Dalla morte alla cultura: la rigenerazione dei mattatoi +
Castello di Rivoli: 40 anni d'arte contemporanea + L'eterno ritorno dell'usato nella moda di oggi
COLLECTION N°5
Giovanni Francesco Barbieri detto Il Guercino, Annunciazione, 1648, olio su tela, Forlì Musei Civici
Emilia Giorgi (a cura di)
Annalisa Inzana, Federica Belli giro d'italia: Filicudi
Saverio Verini studio visit: Bekhbaatar Enkhutr
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Elisabetta Roncati
queerspectives
Alchimie queer: pane e vergini
nell’universo di La Chola Poblete
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Cristina Masturzo mercato
Londra vs Parigi: una sfida a colpi di aste e di fiere
STORIES
Alberto Villa Nuove vite, vecchie storie + Desirée Maida (a cura di) news
Alberto Villa dietro la copertina Abitare le rovine ed esserne abitati. I mostri di Camilla Alberti
Livia Montagnoli Palazzo Nardini nella storia di Roma. Dal Rinascimento al Movimento femminista, verso un nuovo polo culturale 28
Dario Moalli libri Fare comunità con la pratica artistica
Caterina Angelucci (a cura di) osservatorio non profit La resistenza culturale di Panorama a Venezia 36
Alberto Villa Il management museale secondo i Musei Civici di Venezia
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Valentina Silvestrini (a cura di)
DALLA MACELLAZIONE
ALLA CULTURA. ESPERIENZE
EUROPEE DI RIGENERAZIONE DEI MATTATOI
Da Roma a Tolosa, da Cagliari a Madrid, da Milano e Porto. Sei buone pratiche di riqualificazione e trasformazione degli ex macelli urbani italiani ed europei in centri di produzione culturale
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Claudia Giraud
CASTELLO DI RIVOLI: COMPIE
40 ANNI IL PRIMO CENTRO
D’ARTE CONTEMPORANEA
ITALIANO CHE DOVEVA
ESSERE UN CASINÒ
La storia del primo museo d’arte contemporanea d’Italia raccontata dalla visione di ogni direttore che si è succeduto dal 1984 a oggi. E che ha lasciato un pezzo di collezione in dotazione, che oggi conta più di 800 opere
Alex Urso (a cura di) short novel Michele Petrucci In Viaggio
Santa Nastro (a cura di) talk show I musei italiani sono accessibili?
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Massimiliano Tonelli Governo Meloni. A livello culturale, due anni di calamità
102
Angela Vettese Quale futuro e quale storia per il Padiglione Venezia?
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Christian Caliandro Scrivere é prendere appunti. Come rileggiamo il passato alla luce del presente
106
Anna Detheridge É tempo di pensieri indisciplinati
108
Fabrizio Federici Riportare la vita nei luoghi dell'antico
110
Marco Senaldi Una collezione di sabbia
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Santa Nastro Le molte età dell’oro tra antichi e contemporanei
78
Nicola Davide Angerame La parabola dell’Arte Povera si celebra a Parigi. Intervista alla curatrice
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Giulia Giaume Il Surrealismo e l’Italia. La mostra alla Fondazione Magnani-Rocca di Parma
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Valentina Muzi La grande mostra di Andy Warhol, che torna a Napoli
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Stefano Castelli Munch e la metamorfosi. La mostra a Milano
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Fausto Politino Matisse e la luce del Mediterraneo. L’esposizione a Mestre
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Nicola Davide Angerame William Blake alla Reggia di Venaria. La vita è sogno
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opera sexy Magici omoni pelosi artribunetv
Da anni il mondo della moda si interroga su come rendere più sostenibile un settore, quello del tessile, che risulta tra i più inquinanti al mondo. Facciamo il punto della situazione
Marta Santacatterina Come ti comunico l’evento espositivo
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Grandi Mostre in Italia in queste settimane
GIRO D'ITALIA: FILICUDI
a cura di EMILIA GIORGI
ANNALISA INZANA editor culturale e communication strategist [testo]
FEDERICA BELLI [foto]
Non so se siete tipi da scogli o da sabbia.
Io sono un tipo da sassi e, forse, la migliore descrizione che potrei fare di Filicudi è riuscire a rendere, anche a chi non ci è mai stato, la sensazione di una pietra perfettamente rotonda e calda sotto la pianta del piede.
Tutte le volte – e sono tante – che penso a quello che negli anni è diventato il mio posto dell’anima, il calore sotto i piedi fa parte del ricordo. Ogni estate quando arrivo al porto, più o meno davanti alla biglietteria dell’aliscafo, mi tolgo un sandalo e appoggio la pianta del piede sulle pietre bollenti e nere del lungomare, mentre nel vociare degli arrivi e delle partenze è sempre più forte il rumore di tazzine e piattini del bar Da Nino, dove la mattina puoi incontrare tutti, sapere chi arriva, chi parte e quanto resta chi resta. Perché l’unica informazione che conta sull’isola è quando sei arrivato e quanto resti.
Se vuoi conoscere Filicudi segui le pietre. Quelle perfette e rotonde della spiaggia del porto sotto Capo Graziano, quelle grandi, scomode e bellissime della spiaggia Le Punte, che costringono a uno shiatsu “casuale” sotto il sole e rendono impossibile entrare o uscire dall’acqua con un minimo di grazia, quelle abbracciate dalle alghe sui suoi fondali e quelle gigantesche come La Canna, uno scoglio alto più di dieci metri, che in un attimo ti riportano a un passato preistorico fatto di lava. E poi ci sono le pietre delle mulattiere. Se hai buone gambe, fiato e resistenza sotto il sole, l’isola è fatta per essere percorsa a piedi: a volte dal mare vedi case che sembrano raggiungibili solo lanciandosi col paracadute, ma invece tutte hanno il loro viottolo pietroso. A volte sono tratturi mal messi, invasi dai fichi d’india, completamente bui la notte, ma percorrerli regala paesaggi mozzafiato, come sulla mulattiera per Zucco Grande, dove resti incantato da
Federica Belli, The Closure , 2024, Courtesy l’autrice
un mare che non finisce mai e dalla sensazione di essere fuori dal tempo, in un momento qualsiasi tra il Neolitico e il XXI Secolo.
Se vuoi conoscere Filicudi non devi avere paura della notte.
Anche se ormai sono lontani i giorni del “quando siamo venuti la prima volta qui non c’era nemmeno la corrente elettrica”, che qualcuno racconta, è ancora facile trovarsi totalmente immersi nel buio. Risalendo dal porticciolo di Pecorini a Mare alla ricerca del motorino, nelle stradine di Val di Chiesa, sulla mulattiera che dal porto arriva a Villa
La Rosa, unica e intramontabile discoteca dell’isola dove, sulle note di un infinito revival, ballano bambini, adolescenti impacciati, equipaggi delle barche, villeggianti storici e vecchi isolani, tutti insieme. La notte di Filicudi non è mai spaventosa; è una coperta calda attraversata dalle risate dei bambini, dal rumore di corse a piedi scalzi, di bottiglie e bicchieri, dal suono sordo della pompa della nave dell’acqua, è un posto sicuro che ti riporta sempre a casa, fatto di silenzio interrotto solo ogni tanto dalla musica.
Se vuoi conoscere Filicudi devi guardare sotto la superficie.
Inspira, tendi le braccia, espira, muovi le gambe, allungati, senza fretta. Non importa dove ti porterà la tua fantasia, se su una Luna dell’Orlo Esterno, in un quadro di Max Ernst o in un sogno di Miyazaki, tu smetterai di essere dove sei, perché il sotto fa così. Nella Grotta del Bue Marino potrebbe capitarti di fare il bagno tra le Cassiopee Mediterranee, meduse innocue che sembrano piccole giostre gialle e blu; a Le Punte, sott’acqua, le barche sembrano grandi dirigibili a cui l’àncora impedisce di volare via, i banchi di pesci stormi che disegnano armonie geometriche contro un cielo blu di Prussia, e gli scogli sono montagne che per la prima volta osservi dall’alto perché stai volando.
In un silenzio poco silenzioso, fatto di bolle e piccoli schiocchi ruvidi, a Filicudi, con la faccia strizzata nella maschera, ho imparato a non avere paura del sotto come quando ero bambina e preferivo non sapere e non toccare nulla con i piedi.
Filicudi è bellissima. Il sotto lì è bellissimo. Non ci andate però, che mi fate confusione.
STUDIO VISIT BEKHBAATAR ENKHUTR
di SAVERIO VERINI
Èuno scultore profondamente contemporaneo e ostinatamente antico, Bekhbaatar Enkhtur. Quella praticata dall’artista è una scultura fragile e precaria che si mostra agli occhi dello spettatore mai uguale a se stessa; un aspetto che la rende vicina alle istanze del tempo che viviamo e alle trasformazioni radicali che hanno interessato la scultura già dalla fine del XIX Secolo. Il suo immaginario attinge da un repertorio iconografico fatto di memorie, tradizioni e miti della sua terra d’origine, la Mongolia; e questa, invece, è una caratteristica che dà alle sue opere un’apparenza arcaica, quasi ancestrale. Enkhtur utilizza prevalentemente argilla cruda, cera d’api e altri materiali che comportano un fisiologico deperimento; le sue opere manifestano così una natura organica e malleabile, che trova conferma anche nell’impiego di un “metallo morbido” come l’alluminio, di cui l’artista si serve per realizzare dei poetici bassorilievi. La poetica di Enkhtur è dunque proiettata verso una vitalità della scultura, in cui il mutevole sembra aver sostituito il durevole, l’orizzontale ha preso il posto del verticale e la fragilità è preferita alla muscolarità.
La tua pratica mette in discussione alcuni fondamenti della tradizione scultorea come l’impiego di materiali “duri”, la monumentalità, la verticalità. Lo fa in maniera istintiva e viscerale, ma anche pienamente consapevole. Da dove ha origine questa tua riflessione?
Il punto di partenza della mia riflessione artistica affonda nei miei ricordi d’infanzia. Nella mia famiglia, come in molte altre famiglie mongole, era pratica comune avere un piccolo altare dedicato a una divinità, con offerte come caramelle poste davanti a una statua di bronzo o rame. Da bambino, mi sentivo attratto da quelle caramelle, ma anche dal mistero che circondava queste statue. Ciò ha acceso in me una riflessione profonda su come, in quel contesto, una semplice scultura potesse essere trattata come un essere vivente, dotato di un’anima. Mi affascinava l’idea che un oggetto inanimato potesse ricevere attenzione e rispetto, come se avesse una propria vita. Questo concetto ha influenzato profondamente il mio modo di vedere la scultura: non più come qualcosa di fisso e immutabile, ma come qualcosa di vitale, che partecipa al flusso della vita. Il trattamento delle sculture come entità vive, che cambiano e si consumano con il tempo, riflette il mio desiderio di esplorare l’anima intrinseca della materia. Anche nei miei lavori, scelgo materiali che si trasformano, proprio per cercare di catturare questa dimensione mutevole. Per me, la scultura non è soltanto un oggetto da osservare, ma una presenza che dialoga con chi la guarda, che esiste in una relazione dinamica con il tempo e lo spazio che la circondano.
Nel tuo immaginario sono costantemente presenti animali e figure legate al tuo Paese di provenienza,
Il trattamento delle sculture come entità vive, che cambiano e si consumano con il tempo, riflette il mio desiderio di esplorare l’anima intrinseca della materia
la Mongolia. Trovo che, più recentemente, tu stia espandendo il campo, includendo figure fantastiche che sembrano maggiormente frutto di un “senso d’invenzione”. Da cosa trai ispirazione? E quali sono, se ci sono, i tuoi riferimenti nel campo della storia dell’arte?
La mia ricerca artistica si è sempre concentrata sul simbolismo degli animali, e spesso mi è capitato di utilizzare figure animali nelle mie opere. Tuttavia, ultimamente sento il bisogno di variare la mia pratica, andando sempre più in profondità nella storia e scoprendo i legami che esistono tra diverse tradizioni. Questo mi ha portato a sviluppare un forte interesse verso l’Asia centrale.
I miei riferimenti tendono ad avere una certa connessione con ritrovamenti archeologici, e tra questi mi interessa particolarmente l’arte sciita. Quando penso alla pittura, trovo affascinanti artisti come Syah Qalam e Merab Abramishvili, e osservo con curiosità tutte le trasformazioni della pittura che si sono sviluppate dall’Asia orientale fino all’Asia centrale.
Le opere che realizzi sono attraversate da una forte fisicità: il tuo tocco è sempre pienamente percepibile, così come la natura dei materiali che utilizzi. La manualità è un valore per te? C’è, in questa scelta, una forma di resistenza all’avanzamento inesorabile dell’immagine digitale e virtuale? Sì, la manualità è un valore fondamentale per me. Nel mio lavoro il contatto diretto con la materia è essenziale: il mio tocco deve essere percepibile, perché ogni segno, ogni impronta che lascio sulla superficie mi permette di trasmettere l’energia e la vitalità che cerco nelle mie opere. Questa scelta di lavorare con le mani, di plasmare i materiali in modo tangibile, può certamente essere vista come una forma di resistenza all’avanzamento dell’immagine digitale e virtuale. Non è tanto un rifiuto della tecnologia, ma piuttosto una riaffermazione del valore della fisicità e dell’imperfezione, del processo lento e meditativo che sta dietro la creazione artistica.
Bekhbaatar Enkhtur è nato a Ulan Bator, in Mongolia, nel 1994. Dopo essersi formato in scultura all’Accademia di Belle Arti Bologna, si è trasferito a Torino, dove attualmente vive. Le sue opere sono state esposte in numerose mostre, personali e collettive, organizzate in musei, fondazioni, gallerie e spazi no-profit, tra i quali: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2024); Fondazione Elpis, Milano (2024); Pedro Cera Gallery, Lisbona (2024); Palazzo Collicola, Spoleto (2023); Galleria de’ Foscherari, Bologna (2023); Matèria, Roma (2023); LC Queisser Gallery, Tbilisi (2022); Fuocherello Fonderia Artistica de Carli, Volvera (2021); Ex Convento di San Francesco, Bagnacavallo (2021); Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato (2019); galleria P420, Bologna (2018). Tra le residenze si segnala: KORA - Contemporary Arts Center, Castrignano De’ Greci; MAMboMuseo d’Arte Moderna di Bologna; Manifattura Tabacchi, Firenze; Fondazione Lanfranco Baldi, Pelago; Dolomiti Contemporanee, Borca di Cadore. Nel 2023, nel corso della fiera Artissima, ha ricevuto il premio Illy Present Future. Nel 2024 è tra i finalisti del Future Generation Art Prize. È rappresentato dalle gallerie Matèria e Pedro Cera.
Bekhbaatar
Enkhtur, Wolf , 2023, argilla, ginestra, legno, dimensioni variabili.
Courtesy: l’artista.
Bekhbaatar Enkhtur, Bers , 2021, argilla, paglia, legno,160 x 500 x 140 cm. Photo Marco Parollo. Courtesy: l’artista e Magma, Bagnacavallo.
Bekhbaatar Enkhtur, Tigre, 2023, cera d’api, palla medica, legno, veduta dell’installazione a Palazzo Collicola, Spoleto. Courtesy: l’artista e Matèria, Roma.
Bekhbaatar Enkhtur, veduta della mostra Imagining for Real , galleria Matèria, Roma, 2023. Courtesy: l’artista e Matèria, Roma.
NEI NUMERI PRECEDENTI
#58 Mattia Pajè
#59 Stefania Carlotti
#61 Lucia Cantò
#62 Giovanni de Cataldo
#63 Giulia Poppi
#64 Leonardo Pellicanò
#65 Ambra Castagnetti
#67 Marco Vitale
#68 Paolo Bufalini
#69 Giuliana Rosso
#70 Alessandro Manfrin
#71 Carmela De Falco
#72 Daniele Di Girolamo
#73 Jacopo Martinotti
#74 Anouk Chambaz
#75 Binta Diaw
#76 Clarissa Baldassarri
#77 Luca Ferrero
#78 Francesco Alberico
#79 Ludovica Anversa
#80 Letizia Lucchetti
Spesso ti capita di impiegare materiali di risulta trovati direttamente nei luoghi dove esponi o addirittura di integrare tracce ed elementi delle mostre che hanno preceduto la tua, come nel caso della personale da Matèria. Quanto è importante il contesto che accoglie l’opera?
Di solito, quando preparo una mostra, cerco sempre di avere un “motivo”, un filo conduttore che mi guidi. Inizio a riflettere sulle potenzialità dello spazio e sul contesto in cui l’opera sarà inserita. Questo mi porta a creare una sorta di “tempo compresso”, dove le mie opere nascono nel preciso momento in cui la mia immaginazione incontra la realtà del luogo.
Spesso mi capita di utilizzare materiali che trovo direttamente nel posto in cui espongo, come una forma di dialogo con lo spazio. Questo è accaduto, per esempio, nella mia personale da Matèria, dove ho integrato "tracce" della mostra precedente di Marta Mancini. In questo modo, non solo inserisco le mie opere in un ambiente specifico, ma lascio che quel luogo e alcune sue caratteristiche diventino parte dell’opera stessa.
Ogni segno, ogni impronta che lascio sulla superficie mi permette di trasmettere l’energia e la vitalità che cerco nelle mie opere
Sei arrivato in Italia dalla Mongolia per studiare all’Accademia di Belle Arti. Com’è stato questo passaggio? Quali le opportunità e quali le difficoltà? Mi piacerebbe se provassi a descrivere anche la tua condizione di artista emergente in un Paese come l’Italia. Essere lontano dal mio Paese d’origine mi ha portato a riscoprire la mia cultura sotto una nuova orizzonte, creando un legame più forte con le mie radici, che non avevo percepito pienamente mentre vivevo in Mongolia. Ho accolto tutte le opportunità che mi si sono presentate qui in Italia, cercando sempre di fare del mio meglio. Rispetto alla Mongolia, dove l’interesse per l’arte contemporanea sta iniziando a emergere, l’Italia offre un contesto molto più strutturato, grazie alla sua lunga e consolidata storia artistica. Le difficoltà che ho incontrato, invece, sono soprattutto legate alla burocrazia, che devo gestire personalmente. Tuttavia, sto cercando di trovare un ritmo che mi permetta di continuare il mio percorso artistico, approfittando delle molte opportunità che l’Italia offre, sia in termini di produzione delle opere che di possibilità espositive.
NUOVE VITE, VECCHIE STORIE
ALBERTO VILLA
Sembra paradossale che, in un’epoca ipertecnologica e tanto simile ai “futuri” profetizzati da scrittori e cineasti del passato, sia oggi così difficile pensare al domani. Lo è per tante ragioni, prima fra tutte lo stato di permacrisi di cui abbiamo spesso sentito parlare in questi anni, tanto che onestamente non se ne può più. Probabilmente è lo stesso motivo per cui tendiamo a ricercare nel passato non tanto valori perduti e irrecuperabili (antichissima illusione di qualsiasi generazione) quanto estetiche, oggetti, materiali, atmosfere. Non c’è dubbio, in questo non manca certo una buona dose di nostalgia, e talvolta di anemoia – il rimpianto di tempi mai vissuti, di luoghi mai conosciuti. Eppure, non siamo mai stati così capaci di trovare il nuovo in ciò che è già stato: Internet si rivela sempre di più non tanto il tempio dell’originale, del mai visto, quanto quello del remix e del riutilizzo. E questo approccio si rivela in ogni pratica creativa
A Milano la galleria
Robilant+Voena si trasferisce in un nuovo spazio nella via del lusso
CLAUDIA GIRAUD L Londra, Milano, New York, Parigi e ora di nuovo Milano. Sono le città dove ha sede la galleria Robilant+Voena che sta per aprire uno spazio nella città meneghina: l’evento inaugurale il 20 novembre sarà una personale dello statunitense Jordan Watson, artista visivo multimediale autodidatta e curatore. “Ci trasferiamo da Via Fontana in un edificio storico in Via della Spiga”, annuncia ad Artribune Andrea Sandri, Business Development & Marketing Associate a Robilant+Voena. “La galleria si trova in un finto secondo piano: in realtà è un primo piano perché c’è il mezzanino. È uno spazio grande ed elegante che ha subito un lavoro di restauro per riportare alla luce le sue peculiarità”. Considerata uno dei lati del quadrilatero della moda di lusso, Via della Spiga è una zona dinamica e dal respiro internazionale che ben si adatta allo stile della galleria, una partnership tra i mercanti d’arte Edmondo di Robilant e Marco Voena
della nostra epoca, soprattutto in quei tentativi di creare nuove vite da ciò che pensavamo essere ormai trascorso e irredimibile dall’oblio del tempo. Il passato ci appare così una dimensione che si reitera costantemente, una riserva di braci senza cui il presente non può conflagrare, e che allo stesso tempo (come spiega Christian Caliandro nel suo editoriale) dal presente è risignificato. In questo numero di Artribune, dedicato appunto alle “nuove vite”, siamo andati alla ricerca delle pratiche di riutilizzo di oggetti, edifici, materiali, corpi, prodotti che (senza la pretesa di essere esaustive) ben esemplificano l’attenzione contemporanea per temi quali l’economia circolare e l’ecologia in un mondo schiacciato dalla sovrapproduzione. A partire dalla cover di Camilla Alberti e dai suoi “mostri” che nascono dalle rovine di vite precedenti, per proseguire con il tema della rigenerazione architettonica, sociale e culturale: se Livia Montagnoli ci accompagna nella rivalutazione di Palazzo Nardini a Roma,
attraverso le parole di Valentina Silvestrini conosciamo le metamorfosi dei mattatoi italiani ed europei, mentre Claudia Giraud ci racconta i 40 anni del Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, un tempo residenza sabauda. Alessia Caliendo, Margherita Cuccia e Giulio Solfrizzi ci portano poi nel mondo del fashion e dell’industria tessile, dove il riciclo, il vintage, l’usato e l’upcycling sono ormai pratiche consolidate. E ancora, Elisabetta Roncati ha raccolto la testimonianza dell’artista La Chola Poblete, la cui nuova vita si manifesta ad un livello corporeo, identitario e artistico nella forma della transizione di genere. Infine, Angela Vettese offre una panoramica sul Padiglione Venezia della Biennale, proprio in queste settimane oggetto di una petizione comunale per restituirlo alla cittadinanza veneziana, mentre Anna Detheridge propone nuovi modi di pensare alla vita stessa, anche in modo indisciplinato: dopotutto nessuna nuova vita può nascere in compartimenti stagni.
Il futuro polo culturale di Torino sarà nell’ex Manifattura Tabacchi
Ex Manifattura Tabacchi. Nuovo
Accesso
dal Parco Fluviale
VALENTINA SILVESTRINI L Su 41 proposte pervenute, il concorso internazionale per la riqualificazione urbanistica, architettonica e funzionale dell’ex Manifattura Tabacchi a Torino è stato vinto da Eutropia Architettura, Pininfarina Architecture, Weber Architects con il gruppo interdisciplinare che comprende Paisà Landscape, Aei Progetti, MCM ingegneria e LESS e altri professionisti. Indetta dall’Agenzia del Demanio nel 2023, la gara recepisce il protocollo sottoscritto, nel maggio 2022, dalla stessa Agenzia e da Ministero della Cultura, Regione Piemonte, Città di Torino, il Politecnico e Università degli Studi di Torino. Una pluralità di istituzioni pubbliche che ha promosso un’operazione unitaria per riattivare il sito situato nella zona nord-est della città e dismesso da circa due decenni. Stiamo parlando di 4,5 ettari di territorio da restituire nei prossimi anni alla fruizione della città, con 6200 mq di superficie pubblica recuperata, 200 nuovi alberi, 2mila mq convertiti in spazi per la cultura, 41mila mq di edifici rigenerati. Nell’articolato programma funzionale, centrali sono la realizzazione del nuovo polo archivistico e culturale di Torino e la rigenerazione delle strutture industriali preesistenti, destinate anche ad accogliere un centro universitario e spazi per la formazione. Prevista, tra i nuovi innesti, una galleria coperta per attività sociali e culturali. Nel primo semestre del 2025 inizieranno le demolizioni e le bonifiche, per le quali l’Agenzia del Demanio ha stanziato 15 milioni di euro. Dopo il concorso per il restauro e la riattivazione del compendio della Cavallerizza Reale, Torino punta ancora sul rilancio degli immobili di proprietà pubblica, con funzioni anche culturali, per il proprio futuro.
download Pubblicità s.r.l. via Boscovich 17 — Milano via Sardegna 69 — Roma 02 71091866 | 06 42011918 info@downloadadv.it
COPERTINA ARTRIBUNE
Camilla Alberti, The Alchemy of Melted Bodies. Corpo 2, 2024, 60hx46x38 cm - alluminio, cellulosa, ossido di ferro, polvere di ossa, carbone, polvere di mattone, colla di zucchero e ossa
100 anni di Surrealismo. Le mostre e gli eventi in Italia e nel mondo
IL SURREALISMO AL CENTRE POMPIDOU DI PARIGI
La sede di una delle più vaste collezioni di arte surrealista francese al mondo, ha organizzato una mostra itinerante che, da Bruxelles, si è ora spostata a Parigi. Qui, fino al 13 gennaio 2025, sono presenti dipinti, disegni, film e fotografie degli esponenti del movimento fondato da André Breton, e il manoscritto originale del Manifesto, in prestito dalla Biblioteca Nazionale di Francia. Prossime tappe Amburgo e Madrid e infine Philadelphia Museum of Art nel 2026.
SURREALISMO E ANTIFASCISMO A MONACO
La retrospettiva But Live Here? No Thanks: Surrealism + Anti-Fascism fino al 2 marzo 2025 ha l’obiettivo di mappare la complessa rete di ideali antifascisti che hanno animato il Surrealismo fin dal principio. Il tutto con lo scopo di farlo percepire come un movimento controverso e politicizzato.
IL SURREALISMO DI IERI E DI OGGI IN INGHILTERRA
La mostra Forbidden Territories, in programma dal 23 novembre 2024 al 21 aprile 2025 presso l’Hepworth Wakefield in Inghilterra, presenta nuclei tematici di epoche diverse: artisti del circolo di Breton degli Anni Venti - Salvador Dalí, Lee Miller e Max Ernstinsieme ai surrealisti successivi, come Leonora Carrington, e artisti contemporanei che lavorano sulla scia del surrealismo storico, come Wael Shawky
IL SURREALISMO E L’ITALIA A PARMA
La mostra in corso fino al 15 dicembre 2024 alla Fondazione Magnani Rocca di Traversetolo presenta oltre 150 opere di Dalí, Magritte, Ernst, Miró, Duchamp, Man Ray, Tanguy, de Chirico, Leonor Fini e altri suoi protagonisti. Per un viaggio nell’impatto e nell’evoluzione del Surrealismo nel nostro Paese.
IL PRECURSORE DEL SURREALISMO
GIORGIO DE CHIRICO A TORINO
La monografica al Museo Accorsi-Ometto di Torino dall’8 novembre 2024 al 2 marzo 2025 è la prima a concentrarsi sugli eventi intorno all’anno di nascita del movimento francese, di cui Giorgio de Chirico è considerato il precursore. L’esposizione presenta, per la prima volta, il carteggio de Chirico - Breton, inclusa la lettera del 1924, finora poco nota, in cui l’artista propose di realizzare per il fondatore la prima replica di un’opera del periodo metafisico, quella de Le muse inquietanti del 1918.
CLAUDIA GIRAUD
È Guendalina Salimei la curatrice del Padiglione Italia alla Biennale Architettura 2025
PEFC/18-31-992
VALENTINA SILVESTRINI L Alla 19. Mostra Internazionale di Architettura - La Biennale di Venezia, curata dall’architetto e ingegnere Carlo Ratti e al via il 10 maggio 2025, l’Italia sarà rappresentata dal progetto TERRÆ AQUÆ. L’Italia e l’intelligenza del mare. Con questa proposta, l’architetta e docente universitaria Guendalina Salimei (Roma, 1962) è stata selezionata tramite l’avviso pubblico a due fasi promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Fondatrice nel 1992 di T-Studio e particolarmente nota per l’intervento in corso a Corviale – Kilometro Verde ha anche ispirato il film Scusate se esisto di Riccardo Milani, con Paola Cortellesi – nel “suo” Padiglione Italia metterà a fuoco “il rapporto del nostro territorio con il mare: il Mediterraneo allargato ai vicini oceani. La centralità di questo rapporto strutturale che incide sull’identità e sull’equilibrio ambientale del Paese è stata a lungo trascurata. Il Mediterraneo conforma le coste con centinaia di città portuali e un territorio che si spinge in profondità all’interno: si respira il mare dalle alture delle Alpi e degli Appennini. Guardare l’Italia dal mare implica un cambiamento di prospettiva, impone la necessità di ripensare il progetto del confine tra terra e acqua come sistema integrato di architetture, infrastrutture e paesaggio”.
ABITARE LE ROVINE ED ESSERNE ABITATI. I MOSTRI DI CAMILLA ALBERTI
Sulla cover di Artribune Magazine 81 figura una scultura della giovane artista Camilla Alberti: un vero e proprio mostro dall’aspetto proteiforme che testimonia la possibilità di creare nuove vite a partire dalla convivenza con l’alterità
ALBERTO VILLA
Se prendiamo per buone le teorie di Ursula K. Le Guin sulla nascita della narrazione – ovvero non tanto a partire dalla caccia e dalle armi, quanto dal raccolto e dalla sua conservazione – allora il lavoro di Camilla Alberti inizia come iniziano le storie. Lunghe camminate nello spazio naturale e in quello urbano, alla ricerca di oggetti per lei eloquenti, narratori di vite passate e concluse, ma non per questo del tutto mute. Sono quelle che lei chiama “rovine” e che, se nelle opere della sua serie Unbinding Creatures apparivano in modo esplicito, nei lavori più recenti sono meno evidenti, eppure ancora più costitutive. Le ossa, i metalli, le conchiglie che l’artista trova e raccoglie si trasformano non più in inserti superficiali di chimere dall’aspetto composito, ma in pigmenti che, mescolati a speciali colle, vanno a comporre la materia stessa degli organismi. Le creature così originate, però, non abbandonano la condizione di “mostro”, da sempre al centro della pratica e delle riflessioni di Alberti. Il mostro come esempio dell’alterità, della vita di confine (sia perché indefinibile, sia perché emarginato), è qui oggetto quindi di una risemantizzazione, di una sorta di inversione energetica. Proprio per la loro intrinseca pluralità di coesistenze, questi mostri si configurano come olobionti, ovvero corpi-ecosistemi, fondati proprio sulla collaborazione simbiotica delle rovine, che intraprendono così una nuova vita. Alle origini di questo cambiamento, racconta Camilla Alberti ad Artribune, c’è il periodo di residenza trascorso insieme alle comunità che abitano il deserto di Atacama, in Cile, dove la collaborazione con la natura e con ciò che spontaneamente offre è vitale.
Per approfondire uno degli ultimi progetti di Camilla
Alberti a Seoul, scannerizza il QR code qui a fianco
“Qui la cosmogonia è indubbia”, ci spiega l’artista, in riferimento ai miti locali, “la leggenda e la realtà si confondono: non esiste differenza tra storia e Storia”. Torniamo così alla narrazione e alla sua capacità di creare veri e propri mondi, di modellare la realtà per trasformarla in significato e cultura. E in effetti, “trasformazione” è una parola chiave per Alberti, soprattutto se applicata alla materia dell’opera che, come dicevamo, consiste in una mistura di elementi organici e inorganici: questa sensibilità, che senza difficoltà possiamo definire “alchemica”, è più che mai visibile nelle opere della serie Blended Matter, come esplicita proprio il titolo. Il concetto di miscela, qui essenziale, da un lato si propone quindi come evidenza pratica e processuale; dall’altro incarna un manifesto tanto artistico quanto etico: pensarsi olobionti significa mettere in crisi il concetto di individuo e di sé come singolarità. I nostri corpi brulicano di vite altrui, che ci abitano come noi abitiamo una città o un pianeta. Prima capiremo che la nostra stessa esistenza è possibile solo grazie al ciclo di vita, morte e rigenerazione di altre vite, prima impareremo a vivere come simbionti del mondo e delle sue preziosissime rovine.
Il lavoro di Camilla Alberti (Milano, 1994) si concentra sulla ricerca e sulla creazione di scenari alternativi di coesistenza e collaborazione tra le specie, sfidando il paradigma antropocentrico dell’esperienza e del rapporto con il mondo. Ha partecipato a residenze di ricerca internazionali, tra cui LaWayaka Current nel deserto di Atacama, in Cile (2023) dove ha potuto studiare le tecniche di tessitura in relazione alle pratiche sciamaniche e alla cosmogonia Andina. Nel 2024 ha avviato una ricerca presso l’Istituto di biologia di Graz, in Austria, dove ha collaborato con un team di microbiologi per creare sculture metamorfiche composte da biomateriali sulla cui superficie sono stati impiantati licheni. Il suo lavoro è stato recentemente esposto a: Padiglione Centrale, Biennale di Malta (2024); GIAF23 Gangneung, Corea del Sud (2023); Padiglione Italiano, 14° Biennale di Gwangju, Corea del Sud (2023); Akademie Graz (2023); Palazzo Vecchio e Museo Novecento (2022), Palazzo Strozzi (2021) a Firenze; Museo Archeologico Schloss Eggenberg, Graz (2021). Collezioni d’arte: Hyundai Moka Museum, Seul; Gyeonggi Cultural Foundation, Seul; Museo Novecento, Florence; Collezione Farnesina, Roma; Collezione Scarzella, Milano; Nctm per l’Arte, Milano; Museo della Permanente, Milano; Collezione Corneliani, Milano. Attualmente si trova a Seul per partecipare alla residenza del National Museum Of Modern and Contemporary Art (MMCA)
Camilla Alberti nel suo studio al MMCA Changdong, Seul. Photo Kristine Krauze Slucka
PALAZZO NARDINI NELLA STORIA DI ROMA.
DAL RINASCIMENTO AL MOVIMENTO FEMMINISTA, VERSO UN NUOVO POLO CULTURALE
di LIVIA MONTAGNOLI
Anche chi cammina distratto sul rettifilo che da Piazza dell’Orologio conduce in Piazza Pasquino, in antichità la Via Papalis, perché parte del percorso che conduceva i pontefici da San Pietro alla Basilica di San Giovanni in Laterano in occasione dei cortei ufficiali, non può fare a meno di notare il maestoso portone contornato da bugne a punta di diamante – con fregio di palmette dentro festoni, dentelli e cornice a mensole – che si incontra al civico 39 dell’odierna Via del Governo Vecchio. Strada che prende il nome dal palazzo stesso, nato come residenza del Governatore Nardini e sede dalla seconda metà del Seicento, e per un centinaio d’anni a seguire, del Governatorato di Roma.
PALAZZO NARDINI
NELLA STORIA DI ROMA
Ma l’edificio di cui ci apprestiamo a ripercorre la storia ha origini ben più antiche, e per questo porta il nome di chi lo fece edificare, tra il 1473 e il 1479, alle spalle di piazza Navona, in un’area della città all’epoca ancora caratterizzata da un fitto tessuto urbanistico di impianto medievale. Il cardinale Stefano Nardini (1420-1484), arcivescovo di Milano, era stato nominato Governatore di Roma nel 1471 da papa Paolo II Barbo: fu probabilmente l’esigenza di avvalorare il suo status a suggerirgli di dotarsi di una residenza all’altezza del ruolo, incaricando gli architetti designati di fondere una serie di edifici preesistenti per farne un palazzo di rappresentanza tra i più sfarzosi della Roma rinascimentale. Ne resta traccia in parte, sebbene l’elemento distintivo di Palazzo Nardini, oggi, sia il grande cortile porticato con loggia legato all’ampio rimaneggiamento del 1567 voluto dal cardinale Giovanni Serbelloni. Solo per pochi anni, infatti, il cardinal Nardini riuscì a godere della sua prestigiosa residenza romana, già nel 1480 donata dal prelato all’Arciconfraternita Ospedaliera del SS. Salvatore in Laterano, come ancora testimoniato da una lapide presente sulla facciata, per diventare sede del Collegio Nardini, con funzioni educative ed assistenziali. Più tardi, nel 1624, su insistenza di papa Urbano VIII, la Compagnia dell’Ospedale del Salvatore avrebbe ceduto il palazzo alla Camera Apostolica, aprendo la strada al trasferimento in loco del Governatorato. Nel 1755 papa Benedetto XIV avrebbe trasferito gli uffici a Palazzo Madama: Palazzo Nardini divenne il palazzo del “Governo Vecchio”, e l’appellativo fu poi trasferito anche alla via, originariamente “di Parione, da cui l’omonimo rione. In questa cronistoria delle alterne vicende dell’edificio, bisognerà arrivare al 1870 per registrare l’inizio di una nuova fase: Roma diventa
UN AFFRESCO DEL QUATTROCENTO DA RISCOPRIRE
L'affresco a monocromo di Palazzo Nardini a Roma. Photo Irene Fanizza
“Un affresco eccezionale”, così lo definisce Antonio Forcellino. E non perché sia stato lui a scoprirlo, ormai un anno a mezzo fa, lavorando al restauro degli ambienti rinascimentali di Palazzo Nardini, nella cosiddetta Sala delle Colonne. Ma per l’importanza che l’affresco in questione può assumere nell’ambito degli studi di storia dell’arte (e non solo) della Roma del Quattrocento. Raffigurante il Banchetto di Baldassarre, episodio tratto dall’Antico Testamento: quando Baldassarre, re di Babilonia, assediato dai Medi e dai Persiani, anziché provvedere alla difesa della città imbandisce una tavola opulenta. Nell’atto sacrilego di libare dalle vettovaglie trafugate dall’antenato Nabucodonosor, distruttore del tempio di Gerusalemme, appare la mano di Dio che annuncia la fine del suo impero. L’opera fu realizzata prima del 1477, in monocromo di terre verdi, manifestazione della sobrietà cardinalizia – seppur solo apparente – che il committente voleva trasmettere evitando il ricorso a pigmenti più costosi. Fu un grande artista a lavorarci, con buona probabilità uno dei migliori disponibili sul mercato di Roma: tra le ipotesi attributive, perché di ipotesi ancora si parla (e non si può escludere, tra gli altri, il Perugino), c’è il nome di Melozzo da Forlì, attivo in quegli anni in città. Più chiara la scelta di un soggetto raro e molto colto, da leggersi alla fine del Quattrocento come un messaggio contro l’empietà, riconducibile alla minaccia dei Turchi. Sono allo studio anche i numerosi graffiti antichi rinvenuti sull’affresco, che lasciano ipotizzare attinenze con il sacco di Roma del 1527.
capitale e Palazzo Nardini, dopo un restauro per mano dell’architetto Francesco Vespignani, diviene Pretura penale del Regno d’Italia, e della Repubblica poi. Nel corso del Novecento, il palazzo sarà sede dell’Educatorio femminile Vittoria Colonna, e poi rifugio antiaereo durante la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1957, quando Roma si doterà di un nuovo complesso giudiziario a piazzale Clodio, Palazzo Nardini perderà tutte le sue funzioni e sarà definitivamente abbandonato, salvo prestarsi saltuariamente come set cinematografico negli anni della Dolce Vita (nel 1973 il cortile diventa la scuola di Titta nel film Amarcord di Federico Fellini).
DALL’ESPERIMENTO FEMMINISTA
ALL’ABBANDONO, ALLA RINASCITA
Un decennio più tardi, dal 1976 al 1984, si aprirà per il Palazzo l’ennesima gloriosa stagione: occupato dal Movimento per la Liberazione della Donna, sarà sede della Casa Internazionale delle Donne e vero e proprio centro antiviolenza in Italia, fulcro del più importante esperimento femminista italiano, avanguardistico anche sull’orizzonte internazionale. Terminata anche questa avventura, il complesso è stato definitivamente abbandonato, seppur testimonianza preziosa di molti passaggi della storia di Roma, in oltre 500 anni di vita. E il grande portone che porta memoria del suo prestigio, serrato per molti decenni a spegnere qualsivoglia impeto di curiosità, ha finito per rappresentare una soglia impossibile da oltrepassare. L’ultimo passaggio di proprietà, dalla Regione Lazio all’iniziativa privata, ha determinato l’avvio di un ambizioso progetto di restauro conservativo, con l’idea di dare a Palazzo Nardini un futuro all’altezza del suo passato, nel rispetto del genius loci. Il cantiere, avviato nel 2023, restituirà al palazzo la sua originaria bellezza e alla città un luogo testimone e protagonista di oltre mezzo millennio della sua storia. Un progetto volto a far reincarnare al palazzo la propria vocazione, valorizzandone la storia, dagli albori del Quattrocento, al suo “Periodo Femminista” e facendone un polo culturale aperto al pubblico. Un laboratorio in cui immaginare e realizzare un futuro migliore.
a destra: Palazzo Nardini prima del restauro
in basso: Il restauro di Palazzo Nardini.
Photo Irene Fanizza
nel box:
Le testimonianze del Movimento femminista a Palazzo Nardini.
Photo Irene Fanizza
L’ESPERIMENTO FEMMINISTA DI PALAZZO NARDINI
In una fase significativa della storia civile italiana, che vide la trasformazione del rapporto tra società maschile e mondo femminile, fu Roma a battezzare la prima Casa della donna in Italia, con l’occupazione di Palazzo Nardini da parte del Movimento di liberazione della donna. Il 2 ottobre del 1976 i collettivi femministi della città entravano con un’azione non violenta nel complesso: gli ampi spazi del Palazzo, con il grande cortile centrale su cui si affacciavano i loggiati, i lunghi corridoi, le innumerevoli stanze sembravano adeguati alle necessità e alle ambizioni del movimento, che aspirava a creare una “città delle donne” nel cuore di Roma, in un luogo facilmente riconoscibile e raggiungibile da tutte. L’esperimento si sarebbe protratto fino al 1984, in anni fondamentali per maturare una coscienza collettiva nel frangente di molte battaglie cruciali (come la Legge 194 sulla depenalizzazione dell’aborto arrivata nel ’78). All’interno del Palazzo si costituirono spazi di autoaiuto per la conoscenza del proprio corpo e la salute riproduttiva, consultori per le donne che volevano abortire quando l’interruzione di gravidanza era ancora illegale, ma anche servizi di consulenza legale e centri di ascolto per le donne vittime di violenza, un asilo nido per i bambini del quartiere, diversi progetti culturali, attività teatrali, riviste (dal Quotidiano Donna a Radio Lilith, all’Università delle donne fondata dal collettivo Virginia Woolf). Il palazzo porta letteralmente i segni della storia sulla propria pelle. Numerose sono le scritte, i graffiti, slogan, disegni, poesie e frasi d’amore che sintetizzano in modo efficace e colorito le aspirazioni culturali, politiche e personali delle “Ragazze del Governo Vecchio”. Alcuni di questi, meglio conservati perché apposti su elementi lapidei, saranno salvati e valorizzati, mentre a causa delle pessime condizioni conservative degli intonaci su cui sono stati scritti, molta parte, attentamente documentata, si perderà. Tuttavia, la proprietà dell’immobile assicura di farle rivivere con l’ausilio di artisti contemporanei, sempre all’interno del complesso. Nel documentario Le cose in frantumi luccicano, prodotto da Clipper Media con il sostegno dalla Fondazione Renato Armellini, e presentato il 22 ottobre al Festival del Cinema di Roma, è possibile ascoltare le voci e le storie delle protagoniste che hanno animato questo palazzo. Le registe, cinque giovani talenti, utilizzano archivi e testimonianze per ripercorrere la storia di via del Governo Vecchio, evidenziando l’importanza dei traguardi già raggiunti e quelli ancora da conquistare. Questo lavoro rappresenta un omaggio alla lotta femminista e alla significativa eredità di questo luogo, che continuerà a ispirare nuove generazioni.
FOCUS PALAZZO NARDINI
Arte e cinema con il festival Lo Schermo dell’arte. Intervista alla direttrice e al curatore
Claudia Giraud L Torna dal 13 al 17 novembre 2024 il festival di cinema e arte contemporanea, nato a Firenze nel 2008 dal bisogno di contemporaneità di questa città dal celebre passato. La 17a edizione diretta da Silvia Lucchesi sarà arricchita dal programma VISIO, a cura di Leonardo Bigazzi, dedicato ad artisti under 35 che utilizzano immagini in movimento.
Il vostro format può dare ancora tanto al contemporaneo a Firenze?
Silvia Lucchesi: Penso, oggi più che mai, che il nostro contributo sia quello di offrire altre prospettive alla violenza e alle drammatiche divisioni del mondo in cui viviamo. Questa è la vera e unica possibile “apertura alla contemporaneità” di un soggetto indipendente come è Lo Schermo dell’arte.
Quali sono le novità di VISIO 2024?
Leonardo Bigazzi: VISIO da sempre collabora sia con le istituzioni del territorio regionale, sia con soggetti privati toscani. Grazie a Human Company, azienda storica fiorentina e punto di riferimento nell’hospitality openair in Italia, il VISIO Production Fund 2024 è stato incrementato di 5mila euro, per un totale di 35mila euro, e per la prima volta sarà previsto un rimborso per le spese di viaggio degli artisti partecipanti.
A Roma restaurato un ninfeo seicentesco dentro Villa Borghese: riapre con l’arte contemporanea
VALENTINA MUZI L Costruita tra il 1609 e il 1618 per volontà di Papa Paolo V Borghese (e sotto la direzione di Flaminio Ponzio), la Loggia dei Vini a Villa Borghese a Roma è una struttura a pianta ovale realizzata sopra la grotta utilizzata per la conservazione dei vini, e collegata da un percorso sotterraneo al Casino nobile. L’elegante padiglione è oggetto di un importante intervento di restauro, realizzato grazie alla donazione di Ghella, colosso multinazionale nel settore delle costruzioni di grandi opere pubbliche. La curatela scientifica del progetto porta la firma della Sovrintendenza Capitolina, che annuncia la conclusione della prima fase del restauro e la riapertura della Loggia dei Vini con Lavinia, il programma d’arte contemporanea a cura di Salvatore Lacagnina. La rassegna ha debuttato con Arancia e erba cedrina, il primo di una serie di eventi, ognuno dei quali avrà il titolo di un gusto di gelato – a seconda della stagione –, e vedrà il coinvolgimento di artisti di calibro internazionale, tra cui Ross Birrell & David Harding, Enzo Cucchi, Piero Golia, Virginia Overton, Gianni Politi e Monika Sosnowska. Il progetto vede anche la collaborazione di una gelateria di Roma (Monteforte) assieme a un ristorante (Retrobottega) che via via metteranno a punto i gusti.
Tutte le novità del Premio Sulmona: dopo 50 anni cambia format
Gonzalo Orqìun, Il ragazzo dei cardellini , olio su tela 120x100 cm, 2021, foto e courtesy l'artista
CLAUDIA GIRAUD L Lo storico Premio Sulmona si rinnova. “Questa edizione del Premio non nega un passato importante, ma avvia un processo di rinnovamento ormai necessario”, ci spiega il suo direttore Ivan D’Alberto. “L’apertura a tutti i linguaggi, anche quelli più sperimentali come l’intelligenza artificiale o le installazioni site-specific attivate attraverso la partecipazione del pubblico, è una volontà del Premio a guardare al futuro. La pittura rimane il medium di riferimento di questa rassegna, ma gli ultimi 50 anni hanno un po’ negato la presenza di altre forme artistiche che dimostrano, invece, come l’arte sia al passo con i tempi e in stretta relazione con la società”. A differenza delle precedenti edizioni quest’anno il Premio ha una struttura diversa: una selezione di 25 artisti under 45, italiani e stranieri, e tre sezioni denominate Omaggio, Accademia e Territorio. Prevista il 9 novembre la cerimonia di premiazione della 51esima edizione.
Grandi novità a Parigi: la Fondation Cartier si sposta in un edificio storico vicino al Louvre
Loggia dei Vini, Villa Borghese. Photo Daniele Molajoli, courtesy Ghella
VALENTINA MUZI L Era il 20 ottobre del 1984 quando Alain Dominique Perrin – l’allora presidente di Cartier International – fondò nella tenuta Montcel a Jouy-en-Josas, a Parigi, Fondation Cartier pour l’art contemporain. Nacque così la prima fondazione aziendale francese dedicata alla promozione dei linguaggi delle arti contemporanee, mettendo al centro gli artisti e coinvolgendoli in mostre e residenze. Successivamente, nel 1994, la Fondazione si trasferì a Parigi, negli spazi di Boulevard Raspail, in un emblematico edificio in vetro e acciaio progettato dall’architetto Jean Nouvel. A quarant’anni dalla sua nascita, la Fondation Cartier festeggia l’anniversario tra podcast, pubblicazioni e una mostra che prenderà forma nella nuova sede a Place du Palais – Royal, all’interno di uno storico stabile ridisegnato dall’archistar francese per creare un dialogo con il contesto urbano, offrendo ai visitatori nuove prospettive della città. La nuova sede aprirà le sue porte al pubblico entro la fine del 2025.
A Torino nuovissimo allestimento per il Museo Egizio
VALENTINA MUZI L “L’allestimento rappresenta un cambio di passo ontologico del Museo: amplia, infatti, la prospettiva museologica della nostra istituzione da puramente egittologica a una archeologia contemporanea”. Così la presidente del Museo Egizio di Torino, Evelina Christillin, e il direttore Christian Greco, annunciando Materia. Forma del tempo, il nuovo allestimento permanente che pone al primo posto “la materialità, il contesto di provenienza e le funzioni degli oggetti per ricostruirne una biografia approfondita”. Il progetto si focalizza sulla produzione, sulla funzione dell’oggetto e sul contesto di provenienza per raccontare l’antica civiltà nilotica, approfondendo la storia e l’utilizzo di circa seimila reperti tra legni, vasi in ceramica, oggetti e pigmenti (provenienti dai depositi), che vanno dall’epoca Predinastica (4000 – 3100 a. C.) a quella Bizantina (565 –642 d. C.).
A Matera Palazzo Lanfranchi riapre al pubblico e inaugura i nuovi spazi espositivi
VALENTINA MUZI L Originariamente utilizzato come seminario, Palazzo Lanfranchi venne costruito a Matera nel 1668 per volere del vescovo Vincenzo Lanfranchi. Il progetto di costruzione venne affidato al frate Francesco da Copertino che, nel 1672, completò lo stabile inglobando le strutture preesistenti, ancora oggi parte integrante della scenografica facciata dell’edificio. Successivamente, nel 2003, negli spazi del palazzo prese forma il Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna della Basilicata. Nel 2021, l’immobile è stato oggetto di un significativo intervento di restauro che ha visto il rinnovamento e la valorizzazione degli ambienti (sia interni sia esterni) e delle collezioni. A distanza di tre anni – e dopo la chiusura temporanea del 2 settembre 2024 – il museo materano torna fruibile con nuove sale, alcune delle quali dedicate alle opere di due maestri dell’arte del Novecento: Carlo Levi e Luigi Guerricchio.
Palazzo Lanfranchi a Matera
A Firenze chiude dopo 25 anni e 60 mostre lo spazio culturale Base. “Sfrattati nel disinteresse generale”
CATERINA ANGELUCCI L È vero che Base/Progetti per l’arte non è soltanto uno spazio espositivo e nemmeno una banale galleria d’arte – si tratta di una vera e propria comunità culturale con un ampio e diversificato sguardo sull’arte contemporanea – ma i suoi locali erano un punto di riferimento per artisti, curatori, critici e collezionisti, uno strumento di accoglienza e condivisione per riflettere sul ruolo e lo stato dell’arte. Così la notizia della sua chiusura (forzata) “lascia tutti sotto shock”, racconta ad Artribune il critico e curatore Lorenzo Bruni, che dal 2001 coordina le attività della non profit avviata nel 1998 da un collettivo di undici artisti che vivono e operano in Toscana (Mario Airò, Marco Bagnoli, Massimo Bartolini, Vittorio Cavallini, Yuki Ichihashi, Paolo Masi, Massimo Nannucci, Maurizio Nannucci, Paolo Parisi, Remo Salvadori ed Enrico Vezzi). “Ci sfrattano perché il proprietario vuole probabilmente vendere. Ormai le grandi griffe si stanno affacciando anche Oltrarno. Il problema però non è di certo il singolo proprietario di un immobile che naturalmente fa quel che vuole con casa sua, il problema è che percepiamo un disinteresse e una disattenzione sul contemporaneo diffusa”. Un po’ lo stesso ragionamento fatto da Eduardo Secci che ha chiuso a Firenze.
Alle Cinque Terre un progetto di arte diffuso per rafforzare il legame tra Arte Povera e territorio
LUDOVICA PALMIERI L Una manifestazione realizzata per raccontare il legame tra Arte Povera e territorio ligure e dimostrare l’ancora effervescente vitalità del movimento. Questa è OTP – Orizzonte Terzo Paradiso. Nata a partire da una riflessione sull’origine genovese di Germano Celant, ideatore del movimento nel 1967, l’iniziativa si propone di raggiungere tre obiettivi: celebrare il rapporto tra Arte Povera e territorio ligure, con figure come Ida Giannelli, Giulio Paolini ed Emilio Prini; evidenziare il legame che due grandi esponenti del movimento, Alighiero Boetti e Michelangelo Pistoletto hanno avuto e hanno con il territorio; dimostrare l’attuale vivacità del movimento, lungi dal morire con la fine decretata dallo stesso Celant nel 1971. La prima è la mostra Alighiero Boetti: In situ, nel Convento di San Francesco, con sei opere esemplificative, provenienti da collezioni private locali, che riflette sul legame tra l’artista e Vernazza. Di carattere più didattico è Arte povera: La storia 1967-1971, sotto la terrazza del Castello Doria di Vernazza, che ospita fotografie, materiali d’archivio e il video Arte Povera a cura di Beatrice Merz e Sergio Ariotti. Infine, c’è Oltre l’Arte povera, che con sei interventi site-specific spinge gli interessati a sconfinare in aree meno turistiche.
Chez Paint It Black, un ristorante interamente immaginato dagli artisti
Via Fratelli Calandra 6a Artisti italiani e internazionali sono i protagonisti di Chez Paint It Black, progetto cocurato dall’artista Pieter Vermeersch che trasformerà l’omonima casa editrice in un ristorante temporaneo in occasione di Artissima 2024, dal 24 ottobre al 3 novembre 2024.
I nuovi spazi del Centro Restauro di Venaria
Fondato a Torino nel 2005, il Centro Conservazione e Restauro La Venaria
Reale prende forma nelle ex scuderie e maneggi della Reggia ed è annoverato tra i principali poli dedicati al restauro in Italia. Il polo torinese ha annunciato la riqualificazione della biblioteca e degli archivi e l’inaugurazione di Il Ristoro delle Arti, nuovo spazio che entrerà a far parte del percorso di visita della Reggia.
La Fondazione Giorgio Griffa in un ex edificio industriale
Via Oropa 28
Nel quartiere Vanchiglietta apre, dentro un vecchio lanificio trasformato in edificio Michelin, la Fondazione Giorgio Griffa, nata nel 2023 per volontà dell’ottantenne artista torinese. Obiettivo della fondazione è porsi sul territorio come luogo di incontro tra artisti, curatori e appassionati d’arte.
Il nuovo studio d’artista di Davide Dileo, ovvero Boosta dei Subsonica Vicolo della Consolata 4 Dopo l’esperienza della galleria-atelier nel quartiere San Salvario, il tastierista, compositore e co-fondatore dei Subsonica apre Sonogramma, all’interno di un ex laboratorio di ceramica. Il nuovo spazio è dedicato all’esplorazione del suono come mezzo di sperimentazione artistica.
I NUOVI SPAZI APERTI DI RECENTE A TORINO
Mole Antonelliana Museo Egizio
Chez Paint It Black
Fondazione Giorgio Griffa
Davide Dileo
Parco del Valentino
FARE COMUNITÀ CON LA PRATICA ARTISTICA
Il nuovo saggio di Serena Carbone per Gli Ori esplora le dimensioni d’incontro tra arte e comunità, superando le barriere tra pubblico e privato e considerando l’opera non nella sua dimensione di prodotto finito ma in quella di processo anche relazionale
di DARIO MOALLI
Serena Carbone, nel suo libro L’arte in preda al possibile. Pratiche di costruzione di comunità, edito da Gli Ori, esplora un tema complesso e di grande rilevanza per l’arte contemporanea: il ruolo delle pratiche artistiche nel contesto sociale e comunitario. Con uno sguardo attento e multidisciplinare, l’autrice analizza il rapporto tra arte e comunità, facendo emergere come l’arte possa esprimersi anche al di fuori degli spazi istituzionali come musei e gallerie, e che immergendosi nel tessuto sociale, dialogando con esso contribuisca alla costruzione di nuovi legami comunitari.
Carbone traccia un percorso che si concentra soprattutto sugli Anni Novanta, un periodo di grandi trasformazioni per l’arte contemporanea, in cui si affermano nuovi modelli espositivi e si sperimentano linguaggi capaci di infrangere i confini tra arte e vita quotidiana. L’autrice cita come punto di svolta la mostra Chambres d’Amis curata da Jan Hoet nel 1986 a Gent, questa esposizione innovativa portava le opere d’arte direttamente nelle case dei cittadini, superando così le convenzioni museali e suggerendo nuove modalità di fruizione artistica. È proprio in questa direzione che si muove il libro, indagando come gli artisti contemporanei siano riusciti a costruire forme d’arte partecipativa e relazionale, capaci di agire direttamente nel contesto sociale.
Carbone analizza anche l’evoluzione delle pratiche artistiche legate alla comunità attraverso concetti come l’utopia, le micro-utopie e le pratiche relazionali, sviluppando una riflessione che si nutre di importanti riferimenti teorici, come quello di Felix Guattari. Quest’ultimo, con il concetto di “strategie di prossimità”, sottolinea come le grandi utopie sociali e politiche abbiano lasciato spazio a piccole pratiche quotidiane, nelle quali gli artisti creano microspazi di resistenza all’interno delle dinamiche sociali e culturali più ampie.
Il volume è particolarmente attento a mettere in luce la specificità del contesto italiano, dove pratiche artistiche relazionali e collettive si sono sviluppate a partire da una tradizione che affonda le sue radici nel territorio e nel tessuto sociale. Esemplare è il caso del collettivo Oreste, che negli Anni Novanta ha rappresentato uno dei più rilevanti esperimenti di arte partecipativa nel nostro Paese, cercando di ripensare il ruolo dell’artista e del pubblico all’interno di una comunità più vasta. Attraverso il racconto di esperienze concrete, come le attività di Oreste e di altri gruppi artistici italiani, Carbone ricostruisce un panorama variegato e ricco di sfumature, dimostrando come
l’arte possa farsi veicolo di riflessione critica e di trasformazione sociale. Uno degli aspetti più interessanti del testo è la capacità dell’autrice di restituire una visione complessa e stratificata delle pratiche artistiche contemporanee, mettendo in discussione la separazione tra arte e vita, tra spazio pubblico e spazio privato, e suggerendo nuove modalità di interazione tra l’artista e la comunità. L’autrice sostiene che l’arte contemporanea debba continuare a interrogarsi sul suo ruolo sociale, soprattutto in un contesto globale in cui le disuguaglianze e le tensioni sociali sono sempre più evidenti. L’arte in preda al possibile si rivela un libro fondamentale per chiunque voglia comprendere le dinamiche che hanno caratterizzato una tipologia di pratica artistica poco conosciuta e indagata proprio perché messa in pratica in contesti inusuali, effimeri e cangianti. Quello che emerge è il potenziale di trasformazione sociale che queste tipologie di interventi artistici hanno prodotto. In conclusione, Serena Carbone ci invita a riflettere su come l’arte possa tornare a essere uno strumento di costruzione comunitaria, capace di restituire al pubblico non solo l’opera finita, ma un processo creativo che coinvolge la società nel suo complesso.
Serena Carbone, L’arte in preda al possibile Gli Ori, 2024 pag. 112, 16,00 € ISBN 9788873369202
PAROLA ALL’AUTRICE
In questa intervista Serena Carbone attraversa i temi del suo
saggio “L’arte in preda al possibile”, tra esempi della storia dell’arte recente
e riferimenti a critici e pensatori di oggi e di ieri
Qual è la genesi di questo libro?
Io e Pietro Gaglianò, direttore della collana I Limoni per la casa editrice Gli Ori, ci siamo conosciuti diversi anni fa perché entrambi facevamo parte del comitato scientifico di NESXT, il festival degli spazi indipendenti diretto da Olga Gambari dal 2016 al 2019 a Torino. La genesi del libro sta lì: nelle discussioni sui collettivi indipendenti, sul lascito degli Anni Novanta, sulla possibilità di fare rete e di interfacciarsi o meno con la comunità. Queste discussioni già allora si erano trasformate spesso in articoli o interviste, così alla proposta di Pietro di pubblicare per loro, ho colto l’occasione per mettere mano a questo materiale e rifletterci un po’ su.
Qual è stato il processo di ricerca che ti ha permesso di individuare questa specifica modalità/pratica artistica di “costruzione di comunità”?
L’indagine sul campo, scrivere e andare alla ricerca delle pratiche “indipendenti” mi ha portato a fare esperienza della costruzione di comunità. L’indipendenza dal sistema che si voleva ottenere si configurava infatti per lo più come un ridimensionamento notevole se non un azzeramento delle istituzioni e dei modelli di mediazione tra artista,
pratica e individui o pubblici. Penso in particolare ai laboratori di Cesare Pietroiusti alla Fondazione Lac O Le Mon e alla condivisione del tempo, dello spazio e delle parole di un gruppo di venti persone che da sconosciute le une alle altre nel giro di una settimana sono diventate un gruppo con ruoli, scambi e doveri; oppure ad A cielo aperto di Bianco-Valente, dove gli abitanti del piccolo borgo di Latronico (PZ) sono parte attiva ed essenziale di progetti e opere. Poi a queste esperienze si unisce il quadro di studio e letture nel quale mi sono mossa, prima con l’artista belga Marcel Broodthaers alla ricerca della sua “rivoluzione dello sguardo” e poi – in questo caso specifico – con Henri Lefebvre e la sua carica propulsiva verso la trasformazione della società.
È corretto affermare che questa tipologia di approccio artistico ha indubbiamente una connotazione politica? Anche perché la sua genesi risale proprio in un periodo storico estremamente intenso e proficuo politicamente.
Sì, certo, è corretto. Penso, infatti, che ci sia una questione etica molto forte, o per lo meno mi piace pensarlo. E una questione etica è anche una questione
politica. Benjamin mette ben in evidenza le derive da simulacro a cui tende l’opera nel momento in cui spogliata dalla funzione rituale e antropologica entra nell’ambito dell’estetico tecnologico. Oggi più che mai, privata dell’agito etico, la patina attrattiva dell’arte assorbe dalle opere gli aspetti emancipatori. È facile credere che usare la tecnologia coincida tout court con l’essere migliori (ma in quanti conoscono i processi latenti dei dispositivi che utilizzano?), ed è come regredire al tempo in cui si pensava che il progresso avrebbe portato al benessere. E poi infatti scoppiò la Prima guerra mondiale, e ci si accorse che il progresso più che con il benessere coincideva con il potere. A dirla con McLuhan, gli artisti hanno le antenne, Balzac, Flaubert, Baudelaire avevano intuito le ambiguità della modernità, mentre Delacroix dipingeva scene di guerra ed esotici piaceri; il pensiero critico – etichetta che amano usare i moderni pedagoghi – è proprio del cogito di chi esercita una téchne che nel suo fare diventa più resistente ai processi di alienazione, questo è il linguaggio dell’arte, questo è il linguaggio della politica nel suo farsi cittadinanza attiva. Gli Anni Novanta sono stati un periodo intenso, si configurava storicamente un nuovo assetto globale, e la rete – grazie a Internet – era salutata come strumento di emancipazione, e l’arte ha banchettato al suo cospetto. Poi c’è stato l’11 Settembre 2001 e la crisi economica. Non credo negli scenari apocalittici, ma è necessario riscrivere l’orizzonte simbolico nel quale ci proiettiamo. Gli artisti e gli uomini di lettere sono cercatori di senso, e allora qualcosa potrebbero ancora dire alla società.
Dopo aver letto il tuo saggio quella che viene definita “arte relazionale” ne esce un po’ ridimensionata, sia come pratica, non più di tanto innovativa, che come portatrice di utopie non realizzabili. Ne esce ridimensionata sicuramente la carica istituzionalizzata. Non si può ricercare l’utopia nei gangli dei ministeri, sarebbe assurdo. È solo ed esclusivamente nel vissuto che questa pratica conserva la sua carica rivoluzionaria, per dirla con Lefebvre.
Capitale’ del disegno ’
dal 6 dicembre 2024 al 9 marzo 2025
Ph.
Forte di Bard Valle d’Aosta, Italia
LA RESISTENZA CULTURALE
DI PANORAMA A VENEZIA
a cura di CATERINA ANGELUCCI
Èaperto da poco più di un anno Panorama a Venezia, uno spazio culturale indipendente di appena venti metri quadrati (a forma triangolare e con tre ampie vetrine a cui si aggiungono al primo piano dell’edificio appartamenti destinati agli artisti in residenza) in Campiello San Zulian, a pochi minuti a piedi da Piazza San Marco. A lungo è stato occupato da diverse attività commerciali ma, grazie all’iniziativa del curatore Giovanni Paolin, del ristoratore Filippo Zammattio di OZIO e dell’agenzia di comunicazione di design ed eventi d’arte MAY, dal 13 settembre 2023 ha rivendicato una nuova identità quale sede di iniziative artistiche e culturali. Destinato a ospitare mostre e presentazioni di varia natura, oltre a momenti di riflessione e pratica come talk, workshop e promozione di progetti condivisi, Panorama guarda vicino e lontano, a pratiche locali, nazionali e internazionali, artistiche, culturali e conviviali con l’obiettivo di declinarle con sensibilità nel contesto in cui si trovano.
In noi c’era la necessità di offrire a Venezia un luogo che andasse un po’ contro le dinamiche della città
Abbiamo chiesto a Panorama di raccontarsi attraverso le voci di Giovanni Paolin e Sara Maggioni, che con lui segue la direzione artistica del progetto, in una conversazione che ripercorre il primo anno di attività e anticipa i prossimi progetti, tra resistenza culturale e reti di collaborazione tra spazi indipendenti, non solo veneziani ma nel mondo.
CHE COS’È PANORAMA
Panorama è nato ancor prima della sua effettiva attuazione. In noi c’erano la necessità e il desiderio di offrire a Venezia un luogo che andasse un po’ contro le dinamiche che stanno soffocando la nostra città. La stagionalità della Biennale, per esempio, tra luci e ombre, porta anche a uno sfruttamento di tantissimi spazi, che vengono affittati (a prezzi spesso spropositati) per lunghi o brevi periodi e poi abbandonati. L’idea iniziale di mantenere un semplice focus sugli artisti emergenti del territorio si è ampliata attraverso una nostra riflessione ‘situata’, riguardante le modalità di fruizione dello spazio stesso. Davanti alla necessità condivisa con i nostri soci di aggiungere una nuova voce in città, stiamo cercando di agire con attenzione, aprendo le nostre porte a iniziative ibride, con registri diversi, che provano sempre a muoversi tra l’interno e l’esterno di Panorama. Fin dall’apertura, lo spazio si è nutrito di plurimi stimoli, abbracciando numerose iniziative culturali esterne, grazie alla nostra prima rassegna Bassi Fondali
a sinistra: Pale Boundaries , mostra personale di Aiko Shimotsuma
nella pagina a fianco:
L'intruso inventato, cioè l'asfalto veneziano , mostra collettiva a cura di Andrea Ceresa e Federico Broggini.
Photo by Giacomo Bianco
NEI NUMERI PRECEDENTI
#47 Almanac Torino
#51 Sonnestube Lugano
#53 Numero Cromatico Roma
#57 Metodo Milano
#59 Spazio in Situ Roma
#62 Spazio Bidet Milano
#64 Mucho Masi Torino
#67 La portineria Firenze
#69 Spazio Y Roma
#71 spazioSERRA Milano
#73 Spaziomensa Roma
#78 Viaraffineria Roma/Catania
Teniamo a rispettare tempistiche più dilatate di ricerca, creazione e produzione, includendo anche una componente imprevedibile
LA PROGRAMMAZIONE
Per l’occasione abbiamo alternato tre momenti espositivi e di condivisione diversi, in cui sono state coinvolte alcune realtà indipendenti a cui siamo particolarmente legati, come il collettivo Barena Bianca che ha realizzato l’evento inaugurale ideando un’azione performativa. La nostra idea era aprire Panorama attraverso una sorta di benvenuto organizzato insieme ad altri spazi non profit presenti in città, in un’ottica di rete e collaborazione a lungo termine, fondamentale per l’attività di ognuno di noi. Con il secondo appuntamento abbiamo presentato un sidro speciale realizzato con i frutti degli ultimi meli di Sant’Erasmo, mentre con il terzo, l’associazione culturale veneziana Batipai ha raccontato il progetto Freccia Azzurra, un burcio storico (una barca da lavoro) in via di restauro, ripensato come piattaforma culturale. Queste, sono situazioni che spesso conosce solo chi frequenta assiduamente la città o addirittura ci vive e,
come i bassi fondali della laguna, fanno fatica a emergere. Panorama ha poi accolto il lancio della rivista fotografica Pellicola Magazine e il pop up di distribuzione temporaneo di The Art Newspaper, in occasione della settimana d’apertura di Biennale Arte 2024, progetto che ci ha anche permesso di sostenere le nostre produzioni successive.
GLI ARTISTI
Tra i primi artisti italiani con cui abbiamo collaborato finora ci sono Matteo Stocco e Ornella Cardillo, mentre sul versante internazionale Byron Gago, che abbiamo ospitato per un periodo di residenza sostenendo anche dal punto di vista economico la produzione del suo film Aguas Negras, e Aiko Shimotsuma che ha presentato la sua prima personale in Italia. A questi si aggiungono Francesco Fazzi, Erica Toffanin, Marina Marques con Alessia Ugolini e Chiara Alexandra Young, Valentina Goretti, Giacomo Bianco e Tommaso Mola Meregalli che hanno preso parte alla collettiva L’intruso inventato, cioè l’asfalto veneziano curata da Andrea Ceresa e Federico Broggini.
GLI OBIETTIVI E I PROGETTI FUTURI
Tra i prossimi appuntamenti abbiamo in programma l’evento con il collettivo di poesia Scafandra, le mostre degli artisti Luca Vanello e Maurizio Segato e quella di Andrea Knezović curata da Giulia Menegale. La nostra programmazione rimane comunque
a sinistra in alto: Arche , mostra personale e performance di Ornella Cardillo. Photo by Giacomo Bianco
a sinistra in basso; La parabola della montagna , workshop e mostra di Matteo Stocco. Photo by Matteo Stocco
sopra: Lo spazio di Panorama in Campiello San Zulian
Lavoriamo attraverso progetti a lungo termine con gli artisti e secondo un rapporto di ascolto e scambio, oltre che di intenti comuni
estremamente flessibile, sia per facilitare i nostri impegni lavorativi che quelli degli artisti. Secondo la nostra natura di spazio indipendente e progettuale, ci teniamo a rispettare tempistiche più dilatate di ricerca, creazione e produzione, includendo anche una componente di imprevedibilità che spesso e volentieri aggiunge un quid fondamentale al progetto. In futuro ci piacerebbe inaugurare una rassegna che porti a collaborare gli spazi indipendenti per il mondo, attraverso scambi tra le infrastrutture coinvolte con mostre, workshop e talk. Sempre rispettando modi e tempi spontanei. Il nostro obiettivo, infatti, è rendere Panorama una presenza organica in città, per questo lavoriamo attraverso progetti a lungo termine con gli artisti e secondo un rapporto di ascolto e scambio, oltre che di intenti comuni. Siamo in un sestiere, quello di San Marco, molto sfruttato e ci teniamo a sottolineare come le nostre tre vetrine si sottraggono alle usuali attività commerciali della zona, in una sorta di resistenza culturale.
IL MANAGEMENT MUSEALE SECONDO
I MUSEI CIVICI DI VENEZIA
di ALBERTO VILLA
Abbiamo intervistato Mariacristina Gribaudi, Presidente della Fondazione
Musei Civici di Venezia, per comprendere meglio cosa significa gestire ben undici musei in una città tanto particolare e difficile quanto lo è la Serenissima
Gli ultimi due anni sono stati segnati da diverse sfide per i Musei Civici, non ultima l’organizzazione di un nuovo assetto organizzativo che si inserisce in un dibattito, mai esaurito, su quale sia la miglior governance museale. Questa domanda mi permette di ribadire quella che è stata una scelta operata da Fondazione, in virtù di una maggiore efficienza gestionale. All’inizio del 2024 è stato affidato il coordinamento generale delle attività di Fondazione al suo Segretario Organizzativo, Mattia Agnetti, che nell’incarico riporta direttamente al Presidente e al Consiglio di Amministrazione. Nel quadro di questa riorganizzazione aziendale, è stata affidata la direzione scientifica a Chiara Squarcina (già Dirigente di Area Attività Museali). Un ruolo indicato, appunto, come “Direttore scientifico”. Ovvero: che opera e dirige la produzione scientifica dei Musei, in stretto contatto con i diversi conservatori delle sedi, riporta al Segretario Organizzativo, il quale ha poi cura di integrare le proposte culturali e scientifiche in ottica economica, finanziaria e giuridica che poi il Consiglio discute, approva, modifica o rigetta. Una modalità che è nella natura e nello statuto di Fondazione e che abbiamo convenuto essere, in questo momento storico, indispensabile per le grandi sfide che MUVE sta affrontando. E che, ad oggi, ha premiato con un programma del 2024 ricco e impegnativo, un palinsesto di mostre inaugurate contestualmente a Biennale Arte, una mostra importantissima su Marco Polo, importanti interventi di valorizzazione delle collezioni e interventi nelle sedi. E con un 2025 che si prospetta altrettanto impegnativo.
L’idea che da sempre ho dei musei è che siano vissuti, prima di tutto, dai cittadini. Questo significa offrire spazi, attività, idee, ispirazione
Undici musei non sono facili da gestire, soprattutto in una città particolare come Venezia. Quali sono le sfide più importanti e in che modo le superate? Direi che un insieme di sfide, e una grande opportunità per mettere a sistema pratiche di buona gestione del patrimonio pubblico. La prima fra tutte è la ricerca della sostenibilità economica di una rete museale di questa portata. Il sistema di gestione dei Musei Civici di Venezia è orientato sempre, in egual misura, alla produzione scientifica e culturale quanto alla gestione efficiente della cosa pubblica, mantenendosi indipendente dall’utilizzo della sua finanza e generando risorse proprie che non derivino dalla biglietta-
Per leggere l’intervista completa, scannerizza il QR code qui in basso:
zione. Può sembrare un discorso venale, ma è proprio la gestione rigorosa del patrimonio museale a generare risorse e potenzialità. Valorizzando il patrimonio, si generano nuove risorse, si diversificano le fonti di entrata e si efficienta la gestione dei costi, avendo come scopo la stessa tutela, valorizzazione, studio, ricerca e non ultimo, fruizione del patrimonio.
In una città sempre più affollata di turisti e sempre meno ospitale nei confronti dei suoi cittadini (come rivela il tasso di abbandono del centro storico) come si comporta il management museale?
L’idea che da sempre ho dei musei è che siano vissuti, prima di tutto, dai cittadini. Questo significa offrire spazi, attività, idee, ispirazione. Banalmente, ma nemmeno troppo, organizzando luoghi accoglienti, dove lavorare con wi-fi, baby pit-stop per genitori, caffetterie aperte al pubblico anche in aree non soggette a bigliettazione - a Ca’ Rezzonico, a Ca’ Pesaro e al Museo Correr - e dove, comunque, i nati e residenti nel comune di Venezia possono accedere gratuitamente, sempre. E dove i residenti di 45 comuni limitrofi possono beneficiare della gratuità, per circa un giorno ogni mese.
Crediamo fermamente che i Musei Civici possano avere ruolo centrale nel promuovere un turismo più sostenibile e diversificato. Attraverso mostre e attività
coinvolgenti, con proposte mirate come i combo-ticket per aree di interesse - Musei del Contemporaneo con Ca’ Pesaro e Museo Fortuny, Musei del Settecento con Casa Goldoni, Museo Palazzo Mocenigo e Ca’ Rezzonico, Musei delle Isole con vetro a Murano e merletto a Burano - possiamo incoraggiare i visitatori a scoprire l’autenticità, la storia, la vita di Venezia
A questo proposito, ci sono differenze tra i musei del centro storico e quelli sulla terraferma?
Inevitabilmente, ed è un bene perché permette di porre in essere nuove strategie, di studiare, di applicarsi, di sperimentare. La proposta di musei a Venezia è densissima e, nel tempo, si sta radicalizzando sempre più anche in terraferma. Tenere presente le caratteristiche specifiche dei luoghi, il suo pubblico potenziale, le necessità specifiche delle comunità che vivono il territorio è imprescindibile. Così come lo è fare rete. Nel tempo e con queste premesse, ha preso forma in centro città un “chilometro quadrato” della cultura in cui che comprende diversi players, la Biblioteca VEZ, Il Teatro Toniolo, il Centro Culturale Candiani, il distretto M9, fino agli spazi gestiti da MUVE che apriranno a dicembre, l’ex Emeroteca, che sarà un luogo di produzione, con residenze per giovani artisti realizzate anche con Fondazione Bevilacqua La Masa. Operare in un diverso ambito significa dover diversificare la proposta e cambiare schemi, anche mentali, portare e ampliare il proprio know how, impegnare nuove risorse e competenze, generare nuove professionalità. Significa imparare. E il pubblico, le persone, questo l’hanno capito.
Fra i temi più rilevanti del management culturale vi sono senza dubbio le esternalità positive generate dai musei sulle persone, sui territori e sulle comunità. Quali iniziative ha messo in atto la Fondazione MUVE in questo senso e come ne vengono misurati i risultati?
Il primo indicatore è senza dubbio la partecipazione di pubblico. Nel 2023 abbiamo ottenuto un incremento di visitatori di musei e mostre del 13,7% rispetto al 2022 per un totale di oltre 2,3 milioni persone. E non parliamo solo di turisti nell’area marciana, ma di una crescita complessiva dei musei che sono diffusi in città e nelle isole. E poi ci sono i progetti proposti da MUVE Education, realizzati su misura per tutti, che danno la misura di quanto la cultura sia ricercata, voluta, scelta: nel 2023 le persone che hanno beneficiato sono state quasi 40mila, tra scuole e famiglie ma anche tante persone con esigenze specifiche, persone detenute, persone con Alzheimer e anziani con condizioni neurodegenerative assieme ai loro caregivers, fino a progetti dedicati al dialogo interculturale, indispensabili per vivere e raccontare il mondo di oggi, per condividere ed educare alla bellezza, dentro e fuori i musei. E per ricordare che i musei sono luoghi di incontro, di scambio, di crescita, di ispirazione, dove sperimentare, luoghi della collettività, da vivere, da abitare. Sempre promuovendo la cultura dell’accoglienza e la partecipazione di tutti, con uno sguardo agli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
E per quanto riguarda la digitalizzazione?
Come per tutti - o quasi - i musei, la digitalizzazione del proprio patrimonio è un passo imprescindibile, tanto per il lavoro e l’utilizzo interno che per la frui-
zione di studiosi, ricercatori, curiosi. La banca dati conta oltre 50mila schede. È un lavoro continuo che attualmente non potrebbe essere altrimenti considerata la portata del patrimonio e la sua incredibile varietà.
La Fondazione Musei Civici di Venezia si dota anche percorsi di alta formazione, organizzati da MUVE Academy: quali collaborazioni sono state messe in atto a tal proposito? E quali sono le anticipazioni per il futuro prossimo?
FOCUS MUVE
Crediamo fermamente che
i Musei Civici possano avere ruolo centrale nel promuovere un turismo più sostenibile e diversificato
Moltiplicare i servizi, far dialogare impresa, formazione, ricerca e networking è una delle necessità del mondo contemporaneo a cui i musei di oggi sono chiamati a rispondere. Così le istituzioni vivono, concorrendo a creare nuove prospettive sulla storia, il mondo contemporaneo e il futuro partendo, nel nostro caso, dalla ricchezza e molteplicità delle collezioni civiche. Con questo intento è nata MUVE Academy, il progetto di Fondazione Musei Civici di Venezia pensato per far dialogare offerta formativa, patrimonio museale e relazioni con Istituzioni, enti di ricerca e atenei. Occupandosi di incontri dedicati alla governance museale, con gli appuntamenti Incontri intorno al Management della Cultura fino allo studio e pratica dei “saperi” tradizionali e artistici con i corsi dedicati alla calligrafia e alla lavorazione del vetro artistico alla Scuola Abate Zanetti e al Museo del Vetro a Murano, al design del vetro, allo studio del patrimonio tessile al Museo di Palazzo Mocenigo, fino alla ricerca in progetti accademici in ottica di sostenibilità ed efficientamento anche energetico.
Mariacristina GribaudI. Foto Tiziano Scaffai
Palazzo Ducale, Venezia. Courtesy Fondazione Musei Civici di Venezia
Sono queste le sfide che ci attendono per il 2025, insieme a grandi mostre di ricerca e indagine storico artistica, come quella dedicata ai Pittori Veneto Cretesi a Palazzo Ducale, all’eredità del moderno e della Avanguardie, con l’eccezionale restituzione del fregio completo di Giulio Aristide Sartorio Il Poema della Vita Umana e Gastone Novelli a Ca’ Pesaro, il dialogo tra Ontani e Canova al Museo Correr fino alla consueta tappa autunnale a Mestre con Munch.
Nel Carcere di San Vittore a Milano nasce ReverseLab: uno spazio culturale aperto a tutti
DESIRÉE MAIDA L Un nuovo spazio culturale in cui vengono sperimentati i linguaggi del contemporaneo, in cui le barriere di ogni sorta – reali e sociali – vengono abbattute. È questa la visione su cui costruisce le proprie fondamenta ReverseLab, all’interno della Casa Circondariale Milano San Vittore “Francesco Di Cataldo”: un progetto in cui l’arte diventa promotrice del dialogo tra l’“interno” e l’“esterno” delle carceri, due dimensioni ritenute solitamente inconciliabili. Il nuovo spazio nasce dalla sinergia tra il Carcere, il Politecnico di Milano e il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, riqualificando così un’area dell’Istituto rimasta inagibile per almeno quarant’anni. ReverseLab sorge in una galleria del seminterrato del primo raggio del Carcere di San Vittore, adesso diventata un luogo dalla destinazione artistica e culturale. Realizzato grazie al contributo di Fondazione di Comunità Milano e in collaborazione con realtà come Forme Tentative e Philo –Pratiche filosofiche, ReverseLab (che nasce nell’ambito di Off Campus San Vittore, spazio gestito dal Politecnico di Milano all’interno del Carcere) è un luogo in cui le persone detenute possono svolgere attività formative mirate allo sviluppo della creatività, oltre a essere aperto al pubblico. “Il carcere può essere un posto di appiattimento, ma può essere un posto di grande fermento nel momento in cui lo si trasforma in un luogo di attenzione in cui si svolgono attività; allora si scoprono risorse e anche talenti”, spiega Giacinto Siciliano, Direttore del Carcere di San Vittore.
Workshop di Maurice Pefura per ReverseLab
NECROLOGY
ALBERTO PONIS (28 SETTEMBRE 1933 – 23 OTTOBRE 2024)
L JOSEPH RYKWERT (5 APRILE 1926 – 17 OTTOBRE 2024)
L ANNIBALE BERLINGIERI (29 SETTEMBRE 2024)
L MAGGIE SMITH (28 DICEMBRE 1934 – 27 SETTEMBRE 2024)
L PAOLA MARELLA (16 FEBBRAIO 1963 – 21 SETTEMBRE 2024)
che racchiude e allo stesso tempo svela le voci e le storie di chi vive e attraversa il carcere.
Il gruppo “Laboratorio Carcere” del Politecnico di Milano ha collaborato con Forme Tentative al progetto architettonico e alla riqualificazione dello spazio; ha collaborato inoltre con studio òbelo alla realizzazione dell’identità visiva di ReverseLab, oltre ad aver progettato l’allestimento della mostra e della Stanza della Memoria, luogo
I NUOVI SPAZI APERTI DI RECENTE A ROMA
Clode Art Gallery, un nuovo hub culturale nel cuore della città
Via dei Greci 7
Coniuga tradizione e innovazione il nuovo spazio espositivo fondato da Claudia “Clode”
Guitto nel cuore di Roma, là dove nel secondo Dopoguerra sono sorte le gallerie che hanno fatto la storia del sistema dell’arte capitolino e anche italiano.
Clode Art Gallery
A inaugurare ReverseLab è stata GLI ARTISTI SONO QUELLI CHE FANNO CASINO. Frammenti dal carcere di San Vittore, mostra dell’artista Maurice Pefura che, in occasione del workshop svolto tra marzo e giugno insieme alle persone detenute e agli agenti di polizia penitenziaria, ha dato vita a un’opera d’arte collettiva, composta da frammenti di diversi materiali e utilizzando diversi linguaggi artistici, tra cui scrittura, pittura, disegno e performance. A curare il progetto artistico è Diego Sileo, curatore del PAC, la cui programmazione espositiva “da diversi anni si muove sul terreno dei diritti umani e di quelli civili che – come la quotidianità ci ricorda ogni giorno – non sono ancora garantiti per tutti”, sottolinea Sileo. “Il PAC ha quindi scelto di utilizzare l’arte contemporanea come strumento di conoscenza delle tante realtà che ci circondano e accanto alle quali viviamo, anche quelle più difficili da approcciare. Lo fa attraverso lo sguardo e l’impegno degli artisti invitati a realizzare le loro mostre, ma anche partecipando a progetti di educazione e formazione come ReverseLab, affinché l’arte possa diventare anche veicolo di riscatto sociale”. La mostra è aperta al pubblico due giorni a settimana, e ne seguiranno altre, a cadenza annuale, curate sempre da Diego Sileo.
Il nuovo project space della Galleria Monti8 di Latina nel quartiere San Lorenzo
Via dei Reti 1/A
Attratta nel fermento creativo di San Lorenzo, la Galleria Monti8 di Latina ha deciso di aprire una nuova sede per affiancare l’attività dello spazio espositivo esistente con un project space dedicato alla ricerca e al dialogo con Roma.
Fondazione D’ARC, un nuovo centro per l’arte contemporanea
Via dei Cluniacensi 128
Include opere del secondo Dopoguerra passando per l’Astrattismo, l’Arte Cinetica e Programmata, l’Arte Povera e il post-moderno per arrivare ai linguaggi del nuovo millennio la collezione dei coniugi Giovanni e Clara Floridi (precedentemente ospitata in un ex rifugio antiaereo in Piazza Bologna).
Fondazione D’ARC
Palazzo del Quirinale
Piazza Navona
Piazza del Popolo
Cimitero del Verano
Galleria Monti8
OPERA SEXY
MAGICI OMONI PELOSI
FERRUCCIO GIROMINI
Quante volte l’abbiamo constatato: le strade dell’erotismo sono meravigliosamente infinite. Una ennesima intrigante prova ce la regala l’opera grafica di Copper Head (ovviamente uno pseudonimo), il quale alimenta le proprie e altrui fantasie in un mondo parallelo abitato in modi esclusivi da una folla di omoni tarchiati, barbuti e villosi, che amano esporre e condividere i loro grossi corpi in orgoglio assoluto. Gli uomini “orsi” sono sempre stati uno dei vari possibili soggetti & oggetti di desiderio della galassia omosex; ma se una volta erano immaginati preferibilmente bardati di cuoio nero e borchie argentate come volitivi bikers, col volgere dei tempi e dei modi della fantasia adesso si incarnano anche in warlocks sbucati dai meandri dei giochi di ruolo alla maniera di Dungeons and Dragons: un po’ maghi e un po’ guerrieri, l’importante è che siano densamente muscolosi e bendisposti a godersi la vita senza inibizioni. Resta inteso, a questo punto, che devono disporre di adeguate naticone molto compatte e di apparati genitali di conseguenza, oversize come tutto il resto. Il nostro Copper Head (che, pur mantenendosi ammantato nel mistero di Instagram, sembra appartenga all’italica stirpe) non si limita però a giocare con le spade e la magia dei mondi fantasy, ma si diverte a svariare e a far interpretare ai suoi maschioni ruoli disparati. Usando una grafica nitida e decisa che incide il nero sul bianco e viceversa, quando non ammonticchia i suoi spudorati culturisti in affollate orge liberatorie si permette di rivestirli (pardon, svestirli) di paramenti in qualche modo mitologici: ora quelli di un mesopotamico dio (giustamente) toro, ora con le ali di Dedalo e Icaro in volante abbraccio incestuoso, ora come il decapitato di Sleepy Hollow privo di testa ma altrove superdotato, ora come un Wolverine stracciato nei punti giusti, ora come l’iconico Bruce Willis di Die Hard appena un poco trasfigurato, ora come pirati dei Caraibi a condividere tesori carnali, ora addirittura come il viandante di Caspar David Friedrich davanti all’infinito a godersi anche quel piacere lì. Spesso tatuati, bicornuti, con nasi forati, anelli ai capezzoli, sempre imponenti e irsuti, i selvaggi di tale tribù pagana se la spassano sempre alla faccia di chiunque altro. Non senza una certa sana dose di autoironia.
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Tre musei italiani si dotano delle più moderne tecnologie digitali per una fruizione più accessibile
Ercolano Digitale è il nome della piattaforma lanciata del Parco Archeologico di Ercolano che coniuga ricerca scientifica e coinvolgimento del pubblico, mettendo online, e a disposizione di tutti, una vasta quantità di dati: oltre 10mila reperti catalogati – consultabili, in open-data, nell’apposita sezione dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione –, cui si aggiungono ricostruzioni virtuali tridimensionali, oltre 1500 modelli digitali 3D, migliaia di immagini organizzate in gallerie tematiche e tour virtuali. Ercolano Digitale non sostituisce l’esperienza di visita reale al Parco, ma ne diventa una prosecuzione, permettendo al fruitore di “tornare” a Ercolano tutte le volte che desidera.
@copper.head.illustrations
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Visitare il MAXXI di Roma e, nello stesso tempo, muoversi tra gli spazi del Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera. Un’esperienza sia fisica sia digitale – “phygital”, per l’appunto – possibile grazie a Connessioni Culturali, progetto di ricerca sviluppato attraverso il bando “Tecnologie 5G. Progetti di sperimentazione e ricerca” indetto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy, e che da oggi mette in comunicazione i due musei per mezzo di diverse tecnologie avanzate: Blockchain, Intelligenza Artificiale, Internet of Things (IoT) ed Edge Computing, che trovano applicazione attraverso l’utilizzo delle reti mobili ultraveloci 5G. L’esperienza immersiva nei due musei è resa possibile da tecnologie di scansione 3D, che permettono ai visitatori di creare i propri “gemelli digitali” in uno spazio fisico-virtuale condiviso. Questi “gemelli digitali” possono così interagire con quelli presenti nell’altro museo, oltre a muoversi all’interno delle sale in tempo reale.
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Il Museo Novecento di Firenze ha inaugurato un nuovo percorso tattile e polisensoriale che permette di esperire di alcune opere d’arte del Novecento attraverso il tatto e l’udito, con repliche tattili e strumentazioni digitali realizzate ad hoc. Di alcuni capolavori custoditi nel Museo, sono state realizzate repliche tattili, tra cui opere di Giorgio Morandi, Arturo Martini, Marino Marini, Fortunato Depero e Ottone Rosai: i dipinti sono stati interpretati in chiave tridimensionale, mentre per le sculture sono stati utilizzati materiali affini agli originali. Le riproduzioni delle opere sono accompagnate da una serie di strumenti il cui fine è agevolare il pubblico durante l’esperienza di visita. Tra questi vi sono mappe tattili, percorsi podotattili, contenuti digitali fruibili in loco tramite QR code o da remoto navigando sul sito web del museo, come audiodescrizioni e video con sottotitoli e in LIS.
DESIRÉE MAIDA
Copper Head, The Treasure
ALCHIMIE QUEER: PANE E VERGINI NELL’UNIVERSO DI LA CHOLA POBLETE
a cura di ELISABETTA RONCATI
È possibile trasformare un alimento quotidiano come il pane in un simbolo di lotta, identità e perfino fluidità di genere? A quanto pare sì viste alcune delle opere esposte dall’artista argentina La Chola Poblete, vincitrice 2023 del prestigioso riconoscimento “Artist of the Year” promosso da Deutsche Bank. L’occasione è stata la personale Guaymallen, collegata al premio, tenutasi al Museo delle Culture-MUDEC di Milano. Artista multidisciplinare, nata nel 1989 a Mendoza e insignita di una menzione speciale della giuria alla 60esima Biennale di Venezia, La Chola Poblete si esprime con performance, pittura, scultura e videoarte, utilizzando il proprio corpo e vissuto per dare voce a storie di lotta e resistenza. Attraverso una critica viscerale della supremazia bianca e del patriarcato denuncia le violenze storiche e contemporanee, portando alla luce identità marginalizzate, travestite e transgender, che la società spesso si rifiuta di riconoscere. Insomma, il suo “corpo è politica” per riprendere alcuni assunti tanto cari alla storia dell’arte e che spesso lei rivisita grazie ad un umorismo pungente che, a volte, si trasforma in vero e proprio sarcasmo. Del resto è anche il sistema artistico ed il mercato che, nel corso dei secoli passati, ha contribuito alla marginalizzazione di alcune comunità. Con un background che intreccia discendenze indigene a una forte identità queer, le opere di La Chola Poblete si muovono tra l’opposizione alle narrative coloniali e la dissacrazione di determinati simboli religiosi. Le sue Madonne non sono semplici figure sacre, ma manifestazioni di un sincretismo che fonde la Vergine cattolica con Pachamama, la Madre Terra delle comunità andine. Ed è proprio qui che entra in gioco l’utilizzo del pane: un elemento tanto semplice quanto carico di significati soprattutto in ambito visivo e sacro. Non più alimento per nutrire, dà vita a sculture, maschere e figure ibride, simboli di una spiritualità che sfugge al controllo e che cambia forma, colore e consistenza. Similmente a quanto accade utilizzando gli acquarelli, altro medium amato dall’artista, il processo creativo diviene un atto irreversibile, una performance materiale che si sviluppa attraverso il calore del forno dove la pasta del pane lievita, si spacca e si brucia, creando forme nuove e inaspettate. Questo parallelismo tra il processo di panificazione e quello artistico diventa una metafora potente per la sua pratica: un rituale in cui la materia come l’identità sfugge alle definizioni rigide e si trasforma continuamente.
Così La Chola Poblete descrive il percorso che l’ha portata a manifestare il suo ascendente creativo: “A 18 anni ho fatto coming out, sono uscita di casa, ho vissuto un anno con mia nonna e poi le mie zie mi hanno regalato un viaggio a Madrid. Ho visto l’Europa prima di Buenos Aires: questa gita doveva essere una sorta di esempio di cosa voglia dire vivere in un posto dove puoi essere libera. Quando tornai a Mendoza mi resi conto che qualcosa in me stava cambiando: l’immagine che mi restituiva lo specchio non era quella in cui mi sen-
tivo a mio agio. Mi immaginavo sempre con i capelli lunghi fino alla vita. Ho intrapreso una ricerca identitaria senza fine e assieme ad essa mi sono posta anche un’altra domanda: “Cos’è l’arte?”.
Trascorrevo interi pomeriggi nel patio di casa improvvisando antichi rituali che poi sono diventanti performance e appunti su ciò che consideravo come “corpo”, “arte d’azione”, “genere” e “identità”. L’unica cosa a cui pensavo in quei momenti erano tutte quelle opere iconiche della storia dell’arte. Dunque, ragionando tra me e me sono arrivata ad una conclusione banale, ma allo stesso ricca di significato intrinseco: “Se nel mito Venere è nata dalla schiuma del mare, perché non può nascere perfino da uno stufato di patate?”
È nata così “La Chola”. Per anni ho usato parrucche e sono passata dall’essere Mauricio a La Chola e, al contempo, sono entrata a far parte di un ambito che attenziona e studia tra le righe la tua persona qual è il mondo dell’arte. Non cerco di dimenticare il passato, mi interessa mettere in risalto la mia storia e complessità. Oggi sono “La Chola”, domani non so se lo sarò ancora: l’unica cosa di cui sono certa è che non tornerò mai sui miei passi, per quanto non rinneghi nulla”.
Nell’universo de La Chola Poblete il sacro e il profano si mescolano in una danza ironica e ribelle, in cui ogni frammento di pane bruciato e ogni macchia di acquerello raccontano storie di identità fluide, resistenze silenziose e trasformazioni profonde. Un’arte che non solo sfida i canoni, ma riscrive la storia con ogni gesto, ogni colore, ogni crepa di pane cotto al forno.
Catalogo Quodlibet a cura di Stefano Chiodi, con un’antologia di brani critici con testi di Giorgio Agamben, Jan Hoet, Denis Isaia, Marta Ragozzino, Carla Subrizi, Tommaso Trini e Peter Weiermair
In collaborazione con
LONDRA VS PARIGI: UNA SFIDA A COLPI DI ASTE E DI FIERE
di CRISTINA MASTURZO
Sembrava lontanissima Londra, mentre il mondo dell’arte si accalcava già agli ingressi del Grand Palais rinnovato e pronto per accogliere Art Basel Paris. In realtà le due settimane di fiere, tra le più importanti del mondo e certamente quelle centrali per il calendario europeo, si sono date letteralmente il cambio, chiudendo nel Regno Unito domenica 13 ottobre e riaprendo nella Ville Lumière il 16. Deve essere stata però l’energia e il passo differente a marcare la distanza tra i due poli, in un momento in cui tutti si interrogano sui nuovi equilibri del mercato dell’arte, che vira decisamente a favore della capitale francese, per investimenti e vitalità. Al di là di riduzioni semplicistiche – e senza dimenticare che nel 2023 il Regno Unito ha contato per il 17% del mercato globale, mentre la Francia solo per il 7% (Fonte: Art Basel & UBS, The Art Market Report) – c’è di sicuro da prendere atto della scalata inarrestabile di Parigi e a confermarlo non sono stati solo gli andamenti e gli esiti delle fiere e delle aste in città, ma anche la vivacità della programmazione di mostre di peso, nei musei e nelle gallerie, e una predisposizione generale, dal lato della domanda e dell’offerta della filiera artistica, più ricettiva e reattiva, di qua dalla Manica.
FREUD, HOCKNEY E KOONS, CON MAGRITTE, HANNO SALVATO IN CORNER LE ASTE DI LONDRA
Nel pieno della settimana di Frieze partivano infatti, dicevamo, anche le sessioni d’asta di arte moderna e contemporanea nella capitale del Regno: calcio di inizio con Christie’s il 9 ottobre, che ha migliorato di certo la performance dell’anno passato, ma senza clamori o brillii, e subito dopo Sotheby’s e poi Phillips a chiudere. Top lot da Christie’s in King Street Jeff Koons, Lucien Freud e David Hockney, insieme alla competizione accesa per René Magritte, sull’onda lunga delle celebrazioni per il centenario della pubblicazione del Manifesto Surrealista di André Breton. Hockney è tornato protagonista, la stessa sera, anche da Sotheby’s, dove pure l’entusiasmo non è arrivato alle stelle, e il giorno dopo da Phillips. I totali delle Evening Sales? La 20th / 21st Century: London Evening
Evening Sales di arte moderna e contemporanea a Londra ottobre 2022 – ottobre 2024
Christie's
2024 → £81,9 mln
2023 → £44,7 mln
2022 → £72,5 mln
Sotheby's
2024 → £37,6 mln
2023 → £45,6 mln
2022 → £96,1 mln
Phillips
2024 → £15,1 mln
2023 → £18,3 mln
2022 → £18,7 mln
IL RITORNO ALLE ORIGINI DI FRIEZE LONDON
Tornare all’identità originaria: sembra essere stato questo l’obiettivo dell’ultima edizione di Frieze London 2024. Recuperando un focus dritto sulla ricerca più contemporanea, quella che può arrivare solo da una metropoli più che all’avanguardia, come Londra continua a essere, e che può avere anche molto senso mostrare e promuovere proprio qui, con intorno uno dei più dinamici e strutturati network di gallerie, musei e centri d’arte. “Una fiera non può avere successo se non partecipa all’ecosistema”, commentava sul tema la direttrice artistica di Frieze London Eva Langret. E il recupero di questa matrice identitaria è diventato quest’anno necessario per resistere a una crisi globale, che ha fatto perdere quasi il 30% di fatturato alle case d’asta e portato alla chiusura tantissime gallerie sia in Europa che negli Stati Uniti, così come all’incalzare della concorrenza di Art Basel Paris, che rischia di drenare via, insieme alle complicazioni post-Brexit, le opere e i collezionisti migliori e di far saltare il passaggio londinese alla comunità internazionale dell’arte.
Sale di Christie’s si è conclusa con un totale di circa £82 milioni, con un venduto per lotti dell’86% e per valore del 96%. Tra i primi tre migliori risultati si sono posizionati Lucien Freud, Jeff Koons e David Hockney, ma nessuna aggiudicazione è stata il frutto di grandi competizioni, fatto salvo René Magritte, con aggiudicazioni tra sala e telefoni entro le previsioni, a prezzi quasi sempre vicini alle stime basse e accomodanti evidentemente con i prezzi di riserva. È stato sempre Hockney a guidare poi sia la Contemporary Evening Auction di Sotheby’s – con L’Arbois, Sainte-Maxime (1968) passato di mano a £13.2 milioni – in una sessione tutta dedicata all’arte contemporanea e senza troppi entusiasmi, con un totale di £37.6 milioni, che da Phillips, che ha portato a casa un risultato finale di £15,1 milioni.
Se meno cambiamenti si sono visti sul fronte di Frieze Masters, rimasta piuttosto simile a sé stessa, ma sempre piattaforma di prestigio e di una certa efficacia, Frieze London ha puntato tutto sul coraggio di cambiare, o di tornare a essere quello che era, e sulla volontà di promuovere un ecosistema artistico all’insegna della ricerca e della pluralità. Con un nuovo layout espositivo la fiera ha mescolato la disposizione degli espositori (una decina in meno rispetto all’anno scorso), tenendo compatti al centro del percorso espositivo i grandi mercanti blue chip e disseminando tutto intorno le gallerie più giovani e quelle mid, per offrire loro maggiore visibilità e più passaggio di collezionisti. Nella consapevolezza che, soprattutto in un momento di difficoltà sistemica, nessun attore è sacrificabile.
Quello che sembra essere andato a rilento, nonostante il piglio e il rilancio, è stato il lato commerciale della faccenda. Alla preview di Frieze non sembra si siano rincorsi gli acquisti, come pure non si sono distinte per entusiasmi, nelle stesse ore, le aste di Christie’s, Sotheby’s e Phillips. Il momento è evidentemente quello che è, le tendenze dell’economia dell’arte sono debitrici dell’incertezza mondiale e di configurazioni stagnanti e recessive che rendono difficile, quando non impossibile, ogni slancio collezionistico.
GUANTI BIANCHI E NUOVI RECORD FRANCESI
ALLE ASTE STELLARI
Il mercato dell’arte è tornato a brillare senza ombra di dubbio, almeno nel comparto degli incanti, nella Ville Lumière, dove i poli di attenzione principale sono stati, nella settimana di Art Basel Paris, la nuova ed elegantissima sede di Sotheby’s, all’83 di Rue du Faubourg Saint-Honoré, e il catalogo italiano di Christie’s in Avenue Matignon. E non poteva esserci debutto migliore per Sotheby’s che ha trasformato il catalogo Surrealism and its Legacy del 18 ottobre in una vendita white-gloves, con il 100% di venduto, che resterà nella storia, insieme alla battaglia per Rose méditative (1958) di Salvador Dalì, venduta per €3.900.000 dopo aver stracciato la stima minima di €700.000. A fine sessione, con un totale di €23,1 milioni, il mercato dell’arte è sembrato tirare un sospiro di sollievo e ricordare le sessioni più brillanti del recente passato, con tanto di applausi in sala, in un momento rituale che provava a scrollarsi di dosso le difficoltà dell’ultimo biennio.
Dopo qualche minuto di pausa, è arrivato il turno di procedere con i lotti della seconda vendita in agenda, Modernités, che ha raggiunto un totale di €36,1 milioni, con protagonista Jean Dubuffet, ma anche due ceramiche di
DI PARIGI
Lucio Fontana del 1948, entrambe intitolate Maschera, che sono volate ben oltre le stime, una a €2,2 milioni – secondo miglior prezzo per una ceramica dell’artista e il più alto per Parigi – e l’altra a €1.920.000, al telefono dello stesso specialista di Sotheby’s e quindi forse allo stesso cliente.
Totale dei due cataloghi serali di Sotheby’s €59.2 milioni.
Lo stesso giorno, circa due ore dopo e a poche centinaia di metri di distanza, toccava poi a Christie’s esitare la sessione Avant-Garde(s) including Thinking Italian, che celebrava l’arte italiana oltre che francese ed europea del XX e XXI Secolo. Tantissimi i collezionisti e i galleristi italiani avvistati in sala, a conferma del peso specifico dell’appuntamento in quel preciso momento del mercato dell’arte. Anche per accertarsi che l'entusiasmo da Sotheby’s fosse una condizione solida, ripetibile, liberatoria. È così è stato. Tantissimi i rilanci per i lotti offerti da Christie’s, fino al totale di €50,9 milioni, attraverso un
catalogo di 53 lotti, con un tasso di venduto del 98% e 15 opere passate di mano per oltre €1 milione. Top lot della serata sono stati Zao Wou-Ki e Joan Mitchell, ma tutti gli occhi erano puntati sui nomi della Thinking Italian, spostata ormai definitivamente da Londra a Parigi negli ultimi tre anni, e sull’attrattività dei maestri dell’arte italiana, che sono andati tutti venduti e a valori sostenuti o sostenutissimi. Sugli scudi e avanti a tutti Concetto Spaziale, Attese di Lucio Fontana, con i suoi quattro tagli in rosso che più rosso non si poteva, che è volato a €3.670.000. Ben oltre il milione poi anche Achrome di Piero Manzoni. Con stima su richiesta, l’opera è partita in sala intorno ai 2 milioni per arrivare a quasi 3 con le commissioni, €2.944.000 per la precisione, nuovo record in asta per l’artista in Francia. Oltre il milione ancora e anche La Robe Rouge di Domenico Gnoli, a €1.068.500 e, allo stesso prezzo, l’altro Concetto Spaziale, Attese, questo in blu, di Fontana.
AL GRAND PALAIS DI PARIGI ART BASEL PARIS DIVENTA LA FIERA PIÙ BELLA DEL MONDO
“Non si può non aprire parlando del ritorno alla location del Grand Palais”, ha sottolineato Alfonso Artiaco, “senza dubbio la sede più bella del mondo per una fiera”. E sotto la cupola di vetro della nuova sede Art Basel Paris (che ha detto addio al complicato nome provvisorio Paris+ par Art Basel e addio alla struttura insufficiente del Grand Palais Éphémère) ha portato a Parigi, dal 18 (con le preview dal 16) al 20 ottobre 195 gallerie da 42 paesi e territori, con 65 operative in Francia, e conteggiato, alla fine, oltre 65.000 visitatori.
Mentre la rimonta su Londra è sempre più netta, e anche al di fuori di una logica un po’ semplicistica di contrapposizione tra le due capitali dell’arte in Europa, come dicevamo in apertura, la città francese è apparsa quest’anno ancora più internazionale, con mostre e partnership pubblico-privato per la produzione artistica senza pari e i frutti di un lungo e intelligente lavoro sulla costruzione del pubblico sempre più visibili. Le vendite, stando a quanto
a sinistra: Balloon Monkey (Blue) di Jeff Koons installato in St James’s Square a Londra. Courtesy Christie’s
raccontato dai galleristi, ci sono state e sin dal primo giorno, seppure con una certa prudenza e qualche resistenza sulle fasce più alte di prezzo. Se Frieze London ha provato a rimescolare la disposizione dei posti privilegiati in fiera, ad Art Basel Paris le mega-gallerie come Pace, Perrotin, Hauser & Wirth, White Cube, Gagosian e Gladstone erano di certo al cuore del percorso tra gli stand. Così come le opere scelte per l’occasione erano senza dubbio quelle di maggior peso, per qualità e per prezzo, in attesa di collezionisti americani e asiatici, già in terre europee di ritorno da Londra o atterrati direttamente a Parigi. L’opera più costosa? Sembrerebbe essere stata Suprematism, 18th construction, del 1915, di Kazimir Malevich, esposta da Hauser & Wirth, con un prezzo di più
di 30 milioni di euro. Una contrazione degli scambi è sembrata strisciare anche nei corridoi del Grand Palais, segno di una certa prudenza che continua a informare le attitudini e i comportamenti di acquisto dei collezionisti di tutto il mondo. E che, soprattutto sulle fasce di prezzo oltre il milione, ha reso le trattative più ostiche. Di certo la prima edizione di Art Basel Paris al Grand Palais ha lasciato un segno evidente nella città di Parigi, con gli stendardi sullo storico e rinnovato monumento francese a marcare nome e sede definitivi della fiera più importante del mondo, che ora diventa anche la più bella in assoluto. E si lega da qui in poi indissolubilmente non più solo alla città, ma al brand Art Basel e alla sua muscolarità sistemica.
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DALLA MACELLAZIONE ALLA CULTURA.
ESPERIENZE EUROPEE DI RIGENERAZIONE DEI MATTATOI
VALENTINA SILVESTRINI
Italia, 1928. Il Regio Decreto n. 3298, Approvazione del regolamento per la vigilanza sanitaria delle carni, definisce il mattatoio come luogo deputato alla macellazione degli animali bovini, bufalini, suini, ovini, caprini ed equini, destinati all’alimentazione, i pubblici macelli. La norma obbliga tutti i comuni fino a quel momento sprovvisti a dotarsi di tale struttura, dettagliandone gli spazi, le dotazioni indispensabili e le disposizioni interne; ne affida quindi la direzione e l’ispezione sanitaria ai veterinari municipali. Già dalla fine dell’Ottocento, nelle località con oltre 6mila abitanti alcuni precedenti regolamenti avevano iniziato a prevedere la costruzione di pubblici macelli per rispondere a necessità di tipo sanitario. Stabilimenti che in un contesto nazionale ancora in larga parte a trazione rurale, e con consumi di carne non paragonabili a quelli attuali, avevano infatti lo scopo di assicurare che lo svolgimento delle lavorazioni avvenisse in sicurezza, nel rispetto dei parametri di igiene del tempo. Poco più di un secolo fa, il legislatore aveva inoltre provveduto a riconoscere una sorta di “gerarchia geografica dei macelli”, identificando per quelli nei capoluoghi di provincia e per “quelli che hanno notevole importanza in rapporto all’entità della macellazione” una gamma aggiuntiva di impianti, come il reparto per le macellazioni d’urgenza. Esigenze burocratiche, tecniche e legate alla salute collettiva che, sul piano architettonico, si sono progressivamente tradotte nella scelta di destinare a tale scopo intere porzioni di territori, coinvolgendo nella progettazione degli impianti anche tecnici e professionisti di riconosciuto rilievo. Specie nelle città più grandi o nei centri nevralgici, ai padiglioni destinati alle funzioni di macellazione, talvolta arricchiti all’esterno con elementi decorativi, erano associate le aree per il mercato del bestiame (o fori boari). Il risultato? La nascita di “cittadelle” tendenzialmente ai margini dei centri urbani, funzionali a una filiera produttiva che, nel corso del Novecento, di pari passo con l’evoluzione della società e dei consumi ha poi intrapreso percorsi di altra natura, anche per effetto della spinta esercitata dall’allevamento intensivo e dell’ascesa delle aziende private in tale comparto. Pur non rendendo il contesto italiano un unicum su scala europea, il carattere prevalentemente “pubblico” dei mattatoi ha di fatto inciso nelle diffuse esperienze di riqualificazione di un patrimonio immobiliare che, in particolare dagli Anni Settanta in poi, ha conosciuto fasi di progressiva dismissione, degrado e abbandono. Agli esempi
Nel corso del Novecento abbiamo assistito
alla nascita dei mattatoi e poi al loro disuso, fino a una rivalutazione del loro ruolo
architettonico e sociale, spesso in chiave
culturale. Abbiamo raccolto sei buoni esempi italiani ed europei
di maggiore pregio, come il complesso del Mattatoio di Roma nel quartiere Testaccio, costruito tra il 1888 e il 1891 su progetto dell’architetto Gioacchino Ersoch e tra le più rilevanti testimonianze di archeologia industriale della capitale, si affianca sul territorio una rete di luoghi talvolta meno noti al grande pubblico, ma con storie e trascorsi affascinanti. Risalente al 1894, l’ex macello civico di Busto Arsizio (Varese) ha negli anni accolto persino una sede della Poste Italiane e una caserma di polizia. Nel luglio 2024, il Comune ha annunciato l’avvio della sua rigenerazione con il proposito di dotare la città di un polo “dedicato prevalentemente ai giovani, con spazi per attività aggregative, culturali e associative”. Un intervento che oltrepassa i 9 milioni di euro – finanziato per oltre 6,3 milioni di euro dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – non isolato.
MILANO E IL SUO EX MACELLO, TRA RIATTIVAZIONI
TEMPORANEE E AMBIZIONI CARBON NEUTRAL
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Non sono mancate le code per accedere, in occasione della Milano Design Week 2023, all’ex macello milanese di viale Molise, nel quartiere sud-orientale di Calvairate. Forte del successo delle edizioni precedenti, per il suo quinto anno il format espositivo Alcova nell’aprile 2023 è approdato nello stabilimento di circa 150mila mq risalente agli inizi del XX Secolo, proseguendo la fortunata serie di riattivazioni temporanee in complessi novecenteschi dismessi. Con il suo peculiare mix di rovine, memorie e strutture di pregio, il sito ha risposto con efficacia alle richieste del duo curatoriale formato da Valentina Ciuffi (Studio Vedèt) e Joseph Grima (Space Caviar), imponendosi come una delle destinazioni irrinunciabili della kermesse milanese in quell’anno. Dismesso a partire dagli Anni Novanta e in forma definitiva dal 2005, teatro di varie esperienze di uso, l’ex macello è stato ufficialmente proiettato verso il suo futuro in seguito alla scelta del Comune di Milano di candidarlo alla seconda edizione del programma Reinventing Cities. La gara è stata vinta nell’estate 2021 dal progetto ARIA, dopo 13 manifestazioni di interesse e cinque progetti finalisti (sviluppati da Atelier(S) Alfonso Femia, Snøhetta Oslo AS con Barreca & La Varra, Onsitestudio, Mario Cucinella architects e Arup Italia, Progetto CMR). Capofila dell’operazione è Redo Sgr società benefit per conto del Fondo Immobiliare Lombardia Comparto Uno (FIL1), con CA Ventures, E.ON, Deltaecopolis, CCL come ulteriori investitori; lead architect del programma di riattivazione è lo studio norvegese Snøhetta, affiancato da un équipe di professionisti che comprende Barreca & La Varra, Stantec, CZA Cino Zucchi Architetti, Chapman Taylor Architetti, Mpartner, la Fondazione Housing Sociale e altri partner. In parte già aperto, grazie alla convenzione comunale, con usi temporanei promossi in un’ottica di riconnessione tra l’area, la comunità locale e il quartiere circostante, nel prossimo futuro ARIA sarà un quartiere multifunzionale. Il piano prevede il recupero del 15% delle preesistenze e il 35% di nuove superfici residenziali (viene considerato come il principale intervento di social housing in corso nel contesto italiano). Alle funzioni espositive, commerciali, ricettive, agli uffici e laboratori spetterà oltre il 40% dello spazio complessivo, mentre la restante quota verrà riservata del campus IED Milano, a uno studentato, nonché a servizi medici. L’ambizione, infine, è rendere l’ex macello “la prima Area Carbon Negative di Milano grazie al distretto energetico ectogrid™ che, con il fotovoltaico delle Comunità Energetiche Rinnovabili, sottrae CO2eq dal resto della città”, puntando quindi sull’ottenimento di specifiche certificazioni per gli edifici e su un vasto ricorso alle piante e al verde.
a sinistra: Snøhetta, render del progetto di riqualificazione d ell'ex macello di Milano. Credits Wolf Visualizing Architecture
OBIETTIVO CITTÀ DELLE ARTI: LA RIGENERAZIONE
DELL’EX-MATTATOIO DI TESTACCIO, A ROMA
Realizzato insieme alle residenze dei lavoratori, il Mattatoio di Testaccio è da sempre un modello di riferimento europeo dal punto di vista urbanistico e funzionale; nel 1978 è stato vincolato per il suo valore storico-architettonico. Dal tempo della sua costruzione (1888-1891) all’anno di interruzione della mattazione (1975) ha attraversato le diverse epoche di sviluppo di Roma come capitale moderna: da stabilimento pubblico all’avanguardia per la nuova Italia repubblicana a centro di un quartiere operaio, da luogo cosmopolita nei vent’anni conclusivi del Novecento a complesso polivalente per la cultura e la formazione tecnica e artistica nella città del XXI Secolo. È anche il luogo in cui è stato girato il primo video musicale della storia d’Italia e qui si è svolto il primo festival Enzimi. Lo stabilimento (106.664 mq) è stato progettato da Gioacchino Ersoch, che lo definì opera “di grande interesse e pubblica utilità”, decretando l’importanza collettiva mantenuta durante la veloce parabola di dismissione e riuso dei suoi caratteristici padiglioni, trasformati in appena 130 anni da macello del “bestiame dòmito” a Città delle Arti. Il quadrante ovest di Testaccio si era rivelato abbastanza periferico e vicino al fiume Tevere per sostenere la produzione industriale della carne e del vino e nel frattempo Testaccio ha conquistato una posizione di centralità nella città storica. Negli Anni Settanta il decentramento delle attività di mattazione ha fatto sì che i padiglioni diventassero una dotazione pubblica strategica per altre attività. Noto per la vita notturna degli Anni Novanta, l’Ex-Mattatoio ha manifestato una vocazione all’intrattenimento e una permeabilità alle culture urbane grazie all'incessante progettualità di associazioni e movimenti che hanno generato occasioni di trasformazione e riuso. Vale la pena nominare la Scuola Popolare di Musica di Testaccio (avamposto dal 1975), il Villaggio Globale (dal 1990), il Centro Culturale kurdo Ararat (dal 1999), tra le comunità
che ancora abitano e hanno presidiato con funzioni culturali e sociali i luoghi dell’Ex-Mattatoio, contesi tra lungimiranza e casualità.
Il programma odierno di riqualificazione a cura di Roma Capitale definisce un assetto organico dal punto di vista architettonico e funzionale, tentando un coordinamento pubblico delle iniziative (fiere, conferenze, mostre, didattica). Questo sforzo decisivo per realizzare la Città delle Arti, si coniuga con l’adattamento continuo e le trasformazioni di un quartiere generoso di spazi pubblici per i cittadini. È importante ricordare che la fama del Mattatoio è dovuta alla sua capacità di ospitare eventi epocali come il concerto di Frank Zappa nel 1982, proprio grazie al carattere accogliente della piazza del Campo Boario. Questo grande spazio libero unico nel suo genere (più esteso di piazza Navona o di piazza San Pietro, per intenderci) attirò l’attenzione di Renato Nicolini che ne riconobbe la vocazione all’arte decretandone l’apertura pubblica in occasione dell’Estate romana. Negli Anni Duemila la Giunta Rutelli ha restituito alla città un polo culturale e un mercato importante, preparando il terreno per i bandi che
Visioni e progetti del Mattatoio di Testaccio. Dal “bestiame domito” ad una diffusa vitalità
FASI1→ Costruzione di un quartiere operaio dove residenza e lavoro sono intrecciati nel quotidiano
2→ Domanda di riuso da parte dei cittadini e degli “attori” della scena culturale romana
3→ Diventa un luogo per concerti e iniziative culturali molto varie
4→ Iniziative del comune di Roma per accompagnare la realizzazione della Città delle Arti
1871 Roma diventa capitale dʼItalia
1888-91 funzionalizzazione dellʼarea adibita a Mattatoio con il progetto di Ersoch
1870-1930 realizzazione del quartiere Testaccio
1962 proposta di demolizione degli edifici
1975 dismissione delle attività del Mattatoio
1978 lʼEx-Mattatoio viene vincolato
1980-90 primi progetti di restauro e rifunzionalizzazione da parte di importanti architetti di Roma
1990 si insedia il Villaggio Globale
1999 si insedia lʼUniversità degli Studi Roma Tre
2007 Città dellʼAltra Economia e mercati “km0” nel Campo Boario
2008 la Pelanda inaugurata come avamposto di un composito hub per lʼarte contemporanea
2010-2020 iniziative e bandi per i campus universitari e di alta formazione
2020 bando per la Città delle Arti Applicate
2024 inizio del cantiere dellʼUniversità degli Studi Roma Tre
hanno destinato una parte dell’Ex-Mattatoio alla Città dell’Altra Economia (2007).
Se è più facile accompagnare la propensione fieristica, espositiva e sociale della parte sud del Mattatoio (il cosiddetto Campo Boario), che era già disegnato da Ersoch come spazio di mercato del bestiame e del vino, meno immediata è stata la riqualificazione dei padiglioni dello stabilimento di mattazione a nord (più vincolanti dal punto di vista architettonico), per cui ci sono voluti degli attori pubblici con maggiore capacità trasformativa. L’Università degli Studi Roma
Tre ha avviato nella primavera del 2024 un cantiere importante, che completerà nel 2028 la rifunzionalizzazione dei padiglioni destinati all’Ateneo, con il recupero e la ristrutturazione dei padiglioni 14, 15b, 15c, 16, 24 e 25, concessi all’Università degli Studi Roma Tre per vent’anni da una delibera comunale del 2022, che rinnova quelli già destinati al Dipartimento di Architettura. L’Università si colloca nella configurazione funzionale sancita dal “Piano di utilizzazione dell’Ex-Mattatoio di Testaccio”, derivato dagli accordi di programma del Progetto Urbano “Ostiense-Marconi” (1999-2000). Il primo insediamento delle aule risale al 1999 e per anni l’Ateneo romano è stato uno degli ospiti più importanti per renderlo un luogo di ricerca, affiancato in successione da Azienda Speciale PalaExpo, che nel 2008 con La Pelanda battezza insieme alla sede del Macro i due luoghi principali della parte più istituzionale delle iniziative artistiche dedicata alle mostre e ai festival (tra cui da anni spicca il Roma Europa Festival). In primavera l’Aula Studio La Pelanda è stata inaugurata aggiungendosi ai cinque spazi comunali aperti tutta la settimana per i giovani. Sotto il brand “Mattatoio” promosso da PalaExpo sono inclusi anche i cosiddetti Rimessini (ristrutturati e destinati da tempo alla ristorazione ma ancora chiusi). Tra i cantieri degni di nota, l’Accademia di Belle Arti (insediata dal 2011) sta ampliando i suoi spazi e il Centro per la Fotografia sarà visitabile dal 2025. Oggi la maggior parte della superficie del Mattatoio è costituita da strade e piazze pedonali, il cui valore pubblico è una risorsa imprescindibile per la trasformazione futura.
MARTINA PIETROPAOLI
Dai mattatoi dismessi in Europa nuovi luoghi per le comunità
ITALIA
1 Ex macello, Milano – in progress
2 Ex mattatoio Testaccio, Roma – in progress
3 EXMA - EXhibiting and Moving Arts, Cagliari inaugurato nel 1993
4 Museo degli strumenti per il calcolo, Pisa inaugurato nel 2000 nell’area dei vecchi macelli
5 Riqualificazione ex mattatoio, Marino (Roma) – in progress
6 Teatro e casa delle associazioni nell’ex mattatoio, Velletri (Roma) – in progress
7 Casa delle Culture di via Vallemiano, Ancona – inaugurata nel 2007
8 Centro multifunzionale per servizi sociali, culturali e comunitari, Rimini in progress
FRANCIA
9 Les Abattoirs Tolosa – inaugurato nel 2000
10 Parc de la Villette, Parigi inaugurato nel 1991 nell’area del mattatoio cittadino
11 Halle Tony Garnier, Lione inaugurato nel 1991, nell’area del mattatoio e del mercato del bestiame disegnata da Tony Garnier
12 Mercato coperto e area espositiva, Schiltigheim - inaugurato nel 2018
SPAGNA
13 Matadero Madrid. Centro de Creación Contemporánea inaugurato nel 2006
14 Traspinedo centro della comunità, Vallaidolid inaugurato nel 2014
15 Scuola di formazione per chef, Medina-Sidonia inaugurata nel 2013
GERMANIA
16 Pig Museum, Stoccarda – inaugurato nel 2010
REPUBBLICA CECA
17 Plato Contemporary Art Gallery, a Ostrava completata nel 2022 nell’ex mattatoio cittadino
DANIMARCA
18 ÅBEN brewery, a Copenhagen completato nel 2022 nell’ex mattatoio cittadino
PORTOGALLO
12 M-ODU (Matadouro Outro Destino Urbano), a Porto – in progress
L’EX MATTATOIO DI CAGLIARI. E ORA?
Sono già trascorsi tre decenni da quando, il 16 ottobre 1993, inaugurava l’EXMA - EXhibiting and Moving Arts, il primo centro comunale di arte e cultura di Cagliari. Sede delle mostre temporanee promosse dall’assessorato alla cultura del capoluogo sardo, il polo occupa gli spazi del dismesso mattatoio cittadino, a sua volta eretto a partire dal 1845 nell’antico quartiere di Villanova. Originariamente circondato da aree coltivate, l’impianto sorse per porre fine alle modalità di macellazione fino a quel momento in uso, portatrici in loco (come altrove in Italia) anche di infezioni. Il progetto, inizialmente curato e diretto dal Cav. Domenico Barabino (maggiore del Genio Militare), puntava dunque a regolamentare la pratica mattatoria in città, ma non ebbe vita facile. Ultimato nel 1852 e “minacciato” di sostituzione da un nuovo stabilimento da erigere in zona Playa, venne ristrutturato a partire dal decennio conclusivo dell’Ottocento, per poi rimanere in uso fino agli Anni Sessanta del XX secolo. La successiva realizzazione dell’impianto sito in Via Po ha condotto al temporaneo impiego come autoparco della nettezza urbana e deposito comunale del primo macello di Cagliari. Un destino interrotto negli Anni Ottanta, sulla scia della volontà dell’amministrazione comunale di dotarsi di un luogo per la produzione e la fruizione culturale. Il progetto dell’architetto Libero Cecchini e dell’ingegnere Arturo Gentili Spinola ha così permesso di riattivare il sito, la cui gestione è assegnata a soggetti privati tramite bando pubblico. In occasione dell’apertura, l’allora sindaco Giua e l’assessora ai beni culturali Giovanna Vicini Colombo, così tenevano a battesimo l’EXMA: “L’Ex Mattatoio rinasce in un’altra dimensione e con altre finalità rispetto alle sue originarie, vuole rappresentare non solo un pregevole bene culturale restituito alla città, quello che nella metà dell’Ottocento era il ma-
sopra: Ex Mattatoio di Cagliari, Festival tuttestorie Foto Laura Farneti
a destra: Ex Mattatoio di Cagliari, mostra di Jole Serreli. Foto Francesco Pruneddu
cello cittadino, ma uno spazio da vivere, un luogo di cultura, di arte e di incontro posto al centro della città. Una città che nell’arte e nella cultura ha sempre profuso grandi passioni e che vuole riappropriarsi della sua dimensione più vera. Nell’edificio principale, quello che un tempo era l’“Ammazzatojo del bestiame grosso”, troveranno collocazione mostre e manifestazioni culturali, così come gli altri spazi, dalla passeggiata sopraelevata alle sale di collegamento, agli edifici perimetrali, all’anfiteatro, si riempiranno di attività che caratterizzeranno la polifunzionalità del Centro”. A breve è previsto l’affidamento dell’incarico per la sua curatela e gestione nei prossimi anni.
MADRID IN FESTA PER IL SECOLO DI VITA DEL SUO MATADERO
Fino al 17 novembre 2024, la capitale spagnola celebra i cento anni di vita del suo monumentale mattatoio municipale. Mostre sulla storia del sito, tavole rotonde inerenti l’architettura e l’urbanistica, concerti, spettacoli, laboratori e proiezioni di film concorrono ad articolare il programma ospitato negli spazi di quello che, a partire dal 2006, è divenuto il Centro de Creación Contemporánea del Área de Cultura, Turismo y Deporte dell’Ayuntamiento de Madrid. Ultimata nell’ottobre 1924, la costruzione del vasto impianto cittadino per la macellazione e dell’annesso mercato del bestiame si deve all’architetto madrileno Luis Bellido. Prendendo a riferimento il modello dei macelli berlinesi dell’epoca, all’inizio del XX Secolo il progettista sviluppò un programma planimetrico declinato in 48 edifici (per complessivi 165.415 mq); rimasti in attività per quasi sessant’anni (fino al 1995), hanno poi passato il testimone al moderno polo alimentare e logistico Mercamadrid. Ma sul Matadero di Madrid le luci non si sono mai completamente spente e nel giro di un decennio il suo percorso di rigenerazione si è imposto come riferimento virtuoso su scala europea. Un successo consacrato anche dai prestigiosi riconoscimenti architettonici ricevuti nel tempo, incluso il Mies van der Rohe Award for Emerging Architect. In parallelo anche l’obiettivo probabilmente più ambizioso per questo tipo di iniziative, ovvero far germogliare luoghi in grado di divenire parte integrante nella quotidianità della comunità di riferimento, è stato raggiunto. Alla ristrutturazione dei singoli padiglioni hanno concorso numerosi progettisti di base nella capitale spagnola, invitati ad abbracciare un approccio comune che privilegia il principio di reversibilità e il rispetto dei volumi esistenti, pur dovendo misurarsi con le richieste tecniche delle eterogenee funzioni previste. La volontà di conservare la leggibilità degli involucri storici e favorire la nascita di spazi permeabili, potenzialmente capaci di accogliere successive trasformazioni, ha dunque spinto gli architetti coinvolti a sviluppare proposte ad hoc, che hanno finito per rendere il Matadero un “campionario” di visioni, soluzioni, sperimentazioni. Inaugurata nel 2007, su progetto di José Antonio García Roldán, la Central de Diseño adotta per esempio
materiali riciclati nei suoi interni, inclusi pannelli industriali realizzati con paraurti di automobili nella pavimentazione. Sede di mostre, festival e laboratori, si colloca frontalmente al polo teatrale di 5.900 mq ricavato nei cosiddetti naves 11 e 12. Autentico “esperimento nell’esperimento”, questa zona per le arti teatrali e performative costituisce l’esito della collaborazione interdisciplinare tra il regista Mario Gas, lo scenografo Jean Guy Lecat, lo scenografo Francisco Fontanals e l’architetto comunale Emilio Esteras. Anche in questo caso, la flessibilità ha guidato la mano del team in modo da consentire allo spazio di supportare innumerevoli configurazioni sceniche, sempre senza offuscare la leggibilità dell’intervento contemporaneo negli storici padiglioni. Luogo “manifesto” dell’intera opera di rigenerazione e dello spirito dinamico che attraversa il sito è Plaza Matadero, a sua volta rinata nel 2011 per opera degli architetti Ginés Garrido, Carlos Rubio e Fernando Porras. Assieme al Calle Matadero, costituisce il “foro” del centro culturale madrileno: un ecosistema di aree vuote (e quindi ad alto grado di adattabilità), divenuto una risorsa per l’intera città, che infatti qui si ritrova per manifestazioni all’aperto, concerti, festival e mercati.
Nel recente passato, infine, la storia del Matadero si è intrecciata con quella della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Attiva dal 1995, l’istituzione torinese scelse di estendere la propria azione nel contesto spagnolo, proponendosi come soggetto promotore di iniziative formative, educative e in sostegno della generazione emergente di artisti. Un proposito concretizzatosi, nel settembre 2017, con la nascita della Fundación Sandretto Re Rebaudengo Madrid. Sua sede designata era la Nave 9 all’interno del centro madrileno, previa ristrutturazione affidata all’architetto David Adjaye (fondatore dello studio Adjaye Associates), insieme all’architetto Arturo Franco. Mostre, laboratori, convegni, oltre all’esposizione in rotazione di opere della Collezione Sandretto Re Rebaudengo, avrebbero dovuto animare lo spazio, ufficialmente concesso dal Comune di Madrid in comodato alla fondazione italiana nel febbraio 2016. Ma di quel progetto, a distanza di sette anni, sembrano essersi perse le tracce…
MADRID, CINQUE EVENTI PER IL CENTENARIO DEL MATADERO
Casa del Lector (auditorium), 30 ottobre Tavola rotonda con gli architetti che hanno contribuito a rendere il Matadero Madrid un modello di riferimento per analoghi interventi di riattivazione
Cineteca, dal 5 al 10 novembre Rassegna cinematografica con una selezione dei film che hanno avuto il Matadero come location; in proiezione anche Matador di Pedro Almodóvar e Los golfos di Carlos Saura.
Plaza Matadero, 9 novembre
DJ set mattutino (fino alle ore 15)
Nave 0, fino al 17 novembre
Mostra Matadero, 100 años, con proiezioni di foto storiche del mattatoio comunale e materiali audiovisivi realizzati appositamente. A cura di Medialab Matadero e David Pérez (studio LaLAB).
Nave 0, dal 5 dicembre al 9 marzo 2025
Installazione audiovisiva interattiva It from bit del digital artisti Efrén Mur.
San Isidro en Matadero Madrid, dettaglio. Crediti Matadero Madrid
LES ABATTOIRS È LA CASA DELLE ARTI DI TOLOSA
Fulcro dell’Occitania, Tolosa è una delle più sorprendenti destinazioni di Francia. Bagnata dalla Garonna, conserva testimonianze storico-artistiche di pregio, come il Convento dei Giacobini, ed è considerata l’hub di riferimento del settore aerospaziale in Europa. Proprio in questa città, quasi 25 anni fa si è scelto di “testare” una forma di fusione tra istituzioni culturali: un tentativo, ormai prossimo al traguardo del primo quarto di secolo, che ha generato incoraggianti ricadute. Nello storico quartiere di Saint-Cyprien, Les Abattoirs è sinonimo arte, cultura, socialità. I macelli cittadini, risalenti al XIX secolo e dismessi sul finire degli Anni Ottanta, su impulso comunale, regionale e poi ministeriale, sono infatti rinati. Riuniscono quelle che originariamente erano tre realtà indipendenti: il museo di arte moderna, il centro per l’arte contemporanea e il FRAC (Fonds régional d’art contemporain de la region; Regional contemporary art holdings). Riconosciuto come Musée de France, il nuovo soggetto si è insediato in una superficie di 3mila mq (su circa 9mila complessivi), ma estende la sua mission anche al di fuori delle mura del riattivato stabilimento, con particolare riguardo per i centri d’arte nel resto dell’Occitania. Con un focus temporale sui secoli XX e XXI, la collezione permanente di Les Abattoirs, Musée - Frac Occitanie Toulouse include circa 4mila opere; nel tempo è stata ampliata dalle donazioni dei collezionisti privati, oltre a rinnovarsi con acquisizioni e riscoperte. All’iniziale prospettiva mediterranea, si sono progressivamente così integrate le
Les Abattoirs, MuséeFrac Occitanie Toulouse.
Credits Les Abattoirs
traiettorie artistiche dell’Africa e dell’America meridionale; l’obiettivo della parità nella rappresentanza maschile e femminile viene perseguito sia con l’accrescimento del patrimonio che attraverso le mostre temporanee promosse. Non solo museo, a partire dal 2013 Les Abattoirs è sede di un programma multidisciplinare, con concerti, conferenze, spettacoli, proiezioni ed esposizioni, che accanto alla presenza stabile di servizi di interesse collettivo (come l’archivio, le sale per riunioni e laboratori, l’auditorium, la biblioteca) rendono questo luogo un multiforme centro d’arte, dotato dell’immancabile area food. Interpretando le richieste della committenza pubblica, l’équipe di progettisti guidata da AARP – Atelier Architecture Rémi PAPILLAULT e Antoine Stinco a partire dalla metà degli Anni Novanta si è misurato con il sito per valorizzarne il valore patrimoniale, “cercando di cancellare le tracce di morte e di sangue così presenti durante le nostre prime visite” come precisano gli architetti. È stata quindi conservata l’articolazione simmetrica del complesso, che esprime anche il linguaggio neoclassico proprio dell’architetto locale Urbain Vitry: fu lui, a partire dal 1825, a realizzare il polo unitario in cui Tolosa scelse di raggruppare i suoi mattatoi. All’esterno si è privilegiata la definizione di un sistema di “corti-giardino” permeabili alla città; all’interno, nonostante le necessarie trasformazioni tecniche e le richieste connesse con gli apparati museografici, l’intervento ha mirato alla conservazione della leggibilità degli ambienti storici.
KENGO KUMA & ASSOCIATES E OODA PER IL RILANCIO DEL MATTATOIO DI PORTO
Lunga 107 metri e larga 15, la struttura curva che caratterizza l’intervento di ristrutturazione del CAM - Centro de Arte Moderna Gulbenkian, nella Fundação Calouste Gulbenkian di Lisbona, agisce da filtro tra i rinnovati spazi espositivi, disegnati circa quarant’anni fa dall’architetto britannico Leslie Martin, e il nuovo giardino progettato da Vladimir Djurovic Landscape Architecture. Con quest’opera, tenuta a battesimo lo scorso 20 settembre, la capitale portoghese diviene la prima destinazione del Paese a ospitare un’opera permanente dello studio Kengo Kuma & Associates, che, invitato nel 2019 dalla Gulbenkian a prendere parte a un concorso privato, ha chiesto allo studio portoghese OODA di collaborare in qualità di architetti associati. Quella di Lisbona tuttavia è una condizione temporanea: infatti, prima dell'esperienza del concorso a Lisbona, nel 2018 lo studio portoghese OODA aveva invitato KKAA a partecipare al concorso internazionale per la rivitalizzazione del Matadouro Industrial di Porto. Inaugurato nel 1932, questo sito è stato dismesso dalla fine degli Anni Novanta. Con una pelle lignea all’interno e un rivestimento esterno in ceramica, lo scenografico portico del CAM, ispirato all’elemento architettonico nipponico dell’engawa, strizza l’occhio alla maxi-copertura immaginata come il landmark nella rigenerazione del dismesso mattatoio, secondo il progetto con cui OODA e KKAA hanno vinto la gara.
La riconversione del mattatoio di Porto, intrapresa nel dicembre 2022 e relativa a circa 26mila mq di superficie lorda, è stata promossa per riabilitare il patrimonio edilizio esistente (in parte “compromesso” dalla vicinanza con l’autostrada interna alla città), integrare nuovi manufatti e avviare, nel quadrante orientale della città, un programma funzionale attrattivo e diversificato. A curarlo sarà Mota-Engil Real Estate Portugal, la società aggiudicatrice della concessione per trent’anni. Analogamente a quanto avvenuto a Lisbona, anche nel cosiddetto M-ODU (Matadouro Outro Destino Urbano) un tetto variamente ondulato si candida al ruolo di fulcro fisico e paesaggistico dell’intervento architettonico. Modellato, perforato, tecnologico, svetterà al di sopra dei volumi esistenti sostenuto da esili pilastri: come spiegato dall’architetto Kuma “è stato modellato a partire dal termine giapponese komorebi, che si riferisce alla luce che filtra attraverso gli alberi in una foresta”. Di conseguenza garantirà porzioni di ombra agli spazi vuoti che insistono tra un edificio e l’altro, oltre ad agire come una “leggera membrana frangisole” per l’intero complesso, evocando in parallelo lo slancio che fu proprio del comparto industriale di questo territorio.
Kengo Kuma and Associates, OODA. Render del Matadouro di Porto, Render by Fusão 3D
Per approfondire, scannerizza il QR code qui a in basso:
Senza dubbio, inserirà un’immediata impronta contemporanea nel distretto di Campanhã, ponendo le basi per il suo rilancio in termini economici e di coesione sociale. Il processo rigenerativo in atto intende infatti riscrivere il destino dello stabilimento e dell’area circostante, facendo leva su arte, cultura, lavoro e servizi anche a carattere educativo e ricreativo Mantenendo la memoria storica e architettonica dell’impianto, si punta a far convergere qui realtà aziendali e commerciali, oltre a soggetti pubblici; rilevante sarà la quota riservata alle attività a carattere artistico ed espositivo. Sono infatti attesi il Museu da Convergência (focalizzato su studio, valorizzazione e diffusione dell’articolata Collezione Távora Sequeira Pinto), l’estensione della Galeria Municipal do Porto, atelier e laboratori artistici. Alla ristrutturazione della decina di fabbricati disegnati dall’ingegnere Monteiro de Andrade nel 1910 si affianca la nascita di un sistema di percorsi pedonali, anche al coperto, che proiettano l’operazione verso la definizione di un sistema urbano integrato alla città. In termini di “progetto pionieristico per la nostra epoca” si è espresso Kuma, che con il suo team è chiamato al rispetto di un cronoprogramma serrato, messo a punto dopo eventi, anche avversi, che hanno generato battute d’arresto nel percorso finanziato con 40 milioni di euro alla base del M-ODU, risalente già al 2017: da alcune vicissitudini burocratiche alla pandemia, fino ai conflitti, nota causa dell’incremento dei prezzi nelle materie prime. Si guarda dunque con fiducia al 2025 per l’ultimazione del cantiere della Galeria Municipal (e di una serie di altri ambienti), mentre il 2026 dovrebbe invece essere l’anno del Museu da Convergência, l’istituzione pubblica destinata ad approfondire le connessioni transculturali tra popoli e aree geografiche diverse, con particolare attenzione per quelle generate dagli spostamenti intercontinentali dei portoghesi.
CASTELLO DI RIVOLI:
COMPIE 40 ANNI IL PRIMO CENTRO D’ARTE CONTEMPORANEA ITALIANO
CHE DOVEVA ESSERE UN CASINÒ
CLAUDIA GIRAUD
Tutto comincia nel 1978, quando il Castello di Rivoli, ormai un rudere fatiscente che nel decennio precedente rischia di diventare un casinò, comincia il suo lungo processo di rinascita che si concluderà il 18 dicembre 1984 con la trasformazione in Museo d’Arte Contemporanea – anzi nel primo del genere in Italia – con una collezione che vanta oltre 800 opere di arte minimal, concettuale, poverista, transavanguardista e dei giorni nostri. A convincere la Regione Piemonte a prendersene carico per il suo recupero in ottica culturale è il rovinoso crollo di una volta al secondo piano.
COSTRUZIONE E RESTAURI DEL CASTELLO DI RIVOLI
Questo antico monumento, costruito sui resti di un maniero medievale sopra una collina morenica alle porte di Torino, sulla via della Francia all’imbocco della Val di Susa, viene abbandonato al suo destino dopo la Seconda guerra mondiale. Da allora, non ha più molto delle tante stratificazioni del passato: dello sfarzo barocco da corte dei Savoia, realizzato prima da Amedeo di Castellamonte e poi ripreso nel Settecento dal progetto (rimasto incompiuto per mancanza di fondi) di Filippo Juvarra, rimane solo il degrado.
A tenerlo sotto controllo ci pensa, però, già da qualche anno un giovane architetto, Andrea Bruno, che firmerà lo straordinario adattamento dell’edificio juvarriano durante il cantiere che dura dal 1979 al 1984 con soluzioni ardite: una scala sospesa nel vuoto, strutture attuali che si innestano sull’antico, vetro e acciaio che dialogano in armonia con i materiali settecenteschi. Successivamente si occuperà anche del recupero della seicentesca Manica Lunga, dotandola di moderni servizi. “Tutti i miei lavori sono sempre stati un ‘costruire sul costruito’”, ci confiderà in seguito l’architetto torinese a latere della mostra che il Castello di Rivoli gli tributerà in occasione del trentennale del suo restauro.
La storia del primo museo d’arte contemporanea d’Italia raccontata dalla visione di ogni direttore che si è succeduto dal 1984 a oggi. E che ha lasciato un pezzo di collezione in dotazione, che oggi conta più di 800 opere
Castello di Rivoli, veduta esterna. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Foto Paolo Pellion
ANDREA BRUNO E LA TRASFORMAZIONE DEL CASTELLO DI RIVOLI
Nel 2015, in occasione dei trent’anni del restauro del museo, il Castello di Rivoli presenta un tributo all’architetto torinese, autore del suo recupero, con la mostra Andrea Bruno. Progettare l’esistente: il terzo piano della residenza barocca diventa una ricostruzione del suo studio di architettura, con la documentazione dei suoi progetti italiani e internazionali. In tutta la sua ultrasessantennale carriera, Andrea Bruno (Torino, 1931) si occupa del restauro di edifici storici, della progettazione di musei, della realizzazione di abitazioni private e del consolidamento e censimento di siti archeologici in tutto il mondo spesso sotto l’egida dell’Unesco, di cui è consulente dal 1974. Ma è con questo colossale progetto conservativo, molto rispettoso dell’esistente, che dà l’imprinting alla sua personale ricerca di equilibrio, tra conservazione e funzionalità del riuso. A dimostrarlo, è un elemento architettonico che introduce quella mostra: la piccola scatola di acciaio e cristallo che sporge dalla grande parete di mattoni del terzo piano del castello. “Al di là di ogni intenzione evocativa, quell’oggetto sporgente ha una propria ragione d’essere in sintonia con l’idea che ha guidato l’intervento di restauro, che è anche quella di favorire al massimo la conoscenza del monumento e del suo intorno”, scrive Andrea Bruno nel nuovo Catalogo delle Collezioni del Museo. “Il visitatore, percorsa la scala sospesa e raggiunto il sottotetto, è attratto dal varco luminoso che prosegue come un balcone proiettato sul vuoto. Da lì vedrà disegnate a terra le tracce delle strutture incomplete dell’atrio e, di fronte, la testata e lo scorcio della Manica Lunga, inserita nel paesaggio concluso dalla cerchia delle Alpi”. Il restauro della Manica Lunga è l’altro grande momento nella storia del Castello di Rivoli, dopo l’apertura del museo nel 1984 e della Collezione Cerruti nel 2019: iniziato nel 1986, si conclude e viene inaugurato a febbraio del 2000. Si tratta de “l’unica parte superstite del complesso seicentesco a seguito dell’interruzione del cantiere juvarriano”, scrive l’architetto nel testo Oltre il Restauro (Edizioni Lybra-Immagine, Milano, 1996). “L’inusuale conformazione volumetrica, 140 metri di lunghezza per 7 metri di larghezza, si deve alla sua destinazione originaria a Pinacoteca, costruita per ospitare le collezioni di Carlo Emanuele I. Irriconoscibile dopo i disastrosi interventi eseguiti a partire dall’Ottocento per ospitarvi la guarnigione militare e alloggi di fortuna, l’edificio è stato innanzitutto restituito alla propria dignità. Rintracciata la partitura architettonica dei prospetti, sono state ripristinate le finestrature originali; l’eliminazione dei tramezzi interni ha consentito di liberare in tutta la sua lunghezza la grande galleria al piano nobile. Anche in questo caso sono stati introdotti elementi di nuova progettazione quali la copertura e i collegamenti verticali. Il tetto, irrecuperabile per l’avanzato stato di rovina, è stato sostituito con una struttura composta da centine metalliche che reggono una calotta centrale; due feritoie longitudinali, lunghe quanto il fabbricato, permettono l’illuminazione zenitale dell’interno. Per non interferire sulle murature originali, i servizi e le strutture di collegamento verticale sono stati collocati all’esterno della costruzione e chiaramente connotati come interventi moderni e reversibili”. Nella Manica Lunga sono oggi ospitati lo spazio espositivo del terzo piano, dedicato alle mostre temporanee, la Biglietteria, il Bookshop, la Biblioteca con la Mediateca del Museo della Pubblicità e il CRRI – Centro di Ricerca Castello di Rivoli, la Sala Conferenze, la Caffetteria e il Ristorante.
LE ORIGINI DI UNA COLLEZIONE
Nel 1984 il museo è pronto, ma è un contenitore vuoto in attesa di una collezione che potrebbe essere quella prestigiosa del marchese collezionista Giuseppe Panza di Biumo: è alla ricerca di una sede espositiva permanente per un’ottantina di sue opere di arte minimale, concettuale, ambientale. Gli artisti sono pezzi da novanta come Nauman, Serra, Flavin, Robert Morris, Judd, Richard Long, Andre, ma la Regione Piemonte, dopo un’iniziale disponibilità, rifiuta la donazione in nome di un progetto più ambizioso.
“La Regione decise di dare al Castello un ruolo diverso da quello che pensava Panza, che bene o male sarebbe diventato il padrone del castello”, dichiarava in un arti-
colo del 2006 su La Stampa Giovanni Ferrero, allora assessore alla Cultura della Regione che, insieme ad Alberto Vanelli, direttore del settore Beni Culturali, ha la paternità della scelta: fino al 1990 è stato il primo Presidente del Museo di Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, ruolo ricoperto oggi da Francesca Lavazza. Il museo non voleva essere una Kunsthalle, ma un centro per artisti viventi, che producessero le opere del proprio tempo attraverso tutti i linguaggi, purché di ricerca.
OUVERTURE 1984: LA MOSTRA INAUGURALE DEL PRIMO DIRETTORE RUDI FUCHS
Nasce, così, la mostra inaugurale Ouverture, chiamata in tal modo dal primo direttore Rudi Fuchs per ragioni di libertà espressiva: “Io mi considero come un compositore, io faccio un’opera con opere d’arte, con quadri e oggetti, e come tra forti e piani c’è una musica diversa, così anche qui tra alti e adagi si trovano spazi diversi”. Progettata come ipotesi di una collezione dal direttore olandese – primo direttore straniero in un’istituzione italiana – è allestita come una rassegna di potenziali acquisti: incentrata su opere nuove o recenti, la mostra predilige il valore delle ricerche individuali dei singoli artisti, più che la loro appartenenza a gruppi o precisi movimenti storico-artistici. Così, senza limiti di ordine cronologico o tematici, un dipinto di Julian Schnabel si accosta all’albero di Giuseppe Penone, una tela di Emilio Vedova si posiziona davanti alle pietre di Richard Long, in un susseguirsi di stili e linguaggi diversi, nel contesto molto connotato di un castello e non di un white cube. E poi lavori ambientali e inamovibili – le stanze dipinte da Lothar Baumgarten, Yurupari – Stanza di Rheinsberg; Niele Toroni, Impronte di pennello n. 50 a intervalli regolari di cm 30, e installazioni e opere scultoree, come Verso oltremare di Giovanni Anselmo; Persone nere di Michelangelo Pistoletto. Per un totale di 120 opere di 71 artisti tra dipinti, sculture, installazioni distribuite nelle 33 sale del primo e del secondo piano. Dopo 40 anni, quella stessa mostra torna ora al museo in versione aggiornata per celebrarne l’anniversario. “Ouverture 2024 è concepita come una proposta per un museo del XXI Secolo, radicato in Europa ma aperto ad una più ampia visione globale”, ci raccontano i suoi curatori Francesco Manacorda, attuale Direttore del Castello di Rivoli e Marcella Beccaria, Vice Direttrice, Capo Curatrice e Curatrice delle Collezioni. “La mostra fa anche riferimento all’ambizioso e articolato programma di mostre organizzate dal Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea nel corso degli anni e alla crescita organica della sua collezione, nella quale molte opere sono nate grazie all’eccezionale contesto della dimora sabauda incompiuta e al dialogo diretto tra i direttori, i curatori e gli artisti”.
LA QUASI VENTENNALE DIREZIONE DI IDA GIANNELLI
Con l’entrata in carica nel 1990 di Ida Giannelli, il museo acquista una sua identità forte che permane ancora oggi, anche grazie all’apertura della Manica Lunga nel 2000: quella di centro culturale con una precisa idea di collezione permanente, incentrata su due movimenti fondativi del secondo Novecento di rilevanza internazionale, Arte povera e Transavanguardia. Il nucleo poverista, oltre alla sua militanza di
curatrice al fianco di Germano Celant e degli artisti coetanei, lo si deve soprattutto al comodato congiunto con la Galleria Civica di Torino, (e al mecenatismo della Fondazione per l’Arte CRT che comincia proprio in quegli anni) della collezione Christian Stein: venti opere capitali, realizzate tra 1967 e 1975, capaci di garantire una visione completa del fenomeno. Sotto la direzione Giannelli, l’attenzione va anche ai giovani del momento che diventeranno negli anni delle artistar (Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Paola Pivi, Grazia Toderi, Francesco Vezzoli).
IL MUSEO NON VOLEVA
ESSERE UNA KUNSTHALLE,
MA UN CENTRO PER ARTISTI
VIVENTI, CHE PRODUCESSERO
LE OPERE DEL PROPRIO
TEMPO ATTRAVERSO TUTTI
I LINGUAGGI, PURCHÉ DI RICERCA
IL TANDEM BEATRICE MERZ
E ANDREA BELLINI
Dal 2010 la direzione di Beatrice Merz, fino al 2012 con Andrea Bellini, è all’insegna del consolidamento della presenza di nomi già rappresentati come Jannis Kounellis, Gianni Colombo, Marisa Merz, Nicola De Maria. Ma c’è anche un filone al femminile pre-
Castello di Rivoli, atrio. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, RivoliTorino. Foto Paolo Pellion
ponderante che porta all’acquisizione di lavori di artiste giovani o a metà carriera, italiane e straniere come Elisabetta Benassi, Mona Hatoum, Dorothy Iannone, Anna Maria Maiolino, Kateřina Šedá, Maria José Arjona, Marinella Senatore, Rossella Biscotti, Eva Frapiccini, Teresa Margolles, Ana Mendieta, Marzia Migliora, Sophie Calle. È anche il tempo delle grandi collettive, frutto di tre riallestimenti delle opere storiche. “Ho limitato il numero di sale dedicate a un unico artista”, raccontava Beatrice Merz ad Artribune in un’intervista del 2012. “Mettere più artisti in un’unica sala non avveniva in passato a Rivoli. In questo caso ho invece voluto giocare con le opere. L’accostamento di diversi artisti nello stesso spazio è un invito al visitatore, al quale si chiede di creare un proprio libero percorso mentale attraverso i confronti, che talora sono arditi, come nel caso di Mario Giacomelli e Nan Goldin”.
I 7 ANNI DI DIREZIONE
DI CAROLYN CHRISTOV-BAKARGIEV
Nei 7 anni di direzione (2016-2023) di Carolyn Christov-Bakargiev – già Capo Curatore al Castello dal 2001 al 2008 e sua Direttrice pro tempore nel 2009, nonché seconda donna nella storia a dirigere un’edizione di documenta a Kassel – torna il criterio monografico dei riallestimenti, mentre l’eclettismo è l’impronta dei suoi progetti multiformi che richiamano alla storia, alla politica, alla filosofia, alle scienze, alla psicanalisi. A tutto ciò, tramite un accordo di ge-
stione, si aggiunge l’ingresso di una collezione privata: quella di Francesco Federico Cerruti. Infine, l’ingresso in collezione di un lavoro di Mike Winkelmann, alias Beeple, dalla doppia esistenza – fisica (un grande olio su tela) e digital –, sancisce la fine del suo mandato e l’inizio del suo pensionamento. “Ho cercato di pensare a quelle opere in cui l’energia”, scrive Christov-Bakargiev nell’introduzione del nuovo Catalogo delle Collezioni, “la processualità e l’incertezza fossero caratteristiche determinanti, in continuità con l’Arte Povera, sulla cui base si fonda la Collezione del nostro Museo”.
GLI EVENTI DEL QUARANTENNALE DEL CASTELLO DI RIVOLI
Una delle ultime opere entrate nelle collezioni del Castello di Rivoli, grazie a una donazione dell’artista, è l’installazione Shade Between Rings of Air (2003) di Gabriel Orozco (Xalapa, Messico, 1962) che verrà inaugurata in occasione dei 40 anni del Castello. L’opera – nella Sala 18 dell’edificio Castello – restituisce una copia in scala 1:1 della Pensilina, struttura architettonica realizzata nel 1952 da Carlo Scarpa come parte del Giardino di Sculture presso i Giardini della Biennale di Venezia. Dopo la presentazione ufficiale in occasione della 50esima Biennale Arte di Venezia nel 2003 e le esposizioni al Palacio de Cristal a Madrid e al Fine Art Palace a Città del Messico nel 2004, l’installazione di Orozco approda oggi al Castello di Rivoli
CON L’ENTRATA IN CARICA
NEL 1990 DI IDA GIANNELLI, IL MUSEO ACQUISTA UNA
SUA IDENTITÀ FORTE CHE
PERMANE ANCORA OGGI
in alto: Giorgio de Chirico, Il saluto degli Argonauti partenti , 1920, Collezione Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte in collaborazione con Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
a destra: Villa Cerruti, esterno, Foto Antonio Maniscalco
con un allestimento inedito curato da Marcella Beccaria, in dialogo con l’artista e pensato appositamente per gli spazi del museo. Anche il Dipartimento Educazione ha in serbo una novità: attingendo alle opere della collezione permanente, allestirà l’intero spazio del terzo piano del Castello di Rivoli a misura di bambino col progetto del Castello Incantato “Ponendo i bambini e i giovani come ‘visitatori ideali’ di tali spazi”, spiegano i responsabili area, “permetterà al resto del pubblico di esperire un allestimento disegnato per i loro occhi, menti e cuori e come tale un museo ‘re-incantato’”. Nato dalla collaborazione tra il Dipartimento Educazione e un team di docenti, il progetto si basa su un approccio partecipativo di co-creazione del percorso museale con i fruitori stessi, in particolare bambini e ragazzi. Un progetto in linea con la missione istituzionale del Museo di “promuovere la conoscenza dell’arte del nostro tempo” attraverso il coinvolgimento diretto del pubblico per favorire il processo di crescita sociale e civile delle persone e del territorio.
I
TESORI DELLA COLLEZIONE
CERRUTI A DUE PASSI DAL CASTELLO DI RIVOLI
È del 2017 l’accordo, stipulato tra il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte, per la valorizzazione e la cura di una straordinaria collezione, un unicum, per vastità e importanza, nella storia del collezionismo privato europeo. Si tratta di un progetto ambizioso che ha previsto la ristrutturazione, e messa in sicurezza, della villa che lo stesso collezionista Francesco Federico Cerruti (Genova, 1922–Torino, 2015), scomparso all’età di 93 anni, aveva fatto costruire a Rivoli, a metà degli Anni Sessanta, a pochi passi dal Castello, come scrigno in cui custodire i propri “tesori”. La Villa Cerruti, sede dell’omonima Fondazione, aperta al pubblico nella primavera del 2019, ha restituito alla collettività un patrimonio inestimabile che ripercorre la storia dell’arte in un excursus d’eccezione, nel quale si alternano epoche e stili. In collezione si va dai preziosi fondi oro medievali, capolavori di pittura sacra di maestri come Gentile da Fabriano e Sassetta all’arte contemporanea, con lavori di
Bacon, Burri, Warhol, De Dominicis e Paolini. Iniziata circa sessant’anni fa con l’acquisto di un’opera su carta di Kandinsky del 1918, quella di Francesco Federico Cerruti, figura esemplare di imprenditore e collezionista, è una raccolta eccentrica, che è possibile apprezzare anche come opera d’arte totale insieme al luogo che la custodisce. Con l’intenzione di valorizzare e promuovere la collezione, dal 2020 sono attivi cicli di conferenze e visite speciali, nelle quali storici dell’arte e studiosi di altre discipline, una volta al mese, presentano al pubblico un’opera o un nucleo di opere della raccolta, approfondendone gli aspetti salienti per confronto e associazione. L’ultimo dal titolo Collezione dal vivo, ancora in corso, fino al 14 novembre 2024, prevede l’alternarsi di conferenze ad appuntamenti dedicati alla musica dal vivo, in forma di lezioni-concerto, a cura di Mario Calisi. Altra occasione di analisi e ricerca, è stata la pubblicazione del Catalogo generale della Collezione Cerruti, edito da Allemandi Editore, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev nel 2021. Un nuovo progetto editoriale sarà presentato il 2 novembre, in occasione di Artissima 2024, presso il Teatro del Castello di Rivoli. Si tratta dei Quaderni di Fisica e Metafisica della Collezione Cerruti: uno spazio di approfondimento e riflessione sui temi legati alla raccolta del collezionista, a cura di Andrea Cortellessa, critico letterario e storico della letteratura. Numero dopo numero, gli argomenti prescelti saranno affrontati secondo una duplice prospettiva: quella della “fisica”, con un approccio analitico e filologico, talvolta propriamente scientifico, e quella della “metafisica”, ad assecondare una visione di carattere narrativo e filosofico. Un chiaro omaggio a Giorgio de Chirico, padre della Metafisica, tra gli artisti più amati da Cerruti e di cui in collezione si conservano dieci dipinti. L’intento del Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, in virtù dell’accordo con la Fondazione Francesco Federico Cerruti per l’Arte, che detiene la proprietà delle opere, è quello di creare un nuovo modello di museo, in cui l’arte è osservata da più prospettive in un proficuo scambio tra collezioni e artisti d’oggi e capolavori di ieri.
TORINO
Venaria Reale
Moncalieri
Palazzina di caccia di Stupinigi
Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea
Villa Cerruti
PAROLA AL DIRETTORE FRANCESCO MANACORDA
Nell’ambito delle celebrazioni per i 40 anni del Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli, non potevamo non rivolgere qualche domanda all’attuale direttore, Francesco Manacorda (Napoli, 1974). Che ci dice la sua sui precedenti direttori e sulle prospettive future del museo.
Ouverture 1984-2024. È in programma proprio il 18 dicembre una celebrazione dei 40 anni del Castello di Rivoli con la versione aggiornata della mitica mostra inaugurale. Qual è stato l’approccio curatoriale rispetto ad allora e all’intento di Fuchs di plasmare la collezione di un nuovo museo?
Il principio che Marcella Beccaria ed io abbiamo usato per questo progetto considera la mostra originale di Fuchs come un software da riattivare ai nostri giorni in una macchina – il Castello di Rivoli – e in un ambiente – il sistema dell’arte internazionale – che nel frattempo sono molto cambiati. Per questa ragione abbiamo voluto in primis coinvolgere, come fece Fuchs, gli artisti della nostra generazione il cui lavoro ha avuto un impatto dirompente negli ultimi due decenni. Questo ci permette di tornare alla visione originaria del castello come “Museo di Arte Contemporanea” e sospendere temporaneamente la narrazione storica della collezione che parte dagli Anni Sessanta. Questo gesto riporta il Museo alla sua missione fondativa e intende evidenziare per il pubblico come la condivisione di un’epoca temporale tra opera e pubblico (ovvero come siano ‘nati e vissuti’ nelle stesse condizioni storiche) sia l’aspetto distintivo dell’istituzione.
Che tipo di esposizione ci aspetta?
Un fattore che è cambiato molto dalla situazione in cui operava Fuchs è che il Castello ora ha una collezione e il suo valore e importanza sono anche legati al meraviglioso programma espositivo e di acquisizioni (ad esso collegate) fatto dalle direzioni precedenti. La mostra quindi non solo celebra la collezione ma la storia espositiva di Rivoli dal 2000 fino a oggi. Abbiamo però voluto incorporare in alcune sale opere che non fanno parte della collezione ma che ci piacerebbe lo facessero. Questo è un secondo omaggio a Fuchs e al suo metodo di costruzione delle collezioni operato in Ouverture. Per finire, la versione odierna cerca di riflettere un panorama internazionale che fortunatamente si è espanso a livelli globali con principi di inclusività geografica, di genere e di culture diverse.
Breve storia del Castello di Rivoli. Lei nel 1984 aveva dieci anni, ma saprebbe farci un ritratto di ciascun direttore che si è avvicendato, sulla base di ricordi, studi ed esperienza diretta? Che tipo di visione ha dato al museo ciascuno di loro?
Purtroppo ho interagito con Rudi Fuchs solo al telefono e online quando entrambi facevamo parte del comitato scientifico della Fondazione CRT per l’Arte. In quelle situazioni ho veramente apprezzato la sua genuinità e franchezza. Ricordo che, in un incontro durante il COVID, lui inviò una meravigliosa lettera ricordando proprio la sera dell’inaugurazione di Ouverture. Rimane indubbio che fu lui a dare il “la” al Castello di Rivoli, settando standard altissimi, internazionali e sperimentali. Ho sempre avuto un enorme rispetto di Ida Gianelli, del suo stile curatoriale e gestionale e del posizionamento del Museo che lei ha conseguito e mantenuto negli anni. La sua visione rimane un benchmark per me su tutti questi livelli. Recentemente abbiamo dialogato più a lungo e questo per me è una fonte di ispirazione enorme. Con Beatrice Merz abbiamo un rapporto di collaborazione che - con saltuarie interruzioni - va avanti da anni e si fonda su grande fiducia e rispetto. La stima che ho per il suo riserbo e rigore resta inalterata: ritengo che a lei Torino debba molto più di quanto si tenda ad ammettere. Con Andrea Bellini abbiamo condiviso ruoli (sono stato direttore di Artissima dopo di lui) e progetti diversi. L’aspetto che apprezzo di più nel suo operato è un commitment senza compromessi nei confronti degli artisti e della qualità dell’opera. Inoltre, ha una grandissima abilità di mettere insieme squa-
Francesco Manacorda, Direttore Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea Foto
Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino (2)
dre di lavoro e collaborazioni con curatori che in quel momento hanno capacità di visione specialissime. Di Carolyn Christov-Bakargiev io ho sempre apprezzato il pensiero non lineare e la sua capacità di intuizione e comprensione (intuitiva ed emotiva oltre che intellettuale) fulminante. Lei ha anche una capacità rara di ottenere sempre il meglio dagli artisti: questo lo si vede nelle acquisizioni che ha fatto e che sono parte di Ouverture 2024.
Bilancio del passato. In questi 40 anni il Castello di Rivoli è riuscito a posizionarsi e a consolidarsi come museo di arte contemporanea dell’oggi, della ricerca attuale, oppure è rimasto legato, soprattutto all’estero, alla sua immagine di culla dell’Arte Povera? Quale percezione ha avuto data la sua lunga esperienza in musei internazionali?
Io credo che la percezione internazionale nei confronti del Castello rispecchi esattamente entrambi gli aspetti. Vista l’importante mostra di Arte Povera che Carolyn Christov-Bakargiev ha curato alla Bourse di Parigi, ho voluto rimarcare l’aspetto della contemporaneità per questo progetto. Rimangono visibili varie opere dell’Arte Povera, ovviamente, e piano piano le reinseriremo nei display dal prossimo anno in avanti. Io credo che, più che culla dell’Arte Povera, Rivoli sia nato grazie all’Arte Povera e all’impatto incredibile che il lavoro di quegli artisti ha avuto e ha ancora sulla scena internazionale. In tal senso io considero l’Arte Povera come una sorgente continua e originaria, più che come la parte più importante della collezione. Il Museo viene – grazie ad essa – proiettato nel presente e nel futuro.
Bilancio del suo primo anno di Direttore del Castello di Rivoli e di Direttore artistico della Collezione Cerruti che avrà il suo primo banco di prova con la primissima mostra da lei curata al Museo: Mutual Aid. Quali sono le criticità affrontate e i margini di miglioramento di entrambe le istituzioni? Quanto e come è stato coinvolto il pubblico e come ha risposto? È ancora troppo presto per darle un vero bilancio visto che la mostra non ha ancora aperto quando avviene questa conversazione. Le criticità hanno incluso aspetti poco visibili di miglioramento graduale dei servizi e dei processi produttivi per esempio. Ma dal punto di vista di ciò che sarà visibile ed esperibile ho puntato molto sulla collaborazione radicale, sia nei confronti dello staff che con i colleghi di altre istituzioni e del pubblico; solo tra almeno un altro anno potremo verificare se questo approccio avrà dato i risultati sperati.
Programmazione. Quali sono le linee guida e gli highlight del 2025? Tra nuove mostre, iniziative Dipartimento Educazione, CRRI, formazione col progetto "Una scuola al Castello di Rivoli". Per quanto riguarda i servizi aggiuntivi: a che punto è il riallestimento della Caffetteria negli storici locali davanti al Castello e, dopo la chiusura di Combal.Zero, il Museo si doterà di un nuovo ristorante?
Le linee guida vedono alcuni progetti espositivi molto importanti, due dei quali sono nuove serie che si inseriscono nelle sale delle collezioni. Ouverture 2024 per me è davvero un’ouverture che apre alla concezione delle sale dedicate alla collezione come una mostra collettiva costantemente in evoluzione fatta con gli artisti, commissionando loro nuove opere per le sale auliche come fece Fuchs. Per quanto riguarda l’educazione, il terzo piano del Castello sarà dedicato a un progetto pensato con i non adulti: un esperimento che porteremo avanti per un po’ e che muterà forma a seconda di come sarà “usato”. Per quanto riguarda il CRRI stiamo ripensandone alcuni dettagli anche in vista della presa in carico da parte del Museo di Villa Melano. Proprio in questi giorni stiamo studiando un piano culturale e manageriale in tal senso. Infine, lo spostamento della Caffetteria è un progetto che coinvolge il Sindaco di Rivoli appena insediato. Con lui stiamo valutandone le tempistiche precise; mentre per il ristorante sto lavorando alacremente con Francesca Lavazza – la nostra Presidente – a una soluzione che speriamo sia prossima.
La direzione del Museo dʼArte Contemporanea del Castello di Rivoli, negli anni
Carolyn Christov-Bakargiev
Beatrice Merz
Rudi Fuchs
1984-1990
Ida Giannelli
1990-2008
2010-2015
2010-2012 co-direzione con Andrea Bellini
2016-2023 ad interim nel 2009
Francesco Manacorda 2024 – in corso
A RIVOLI L’ECCELLENZA
DELL’EDUCAZIONE MUSEALE ITALIANA
Il Dipartimento Educazione è il fiore all’occhiello del Castello di Rivoli: fondato da Anna Pironti contestualmente alla nascita del museo, con le sue molteplici attività è il suo cuore pulsante e rende evidente e tangibile l’idea di museo inteso come agorà che si apre alla collettività, fucina del pensiero contemporaneo, centro di ricerca e di sperimentazione. “Nella pratica del Dipartimento Educazione ogni bambino, giovane o adulto che partecipa alle attività è protagonista in modo attivo, co-costruttore dell’esperienza e del suo significato”, spiega lo staff del Dipartimento Educazione, presieduto da Paola Zanini e coordinato da Barbara Rocci. “Per tali ragioni, il nostro lavoro afferisce non alla didattica ma all’educazione in senso ampio, dove il termine educare è inteso come verbo, azione, modo di muoversi nel mondo e di interpretare la realtà”. Qui l’incontro con l’arte diventa per tutti i pubblici un’avventura emozionante, un vero e proprio “viaggio” di scoperta grazie al lavoro delle Artenaute, figura innovativa di mediatrice culturale, basato su un impianto concettuale, pedagogico e filosofico all’avanguardia. “Siamo Artenaute quindi viaggiatrici del mondo dell’arte che accolgono e accompagnano le persone, in un percorso infinito e inesauribile”, ci ha raccontato Pironti in passato in un'intervista su Artribune. “Da sempre la mission del Dipartimento Educazione si esprime nella volontà di promuovere forme di democratizzazione della cultura Il nostro motto è trasformare l’esclusivo in inclusivo, lo abbiamo sperimentato tra la gente e nei quartieri, con partner internazionali d’eccezione e piccole scuole al limite tra città e campagna”. L’assoluta particolarità del lavoro del Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli – operazioni inconfondibili con grande partecipazione nella dimensione pubblica, piazze, parchi e strade, teatri di invasioni colorate e multiculturali – lo rende unico a livello non solo nazionale, ma mondiale, come evidenziano i tanti riconoscimenti ricevuti. Tra i più recenti, la selezione da parte di Harvard University –Project Zero, Senior Director Howard Gardner, con l’invito a rappresentare l’Italia all’Arts Learning Festival di Melbourne nel 2017 e 2019. Alla luce del grande successo dei progetti presentati, la University of Melbourne ha invitato il Dipartimento Educazione a partecipare a una nuova piattaforma di ricerca sul tema delle identità transnazionali e intersezionali contemporanee, con St. Andrews University, UK, Immigration Museum e Istituto Italiano di Cultura di Melbourne, MACRO Roma e altri grandi musei internazionali. Il Castello di Rivoli è riconosciuto come polo di eccellenza formativa ed ha ricevuto nel 2011 dal MIUR l’accreditamento al Dipartimento Educazione come Ente di formazione per il personale della scuola. L’impegno del Dipartimento stesso nel diffondere l’arte e la cultura contemporanea si esprime sia al Museo, attraverso attività specifiche come formazione insegnanti, percorsi per le scuole, gruppi e associazioni, lezioni per l’Università della Terza Età, peer education, progetti nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro, attività per le famiglie, percorsi per le persone disabili, formazione aziendale e formazione per gli ordini professionali, sia nel territorio, grazie a una sconfinata rete di relazioni e collaborazioni. In questo modo, il Dipartimento Educazione dispiega un potenziale educativo, formativo, sperimentale e di ricerca illimitato a partire dal lavoro degli artisti, dalla collezione e dalla programmazione espositiva del Museo. Come dimostra l’ultimissimo progetto pensato per il quarantennale, Castello Incantato, dove i suggestivi spazi del terzo piano del Castello saranno trasformati in un’area pensata e disegnata dai giovani per i giovani, frutto di una attività di co-progettazione che li vedrà coinvolti in un allestimento work in progress delle opere della collezione. Per “trasformare gli ambienti del Museo in spazio aperto, inclusivo e dinamico, in continua evoluzione”.
UPCYCLING, SECOND HAND, VINTAGE.
LE INFINITE VITE DELLA MODA
GIULIO SOLFRIZZI
Riciclare e riutilizzare significa dare nuova vita agli indumenti. La moda, infatti, è come i gatti: ha sette vite, forse pure di più, e le può sfruttare tutte per manifestarsi in modi impensabili. Ciò è chiaro da quando l’attenzione dei media si è concentrata sul riscaldamento globale e sui danni causati dall’uomo in termini ambientali. Quindi non da moltissimo. Ma è un tema dibattuto da figure del settore e pure da chi non è mai centrato nulla con il fashion. Basti pensare agli hippy che tra gli Anni Sessanta e Settanta promuovevano la pratica del comprare meno ma meglio; una sorta di “less is more” sdoganato dall’architetto e designer Ludwig Mies van der Rohe, applicato poi all’abbigliamento. Era la risposta ad un settore altamente industrializzato che incominciava a svelare la sua vera natura: si tratta di un grande produttore di vestiti da cui trarre il massimo profitto. Eppure, furono i punk a diffondere la pratica dell’upcycling e a normalizzare l’atto di indossare tante volte i propri capi. Ma non solo, poiché contrari al consumismo e al concetto di moda tradizionale, resero accettabili escamotage come il vintage e il second hand, ovvero gli abiti con oltre vent’anni di vita o quelli utilizzati precedentemente da altri.
LA PRIMA ATTESTAZIONE DELL’UPCYCLING
Quella dell’upcycling però è tutta un’altra storia. La prima attestazione del termine e anche la prima definizione risalgono ad un’intervista del 1994 fatta all’ingegnere meccanico Reiner Pilz che parlò di dare valore maggiore e non minore ai vecchi prodotti. Non c’è spazio per pregiudizi o commenti sprezzanti perché è già tutto chiaro in queste parole, anche se le origini del riutilizzo dei vestiti sono ben più lontane. Infatti, furono gli inglesi a rendere popolare questa pratica dal 1° giugno 1941, data in cui è stato annunciato il razionamento dell’abbigliamento durante la Seconda guerra mondiale. Il tessuto serviva per le divise dei militari e la campagna “Make Do and Mend” (in italiano crea, fai e rammenda) girava nel Paese per motivare a far durare i propri vestiti il più a lungo possibile. Venivano dispensati consigli di ogni genere, da come allungare gli abiti a come preservare la lana dalle tarme, e non poteva essere altrimenti in un periodo di crisi come quello della guerra. Si potrebbe dire che l’upcycling sia stato il collante della parte di mondo coinvolta nelle lotte per il potere, quando i cittadini erano costretti a reinventarsi dal nulla.
È un settore, ma anche un’arte, che si reinventa ripescando dal guardaroba o riciclando i materiali. Il numero di nuovi marchi vicini a cause legate all’ambiente è in crescita, mentre la fotografia ne diventa megafono e le nuove direttive europee mirano a plasmare il futuro ecosostenibile del settore
LA GRAN BRETAGNA COME PATRIA DELL’UPCYCLING
Dunque, la Gran Bretagna ha fatto da maestra. Grazie alla formalizzazione del “dare nuova vita” agli indumenti, è stata compresa l’importanza del saper utilizzare una seconda volta un tessuto. Si incominciarono ad utilizzare persino i materiali di uso bellico, come la seta da paracadute, per la biancheria intima, le camicie da notte e gli abiti da sposa. Ma sempre dalla Gran Bretagna, travolta dalla recessione a cavallo tra gli Anni Ottanta e Novanta, è ripartita la passione per riciclare i vestiti dopo un lasso di tempo che non ha avvantaggiato il second hand e tantomeno il vintage perché la produzione di massa e il consumismo avevano reso il nuovo più affascinante del vecchio, spingendo all’acquisto irregolare e soprattutto superficiale. In quegli anni, una fervente scena di creativi animava Londra e gli stilisti John Galliano e Alexander McQueen lo testimoniano, di pari passo al crescente riutilizzo dei tessuti e degli abiti per crearne di nuovi, soprattutto quando da giovani non avevano i mezzi per produrre. Solo che in questi casi è sempre la necessità dovuta alla mancanza che conduce all’upcycling: non si tratta propriamente di sensibilizzazione, bensì di introduzione ad un tema.
SI POTREBBE DIRE CHE
L’UPCYCLING SIA STATO IL
COLLANTE DELLA PARTE DI
MONDO
COINVOLTA NELLE
LOTTE PER IL POTERE, QUANDO
I CITTADINI ERANO COSTRETTI
A REINVENTARSI DAL NULLA
a sinistra: Il processo di produzione della fibra realizzata con gli scarti degli agrumi. Credits orangefiber.it
in basso: Il gusto vintage alla sfilata di debutto di Alessandro Michele per Valentino, Parigi, 2024
I numeri della sovrapproduzione tessile
Ogni anno si producono di capi dʼabbigliamento
dagli 80 ai 100 miliardi
In UE si producono
5,2 milioni di tonnellate
12 kg per ogni cittadino di rifiuti in abbigliamento e calzature allʼanno, pari a
Nel 2022, il gruppo Inditex (Zara, Bershka, Pull&Bear...) ha consumato
1.780.190
metri cubi di acqua per la produzione dei suoi capi dʼabbigliamento, producendo
17,23
milioni di tonnellate di CO2
DAPPER DAN:
IL PADRE DELL’UPCYCLING
Lo stesso si potrebbe dire di Dapper Dan, il sarto di Harlem che negli Anni Novanta ha portato in una bottega di New York la pratica del riutilizzo creando indumenti dai pattern degli accessori griffati, prima ancora che le grandi firme si rendessero conto del loro potenziale. Il genio dell’upcycling ritagliava la pelle logata delle borse fondando un business che l’ha reso celebre, perché nessuno faceva ciò che lui ha valorizzato tramite la popolarità dei marchi. Perlomeno nessuno è diventato come lui, anche se un recente fenomeno nell’ampio mondo dello streetwear (la cosiddetta moda di strada) vedeva le trame di Louis Vuitton e Gucci applicate sulle scarpe da ginnastica.
COME POTRÀ MAI UN CAPO
PRODOTTO DALLE GRANDI
CATENE DELLA MODA VELOCE
CONIUGARE SOSTENIBILITÀ ED ECONOMICITÀ?
I NUOVI MATERIALI DELLA MODA
Ma si va avanti e le tecniche vengono perfezionate col fine di far evolvere la moda. Ad esempio, si può dare nuova vita a ciò che si trova in natura creando materiali rivoluzionari. Il brand Stella McCartney l’ha fatto con la pelle vegana Mylo, ottenuta dalla lavorazione del micelio, sostanza presente nelle radici dei
Nuove Vite di recupero, Francesco Casarotto e l'arte di agglomerare emozioni
in alto a sinistra e nella pagina a fianco: foto di Omar Macchiavelli in alto a destra: foto di Gonzalo De Castillo
funghi. È una variante che sfrutta una risorsa rinnovabile, che a sua volta replica perfettamente la pelle degli animali. Questo significa riutilizzare in modo positivo come i casi del cotone riciclato e dell’Orange Fiber, una fibra tessile artificiale di origine naturale, la prima al mondo ad essere estratta dagli scarti della produzione degli agrumi.
DARE NUOVA VITA NELLA MODA
Essendo aumentata la consapevolezza riguardo la sostenibilità della moda e gli aspetti negativi di quest’ultima, la richiesta di materiali simili è crescente, spinta da dati poco rassicuranti: solo il numero di vestiti creati ogni anno si aggira tra gli 80 e i 150 miliardi, di cui una parte che oscilla tra il 10 e il 40% resta invenduta finendo nelle discariche. Tutto il fashion system è complice, ma la sua versione fast ancora di più. L’unica soluzione per smaltire tonnellate di abbigliamento è riciclare, riutilizzare, ripensare ciò che qualcuno ha già creato. Ma subentrano i prezzi dei materiali rigenerati che hanno tempi e costi dovuti a ritiro, selezione e trasformazione. Nel caso del cotone e del filato in poliestere, costerà sicuramente di più la versione riciclata rispetto alla fibra vergine. Quindi, come potrà mai un capo prodotto dalle grandi catene della moda veloce coniugare sostenibilità ed economicità? Un quesito che deve far riflettere ma che non può oscurare i tanti esempi nobili del settore e anche della fotografia, specchio di cause come quella di dare nuova vita ai vestiti. Perché le vi(t)e della moda sono infinite.
NUOVE
VITE DI RECUPERO: FRANCESCO CASAROTTO E L’ARTE DI AGGLOMERARE EMOZIONI
ALESSIA CALIENDO
Durante il lockdown, Francesco Casarotto ha scelto di esplorare ancora più a fondo la propria psiche, dando vita a Agglomerati. Questo progetto unico si colloca al crocevia tra moda, performance e introspezione, dove le “subpersonalità” prendono vita attraverso maschere e abiti realizzati con materiali di recupero. Casarotto ha saputo trasformare emozioni complesse come paura, dubbio e desiderio in creazioni artistiche, dando luogo a un dialogo visivo tra il mondo interiore e la realtà esterna. In questa intervista, approfondiamo il processo creativo e l’evoluzione dello stesso, scoprendo l’impatto che ha avuto sul pubblico.
Le “subpersonalità” sono un concetto complesso. Come descriveresti il processo di trasformazione di queste entità psicologiche in maschere fisiche, e come hai lavorato per rendere ciascuna unica e riconoscibile.
Il percorso terapeutico è stato indispensabile. È come trovarsi in una stanza piena di voci e cercare di isolarne una alla volta. Non è semplice, ma una volta che riesci a farlo, non sei più solo un ascoltatore: puoi interagire, capire l’origine di quella voce, a cosa è legata nel passato, dialogare con essa e infine darle un volto. Questo processo di identificazione permette di portare queste entità dal mondo interiore alla realtà.
In che modo il lavoro manuale e l’artigianalità hanno contribuito alla tua crescita come artista e come influisce sul risultato finale delle tue opere?
La manualità è fondamentale. Concentrare il pensiero sulle mani riporta l’attenzione al corpo e al presente, un principio alla base della meditazione. Inoltre, costruire con le proprie mani è come un “parto”: si porta qualcosa dall’interno all’esterno di sé. Ogni pezzo prende forma lentamente, ed è proprio questo processo che dà vita alle maschere.
La scelta dei materiali è un aspetto fondamentale del tuo lavoro. Puoi spiegarci come avviene la selezione e cosa ti guida nella selezione di elementi così diversi, dai cristalli ai collant?
Si tratta di un processo che mi diverte sempre molto. Mi piace trovare ele-
menti comuni e dare loro un nuovo significato, un po’ come nella Pop Art. Una volta deciso il materiale, inizio a pensare al modo migliore per “agglomerarlo”. Cerco di evitare soluzioni semplici come colle o adesivi: tutto deve essere cucito o saldato con cura per mantenere un approccio haute couture.
Le maschere di Agglomerati hanno un’estetica potente, ma anche una dimensione performativa. Come riesci a bilanciare questi due aspetti e a mantenere l’integrità artistica del progetto?
L’estetica di Agglomerati riflette la mia mente, i miei sogni e le mie fantasie. La maschera, a differenza di un abito o un accessorio, dona una personalità ben definita a chi la indossa. Ogni maschera è portatrice dello spirito del personaggio che rappresenta e ha bisogno di un corpo umano per manifestarsi. Questo rende l’aspetto performativo una parte intrinseca del progetto: le maschere prendono vita, possono danzare, recitare, e diventano vere e proprie entità.
Durante il processo creativo, hai mai avuto l’impressione che le tue maschere avessero una vita propria, sfuggendo al tuo controllo?
Capita spesso. Durante il processo creativo, mi immergo così profondamente nel lavoro che inizio a percepire il mondo attraverso gli occhi delle maschere. È come se sviluppassero una loro identità, con pensieri e desideri propri. A volte sembra che abbiano fretta di essere completate, come se avessero bisogno di me per nascere.
Come ti relazioni con questa sensazione di autonomia delle tue creazioni? E come si relaziona il pubblico?
Come farebbe un genitore che vede crescere i propri figli e li lascia andare. C’è un senso di distacco, ma anche di orgoglio nel vederli vivere di vita propria. Il pubblico, a sua volta, sembra instaurare un legame personale con le maschere: ognuno ha le proprie preferenze, basate sull’estetica o su ciò che sentono in comune con i personaggi. È interessante osservare come le persone si relazionino alle maschere, attribuendo loro significati che spesso vanno oltre le mie intenzioni originali.
Guardando al futuro di Agglomerati, quali sono i prossimi passi che vorresti intraprendere? C’è un’evoluzione o una nuova direzione che desideri esplorare per il progetto?
Il prossimo obiettivo è presentare nuovi personaggi a febbraio 2025, con il supporto di Camera Moda durante la Fashion Week donna. Vorrei anche sperimentare nuove forme di comunicazione, andando oltre la fotografia per esplorare performance e teatro. Agglomerati non è solo moda o arte, ma anche costume e artigianato, e vorrei continuare a spingere i suoi confini.
GOLDEN GOOSE E LA VISIONE DI UN LUSSO
SOSTENIBILE: PARLA SILVIO CAMPARA
La legislazione europea è l’opportunità non solo per la transizione sostenibile ma per un cambio di mentalità, un cambio culturale in grado di ridefinire il nostro modello di sviluppo iper-consumista
ALESSIA CALIENDO
Silvio Campara, CEO di Golden Goose, ci offre una prospettiva approfondita sui progetti chiave del brand, focalizzati sulla sostenibilità e sull’artigianato contemporaneo. Attraverso la sua visione, Golden Goose sta ridefinendo il concetto di lusso, promuovendo nuovi percorsi verso inclusività, artigianato e innovazione sostenibile.
HAUS rappresenta una sintesi di artigianato, arte e cultura. Come viene tradotta questa visione attraverso gli spazi e le attività del progetto, situato nel cuore di Marghera e presentato durante la Biennale?
HAUS è una celebrazione dell’artigianato, della cultura e dell’arte. Non è solo uno spazio fisico, ma un sogno che prende vita: il luogo in cui il brand è nato e che ora diventa una casa permanente per la nostra community di Dreamers. Marghera è il punto di partenza, ma l’obiettivo è portare HAUS anche in altre metropoli del mondo, ospitando eventi immersivi, pop-up dedicati e attivazioni esperienziali. HAUS include un’Academy dove esperti artigiani formano i futuri Dream Makers, fornendo loro strumenti e competenze per preservare e promuovere l’arte dell’arti-
gianato. Inoltre, lo spazio comprende la Manovia, un luogo dedicato all’innovazione e alla riparazione per dare nuova vita ai prodotti Golden Goose, oltre a un Archive, una Library e un Playground (Auditorium) che offrono approfondimenti sulla cultura e sull’eredità del brand, invitando i visitatori a esplorare la propria creatività. L’Hangar, infine, è destinato a ospitare le opere di artisti, offrendo uno spazio espositivo dedicato.
In che modo il progetto HAUS contribuisce a promuovere un modello di lusso più sostenibile e inclusivo? HAUS è pensato per creare valori mantenendo al centro le persone e le comunità. L’Academy e la Manovia sono spazi dove l’artigianato è valorizzato e il ciclo di vita dei prodotti viene esteso, contribuendo alla riduzione degli sprechi. Attraverso la formazione dei futuri Dream Makers, HAUS rappresenta un modello di sostenibilità che punta alla responsabilità sociale e ambientale.
Golden Goose ha recentemente vinto il premio SFA Groundbreaker ai CNMI Sustainable Fashion Awards 2024. Cosa vi ha condotto a questo riconoscimento?
Il premio SFA Groundbreaker è stato assegnato a Golden Goose grazie alle soluzioni innovative sviluppate per ridurre l’impatto ambientale del brand.
Tra queste, la creazione di Yatay B, un materiale bio-based sviluppato in collaborazione con il Gruppo Coronet, che riduce del 90% le emissioni di CO2 e del 65% l’uso di acqua rispetto alla pelle tradizionale.
Quali benefici ambientali ne derivano e come viene integrato nei vostri prodotti?
Yatay B è stato inizialmente testato su pochi prodotti, ma il suo utilizzo si è ampliato a 870 articoli, dimostrando l’impegno di Golden Goose nell’integrare pratiche sostenibili. Queste innovazioni rappresentano un passo importante verso un lusso più responsabile e influenzeranno il futuro del brand, contribuendo a stabilire nuovi standard per l’industria del lusso. L’obiettivo è di rendere questi materiali accessibili anche ad altri brand di lusso, accelerando la trasformazione circolare dell’industria della moda.
In che modo si concretizza la vostra visione di “lusso circolare” nei vari progetti del brand?
La nostra visione di “lusso circolare” si basa sulla responsabilità verso le persone e l’ambiente, e sulla durata dei prodotti, estendendone il ciclo di vita. La Forward Agenda, introdotta nel 2022, definisce 10 obiettivi da raggiungere entro il 2025, tra cui la riduzione dell’impatto ambientale, l’uso di materiali responsabili e il miglioramento degli standard sociali e ambientali lungo tutta la filiera. Il Forward Store è un esempio concreto di questa visione: offre servizi di Repair, Remake, Resell, Recycle per estendere la vita dei prodotti. Attraverso iniziative come queste, puntiamo a creare un futuro migliore e a rendere il cambiamento tangibile per le prossime generazioni.
LE NUOVE NORME EUROPEE E LA NUOVA VITA DEL SETTORE MODA
MARGHERITA CUCCIA
Il Green Deal europeo è stato presentato dalla Commissione Europea con grave ritardo, era il dicembre 2019. La più grande tragedia sul lavoro della storia moderna è il crollo del Rana Plaza a Savar in Bangladesh, che ospitava diverse fabbriche di abbigliamento di brand del nostro continente, era l’aprile del 2013. Morirono 1.100 lavoratori (e ci furono migliaia di feriti). Non solo abbiamo dovuto assistere ad una tragedia tale ma sono dovuti passare sei anni, affinché i governi e le istituzioni prendessero atto e coscienza e iniziassero a legiferare in questa direzione.
In questi quattro anni, dall’introduzione del Piano Strategico per l’Economia Circolare del 2020, sono stati avviati vari cantieri normativi, ognuno con il suo target, i suoi incentivi o disincentivi, che in modo diverso ambiscono a progredire verso la transizione sostenibile e l’economia circolare. Una serie di politiche e misure per affrontare le sfide legate al cambiamento climatico, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento e alla tutela dei lavoratori. Più concretamente l’insieme di iniziative della Commissione Europea sono finalizzate a rendere l’Europa il primo continente neutro dal punto di vista climatico entro il 2050.
LA RESPONSABILITÀ DEL TESSILE
SULL’INQUINAMENTO GLOBALE
Il settore tessile è considerato il secondo più inquinante al mondo, oggi è quindi protagonista di queste tematiche, con un posto a sedere in primissima fila. Nonostante la moda, il tessile, gli accessori e le scarpe rappresentino un canale di espressione fondamentale nella vita dell’essere umano e quello di coprirsi senz’altro un bisogno primario, le condizioni di degrado ambientale, sociale, culturale, di cui oggi siamo molto più consapevoli di ieri, non ci consentono di giustificare, come abbiamo fatto finora, questo modello. Al contrario ci obbligano ad attivarci in difesa di lavoratori, dei consumatori e della biodiversità.
zato da obsolescenza programmata, verso un’economia più resiliente e sostenibile dove forse la crescita economica avrà la stessa importanza della crescita sociale e la tutela ambientale. E promettendo alle aziende che si muoveranno per tempo, in primis, di non essere escluse dal mercato e poter dialogare con le realtà con gli standard più elevati e, in secundis, di posizionarsi dal punto di vista sostenibile e quindi garantirsi un rientro, anche economico, nel lungo periodo. La legislazione europea rappresenta anche, l’accesso a un nuovo rapporto tra consumatori, produttori e ambiente. Le direttive europee relative al settore del tessile e alla moda sono: la proposta di Direttiva quadro rifiuti sulla Responsabilità Estesa del Produttore (EPR), il Regolamento Ecodesign, la proposta di Direttiva sulle Dichiarazioni Ambientali (Green Claims Directive), La Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD), la Direttiva Right to repair e la Direttiva Empowering consumers.
INTERVISTA A GUIDO BELLITTI
Guido Bellitti è un avvocato specializzato nel diritto dell’Unione europea, con particolare riguardo al diritto della concorrenza, al diritto dei consumatori, ed alla regolamentazione settoriale UE in materia di sostenibilità e ESG. Presta consulenza a diverse aziende del settore moda italiano e internazionale, per la transizione sostenibile su questioni di diritto europeo e nazionale.
All’interno dei diversi cantieri normativi, quali criticità riscontri? Come stanno reagendo le aziende di moda a queste iniziative regolatorie?
a sinistra: Silvio Campara
Golden Goose e la visione di un lusso sostenibile
La legislazione europea è l’opportunità non solo per la transizione sostenibile ma per un cambio di mentalità, auspicabilmente, un cambio culturale in grado di ridefinire il nostro modello di sviluppo iper-consumista caratteriz-
In termini generali, la maggiore complessità è data dalla proliferazione di diverse fonti e dalla intensità delle iniziative legislative che si è registrata nel corso degli ultimi anni. Ciò è in gran parte riconducibile alla rilevante pianificazione di intervento normativo avviata con il Green Deal europeo. Una prima complicazione dovuta a questa significativa vague regolatoria risiede nel coordinamento fra fonti di gerarchia diversa, che spesso presentano complessi aspetti definitori e tempistiche di adeguamento particolarmente stringenti per le aziende. Il livello di attenzione di queste ultime è senz’altro cresciuto e stiamo registrando una sempre maggiore sensibilità agli aspetti di compliance, sia sul fronte della comunicazione (in ragione della normativa in materia di green claims), sia con riguardo alle attività della filiera (alla luce della CSDDD). In alcuni casi, penso ad esempio all’EPR, alcune aziende si sono attivate per prevedere sistemi comuni di gestione dei rifiuti. Con specifico riferimento al regolamento Ecodesign, il passaporto digitale del prodotto (DPP) può rappresentare indubbiamente per le aziende un’opportunità di valorizzazione qualitativa, mentre il divieto sulla distruzione (e i tempi di implementazione particolarmente contenuti) è percepito con maggiore preoccupazione. Peraltro, l’obbligo di disclosure di informazioni sull’invenduto previsto dal regolamento, se non correttamente gestito, può dar luogo a sensibilità dal punto di vista antitrust.
Dal momento che diventano esecutive all’interno di ogni Stato membro, quanto tempo può intercorrere per rendere questi processi assimilabili?
Le tempistiche di entrata in vigore degli obblighi di fonte UE sono spesso differenziate già in seno alla regolamentazione europea, in particolare in funzione della dimensione delle aziende interessate. Nel caso delle direttive poi – che richiedono un processo di recepimento a livello nazionale da parte degli Stati membri – le tempistiche possono presentare ulteriori variabili. A ciò si aggiunge un ulteriore fattore, dovuto ai tempi di adozione degli atti delegati a livello UE, che mirano a precisare in dettaglio la portata degli obblighi previsti dalle norme principali. Esemplificativo è il caso del regolamento Ecodesign, che prevede una serie di atti delegati la cui adozione dovrebbe intervenire nell’arco dei prossimi due anni. È indubbio tuttavia che, in disparte la differenziazione dei tempi di recepimento nazionale o di consolidamento della norma primaria
UE, permane una esigenza di preparazione tempestiva delle imprese per non farsi trovare impreparate rispetto ai numerosi obblighi discendenti dalla normativa.
Quali strumenti hanno le aziende per allinearsi alle nuove direttive? a livello Europeo o nazionale è previsto un contributo?
Anzitutto, è importante sviluppare all’interno delle aziende specifiche task force per affrontare in maniera sistematica i diversi fronti che possono aprirsi per la necessaria compliance. Il ruolo delle associazioni di settore e dei numerosi workshop sulla sostenibilità è senz’altro prezioso per divulgare i diversi profili di rischio e per incrementare la sensibilità aziendale su queste tematiche. Il dialogo con la Commissione europea e con i diversi fora a Bruxelles è inoltre estremamente rilevante sia in ottica di monitoraggio dell’evoluzione normativa, sia per la possibilità di intervenire nella fase di elaborazione della legislazione delegata. È infatti possibile far valere talune specificità settoriali che in alcuni casi non sono state considerate appieno dal legislatore europeo al momento di stabilire gli obblighi normativi. Possibili margini di manovra sussistono in certa misura anche a livello nazionale, specie con riferimento alla legislazione di recepimento ed agli atti regolamentati di rango secondario.
Focalizzandosi sull’Italia, quali strategie devono essere messe in atto per garantire il primato del Made in Italy e posizionarsi in termini sostenibili? È evidente che il rispetto delle norme UE in materia di sostenibilità, e la correlata capacità di adattamento tempestivo da parte del business, può rappresentare in prospettiva un elemento di vantaggio concorrenziale, e ciò specie tenuto conto che, auspicabilmente, si registrerà in un futuro prossimo un importante switch culturale nelle scelte di consumo. Un ritardo, o un non corretto allineamento, delle imprese agli obblighi in materia di sostenibilità, rischia indubbiamente di pregiudicare i profili reputazionali e la capacità competitiva di quello che è stato sempre un “fiore all’occhiello” dell’industria Made in Italy.
INTERVISTA
A MATTEO WARD
Matteo Ward, attivista, è CEO e co-founder di WRÅD, design studio per lo sviluppo sostenibile e società benefit già vincitrice del Best of the Best Red Dot Product Design Award. È co-fondatore di
Fashion Revolution Italia, docente universitario e public speaker, nonché co-autore e presentatore di JUNK, la docu serie co-prodotta da Will Media e Sky Italia. Ha ricevuto dalla FAO la nomina di Food Hero e ha appena pubblicato il suo primo libro FUORIMODA! edito da DeAgostini Mondadori.
In cosa ha consistito il tuo ruolo di Consulente Esperto della New European Bauhaus?
Durante questi ultimi due anni ho seguito la curatela di tutti i contenuti legati alla moda e al tessile con ingredienti di sostenibilità, circolarità, utilizzo di materie prime innovative, biodegradabili o compostabili. I progetti, già allineati con le direzioni date dalla Ecodesign Directive, sono stati presentati ed esposti al più grande aggregatore al mondo, per la transizione sostenibile, di player dal mondo dell’arte, dell’industria e dell’alta tecnologia. La scelta di Ursula Von der Leyen, di utilizzare il termine Bauhaus, un’eredità così importante, che nei primi anni del XX secolo ha significato un modo nuovo di concepire arte e industria, tra innovazione ed evoluzione, è stato proprio quello che mi ha attratto fin dall’inizio. Con il cambio di commissione, i nostri ruoli sono al momento in stand by.
In termini di transizione sostenibile dove noti maggiore cambiamento, in quali settori della moda?
Negli ultimi anni i cambiamenti maggiori per la transizione sono stati fatti nella ricerca di materiali innovativi, tecnologie e processi innovativi per mitigare l’impatto ambientale della produzione. Quest’ultima è una variabile dell’equazione importante, ma non determinante.
Matteo Ward. Photo Adriano Russo
L’effetto che ha avuto nel mondo, a livello assoluto, è stato praticamente nullo. Non stupisce se si riflette sul fatto che che il modello di business si basa ancora su sovraconsumo, sovrapproduzione e oppressione delle persone. Così si cerca di curare i sintomi ma non si cura l’origine del male. Passi in avanti sono stati fatti piuttosto a livello culturale. Oggi uno dei motivi per il quale c’è una direttiva come la Corporate Sustainability Due Diligence in Commissione Europea è grazie a Orsola De Castro e Carry Somers, fondatrici di Fashion Revolution, che armate dell’hashtag Who Made My Clothes? e del dolore della tragedia del crollo di Rana Plaza, hanno cambiato il mondo, portando le parole trasparenza e tracciabilità nella strategia aziendale e di conseguenza sulle scrivanie dei politici.
Quali strumenti culturali sono stati più efficaci nelle tue esperienze lavorative dal 2017 a oggi per raggiungere la sensibilità del consumatore?
Oltre alla formazione che da sola non genera il cambiamento o almeno non alla velocità necessaria per raggiungere gli obiettivi del 2030 che, a questo punto, sono anche utopistici, noi agiamo su tre livelli. È necessaria un’attività di lobby, di influenza politica su chi ha il potere di determinare l’ecosistema legislativo entro il quale le aziende di moda operano, la coercizione informativa è l’azione più veloce e immediata per generare cambiamento comportamentale. La seconda area di impatto è quella di sensibilizzazione interna alle aziende, coinvolgendo amministratori delegati, manager e tutta la forza lavoro, posizionando la sostenibilità al centro della strategia di sviluppo aziendale. Tutto ciò chiaramente mette in discussione lo status quo e ben venga, visto che non ha dato buoni risultati. In questo modo analizzando la catena di produzione si va in fondo al problema cercandone le radici e trovando le soluzioni. La terza area di intervento è la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Abbiamo bisogno di persone che alzino la voce, che protestino e dichiarino “Fuorimoda” (per citare il mio libro) le ingiustizie. E per convertire e attrarre i consumatori c’è bisogno di comunicazione che è diverso da informazione. Ho letto in una rivista di moda parigina di metà Settecento che se uno scienziato parla lo ascoltano 500 persone, ma quando parla un creativo può raggiungere fino a 4 milioni di persone.
Di quali strumenti a livello nazionale avrebbero bisogno le aziende per essere supportate nei processi di assimilazione di queste direttive europee?
La crescita del mercato del “second hand” in numeri
Il mercato globale dellʼabbigliamento di seconda mano raggiungerà entro il 2028
350 miliardi di dollari
con una crescita 3 volte più rapida rispetto al mercato globale dellʼabbigliamento
2023 2025
il mercato globale dellʼabbigliamento di seconda mano è cresciuto del + 18%
si prevede che il 10% del mercato globale dellʼabbigliamento sarà costituito da capi di seconda mano.
2023→2028
si prevede che il mercato globale dellʼabbigliamento di seconda mano cresca a un tasso annuo di crescita composto (CAGR) del 12%.
Fonte: Resale Report 2024 - Thredup
Fondamentalmente di fondi, di piani di investimento, sussidi per rendere la transizione effettiva e fattibile. Fino ad oggi i brand hanno scaricato sulla filiera, la filiera è già schiacciata di suo, non ha marginalità e sta letteralmente e metaforicamente piangendo. È anche una questione di salute pubblica, stanno aumentando le spese pubbliche per dermatiti da contatto, per citarne una, che sono aumentate del 40%, mentre non sappiamo davvero l’impatto delle sostanze considerate cancerogene sul nostro organismo: non sappiamo quanto la nostra pelle ne assorbe, nell’incertezza è un rischio da evitare. Microplastiche, nanoplastiche, pfas, antimonio, cadmio, mercurio, piombo. Potendo scegliere andrebbero evitate le fibre sintetiche e gli abiti tinti, se non si possono evitare, l’importante è cercare di utilizzare questi capi a rotazione in modo che le sostanze nocive non si sedimentino, andrebbero evitati specialmente durante le attività sportive e durante la notte quando avviene la traspirazione ed è più facile per il nostro corpo assorbire elementi esterni.
Pensando al tuo lungo viaggio intrapreso con Junk in Ghana, Cile, Indonesia, Bangladesh, India e Italia, lì dove le discariche e i rifiuti tessili mondiali hanno sede, quale potrebbe essere un modo per creare un nuovo rapporto e risarcire i danni subiti dalle comunità colpite, anche in vista della Corporate Sustainability Due Diligence Directive sui Rimedi e Risarcimenti?
La risposta sta nella redistribuzione della ricchezza. Quello che ho visto in tutti questi Paesi, in modi diversi con esempi diversi, è sempre la solita storia tragica di come la povertà sistemica renda il processo ecologico inevitabile ed entri in un ciclo autocatalitico, degenerativo, dove più diventi povero più inquini, finché non sai più come uscirne. L’unico rimedio, agente correttivo, è l’immediata redistribuzione della ricchezza a livello globale per sanare questa disparità enorme, partendo dal pagare uno stipendio dignitoso alle persone che fanno i nostri vestiti e a catena, ora semplificando, questo dovrebbe determinare una serie di miglioramenti, mettendo in atto processi sani ed ecologici, dal seme che viene coltivato per estrarre la fibra tessile alla trasformazione infine dell’indumento in scarto. Oggi i Paesi menzionati possono ricevere i nostri scarti, al quale danno nuove vite e rappresentano una parte di economia, a patto che gli indumenti siano di qualità migliore in grado di essere rivisti e trasformati, mentre quello che sta arrivando nelle discariche di tutto il mondo sono oggetti di qualità sempre più scadente che è difficilissimo ricapitalizzare: quando un prodotto è progettato a ribasso, è quasi impossibile dargli nuova vita, è molto più facile che finisca in una spiaggia a Dakar.
MARGHERITA CUCCIA
Pietro Ruffo L’ultimo
Pietro Ruffo, L’ultimo
meraviglioso
minuto (dettaglio), 2023, Foto
Scopri il Vittoriano e Palazzo Venezia
Le molte età dell’oro tra antichi e contemporanei
Nastro
Chi è stato a Venezia durante la 60. Biennale Arte ha potuto aggiungere al proprio carnet di visita una preziosa mostra che dalla Galleria nazionale dell’Umbria ha portato nella Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro una serie di opere provenienti dal museo umbro, a confronto con le opere di artisti contemporanei. Preziosa, non solo per la qualità del progetto, ma anche per il filo conduttore che lega maestri della storia dell’arte a figure rappresentative del dibattito presente. L’oro, randello e voluttà del potere, simbolo mistico e di trascendenza, elemento luminoso e accessorio ammaliante, è protagonista della mostra L’età dell’oro, nella sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia, in un percorso, con il patrocinio del Dicastero per la
Cultura e l’Educazione della Città del Vaticano, che attraversa nove secoli, dal Medioevo a oggi. Questo programma trasversale tra antico e contemporaneo, certo sull’idea che esistono linguaggi e temi che hanno trasformato la storia dell’arte, è nelle linee strategiche del direttore Costantino D’Orazio, da inizio anno alle redini del museo. Racconta, infatti: “Negli ultimi anni la Galleria Nazionale dell’Umbria, che gode del bellissimo allestimento realizzato da Marco Pierini, ha valorizzato giustamente la presenza di Perugino in collezione, compiendo un grande lavoro di ricerca sulle sue opere. Ho voluto spostare l’attenzione su quelli che si definiscono “i primitivi”, sulla grande collezione di fondi oro che rende la nostra istituzione un grande museo internazionale alla pari con il Metropolitan di New York e i Musei Vaticani. La mia idea è
che sia giusto tentare di dare nuove letture dei maestri del passato, portando avanti la ricerca accademica, come stiamo facendo, ma anche provocare la mente dei visitatori riattivando il patrimonio con lo sguardo dei contemporanei. Da questa idea nasce ‘L’età dell’oro’, dove il metallo nobile si presta benissimo all’obiettivo, da strumento qual è stato nella storia dell’arte per costruire uno spazio trascendentale e paradisiaco assume nelle mani dei contemporanei connotati diversi di una spiritualità più laica”. Nella mostra, curata da Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi, opere di artisti come il Maestro di San Francesco, Duccio di Boninsegna, Gentile da Fabriano, Taddeo di Bartolo, Niccolò di Liberatore, Bernardino di Mariotto, il Maestro del Trittico del Farneto, Bartolomeo Caporali dialogano con Carla Accardi, Alberto Burri, Mario Ceroli, Gino De Dominicis, Jan Fabre, Fausto Melotti, Gilberto Zorio, Yves Klein, Jannis Kounellis, Marisa Merz, Elisa Montessori, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto, Andy Warhol. Le opere si guardano, si parlano, si confrontano e si scontrano. Da inni sacri alzano gli occhi a rimirare le volte del cielo, magari in un’apoteosi che è più degli elementi della natura; le icone della spiritualità cristiana tornano alla propria natura fisica, il metallo è talvolta spogliato dalla ricchezza e diventa testimone della tragedia, della storia, elemento di tessitura, assunzione intellettuale, riscatto di povertà, tra le trombe d’oro della solarità per dirla con Montale.
Fino al 19 gennaio 2025
L’ETÀ DELL’ORO.
I capolavori dorati della Galleria Nazionale dell’Umbria incontrano l’arte contemporanea
A cura di Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli e Carla Scagliosi Galleria Nazionale dell’Umbria - Perugia gallerianazionaledellumbria.it
Pistoletto, Autoritratto oro, 1960, olio, acrilico e oro su tela, Collezione Fondazione
di Sisto V XIV – XVI sec., Argento; oro; niello; ferro; vetri, spinelli, perle, cammeo in agata sardonica, Museo Sistino Vescovile, Montalto Marche
IL MITO E IL SIMBOLO. INTERVISTA ALLE CURATRICI DELLA MOSTRA
Che cosa ha rappresentato l’oro nell’arte dal Medioevo a oggi? Ne abbiamo parlato con le curatrici della mostra L’età dell’oro Alessandra Mammì, Veruska Picchiarelli, Carla Scagliosi
Che cosa ha rappresentato l’oro nella storia dell’arte del passato?
Un materiale quasi sovrannaturale che non a caso compare già nelle sepolture del tardo neolitico come offerta agli dei per la sua forza, la sua qualità energetica, la sua luce assoluta. Unico metallo che non conosce ossidazione, inalterabile all’acqua e all’aria, malleabile eppure forte diventa la materia simbolo del divino già nelle religioni primitive. Nel Medioevo poi l’oro acquista nelle arti visive il potere di trasformare la figurazione in manifestazione stessa di Dio, del sacro e della luce celeste.
Perché ancora oggi l’oro esercita un fascino così forte nell’immaginario politico, sociale e anche sul glamour?
Con l’introduzione delle monete d’oro a Firenze e Genova nel 1252 il metallo simbolo del sacro diventa profano e misura della ricchezza del mondo. Anche quando il rapporto fra moneta e riserva aurea viene interrotto, l’oro mantiene la sua potenza simbolica sia per le sue intrinseche caratteristiche di forza e luce, che, come abbiamo detto, lo rendono il principe dei metalli, sia per la storia e soprattutto la storia
dell’arte, che ne hanno consolidato la potenza simbolica
Come gli artisti contemporanei si confrontano invece con quello che non è solo un colore? Lo interpretano, lo dissacrano, lo sacralizzano, lo detournano…
Ci sono due modi per un artista di accostarsi all’uso dell’oro: il primo può essere puramente decorativo per arricchire superficialmente una figurazione, l’altro invece si assume la responsabilità di confrontarsi con un materiale che porta con sé storia, mito, simbolo. Nella mostra abbiamo scelto solo artisti che ne hanno fatto un uso consapevole, spesso in diretto dialogo con la potenza delle icone dei grandi maestri del passato.
Dall’anteprima veneziana a Perugia, come cambia il percorso espositivo?
L’anteprima veneziana, che si è tenuta in un’unica sala, ci ha dimostrato che un incontro ravvicinato fra un capolavoro della collezione della Galleria Nazionale dell’Umbria e un’opera di un grande artista dei nostri giorni non solo era possibile ma illuminava il presente con la luce del passato e viceversa. A Perugia invece in uno spazio molto più grande, l’idea è di avere una dimensione corale dove le voci si moltiplicano e la distanza di tempo si annulla. E questa cosa è resa possibile solo da un coefficiente magnetico come l’oro.
Come dialogano a Perugia i maestri dell’antico con i colleghi del presente?
Il nostro scopo era potenziare lo sguardo di un visitatore attraverso un corto circuito che annullasse il tempo. Un’opera di Spalletti rivela la sua vicinanza a un polittico, un sacco di Burri è testimonianza del dolore dell’uomo quando un crocefisso su tavola medievale, la scelta dell’oro e del blu dell’Accardi rimanda ai colori
LA KLIMT REVOLUTION
L’Ipogeo dei Volumni, monumentale tomba che conduce alla camera sepolcrale di Arunte e Lars Volumnio, nel duecentesco Convento di San Domenico
Il museo di Palazzo Baldeschi al corso, dentro un’antica residenza nobiliare risalente al Trecento
Il Centro per l’arte contemporanea Trebisonda, che coinvolge artisti, curatori e operatori culturali nell’indagine sulle forme interdisciplinari del contemporaneo
mariani.... le forme si rincorrono e simboli si ripetono. Questo intreccio crea una coralità e allo stesso tempo ci riporta alla ragion d’essere di ogni opera. In fondo come scrive Pavel Florenskij nelle Porte regali: Qualsiasi arte pittorica ha come scopo quello di trasportare lo spettatore oltre il limite dei colori e della tela che sono percepibili sensibilmente e condurlo in una determinata realtà, e allora l’opera condivide con tutti i simboli in generale la loro caratteristica ontologica fondante: essere ciò di cui sono simbolo
La mostra L’età dell’oro offre non solo nuove visioni, ma anche la possibilità di avanzare nella ricerca sulle opere d’arte. Grazie a un accordo tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e la Galleria Nazionale dell’Umbria, infatti, sono state condotte delle analisi sull’opera Le tre età di Gustav Klimt, di proprietà del Museo romano e in prestito a Perugia fino a gennaio. Le operazioni hanno visto la collaborazione di un team di ricercatori degli Istituti di Scienze e Tecnologie Chimiche “G.Natta” (CNR-SCITEC) e di Scienze del Patrimonio Culturale (CNR-ISPC) del CNR e del Centro di Eccellenza SMAArt (Scientific Methodologies applied to Archaeology and Art) dell’Università degli Studi di Perugia, per un approfondimento scientifico su alcuni aspetti conoscitivi dei materiali e della tecnica impiegati per la realizzazione di questo capolavoro. Le operazioni sono state coordinate dall’Ufficio Diagnostica e Restauro della Galleria Nazionale dell’Umbria. I risultati hanno evidenziato la presenza di argento, oro e platino in lamine e polveri metalliche nell’opera del maestro della secessione viennese, sia negli sfondi che nei corpi delle donne raffigurate, per dare iridescenza. Una novità che aggiunge maggiore comprensione sulle tecniche e la pratica dell’artista e che rende il capolavoro della collezione romana un vero e proprio quadro gioiello.
Galleria Nazionale dell’Umbria
La parabola dell’Arte Povera si celebra a Parigi. Intervista alla curatrice
Nicola Davide Angerame
Quando nel novembre del 1967, Germano Celant pubblica su Flash Art il suo Appunti per una guerriglia l’Arte Povera prende forma come un movimento organico teso a rivoluzionare il panorama artistico italiano. Adesso, quasi sessant’anni dopo, la Bourse de Commerce – Pinault Collection di Parigi ospita la più ampia esposizione dedicate al movimento che riunisce oltre 250 opere dei tredici esponenti del movimento: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio.
UN NUOVO RAPPORTO CON LA NATURA, LE SUE FORZE E I SUOI PROCESSI
Celant definisce l’Arte Povera come un movimento che si oppone alle convenzioni del mercato e della tradizione artistica, rifiutando la monumentalità ed i materiali preziosi per esprimere una nuova libertà creativa che sia naturaliter una critica alla società consumistica e alla mercificazione dell’arte. Il modo per far ciò è impostare un nuovo rapporto con la natura, le sue forze e i suoi processi: la trasformazione, la crescita e il mutamento, avvicinano l’artista alla vita procurando un superamento delle distinzioni tra arte e realtà quotidiana, integrando materiali e oggetti comuni, senza artificiosità.
Il tutto è inteso come un ritorno all’essenziale, alla semplicità, alla materia e all’esperienza. È il frutto di uno sguardo poetico senza pari: non si tratta di far evolvere il linguaggio dell’arte in un superamento formale (come fanno la Op, la Pop o l’Arte minimalista), ma di negare che l’arte sia soltanto linguaggio piuttosto che esperienza viva, pura e trasformatrice sia dell’opera che dell’artista, che del fruitore.
LA RIVINCITA DELL’ARTE POVERA
Oggi, dopo oltre mezzo secolo di vita, gli artisti poveri sono una ricchezza per il sistema dell’arte, e la mostra a casa del patron di Christie’s sembra un altro degli innumerevoli paradossi della Storia (non soltanto dell’arte) in cui si può rispecchiare una sconfitta (quella del fine rivoluzionario) ma anche una possibile rivincita nella misura in cui i messaggi di questi pionieri potranno offrire ancora modalità per affrontare la crisi devitalizzante di un futuro incerto
LA CURATRICE CAROLYN CHRISTOV-BAKARGIEV RACCONTA LA MOSTRA
Con una carriera da Premio Nobel dell’arte, dopo aver diretto la Biennale di Sydney, documenta (13) a Kassel e la 14a biennale di Istanbul e dopo aver guidato il Castello di Rivoli fino alla fine del 2023, Carolyn Christov-Bakargiev è
oggi la maggior conoscitrice dell’Arte Povera, di cui ha scritto a fine Anni Novanta una monografia decisiva per Phaidon Press.
Questa è la mostra più importante mai fatta sull’Arte Povera?
Credo di sì, almeno per numero delle opere e superficie del museo. E’ più grande delle mostre organizzate da Tate, Ps1, Walker Art Center o dall’Hermitage.
Tutto è partito nel settembre ‘67, nella piccola galleria La bertesca di Genova.
Una mostra piccola ma importantissima, curata da Germano Celant; esponeva sei opere nella sezione Arte Povera (l’altra era Im spazio), di cui cinque sono qui, come il Pavimento (tautologia) di Fabro e la prima carboniera di Kounellis o le otto lettere della parola “lo spazio” di Paolini.
Come nasce la mostra, da quale idea o conversazione?
Nasce da Monsieur Pinault, che ha una collezione d’arte strepitosa. Tra le 150 opere di Arte Povera di sua proprietà ne ho selezionate cinquanta. Ha capolavori di dieci dei tredici artisti, non ha Prini, Marisa Merz e Pascali. La direttrice Emma Lavigne mi ha proposto la curatela poco prima che andassi in pensione a metà del 2022.
Cosa è oggi l’Arte Povera?
L’Arte Povera è una corrente artistica italiana, io non uso il termine movimento, ha inventato il concetto di installazione sebbene senza definirlo. Prini, che ho visitato spesso a Roma, diceva “noi abbiamo quattro arti: la pittura, la scultura, l’architettura e l’Arte Povera. Ma già Bernini per me è Arte Povera, in quell’idea di metamorfosi tra artificiale e naturale. Se avessi potuto, poi, avrei staccato dal muro un affresco di Masaccio.
Fino al 20 gennaio 2025 ARTE POVERA
a cura di Carolyn Christov-Bakargiev Bourse de Commerce, Pinault Collection Parigi pinaultcollection.com/boursedecommerce
Luciano Fabro, L’Italia, 1971. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (Rivoli-Torino)
in alto: Ritratto di Carolyn Christov-Bakargiev, Courtesy of Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, photo: Sebastiano Pellion.
Tu getti una luce anche sugli eredi. David Hammons faceva i body print e scoprendo l’Arte Povera ha voluto liberare i materiali, andando a Roma per conoscere Kounellis. William Kentridge fa un cinema povero negli anni del digitale e della Pixar. Olafur Eliasson conosceva l’esistenza di Calzolari, il suo ghiaccio non arriva dal nulla, così come il cane di Pierre Huyghe è un erede del cane albino dagli occhi rossi di Calzolari.
Nella definizione della squadra dell’Arte Povera, però, tre nomi sono in ballo: Gianni Piacentino, Emilio Prini e Marisa Merz. Piacentino era amico loro ma dovrebbe essere in una mostra sul minimalismo, ha esposto qualche volta ma anche Richard Long era nella mostra di Amalfi. Non erano alla Bertesca né nel ‘71 a Monaco, mentre Emilio Prini è con il suo perimetro d’aria nella mostra del ‘67. Il suo carattere difficile, però, non ha aiutato la collaborazione con Celant.
E Marisa Merz?
Germano non la include, ma nella primavera del ‘67 Tommaso Trini scrive un lungo articolo sulla sua mostra da Sperone. All’epoca le donne non erano molto accettate nel mondo dell’arte, ma io l’ho inserita nel mio libro della Phaidon a fine anno ‘90 e nell’articolo del 1987 sul ventennale dell’Arte Povera. Non averla considerata è stato un errore, lei ha avuto influenze su Zorio e su Mario. Ad esempio non includo Carol Rama perché non è Arte Povera ma assemblaggio neodada e surrealista con i suoi occhi nei quadri. Se si rimane nella superficie del quadro non si è Arte Povera, la quale esige proprio
lo slittamento fuori dalla pittura e dalla scultura per accedere ad un campo energetico.
Poi c’è Carla Accardi.
Al principio ha influenzato l’Arte Povera, la metto insieme ai precedenti dell’Arte Povera come Manzoni, Fontana e Burri. I suoi segni organici, che si sviluppano come una crescita, sono antesignani dei lavori di Mario Merz. Fabro era sua assistente, è lui che monta la prima Tenda (1966) di Carla alla Biennale di Venezia. Solo in seguito sarà lei ad essere influenzata dall’Arte Povera.
La tua mostra vanta tutte le opere aurorali dell’Arte Povera.
Per me era importante essere accessibili al grande pubblico, i capolavori ci sono tutti ma volevo contribuire alla ricerca storico artistica fare una mostra anche per i conoscitori e per mostrare cose poco o mai viste. Volevo fare il punto sulla nascita dei lavori. Lo spirato (1968) di Fabro è fondamentale, è quasi la prima volta che esce dall’Italia. Ci sono i tre grandi alberi di Alpi marittime (1968) che Penone ha preso prima che costruissero un’autostrada. Ho trovato la prima Direzione (1967) di Anselmo nella collezione Pinault: non lo sapevano perché non era stata indagata la storia relativa all’oggetto. Anselmo, lavorando con me sulla mostra mi ha detto “ma questa ma è la mia prima Direzione in assoluto”, dove l’ago magnetico è custodito dentro un parallelepipedo di formica. L’opera dimostra la sua lontananza dal minimalismo di Donald Judd. E poi abbiamo il primo piccolo albero di Penone riportato al suo 12esimo anno di età. Sono opere dai concetti aurorali, e questa ultima opera dimostra che si può fare arte figurativa senza fare rappresentazione, non si raffigura ma si rivela la figura, è geniale. Poi c’è il primo lavoro ghiacciante di Calzolari, una semplice asta di rame che condensa l’umidità nell’aria, il materiale più “povero” al mondo; è poggiata su un prato artificiale, un resto del prato artificiale usato l’anno prima in Il filtro è benvenuto all’angelo. Il naturale e l’artificiale sono in continuità, per loro, da qui capisci che non erano ecologisti ingenui, che pensavano ogni materiale come naturale. Ho trovato anche un piccolo disegno di Kounellis, tra le carte della prima moglie, del 1968 circa: è uno schizzo dell’opera Senza titolo (Cavalli) esposta alla galleria L’Attico del gennaio 1969.
Il catalogo sarà occasione di approfondimento? Sì, ci ho lavorato su con il team fantastico di Pinault, dell’editore Dilecta e con miei assistenti: Silvia Cammarata per il catalogo e Fabio Cafagna per la mostra.
Quale sarà secondo te il futuro dell’Arte Povera diciamo tra cent’anni?
Non so neppure se esisterà ancora un mondo tra cento anni, ma l’Arte Povera sarà ancora lì tra trecento milioni di anni.
Il Surrealismo e l’Italia. La mostra alla Fondazione Magnani-Rocca di Parma
Giulia Giaume
Èesistito, o si può propriamente parlare, di un Surrealismo italiano? Curzio Malaparte già se lo chiedeva nel 1937. Nonostante la questione rimbalzi tra scritti e saggi da quasi un secolo, non esiste una risposta banale. A malapena si può dire che esista una risposta: è tuttavia possibile tentare di dipanare quella matassa di nomi, esposizioni e contaminazioni coagulatasi in un (vivacissimo) pugno di anni tra le due guerre, per poterne restituire la complessità e l’impatto sul panorama artistico del tempo. Quale strada migliore, allora, del confronto diretto tra le opere europee e italiane, con il supporto delle folte collezioni in terra italica, per osservare i punti di contatto e le innovazioni? Così nasce la mostra Il Surrealismo e l’Italia in apertura alla Fondazione Magnani-Rocca di Mamiamo di Traversetolo, fuori Parma, proprio nell’anno del Centenario del Manifesto Surrealista.
I GRANDI COLLEZIONISTI ITALIANI
Mediato (o forse inibito?) dall’opera dei fratelli Giorgio de Chirico e Alberto Savinio, di ritorno da Parigi, il Surrealismo è stato rappresentato nei lavori dei maestri italiani con una grande varietà estetica, mediale e formale. I contributi alla creazione di un universo trasformativo della percezione della realtà sono stati molteplici e sfaccettati. Non senza una “mano dall’alto”, certo. Fondamentali, in questo senso, sono stati un pugno di nomi di altissimo livello, tra collezionisti e galleristi, attivi in Italia al tempo: abbiamo, senza dubbio, Peggy Guggenheim, e poi Arturo Schwarz, che con le sue gallerie milanesi, tra Via Sant’Andrea e Via Gesù, fu la principale figura di riferimento per la diffusione del Surrealismo in Italia nella seconda metà del Novecento; ma anche Carlo Cardazzo, che con il Naviglio prima e il Cavallino poi si contende con Schwarz il ruolo di nume tutelare del movimento in terra italiana. E ancora Gasparo Del Corso, Irene Brin, Bruno Sargentini, Alessandro Passaré e molti altri. Una storia densa e affollata, che è anche la storia dell’arte italiana del Novecento.
DAL SURREALISMO STORICO
ALLA RICEZIONE ITALIANA
Tre le aree di studio principali, che trovano un riscontro diretto nell’allestimento nella Villa dei Capolavori (che custodisce anche opere di
Dal 14 settembre al 15 dicembre 2024
IL SURREALISMO E L’ITALIA
A cura di Alice Ensabella, Alessandro Nigro, Stefano Roffi Fondazione Magnani-Rocca Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it
Cézanne, Tiziano, Dürer, Goya, Canova, Burri). Il percorso si apre con il Surrealismo storico nella Francia tra le due guerre, di cui si osservano le ramificazioni internazionali fino al 1945 e oltre: dal portabottiglie di Marcel Duchamp e il guanto di André Breton si arriva alle visioni di André Masson e all’eclettica esplosione di Max Ernst, Salvador DalÍ e Joan Miró. Si passa quindi alle collezioni italiane in cui il Surrealismo ha avuto un’importanza significativa: da centri come Roma, Venezia e Savona si arriva anche a località più piccole come Vergiate, in provincia di Varese, e Gallarate, fuori Milano, con capolavori rispettivamente di Toyen, Victor Brauner e René Magritte, Enrico Baj e Wifredo Lam. Si analizza, infine, la ricezione italiana del movimento, divisa tra il filone degli artisti “visionari”, fantastici e neo-romantici – Savinio e Alberto Martini su tutti - e le contaminazioni surrealiste tra Informale e neoavanguardie, con le opere di Julius Evola e Ugo Sterpini.
sopra: Alberto Savinio, Tombeau d’un roi maure, 1929, olio su tela
SIAE 2024
DUE PAROLE CON I CURATORI
ALICE ENSABELLA, ALESSANDRO NIGRO E STEFANO ROFFI
La mostra affonda le radici in una querelle ostica, ossia se sia mai esistito un Surrealismo italiano: la domanda resta aperta?
La domanda resta senz’altro aperta e forse tale rimarrà. Certamente l’Italia rimase fuori dal circuito di internazionalizzazione del Surrealismo tra le due guerre; però gli studi hanno permesso di accertare una certa conoscenza delle istanze del Surrealismo nell’Italia di quegli anni (con il pionieristico ruolo della critica di Carlo Bo dal 1935), anche se il Fascismo ne ostacolò e condizionò la ricezione.
Quali scambi c’erano tra Francia e Italia in questo senso?
Anche se André Breton non venne mai in Italia, nel Manifesto del 1924 la cultura italiana del passato e del presente è citata almeno tre volte: un riferimento al possibile surrealismo di Dante Alighieri, la menzione d’onore per Paolo Uccello e infine l’omaggio alla pittura metafisica di Giorgio de Chirico, che rimase, nonostante i successivi acerrimi diverbi, un punto di riferimento fondamentale per il movimento. Sfuggente e ambigua fu invece la posizione del fratello, Alberto Savinio, che fu a Parigi fra la fine degli Anni Venti e i primi Anni Trenta, frequentò i surrealisti e ne fu influenzato, anche se ne parlava in termini negativi… Fu proprio Savinio, insieme ad Alberto Martini, a costituire il punto di riferimento per un “Surrealismo italiano” inteso come tendenza a una pittura fantastica e visionaria.
C’è, nel rapporto con il passato, una spinta surrealista?
Fu lo stesso Breton, nel Manifesto, a sottolineare che si poteva ricercare una sensibilità surrealista anche nel passato, distinguendo tra un Surrealismo sovrastorico e
un Surrealismo storico e militante. A volte si tende oggi a dimenticare la dimensione politicamente e socialmente impegnata dei surrealisti, che ambivano a una liberazione non solo dell’individuo ma della società tutta.
I maestri, i grandi galleristi e le collettive, i legami con l’informale e le neoavanguardie: quale di questi, e altri, elementi è stato secondo voi il più influente nella creazione di un contesto italiano? Per la creazione di un “contesto italiano” del Surrealismo, le influenze degli antichi maestri sono certamente state importanti per artisti come Fini, Clerici o i neoromantici Berman e Tchelitchew; galleristi come Cardazzo e Schwarz hanno invece attivamente contribuito a creare un legame ideale tra Surrealismo storico e neoavanguardie italiane (Spazialismo, Nuclearismo); più eclettico, anche se altrettanto importante, fu l’apporto di galleristi come Brin/ Del Corso (Galleria L’Obelisco) a Roma e Tazzoli a Torino (Galleria Galatea). Un bilancio importante, per il rapporto della cultura d’avanguardia italiana con il Surrealismo, fu quello proposto nel 1966 dal numero speciale delle riviste Marcatré/Malebolge intitolato Surrealismo e Parasurrealismo
Ci sono anche tanta letteratura, fotografia, design, moda che hanno preso a piene mani dal Surrealismo. Quali gli esempi più riusciti secondo voi?
Rimandando idealmente all’ampio catalogo, si ricordano qui brevemente alcuni nomi: Alberto Savinio, Antonio Delfini e Aldo Palazzeschi per la letteratura; Wanda Wulz e Carlo Mollino per la fotografia; Aldo Tura, Piero Fornasetti, Officina 11 e Gaetano Pesce per il design. Più complessa la messa a fuoco dell’influenza del Surrealismo sulla moda italiana, ma basti qui ricordare che i modelli di Elsa Schiaparelli, nonostante il suo rifiuto del Fascismo, continuarono ad ispirare le case di moda italiane negli Anni Trenta.
Dal Romanticismo alle visioni oniriche, dalla mitologia alla decolonizzazione: nella grande libertà garantita dal Surrealismo, quali temi hanno preso più piede in Italia?
Il Romanticismo fu invocato da Alberto Savinio come premessa di una possibile pittura surrealista italiana nel celebre numero monografico della rivista Prospettive intitolato Il Surrealismo e l’Italia (1940). La cultura romantica fu uno dei punti cardine
della sua formazione e di quella del fratello. Visioni oniriche e mitologia abbondano negli artisti che hanno visto nei fratelli de Chirico dei precursori, come Fini, Clerici, Lepri, Colombotto Rosso. Il tema della decolonizzazione è stato recepito con ritardo dalla cultura italiana; un ruolo importante in questo senso, anche se non privo di ambiguità, è certo stato svolto da Wifredo Lam, che retrospettivamente affermò che la sua pittura era un atto di “decolonizzazione”, così come da Roberto Matta, durante gli anni del suo soggiorno in Italia.
La mostra appura la presenza delle opere surrealiste in Italia, e già dai primi anni: quali collezioni italiane oggi sono un punto di riferimento a livello internazionale?
La mostra della Fondazione Magnani Rocca, con circa 150 opere tutte di provenienza italiana, è una straordinaria dimostrazione della presenza niente affatto secondaria del Surrealismo nelle collezioni pubbliche e private italiane. Uno degli obiettivi della mostra è stato proprio quello di documentare tale presenza. Oltre alle collezioni celebri, come quella di Peggy Guggenheim, di Arturo Schwarz, di Carlo Cardazzo, in mostra sono presenti, fra gli altri, significativi nuclei della collezione personale di artisti dada e surrealisti di Enrico Baj, della raccolta del medico milanese Alessandro Passaré e della collezione dell’imprenditore Enrico Lucci oggi a Biella. È inoltre presente una scelta di opere di Leonor Fini degli Anni Quaranta che erano state raccolte nella sua villa sul lago di Como da Renato Wild, che fu con Edward James il più importante collezionista dell’artista italo-argentina.
L’esperienza immersiva dell’Assunzione della Vergine di Correggio, sulla cupola di San Giovanni Evangelista, realizzata in occasione dei 500 anni dalla realizzazione del ciclo
Le vetrate dell’artista Mimmo Paladino per il Teatro Due
La grande mostra su Toulouse-Lautrec, tra circo e vita a Montmartre, aperta a Palazzo Della Rosa Prati
Fondazione Magnani Rocca Parma
La grande mostra di Andy Warhol che torna a Napoli
Valentina Muzi
Promuovere l’arte e la cultura italiane: una missione, quella del gruppo bancario Intesa Sanpaolo, che si concretizza nel progetto pluriennale che anima le Gallerie d’Italia di Milano, Vicenza, Torino e Napoli, rendendo fruibile una selezione di oltre 35mila opere, dall’archeologia al contemporaneo, con progetti espositivi ospitati nelle diverse sedi. Tra questi, spicca Andy Warhol. Triple Elvis, la mostra dedicata al padre della Pop Art allestita in via Toledo fino al febbraio 2025. Il progetto, a cura di Luca Massimo Barbero, presenta un significativo corpus di opere del leggendario artista, tra cui tre grafici riuniti per la prima volta e provenienti dalla Collezione Luigi e Peppino Agrati, un’importante raccolta d’arte confluita nel patrimonio storico-artistico tutelato da Intesa Sanpaolo grazie al lascito del Cavalier Luigi Agrati.
IL LEGAME TRA
ANDY WARHOL E NAPOLI
Il percorso va così a restituire al pubblico l’originale ricerca dell’artista americano a partire dal Triple Elvis del 1963, anno in cui - in occasione della mostra dedicata agli Elvis Paintings, alla Ferus Gallery di Los Angeles - sperimenta per la prima volta la ripetizione seriale. A questa si affiancano i tre importanti cicli grafici di Marilyn, Mao Tse-Tung e Eletric Chairs, da cui è possibile notare l’evoluzione di Warhol negli Anni Sessanta e nei primissimi Anni Settanta. Nello specifico, nelle dieci Electric Chairs si nota come l’immagine di una sedia elettrica possa diventare un’icona politica, così come una meditazione sull’umanità e sulla morte. Nelle stampe che ritraggono Norma Jeane Mortenson/Marylin, realizzate nel 1967, si consacra il firmamento dei miti hollywoodiani, oggi emblema dell’artista americano. Infine, nel 1972, l’uso del colore si fa sempre più deciso e profondo, come nei ritratti dell’ex presidente della Repubblica Popolare Cinese.
LA SERIE VESUVIUS
L’ampia retrospettiva si conclude con i due Vesuvius realizzati da Warhol nel 1985, esposti nell’estate di quello stesso anno nel Salone dei Camuccini al Museo di Capodimonte in una mostra organizzata dal gallerista Lucio Amelio e curata da Michele Bonuomo e Angela Tecce. Queste, entrate a far parte della collezione di Intesa Sanpaolo, rientrano in un ciclo di diciotto acrilici su tela e di venticinque serigrafie su cartone: praticamente delle prove
d’autore firmate. La peculiarità delle opere è l’evoluzione – più raffinata e ricercata – del processo creativo, che prende le distanze dai sistemi di riproduzione fotomeccanici utilizzati in precedenza. L’intervento diretto dei colori sul supporto fotografico lascia intendere le volontà dell’artista, ovvero quello di dare l’impressione che l’opera sia stata dipinta subito dopo l’eruzione. “È semplice, per me l’eruzione è un’immagine sconvolgente, un avvenimento straordinario ed anche un grande pezzo di scultura”, raccontava l’artista a Bonuomo. “Credo sia un po’ come la bomba atomica Forse qui a New York l’unica cosa che potrebbe somigliare al Vesuvio è l’Empire State Building se improvvisamente andasse a fuoco”.
INTERVISTA A MICHELE COPPOLA, DIRETTORE CENTRALE ARTE, CULTURA E BENI CULTURALI DI INTESA SANPAOLO
Dalla nascita delle Gallerie d’Italia ad oggi il ruolo del gruppo bancario guidato da Carlo Messina si è evoluto da sponsor a protagonista del sistema, diventando parte attiva nell’organizzazione dell’offerta culturale. Come definisce questa crescita?
Il rapporto delle banche con l’arte e la cultura è parte della storia italiana fin dal Rinascimento, lo abbiamo raccontato in una magnifica mostra alle Gallerie di Piazza Scala due anni fa, partendo dai Medici fino ai casi più recenti di mecenatismo internazionale. Ma è evidente che quel legame nel tempo si è modificato e oggi, oltre a una condizione di mecenatismo e filantropia, il lavoro e la visione di Intesa Sanpaolo a favore della cultura attiene maggiormente ad un coinvolgimento diretto. Ne è chiara testimonianza la trasformazione di palazzi in musei per condividere le collezioni di proprietà, per realizzare mostre originali e offrire laboratori a scuole e pubblici fragili. La nostra Banca richiama un modello di impresa, da sempre sostenuto dal presidente emerito Giovanni Bazoli e da tutto il management, per il quale è importante generare profitto ma anche creare valori e contenuti culturali e sociali per la crescita del Paese.
Con Andy Warhol. Triple Elvis ad essere protagonista non è solo la ricerca di Warhol, ma anche la città di Napoli a cui l’artista era molto legato, come si evince nei due Vesuvius della collezione Intesa Sanpaolo presenti in mostra nel museo di Via Toledo. Come è nato il progetto e come si racconta il legame tra l’artista e il capoluogo campano nel percorso espositivo?
Ciascuna delle sedi di Gallerie d’Italia vive in profonda relazione, direi in simbiosi, con la propria città. Non c’è separazione tra via Toledo e l’ingresso del nostro museo ed è pertanto naturale che i visitatori trovino raccontata all’interno delle Gallerie anche una parte della storia di Napoli. La vivacità e la genialità dei lavori di Warhol certamente raccontano Napoli e
l’occasione di presentare per la prima volta le opere del grande artista americano nelle nostre collezioni offre il modo di sottolineare l’amore che Warhol ha avuto nei confronti di questa incredibile città.
“La ricchezza di capolavori presenti nelle raccolte d’arte della Banca rafforza la volontà di condividerne sempre più la varietà nelle nostre Gallerie d’Italia”. Ebbene, dopo la grande mostra dedicata al padre della Pop Art, quali altri capolavori saranno protagonisti nelle future esposizioni?
Alla raccolta di Intesa Sanpaolo, una delle maggiori collezioni corporate al mondo, dedichiamo costanti attività di studio che aggiungono sempre nuovi elementi di conoscenza e offrono continue suggestioni per esposizioni originali. Abbiamo parlato di Warhol, ma voglio ricordare anche la mostra inaugurata di recente a Vicenza che prende avvio dalla nostra Caduta degli angeli ribelli, una scultura che lascia letteralmente senza parole per la sua complessità e bellezza, permettendo ora la riscoperta di un artista straordinario del Settecento. Alcuni giorni fa abbiamo allestito nelle Gallerie di Milano un monumentale un dipinto di Ryman dalla collezione Agrati, presentato per la prima volta al pubblico. Le esposizioni temporanee di Gallerie d’Italia si arricchiscono sempre della presenza di opere di proprietà, tra altri prestiti. Ne sono esempio le Officine a Porta Romana di Boccioni inserite nella mostra Il Genio di Milano attesa fra qualche settimana in Piazza Scala, un’opera che descrive la modernità di Milano a inizio Novecento. Certamente la condivisione è il punto di forza del sistema delle collezioni e delle sedi museali della nostra Banca.
Fino al 16 febbraio 2025 ANDY WARHOL. TRIPLE ELVIS
A cura di Luca Massimo Barbero Gallerie d’Italia - Napoli gallerieditalia.com
Nel futuro delle Gallerie d’Italia che progetti ci sono?
Dopo la mostra dedicata a William e Lady Hamilton nelle Gallerie di Napoli e dopo il Genio di Milano, nel museo di Piazza San Carlo, dove abbiamo da poco inaugurato American nature del grande fotografo Mitch Epstein, ci sarà una nuova edizione dell’Ospite illustre che permetterà di ammirare due preziosi dipinti dalle Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma. La ricchezza di proposte espositive rende le Gallerie d’Italia luoghi dinamici, con iniziative di valore che parlano a un pubblico eterogeneo, incuriosiscono e invitano i visitatori a tornare.
L’ultima opera del programma Napoli Contemporanea, “Tu si na cosa grande” del grande designer Gaetano Pesce
Il nuovo museo sulla storia gastronomica della città (che non è un museo della pizza)
La stazione dell’arte San Pasquale, disegnata dall’architetto Boris Podrecca per evocare il relitto di un’imbarcazione nelle profondità marine
Andy Warhol Foundation for the Visual Arts Inc. by SIAE 2024.
Warhol Marilyn, 1967. Collezione Luigi e Peppino
Warhol Foundation
the Visual Arts Inc. by SIAE 2024.
Munch e la metamorfosi. La mostra a Milano
Stefano Castelli
L’ultimo dei Romantici, il primo dei contemporanei: con il suo corpus di lavori che si dipana tra Ottocento e Novecento, Edvard Munch (Adalsbruck, 1863 – Oslo, 1944) attraversa e descrive magistralmente un cambio di paradigma storico, filosofico ed estetico che ancora oggi ci influenza profondamente. Un percorso che l’artista coglie in maniera estremamente attendibile ma anche del tutto personale, rimanendo sempre un po’ discosto rispetto al discorso e all’estetica dominante.
INTERIORITÀ E MONDO
La mostra curata da Patricia G. Berman che il Palazzo Reale di Milano dedica all’artista norvegese, intitolata Il grido interiore, ha il grande pregio di immergere lo spettatore in questa lenta e continua metamorfosi, di fargliela percepire prima ancora di razionalizzarla. Dall’Uomo postromantico che si scopre libero protagonista del mondo ma subisce la conseguente inestinguibile angoscia, si giunge percorrendo le sale all’uomo nuovo novecentesco, segnato fin nelle sue fattezze dagli stravolgimenti della Storia. Ecco perché una visione esclusivamente introspettiva o psicologizzante
dell’opera di Munch non risulta adatta a comprendere del tutto il suo linguaggio: come dimostra l’esposizione, interiorità e mondo, pensiero ed esperienza, finitezza e trascendenza ingaggiano nella sua opera una sfida inesausta e senza vincitore.
UN PERCORSO FUORI DAL COMUNE
Cosa non scontata in rassegne di questo tipo, la quantità e la qualità delle opere riunite sono fuori dal comune. La capacità di penetrazione
delle visioni dell’artista si manifesta pienamente in mostra, quasi confondendo per la serrata successione di folgorazioni delle quali si può godere - si finisce così per perdonare i troppi intralci costituiti dai momenti “didattico-spettacolari-interattivi” che costellano le sale. Un continuo alternarsi di opere di fine Ottocento e inizio Novecento caratterizza le prime sezioni, ed è come assistere alla gestazione di uno stile che diventerà proverbiale. L’Autoritratto del 1881-82 cattura lo sguardo con quanto in esso c’è di realistico ma assieme di trasfigurato e caratterizzato psicologicamente, per lasciare subito il posto a un’espressione tipicamente munchiana dell’angoscia affidata alla fusione tra figura umana e ambiente: Malinconia del 1900-01. Tutte le carte della tipica gamma di temi e stili dell’artista vengono subito gettate in tavola: l’acuto tono parodistico e assieme tragico delle scene di genere, illustrative in senso alto come nelle diverse variazioni del Circolo bohémien di Kristiania; il macabro-grottesco di un’opera come Visione del 1892; la stilizzazione delle linee in Chiaro di luna I (1896); il tema della morte e della malattia trattato in un’intera sala; e non ultima, la straordinaria modernità delle incisioni
Le sculture di pane dell’artista e attivista LGBTQ+ La Chola Poblete, esposte al Museo delle Culture di Milano
La Cappella Portinari, una delle meraviglie segrete di Milano: incastrata tra i Navigli e San Lorenzo, ospita gli affreschi del maestro Vincenzo Foppa
La prima grande retrospettiva dedicata a Jean Tinguely dopo la sua morte, da vedere all’Hangar Bicocca
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Palazzo Reale
dell’artista. Il celeberrimo Urlo viene poi proposto in una versione litografica del 1895 ed accompagnato da una espressione analoga su tela, Disperazione del 1894.
LA SVOLTA
Ma il punto di svolta del percorso è Bambina in procinto di affogare (datato intorno al 1904). Fa infatti qui il suo ingresso sulla scena l’altro Munch, quello tutto sommato meno conosciuto, che si immerge nella rivoluzione linguistica delle Avanguardie – rivoluzione che ha in parte contribuito a determinare. Inizia qui la seconda parte dell’esposizione, che per la sua ricchezza è possibile restituire solo a campione. Disegno e colore si fondono sempre più, così come le figure e i paesaggi. E si fondono i corpi, avvinghiati in strette che hanno a che fare tanto con l’amore carnale che con la mortalità: memento mori ricchi di sensualità, dove volti e corpi si compenetrano a causa di un bacio (Coppie che si baciano nel parco, 1904), dove la luce assume toni consoni all’umore dei personaggi e assieme lo determina (Danza sulla spiaggia, 1904), dove il morso di un vampiro diventa desiderabile e voluttuoso (Vampiro nella foresta, 1916–18), ma non meno temibile.
MUNCH E L’ITALIA
Una breve ma interessante sezione sul rapporto tra Munch e l’Italia, con vedute romane e veneziane, conduce alle ultime sale che abbracciano la produzione degli ultimi trent’anni di vita. Munch è qui pienamente espressionista eppure già tende a superare quello stile; sembra a tratti di vedere già espressioni della seconda metà del Novecento, come quella di Maria Lassnig, per citare solo un nome tra i tanti contemporanei che potrebbero essere ascritti alla sua ascendenza (una recente mostra all’Albertina di Vienna, d’altronde, individuava tale ascendenza in Georg Baselitz, Miriam Cahn, Peter Doig, Marlene Dumas, oltre al citazionismo appropriazionista di Andy Warhol, che fece suo
Fino al 26 gennaio 2025 MUNCH. IL GRIDO INTERIORE
a cura di Patricia Berman Palazzo Reale - Milano palazzorealemilano.it
l’Urlo). In questi lavori, la deformazione dello spazio in base alle sensazioni dei personaggi non è mai puro espediente psicologizzante e non sfocia mai nel narrativo. Tutte le invenzioni dell’artista sono pienamente moderne, esatte dal punto di vista pittorico per quanto spesso paradossalmente scorrette rispetto al canone
novecentesco. Tra i passaggi migliori e più inaspettati che si ritrovano dunque nelle ultime sale del Palazzo reale, va citata almeno la sala che raccoglie figure maschili di bagnanti (Uomini che fanno il bagno, 1913–15, Uomo che fa il bagno, 1918). Si capisce qui chiaramente come Munch si adatti, certo, allo spirito novecentesco ma allo stesso tempo insista più di molti suoi coevi su una coesistenza di trascendenza e razionalità – propendendo in fondo per la prima come sottolinea il titolo di una delle sezioni, L’universo invisibile. È poi hockneyana ante litteram la Donna sui gradini della veranda del 1942, neoespressionista con decenni d’anticipo l’allegorico La storia, 1913, cinematografico e letterario Il viandante notturno del 1923–24. E si conclude incontrando prima una gamma di autoritratti a confronto, infine altri classici munchiani come Autoritratto all’inferno, 1903 e Le ragazze sul ponte, 1927. La magia di Munch, che in mostra vive fortemente, risiede in fondo non solo nell’impatto fuori dal comune dalle sue visioni, ma anche nella sua capacità unica di rappresentare i mutamenti nello spirito del tempo in modo imprevisto. Ovvero tenendosi sempre in una posizione estetica decentrata, anticanonica, bizzarra e “allucinata” – è il caso di dirlo.
disegni giovanili: copia illustrazioni di un libro su Roma
disegno giovanile da Raffaello (Ritratto di giovane uomo → opera in mostra)
primo viaggio in Italia: Firenze, Pisa, Roma
secondo viaggio: Como e dintorni (a Mendrisio, viene sospettato di essere l’assassino di Umberto I, subito scagionato)
1922 di nuovo a Como in direzione di una mostra a Zurigo
1926 viaggio a Milano e Venezia (Ponte di Rialto, pastello su carta → opera in mostra) 1927 un mese a Roma (al cimitero acattolico, raffigura la tomba di Peter Andreas Munch, storico di professione e zio di Munch, che ebbe accesso agli archivi segreti del Vaticano → opera in mostra)
1937 non dà seguito all’invito della Biennale di Venezia
Matisse e la luce del Mediterraneo. L’esposizione a Mestre
Fausto Politino
Nel 1951 Henri Matisse pubblica il suo testamento spirituale. Si sofferma sugli inizi del proprio lavoro quando in pittura si accettano solo dipinti sottomessi al dato. “Un minimo accenno alla fantasia e alla memoria veniva considerato borioso e privo di valore. Bisognava copiare la natura senza pensare”. Così, dopo averlo sperimentato, si oppone al Realismo, e all’Impressionismo, che giudica un “pullulare di sensazioni contraddittorie”. Ma chi era Matisse, il mancato avvocato di Le Cateau-Cambrèsis che sarebbe stato definito tailleur de lumière e come arriva alla pittura? Un artista che inquadra nel suo orizzonte tutto ciò che è riconducibile al “lusso, calma e voluttà” per dirla con Baudelaire, facendo della gioia di vivere la meta ultima della sua ricerca pittorica impastata nella visione decorativa.
L’INIZIO
Veramente insolito il suo percorso: studia giurisprudenza all’università di Parigi, a vent’anni comincia a far pratica, ma scopre molto presto di non provare nessun interesse per le sentenze. Una malattia intestinale lo salva dalle rigide procedure dei codici: relegato in un letto, per distrarsi inizia a dipingere. Abbandona gli studi di giurisprudenza. Gira diverse accademie fino a quando conosce André Derain e Maurice de Vlaminck. Nasce il gruppo dei Fauves. L’esposizione dei loro quadri, a partire dal Salon d’Automne parigino del 1905, sconvolge critica e pubblico per la violenza dei colori, il contrasto dei toni, la spregiudicatezza degli accostamenti
MATISSE, SOVVERTITORE DEL SENSO COMUNE
Matisse si avvia a sconvolgere l’arte del XX Secolo. Sovverte il senso comune, frantuma il doppio canone della verosimiglianza e della bellezza, chiude in un cassetto a doppia mandata la rappresentazione fenomenica. Anche se i suoi quadri conservano un certo impatto documentario, rivendicano a gran voce la peculiarità della pittura, interpretata come un insieme libero di segni, facendo leva solo sui colori. Si possono intuire i frammenti referenziali che danno inizio al dipinto, ma sono solo suggestioni che vengono depurate. A questo grande
maestro della pittura del Novecento, il Centro
Culturale Candiani di Mestre dedica la mostra, Matisse e la luce del Mediterraneo, a cura di Elisabetta Barisoni. Cinquanta le opere selezionate. Sette le sezioni che la scandiscono: La modernità viene dal mare, La Luce del Mediterraneo, L’età dell’oro, Il Mediterraneo, un paradiso unico, Arabesco e decorazione, Lusso, calma e voluttà, Il disegno del piacere.
IL DIALOGO CON PIERRE BONNARD
Matisse, artista dalle cromie intense innaturali stranianti, dialoga in mostra con gli autori con i quali condivide l’attrazione per le luminosità mediterranee, del Mezzogiorno francese, liberando il colore delle asprezze espressioniste. Località come Nizza, Arles, Saint-Tropez diventano icone dell’arte e della cultura del Novecento. Un rapporto importante è quello che lega il pittore di Le Cateau-Cambrèsis a Pierre Bonnard, fondatore del gruppo dei Nabis. Pur abbracciando estetiche diverse entrambi inseguono la luce particolare della Provenza, traducendola nella tela rispettando ognuno il proprio stile. Nel Nudo allo specchio del 1931, Bonnard riprende il tema, frequente nella sua pittura, della moglie Marthe, colta nell’intimità della stanza da toilette. Ciò che lo avvicina a Matisse è il ruolo fondamentale del colore intenso e vibrante come fondamento della poiesis pittorica.
LE OPERE DI MATISSE IN MOSTRA
Fisicità ed espressività del colore, prima accennati, sono riscontrabili ne La finestra aperta del 1919: il soggetto del quadro offre il paesaggio della sua casa di Nizza, dipinto tra interno ed esterno. Particolare rilievo assume il blu del Mediterraneo che diventa un quadro nel quadro, con la balaustra che fa da ostacolo come ulteriore stratagemma visivo. In Odalisca gialla, del 1937, Matisse privilegia il motivo delle odalische rifacendosi a quelle raffigurate da Eugène Delacroix o a quelle altrettanto famose di Ingres. Ritornano i colori chiari e brillanti, le linee curve sinuose e la serena gioia di vivere del periodo fauve.
Il 1947 vede la luce Parigi Jazz, un testo di 152 pagine scritte da Matisse. A corredo, venti illustrazioni realizzate tra il 1943 e il 1947, con una tecnica già sperimentata dal pittore: le gouaches découpées, carte colorate a tempera, ritagliate, incollate su carta e poi riprodotte a stampino. Tra queste la mitica figura di Icaro, schiacciata nel cielo durante la sua caduta libera tra le stelle. Una sagoma in volo completamente nera ma con il pulsare violento di un cuore rosso rubino. In Lusso, calma e voluttà, del 1904, Matisse si ispira ad una poesia di Baudelaire. Si vedono veneri o ninfe nelle vicinanze di un paesaggio marino: sembra evidente l’eco delle Bagnanti di Cézanne, nelle figure seminude in piedi mentre si asciugano. La capacità espressiva dell’opera nasce da un uso irrealistico dei colori che non vogliono imitare la realtà ma suscitare emozioni.
fino al 4 marzo 2025 MATISSE E LA LUCE DEL MEDITERRANEO a cura di Elisabetta Barisoni Centro Culturale Candiani - Mestre muvemestre.visitmuve.it
Henri Matisse Odalisca gialla, 1937, Philadelphia Museum of Art, The Samuel S. White 3rd and Vera White Collection, 1967
WILLIAM BLAKE / VENARIA REALE
William Blake alla Reggia di Venaria. La vita è sogno
Nicola Davide Angerame
Può sembrare un paradosso che William Blake (Londra, 1757 - 1827) , la cui poesia non è meno della sua pittura, si sia abbeverato fin da bambino a un sentimento religioso non convenzionale ma di una forza capace di determinarne l’opera. La famiglia è di confessione protestante e non anglicana, non vanno in chiesa e non seguono il clero. La Bibbia è la fonte unica della loro fede ed è il primo libro di Blake, che viene educato dalla madre e iniziato alla professione di incisore, mentre il padre lo indirizza verso una visione mistica e la ricerca di un contatto personale con il divino. Apprendista incisore, disegna tombe nell’Abbazia di Westminster e qui apprende come il gotico non sia tanto uno stile quanto una forma d’immaginazione capace di stimolare le sue visioni più profetiche e cupe, cui va soggetto. Accolto nella nascente Royal Academy, vi compie studi che lo portano a diffidare della pittura di genere, nello specifico il ritratto, che la borghesia emergente richiede in gran quantità. Blake diventa presto un outsider
INSEGUENDO I PROPRI FANTASMI
Dibattendosi tra una poesia allucinata e incantevole e un’arte poliedrica e simbolista, il bibliofilo Blake confeziona una forma d’arte che oggi
chiamiamo libro d’artista con la tecnica originale dell’illuminated printing, con testi e incisioni colorate a mano Sono libri fatti a mano e come dei cahiers des voyage agli inferi, da parte di un novello Dante (illustrerà la Divina Commedia). Distante dal mercato dell’arte, Blake si auto-promuove, ma son pochi gli ammiratori che lo collezionano, segnando così per lui una strada di povertà ma non d’infelicità: al suo fianco avrà sempre l’amata Catherine Boucher, donna analfabeta che lui istruisce e che lo aiuterà nella sua produzione: lui la considera il suo angelo. A questa dimensione più intima e domestica della vita dell’artista si contrappone il flusso ininterrotto di visioni cosmiche, universali e apocalittiche da parte di un’immaginazione allevata come il sommo bene e come la chiave per accedere all’infinito. Una posizione romantica e perduta che fanno di Blake il capostipite dei “maledetti” di ieri e di oggi.
LA MOSTRA ALLA
REGGIA DI VENARIA
La mostra è divisa in sei sezioni tematiche e collega Blake ai contemporanei che lo hanno ispirato, come Henry Fuseli, Benjamin West e John Hamilton Mortimer. Le sezioni toccano i temi del sublime e dell’orrore, gli incantesimi, le creature fantastiche, il gotico, la romantizzazione del passato e la figura di Satana, che
per il Blake ammiratore di Milton, di cui illustra Il paradiso Perduto, diventa una figura tragica, simbolo del desiderio umano di trascendere i propri limiti. Per lui, che veste il berretto rosso dei rivoluzionari francesi e si batte per l’uguaglianza delle razze e dei sessi, la ribellione (anche quella satanica) è un atto di libertà che sprofonda nel senso tragico dell’esistere, illustrato attraverso il tormento a cui i suoi corpi sono sottoposti e che esprimono la lotta dell’uomo contro le forze cosmiche e interiori che lo straziano
LE PORTE DELLA PERCEZIONE
“Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come realmente è, infinito”, scrive Blake. L’autore de Il mondo nuovo, Aldous Huxley ne riprenderà il concetto intitolando Le porte della percezione il libro in cui descrive gli effetti liberatori e mistici della mescalina su di sé, nel 1953. Meno di due decenni dopo i Doors si chiameranno così in onore del libro di Huxley, mentre ancor più recentemente è il grande drago rosso (custodito al Brooklyn Museum) a finire in uno dei thriller più celebri della storia del cinema (la saga di Hannibal Lecter), chiudendo una linea di influenza che nasce quando il critico inglese John Ruskin entusiasticamente paragona Blake a Rembrandt, dopo aver visto le Illustrazioni del Libro di Giobbe
Nel 1826, un anno prima di morire, Blake dipinge a inchiostro e tempera su mogano, il suo Satana punisce Giobbe con piaghe infuocate; sembra un’opera testamentaria in cui Giobbe subisce il supplizio estremo da parte dell’angelo caduto ma potrebbe vedersi anche come un rito di passaggio, quasi una resurrezione in quella dimensione infinita, e comunque alternativa al reale, in cui Blake ha vissuto tutta la sua esistenza di demiurgo di mondi ultraterreni.
Dal 31 ottobre al 2 febbraio
BLAKE E LA SUA EPOCA. VIAGGI NEL TEMPO DEL SOGNO
A cura di Cristina Acidini con la collaborazione di Alessandra Baroni La Venaria Reale lavenaria.it
Artribune ufficializza i rumor: Studio Esseci, fondato nel 1986 da Sergio Campagnolo, dal 1° gennaio 2026 muterà pelle. L’attività di ufficio stampa farà capo a una nuova società gestita dai due professionisti dello studio, Roberta Barbaro e Simone Raddi, mentre il titolare, con Studio Esseci Sas, amplierà i servizi offrendo consulenze per la cultura e il turismo, progettazione di eventi e formazione. In quest’intervista, Campagnolo illustra le peculiarità di un ufficio stampa specializzato nell’ambito delle mostre.
Perché chi organizza una grande mostra dovrebbe rivolgersi a un ufficio stampa?
Il servizio che può offrire un ufficio stampa è decisamente rilevante, poiché consente di raggiungere molti media diversi e pubblici diversi, con costi più competitivi rispetto ad altri strumenti.
Quali sono i fattori più importanti per ottenere dei buoni risultati?
Sono fondamentali le tempistiche: uno degli errori più gravi che si possono compiere organizzando una mostra è preoccuparsi di tutto, pensando all’ufficio stampa solo a ridosso dell’apertura. In questo caso gran parte dell’investimento si rivela improduttivo. Quando possibile, noi
proponiamo una “rincorsa lunga” che ci consente di parlare ai giornalisti della mostra o dell’evento con largo anticipo e di emettere un primo comunicato di annuncio vari mesi prima dell’evento. Il grosso del lavoro inizia tuttavia 90 giorni dal primo del mese dell’inaugurazione: questo è il tempo necessario per raggiungere i periodici, mentre nelle settimane successive si contattano gli altri mezzi di informazione.
Come si svolge, in concreto, il vostro lavoro?
Prima di tutto prepariamo una cartella stampa il più esaustiva possibile: non sempre le informazioni complete sono già disponibili tre o quattro mesi prima dell’inaugurazione e i materiali vanno quindi perfezionati con l’approssimarsi dell’opening. Inviamo poi un primo comunicato, che però non rivela tutta la sostanza del progetto, ma lo preannuncia in modo accattivante; contestualmente pubblichiamo sul sito sia il comunicato sia alcune immagini. A quel punto possiamo dare il via a una campagna teaser, divulgando a cadenza mensile aspetti curiosi e interessanti della mostra e nel frattempo contattiamo telefonicamente quei giornalisti che riteniamo essere “giusti” per occuparsi del progetto, raccontandolo loro in modo personalizzato. Successivamente gestiamo gli inviti alla conferenza stampa e seguiamo tutte le azioni necessarie, fino a giungere alla pubblicazione di notizie e recensioni.
Come è cambiato il lavoro di un ufficio stampa negli ultimi decenni?
Quando mi sono avvicinato a quest’attività si inviavano i comunicati via posta o via fax… Dal punto di vista tecnico vista le cose oggi sono profondamente diverse, ma non è mutata la necessità di creare e coltivare rapporti di natura diretta e personale con tutti i possibili interlocutori. Il rapporto umano consente di poter ragionare insieme al giornalista per cercare il taglio giusto del racconto. Va da sé che l’online ha assunto un rilievo prima inesistente, inoltre ora è fondamentale raggiungere e fidelizzare categorie come gli organizzatori dei gruppi culturali e turistici o i tour operator.
Ha ancora senso, oggi, non divulgare comunicati, immagini e materiali stampa prima della conferenza stampa?
Dipende: un comunicato di primo annuncio, che riporti solamente gli elementi essenziali, a mio avviso va diffuso il prima possibile; le informazioni più complete vanno invece fornite all’ultimo. Per i periodici la disponibilità della cartella stampa va garantita in anticipo, ma sotto embargo. È infine fondamentale continuare ad alimentare l’interesse sulla mostra anche dopo l’apertura.
Preview e conferenza stampa della mostra Henri CartierBresson e l'Italia a Palazzo Roverella di Rovigo, foto Antonio Jordan
MILANO
Fino al 26 gennaio 2025
MUNCH
Il grido interiore
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 9 febbraio 2025
BAJ CHEZ BAJ
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 16 febbraio 2025
NIKI DE SAINT PHALLE
MUDEC - Museo delle Culture mudec.it
Fino al 2 febbraio 2025
JEAN TINGUELY
Pirelli Hangar Bicocca pirellihangarbicocca.org
Fino al 16 febbraio 2025
MARINA ABRAMOVIĆ
BETWEEN BREATH AND FIRE
Gres Art 671 gresart671.org
Dal 18 ottobre 2024
IL RINASCIMENTO A BRESCIA Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552
Museo di Santa Giulia bresciamusei.com
Fino al 2 febbraio 2025
TINA MODOTTI L’opera
Camera - Centro Italiano per la Fotografia camera.to
Fino al 2 febbraio 2025
BLAKE E LA SUA EPOCA
Viaggi nel tempo del sogno
La Venaria Reale lavenaria.it
Fino al 2 marzo 2025 1950-1970
La grande arte italiana
Musei Reali di Torino museireali.beniculturali.it
Fino al 9 marzo 2025
BERTHE MORISOT
Pittrice impressionista
Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea www.gamtorino.it
Dall’8 ottobre 2024 BAJ CHEZ BAJ
Museo della Ceramica di Savona e MuDA – Museo Diffuso Albisola musa.savona.it/museodellaceramica
Fino al 26 gennaio 2025
HELEN FRANKENTHALER: DIPINGERE SENZA REGOLE
Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org
Fino al 23 febbraio 2025
IMPRESSION, MORISOT
Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it
Fino al 30 marzo 2025
LISETTA CARMI
Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it
Dal 31 ottobre 2024
VASARI
Il Teatro delle Virtù
La Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea e l’ex Chiesa di Sant’Ignazio www.vasari450.it
ROVERETO
Fino al 9 marzo 2025
ITALO CREMONA
Tutto il resto è profonda notte
Mart mart.tn.it
VENEZIA PARMA
Fino al 15 dicembre 2024
IL SURREALISMO E L’ITALIA
Fondazione Magnani-Rocca
Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it
Fino al 19 gennaio 2025 L’ETÀ DELL’ORO
Galleria Nazionale dell’Umbria gallerianazionaledellumbria.it
NAPOLI
Fino al 16 febbraio 2025
ANDY WARHOL
Triple Elvis Gallerie d’Italia gallerieditalia.com
Fino al 3 marzo 2025
MARINA APOLLONIO
Oltre il cerchio
Peggy Guggenheim Collection guggenheim-venice.it
Fino al 4 marzo 2025
MATISSE
Centro Candiani (Mestre) muvemestre.visitmuve.it
BOLOGNA
Fino al 28 Febbraio 2025
ANTONIO LIGABUE
Palazzo Pallavicini palazzopallavicini.com
Fino al 4 maggio 2025
AI WEIWEI. WHO AM I?
Palazzo Fava operalaboratori.com
ROMA
Fino al 19 gennaio 2025
FERNANDO BOTERO
La grande mostra Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it
Fino al 23 febbraio 2025
MIRÓ
Il costruttore di sogni Museo Storico della Fanteria esercito.difesa.it/storia/musei/ Museo-Storico-della-Fanteria
Dal 31 ottobre 2024
GUERCINO
L’era Ludovisi a Roma
Scuderie del Quirinale scuderiequirinale.it
Dal 3 dicembre 2024
IL TEMPO DEL FUTURISMO
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea lagallerianazionale.com
PERUGIA
I MUSEI ITALIANI
SONO ACCESSIBILI?
Quali sono le buone pratiche esistenti? Su cosa si dovrebbe lavorare maggiormente? Prosegue la nostra analisi sull’argomento: ne parliamo con 10 direttori ed esperti del settore
ANNA CHIARA CIMOLI
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI
DI BERGAMO
Credo che molto sia stato fatto, in questi anni, per l’accessibilità museale in termini di formazione, ricerca e disseminazione. Vedo due punti di fragilità rispetto alla diffusione di una più larga cultura dell’accessibilità: il primo è la consapevolezza da parte delle posizioni apicali dei musei, che spesso la considerano appannaggio di questo o di quel dipartimento, piuttosto che un metodo che deve nutrire ogni gesto. Il secondo è la formazione universitaria: nelle poche ore dedicate alla museologia nei curricula italiani, infatti, è arduo trasmettere contenuti complessi. L’aspetto di cui mi occupo, quello dell’identità e dell’appartenenza culturale, richiede un grande lavoro sul linguaggio e sul suo adeguamento alle sensibilità contemporanee. Chiarezza, accessibilità, appropriatezza (dalla scelta delle parole all’alta leggibilità) sono un terreno su cui ancora pochi musei stanno lavorando: segnalo le eccezioni della Fondazione Querini Stampalia di Venezia e della Triennale di Milano.
MONICA POGGI
CURATRICE E RESPONSABILE MOSTRE DI CAMERA TORINO
Dando per fondamentale il dialogo con le persone coinvolte e le realtà che si occupano di disabilità e inclusione, oggi occorre fare una riflessione che sia sempre di più strategica, mettendo a sistema le conoscenze e gli strumenti. Il sostegno economico per questi progetti deriva spesso da contributi di istituzioni private e, più raramente, da finanziamenti pubblici, nonostante i fondi del PNRR abbiano stimolato in maniera decisiva molte azioni in tutta Italia. Vista la complessità e la molteplicità di esigenze, e la limitatezza dei fondi assegnati alla cultura in generale, solo stringendo alleanze fra realtà culturali si può rispondere alla complessità della sfida.
Lavorando al progetto Open CAMERA, abbiamo rilevato un forte desiderio di essere ascoltati e coinvolti all’interno della progettazione culturale. Possiamo aumentare la dimensione delle didascalie e fare rampe d’accesso bellissime, ma se non teniamo conto di questo, il rischio è di avere una visione ombelicale, che punta al raggiungimento di obiettivi che forse non sono poi così urgenti, dimenticando invece che i musei sono, prima di tutto, luoghi dove esercitare la propria appartenenza a una collettività.
ORNELLA DOSSI AREA EDUCAZIONE, MART, ROVERETO
La maggior parte dei luoghi dedicati all’arte oggi è accessibile (o sta lavorando per esserlo), la vera sfida però è essere inclusivi. L’approccio del Mart si basa principalmente su tre presupposti:
1. Mettere al centro la persona, lavorando su bisogni specifici, prendendosi cura delle necessità, ascoltando le aspettative.
2. Fare rete, da un lato con i centri di ricerca internazionale, le università e le istituzioni culturali, per essere sempre innovativi e scambiare buone pratiche; dall’altro con le organizzazioni del terzo settore che operano sul territorio, portatrici di un know-how indispensabile per progettare programmi di mediazione efficaci.
3. Qualità e impegno costanti. Fin dalla sua fondazione, circa 25 anni fa, il Mart ha destinato una persona e un budget allo sviluppo di progetti speciali. Sicuramente le risorse disponibili oggi (fondi europei, PNRR…) sono una manna, ma progettare in modo accessibile e inclusivo non deve essere un lavoro intermittente, frammentato, non è un interruttore che si accende e si spegne.
ELENA DI GIOVANNI
UNIMC, MACERATA
Il diritto all’accesso è un diritto umano: è quanto ricorda la Convenzione ONU per i Diritti delle Persone con Disabilità, riconoscendo la diversità come valore. Dalla ratifica da parte dell’Italia di questo documento, sono cresciuti i progetti volti a rendere i musei italiani accessibili, così come si sono evoluti i servizi e le strategie per l’accessibilità. Ad oggi, non c’è omogeneità nell’offerta di servizi accessibili nei musei italiani, sia per la scarsità di fondi dedicati, sia per la disomogeneità sul piano delle tecnologie per la realizzazione e la fruizione. Sul fronte tecnologico, tante sono le innovazioni che stanno emergendo, prevalentemente legate alla fruizione tramite dispositivi mobili personali, spesso semplicemente “appoggiando” i contenuti accessibili su spazi web, senza la necessità di sviluppare applicazioni o acquistare attrezzature specifiche. Tra le sfide presenti e future, vedo la crescita di strategie inclusive dedicate alle persone con disabilità intellettiva, la cui grande varietà richiama, di nuovo, il valore e la bellezza della diversità umana.
a cura di SANTA NASTRO
MELANIA LONGO
MUSEOLOGA ESPERTA IN ACCESSIBILITÀ MUSEALE, CURATRICE DEL PROGETTO NATI AL MUSEO
Ricerca, programmazione, educazione, mediazione, logistica: l’accessibilità museale è trasversale, tocca tutte le funzioni e le professioni di un’organizzazione o di un progetto culturale. È una sensibilità, un modo di guardare la cultura, di organizzarla. Forti della grande responsabilità sociale e culturale, i musei sono chiamati a mettersi in gioco riprogettandosi a partire dalle istanze e dalle necessità dei visitatori poiché tutti hanno diritto a partecipare attivamente alla vita culturale del proprio territorio. Un importante primo passo per iniziare è creare un ambiente che il più possibile consenta una visita in autonomia per qualunque tipo di pubblico attraverso le facilitazioni dal punto di vista architettonico e sensoriale. Da anni in Italia molti musei ragionano e lavorano sul tema del Design for All, perché una progettazione che tenga conto di bisogni particolari diventa una progettazione che facilita per tutti, nessuno escluso, pari opportunità di partecipazione.
MIRIAM MANDOSI
CONSULENTE E PROGETTISTA CULTURALE
Rendere accessibile il patrimonio culturale è una sfida che oggi molti musei, e altre istituzioni culturali, stanno affrontando. I fondi PNRR hanno sicuramente offerto una grande occasione ma credo che ci sia ancora molta strada da fare sia per liberare il concetto di accessibilità dal richiamo esclusivo alle disabilità sia per mettere davvero al centro le persone e lavorare su nuove policy e su temi urgenti quali, ad esempio, l’inter-settorialità, il benessere, il welfare culturale. C’è bisogno di formazione, di riconoscimento professionale, di riflessione ampia sui temi della sostenibilità. Credo che l’esigenza più stringente oggi sia capire quale ruolo ha il Museo nelle nostre società e nella vita delle persone. Siamo esseri complessi e l’ibridazione disciplinare e dei linguaggi è indispensabile per essere davvero accessibili a tutti, o meglio, a quante più persone possibili.
ANNALISA TRASATTI
COORDINATRICE
MUSEO OMERO
Stiamo assistendo ad un reale cambiamento culturale, reso possibile dalla volontà politica del Ministero della Cultura di destinare 300 milioni di euro del PNRR a progetti per l’abbattimento delle barriere. La misura, ancora in atto è frutto di un lavoro decennale che ha visto protagonista anche il Museo Tattile Statale Omero e che ha prodotto Linee guida per l’accessibilità nei musei e nei luoghi di interesse culturale, prima, nel 2018, e un vero e proprio Manuale di progettazione per l’accessibilità e la fruizione ampliata del patrimonio culturale. L’Italia, in questo ambito vanta anche un modello unico integrato a livello scolastico che resta tuttora un imprescindibile traguardo quasi cinquantennale, che ha obbligato un radicale ripensamento del modello edu-
cativo. Tutto questo non permette di avere, ad oggi, soluzioni perfette che garantiscano una adeguata fruizione a tutti, non esistono progetti perfetti, ma ci piace sempre ricordare, che l’accessibilità implichi anche una buona dose di creatività, perché ha a che fare con la progettazione in tutti i campi. Lo si può considerare una sorta di abito sartoriale da creare con cura, adattandolo, ogni volta, al contesto, nei termini di una idea di universal design, finalizzato al progresso dell’intera umanità.
LINDA DI PIETRO
DIRETTRICE ARTISTICA, BASE, MILANO
Usiamo l’espressione accessibilità culturale per indicare l’impegno a garantire il diritto di accesso, partecipazione e coinvolgimento delle persone alla vita culturale, attraverso un approccio che ne consideri le differenti caratteristiche fisiche, relazionali e psichiche. L’obiettivo – come abbiamo evidenziato lo scorso anno con un manifesto aperto che raccontava il percorso verso una reale inclusione e accessibilità degli spazi culturali – è progettare con invece di organizzare per: ogni azione prevede quindi il diretto coinvolgimento delle persone interessate, per una trasformazione sociale e culturale che ripensa in maniera radicale la stessa struttura delle organizzazioni. Per produrre un cambiamento sistemico, inoltre, è essenziale porsi obiettivi misurabili e prevedere che un piano di investimenti sulle misure dell’accessibilità diventi una delle priorità strategiche dei luoghi della cultura, un punto di partenza e non un adattamento a posteriori di servizi, spazi e contenuti. Questo permette di creare luoghi ed esperienze che non solo possono essere fruiti da una più ampia pluralità di soggetti, ma che sono più accoglienti, sicuri e confortevoli per chiunque.
ANDREA VILIANI
DIRETTORE MUSEO DELLE CIVILTÀ, ROMA
Quello dell’accessibilità è uno dei più grandi impegni e uno dei più importanti “cantieri” nei musei italiani che si stanno progressivamente liberando dalle proprie barriere architettoniche e realizzando percorsi in cui risulti fondamentale l’accessibilità in termini anche cognitivi: la direzione è quella di musei multisensoriali e multidisciplinari, intergenerazionali e interculturali. Quest’ultimo aspetto, in particolare, riguarda la capacità dei musei di coinvolgere individui e comunità di diverse culture, lingue, provenienze. Il Museo delle Civiltà, in quanto museo delle culture del mondo, è impegnato a 360° in questa direzione, con una ridefinizione in corso degli allestimenti, dei programmi di formazione e dei servizi al pubblico. Si tratta però di processi necessariamente graduali e compartecipati, che richiedono tempo e cura per creare rapporti di fiducia e comprensione reciproci. Solo così al termine del percorso il museo accessibile sarà quello dove l’accessibilità non si percepisce nemmeno più, perché si è identificata con il museo stesso, nella sua totalità e non solo in alcuni dettagli.
GOVERNO MELONI. A LIVELLO CULTURALE, DUE ANNI DI CALAMITË
MASSIMILIANO
TONELLI
Ci sono dei mezzi disastri – e ci siamo fin troppo abituati – e poi però ci sono i disastri su tutta la linea, le tragedie, le sciagure, le catastrofi. Chiedo aiuto sui sinonimi perché occorrono tutti… Il fallimentone cui ci riferiamo è la gestione della cultura in questi due anni di Governo Meloni. Non che in altri settori l’esecutivo abbia brillato (anzi, dall’economia alle lobbies, dall’immigrazione alle relazioni internazionali, dalla scuola alla sanità c’è da mettersi le mani nei capelli), ma almeno talvolta ha salvato forma e apparenza. E invece sulla cultura no, sulla cultura si è scelto di sbracare in maniera inaudita e plateale. Gettando nello sconforto ed esponendo a figuracce clamorose un’intera industria che contribuisce ad una quota non secondaria dell’economia del Paese. Figuracce che sono state inanellate all’insegna di cosa poi? Di una lotta all’egemonia culturale della sinistra? Ma di questo passo ci costringeranno a tornare in ginocchio dalla sinistra affinché si riprenda la sua presunta egemonia… Ma ricostruiamo cosa è successo in questi due anni di vergogna. In principio fu Vittorio Sgarbi. Vi ricordate?
Già la goffaggine di indicarlo come sottosegretario, già la spericolatezza di coprirne le malefatte quando andava in giro per convegni e conferenze proferendo parolacce, volgarità, turpiloquio e dichiarazioni sessiste, già l’imbarazzante siparietto dei suoi rapporti complicati col ministro e infine le dimissioni dopo inquietanti accuse circa appropriazioni indebite e fraudolente di antichi dipinti.
E Gennaro Sangiuliano? Un anno di fila a predisporre iniziative solo per Napoli e per la Campania, mica per il bene del Paese, no, ma solo per prepararsi nella maniera più scomposta pos sibile a correre alle elezioni da governatore di quella regione. Nel tempo libero clamoroso gaffeur e perfetto sparring partner di Geppi Cucciari. Ma le gaffes almeno fanno ridere, alcune decisioni però fanno piangere, ma soprattutto fa piangere la propensione, il modello operativo, l’approc cio: togliere di mezzo gente competente e so stituirla con gli
amici. Spesso incompetenti, ancor più spesso impresentabili. Il tutto è per fortuna terminato grazie ad un post Instagram dell’amante del ministro, Maria Rosaria Boccia, che girava per il ministero come consulente fantasma. Ci siamo liberati così di Sangiuliano ma ci si è accumulata sul groppone un’altra figura di palta di cui hanno parlato i giornali di mezza Europa. Sangiuliano è poi stato sostituito da Alessandro Giuli al quale è stato fatto subito capire quale fosse il contesto: sei un ministro tecnico, sì, ma devi fare come dice la politica. Appena Giuli ha iniziato a formare il suo staff circondandosi di persone di fiducia (e nella fattispecie, per una volta, in gamba come Francesco Spano) apriti cielo: il partito della premier gli ha sguinzagliato i cani addosso facendo sbranare i suoi collaboratori. Colpevoli di cosa? Di essere omosessuali, o meglio “pederasti” per usare il linguaggio di alti esponenti di Fratelli d’Italia. Forse è opportuno ribadirlo per sottolinearne la gravità: in Italia siamo rapidamente arrivati al punto in cui ci si deve dimettere da incarichi pubblichi se si è omosessuali perché ad alcuni esponenti dei partiti populisti di governo l’omosessualità non è gradita, peggio che nella Russia di Putin o nell’Ungheria di Orban. In parallelo a tutto questo il Governo in soli due anni è riuscito a demolire credibilità, risultati, capacità di coinvolgimento del pubblico della Rai. Che è comunque la più grande e strutturata azienda culturale del paese. Devastata sul profilo degli ascolti, disertata dai suoi migliori talenti che hanno riparato con eccellenti risultati nelle emittenti concorrenti e imbottita di personaggi superati, fallimentari, qualche volta imbarazzanti e sicuramente inadeguati. Vincitori di un programma per il solo merito di essere amici di chi governa. Pino Insegno è un caso di scuola, ma ce ne sono a mezze dozzine. Vuoi far lavorare in tutti i modi i tuoi amichetti, presidente Meloni? Fallo, per carità. Tutto sommato così fan tutti. Ma almeno costruisciti prima una cerchia di amici in gamba no? Grida vendetta quello che è sucGalleria Nazionale di Roma, uno dei musei più prestigiosi della Nazione. Forse per scaltrezza di Giuli ai tempi in cui era
presidente del Maxxi, tutte le porcherie sono state dribblate da Via Guido Reni e sono finite in Viale delle Belle Arti. E così la Galleria Nazionale si è trovata a tramutarsi in raggelante location per iniziative politiche, oltretutto di bassissima caratura come la presentazione di un libro di Italo Bocchino o la festa del quotidiano Il Tempo. L’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere ospitato in un museo nazionale: i dipendenti del museo indignati che hanno protestato sono stati segnalati con nomi e cognomi al Ministero inaugurando una stagione di intimidazioni…
Sulla cultura no, sulla cultura si è scelto di sbracare in maniera inaudita e plateale. Gettando nello sconforto ed esponendo a figuracce clamorose un’intera industria
Non paghi di aver squalificato l’immagine della Galleria Nazionale con queste iniziative, l’hanno resa anche teatro della mostra più assurda del decennio: quella sul Futurismo che inaugurerà a dicembre 2024. Non abbiamo spazio qui per elencare la sfilza disgustosa di anomalie che hanno reso patetica questa rassegna ancor prima di inaugurare. Ancora una volta però si può semplificare così: da vergognarsi! Ci sarebbero un tot di altri episodi da menzionare per fare il punto su 24 mesi di fallimenti, ma lo spazio è terminato. La cosa più angosciante è però un’altra ancora: stampiamo questo giornale il 25 ottobre e la sensazione è che quanto elencato diventerà presto molto vecchio e superato perché impacci, rozzezze, sfacciataggini, sgrammaticature dovute ad un mix di populismo, impreparazione, prepotenza e ignoranza non si interromperanno di certo offrendoci chissà cosa nelle prossime settimane. Forse nelle prossime ore. Due anni di ingestibile e dannosissima figura meschina a livello mondiale, e chissà i prossimi due. Con un settore della cultura che sembra così rassegnato da non aver manco voglia di contare i danni…
QUALE FUTURO E QUALE STORIA PER IL PADIGLIONE VENEZIA?
ANGELA VETTESE
Come mai la Biennale di Venezia ospita un Padiglione dedicato a Venezia? Chi decide i contenuti delle sue esposizioni? Perché molti visitatori lo saltano senza rimpianto? E come mai negli ultimi tempi il Corriere, Il Gazzettino e altri organi di stampa specializzata se ne sono occupati? Queste sono le domande che soggiacciono alla battaglia che un gruppo di galleristi, curatori, organizzatori, artisti e amanti in generale della città lagunare stanno portando avanti da alcuni anni, cercando un contatto con il sindaco. L’ultimo comunicato è stato rivolto quest’estate alla stampa e vi si recita tra l’altro: “Riteniamo che il Padiglione debba dotarsi di uno statuto ufficiale, che chiarifichi i criteri della propria missione culturale adeguando il proprio funzionamento a quello degli altri padiglioni nazionali – in particolare il Padiglione Italia. A tal fine riteniamo necessaria la creazione di un comitato scientifico che restituisca l’eterogeneità del sistema culturale cittadino nell’ottica di un dialogo plurale. Questo organo avrebbe la funzione di redigere un bando volto alla selezione di un progetto curatoriale all’anno – secondo l’alternanza Arte / Architettura”.
Visto che questo benedetto Padiglione
Venezia esiste, sarebbe bello che le mostre che vi si tengono rispecchiassero la realtà mobile di una Venezia che non muore, malgrado i molti funerali che se ne celebrano
La storia inizia nel 1932, quando il Padiglione Venezia venne costruito su progetto dell’architetto Brenno Del Giudice, come parte della stecca che parte accanto alla rappresentanza dell’Austria e termina accanto a quella della Grecia. Al suo interno trovano ospitalità molte nazioni e al suo centro sta appunto lo spazio dedicato a Venezia, con una planimetria non facile da riempire, connotato com’è da ambienti piccoli e disomogenei. Neppure la revisione del 1938 gli conferì una maggiore capacità espositiva, lasciandovi per esempio un budello dove è difficile avere la giusta distanza dalle opere. D’altra parte, era stato concepito soprattutto perché vi si mostrassero le
produzioni artigianali tipiche della città, in uno spirito dettato dal Fascismo, dal vetro al pizzo alle stoffe, senza pensare dunque a una fruibilità adatta a opere d’arte in senso proprio. Non si trattava, dunque, di un luogo dedicato agli artisti veneziani, i quali già nel 1898 erano stati nominati nel testamento di Felicita Bevilacqua La Masa, proprietaria del palazzo Ca’ Pesaro, perché appunto in quel palazzo potessero essere esposte e vendute le loro opere e ai più indigenti fossero offerti degli atelier. In questo modo la duchessa intendeva sanare le proteste di pittori e scultori veneziani ai quali era preclusa la partecipazione alla Biennale: dalla sua nascita nel 1895, infatti, questa si distinse per un orientamento prettamente internazionale e slegato dalle vicende cittadine. Oltre a questo rifugio, attivo dai primi anni del Novecento e responsabile di avere dato voce agli artisti cosiddetti capesarini, presto i veneziani più arditi incominciarono a influire sulle decisioni della
Biennale stessa: si pensi all’onnipresenza di Vedova e Santomaso, più o meno ufficiale, nei momenti di selezione degli invitati. Nel dopoguerra il padiglione Venezia venne a perdere mordente e lo ritroviamo per molti anni ridotto a sede delle relazioni con la stampa.
Nel frattempo, a partire dagli Anni Duemila, la città ha incominciato a veder crescere un fermento inedito composto da molti fattori: si sono stabilite in città fondazioni private di grande impatto economico, da quella di François Pinault, che occupa Palazzo Grassi e Punta della Dogana, alle Stanze del Vetro, da Ocean Space voluta da Francesca Thyssen Bornemisza fino alla Berggruen Arts and Culture a Palazzo Diedo, aperta con grande dispendio di mezzi lo scorso aprile. Molto hanno fatto anche i più giovani, fondando luoghi con una programmazione continuativa come il centro
S.a.L.E. Docks, ambiti più flessibili come la Casa Punto Croce, gli spazi
I PRIMI FIRMATARI DELLA LETTERA
Alberta Pane gallerista
Alberto Restucci curatore indipendente
Alessandra Luisa Cozzi curatrice, Zolforosso
Augusto Maurandi direttore creativo di Spazio Punch
Aurora Fonda Scuola per curatori Venezia
Benjamin Gallegos Gabilondo architetto studio Supervoid
Carolina Raquel Antich artista
Casa Punto Croce
Chiara Barbieri editoria
Chiara Bertola direttrice di museo
Cosimo Ferrigolo ricercatore e artworker
Cristina Baldacci storica dell’arte
Debra Werblud artista
Edoardo Lazzari curatore indipendente
Enrica Cavarzan designer
Enrico Bettinello curatore
Gabriele Longega artista e membro di Zolforosso
Gaetano Di Gregorio direttore creativo di Spiazzi
della Giudecca dove si accavallano nelle stesse calli studi d’artista, spazi non profit come l’ormai rodato Punch e gallerie private. Tra queste ultime hanno assunto importanza, in città, quelle di Michela Rizzo, di Alberta Pane, di Gorgio Mastinu, di Caterina Tognon o la A+A, aiutando a creare un tessuto attrattivo anche per qualche galleria internazionale: vicino al Teatro La Fenice si è trasferita stabilmente una sede di Victoria Miro e, durante i periodi caldi della Biennale, altri importanti mercanti affittano locali e anche palazzi interi, come ha fatto più volte Hauser & Wirth. Ciò che stupisce di più sono però le iniziative che continuano a nascere senza pompa ma con grande successo, come Microclima che ha dapprima colonizzato la serra dei Giardini, e poi ha inventato un delizioso Cinema Galleggiante. Attorno girano anche registi che vedono in Venezia un luogo dove tornare a lavorare (si è appena aperta una sede collaterale del Centro Sperimentale di Roma), proposte di gastronomia sperimentale come quella di Tocia, rivendite di verdura a chilometro zero come About e altre mille situazioni che, se non sono direttamente legate alle arti visive, certamente vivono nello stesso humus di giovani colti, informati, volenterosi
APERTA DI "VENEZIA C’È"
e avventurosi. Ovviamente l’elenco di coloro che mancano tra chi è nominato qui è lunghissimo e imperdonabile. Una città che si muove così, tra grandi privati e iniziative underground, anche grazie allo sviluppo galoppante di atenei come Ca’ Foscari, Iuav, Accademia di Belle Arti, Conservatorio, Venice International University, è ovvio che desideri potersi vedere riflessa alla Biennale: in fondo resta l’istituzione italiana per le arti più visibile e prestigiosa del Paese. La questione del rispetto del territorio, ora che Ca’ Pesaro si è data altre priorità rispetto alla situazione veneziana, è ritornata attuale e urgente. Visto che questo benedetto Padiglione Venezia esiste, sarebbe bello che le mostre che vi si tengono rispecchiassero la realtà mobile di una Venezia che non muore, malgrado i molti funerali che se ne celebrano. Al Padiglione Venezia, invece, si propongono spesso esposizioni senza mordente e decise con criteri indecifrabili. In diverse occasioni si era visto uno spiraglio di rilancio: nel 2001 fu sede di un commosso omaggio ad Alighiero Boetti, scomparso nel 1994, nel 2007 di nuovo ricordò con vigore Emilio Vedova, morto nel 2006, ci fu un restauro ben fatto nel 2011 e una vivace mostra personale di disegni allestita
Giulia Morucchio curatrice
Lorenzo Mason graphic designer e artista
Luca Pes storico
Lucia Veronesi artista
Manuela Kokanović artista e artworker
Marco Provinciali architetto studio Supervoid
Marco Zavagno designer
Maria Morganti artista
Mariateresa Sartori artista
Marta Girardin artworker presso Spazio Punch
Michela Rizzo galleria Michela Rizzo
Nicola Golea artista
Angela Vettese critica d’arte
Riccardo Vicentini artista e rappresentante legale di Zolforosso
Serena Nono artista
Thomas Braida artista e presidente di Fondazione Maluta
Tiziano Scarpa scrittore
Tommaso Zanini curatore indipendente
dall’architetto Daniel Libeskind nel 2013. Era stato anche avviato un proficuo rapporto con il MAXXI di Roma e il suo premio per giovani. Negli ultimi anni le proposte sono state trascurabili, anche se il sindaco la vede diversamente: all’associazione “Venezia c’è”, che gli ha scritto una lettera certificata, ha risposto solo nell’ambito di un discorso pubblico che il Corriere della Sera ha riportato con queste parole: “”Nessuno si ricordava più del Padiglione Venezia fino a quando sono arrivato e l’ho rilanciato. Ora gli intellettuali vogliono altre regole. Facile salire sul carro del vincitore”. Ma le cose stanno all’esatto opposto: è proprio la serie di mostre promosse recentemente, Artefici del nostro tempo, che ha fatto rimpiangere i pochi ma centrati tentativi passati di chiarirne la funzione.
Il fermento culturale e soprattutto giovanile della città lagunare andrà avanti lo stesso, con o senza un Padiglione Venezia di cui si è quasi sempre fatto a meno
Va detto che mentre tutti gli altri padiglioni, pur poggiando fisicamente su di un terreno municipale, sono gestiti dai diversi Stati (compreso quello italiano attraverso il Ministero della Cultura), il Padiglione Venezia viene gestito dal Comune; e poiché le deleghe per la cultura non fanno riferimento a un assessore specifico, ma sono in capo al sindaco, è a lui che ci si deve rivolgere. L’associazione Venezia c’è, con tutti i suoi firmatari, chiede dunque a Luigi Brugnaro e alle dirigenze coinvolte che prendano in mano la situazione, portandola quantomeno all’attenzione del Consiglio Comunale. Ma da una città in cui non si è nemmeno ritenuto di selezionare un nuovo direttore per i Musei Civici, dopo il pensionamento di Gabriella Belli, cosa ci si può attendere? Il settore Cultura non pare una priorità da seguire con occhio strategico. Il gruppo “Venezia c’è” però procede, e il 25 ottobre ha rivolto al consiglio Comunale una petizione in cui chiede per il Padiglione Venezia “bandi curatoriali annuali, con l’obiettivo di mettersi a livello degli altri padiglioni, rappresentando le eterogenee eccellenze locali e internazionali operanti in città”. Vedremo se, quando e come ci sarà una risposta. Il fermento culturale e soprattutto giovanile della città lagunare andrà avanti lo stesso, del resto, con o senza un Padiglione Venezia di cui si è quasi sempre fatto a meno. Però questo non-dialogo dispiace.
SCRIVERE é PRENDERE APPUNTI. COME RILEGGIAMO IL PASSATO ALLA LUCE DEL PRESENTE
CHRISTIAN CALIANDRO
“Si mescola un vero buio logico al deficit di memoria”
- Aldo Nove, Pulsar (2024)
“And it all stops we were always sure that We would never change and it all stops We were always sure that we Would stay the same but it all stops And we close our eyes to sleep To dream a boy and girl Who dream the world is nothing but a dream”
- The Cure, Alone (2024)
Scrivere è prendere appunti. Il tempo è la soluzione. Il tempo scrive e viene scritto. Scrivere è il tempo. Scrivere con il tempo. (Scrivere il tempo). Endsong, dal nuovo disco dei Cure, Songs of a Lost World: It’s all gone. Left alone with nothing. Nothing. Nothing. Scomparire. Estetica della sparizione: assenza di effetti speciali. Il tempo è l’amarezza. La nostalgia è molto più articolata, e disarticolata, di come la si racconta. Il tempo è la nostalgia. Io che ricordo io. Io e il ricordo; io, il ricordo. (Io oggi + io ieri, i Cure oggi + i Cure ieri.)
Songs of a Lost World: una meditazione ampia sul tempo scomparso, su un mondo svanito. Perduto. I wonder what happened to that boy / and the world he called his own. La sparizione del contesto di riferimento.
Siamo alla fine, siamo nella fine: ma questa fine non è l’esaurimento, non è esaurita – se si sa come raccontarla (e cantarla)
Siamo alla fine, siamo nella fine: ma questa fine non è l’esaurimento, non è esaurita – se si sa come raccontarla (e cantarla). È materia per un intero nuovo mondo (morto) creativo. Paralizzato, congelato, assorto. Imploso. Vivo nella sparizione. Essere-presenti-scomparendo
L L L
Questi anni, in fondo, sono come il buco nero di Interstellar
La particolare dimensione cognitiva/ percettiva di questo presente - “(…) gli anni in cui tutto è diventato virtuale, pure la successione degli equinozi, nel
La tomba di Andy Warhol al Cimitero Bizantino di San Giovanni Battista, Bethel Park, Pennsylvania, Stati Uniti
silenzio delle sparatorie. Un anno non definito, quell’anno, quest’anno, ma che continua a pulsare nelle nostre tempie e non finisce di compiersi del tutto. Prossimo all’adesso con reverenza e brutale pietà” (Aldo Nove, Pulsar, Il Saggiatore, Milano 2024, p. 235) - distorce in maniera significativa non solo la nostra visione e interpretazione del nostro tempo, ma anche degli altri tempi, più o meno recenti. Uno sguardo alla storia dell’arte contemporanea, e ai modi in cui questa storia viene tramandata modificata riarticolata, ci spiega meglio il fenomeno in atto. Dunque, non è che semplicemente l’opera di oggi funziona in maniera radicalmente diversa rispetto a quella di ieri (a causa dei processi in atto, sommati, che nominerò per adesso ). Anche le opere di ieri, la loro comprensione, la loro fruizione (fruizione e comprensione, cioè, del loro funzionamento: di come funzionavano quando sono apparse, e di come funzionano ora) vengono modificate in profondità dall’azione di . Voglio dire che, in base a come ragioniamo e scegliamo e ci comportiamo, ai parametri che abbiamo adottato il nostro pensiero e la nostra azione, dunque in base ai nostri schemi, al nostro framework, Rauschenberg non è più il Rauschenberg degli Anni Cin-
quanta e Sessanta, per esempio; anche Warhol del 2024 è qualcosa di molto, molto diverso da Warhol del 1964 (o del 1984, se è per questo). Per non parlare di Manzoni, di Pascali, di Tinguely, di Benglis, di Bacon, di Duchamp stesso – il quale è stato di fatto attivato/inventato in quanto Duchamp solo pochi anni prima di morire, tra fine Anni Cinquanta e Anni Sessanta, e per quanto lo riguardava non era affatto contento di come proprio gli artisti neo-dadaisti stessero (ri)estetizzando il ready-made, e se avesse visto dove sarebbe stato trasportato lo stesso ready-made negli Anni Ottanta con il simulazionismo di Koons chissà come avrebbe reagito… Cioè, ad essere privilegiati, a venire in primo piano sono certi aspetti delle opere di questi autori, e non altri – in base a quelle che oggi, ora, in questo momento storico sono le nostre priorità (e le nostre fissazioni). In questo processo tettonico di adattamento, scartano significativamente di volta in volta ruolo e posizione dell’opera d’arte contemporanea. Duchamp viene letto attraverso Koons, per così dire, inevitabilmente – e indipendentemente, in realtà, dal fatto che questa operazione avvenga in modo consapevole o inconsapevole.
é TEMPO DI PENSIERI INDISCIPLINATI
ANNA DETHERIDGE
Lo scorso 9 ottobre 2024 nella sede del CNR di Milano nell’Area di ricerca territoriale Milano1, si è tenuto un incontro con gli artisti Andrea Carretto e Raffaella Spagna in partnership con Munlab, l’ecomuseo dell’Argilla di Cambiano, sul tema della “ricerca indisciplinata”, termine coniato dagli artisti per definire il loro approccio metodologico a una ricerca transdisciplinare. Tra i presenti, Elena Carena di Munlab, Alba L’Astorina di CNR, diversi ricercatori del dipartimento e le curatrici del libro Bright Ecologies, Experiences, Forms, Materials, Francesca Comisso, Cecilia Guida e Alessandra Pioselli. Il testo ricco di saggi e immagini raccoglie e sistematizza il lavoro ongoing di oltre vent’anni dei due artisti, pubblicato con il sostegno DGCC del Ministero della Cultura, Italian Council (Viaindustriae, 2024). Si è trattato di un incontro istituzionale “transdisciplinare”, aperto agli studenti e a tutti gli interessati. I diversi percorsi di studio, in scienze biologiche di Andrea Caretto e in architettura di Raffaella Spagna, rappresentano un primo confronto oltre i confini delle rispettive discipline, sul terreno più accogliente dell’arte. Una ricerca che nasce come esplorazione dei luoghi, della Terra come territorio, come paesaggio, suolo, sottosuolo e in seguito come pratica laboratoriale dove ci si chiarisce le idee raccontandole e scambiandole con gli altri.
Oltre vent’anni di lavoro permettono di tracciare un primo bilancio e di evidenziare alcune caratteristiche della loro ricerca, presenti dalla prima ora. Cosa vuol dire percepire il mondo?
Vuol dire – nelle parole di Tim Ingold, antropologo sociale dell’Università di Aberdeen, maître à penser dei due artisti – prestare attenzione più che al significato delle parole, alla presenza fisica di ciò che vediamo/ascoltiamo/ esperiamo in tempo reale.
Prima di ogni altra cosa viene l’ambiente relazionale in cui siamo immersi. La consapevolezza di vivere nello stesso contesto di relazioni dotate di senso, secondo Ingold, costituisce il livello basico della socialità. Perché la musica, le arti, la danza hanno senso per noi? Perché risuonano con l’universo. La parola e il canto sono prima di tutto voce, soffio, respiro, il respiro del mondo.
Le tesi di Tim Ingold costituiscono una critica radicale all’approccio scientifico occidentale, poco empatico a suo dire con il procedere del mondo. La scienza “estrattiva”, sempre più rivolta al futuro, assomiglia a una navicella spaziale impazzita, mentre la Terra dalla quale è partita scompare, sempre più piccola e lontana da noi.
Cosa vuol dire percepire il mondo?
Vuol dire prestare attenzione più che al significato delle parole, alla presenza fisica di ciò che vediamo/ ascoltiamo/esperiamo in tempo reale
Queste tesi conducono verso una ecologia senziente, una conoscenza informale e intuitiva che i popoli hanno dei loro territori, spesso impossibile
da trasmettere al di fuori dei contesti specifici.
Tuttavia uno scetticismo così radicato verso i procedimenti della scienza “occidentale” appare oggi davvero temerario e rischia di relegare ogni conseguente ragionamento a una di quelle anse culturali che rivendicano diritti senza confini e presunte verità senza possibilità di verifica. Le diverse scienze sono sempre criticabili per procedure e assunti, ma un attacco frontale al metodo scientifico tout court è a mio parere controproducente, soprattutto in un mondo oggi minacciato nei suoi equilibri ambientali e dipendente in gran parte da soluzioni che non potranno essere soltanto un ritorno al sapere intuitivo degli antichi. Se troveremo delle soluzioni alcune potranno venire dalle culture dei popoli del mondo e dal loro rapporto
Bright Ecologies
Caretto/ Spagna: Experiences, Forms, Materials, a cura di Giorgina Bertolino, Francesca
Comisso, Cecilia
Guida, Alessandra Pioselli, Viaindustriae
Publishing+les presses du réel, 2024
intuitivo con la Natura, laddove queste popolazioni esistono ancora e non vivano soprattutto nell’immaginario degli antropologi. Ma le principali soluzioni energetiche per 8 miliardi di abitanti dovranno provenire in gran parte da soluzioni fondate sulla ricerca delle comunità scientifiche del mondo (e non solo dell’occidente) auspicabilmente in collaborazione con le comunità locali.
Laddove Ingold parla di intuizione e di poetiche dell’abitare, ci si trova su un altro terreno, quello dell’arte, dell’empatia e degli affetti. L’intuizione, infatti, è innegabilmente alla base delle nostre vite quotidiane, fa parte della biologia umana, spiega le nostre reazioni immediate, per esempio tra l’aggressione e la fuga, che passano attraverso i sensi e soltanto in seguito attraverso la mente. Nell’ambito delle scienze e delle neuroscienze è in atto una rivalutazione degli affetti, delle emozioni e dei sentimenti (ciò che Antonio Damasio chiama feelings proprio come Ingold, ma con una diversa accezione), ai quali oggi vengono riconosciuti una funzione importante.
L’importanza di una visione composita, contestualizzata richiede oggi di recuperare le competenze e la sensibilità dovute all’esperienza all’interno di una cornice scientifica. Già nel 1978 Bruno Latour si poneva la domanda “Come si fa scienza oggi?”. La risposta che si sono dati Latour e Woolgar nel testo Laboratory Life, studiando ciò che succede in un laboratorio è che anche la scienza è un processo “sporco”. Forse un avvicinamento tra scienza e arte potrà dare nuova dignità alla funzione fondamentale dell’intuizione che potrà salvarci da inutili utopie antiscientifiche.
La pratica artistica di Caretto e Spagna è fondamentalmente una sorta di rieducazione al vivere attraverso la frequentazione della Natura, l’abitudine, la conoscenza empirica, i sensi, un processo laboratoriale “sporco” ed esistenziale. Delle vere e proprie “tranche de vie” di processi relazionali vissuti insieme agli altri dagli esiti spesso imprevedibili che acquisiscono senso attraverso la dimensione estetica. La Camminata degli artisti, che non cerca necessariamente sempre
nuovi lidi da conquistare perché potrà scoprirne ovunque, in ogni fessura di una roccia, è già una ricerca estetica consolidata, di grande rinnovamento e che riguarda la nostra percezione del paesaggio.
Forse un avvicinamento tra scienza e arte potrà dare nuova dignità alla funzione fondamentale dell’intuizione che potrà salvarci da inutili utopie antiscientifiche
L’osservazione della vita della materia, la forza dei materiali, l’energia compressa nelle cose pronta a sprigionarsi, ci permette di comprendere come la “rettificazione” di un fiume impoverisca gli ecosistemi fluviali, non per una rinuncia alla fredda osservazione scientifica, ma piuttosto per un’intuitiva osservazione sincronica degli eventi. Il lavoro degli artisti è prezioso perché mette in atto un lavoro di “ecologi sul campo” che pochi oggi praticano. Ossia un’esplorazione della coincidenza degli eventi come una sorta di analogia o corrispondenza tra fenomeni diversi che potrà essere colta soltanto intuitivamente.
Tale intuizione viene narrata nella Céromancie: Sept questions au fleuve Rhône (2011), ossia una conversazione con il fiume Rodano che si avvale dell’antica tecnica divinatoria della ceromanzia. In questo percorso artistico, il metodo divinatorio che utilizza i rituali e l’oracolo rappresenta il rinnovamento di una metafora arcaica che oggi parte dal Cammino come esperienza rituale, “divagando con il corpo”, affiancando creature chthonie, ossia del sottosuolo (alla Haraway), per approdare a una verità che rimane ermetica.
Come scrive Giusi Diana in Bright Ecologies si tratta di un modo di procedere e di pensare per campi relazionali a-causali, utilizzando l’alea ossia un criterio di casualità caro alle avanguardie. Non si tratta tuttavia solo del caso, ma di una sottintesa interdipendenza degli eventi. Il pensare per campi è anche un’esperienza di relazione con altre forme di intelligenza. L’oracolo dà forma all’intuizione, laddove la dimensione estetica dà forza a un’ecologia che rovescia l’inerzia.
Piccoli gesti, secondo Raffaella Spagna, di riattivazione, di re-condivisione nel quotidiano. Come antidoto all’autoannientamento. Pratiche di ricerca, rimesse in circolo per aprire varchi, nuovi ma anche antichi.
RIPORTARE LA VITA NEI LUOGHI DELL'ANTICO
FABRIZIO FEDERICI
estate scorsa alcune storie provenienti dalla Sicilia hanno fatto tornare d’attualità il tema di un uso più ampio e diversificato del patrimonio artistico, nella fattispecie archeologico, ovvero di un utilizzo che vada al di là del momento contemplativo e conoscitivo del bene/sito, per aprirsi alla realizzazione di eventi spettacolari o creativi di vario genere. In particolare, hanno avuto una grande eco le immagini del Tempio di Segesta, interessato da un’installazione tessile di Silvia Scaringella: senza entrare nel merito dell’opera, sorprende l’arco temporale esageratamente lungo (quasi un anno, fino al giugno 2025) in cui l’aspetto del tempio appare alterato in maniera assai significativa. Possiamo immaginare la faccia di chi percorre distanze talora notevolissime per ammirare le maestose colonne doriche e le trova, in parte, fasciate da tessere colorate. Un risalto ancora maggiore l’hanno avuto la notizia e le immagini del doppio concerto agrigentino de Il Volo, anche perché il pubblico presente è stato tenuto a rispettare il bizzarro obbligo di indossare un abbigliamento invernale in una torrida serata estiva, visto che l’evento sarà trasmesso dalla Rai come concerto natalizio.
Occorre pensare, più che in termini di eventi effimeri, a utilizzi che consentano un effettivo reinserimento sociale dell’antico
Si fa presto a indignarsi: “oh no, Il Volo, non ci piace, non è uno spettacolo degno di un luogo tanto sublime”. Ma la faccenda non può essere naturalmente ridotta a una questione di gusti personali e di patenti di dignità che alcuni vanterebbero e altri no. Ben diversi sono i criteri che dovrebbero guidare il nostro operare in aree ad alta valenza patrimoniale, nel caso di eventi spettacolari come in quello di installazioni artistiche. Innanzitutto, come sempre, il criterio della più rigorosa tutela del bene storico: criterio che, in occasione del concerto dei tre tenorini, non sembra essere stato a pieno rispettato, a giudicare dal video delle pesanti casse trasportate all’interno del Tempio della Concordia, con il grosso ri-
schio di danneggiare le antichissime pietre di scalini e pavimentazione. Non meno importante un altro punto: occorre pensare, più che in termini di eventi effimeri, a utilizzi che consentano un effettivo reinserimento sociale dell’antico, che riscattino monumenti e siti da una sorta di limbo (molto simile all’oblio) e portino la cittadinanza a vedere di nuovo quei luoghi e a frequentarli. Il riferimento non è tanto a siti molto visitati come i templi di Segesta ed Agrigento, ancora, almeno in parte, circondati da un paesaggio agreste, e che ancora possono beneficiare di un approccio contemplativo, emotivo, romantico; ma piuttosto a quelle testimonianze dell’antichità che sono sì immerse nella società contemporanea, ma solo materialmente e non effettivamente, né affettivamente, calate quindi nel tessuto edilizio moderno che le ingloba e quasi le soffoca, ma di fatto ignorate. Penso ad esempio a tante costruzioni e rovine antiche che si elevano nella città di Roma, all’interno e soprattutto all’esterno del circuito delle Mura Aureliane, su cui ha richiamato l’attenzione l’archeologa Andreina Ricci, in particolare nel pamphlet Attorno alla nuda pietra (2006). Un recupero concreto, ma anche
percettivo di questi beni non può passare che attraverso un loro sfaccettato riuso, anche mediante, se è il caso, interventi architettonici, che ne consentano un utilizzo consapevole e condiviso da parte dei cittadini.
Se quanto sin qui esposto vale innanzitutto per antichità che sono state quasi dimenticate, un discorso analogo può essere fatto anche per la superstar dei beni archeologici italiani. Nell’ottica del reinserimento sociale dell’antico non può che essere accolto con favore il progetto della nuova copertura calpestabile dei sotterranei dell’Anfiteatro Flavio, per gli amici la nuova arena del Colosseo. Un progetto lanciato dal ministro Franceschini nel 2014 e che – lentamente, a dire il vero – avanza verso la messa in pratica: la copertura garantirà una migliore tutela del monumento, proteggendone le viscere, ora assurdamente esposte alle intemperie, e consentirà una più completa fruizione e una più agile lettura dell’edificio da parte del pubblico. Non mancheranno gli eventi e i concerti: e se il prezzo da pagare è quello di vedere esibirsi anche lì Il Volo, magari all’interno di un cartellone che preveda anche appuntamenti di tutt’altro genere, è un prezzo che siamo disposti a pagare.
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UNA COLLEZIONE DI SABBIA
MARCO SENALDI
La scomparsa di Alain Delon lo scorso agosto, oltre ad averci privato di uno fra gli ultimi divi storici del cinema, ha messo in rilievo un lato poco noto della sua personalità, cioè quello di collezionista. L’impulso a collezionare, del resto, fa parte dell’uomo, fin da quando esiste una vita sociale. Ne sono testimonianza le suppellettili funerarie che, a partire dal Neolitico, venivano inumate insieme al defunto, definendone lo status e il rango. La stessa mente umana non accatasta casualmente gli oggetti, ma è strutturalmente portata a dar loro un ordine, una distribuzione, un sistema e, insomma, un senso. Un esempio è fornito da Julio Cortàzar in quel fantasmagorico “libro di tutti i libri possibili” che è Il gioco del mondo (Rayuela, 1963), in cui ad un certo punto il personaggio Ceferino arriva a sostenere che tutto il mondo potrebbe essere considerato dal punto di vista della “collezione”: infatti, “un ufficio, non è che una collezione di funzionari; una scuola, una collezione di alunni, un cimitero, una collezione di cadaveri; una prigione, una collezione di detenuti”.
Una collezione non solo sopravvive a chi l’ha realizzata, ma può trasformarsi in un vero e proprio zombie
Questo passaggio però fa sospettare che in una collezione può finire collezionato anche il collezionista, e infatti è ciò che accade nei film dedicati allo stesso tema. È impossibile non ricordare esempi celebri che vanno da La collezionista di Eric Rohmer (La collectionneuse, 1967), a titoli noir, come Il collezionista di ossa (The Bone Collector, Philip Noyce, 1999). Uno dei film sul tema tra i più riusciti, cioè La migliore offerta di Giuseppe Tornatore (2013), mostra esattamente questo lato paradossale della collezione che finisce coll’imprigionare il collezionista in una trappola micidiale, cioè quella del suo stesso desiderio di possesso. Qualcosa di analogo si verifica nei diversi documentari che, soprattutto negli ultimi anni, sono stati dedicati alle storiche figure di autentici collezioni-
Geoffrey Rush ne La migliore offerta di Giuseppe Tornatore, 2013
sti, a partire dalla “dogaressa” Peggy Guggenheim, (Peggy Guggenheim. Art Addict, Lisa Immordino Vreeland, 2015), fino ai coniugi newyorkesi Vogel, protagonisti di Herb & Dorothy di Megumi Sasaki, 2009, o più recentemente i coniugi Spanu proprietari della Olnick Spanu Collection (Garrison. A Postcard from Paradise, di A.G. Onofri, 2010) per arrivare a figure leggendarie come Albert C. Barnes (18721951), fantasma aleggiante su The Art of the Steal di Don Argott, 2009.
Il caso di Barnes è però del tutto particolare in questo senso. Che cosa accade quando il collezionista muore e deve per forza maggiore abbandonare la collezione al suo destino (era un pensiero che attanagliava lo stesso Delon, che infatti vendette personalmente parte della sua collezione nel 1999 e nel 2007)? La risposta di The Art of the Steal sembra dire che molto dipende dall’ammontare del valore della collezione stessa, sia in senso economico che sociale – e il valore della collezione Barnes (si parla di 25 miliardi di dollari) è davvero grande. La storia di Albert C. Barnes, farmacista ma anche valente businessman, amico di personaggi come Bertrand Russell e John Dewey, è già romanzesca di per sé – e non a caso è divenuta
il soggetto di un altro documentario per HBO, The Collector (Jeff Folmsbee, 2012). Ciò che però il film di Don Argott dimostra è che, nonostante le precise indicazioni testamentarie di Barnes, tra cui il fatto che non dovesse mai essere trasferita, la sua collezione, originariamente collocata nel piccolo borgo di Merion, venne spostata nel 2004 in un moderno edificio nel cuore di Philadelphia, sollevando polemiche tra gli amici della Fondazione, la popolazione di Merion e gli attuali responsabili, accusati di voler speculare sull’enorme valore della collezione, che conta oltre 9mila pezzi, “ribrandizzata” (abusivamente?) come Frances M. Maguire Art Museum, che ha aperto i battenti lo scorso 2023.
La lezione da trarre da questo caso è che una collezione non solo sopravvive a chi l’ha realizzata, ma può trasformarsi in un vero e proprio zombie, un morto-vivente che continua a suscitare le più disparate reazioni, dall’ossessione al desiderio, dalla cupidigia all’aggressività. In altre parole, una collezione è un vero dispositivo culturale, ma anche politico ed è precisamente per questa ragione che essa suscita l’interesse dei registi. E talvolta anche degli attori.
Miami Beach Convention Center
December 6 - 8, 2024
Calida Rawles, Thy Name
Praise 2023.
the artist and Lehmann Maupin.
Calida Rawles
tina modotti
l’opera
la retrospettiva completa di una delle maggiori fotografe del ventesimo secolo
16 ottobre 2024 2 febbraio 2025 CAMERA torino via delle rosine, 18
Tina Modotti, Donna con bandiera, Messico, 1928. Archivi Cinemazero Images, Pordenone