parte di personale formato diventa importante. Durante le fasi di allestimento in sede espositiva è importante che non ci siano “interferenze” e che tutte le fasi di preparazione dell’allestimento siano terminate prima dell’arrivo della prima opera.
Come viene formato il vostro personale?
In Italia non esistono scuole di formazione e solo di recente alcuni istituti privati stanno creando dei percorsi formativi ad hoc. Il livello più problematico è quello relativo alla movimentazione delle opere: ci occupiamo internamente della formazione e affianchiamo i giovani al personale con maggiore esperienza per tutto il percorso di formazione.
Le operazioni di installazione della teca protettiva per l’opera di Piero della Francesca, la cosiddetta “Pala di Brera
MILANO
Dal 5 ottobre 2024
NIKI DE SAINT PHALLE
MUDEC - Museo delle Culture mudec.it
Dall’8 ottobre 2024
BAJ CHEZ BAJ
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 12 gennaio 2025
Fino al 24 novembre 2024
MILANO ANNI '60.
Da Lucio Fontana a Piero Manzoni, da Enrico Baj a Bruno Munari Palazzo delle Paure simulecco.it
Fino al 16 febbraio 2025 MARINA ABRAMOVIĆ
BETWEEN BREATH AND FIRE
Gres Art 671 gresart671.org
Museo di Santa Giulia bresciamusei.com GRANDI
GAE AULENTI (1927 – 2012)
Triennale - Palazzo dell'Arte triennale.org
Fino al 26 gennaio 2025
MUNCH Il grido interiore
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Dal 12 ottobre 2024
IMPRESSION, MORISOT
Dal 23 ottobre 2024
LISETTA CARMI
Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it
Dall’8 ottobre 2024
BAJ CHEZ BAJ Museo della Ceramica di Savona e MuDA – Museo Diffuso Albisola musa.savona.it/museodellaceramica
Dal 16 ottobre 2024
BERTHE MORISOT.
Pittrice impressionista
Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea .gamtorino.it
Dal 16 ottobre 2024
TINA MODOTTI. L’opera
Camera - Centro Italiano per la Fotografia camera.to
Fino al 27 ottobre 2024
BELLE ÉPOQUE. I pittori italiani della vita moderna. Da Lega e Fattori a Boldini e De Nittis a Nomellini e Balla
Palazzo Cucchiari palazzocucchiari.it
Fino al 30 novembre 2024 WALTER ALBINI. Il talento, lo stilista Museo del Tessuto museodeltessuto.it
Fino al 26 gennaio 2025
HELEN FRANKENTHALER: DIPINGERE SENZA REGOLE
Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org
fino al 20 ottobre
LOUISE BOURGEOIS DO NOT ABANDON ME Museo Novecento museonovecento.it
Dal 18 ottobre 2024 IL RINASCIMENTO A BRESCIA
Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552
Fino al 16 novembre 2024
ANTONIO LIGABUE A SORRENTO
Fondazione Sorrento fondazionesorrento.com
TRENTO
Fino al 20 ottobre 2024
DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL
TRENTINO
Museo del Castello del Buonconsiglio buonconsiglio.it
ROVERETO GORIZIA
Fino al 20 ottobre 2024
SURREALISMI.
Da de Chirico a Gaetano Pesce
MART - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto mart.tn.it
Fino al 27 ottobre 2024
ITALIA SESSANTA. Arte, Moda e Design. Dal Boom al Pop Palazzo Attems Petzenstein palazzoattems.regione.fvg.it
Fino al 15 dicembre 2024 IL SURREALISMO E L’ITALIA
Fondazione Magnani-Rocca Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it
Dal 26 ottobre 2024
L’ETÀ DELL’ORO
Galleria Nazionale dell’Umbria gallerianazionaledellumbria.it
Fino al 24 novembre 2024 MONTE DI PIETÀ. Un progetto di Christoph Büchel Ca' Corner della Regina fondazioneprada.org
Fino al 27 ottobre 2024 CHAGALL. SOGNO D’AMORE
Castello Conti Acquaviva d’Aragona di Conversano
Fino al 31 ottobre 2025 MITORAJ. Lo Sguardo, Humanitas, Physis
Parco archeologico della Neapolis a Siracusa parchiarcheologici.regione.sicilia.it
Fino al 27 Ottobre 2024
TIZIANO, BELLINI, BRONZINO. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini Gallerie Nazionali di Arte Antica Palazzo Barberini barberinicorsini.org
Fino al 31 dicembre 2024 EMILIO ISGRÒ: protagonista 2024 La Galleria Nazionale lagallerianazionale.com
Fino al 19 gennaio 2025 BOTERO
Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it
Fino al 16 Febbraio 2025 ALLAN KAPROW. YARD MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma museomacro.it
SIRACUSA
ROMA
VENEZIA
PARMA
PERUGIA
BARI
MUSEI ITALIANI
E ACCESSIBILITÀ
I Musei italiani sono accessibili? Quali sono le buone pratiche esistenti? Su cosa si dovrebbe lavorare maggiormente? Ci sono sostegni adeguati alle strutture museali che vogliono intraprendere la strada dell’accessibilità?
Quali sono le esigenze più stringenti degli utenti che hanno bisogno di maggiori risposte?
CRISTINA GAZZOLA
FONDAZIONE MUSEI
CIVICI DI VENEZIA
Il museo accessibile è uno spazio di comunità che pone al centro della propria mission la partecipazione e il diritto alla cultura. La formazione continua consente di acquisire competenze specifiche per accogliere i visitatori, applicando strategie attente a diversi linguaggi e modalità di apprendimento, nell’ottica di una vera e propria museologia partecipata. Le comunità di pratiche e i partenariati, con le realtà del territorio, attivano processi di dialogo e significative coprogettazioni, trasformando i musei in luoghi inclusivi ed equi. La nuova museografia pone al centro le persone e le loro esigenze: allestimenti multisensoriali, servizi e sussidi specifici alla visita favoriscono inedite scoperte e relazioni con il patrimonio che oggi può essere fruito autonomamente da un pubblico sempre più ampio. Questi sono gli aspetti più importanti su cui la Fondazione Musei Civici di Venezia sta lavorando, in sinergia con i vari Servizi, per rendere i musei sempre più accessibili.
MARIA CHIARA
CIACCHERI
MUSEOLOGA, ESPERTA DI ACCESSIBILITÀ
Tutto dipende dall’accezione che assegniamo all’accessibilità dei musei. Ad esempio: si occupa di barriere socioculturali? Guarda solo ai bisogni o anche alle motivazioni? Le sue scelte indirizzano anche l’interpretazione?
Dalla mia prospettiva, i musei italiani sono mediamente poco accessibili: fatto salvo una serie di eccezioni, anche significative, la maggior parte delle istituzioni ne promuove un’idea rigida, persino arida, senza porsi domande sul piano dei contenuti e delle ricadute indirette che genera.
Un altro orizzonte è percorribile, passo passo, da qualunque istituzione, qualora tutte le figure del museo contribuiscano al suo sviluppo – dalla direzione alla curatela, dall’educazione alla conservazione. Serve però una consapevolezza nuova, strategie a lungo termine, nonché uno sguardo complesso anche sui destinatari: associare l’accessibilità solo a gruppi circoscritti, come più spesso capita, rischia di alimentare un modo stereotipato di approcciare anche il mondo reale.
PAOLA RAMPOLDI
MUSEO POPOLI
E CULTURE, MILANO
Premetto che per me l’accessibilità museale è la disciplina che indaga le molteplici possibilità e soluzioni per garantire a quante più persone possibile esperienze di visita soddisfacenti e stimolanti. In quest’ottica, le disabilità rientrano tra le diverse esigenze da considerare nella progettazione. La situazione italiana mi sembra molto frammentata e diversificata. Esistono corsi e linee guida, ma manca una formazione strutturata che contempli la complessità e la transdisciplinarietà delle competenze necessarie. Inoltre, collaborazioni e reti sono fondamentali, come il sistema Musei Toscani per l’Alzheimer. In estrema sintesi, le persone al Museo vogliono stare bene, dunque è necessaria una pluralità di soluzioni, come testi leggibili, comprensibili e che stimolano il pensiero, informazioni e segnaletica accurate, multisensorialità, personale accogliente e attento, sedute, bagni puliti e adatti alle diverse esigenze, che nell’insieme rendono il Museo un luogo per tutti.
BABET TREVISAN
FONDAZIONE QUERINI
STAMPALIA, VENEZIA
L’accessibilità ai musei è una questione cruciale per rendere le esperienze culturali aperte a tutte le persone, senza barriere: fisiche, sensoriali o cognitive. Negli ultimi anni anche i musei italiani hanno compiuto significativi progressi. Nonostante siano spesso ospitati in edifici storici, sono riusciti a superare ostacoli architettonici e sensoriali con l’introduzione di rampe, ascensori, porte automatiche, percorsi tattili e segnaletica chiara e leggibile. Tuttavia, il cammino verso l’accessibilità universale richiede un impegno continuo. Diviene sempre più urgente lavorare con personale formato per promuovere l’accessibilità cognitiva e digitale attraverso contenuti semplificati e facilmente fruibili senza dimenticare l’accessibilità economica offrendo agevolazioni sui biglietti d’ingresso e gratuità. La sfida per il futuro è fare di ogni museo italiano uno spazio veramente inclusivo, collaborando con le associazioni locali e curando attività ed esposizioni che riflettano culture, prospettive ed esperienze diverse, affinché ogni visitatore possa sentirsi rappresentato.
a cura di SANTA NASTRO
NICOLE MOOLHUIJSEN
ICOM ITALIA
Il concetto di accessibilità culturale si è diffuso nelle istituzioni culturali italiane grazie a diverse spinte. Tuttavia, permangono alcuni stereotipi, come l’idea che la progettazione accessibile benefici solo poche persone, che sia costosa e che debba essere gestita esclusivamente da poche figure specializzate. Di conseguenza, i progetti di accessibilità nei musei risultano spesso discontinui o focalizzati sul coinvolgimento di specifiche fasce di utenza. Il museo contemporaneo, che si basa sull’idea di rilevanza sociale e partecipazione anche in ottica digitale, deve attuare un cambiamento di paradigma, adottando approcci più trasversali e continuativi. In molti contesti, è necessario ripensare i processi interni e le dinamiche organizzative, a partire dal riconoscimento delle professionalità coinvolte. Sicuramente, la scarsa autonomia che caratterizza strutturalmente il management dei musei italiani rappresenta un limite. Credo che l’ingresso di giovani professionisti e un dialogo sempre più stretto con le istituzioni del territorio siano percorsi imprescindibili da seguire.
LUCIA CECIO
ACCADEMIA CARRARA DI BERGAMO
Ci sono alcuni aspetti che ritengo punti fermi nell’analisi di un tema dai contorni discontinui.
Dotarsi di competenze, formarsi è il primo passo per abbattere le barriere, ma soprattutto per allenare una sensibilità trasformativa. Lavorando in un’ottica accessibile si sperimentano approcci e soluzioni che si rivelano inclusive per tutte e tutti, non solo per le persone fragili e con disabilità. Penso quindi l’accessibilità come un processo, che evita la logica dell’occasionale e ha ricadute sui vari ambiti del museo, curatoriale, educativo, comunicativo.
L’onda lunga di questa evoluzione può essere potente, aumentare l’attrattività dell’istituzione e accompagnarla lì dove deve essere: nella vita delle persone, parte attiva nella costruzione di comunità più eque e accoglienti.
In Accademia Carrara, a Bergamo, stiamo sperimentando questo approccio trasversale, progettando percorsi e strumenti secondo i principi del Design for All, aperti alla pluralità di sguardi ed esigenze.
GIUSEPPE TEOFILO DIRETTORE FONDAZIONE PASCALI
L’accessibilità totale ai contenuti scientifici, e non solo, di un’Istituzione, dovrebbe ormai essere una pratica imprescindibile, soprattutto in ambito culturale; in tal senso, molte istituzioni culturali in Italia sono sempre più attente a fornire accessibilità e inclusività, sia in termini architettonici che di contenuto.
La digitalizzazione degli archivi e i tour virtuali sono stati i primi e decisivi passi mossi verso una più ampia fruizione, galvanizzata anche dalle recenti interruzioni durante i vari “lockdown”, trasformando il problema in opportunità attraverso una progettazione più attenta e rivolta a tutte le cittadinanze.
Un museo, in genere, pensa in termini di sistema biometrico ma è chiaro, oggi più che mai, che l’accesso cognitivo e sensoriale sia un tema ancora sul tavolo e su cui ci si interroga in termini di innovazione e sviluppo. D’altro canto, l’applicazione di nuove tecnologie e la ricerca su questi strumenti rappresentano una sfida accattivante che bisogna saper cogliere affinché trovino conforto tutte le istanze di accessibilità che, talune volte, sono state ignorate, spesso anche per penuria economica.
VALERIA BOTTALICO
ACCESSIBILITY PROJECT MANAGER FREELANCE
Ogni individuo ha diritto di accedere e partecipare alla vita socioculturale. Un diritto fondamentale e non un atto solidaristico. L’etimologia parla chiaro: accessibilità deriva dal verbo latino accĕdere, composto di ad «verso» e cĕdere «andare». In questo “andare verso” non dobbiamo incontrare ostacoli fisici, sensoriali, culturali, economici, linguistici. L’inclusione e la partecipazione delle diverse cittadinanze hanno assunto grande interesse negli ultimi anni. I nostri musei hanno incrementato le attività educative, non più relegate ai soli laboratori per bambini ma rivolti sempre più a tutti e attivato nuovi modelli di comunicazione. Le risorse stanziate per il PNRR stanno poi dando un’accelerazione al processo di miglioramento della fruizione, promuovendo la co-progettazione delle attività con la partecipazione diretta dei destinatari. La formazione del personale e la nuova presenza di mediatori con disabilità e non, sono il primo passo verso il superamento stesso del concetto di accessibilità.
L’accessibilità quando è presente non ha più bisogno di essere nominata.
IRENE BALZANI
FONDAZIONE PALAZZO STROZZI, FIRENZE ICOM ITALIA
“Accessibilità” è una parola ormai consolidata nel lessico dei musei e questo è un segnale positivo. In Italia, negli ultimi dieci anni, c’è stata una svolta significativa, con molte istituzioni culturali che hanno promosso progetti rilevanti, collaborando con comunità, associazioni, persone con disabilità o che vivono condizioni come la demenza. Come Fondazione Palazzo Strozzi, siamo orgogliosi di aver avviato le nostre attività già nel 2011. Per molti musei i fondi del PNRR hanno offerto l’opportunità di avviare o accelerare i processi di accessibilità. Tuttavia, è fondamentale sviluppare una visione d’insieme piuttosto che concentrarsi solo su singoli interventi. È infatti cruciale un approccio che metta al centro un cambiamento di prospettiva, considerando l’accessibilità come un principio che riflette le differenze e che riguarda tutte e tutti noi. La vera trasformazione avverrà quando nella progettazione verranno considerati menti e corpi non conformi, scardinando l’idea di una “norma” con la quale sono organizzati ambienti ed eventi. Musei, spazi espositivi e istituzioni culturali possono essere promotori essenziali di questo cambiamento.
ALESSANDRO GIULI VAI E SPACCA TUTTO
MASSIMILIANO TONELLI
Ricominciamo la stagione con un nuovo Ministro della Cultura. Bene così. Per due motivi. Il primo è che il nuovo inquilino del Collegio Romano sembra un ragazzo in gamba che non ha sfigurato nel ruolo di presidente della Fondazione Maxxi, il secondo è che il vecchio Ministro magari aveva anche fatto qualche mossa interessante, ma in generale aveva amministrato in maniera deludente e aveva accumulato una serie di figuracce personali e continue gaffes non compatibili con il ruolo. Ora però dopo le felicitazioni al neoministro Alessandro Giuli, ci sono le aspettative nei suoi confronti. Delle aspettative un po’ utopistiche, ammettiamolo. Astratte e visionarie. Però una speranza la custodiamo, la speranza di avere un Ministro della Cultura rompiscatole e interventista anche su settori che apparentemente non gli competono. Ma sottolineiamo “apparentemente”. Perché, specie in Italia, cos’è che non ha a che fare con la cultura? Quasi nulla a dire il vero.
E allora l’auspicio è di scoprire che questo nuovo ministro, sfruttando il suo profilo tecnico, la sua età più bassa rispetto alla media del Governo e la sua reputazione non compromessa, intervenga dovunque a campo libero, sorprendendoci con un attivismo puntuale e fastidiosetto. Lasciandosi alle spalle la narrazione di un Ministero della Cultura subalterno, marginale, di seconda o di terza fascia.
L’auspicio è di scoprire che questo nuovo ministro intervenga dovunque a campo libero, sorprendendoci con un attivismo puntuale e fastidiosetto
Tra le altre cose, chi se non il Ministro della Cultura italiano ha più titolo di intervenire, di mettere bocca, di immischiarsi nelle faccende del Paese Ma grossomodo tutte. Dalla ricerca ai trasporti, dalla scuola allo sviluppo economico.
Forse non riguardano anche la cultura le scelte for sennate del Ministero delle Infrastrutture che sta fa cendo approvare un impedirà la realizzazione di isole pedonali, Zone30, ZTL e altri sistemi di tutela delle città? Certo che sì, visto che diventerà impossibile, ad esem pio, tutelare i centri storici d’Italia.
Forse non riguardano anche la cul tura le scelte forsennate del Mini stero dell’Agricoltura che sta impedendo in Italia la na scita di una filiera di stu dio, di impresa e di ri cerca sulla coltivata condan nando il Paese a decenni di su balternità rispetto
all’estero? Certo che sì, visto che si tratta di ricerca scientifica e sviluppo umano.
Forse le scelte sconsiderate a difesa delle lobbies, come quella dei balneari, non hanno a che spartire con la cultura? Ma certo che sì, visto che non ci può essere tutela del paesaggio e sostegno al turismo di qualità se non si affrontano quelle questioni e non si dà finalmente spazio ad una sana concorrenza. E a proposito di turismo forse le considerazioni forsennate della Ministra del Turismo sull’overtourism non sono considerazioni che potrebbero essere chiosate da un Ministro della Cultura? Ma certo che sì e speriamo di sì.
Chi se non il Ministro della Cultura italiano ha più titolo di intervenire, di mettere bocca, di immischiarsi nelle faccende del Paese?
Certamente aspettarsi che il nuovo Ministro della Cultura si metta di traverso al Governo facendo il grillo parlante sulle scelte forsennate che ne costituiscono l’identità è un po’ ingenuo, ma la speranza è l’ultima a morire e prima di vedere Alessandro Giuli perfettamente integrato con la dannosissima mediocrità dell’amministrazione Meloni permetteteci di coltivare la speranza almeno per le primissime settimane. Altrimenti un inatteso cambio di Ministro a cosa serve?
IL FUTURO é PERICOLOSO. LO DICONO I NOSTRI CORPI (E L'ARTE)
ANGELA VETTESE
ultimo video che ritrae Edith Piaf mentre canta, girato nel 1963 poco prima che morisse a 47 anni, ci mostra una donna piccola con pochi capelli corti, caviglie gonfie, immobile nel suo abito nero qualsiasi. Questo corpo senza gloria, però, è quello che l’ha resa la diva più iconica del Novecento francese. Mostrare la propria debolezza in un modo tanto poco spettacolare è stato l’atto più anticonformista che potesse fare.
È evidente che sono lontani gli anni in cui la corporeità doveva essere presentata in forma provocatoria, sovente da performance agite dall’artista medesimo
Oggi tanta semplicità sembra non essere più un modello per nessuno. Viviamo tra busti tatuati, piercing, capelli color pastello. Eppure, l’arte visiva si pronuncia per una semplicità differente da codici ormai massificati. È vero che ci vengono proposte rappresentazioni del corpo deformate o particolari: pensiamo alla pittura che ingigantisce gli aspetti sensuali del corpo soprattutto femminile, come i quadri di Lisa Yuskavage o di John Currin; pensiamo anche a una scultura che esalta aspetti rituali o fantascientifici: Precious Okoyomon crea sculture di terra che sono busti femminili attraversati da erbe rampicanti e vestite con colori dal sapore africano, rinnovando l’antico mito della Dea madre che trae appunto dalla terra, in un’unione indissolubile con la vegetazione, il suo stesso potere generativo; Andra Ursuta esibisce teste femminili di vetro dal cranio allungato, in un mood che congiunge il mondo fantasy a culti atavici che imponevano la deformazione delle membra; Simone Leigh veste le sue creature di bronzo con gonne di rafia dai volumi settecenteschi, dai visi coperti da di legnetti o addirittura senza occhi.
Anche in questi casi, però, è evidente che sono lontani gli anni in cui la corporeità doveva essere presentata in forma provocatoria, sovente da performance agite dall’artista medesimo, come negli Anni Sessanta e Settanta: a quel tempo gli artisti si ledevano i geni-
tali (Rudolf Schwarzkogler, Aktion Sommer, 1965), li mostravano pubblicamente, protetti però dalla canna di un fucile puntato verso l’osservatore (Valie Export, Genitalpanik, 1969), si masturbavano sostanzialmente in pubblico (Vito Acconci, Seedbed, 1972), facevano uscire poesie da rotoli di carta conservati nella vagina (Carolee Schneeman, Interior Scroll, 1975). Si trattava allora di urlare ciò che in seguito ha incominciato a entrare nella coscienza collettiva. Marina Abramović non ha mai avuto bisogno di un livello di nudità tanto provocatorio, e infatti le sue performance maggiori sono successive alla metà degli Anni Settanta. La controprova di questo comportamento meno violento è data dalle evanescenti siluetas di Ana Mendieta (1973-76), ottenute col fuoco, con foglie, con fiori, sempre lasciando tracce della sua permanenza e misteriosa sparizione da un luogo. Dopo il raggiungimento in molti paesi occidentali di alcuni diritti quali il diritto di parola e di difesa per le donne, il divorzio, l’aborto, primi fondamentali passi verso una parità nei diritti dei generi, la lotta per dimostrare la presenza di un io che prescindesse da un’identità di genere e da valori morali preconcetti
In seguito, l’esibizione diretta della corporeità, nell’ambito della performance, è diventata decisamente più pervasiva che al tempo di quei primi esperimenti, apparentemente anche più violenta ma meno estrema nella sostanza. Pensiamo ad alcune azioni dei tardi Anni Ottanta-primi Novanta: la protesi che Stelarc si fece applicare all’avambraccio in quanto terza mano (Stelarc, Third Hand, 1980-88) o l’esoscheletro pieno di elettrodi che Marcel Lì Antunez Roca si attaccò al cranio, affinché gli spettatori potessero comandarne il comportamento muscolare attraverso un mouse (Marcel Lì Antunez Roca, Epizoo, 1994), hanno un aspetto inquietante in quanto utilizzano macchine che robotizzano il corpo, ma non toccano più la zona del tabù genitale e non implicano pericoli di morte per il performer. Questa normalizzazione delle performance che riguardano la corporeità appare chiara negli Anni Duemila: si pensi ai ragazzi che saltavano cantando nel padiglione tedesco della Biennale veneziana del 2003 (Tino Sehgal, This Is So Contemporary, 2003) o alla qualità di danza che hanno assunto azioni come quelle di Alexandra Pirici, Cally Spooner, Christodoulos Panayiotou tra gli altri.
sotto: Carolee Schneeman, Interiol Scroll , 1975
L’esibizione di un’anomalia fittizia viene considerata spesso come prendersi il territorio di un altro, cioè di chi l’anomalia l’ha davvero
È come se, con un certo pudore, la spettacolarizzazione dei corpi diversi venisse lasciata a chi davvero ha una diversità da esibire, che non viene simulata ma è reale: è più forte vedere combattere Bebe Vio o altri sportivi paralimpici che osservare qualcuno che si mutila volontariamente. L’esibizione di un’anomalia fittizia viene considerata spesso come prendersi il territorio di un altro, cioè di chi l’anomalia l’ha davvero. Sul piano etico, molti hanno imparato a rispettare la reale problematicità esibita dall’orizzonte LGBTQI+, soprattutto quando ci si trova di fronte a scelte dolorose che quella della transizione di sesso. Silvia Calderoni non finge di essere un maschio, infatti, limitandosi a indossare la sua effettiva identità queer. Al tempo in cui si rivendicava pubblicamente l’omosessualità per le prime volte, come fece Allen Ginsberg dai tardi Anni Quaranta, c’era bisogno di capelli lunghi, abiti hipster e poesie spacca-coscienze come Howl (1954/5).
Questa necessità di essere visti e sentiti è cresciuta, ma oggi sembra essere diventata appannaggio solo di grandi masse di ragazzi che parlano con i loro tattoo estesi e l’esibizione delle protesi tecnologiche (per il momento sono solo cuffiette e telefoni cellulari, ma presto potrebbero diventare occhiali multifunzione, per esempio), con codici di abbigliamento appariscenti e probabilmente dalla forte capacità di includere o escludere dal proprio cerchio di simili, e con la volontà di marcare la differenza generazionale rispetto ai padri. Questi però sono comportamenti conformisti rispetto al nucleo sociale di riferimento e non li definirei un linguaggio corporeo sperimentale. Con il rispetto dovuto per le istanze della cultura giovanile, tendo a vedere nel modo esasperato in cui molti ragazzi manifestano la loro fisicità come una caratteristica dai tratti tribali, di riconoscimento o disconoscimento reciproco tra gruppi.
Ciò che davvero colpisce, se di nuovo ci si rivolge al campo artistico, sono coloro che parlano di corporeità differenti attraverso la scultura, la pittura, la rappresentazione fotografica o anche utilizzando il corpo vivo. Ma quasi immobile, zitto, senza bisogno che nulla sottolinei la sua diversità. Che è palese e spesso molto pericolosa o costosa, come accade nelle condizioni di lontananza estrema rispetto alla norma. Corpi semplici, corpi quasi timidi, corpi che attendono un destino, i nostri stessi corpi inclusi all’interno di performance partecipative, dove non ci è richiesta alcuna azione eclatante per diventare parte del gioco. Sappiamo che ci aspetta un’epoca postumana (Braidotti) o superumana (Bostrom) e le aspettiamo con ansia e attaccamento alla normalità che ci resta. Siamo persone che camminano dentro una grande installazione buia e fantascientifica di Pierre Huyghe, siamo osservatori curiosi dei voli degli impollinatori sopra un giardino di Alexandra Daisy Ginsberg, siamo persone che cercano la via in un labirinto tecnologico di Hito Steyerl Siamo turbati ma cerchiamo di apparire conformi alla norma. Ora possiamo capire la cerea, voluta, espressiva semplicità di Edith Piaf. Ciò che era, il suo dramma, il suo talento, la sua mancanza di conformità le si leggevano addosso immediatamente, come nei nostri visi si legge il pericolo del futuro.
a sinistra: Silvia Calderoni, Motus - MDLSX
Photo Simone Stanislai
LE ARTI E IL CORPO SOFFERENTE
ANNA DETHERIDGE
The body keeps the score, (in italiano “il corpo serba memoria”) è il titolo di un bel libro dello psichiatra di origine olandese Bessel van der Kolk che nel 1978 cominciò a studiare l’impatto della guerra sui soldati americani in Vietnam, il cui disagio non corrispondeva alle definizioni classiche di malattia mentale dell’epoca. I disturbi da stress post-traumatico possono essere causati da eventi violenti ricorrenti come la violenza domestica, torture, schiavitù, guerre, migrazioni e da danni di lunga durata come depressione o dipendenze. Elaine Scarry, docente di Estetica all’Università di Harvard nel suo testo The Body in Pain (il corpo sofferente) ha raccontato: “Quando ho iniziato a scrivere non pensavo certo che sarei finita a parlare della creazione e della costruzione del mondo. Per coloro che sono afflitti da un’insopportabile sofferenza del corpo creare è pressoché impossibile, perché quella sofferenza distrugge il mondo. Sono arrivata alla conclusione che in realtà il compito della bellezza è alleviare il dolore. Bellezza e dolore sono una la controparte dell’altro”.
Narrare il dolore, riconoscerne l’esistenza e dargli visibilità e dignità sono dunque la condizione imprescindibile per alleviarlo
Il dolore, secondo Scarry, fa parte di una geografia invisibile, in quanto non si manifesta direttamente, è inesprimibile, distante, come quelle misteriose grida intergalattiche di cui parlano i fisici. Il nostro dolore è qualcosa di certo, quello degli altri no. Il dolore acuto resiste al linguaggio e obbliga la vittima a una regressione a livello di suoni e grida inarticolati. L’effetto psicologico prodotto dalla violenza verbale e dai metodi di interrogatorio distrugge la capacità di espressione dell’altro, allo scopo non già di estorcere informazioni, bensì di decostruire la voce del prigioniero/vittima. Delegittimazione e umiliazione fanno parte del processo di annientamento. Non è il dolore (di per sé invisibile) ma il regime ad essere reale. Il regime cancella tutto il resto e rende
invisibile la sofferenza umana. Narrare il dolore, riconoscerne l’esistenza e dargli visibilità e dignità sono dunque la condizione imprescindibile per alleviarlo. Alla fine degli Anni Ottanta del secolo scorso, gli anni più drammatici dell’epidemia dell’AIDS quando la malattia mieteva centinaia di migliaia di vittime soltanto negli Stati Uniti, Cleve Jones, attivista dei diritti gay di San Francisco ha ideato la AIDS Memorial Quilt, un progetto terapeutico di lutto collettivo e di auto guarigione. Ecco cosa scrive anni dopo nel suo libro When we rise. (2016) “Trapunta: quella semplice parola esercitava su di me un forte richiamo. Mi faceva pensare alle mie nonne e alle mie bisnonne. Evocava immagini di donne pioniere che si accampavano accanto ai Conestoga wagon. O di schiavi africani
del Sud, che facevano incetta di pezzi di stoffa provenienti dalla casa del padrone. Sapeva di indumenti dismessi, avanzi di stoffa con trame e colori diversi, cuciti insieme per creare qualcosa di bello, di utile e di caldo. Dei piumini che confortano. Mi immaginavo famiglie che condividevano le loro storie mentre tagliavano e cucivano la stoffa. Avrebbe potuto diventare una terapia per una comunità sempre più paralizzata dal dolore, dalla rabbia e dall’impotenza. Avrebbe potuto diventare uno strumento per i media, per far capire loro che c’erano persone dietro le statistiche. Avrebbe potuto diventare un’arma da usare contro il governoper farlo vergognare, spiattellandogli sotto il naso la prova tangibile del suo totale fallimento”. La bellezza terapeutica dell’AIDS Memorial Quilt esposta
per la prima volta a Washington, lungo il viale del National Mall nel 1987, è stata un evento collettivo indimenticabile. In origine formata da 1.920 pannelli di stoffa realizzati da amici e parenti delle vittime, oggi è arrivata ad averne oltre 50mila. Spesso le arti e l’architettura posseggono una sorta di saggezza tacita del corpo, legata ai significati profondi di una “conoscenza senza parole” come direbbe il neuroscienziato e medico Antonio Damasio. Nel suo intervento per la Fondazione Prada, Human Brains Discussions (2020), Damasio ha parlato dell’immediatezza delle informazioni che corrono tra pelle, cuore, viscere e intestino e che si estendono a tutto il nostro corpo. Secondo Damasio, l’intero corpo elabora e comprende le emozioni prima che vengano elaborate nel cervello, grazie al sistema nervoso periferico. La manifestazione più semplice di tale conoscenza senza parole è la sensazione di sapere. Come scrive in The Feeling of what happens, non è un caso se il Mondo Antico si riferiva alla mente con il termine psiche che com-
prendeva anche il respiro e il sangue. Il fluire della vita passa attraverso il corpo. Qual è dunque il compito delle arti e dell’architettura in generale se non quello di ricostruire l’esperienza di un mondo interiore di cui non siamo semplici spettatori, ma di cui facciamo parte inseparabilmente? Secondo l’architetto finlandese Juhani Pallaasma, l’architettura inquadra e dà significato allo spazio indifferenziato. Spesso l’architettura delle culture tradizionali è più legata alla saggezza tacita del corpo, meno dominata visivamente e concettualmente dall’occhio e da una visione filtrata dalla tecnologia. Lo psicologo cognitivo Stephen Kosslyn sostiene che l’immaginazione visiva ha una componente non soltanto psicologica ma anche fisiologica (Image and Mind). La scoperta più interessante di Kosslyn è che la nostra percezione visiva dipende dalla nostra immaginazione visiva e non viceversa, dato che ciò che vediamo è un mix fra ciò che l’occhio può vedere (attraverso la retina) e ciò che il nostro occhio interiore percepisce, o meglio le imma-
gini che il nostro cervello ha memorizzato. Queste considerazioni non possono non farci riflettere sull’importanza delle immagini mentali per il processo di formazione del pensiero, per la soluzione dei problemi. Esperienza, apprendimento, immaginazione e comprensione sono imprescindibili per la nostra capacità di reagire e adattarci in contesti difficili.
Qual è dunque il compito delle arti e dell’architettura in generale se non quello di ricostruire l’esperienza di un mondo interiore di cui non siamo semplici spettatori, ma di cui facciamo parte inseparabilmente?
In molti dei libri avvincenti che ha dedicato ai suoi pazienti, il neurologo e scrittore Oliver Sacks racconta ripetutamente del potenziale delle persone affette da gravi disturbi neurologici, che riescono ad attingere alle competenze e alle risorse culturali che si sono costruiti nella vita sviluppando strategie e rinforzando la memoria. Lilian, musicista e pianista di talento, un giorno, nel suonare il concerto per pianoforte e orchestra n. 21 di Mozart, scopre che le note dello spartito si accavallano davanti ai suoi occhi. Sacks osserva con ammirazione come la musica abbia aiutato Lilian non soltanto ad affrontare la malattia, ma addirittura a superarla. La cosa diventava evidente, come scrive Sacks, “quando si sedeva al pianoforte, strumento che richiede il massimo livello di interazione fra sensi e muscoli, corpo e mente, memoria e immaginazione, intelletto ed emozione, insomma il coinvolgimento completo della personalità”. Facendo sempre più affidamento sulla propria memoria, Lilian suonava per Sacks ogni volta che andava a visitarla. Quest’esperienza trasmetteva gioia e trepidazione sia al medico che al paziente e si trasformava in una sorta di dono reciproco. Oggi molti artisti non creano più opere d’arte “statiche”, ma preferiscono “pratiche creative” che possono rimodellare la nostra vita emotiva, ricostruire metaforicamente all’interno di una comunità o fra individui e società, relazioni che si sono spezzate, azioni o gesti di ricucitura oltre le parole, la cui durezza diventa, a volte, una barriera insormontabile.
MUSEI E MOSTRE: CONVIVENZA INEVITABILE
FABRIZIO FEDERICI
Oggi è quasi impossibile pensare a musei in cui non si allestiscono mostre. Tutti i maggiori musei si sono nel corso del tempo dotati, ampliando i propri spazi o a spese delle sale riservate all’esposizione delle raccolte permanenti, di settori specificatamente dedicati alle rassegne temporanee; oppure si sono impegnati nell’allestimento di mostre negli ambienti stessi in cui la collezione permanente è esposta al pubblico, generando una commistione tra stabile ed effimero che si è rivelata spesso rischiosa (per la difficoltà del pubblico nel districarsi tra i due percorsi che così si intrecciano), se non disastrosa (quando i musei sono edifici storici, con sale già di per sé molto ricche e caratterizzate, che mal sopportano l’intrusione di opere, pannelli, impianti luci spettanti alle rassegne effimere).
Courtesy/ Mo(n)stre
Quasi sempre, lo stretto rapporto tra musei e mostre non si risolve in una salutare ibridazione, ma in una convivenza forzata, a tutto svantaggio del museo
In campo espositivo il confine tra permanente e temporaneo si fa, dunque, sempre più labile. La cosa in sé non sarebbe un male: i musei devono ‘imparare’ dal successo delle mostre, strutturando i loro allestimenti come mostre a lungo termine, in cui si offre di volta in volta una prospettiva diversa sulle raccolte del museo. Quasi sempre, tuttavia, lo stretto rapporto tra musei e mostre non si risolve in una salutare ibridazione, ma in una convivenza forzata, a tutto svantaggio del museo. Come notava nel 2000 Francis Haskell in The Ephemeral Museum, “molti curatori di musei sono oggi impegnati nell’organizzazione di esposizioni basate su prestiti più che in ogni altro compito. I direttori vengono giudicati meno per i loro acquisti o per le donazioni che sono stati capaci di attrarre,
o per l’abilità con cui allestiscono le opere della collezione ‘permanente’, che per il loro successo nell’organizzare questo genere di esposizioni” (cito dall’edizione italiana del 2008). Convivenza forzata e inevitabile: anche musei che non avrebbero assolutamente bisogno di organizzare mostre per proporre sempre qualcosa di nuovo e risultare così più attraenti agli occhi del pubblico (perché molto importanti e famosi, e già a cose normali presi d’assalto dai visitatori) sono continuamente indaffarati nel farlo, prestando opere e allestendo mostre entro le proprie mura.
Una convivenza, quella tra musei e mostre, che si merita l’aggettivo di “inevitabile” anche per un altro motivo: perché sempre di più si cerca di ridurre, e magari annullare, l’intervallo tra una rassegna e l’altra, quando il museo verrebbe a trovarsi scandalosamente ‘nudo’. Strumento principe per diminuire l’interregno è la proroga: ieri insperata notizia, oggi sovrana abitudine, che ha portato a un consistente aumento della durata media delle mostre. La volontà di non lasciare il museo sguarnito di mostre sembra essere alla base della decisione di prorogare la mostra Divina Simulacra, agli Uffizi: una rassegna intelligente sulle sculture antiche della galleria che, aperta il 12 dicembre 2023, avrebbe dovuto chiudere i battenti il 30 giugno 2024 (dopo un periodo di apertura già considerevole, dunque) e che invece è stata prorogata
al 30 settembre. Solo che, nel contempo, si è deciso di riportare nelle sale del museo alcuni dei più significativi pezzi esposti, sostituendoli nei mesi estivi con calchi in gesso oppure lasciando direttamente vuoti i piedistalli. Venuti meno quegli accostamenti e quelle ricreazioni di contesti che costituivano la ragione prima della rassegna, ha davvero poco senso proporla al pubblico in una versione impoverita (per non parlare della vista sconfortante delle basi vuote…). Visto che era senz’altro opportuno riportare i pezzi al loro posto dopo così tanto tempo, non sarebbe stato meglio chiudere la mostra alla data inizialmente stabilita, anziché prorogarla in una versione insoddisfacente, solo per non lasciare la galleria priva di mostre?
Sempre di più si cerca di ridurre, e magari annullare, l’intervallo tra una rassegna e l’altra, quando il museo verrebbe a trovarsi scandalosamente ‘nudo’
Altre volte i motivi alla base delle proroghe sembrano essere decisamente meno nobili. Il riferimento è a quei casi in cui non è possibile acquistare biglietti separati per il museo e per la mostra, e la presenza della mostra comporta un netto aumento del prezzo dei biglietti. Succede ad esempio ai Musei Capitolini, le cui mostre vengono generosamente prorogate, come è accaduto, da ultimo, anche alla rassegna su Filippo e Filippino Lippi (invero trascurabile, al di là della bellezza di alcuni dei pezzi esposti). Il biglietto intero per non residenti, comprensivo di mostra, costa 18,5 euro; l’“ingresso ordinario in assenza di mostre”, sempre per non residenti, viene 13 euro. Un aumento di oltre il 40%: che dici, sarà meglio prorogarla anche questa volta, la mostra?