Grandi Mostre #20

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IN APERTURA

Andrea Mantegna. Fra antico e moderno di Federica Maria Giallombardo

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ndrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 ‒ Mantova, 1506), artista cardine dell’Umanesimo, è sbarcato al Palazzo Madama di Torino. Abbiamo visitato la mostra con la curatrice Sandrina Bandera che, insieme al curatore Howard Burns e al consultant curator Vincenzo Farinella, ha permesso a un corpus ampio e complesso di capolavori e testimonianze di rappresentare perfettamente il fiorente clima culturale di cui è intrisa la biografia dell’artista. La ricercata selezione e il raffinato percorso espositivo esaltano alcune caratteristiche di Mantegna qui riassunte in quattro punti.

fino al 4 maggio

1. I MAESTRI E I MODELLI antegna fu allievo del pittore Francesco M Squarcione, a Padova, per sei anni. Il metodo di insegnamento di Squarcione consisteva nel far copiare ai suoi allievi disegni raccolti nella propria collezione di arte romana imperiale. A metà tra il gotico e il classico, educava alla composizione e alla resa dei volumi partendo da statue e rilievi antichi – probabilmente di gesso, a modello degli originali, come scrive Vasari nelle Vite. Tale formazione ha reso Mantegna “uno scultore in pittura” (Ulisse degli Aleotti). Ma non solo. Come afferma Bandera: “La bottega di Squarcione era frequentata da docenti dell’Università di Padova, che era un fervido centro accademico per i cultori della matematica e della filosofia aristotelica. Padova raccoglieva le personalità più brillanti d’Europa: un esempio è Donatello, che da Firenze arriva in città nel ’43. Mantegna è perciò entrato in rapporto con gli umanisti più importanti dell’epoca”. Nonostante l’impostazione squarcionesca, Mantegna è riuscito quindi a captare riferimenti e influenze differenti dalla mera osservazione dei modelli classici: da Donatello apprese la forza dell’antico interpretata in termini di naturalismo e la prospettiva, a sua volta tradotta da Leon Battista Alberti; da Paolo Uccello derivò la sua attenzione alle novità del Gotico Internazionale; di Andrea del Castagno (uno dei protagonisti della pittura fiorentina del XV secolo insieme a Beato Angelico, Filippo Lippi e Domenico Veneziano) studiò il chiaroscuro espressivo e drammatizzante. Tutto ciò si amalgama e fiorisce al meglio nella personale sintesi di Mantegna.

ANDREA MANTEGNA. Rivivere l’antico, costruire il moderno

a cura di Sandrina Bandera e Howard Burns con Vincenzo Farinella Catalogo Marsilio Editori PALAZZO MADAMA Piazza Castello – Torino 011 0881178 palazzomadamatorino.it

in alto:

© Maurizio Ceccato per Grandi Mostre Andrea Mantegna, Madonna con il Bambino e un coro di cherubini (part.), 1485 ca. Pinacoteca di Brera, Milano a destra:

2. I LEGAMI CON IL POTERE antegna è stato un fuoriclasse amato in M contesti eterogenei. Dall’ambiente ferrarese di Lionello e Borso d’Este a ben tre generazioni di Gonzaga, l’artista ha saputo accontentare potenti dal calibro europeo senza mai piegarsi, istituendo con loro un dialogo alla pari. Sembra ovvio, oggi, ma ai tempi artista e committente spesso nemmeno si incontravano: “Gli Sforza, ad esempio, seguivano un approccio ancora ‘tardo gotico’: per parlare con gli artisti avevano il gadio, architetto che svolgeva la funzione di intermediario tra artista e committente. I Gonzaga, invece, addirittura disegnavano insieme agli artisti e compravano i colori per i loro pittori! Sono rimaste delle lettere dove Ludovico

Gonzaga chiede personalmente la calcina per conto di ‘maestro Andrea’. La figura dell’artista era elevata così alla stregua di quella di un capo politico”, sottolinea la curatrice. Riguardo ai Gonzaga, Mantegna si era trasferito a Mantova e aveva assorbito l’ambiente culturale dei suoi signori, arricchendosi di privilegi e prestigio sociale. “Questo clima era merito dell’educazione umanista impartita a Ludovico Gonzaga, che aveva frequentato la scuola mantovana di Vittorino da Feltre. I ‘compagni di classe’ erano personalità quali Federico da Montefeltro e Gregorio Correr. Ludovico era un uomo intelligente che si era circondato di intellettuali e artisti importanti (uno tra i tanti, Leon Battista Alberti); era un mecenate tra le città che diventeranno le più importanti del Rinascimento (merito anche dei suoi legami politici, come l’alleanza con Cosimo de’ Medici). Mantegna ha vissuto in questa rete che collegava gli Stati, al di là delle differenze politiche. La scrittura diffondeva idee e informazioni: Mantegna sapeva interloquire vantaggiosamente con l’Italia dei letterati, poiché la sua erudizione era fervida e aggiornata”. Dei ritratti in mostra, il più affascinante è sicuramente quello del Cardinale Ludovico Trevisan (1459-60 ca.). Il veneziano Trevisan fu medico, cardinale e camerlengo, ma anche capo militare: aveva infatti guidato le truppe papali alla vittoria contro i milanesi ad Anghiari nel 1440. Il ritratto fu realizzato in concomitanza con il Concilio di Mantova (la famosa “Dieta di Mantova”, in cui Pio II chiese fondi per intraprendere una nuova crociata contro i turchi), momento che consacrò non solo Trevisan, ma anche la città di Mantova quale centro nevralgico della politica europea. Mantegna rappresenta il personaggio in abiti religiosi; ma lo sguardo severo e la posa di tre quarti – e non di profilo come era l’uso del tempo – permettono di compararlo ai busti antichi dei condottieri romani. La posa e l’“intenzione” del ritratto di Trevisan sono una novità nel Quattrocento, anticipata solamente dal Ritratto d’uomo di Andrea del Castagno (1450-57 ca.). La figura appare universalmente leggibile e interpretabile grazie all’immagine squadrata del busto antico. Mantegna sottrae il soggetto dall’hic et nunc e lo eleva attraverso il valore universale dell’antico e della forma architettonica. Così il gusto per l’inattuale, in Mantegna, diventa attualissimo. Perciò il ritratto è l’opera preferita da Bandera: “Questa opera mi parla. Se chiudo gli occhi, ricordo i suoi tratti alla perfezione: Mantegna è riuscito a dare un senso di astrazione, di ideale fisionomico. Era un uomo di potere immortalato nell’atto di prendere una decisione: grazie a Mantegna, è un potente che abbraccia la libertà, perché rimarrà per sempre sul punto di compiere una scelta”.


IN APERTURA

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3. LA PERSONALITÀ el catalogo un’intera sezione è dediN cata alla personalità carismatica di Mantegna. Oltre alle lettere, sono interessanti i pareri e gli elogi dei letterati che lo hanno celebrato. Ariosto sottolinea la grandezza di Mantegna, pari a quella degli antichi: il poeta si sente addirittura in competizione con il pittore, sostenendo però che lui, a differenza di Mantegna, può con la sua scrittura “dipingere il futuro”. Nell’Arcadia, Sannazaro elogia il carattere “ingegnosissimo” dell’artista; Marco Businello ricorda Mantegna e Donatello come gli artisti più illustri della Storia dell’umanità; Ulisse Aleotti gli dedica alcune delle sue più eleganti terzine (La mano industriosa et l’alto ingegno, / l’immagine raccolta nel concepto / scolpì in pictura propria vita et vera) e Filippo Nuvoloni scrive che Mantegna è capace di riprodurre in terra le immagini perfette concepite nel cielo, copiando le parole che aveva scritto Petrarca in lode a Simone Martini nel Canzoniere. Mantegna è definito “incomparabile” dal poeta Feliciano; infine, Panfilo Sasso lo paragona a un moderno Pigmalione, ovvero a un artista che convince Dio a dare vita alle sue opere, in una sorta di incarnazione-sperimentazione ai limiti estremi.

Andrea Mantegna nasce nei pressi di Padova, a Isola di Carturo (dal 1963 chiamata Isola Mantegna in suo onore)

1442

Si iscrive alla fraglia dei pittori padovani con l’appellativo di “fiiulo” di Squarcione, suo primo maestro

1448

Intraprende la sua carriera in autonomia

1449

Si reca a Ferrara per prestare servizio presso la corte di Leonello d’Este

1457

Riceve la commissione per il Polittico di San Zeno per la chiesa del santo a Verona

1460

Diventa ufficialmente artista di corte a Mantova, presso la famiglia dei Gonzaga

1465

Mantegna inizia la celeberrima Camera degli Sposi, terminata nel 1474

1488

Si reca a Roma presso il papa Innocenzo VIII. Di questo periodo è la Madonna delle Cave, oggi agli Uffizi

1496

Mantegna torna a Mantova, dove dipinge la Madonna della Vittoria

1506

Muore a Mantova il 13 settembre, a 75 anni

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4. INCISIONI E DISEGNI o sappiamo: la maggior parte dei non ai lavori (e anche molti di essi) L addetti passa distrattamente le sezioni di una mostra dedicate a testimonianze manoscritte et similia. Non è una colpa: spesso è difficile decifrare i testi esposti, leggerli e di conseguenza capirli e apprezzarli. In questa occasione, però, la selezione degli esemplari non può non appassionare l’osservatore: “Gli scritti di Mantegna mostrano un uomo educato e affabile che intesse influenti rapporti; due lettere esposte, ad esempio, lo legano a Lorenzo il Magnifico. Colpisce la bella scrittura in calligrafia umanistica, come nello stile degli intellettuali di corte. Abbiamo voluto dare risalto alle lettere per inserire il concetto di un genere molto amato dagli umanisti, ovvero il genere epistolare (di cui è capostipite Petrarca)”, fa notare Bandera. Inoltre, la naturale attrazione nei confronti delle incisioni di Mantegna deriva dal fatto che è possibile notarne un gesto paradigmatico e rassicurante: del nostro immaginario vi troviamo le peculiarità delle miniature medievali, il senso del mostruoso e del mastodontico; ma anche la stasi e l’ideale della misura classica. Un tratto sul filo dell’antico che si affaccia sul moderno. E non è un caso che uno dei suoi più grandi ammiratori fosse Albrecht Dürer: l’incisore tedesco aveva perfino organizzato un viaggio a Mantova apposta per conoscere il suo idolo. Purtroppo Mantegna morì prima che l’itinerario si compisse e quando Dürer lo venne a sapere affermò che era “il giorno più triste” della sua vita.


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OPINIONI

Quando la cultura brucia Antonio Arévalo poeta e curatore

opo 70 giorni di cortei, D i numeri che arrivano dal Cile sono da brivido: dal 18 ottobre, giorno dell’inizio della protesta, finora sono stati confermati 26 decessi, principalmente associati a incendi (12 casi), scontri tra cittadini (7 casi) o scontri con i militari (4 casi); oltre 3500 persone ferite, 359 rimaste senza vista a causa dei proiettili di gomma sparati direttamente in faccia dai soldati, circa quindicimila arresti ufficiali, violenze sessuali, a cui vanno aggiunte voci non confermate di numerosi desaparecidos. Il Cile è uno degli stati più ricchi del Sudamerica, ma è anche uno di quelli con le maggiori diseguaglianze sociali. Il salario base sfiora i 366 euro mentre la pensione minima è di circa 140 euro al mese. I prezzi delle medicine sono i più alti del continente, le multinazionali hanno il controllo su tutto. Le telecomunicazioni, le farmacie, i supermercati, la sanità pubblica, l’istruzione e perfino l’acqua sono stati privatizzati. Il rancore verso la classe dirigente qui cova da anni. La gente si è stufata e per questo scende in piazza. UNA ROTTURA GENERAZIONALE

Il 25 ottobre 2019 sarà ricordato nella storia del Paese per la “più grande marcia in Cile”, i manifestanti sono scesi in piazza, sfidando le forze di sicurezza. Un milione di persone a Santiago e oltre quattro milioni in tutto il Cile, che manifestano contro la repressione da parte delle forze militari e contro le politiche del presidente Sebastián Piñera. È una rottura generazionale. Una nuova generazione che vuole vincere! Il presidente, irresponsabilmente, ha fatto uscire i militari dalle loro caserme; per giustificare una iniziativa così drastica, ha parlato di “stato di guerra”. Ma guerra contro chi? Forse contro di lui. Abbiamo ferite ancora aperte, riportare le forze armate per le strade del Cile è profondamente doloroso. In questi stessi giorni abbiamo visto tutti il fenomeno mondiale e l’agitazione che ha causato la performance Un violador en tu camino del collettivo Las tesis, un gruppo

di quattro donne, due attrici, una storica e un’artista visiva che affermano di aver scelto quel nome perché usa le teorie del femminismo e le “traduce” nel linguaggio artistico / performativo, diffondendole. Il suo impatto è stato globale perché gli stati sono risultati deboli nel legiferare e condannare ciò che non è sempre stato considerato un crimine. IL CENTRO CULTURALE CINEMA ARTE ALAMEDA

Lo scorso venerdì la violenza è fuggita di nuovo al controllo e gli eccessi della polizia hanno causato una nuova vittima, il Centro Arte Alameda. Il Centro Culturale Cinema Arte Alameda nacque nel 1992, la sua direttrice Roser Fort è riuscita a consolidare il Centro nel circuito dei teatri d’arte a livello nazionale e a renderlo parte attiva della rete dei cinema del Cile. Spazio storico di Santiago, situato a pochi passi da Piazza Baquedano o Piazza Italia, nominata dalle masse protestanti Piazza della Dignidad. Fin dalla sua istituzione, offre il meglio del cinema d’arte nazionale e internazionale, scommettendo su produzioni indipendenti, straniere e LGBT+. Concerti e altre esibizioni dal vivo vengono eseguiti nella sala principale. L’incidente iniziato con il lancio di una bomba lacrimogena dai Carabineros in questo luogo è diventato simbolo dell’insurrezione sociale, perché ha funzionato anche come centro assistenza e di cura per i feriti che manifestavano. Oggi, come dice il giornalista Eugenio Llona, conosciamo l’infamia dei cretini e degli ignoranti che si rallegrano della sua distruzione, se potessero brucerebbero di nuovo libri, film, video. Non è storia passata, è una minaccia latente. Il rogo del Centro Arte Alameda è un fatto contro ciò che il Potere teme maggiormente: consapevolezza critica, intelligenza, immaginazione, identità e cultura.

Repetita iuvant? Antonio Natali storico dell’arte

talia Nostra’ s’è generosamente spesa per evitare che l’Uomo vitruviano di Leonardo travalicasse i confini nazionali per essere esibito alla mostra dedicata dal Louvre al Vinci. Molti, come me (che n’ho scritto su queste pagine), hanno sostenuto la battaglia dell’Associazione, anche nella speranza che fosse la volta buona per mettere finalmente alcuni punti fermi sulla normativa che regola i prestiti d’opere all’estero. In più occasioni m’è occorso di richiamare l’articolo 66 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (non d’epoca fascista, dunque, ma d’una quindicina appena d’anni fa). Articolo ch’è stato evocato anche nell’ordinanza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (16 ottobre 2019), che però revocava la sospensione della trasferta del disegno a Parigi sentenziata pochi giorni prima dallo stesso Tar del Veneto (8 ottobre 2019).

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CONCESSIONI E MARCE INDIETRO

Di quell’articolo il secondo decreto del Tar citava il comma 2a, quello cioè che vieta “l’uscita temporanea dal territorio della Repubblica” dei “beni suscettibili di subire danni nel trasporto o nella permanenza in condizioni ambientali sfavorevoli”: comma che, a giudizio del Tar, non sarebbe stato violato con la concessione del prestito. In margine annoto che quello stesso comma fu giustamente enunciato dal legislatore, ma che nella prassi dovrebbe suonare superfluo, giacché impone un contegno che per un funzionario storico dell’arte è fra quelli più elementari quando sia chiamato a pronunciarsi riguardo alla concessione d’un prestito: legge o non legge, le prime cose di cui un funzionario si dovrebbe sincerare (subito dopo aver verificato lo stato di conservazione dell’opera) sono la sicurezza del trasporto e le condizioni ambientali del luogo in cui essa sarà esposta. Superflua invece non è (ma mi pare che ancora una volta sia stata elusa) la prescrizione sancita nel successivo comma 2b, che vieta l’esportazione fuori dal territorio nazionale di quei “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica

sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. In un primo momento il Tar del Veneto aveva sospeso la trasferta in Francia dell’Uomo vitruviano, ma n’era immediatamente seguìta quella retromarcia che ognuno, conoscendo le dinamiche italiane, dava per scontata. Il prestito ha così avuto anche la legittimazione giuridica; che, calando pesante sulla questione, è risuonata come una marmorea lastra tombale sulla gestione dei prestiti all’estero. INTERPRETARE LA LEGGE

Stando all’ordinanza in oggetto, l’Uomo vitruviano non è evidentemente parte del “fondo principale” della collezione di disegni delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Verrà allora naturale indovinare che la stessa interpretazione della legge sia sottesa alla concessione del prestito del celeberrimo disegno 8P degli Uffizi alla medesima mostra parigina. Qualche domanda però bisognerà farsela. È o non è questo foglio uno dei più ragguardevoli dell’intero corpus grafico vinciano? Prima di darsi una risposta si dovrà considerare che Leonardo di pugno suo ne scrisse – a sinistra, vicino al margine superiore del recto – la data d’esecuzione (5 agosto 1473) e parimenti si dovrà tener conto che la letteratura critica lo reputa a buon diritto il primo paesaggio dal vero di tutta l’arte occidentale (nella fattispecie, a mio avviso, la veduta dal colle di Belvedere della piana fra lo sprone col castello di Montevettolini e il grande gibbo di Monsummano). E allora, ecco la seconda e conseguente domanda: è o non è, questo foglio, uno dei vertici del “fondo principale” del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi? Se queste prerogative non bastassero a inibirne l’esportazione temporanea dall’Italia, si specifichi allora quali siano quelle necessarie a un’opera perché ricada sotto l’articolo di legge che s’è menzionato. Altrimenti si dica con chiarezza che il Ministro, prescindendo dalla legge, decide di volta in volta cosa a suo giudizio sia conveniente prestare in terra straniera. La civiltà d’un Paese vorrebbe che una legge si cambiasse quando non si reputi adeguata. Cambiare una legge si può; aggirarla per trasgredirla, no.


OPINIONI

Musei: da piccoli a smart Stefano Monti economista della cultura

on molti giorni fa, in N Commissione Bilancio al Senato, è stato approvato un emendamento che istituisce il Fondo per il funzionamento dei piccoli musei, con una dotazione di 2 milioni di euro annui a decorrere dal 2020. Più nel dettaglio, la dotazione finanziaria è destinata, si legge dai comunicati stampa, a garantire il funzionamento, la manutenzione ordinaria e la continuità nella fruizione per i visitatori nonché l’abbattimento delle barriere architettoniche. Un’iniziativa che potrebbe rivelarsi importante per l’intera struttura museale nazionale, purché condotta secondo una visione strategica che non si limiti a rispondere alle semplici “emergenze”. È sicuramente importante, infatti, garantire che i piccoli musei possano mostrare continuità negli orari di apertura ed essere accessibili, sia in termini architettonici che in termini di “orari” fruitivi. Ma avere degli orari di apertura è pur sempre uno strumento, non certo un obiettivo. Immaginare il Fondo come un semplice borsellino aggiuntivo per poter assumere risorse precarie da impiegare per l’apertura dei musei è forse il peggiore utilizzo che si possa fare di queste risorse pubbliche. Perché avere dei musei vuoti per più ore a settimana non è di grande utilità pubblica. Così come non è sufficiente poter abbattere le barriere architettoniche, perché accessibile non significa di appeal. Garantire il funzionamento deve voler dire garantire che il piccolo museo possa attrarre abbastanza visitatori durante gli orari di apertura, così da poter tenere fede ai propri obiettivi statutari. PAROLA D’ORDINE: ADATTAMENTO

Esistono numerose direttrici che è possibile intraprendere. Una di queste, sicuramente non abbastanza “indagata” nel nostro Paese, prende spunto dai processi di adattamento che le micro-piccole e medie imprese (MPMI) hanno avuto nel nostro sistema economico. Del resto, le MPMI condividono spesso le stesse criticità dei piccoli musei: poco personale, poche risorse economiche per poter attivare

processi di comunicazione e valorizzazione dei propri clienti, bassa “capitalizzazione”. Come hanno operato, dunque, le MPMI per resistere alla concorrenza dei giganti del settore? Hanno fatto della loro dimensione un punto di forza. Si sono trasformate, spesso anche in modo inconsapevole, da “piccola impresa” a “impresa agile”, per poi divenire “impresa smart”. I piccoli musei potrebbero seguire la medesima traiettoria di adattamento, adottando strategie che possano favorire l’afflusso di visitatori e che, al contempo, possano anche svolgere un ruolo di “sviluppo” all’interno del più vasto sistema museale italiano. Una delle grandi debolezze sistemiche del nostro tessuto museale è infatti la scarsa inclinazione all’innovazione. Ci sono varie ragioni che determinano questo attrito. Tra queste, l’aspetto dimensionale dei musei riveste un ruolo importante. IL POTENZIALE DEI PICCOLI MUSEI

Finora i tentativi di innovazione hanno riguardato principalmente i grandi musei, ma questi presentano almeno due ordini di problematiche: la prima è la dimensione organizzativa e amministrativa, che spesso rischia di arginare la portata innovativa di progetti sperimentali con un atteggiamento alle volte più burocratico che costruttivo. Dall’altro, la grande dimensione implica anche una grande responsabilità: l’innovazione si accompagna sempre a una certa dose di rischio e, per i grandi musei, il rischio alle volte è troppo grande. Cosa succederebbe se un progetto innovativo bloccasse gli ingressi al Colosseo? È qui che i piccoli musei possono giocare un ruolo centrale: incubatori di tecnologia, laboratori di nuove forme di fruizione, che implementino aspetti tecnologici a elevato tasso di innovatività. Interventi di questo tipo potrebbero sollecitare interesse nelle categorie di “visitatori potenziali” e, nel frattempo, favorire l’adozione di progetti innovativi anche nei cosiddetti grandi musei, con beneficio generale per l’intera collettività. Non si tratta di sola tecnologia, ma di approccio strategico. L’obiettivo non è fare in modo che per i visitatori sia facile avere accesso al museo. L’obiettivo è che i visitatori vogliano avere accesso al museo.

Di anno in anno: da Leonardo, a Raffaello Fabrizio Federici storico dell'arte

Anno Leonardiano ce lo siamo (finalmente?) lasciato alle spalle. Protagonista (mancato) dei dodici mesi consacrati al genio di Vinci è stato quel Salvator Mundi che, dopo aver fatto scalpore al momento del suo acquisto da parte degli Emirati Arabi, nel 2017, si è gradualmente ritirato dalle scene, a indicare che la sua autografia è tutt’altro che pacificamente accolta. Si diceva che il dipinto dovesse rispuntare fuori alla rassegna parigina su Leonardo; invece nulla, e in mostra ha fatto le sue veci una versione di bottega non tanto esaltante. Per un feticcio che stenta ad affermarsi come tale, un altro, anzi il feticcio dei feticci, che consolida il suo dominio: emblematica dello strapotere della Gioconda è stata la vicenda del suo temporaneo spostamento nella sala del Louvre che accoglie il ciclo di Maria de’ Medici di Rubens. In barba al fatto che anche le tele seicentesche sono opere capitali e celeberrime, e che, costituendo per l’appunto un ciclo, andrebbero viste tutte insieme, una di seguito all’altra, la teca con la Monna Lisa è stata quasi addossata a due dei dipinti rubensiani, rendendone praticamente impossibile la fruizione. Poco dopo è arrivata la proposta provocatoria (ma neanche tanto) del critico del New York Times Jason Farago: se vuole sopravvivere all’assalto degli idolatri, il Louvre deve rimuovere il feticcio e dedicargli uno spazio esclusivo, in un padiglione esterno all’edificio del museo.

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ATTRIBUZIONI STRAMPALATE E DINTORNI

Non sono mancate, naturalmente, le attribuzioni strampalate. Una bufala clamorosa, che per fortuna sembra essersi eclissata con la rapidità con cui ha fatto il giro del mondo, ha riguardato un ritratto risalente al Cinquecento inoltrato del castello di Valençay, nella Loira, spacciato per un’effigie di Nicolò Machiavelli dipinta da Leonardo da Vinci: quando invece l’opera non c’entra nulla né con l’uno né con l’altro. Al di qua delle Alpi si sono viste cose belle e cose brutte. Tra le seconde una rabbiosa

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Giorgia Meloni che, con tanto di striscione, rivendica l’italianità di Leonardo. Molti hanno ribattuto che nel Rinascimento “l’Italia nemmeno esisteva”; ma è una risposta fuorviante. Anche se la Penisola non era unificata, una “identità” italiana, un comune senso di appartenenza esisteva eccome, tra gli intellettuali: Leonardo avrebbe potuto cantare, parafrasando Gaber, “Io mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo non lo sono”. Il punto è un altro. Che non ha senso, ed è anzi pericoloso, sfruttare figure di portata universale per aizzare sentimenti nazionalistici e per un basso tornaconto di visibilità politica. Indipendentemente da dove sono nati (e comunque Leonardo trascorse un periodo significativo della sua esistenza oltralpe). Di fronte all’errore del conduttore di France 2, che, lanciando un servizio su Leonardo, lo ha definito “genio francese”, sarebbe stato meglio fare spallucce e dedicarsi a diffondere la conoscenza di un artista che molti tirano per la giacchetta, senza tuttavia conoscerne adeguatamente l’opera. GLI EVENTI DA RICORDARE

Tra le iniziative meritorie vanno menzionate almeno la mostra dell’Ambrosiana dedicata alla grafica, quella su Verrocchio a Palazzo Strozzi (che ha avuto il merito di ricordare che Leonardo non è un genio isolato, ma un personaggio profondamente calato nel suo tempo, allievo di un artista sommo) e l’apertura delle spettacolari Nuove Gallerie consacrate al Vinciano presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia di Milano. Il testimone passa ora a Raffaello: al di là di come la si pensi sulle megamostre-evento, la rassegna in programma alle Scuderie del Quirinale lascia a bocca aperta, per il numero e la qualità delle opere. E chissà che nel 2020, dopo un Caravaggio (dubbio) ritrovato in soffitta e un Cimabue appeso in cucina, non salti fuori, da un garage o da una rimessa per gli attrezzi, un capolavoro del gigante di Urbino.


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FOTOGRAFIA

Le metropoli di Gabriele Basilico di Arianna Testino

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l legame tra Gabriele Basilico (Milano, 1944-2013) e l’ambiente urbano è stato un tratto distintivo del suo fare fotografia, sviluppato nel corso dei decenni attraverso viaggi – e punti di vista – che ne hanno forgiato il linguaggio. La mostra allestita al Palazzo delle Esposizioni di Roma approfondisce questo tema, riunendo oltre 250 opere realizzate nelle metropoli del pianeta. Abbiamo chiesto ai curatori Filippo Maggia e Giovanna Calvenzi – quest’ultima anche responsabile dell’Archivio Gabriele Basilico nonché compagna di vita del fotografo – e ad Alberto Saibene – co-fondatore insieme a Giovanna Silva della casa editrice Humboldt Books – di raccontare il “loro” Gabriele Basilico. Mescolando ricordi privati e lavoro sul campo.

fino al 13 aprile

GABRIELE BASILICO Metropoli a cura di Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia Catalogo Skira PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI Via Nazionale 194 – Roma 06 39967500 palazzoesposizioni.it

a destra: Gabriele Basilico, Milano ritratti di fabbriche, 1978 © Archivio Gabriele Basilico

I viaggi di Gabriele Basilico 1 1969 GLASGOW

9 2000 BERLINO, VALENCIA

2 1970 TURCHIA, IRAN

14 2001 BUENOS AIRES

4 1977 TERNI

16 2003 TRENTINO, LONDRA

3 1971 MAROCCO

15 2002 STRETTO DI MESSINA

5 1983 EMILIA-ROMAGNA

17 2004 BOSTON, PECHINO, MONTE CARLO

6 1984-85 NORMANDIA

18 2005 ISTANBUL

7 1985 GENOVA, TRIESTE

19 2006 ISRAELE, LISBONA

8 1987 LAGO TRASIMENO, LOSANNA

20 2007 SAN FRANCISCO, MOSCA, ROMA

11 1994 ISRAELE

22 2010 VENEZIA, SHANGHAI

10 1991 BEIRUT

21 2008 LIVERPOOL

12 1995 PORTO

23 2011 RIO DE JANEIRO

13 1998 PALERMO

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14 Fonte: archiviogabrielebasilico.it

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FILIPPO MAGGIA Curatore ual è l’idea di metropoli che Basilico intendeva trasmettere e come si colloca nel panorama visivo, ma anche architettonico e sociale, odierno? Gabriele Basilico era ossessionato dalla città e dai temi urbani, al punto di affermare che la città “ha sempre esercitato su di me un fascino grandioso, illimitato, da ingordigia”. La fotografia, ancora utilizzando parole sue, è stata quasi un “pretesto” per indagare a fondo il tessuto delle città con un approccio simbiotico, ogni volta adattandosi a vivere un’esperienza diversa, sovente con lunghe attese prima che la città cominciasse a rivelarsi al suo sguardo. La sua fotografia aiuta noi tutti a vedere le città, a riconoscere il loro carattere e la loro natura attraverso le sue immagini di importanti edifici come di architetture mediocri. Esercizio, questo, che include anche l’utilità sociale della pratica fotografica, perché oggi la fotografia è in grado di offrire uno sguardo trasversale e, “se mediata attraverso l’esperienza dell’arte, di restituire uno scenario più comprensibile”, come lui stesso ricordava.

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Come avete selezionato le fotografie presenti in mostra? Le 40 fotografie presenti in Milano ritratti di fabbriche e le 96 fotografie delle Sezioni del paesaggio italiano corrispondono precisamente alle selezioni originarie a suo tempo ordinate da Basilico. La scelta per Beirut è inedita: il bianco e nero del 1991 e il colore del 2011 documentano l’inizio e la quasi fine di un determinato periodo storico: dalla fine della guerra civile alla quasi fine della ricostruzione e rinascita di una città che vorrebbe tornare ai fasti del passato, quando Beirut era conosciuta come la Parigi del Medio Oriente. L’ampia sezione dedicata alle metropoli del mondo include una serie di opere mai presentate sino a oggi, ad esempio Liverpool e Boston. Roma, infine, è una selezione organizzata guardando alle differenti occasioni che Basilico ha avuto di operare nella Capitale, fotografie dove il marmo si sostituisce al cemento. Quali somiglianze e quali differenze intercorrono fra queste metropoli? Il racconto delle città per immagini avviene, come Basilico medesimo ricorda, nel “cercare di svelarne l’essenza, essere pronti ad ascoltarne le voci, decifrarne i messaggi nascosti, entrare in sintonia con i luoghi, cercare, attraverso il confronto con altri luoghi, quelle affinità che ci fanno riconquistare un senso di appartenenza e una familiarità che ci consente di affrontare lo smarrimento di fronte al nuovo, allo sconosciuto… e allora Beirut ci riporta a Palermo e forse un po’ a Napoli, una certa parte di Roma si ritrova a Parigi e forse a Madrid…”.


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GIOVANNA CALVENZI Curatrice / Archivio Gabriele Basilico rchitettura e fotografia si supportano a vicenda nella produzione visiva di Gabriele Basilico. Come si è evoluto il dialogo tra queste due discipline nel corso del tempo? Architettura e fotografia si sono sempre intrecciate nella trascrizione della realtà di Gabriele Basilico. Sia per i suoi studi che per le prime esperienze professionali presso studi di architettura milanesi, Gabriele Basilico non ha mai dimenticato la sua impostazione metodologica, l’attenzione al costruito, allo studio dell’urbanistica, facendo delle esperienze universitarie la base del suo lavoro di fotografo. Tutta la sua opera è interamente dedicata alla conoscenza delle città, alla rilettura delle trasformazioni del paesaggio urbano contemporaneo.

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Mare, acqua, porti, cemento, strade, periferie sono solo alcuni dei soggetti scelti da Basilico, anche adottando una prospettiva dall’alto. Come stabiliva i soggetti da riprendere e i punti di vista da utilizzare? Gabriele Basilico è sempre stato affascinato dalle città, dalla loro storia, dalle stratificazioni architettoniche create dal tempo e ha sempre preferito, come ha spesso detto e scritto, l’architettura “media”, le periferie, i porti, dichiarando di essere vittima di una sorta di fascinazione nei confronti del cemento. Lui stesso ha scritto: “Quello che mi interessa in modo costante, quasi ossessivo, è il paesaggio urbano contemporaneo, il fenomeno sociale ed estetico delle grandi, rapide, incontenibili trasformazioni in atto nelle città del pianeta, e penso che la fotografia sia stata, e continui forse a essere, uno strumento sensibile e particolarmente efficace per registrarlo”. Per quanto riguarda poi l’identificazione dei “punti di vista”, ecco come l’ha descritta: “Se immaginiamo la città come un grande corpo fisico e prendiamo metaforicamente come esempio l’agopuntura, sappiamo che ci sono dei punti lungo i meridiani nei quali si attiva l’energia. Allo stesso modo mi piace pensare, come fotografo, che in fondo mi muovo come se cercassi dei punti nello spazio fisico nei quali collocare il punto di osservazione e da dove infine proiettare lo sguardo”.

ALBERTO SAIBENE Co-fondatore della casa editrice Humboldt Books

Lei ha condiviso il percorso professionale e umano di Basilico, compiendo insieme a lui numerosi viaggi. Quale legame sviluppava con i luoghi? E quanto della sua interiorità proiettava negli scatti, mantenendo quella “distanza” cui alludeva spesso riferendosi al fare fotografia? Ho condiviso certamente il percorso umano di Basilico ma non ho mai lavorato professionalmente con lui e mi è capitato solo in modo saltuario di seguirlo nei suoi viaggi. In ogni luogo, tuttavia, trovava sempre delle ragioni di interesse, vedeva cose che io non vedevo. Ancora Gabriele ha scritto: “È forse presuntuoso e illusorio sperare che la fotografia possa rieducare alla visione dei luoghi, ma sicuramente uno sguardo sensibile, meditativo, centrato, può aiutare a rivelare ciò che è davanti ai nostri occhi ma spesso non è riconoscibile. È come se facessi le stesse fotografie da sempre, con la specificità di costruire un dialogo privilegiato con i luoghi che scelgo di fotografare, con la loro storia, con la loro natura, con i loro tratti somatici, ma confrontandoli con la memoria di tutti i luoghi che ho conosciuto in precedenza”.

me pare che il rapporto tra Gabriele Basilico e la città si definisca dopo Milano ritratti di A fabbriche (1978-80), un’indagine che testimonia, fra le altre cose, che la prima modernità è finita se si può trattare il suo centro propulsore, la fabbrica, come qualcosa che è stato e che ora non c’è più. Lo aiuta essere cresciuto a Milano, una città che ha conosciuto due momenti del Movimento Moderno, quello degli Anni Venti-Trenta e quello dopo la Seconda Guerra Mondiale (Grattacielo Pirelli vs. Torre Velasca). Certo aver studiato architettura è stato fondamentale per lui, ma il dato biografico gli offre la possibilità di uno sguardo istintivamente diacronico sul XX secolo, preparandolo al suo epilogo, al passaggio dal moderno al postmoderno. Basilico è molto consapevole, quindi, quando fotografa le grandi città europee e più tardi le metropoli del mondo, del rapporto tra i pieni e i vuoti, della relazione tra gli edifici, anzi cerca un dialogo tra loro. L’ultimo decennio del XX secolo gli offre una gamma che ai suoi estremi ha da una parte Berlino, una città che rinasce dopo la caduta del Muro, dall’altra Beirut, una città archeologica dopo venticinque anni di guerra civile. Il suo sguardo non cambia, anzi è proprio il rigore (e la curiosità) che utilizza nell’indagare queste città che serve a tenere insieme l’universale e il dettaglio. Basilico ha dichiarato in più occasioni della necessità che le architetture urbane devono essere fotografate senza presenze umane, tuttavia la sua è una fotografia umanistica proprio perché la città è sempre opera dell’uomo, anzi è il suo esito più elevato. Il più grande complimento che si può fare alla fotografia di Gabriele Basilico è che noi oggi guardiamo certi paesaggi, specie urbani, con i suoi occhi. Diciamo: “Sembra una fotografia di Basilico”, come diremmo “Sembra un film neorealista”. Anche dopo la sua morte il rapporto con la sua fotografia è rimasto per noi qualcosa di vivo, perché la sua opera è oggi un classico e, per citare Italo Calvino, “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire”. E “foto” nel nostro caso vale come “libro”. Avendolo un po’ conosciuto, penso che a Gabriele sarebbe piaciuto.


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#20

PERCORSI

A spasso per Parma 2020 (II)

di Santa Nastro

ANTICA CORTE PALLAVICINA Strada del Palazzo Due Torri 3 Loc. Polesine Parmense 0524 936539 anticacortepallavicinarelais.it

PARMA

LOCANDA ABBAZIA Strada Viazza di Paradigna 1 Parma 0521 604072 locanda@csacparma.it

CSAC Via Viazza di Paradigna 1 Parma 0521 903652 csacparma.it

L’EVENTO Questa volta invece che da una mostra partiamo da un evento. Anzi dall’evento. L’Italia esce dalla straordinaria esperienza di Matera 2019, Capitale Europea della Cultura, e affronta per il 2020, dopo un anno di stop, la sfida di Parma, Capitale Italiana sotto il tema La cultura batte il tempo. L’inaugurazione si è svolta dall’11 al 13 gennaio e quindi siamo di fronte a un cartellone fresco fresco, che ha appena cominciato a scaldare i motori. Ma cosa significa per una città essere Capitale Italiana della Cultura? A spiegare bene la natura di questo progetto è stato il Ministro Dario Franceschini: “Fin dalla prima edizione del 2014, la selezione per il titolo di Capitale Italiana della Cultura rappresenta un’occasione di competizione virtuosa, durante la quale le comunità mettono in gioco talenti ed energie, memoria e innovazione. La mobilitazione e la capacità di fare rete ha sempre portato un effetto moltiplicatore sullo sviluppo turistico e sulla fruizione del patrimonio culturale materiale e immateriale delle città vincitrici. Effetti che si vedranno anche a Parma 2020. Qui sono nate grandi opere e grandi uomini. Dalla Pilotta, con il suggestivo Teatro Farnese, al fascino del Duomo e del Battistero. Dall’arte del Correggio e del Parmigianino alla musica di Verdi e Toscanini, dalla letteratura di Guareschi alla poesia e al cinema di Attilio, Bernardo e Giuseppe Bertolucci”. Vediamo nel dettaglio cosa ci aspetta.


PERCORSI

STAZIONE DI PARMA

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da maggio a novembre I MESI E LE STAGIONI ‒ PIAZZA DUOMO CON GLI OCCHI DI BENEDETTO ANTELAMI BATTISTERO DI SAN GIOVANNI BATTISTA Piazza Duomo – Parma 0521 208699 piazzaduomoparma.com

PALAZZO DUCALE PARCO DUCALE

TEATRO REGIO

MAURIZIO NANNUCCI. TIME PAST, PRESENT AND FUTURE COMPLESSO MONUMENTALE DELLA PILOTTA Piazza della Pilotta 5 – Parma 0521 233309 pilotta.beniculturali.it fino al 3 maggio TIME MACHINE a cura di Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi PALAZZO DEL GOVERNATORE Piazza Giuseppe Garibaldi 19 – Parma 0521 218929 palazzodelgovernatore.it

LA MOSTRA La mostra non può essere altro che Time Machine, a cura di Antonio Somaini con Eline Grignard e Marie Rebecchi. Inaugurata nel giorno di apertura di Parma 2020, Time Machine sarà a disposizione del pubblico fino a maggio, offrendo l’opportunità di esplorare l’universo emozionante delle immagini in movimento negli ultimi 125 anni – e il modo in cui queste hanno cambiato la nostra visione del mondo. Tra film, proiezioni, video e installazioni (le macchine del tempo evocate dal titolo), sono gli artisti a venire in aiuto ai curatori per rispettare il filo del discorso: Douglas Gordon, Rosa Barba, Tacita Dean, Stan Douglas, Martin Arnold, Harun Farocki, JeanLuc Godard e Bill Morrison, dislocando i propri interventi nelle venticinque sale del Palazzo del Governatore. L’ARTISTA L’artista non è parmigiano, ma ha fatto per Parma 2020 un importante intervento. Si tratta di Maurizio Nannucci, nato a Firenze nel 1939, che lo scorso novembre ha realizzato sui quattro lati del cortile di San Pietro del Complesso Monumentale della Pilotta la sua più grande installazione, Time, Past, Present and Future: 190 metri di neon e 55 lettere in vetro di Murano, resi possibili dall’Italian Council. Il rapporto con l’architettura non è nuovo nella ricerca di Nannucci, che negli

anni ha collaborato con Massimiliano Fuksas, Renzo Piano e Mario Botta. L’artista, che nel corso della sua carriera ha partecipato alla Biennale di Venezia, a Documenta e ad altre importanti manifestazioni a carattere biennale, è anche protagonista di una mostra che ripercorre la sua storia. IL MUSEO È naturalmente il CSAC ‒ Centro Studi e Archivio della Comunicazione, fondato da Arturo Carlo Quintavalle nel 1968 e connesso all’università cittadina. Dal 2007 si colloca presso l’Abbazia di Valserena. Organizza mostre, pubblica cataloghi, offre un bookshop ma anche servizi di accoglienza e ospitalità. E soprattutto, conta un archivio mastodontico che documenta arte, fotografia, media, progetto e spettacolo. “Entrare nell’archivio del CSAC è come immergersi in un mare tropicale. Impossibile non rimanerne affascinati, anche se non si riconoscono i pesci si è frastornati dai colori, dalle forme e soprattutto dalla quantità di animali da osservare”, sostiene Luca Vitone, tra gli artisti coinvolti, insieme a Massimo Bartolini ed Eva Marisaldi, nel programma Through time: integrità e trasformazione dell’opera, pensato da CSAC in occasione di Parma 2020. IL LUOGO È il Battistero per antonomasia, uno dei luoghi iconici non solo di Parma ma

dell’Italia intera. Commissionato nel 1196 a Benedetto Antelami, è famoso per la sua pianta ottagonale e per le formelle in marmo rosa che ne decorano l’esterno. All’interno, oltre agli affreschi che ne adornano le pareti, è da segnalare il bel ciclo dei mesi, realizzato ad altorilievo, capolavoro dell’Antelami, che racconta lo svolgersi delle stagioni. All’artista è dedicata la mostra I Mesi e le stagioni ‒ Piazza Duomo con gli occhi di Benedetto Antelami, da maggio a novembre al Battistero. MANGIARE E DORMIRE Si dorme nella foresteria del CSAC di Parma, presso l’Abbazia di Valserena, una struttura monastica del XIV secolo, che permette ai visitatori di soggiornare all’interno del complesso museale e di riposare nelle cellette dei monaci riadattate a camere e suite. Per il pranzo, gita fuori porta a Polesine Parmense, a 45 minuti di automobile, dove vi accoglierà l’Antica Corte Pallavicina di Massimo Spigaroli: qui il Culatello di Zibello regna incontrastato (e c’è anche un percorso museale dedicato a questo salume). Volendo la struttura ha anche delle camere, se decidete di fare una pausa di relax nella campagna parmense.

a sinistra:

Duomo di Parma, photo Edoardo Fornaciari


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OLTRECONFINE

Nuovi sguardi su Jan van Eyck

di Stefano Castelli

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e il Ritratto dei coniugi Arnolfini è l’opera che viene subito alla mente quando si fa il suo nome, Jan van Eyck (Maaseik [?], 1390 ca. – Bruges, 1441) è immediatamente associato anche a diverse definizioni, alcune assodate e altre da discutere. Iniziatore della pittura fiamminga, inventore della pittura a olio, pittore di corte... E le diverse lacune nella biografia aumentano il fascino del personaggio e le sfide per gli storici. Una mostra dal taglio scientifico, annunciata come epocale quale Van Eyck ‒ An optical revolution, al MSK di Gand (40mila prenotazioni già a tre mesi dall’apertura), serve anche a rileggere un maestro con gli occhi odierni, a confermare o smentire le idee acquisite. Matthias Depoorter, coordinatore della mostra (dotata di un comitato scientifico che riunisce studiosi di diversi musei e università del Belgio), ci accompagna alla scoperta del “nuovo sguardo su van Eyck” che viene promesso al visitatore.

Lo slogan che lancia l’esposizione recita: “Il maggior numero di van Eyck esposti insieme di sempre”. “Il vero pezzo forte è la Pala d’altare di Gand”, spiega Depoorter, “la cui presenza può essere considerata un’occasione più che unica: è la prima volta che si realizza una mostra intorno a questo pezzo”. Detto anche Polittico dell’agnello mistico o Polittico di Gand, si tratta del più antico lavoro conosciuto dell’artista insieme al Léal Souvenir. Normalmente di casa alla Cattedrale di San Bavone a Gand, il polittico si presenta qui ora al pubblico dopo un restauro durato cinque anni a cura dell’Institut royal du patrimoine artistique di Bruxelles. “È sempre apparso come un capolavoro straordinario, beninteso”, continua Depoorter, “ma ora lo si vede in modo completamente diverso, molto più simile agli altri lavori che conosciamo dell’autore. Anche in questo senso la mostra getta un nuovo sguardo su van Eyck”.

IL MONDO “COME LO SI VEDE” Proprio il Léal Souvenir dalla National Gallery di Londra, che di solito non viene dato in prestito, è un altro dei pezzi forti. “Ma in generale l’intera galleria di ritratti che proponiamo è, nel suo insieme, il clou. Di fianco al ‘Léal Souvenir’ c’è il ‘Ritratto di Jan de Leeuw’ del Kunsthistorisches di Vienna, sulla parete opposta il ‘Ritratto d’uomo con copricapo blu’ dalla Romania e poi il ‘Ritratto di Baudouin de Lannoy’ da Berlino...”. Ma in cosa consiste esattamente la “rivoluzione ottica” evocata dal titolo della mostra? “Nel perfezionamento della pittura a olio che van Eyck portò avanti, ma soprattutto nel modo realistico in cui dipingeva ‒ realistico è un termine controverso, ma non c’è un modo migliore di definirlo. Questo sguardo accurato sul mondo è una rivoluzione in sé, se si confronta van Eyck con gli altri autori del Quattrocento. Alcuni storici dicono che c’è un prima e un dopo van Eyck. Fu una rivoluzione ‘ottica’ in generale, con riferimento al


OLTRECONFINE

1390-1400 1422

1426-1432

1429 1430-32

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Nasce, probabilmente a Maaseik Dopo una formazione probabilmente nel campo della miniatura, giunge all’Aia dove apre il suo atelier e diventa pittore di corte di Filippo il Buono. Realizza il Polittico di Gand, suo capolavoro più antico tra quelli conosciuti insieme al Léal Souvenir del 1432 Si trasferisce a Bruges, dove rimane fino alla morte Le stigmate di San Francesco

1432

Probabile data del matrimonio con Margareta

1434

Ritratto dei coniugi Arnolfini

1435

Ritratto di Bauduoin de Lannoy

1440

Completa il Libro d’ore di Torino-Milano

1441

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Muore a Bruges

modo di guardare al mondo. E più specificamente per quanto riguarda il modo di trattare la luce, la consapevolezza di come essa ‘funziona’. È quasi certo che van Eyck avesse conoscenze precise e specifiche su come la luce assorbe, riflette, rifrange...”, sottolinea Depoorter. Proprio tale “realismo” costituisce un approccio al mondo di tipo nuovo, un cambio di paradigma filosofico. Ed è il tratto più moderno di van Eyck. “Fu la prima volta nella storia della pittura occidentale che qualcuno adottò tale realistica accuratezza. In un certo senso, ancora oggi guardiamo al mondo (e a un’immagine) in questo modo. Si pensi solo ai dettagli dei ritratti. Oppure alle numerose lune dipinte da van Eyck (una è presente anche nella Pala d’altare di Gand). La superficie è accuratissima, compresi i crateri. Si tratta per quel che sappiamo del primo dipinto realistico della superficie della Luna (e siamo ottant’anni prima di Leonardo). Si tratta di osservare il mondo e dipingerlo così come lo si vede. Si può dire lo stesso per le nuvole, le rocce, le persone...”. FIAMMINGHI E ITALIANI A CONFRONTO Tredici le sale che accolgono l’esposizione, ridisegnate per l’occasione. In totale sono in mostra più della metà dei venti lavori di van Eyck a noi pervenuti. Sette altre opere esposte sono della bottega del maestro, e cento di altri autori servono a contestualizzarlo ampiamente. Dando parecchio spazio alla pittura italiana. “Siamo entusiasti di presentare diversi magnifici dipinti italiani del periodo di van Eyck”, afferma Depoorter.

“Due sue Annunciazioni, quella della pala d’altare e quella della National Gallery di Washington, dialogano con quella di Domenico Veneziano, che giunge da Cambridge. Poi c’è la piccola ‘Madonna Casini’ del Masaccio dagli Uffizi che si confronta con la ‘Madonna alla fontana’ di van Eyck di Anversa; le ‘Stigmate di San Francesco’ del Beato Angelico dai Musei Vaticani vicino alle due versioni di van Eyck, quella di piccolissimo formato da Philadelphia e quella della Galleria Sabauda di Torino... Personalmente, non vedo l’ora di vedere questi dipinti tutti insieme”. Non possono mancare le miniature, parte importante della produzione dell’artista e probabilmente tecnica con la quale compì la sua formazione. “Il pezzo forte è il ‘Libro d’ore di TorinoMilano’, che arriva dal Palazzo Madama di Torino. Due delle miniature sono state per lungo tempo considerate come attribuite; noi (e una buona maggioranza degli studiosi) siamo fermamente convinti che siano state dipinte dall’artista”. Proprio il Libro delle ore è tra i lavori che vengono esposti per la prima volta dopo il restauro, oltre al Polittico di Gand, come detto, al Ritratto di Bauduoin de Lannoy e a un busto cinquecentesco che ritrae van Eyck. Van Eyck dallo sguardo modernamente “empirico”, dunque, rivoluzionario in più di un senso. Ritrattista e paesaggista, osservatore di un contesto sociale, miniatore e pittore. Portatore di uno sguardo nuovo sul mondo e qui oggetto di un nuovo sguardo grazie ai restauri. Ma anche grazie alla lettura che ne dà la mostra. Qual è il luogo comune, il mito più diffuso che qui viene

smentito? “Come afferma uno dei nostri curatori ospiti, lo storico Jan Dumolyn dell’Università di Gand, una delle concezioni più diffuse su van Eyck è che egli sia un pittore di corte. Certo, si dedicava diffusamente a soggetti che ritraevano il contesto urbano, dal punto di vista paesaggistico e sociale. Ma era il suo contesto, come ogni altra persona era radicato nel suo luogo di nascita, il che non fa di lui un mero pittore di corte”, conclude Depoorter. dal 1° febbraio al 30 aprile

VAN EYCK An optical revolution Catalogo Hannibal MSK F. Scribedreef 1 – Gand +1 (0) 212 9949493 vaneyck2020.be

a sinistra: Jan van Eyck, Dittico dell’Annunciazione, 1433-35 ca. Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid in alto: Jan van Eyck, Ritratto d’uomo con copricapo blu, 1428-30 ca. Muzeul National Brukenthal, Sibiu


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GRANDI CLASSICI

Guercino. Un pittore e la sua città di Marta Santacatterina

fino al 15 febbraio

EMOZIONE BAROCCA Il Guercino a Cento

a cura di Daniele Benati Catalogo Silvana Editoriale PINACOTECA SAN LORENZO E ROCCA Piazza Cardinal Lambertini 1 Via del Guercino – Cento 051 843334 guercinoacento.it fino all’8 marzo

DA GUERCINO A BOULANGER La Madonna di Reggio a cura di Angelo Mazza PALAZZO DEI MUSEI Via Spallanzani 1 – Reggio Emilia 0522 456816 musei.re.it

Guercino, Madonna col Bambino benedicente (part.), 1629, Pinacoteca Civica, Cento

C

i sono casi in cui l’arte diventa un delicato strumento per rimarginare le ferite. Anche ferite così gravi da aver bisogno di anni per cicatrizzarsi, come quelle subite dal territorio emiliano, e in particolare dalla zona che confina con la provincia di Ferrara, Modena e infine Bologna. Proprio in quel fazzoletto di terra sorge Cento, una cittadina pesantemente colpita dal sisma del 2012 e in cui numerosi edifici si presentano ancora oggi lesionati e in attesa di consolidamenti e restauri. Ma Cento è conosciuta soprattutto perché nel 1591 diede i natali a Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino a causa di uno strabismo documentato in molti ritratti, come il busto di Fabrizio Arrigucci del 1657, unica opera plastica inserita nella mostra dedicata al pittore emiliano. L’esposizione è allestita in una ex chiesta recentemente riaperta al pubblico e che per l’occasione ha assunto il ruolo di pinacoteca temporanea: come tale, anche dopo la chiusura della mostra, verrà utilizzata, fino a quando la sede “ufficiale” del museo vedrà terminati i lavori di restauro. “‘Emozione barocca’ vuole essere un segnale di ripresa dopo il terremoto”, dichiara il direttore della Pinacoteca Civica Fausto Gozzi, che aggiunge: “Dopo la chiusura della pinacoteca, invece di lasciare i dipinti di Guercino chiusi nei caveau, abbiamo pensato di prestarli all’estero, e sono stati quindi ospitati a Varsavia, a Città del Capo, a Tokyo: in quei Paesi si è così diffusa la conoscenza del pittore e l’operazione ha dato buoni frutti. Ma ora ci sembrava necessario esporre questi capolavori a Cento, restituendoli ai cittadini e ai visitatori”. LA PINACOTECA Ecco allora che venti quadri, nonché i disegni e gli affreschi staccati, di proprietà delle raccolte civiche centesi, sono stati affiancati ad altre opere prestate soprattutto da collezionisti privati per costruire un percorso che mette a fuoco gli anni della formazione e dell’attività di Guercino a Cento, prima quindi del suo trasferimento a Bologna, avvenuto nel 1642 per fuggire ai pericoli conseguenti allo scoppio della guerra di Castro. Ma il suo legame con la città fu sempre molto stretto: lo documenta ad esempio la firma, in cui al nome e cognome segue l’appellativo Centensis, come dimostra la tela con San Bernardino da Siena.

Il percorso della mostra, che si apre con una straordinaria Cena in Emmaus, ricostruisce gli esordi di Guercino, che le fonti antiche testimoniano “non aver avuto precettore”: eccellente disegnatore fin da quando era poco più che bambino – ne è prova l’acerba, ma significativa, Madonna di Reggio che la critica data al 1600 circa – “avrebbe maturato la propria inclinazione studiando l’unico dipinto di Ludovico Carracci accessibile a Cento: la Sacra famiglia con ‘San Francesco e due donatori’, spedita da Bologna alla locale chiesa dei cappuccini nel 1519, che è anche l’anno […] in cui Giovanni Francesco Barbieri era nato”, scrive il curatore Daniele Benati nel catalogo. Quel modello, che Guercino chiamava la sua “Carraccina”, fa da contrappunto ad altri soggetti religiosi dipinti dal Centese e da altri pittori, e l’allestimento ha il suo climax nella zona dell’abside, dove trovano posto, in un’ideale ricomposizione, la grande Crocifissione con attorno, come nella disposizione originale, il Padre Eterno, San Giovanni Battista e San Francesco d’Assisi. Non mancano i soggetti destinati alla devozione privata e alcuni esempi di opere a tema profano, come non manca un’ampia rassegna di disegni, nei quali si notano la sua abilità tecnica e la sensibilità per forme e movimenti che sempre caratterizzano i suoi lavori. LA ROCCA Una seconda sede, l’antica Rocca, è dedicata a un altro aspetto della carriera del protagonista: gli affreschi realizzati per case di notabili locali e che, secondo l’uso bolognese, decoravano con fasce continue la sommità delle pareti delle stanze, proprio sotto le travature. In particolare i cicli decorativi dipinti da Guercino – staccati e musealizzati in varie epoche, non senza dispersioni – che si possono ora ammirare da vicino sono quelli di casa Pannini e di casa Chiarelli. Qui, i paesaggi, la caccia, le scene campestri la fanno da padrone. Infine – e ancora una volta proveniente dalla Pinacoteca Civica di Cento – a poche decine di chilometri di distanza è esposta al pubblico un’altra tela di Guercino del 1618, la Madonna della Ghiara. Questa fa parte della mostra Da Guercino a Boulanger. La Madonna di Reggio, in corso al Palazzo dei Musei di Reggio Emilia fino all’8 marzo.


DIETRO LE QUINTE

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Rinascere dopo il terremoto di Katia Buratti

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inascimento Marchigiano. Opere restaurate dai luoghi del sisma è la mostra che restituisce a tutti i visitatori, e soprattutto alle comunità colpite ormai più di tre anni fa, una parte dell’imponente patrimonio culturale danneggiato dal terremoto. Bisogna spingersi nel cuore delle Marche, ad Ascoli Piceno, tra le mura del Forte Malatesta, attraversarne il cortile con lo sguardo attratto dalle linee architettoniche pensate da Giuliano da Sangallo, e penetrare nelle sale che dal 1835 al 1981 sono state carcere, per poter ammirare le trentasette opere restaurate con il contributo dell’ANCI – Associazione Nazionale dei Comuni Italiani e Pio Sodalizio dei Piceni. L’iniziativa è nata dalla volontà dei due enti di partecipare al recupero del patrimonio danneggiato scaturita nell’ottobre del 2016, subito dopo l’ennesima scossa che ha devastato il Centro Italia coinvolgendo ben tre regioni – Marche, Umbria e Abruzzo. Allora rispose alla richiesta Pierluigi Moriconi per la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, che di terremoto, come dipendente del Ministero per i Beni Culturali, ne ha già un altro inciso nella memoria. Quello del 1997, quando, in servizio nella Soprintendenza umbra, durante un sopralluogo presso la Basilica di Assisi, perse i due colleghi, Bruno Brunacci e Claudio Bugiantella. Moriconi ‒ co-curatore della mostra insieme a Stefano Papetti ‒ era ispettore della Soprintendenza e coordinatore delle operazioni di recupero e messa in sicurezza del patrimonio: “Abbiamo subito iniziato a stilare una lista ‒ per ovvie ragioni selettiva ‒ di beni, contattando ogni comune e diocesi coinvolte più duramente, per poter in poco tempo dare il via alle operazioni di restauro”. LA MOSTRA AD ASCOLI L’intenzione condivisa con il direttore dei musei civici di Ascoli Piceno è stata quella di poter restituire alle comunità locali quei segni identitari di un luogo, in molti casi devastato e non più ricostruibile, che è stato casa, vita, e famiglia. La distruzione di intere chiese, edifici storici, centri abitati ha riguardato un territorio che coinvolge la provincia di Fermo, Macerata, Ascoli Piceno e in parte Ancona, fatto di minuscoli centri, frazioni, borghi: “Basta considerare che i danni al patrimonio culturale sommati di Umbria, Lazio e Abruzzo non superano di un terzo quelli subiti dalla regione Marche”,

sottolinea Moriconi. I curatori hanno voluto inoltre riunire professionisti e restauratori legati alle Marche ‒ o perché nati in regione o perché qui attivi ‒ e università locali, rendendo evidente la capacità di rinascita della comunità marchigiana. Si struttura così il progetto espositivo, esito di un lavoro silente e poco mediatico portato avanti da Soprintendenza e Nucleo Tutela del Patrimonio dei Carabinieri. GLI ARTISTI E I LUOGHI Nel compiere il viaggio fra le tavole del XV secolo di Vittore Crivelli e Jacobello del Fiore, fino alla voci artistiche che connotano il XVII e il XVIII secolo marchigiano come quelle di Baglione, del Cavalier d’Arpino e di Serodine, non si può dimenticare la complessità delle operazioni preliminari al godimento di tanta bellezza. “Ci siamo adoperati per mesi affinché dalle macerie si potesse salvare il possibile, con sopralluoghi, recupero e messa in sicurezza nei depositi”, afferma Moriconi. Si può criticare la reale necessità, a fronte di tante abitazioni distrutte; ma sono gli stessi abitanti delle frazioni devastate ad aver chiesto a gran voce che qualcosa di bello potesse essere salvato da quella distruzione. Per tale motivo, accanto a capolavori indiscussi della storia dell’arte si sono volute opere importanti per le comunità locali, ma non di alto valore storico-artistico, nell’intento di salvare, far rinascere e restituire gli unici elementi superstiti di nuclei abitativi e chiese che non esistono più e probabilmente non saranno più ricostruiti. Come la Madonna in trono con Bambino di Porchiano di Ascoli Piceno o la tela con i santi Pietro e Paolo di Capodacqua di Arquata del Tronto. La mostra, a carattere itinerante, sarà accolta da febbraio nelle sale della sede del Pio Sodalizio dei Piceni a Roma e infine, nel periodo estivo, a Senigallia. Al termine le opere torneranno negli otto depositi allestiti sul territorio, tutti dotati di vigilanza antropica e ambientale e impianti fondamentali ‒ oltre che per la conservazione del patrimonio danneggiato in attesa della ricollocazione nei contesti di origine, laddove possibile – anche per l’allestimento di piccole mostre che possano riavvicinare le comunità al loro patrimonio. fino al 2 febbraio

RINASCIMENTO MARCHIGIANO

a cura di Sefano Papetti e Pierluigi Moriconi Catalogo ErreBi Grafiche Ripesi FORTE MALATESTA – Ascoli Piceno Via delle Terme 0736 298213 ascolimusei.it

Jacobello del Fiore, Scene della vita di Santa Lucia – Lucia riceve l’Eucarestia (part.), 1410 ca., Pinacoteca Civica, Palazzo dei Priori, Fermo


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RUBRICHE

Arte e paesaggio

Il museo nascosto

ochi sanno che la città di Mosca offre un itinerario verde sorprendente: 96 parchi, 18 giardini, 4 orti botanici. È la metropoli più verde al mondo, con 27 metri quadrati di verde a persona rispetto ai 7,5 di Londra e gli 8,6 di New York. Il parco più popolare è Gor’kij Park, fondato nel 1928 e reso famoso dall’omonimo film. Attraversato dal fiume Moskova, si snoda per 70 ettari con varie attrazioni, padiglioni, ristoranti, laghi, campi da tennis, skatepark. Qui ha sede Garage, noto centro d’arte contemporanea, progettato dallo Studio OMA. Garage sviluppa un dialogo tra spazio interno ed esterno, custodendo un giardino di graminacee sul retro della galleria e installando opere nel parco.

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PARCHI E ORTI BOTANICI Non lontano si apre la distesa del Muzeon Park of Arts, con il complesso della Galleria Tret’jakov, insieme di musei dedicati al Realismo socialista. Il percorso verde è puntellato da 700 statue di autorità sovietiche smantellate con la caduta del Muro. Da Stalin al capo della polizia segreta, le sculture si alternano a suggestive aiuole e arredi urbani contemporanei. Il giardino Neskuchny è il più antico di Mosca, usato dagli zar come parco privato. All’interno del giardino ha sede il Teatro Verde, il più grande anfiteatro all’aperto d’Europa, in grado di ospitare oltre 15mila persone. Aptekarskiy è l’antico orto botanico di Mosca, fondato da Pietro il Grande nel 1706. Le prime erbe mediche furono piantate qui. Oggi è il giardino dell’Università Statale, con una vasta gamma di piante e spezie. In pieno centro c’è il giardino Ermitage, molto frequentato dai giovani per aperitivi e concerti all’aperto. Elegante parco urbano in stile parigino, offre teatri, bar, piste da ballo, bancarelle di libri in mezzo a prati fioriti. GIARDINI SEGRETI A pochi passi dalla Piazza Rossa e dal Cremlino, Zaryadye Park è il nuovo parco pubblico della città. Progettato dallo studio Diller Scofidio + Renfro nel cuore di Mosca, si trova al posto dello storico Hotel Rossija (il più grande hotel del mondo, demolito nel 2007). L’originale progetto prevede diverse funzioni: parco, piazza urbana, spazio culturale e ricreativo. Le architetture in pannelli di vetro ricurvo e la vegetazione delle quattro zone climatiche russe creano una dialettica tra artificio e natura. La sinuosa passerella a forbice, che si spinge con un alto balzo sopra al fiume, è oggi la terrazza più fotografata della città. Ma il giardino “segreto” più suggestivo resta sicuramente quello sul retro della residenza Hamovniki, abitazione moscovita di Tolstoj, un’oasi di pace e di verde, dove il grande scrittore amava rifugiarsi e passeggiare, creando i suoi capolavori letterari. Claudia Zanfi

MOSCA

Metropoli verde a sorpresa

Zaryadye Park Mosca Photo Claudia Zanfi

ntrare a Villa Brandi, appena fuori Siena, è un’immersione totale in un confronto costante tra epoche, stili, predilezioni, amori. Gli stessi che hanno caratterizzato gli interessi culturali ed esistenziali del padrone di casa, lo storico e critico d’arte Cesare Brandi, che qui ha vissuto gli ultimi anni della sua vita per poi donarla allo Stato italiano, con la consapevolezza che questo patrimonio dovesse diventare patrimonio comune.

E

ARTE E VITA Nel peregrinare tra le residenze speciali del paese, tra studi d’artista e case di collezionisti innamorati dell’arte, una tappa in questa villa – l’impianto originario è del XVI, attribuito a Baldassarre Peruzzi –, che dal XVIII secolo è stata proprietà della famiglia Brandi, è inevitabile, poiché qui si percepiscono altre sfumature di un discorso che coniuga arte e vita, quelle che riguardano l’esistenza di uno studioso d’eccezione, amante della bellezza. Ma anche di mille, sfaccettati interessi intellettuali – e professionali – che hanno visto Cesare Brandi impegnato, sin dal 1938 – anno in cui lo fonda insieme a Giulio Carlo Argan –, nell’Istituto Centrale del Restauro prima (fino al 1959) e poi nell’insegnamento, nell’ateneo di Palermo e poi a Roma, dov’è stato anche Accademico di San Luca (ma è impossibile sintetizzare la carriera di questo uomo iperattivo e dai più variegati interessi). Qui c’era però il suo mondo, tra memorabilia dei suoi viaggi – a pensarci bene, Brandi è soprattutto un viaggiatore e questa è la definizione che più caratterizza la pluralità del suo intenso percorso nell’arte –, la ricca biblioteca e le opere d’arte di Filippo de Pisis, Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Toti Scialoja, Alberto Burri e altri suoi compagni di strada, tra cui lo straordinario scultore del vento (e del cielo) Eliseo Mattiacci, autore della cancellata da cui si accede al parco e quindi alla villa. CASA E TRADIZIONE I saloni con i soffitti cassettonati, la mobilia settecentesca, la cucina con il grande lavabo realizzato con il marmo giallo di Siena e il girarrosto meccanico azionato da un peso, il cotto al pavimento, i letti in ferro e le carte da parati, un vecchio pianoforte, oggetto di culto di Casa Brandi (la madre di Cesare era musicista), sono tutte tappe di un percorso in cui la vita domestica si coniuga con la tradizione toscana del vivere in campagna secondo i dettami della borghesia. E poi un consiglio: affacciatevi dalla piccola veranda del secondo piano, vi aspetta una veduta mozzafiato di Siena. E, nella vicina Tinaia, settanta fotografie scelte fra le 13mila della fototeca raccontano la vita di Brandi, tra amici, studi, viaggi e, naturalmente, lunghe permanenze in questo suo luogo del cuore. Il luogo del costante approdo. Lorenzo Madaro

SIENA

Villa Brandi

Strada di Busseto 42 0577 221127

Casa Museo Villa Brandi a Vignano


RUBRICHE

#20

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Aste e mercato

Il libro

enz’altro il punto di vista da cui scriviamo influenza la lettura dei fatti, ma è piuttosto condivisa la valutazione: con l’arrivo di Gabriele Finaldi alla direzione, la storia gloriosa della National Gallery di Londra ha ricevuto un ulteriore impulso. D’altra parte parliamo di uno studioso che già aveva fatto cose mirabili al Prado di Madrid. Dal 2015 è tornato a casa, per certi versi: nella capitale britannica si è infatti svolta buona parte della sua formazione accademica e proprio alla National Gallery aveva già lavorato dal 1992 al 2002. Giusto un anno fa ha messo a segno un “colpaccio”, facendo acquisire l’Autoritratto come Santa Caterina d’Alessandria di Artemisia Gentileschi, e ce lo aveva raccontato con un editoriale su queste colonne, sottolineando la portata politica di un gesto del genere: “L’ultimo quadro di una pittrice antica prima di questo a entrare nella nostra collezione fu una composizione di fiori di Rachel Ruysch nel lontanissimo 1974. L’intervallo è stato troppo lungo, ma ora si è chiuso. Artemisia regna a Trafalgar Square”.

S

I DIPINTI DELLA NATIONAL GALLERY Adesso torniamo a Finaldi per un motivo altrettanto importante: la pubblicazione di un corposo volume edito dalla National Gallery e distribuito dalla Yale University Press. Si tratta della presentazione di 275 dipinti conservati nel museo, coprendo un arco storico e sociale che va “dal tempo in cui i dipinti in legno, oro e lapislazzuli adornavano gli altari delle chiese italiane medievali o erano appesi nelle camere da letto dei mercanti olandesi, fino al volgere del XX secolo, quando gli artisti si dibatterono in potenti forme espressive in lavori che ruppero con la tradizione del passato” (notare la scrittura colta e al tempo stesso chiara di Finaldi). OPERE E ARTISTI In un libro confezionato a dovere, si parte da Margarito d’Arezzo, Cimabue, Duccio, Giotto e Masaccio per poi spostarsi nelle Fiandre con Jan van Eyck (per dire: sono qui i Coniugi Arnolfini) e Rogier van der Weyden, si torna in Italia con la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (sì, pure lei è a Londra) insieme al Mantegna e Giovanni Bellini e Piero della Francesca, poi un piccolo soprassalto fiammingo con Dirk Bouts e si fa ritorno nella Penisola con Antonello da Messina e il Perugino, ancora un occhio alle Fiandre con Hans Memling e poi Botticelli e Carlo Crivelli, chiudendo con Dürer accostato a Leonardo (la Vergine delle Rocce, ci siamo intesi?). E questa è una selezione piuttosto stringata del primo capitolo, che va dal 1250 alle soglie del Cinquecento. Se dovessimo dare un consiglio: lo acquistate prima di partire, lo studiate, poi andate a Londra per visitare il museo e infine tornate a riguardare il libro nel vostro salotto. Naturalmente è un consiglio ricorsivo. Marco Enrico Giacomelli

GABRIELE FINALDI

The National Gallery Masterpieces of Painting

National Gallery Company, Londra 2019 Distribuito da Yale University Press Pagg. 392, £ 50 ISBN 9781857096484

na day sale perfetta è arrivata nell’ultima parte dell’anno per Phillips New York. La sessione del 13 novembre dell’asta di 20th Century & Contemporary Art ha fatto registrare infatti il più alto fatturato per una vendita diurna: 40.2 milioni di dollari in totale, con un +58% rispetto all’anno scorso e un venduto per lotti dell’85% e 88% per valore. Espressione di un middle market in crescita, solido e risoluto, come segnalato da Phillips post-asta, queste ultime performance ridanno respiro a un’area vibrante e attraente per sempre più collezionisti a livello globale e fanno ben sperare per questo 2020 appena iniziato Oltre il top lot della mattina di Josef Albers, Homage to the Square: Silent Gray, 1.3 milioni di dollari, tante sono state le aggiudicazioni ben oltre le stime previste e i nuovi record, non senza una certa sorpresa, all’Afternoon Session. Su tutti, ottimi i risultati – con spunti e ricadute di interesse per il futuro – di Julie Curtiss, Nicolas Party, Tschabalala Self, Loie Hollowell, Jonathan Lyndon Chase, Shara Hughes, e i record di Jaume Plensa, Ann Craven, Noah Davis.

U

UN RECORD PER MARIA LASSNIG World Auction Record aggiornato anche per Maria Lassnig, presente in catalogo con quattro lotti da una stessa prestigiosa collezione. Da una stima di 280.000-350.000 dollari, Competition III, olio su tela del 2000 (acquisito dal consignor alla Friedrich Petzel Gallery di New York nel 2002), è stato aggiudicato al 450 di Park Avenue per 704.000 dollari, circa 640.000 euro, correggendo il precedente del 2014 di 491.000 euro. Trova quindi oggi nuovo riconoscimento sul mercato una ricerca prolifica e perfettamente compiuta sulla rappresentazione pittorica del corpo – il proprio, femminile – come dispositivo e metafora, come strumento primario di realizzazione del sé, di auto-consapevolezza, auto-individuazione, liberazione. MOSTRE E PREMI In una carriera durata settant’anni tra Vienna, Parigi, New York, e poi di nuovo Vienna, Maria Lassnig, prima artista donna a ricevere il Grand Austrian State Prize nel 1988 e Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale di Venezia nel 2013, ha trovato solo in una fase avanzata della sua opera lo spazio meritato. Negli ultimi cinque anni a lei sono state dedicate importanti retrospettive al MoMA PS1, alla Tate Liverpool, al Kunstmuseum di Basilea e nel 2019, in occasione del centenario della nascita, una grande mostra in collaborazione tra Stedelijk Museum di Amsterdam e Albertina Museum di Vienna, Maria Lassnig. Ways Of Being, oltre al solo show da Hauser and Wirth a Zurigo. Come lascito, poco prima della morte nel 2014, l’artista ha immaginato il Maria Lassnig Prize, un premio biennale (2017 e 2019) istituito dalla omonima fondazione che sostiene e riconosce il lavoro delle artiste mid career. Cristina Masturzo

NEW YORK

Phillips

MARIA LASSNIG

Maria Lassnig, Competition III (part.), 2000. Courtesy Phillips


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