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IN APERTURA
Punti di vista su Henri-Cartier Bresson di Arianna Testino
accontare la fotografia non è mai un gesto semplice, soprattutto se a finire sotto la lente di ingrandimento è un autore-icona del linguaggio per immagini, oggetto e soggetto di mostre e retrospettive da una parte all’altra del globo. In questo orizzonte, l’impresa espositiva che sta per concretizzarsi tra le sale di Palazzo Grassi, satellite lagunare della Pinault Collection, suona ancora più coraggiosa, poiché ad “affrontare” un mostro sacro dell’obiettivo come Henri Cartier-Bresson (Chanteloup, 1908 ‒ Montjustin, 2004) sono ben cinque curatori d’eccezione, chiamati dal coordinatore della rassegna, Matthieu Humery, a offrire il proprio punto di vista su un corpus di scatti ‒ ben 385 ‒ selezionati in vita dallo stesso Cartier-Bresson, la celeberrima Master Collection. Esito di una scelta personale, i cui criteri non sono mai stati chiariti dall’autore, questo prezioso corpus di stampe a contatto trovò la sua forma definitiva nel 1973, su invito dei collezionisti Dominique e John de Menil, amici del fotografo, che decise di produrne pochissimi esemplari, includendo opere note e altre meno conosciute o riuscite, come sottolinea Humery, catalogandole in maniera semplice, quasi si trattasse di un archivio. Sono soltanto sei gli esemplari della Master Collection – conservati presso il Victoria and Albert Museum di Londra, la University of Fine Arts di Osaka, la Bibliothèque nationale de France, la Menil Foundation di Houston, la Fondation Henri Cartier-Bresson e la Pinault Collection ‒, emblema del ruolo giocato dalla soggettività e dal caso nell’opera di un artista. A misurarsi con il “peso” di decisioni individuali, intime, non codificabili, sono cinque curatori impegnati in ambiti professionali diversi, ma accomunati da una scintilla, quella della creatività, che dettava i movimenti di occhi e mani dello stesso Cartier-Bresson, e anche da legami più o meno sottili con quest’ultimo.
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HENRI CARTIER-BRESSON. Le Grand Jeu
a cura di Annie Leibovitz, Wim Wenders, Javier Cercas, Sylvie Aubenas, François Pinault, Matthieu Humery Catalogo Marsilio PALAZZO GRASSI Campo San Samuele 3231 – Venezia 041 2001057 palazzograssi.it in alto:
© Maurizio Ceccato per Grandi Mostre Henri Cartier-Bresson, Lourdes, France, 1958, © Fondation Henri CartierBresson / Magnum Photos a destra:
PERCEZIONE E INDIVIDUALITÀ
Le sorti della mostra ‒ “che non vuole essere un’altra monografica sull’artista, ma una indagine sulla percezione del suo lavoro”, afferma Humery ‒ dipendono dalla fotografa Annie Leibovitz (per la quale Cartier-Bresson fu un modello), dal collezionista François Pinault, dallo scrittore Javier Cercas (le cui radici spagnole echeggiano l’interesse del fotografo verso le vicende del Paese, esplicitate anche dalla sua produzione cinematografica), dalla conservatrice della Bibliothèque nationale de France Sylvie Aubenas e dal regista Wim Wenders (che, ricorda Humery, “incontrò Cartier-Bresson più volte e condivide con lui l’interesse per la fotografia, come dimostrato dai suoi
film”), e, ancora una volta, da una scelta, per sua stessa natura soggettiva e individuale, applicata alla Master Collection. La regola del gioco ‒ perché di un gioco si tratta, come esplicita il titolo della rassegna, Le Grand Jeu – è una e inderogabile: selezionare in piena autonomia e solitudine un gruppo di scatti e offrirli al pubblico attraverso un allestimento dettato, inutile dirlo, del proprio punto di vista. Ciascuno dei curatori non ha avuto accesso alle decisioni altrui, sperimentando una gamma di sfumature del lavoro curatoriale: l’incertezza, il dubbio, l’infinito interrogarsi sul buon esito delle direzioni intraprese, ma anche, come sottolinea Humery, la coesistenza di due sguardi, quello dell’essere umano e quello del professionista che deve difendere le sue scelte e veicolarle. IL GIOCO E L’IO
Ed è proprio qui che l’ambivalente significato del jeu emerge con più forza. Il gioco cede il passo, abbandonando una lettera, all’io – je – pilastro, motore e causa dell’essere nel mondo come individui. Una trama di ego – quelli dei curatori, ma, soprattutto, quello di Henri Cartier-Bresson – innerva la struttura concettuale di una mostra che ne racchiude cinque e che ammette la presenza di ripetizioni, “doppioni”, scelte identiche, richiamando alla mente “il gioco del cadavre exquis di matrice surrealista” e confermando tutta l’imprevedibilità di azioni dettate dal proprio “je”. È lo stesso Humery a rammentare che la “medesima immagine, scelta da curatori diversi, assume un significato completamente diverso”. L’esito finale dell’intera operazione – supervisionata da Humery, che ha aiutato i curatori a “creare una narrazione e a mettere in fila i pensieri” – sarà svelato solo alla fine, quando pubblico e curatori potranno prendere parte al “gioco”, attraversando una galleria di immagini e di scelte non fini a sé stesse, ma veicoli di una soggettività che si palesa agli occhi altrui.
IN APERTURA
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I CURATORI
1908
Nasce a Chanteloup
MATTHIEU HUMERY. Dopo aver diretto il dipartimento di fotografia di Christie’s, ha curato una serie di mostre dedicate, fra gli altri, a Irving Penn, Annie Leibovitz e Jean Prouvé. Co-fondatore del Los Angeles Dance Project, coordina progetti in cui si mescolano arte contemporanea e coreografia.
1933
Collabora con Jean Renoir
1936
Espone per la prima volta nella galleria Julien Levy a New York
SYLVIE AUBENAS. Classe 1956, è a capo del Dipartimento di Stampe e Fotografia della Bibliothèque nationale de France dal 2007. Specializzata in storia della fotografia, ha tenuto corsi all’Università di Parigi IV Sorbona e curato numerose mostre fra Europa e Stati Uniti. ANNIE LEIBOVITZ. I suoi esordi come fotoreporter per Rolling Stone risalgono al 1970 e da allora ha firmato oltre cento copertine per la rivista americana, approdando poi anche a Vanity Fair e Vogue. In parallelo all’editoria, la fotografa ha firmato molteplici campagne pubblicitarie, combinando moda e ritrattistica. FRANÇOIS PINAULT. Nato nel 1936, ha saputo distinguersi nell’ambito del commercio prima nel campo del commercio del legname e poi nel settore dei beni di lusso, acquisendo il gruppo Gucci. Nel 2003 cede la direzione operativa al figlio François-Henri Pinault e nel 2013 il gruppo è ribattezzato Kering. Oggi la collezione di arte contemporanea di François Pinault è una delle più note al mondo. JAVIER CERCAS. Nome di punta della narrativa spagnola contemporanea, classe 1962, ha conquistato la fama internazionale con Soldati di Salamina, pubblicato nel 2001. Collaboratore del quotidiano El País, lo scrittore parla delle sue opere come “storie reali”, che affondano le radici nella linea di confine tra realtà e finzione. WIM WENDERS. Il cielo sopra Berlino e Paris, Texas sono solo due delle pellicole che hanno trasformato la sua regia di in uno dei paradigmi della cinematografia attuale. Promotore del Nuovo Cinema Tedesco, il regista nato a Düsseldorf nel 1945 ha fatto incetta di premi, dall’Orso d’oro alla carriera al Festival di Berlino nel 2005 alla Palma d’oro a Cannes nel 1984.
1940
È fatto prigioniero dalle truppe naziste e fugge al terzo tentativo
1945
Gira Le Retour, documentario sul rientro in patria di prigionieri di guerra e deportati
1947
Il MoMA di New York gli dedica una mostra
Fonda l’agenzia Magnum Photos insieme a Robert Capa, David Seymour, George Rodger e William Vandivert
1952
Pubblica il suo primo volume, Images à la Sauvette
1954
È il primo fotografo a essere autorizzato a entrare in Unione Sovietica
1974
Riduce la sua attività di fotografo e si concentra sul disegno
2000
Crea la Fondation Henry Cartier-Bresson insieme a sua moglie Martine Franck e alla loro figlia Mélanie
2004
Muore a Montjustin
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OPINIONI
Non tutti i virus vengono per nuocere Massimiliano Zane progettista culturale
l Coronavirus ha creato I uno stato di emergenza che, tra gli altri, sta mettendo in ginocchio tutto il settore della cultura e della creatività dell’Italia, un comparto essenziale non solo per la nostra economia ma per la nostra stessa qualità della vita. Un ecosistema già endemicamente fragile, travolto da una emergenza contingente che ne ha portato alla luce difficoltà e contraddizioni. Una situazione a tratti surreale, che ha visto migliaia di operatori, di professionisti (molti dei quali senza alcuna indennità) e di imprese, accanto a milioni di visitatori e turisti, tutti “congelati” nel giro di 24 ore e fino a data da destinarsi. Una incertezza economica e sociale che potrebbe avere risvolti negativi a lungo termine e che rischia di produrre danni anche in regioni e luoghi oggi accessibili e non toccati dal virus, colpendo maggiormente realtà piccole o piccolissime e acuendo differenze geografiche e disomogeneità territoriale. Ecco allora che tra le pieghe di questa crisi emergono chiaramente due prospettive: da una parte quella politica, con il bisogno (urgente) di rafforzare e armonizzare la gestione di un settore (e la sua filiera) a oggi ancora troppo frammentato, esposto a contingenze terze imprevedibili. Un asset economico e produttivo (piace definirlo così) importante, tuttavia ancora volatile nel suo esser privo di una connotazione economica tale da permettergli di godere, tanto in tempi buoni, quanto in quelli di emergenza, di un “piano industriale” vero e specificatamente definito all’interno del quadro nazionale, che preveda azioni e supporti idonei per affrontare eventuali criticità, come qualunque altro settore produttivo cui viene richiesto di contribuire attivamente al PIL nazionale.
TECNOLOGIE E DIGITAL STRATEGY
La seconda prospettiva invece riguarda internamente il settore culturale stesso, costretto a limitare il contatto con i propri pubblici, o addirittura a cancellarlo, quindi anche a rivedere le modalità di comunicazione per mantenere vivo il rapporto con cittadini e potenziali visitatori. In questo senso sfruttare a pieno le potenzialità offerte dalle tecnologie, o dalle varie forme di smart-working, non è più solo una possibilità: oggi è una necessità. Ne sono un esempio le dirette streaming e le visite virtuali che difatti hanno già “aperto” alcuni musei tra Veneto e Lombardia che in questo modo (similmente alla scuola) hanno superato i propri spazi fisici di condivisione. Allora occorre riflettere sull’urgente necessità di una vera “digitalstrategy” per la cultura, applicata secondo un piano di sviluppo comune e nazionale. Una prospettiva, questa, che se messa in atto potrebbe sollecitare nuovi processi di contatto, offrendo ai luoghi della cultura nuove risorse e professionalità, ma anche inedite opportunità di conoscenza per i pubblici. POTENZIARE LA CULTURA
Temi questi che il COVID-19 ha reso attuali e concreti e che, forse, non sarebbero stati affrontati in altre situazioni (sicuramente non in maniera così stringente). Perché per generare “valori” attraverso il patrimonio servono le giuste condizioni, e se fino a poco tempo fa la priorità era individuare obiettivi di crescita condivisi (spesso utilizzati più per sterili classifiche che per altro), oggi appare a tutti chiaro quanto sia urgente definire un quadro di potenziamento del settore culturale e della creatività, che definisca anche tutti i mezzi e le prospettive di sostegno e superamento di eventuali crisi e flessioni, così da renderlo realmente maturo e pronto a contribuire attivamente (e non solo passivamente) allo sviluppo del sistema Paese.
E ora tocca a Raffaello Antonio Natali storico dell’arte
opo le puntate sull’Uomo vitruviano e sul Paesaggio 8P avevo pensato che per un po’ mi sarei astenuto, almeno su queste pagine, da ragionamenti sui prestiti delle opere d’arte; ma le polemiche che in questi giorni si sono pubblicamente levate intorno alla trasferta romana del Ritratto di Leone X coi due cardinali dipinto da Raffaello, m’inducono invece a riprendere subito il discorso. Non torno però sulla materia perché reputi che l’insistenza serva a favorire riflessioni in chi al governo sarebbe doveroso riflettesse (sono troppo avanti negli anni e ho accumulato troppa esperienza per coltivare l’ingenua fiducia che la riflessione sia una pratica ministeriale). Riprendo invece la questione perché in questi giorni gli strumenti di comunicazione, dando notizia delle dimissioni del Comitato scientifico degli Uffizi avverso al prestito del Leone X, evocano sovente la lista delle opere “imprestabili” della Galleria fiorentina (comprensiva del ritratto del papa), che per l’appunto fu stilata da me nel 2007 e subito spedita al Ministero. Mi contenni in questa maniera perché l’anno prima, fresco di nomina a direttore della Galleria degli Uffizi, avevo visto partire per Tokyo con il mio parere decisamente contrario l’Annunciazione di Leonardo.
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LEGGI E PARTENZE
M’ero opposto a quella trasferta non già per un capriccio, bensì per il divieto d’una legge (non d’epoca fascista, ma recente com’è il Codice Urbani, 2004) che al comma 2b dell’articolo 66 proibisce – e quasi mi ripugna citarlo per l’ennesima volta – l’esportazione fuori dal territorio nazionale di quei “beni che costituiscono il fondo principale di una determinata ed organica sezione di un museo, pinacoteca, galleria, archivio o biblioteca o di una collezione artistica o bibliografica”. E siccome per me l’Annunciazione di Leonardo calzava a pennello, avevo espresso – come m’obbligava il dovere di funzionario dello Stato e come la coscienza mi dettava – parere negativo. Ovviamente l’opera partì. E allo stesso modo sono da poco partiti per la mostra vinciana di Parigi l’Uomo vitruviano e il Paesaggio 8P, come se il primo non fosse parte del “fondo principale” della collezione di
disegni dell’Accademia di Venezia e il secondo non lo fosse di quello degli Uffizi. Per aggirare la legge sono stati addotti argomenti capziosi; e ancora s’avverte l’eco dello stridore delle unghie sugli specchi del Codice Urbani. Torno a ripetere che, quando ai ministri una legge non piace, è nelle loro prerogative – se ci riescono ‒ cambiarla. È invece giuridicamente e moralmente inammissibile che la trasgrediscano. Nel caso del Leone X di Raffaello tutto questo però non vale, giacché l’articolo della legge si volge alle opere per cui si chieda l’esportazione all’estero. Nondimeno in margine a quella lista, cui oggi ci si riferisce, avevo scritto alcune chiose che meritano in questo frangente d’essere richiamate. LA LISTA DEGLI UFFIZI
Dicevo allora ch’essa era stringatissima in sé (non avevo infatti voluto che mi si tacciasse d’esser talebano: ventitré opere in tutto) e che tanto più lo era in rapporto al numero grande di capolavori che il museo esibiva e che in essa non comparivano: del ricchissimo nucleo botticelliano – per dire – c’erano soltanto due opere e di quelli di Tiziano e Caravaggio solo una. Seguiva un’elencazione (veramente da brivido) d’artisti, dei quali nulla era incluso. Della lista pertanto io stesso denunciavo l’incompletezza, nel contempo auspicando (con buona dose d’ironia) ogni integrazione che sembrasse opportuna agli organi superiori. Ma subito esplicitamente dichiaravo che la lista contava opere di tenore storico e qualitativo a tal segno eminente da poter ben rappresentare i vertici assoluti dell’arte figurativa occidentale d’ogni tempo. Opere che (in quanto tali) non potevano essere esposte ai rischi che qualsiasi trasferta comporta, sia o non sia di lungo tragitto (rischi che sempre ci sono; e chi dica il contrario, mente). Opere dunque per le quali, proprio in virtù della loro eccellenza storica, culturale e linguistica, preannunciavo che fino al giorno in cui fossi rimasto direttore degli Uffizi avrei espresso parere contrario a qualunque prestito, all’estero o in Italia che fosse. Ventitré opere per le quali si viene agli Uffizi da Paesi che sono all’altro capo del mondo. E a chi, da quei posti lontani venga apposta a Firenze, importa poco se l’opera per la quale s’è mosso sia stata prestata all’estero o in Italia. Non la trova dove pensava fosse; e questo gli basta.
OPINIONI
Produzione di mostre ed export culturale Stefano Monti economista della cultura
indubbio: quando È sentiamo parlare di export è raro che si stia parlando di cultura, di musei o di mostre. Eppure questa associazione dovrebbe essere immediata. Naturale. Non si tratta di una riflessione meramente “economica”, ma di una visione a più ampio respiro, che coinvolge il ruolo che il nostro Paese ha affidato alla cultura: bandiera da sventolare al vento delle statistiche. Quando si parla di “viaggi e turismo”, la cultura pare essere la più importante opportunità di sviluppo del nostro Paese. Quando si tratta di fare riflessioni “strutturali”, invece, la cultura è molto più che emarginata, è ignorata. È chiaro che né la produzione né l’esportazione di mostre possono “incidere” in modo significativo sul PIL nazionale, ma possono avere degli effetti positivi che è importante considerare. Come rivelava un insolito studioso di economia, il famoso scrittore Fernando Pessoa, il rapporto tra cultura ed economia (Pessoa con più precisione parlava di “commercio”) è un rapporto consolidato fin dai tempi dei Greci: rotte commerciali e influenze culturali si sono da sempre intrecciate in uno sviluppo che, nella storia, non ha mai smesso di reiterarsi. In epoca contemporanea, questo binomio è stato guidato dagli Stati Uniti, con l’esplosione di quello che gli esperti di “cultural studies” chiamano “soft power”. LA SITUAZIONE ITALIANA
Il nostro Paese, invece, continua a giocare, in questo scacchiere, un ruolo meno che minoritario. L’influenza culturale che ci viene riconosciuta è l’influenza di un immaginario collettivo standardizzato che non risponde alle reali condizioni del nostro Paese. Se da un lato questo è un fenomeno più che auspicabile, dall’altro è inevitabile che, prima o poi, se non sapremo affermarci anche attraverso la nostra cultura, intesa come la cultura che rappresenta la nostra Italia nel nostro tempo, lo stereotipo positivo che ci mostra “meravigliosi” tenderà a svanire, e questo potrebbe avere non pochi
effetti sul resto dell’economia. I dati parlano chiaro. Secondo uno studio condotto da Promos, l’export culturale italiano è veramente molto basso: il volume d’affari di prodotti creativi, artistici e d’intrattenimento, è stato, nel 2017, di circa 200 milioni; quello degli articoli sportivi quasi quattro volte di più. L’export di giochi per computer e software è stato pari a 4 milioni, meno del fatturato estero di una singola impresa in altri settori. GLI EFFETTI SULL’ECONOMIA
In questo scenario, le mostre possono rappresentare un modo attraverso il quale raggiungere nuovi pubblici, costruire nuovi “immaginari”, affermare una produzione culturale viva, capace di rappresentare il nostro Paese con tutti i suoi limiti, ma anche con tutti i suoi pregi. È qui che risiede l’importanza dell’export culturale: se l’export delle materie prime ha effetti quasi esclusivamente economici diretti, l’export culturale è in grado di influenzare positivamente anche altri settori. Ciò non implica affermare il primato della cultura sul resto dell’economia. Implica affermare che la bilancia delle esportazioni può essere influenzata da dimensioni culturali. In Italia, ogni volta che si parla di cultura, si parla necessariamente di finanziamenti ‒ teatro, musei, bandi per associazioni culturali e chi più ne ha più ne metta. Eppure, per un settore che potrebbe avere un ruolo importante nella crescita internazionale della nostra cultura nel mondo, mancano anche misure minime di natura fiscale. Sarà forse perché il settore è popolato soprattutto da soggetti privati?
Mostre e musei: dall’“inimicizia” all’ibridazione Fabrizio Federici storico dell'arte
l fatto che la mostra si sia imposta negli ultimi decenni come il principale dispositivo di fruizione dell’arte, soppiantando il museo, obbliga quest’ultimo a una riflessione sulle proprie modalità operative, che già da più parti è stata avviata e che darà frutti sempre più tangibili negli anni a venire. Piaccia o meno, la mostra ha sostituito alla complessa polifonia del museo una tornita monodia, che è (generalmente) più facile da seguire, anche da parte di chi non ha una buona preparazione culturale e non frequenta abitualmente gli spazi dell’arte. Altrimenti detto, ciò che sorregge la mostra è una narrazione, un racconto per immagini e oggetti che solitamente fa più presa sullo spettatore rispetto alla presentazione paratattica dei pezzi, tipica del museo ottonovecentesco. Il museo deve dunque raccogliere la sfida lanciata dalle mostre, presentando le proprie raccolte sotto forma di una o più esposizioni, temporanee ma non troppo (diciamo, ad esempio, della durata di sei mesi), che puntino a illustrare al pubblico un determinato periodo della storia dell’arte, un movimento, una porzione della storia della città e del territorio in cui il museo è situato. Ne deriverebbe un maggiore dinamismo dell’istituzione museale e il cittadino sarebbe invogliato a tornarvi più spesso, per vedere “che c’è di nuovo”. Senza pretendere, peraltro, di vedere tutti insieme i pezzi più significativi del museo: alcuni di essi potrebbero non essere esposti, se non sono inseriti nei percorsi espositivi delle ‘mostre museali’ in corso.
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UN CIRCOLO VIRTUOSO
Questo aspetto si lega alla questione delle opere in prestito: alla fine di febbraio la polemica si è accesa, per motivi diversi, intorno alla concessione del Leone X di Raffaello alle Scuderie del Quirinale e sul caso della quarantina di opere di Capodimonte (tra cui molti dei dipinti più importanti del museo) spediti per quattro mesi a una mostra a Fort Worth, in Texas. Una riorganizzazione sotto forma di rassegne temporanee degli allestimenti museali
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(eventualmente integrati da pochissimi, irrinunciabili prestiti) consentirebbe di vedere sotto una luce diversa anche questo problema: a non poter essere prestate non sarebbero tanto le opere ‘identitarie’, quanto quelle che in quel dato momento sono indispensabili per le mostre che il museo ha messo in piedi al proprio interno. Armonizzando il calendario delle rassegne organizzate dal museo e quello dei prestiti si potrebbe creare un circolo virtuoso, in cui l’assenza di determinati pezzi non è avvertita dal visitatore come una mancanza. Fermi restando, naturalmente, alcuni capisaldi: le buone condizioni dell’opera e la sicurezza del trasporto, il fatto che magari non si prestano tutte insieme quaranta opere tra le più importanti, la validità scientifica e divulgativa della mostra cui il pezzo è destinato (di mostre inutili, si sa, è pieno il mondo). L’OPINIONE DI LONGHI
Le narrazioni che andranno ad animare le sale dei musei saranno di vario genere, ai direttori e al personale spetterà il piacere di escogitarne di sempre nuove e accattivanti. Certo, sembra opportuno che a sostenerle ci sia una solida visione storica, che si traduca in percorsi ordinati cronologicamente, i più facili da seguire e i più efficaci, forse, a livello comunicativo. Narrazioni di storie, insomma, da preferire a quelle “ideuzze pretestuali come ‘luce e ombra’, ‘fantastico’, ‘diabolico’” che già nel 1959 Roberto Longhi vedeva alla base di tante mostre “che si risolvono per lo più in ozii mondani e diplomatici, o in isvaghi municipali a scopo turistico”. Longhi lo scriveva in un intervento dal titolo Mostre e musei, in cui precocemente evidenziava una “inimicizia” tra le une e gli altri, cui sarebbe stato opportuno porre fine. Il grande storico dell’arte si augurava che i musei sarebbero diventati “sempre più cose vive; mostre permanenti, e dunque sempre con qualche punto di vantaggio sulle mostre improvvisate”. Se quindi Longhi sentiva, per un verso, la necessità di superare la contrapposizione, per l’altro non metteva in discussione il primato del museo. Oggi il conflitto va superato per davvero: occorre che i musei siano disposti a imparare dalle (buone) mostre. Ovvero, per chiudere ancora con Longhi: “‘Le esposizioni? Ma le esposizioni siamo noi!’: questo dovrebbero dire i musei”.
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PERCORSI
Tra Abruzzo e Molise
di Santa Nastro
CAFÉ LES PAILLOTES Piazza le Laudi 2 085 61809 lespaillotes.it fino al 20 aprile HISTORY REPEATS HISTORY a cura di Massimiliano Scuderi FONDAZIONE ZIMEI Via Aspromonte 4
fino al 28 marzo ALEXANDRA BARTH a cura di Massimiliano Scuderi SPAZIO URBAN GALLERY Via L’Aquila 31
MONTESILVANO PESCARA
SANTO STEFANO DI SESSANIO
TERMOLI
MACTE Via Giappone 0875 808025 fondazionemacte.com
CIVITACAMPOMARANO
CAMPOBASSO
SEXTANTIO Via della Torre 0862 899112 sextantio.it
fino al 15 aprile ANTONIO PETTINICCHI – VEDERE IL PAESAGGIO a cura di Lorenzo Canova, Piernicola Maria Di Iorio, Riccardo Gentile Lorusso GALLERIA G. MAROTTA ‒ L’ARATRO Via De Sanctis aratro-galleria-gino-marotta.business.site
dal 18 al 21 giugno CVTÀ STREET FEST cvtastreetfest.it
LE MOSTRE Più che una mostra si tratta di un insieme di esposizioni che inaugurano nella relativamente giovane Fondazione Zimei di Pescara. Nasce infatti nel 2015 “in un momento di totale crisi culturale del territorio. Dedicata alla memoria dell’imprenditore Antonio Zimei, è presieduta dalla figlia Sabrina e diretta da me fin dai primi istanti”, ci racconta Massimiliano Scuderi. “L’interesse principale dell’organizzazione è quello di lavorare sulle residenze di artista, mantenendo di fatto la vocazione del luogo ovvero quella di una casa aperta alla creazione contemporanea, recuperando una dimensione che spesso nell’arte sembra essersi persa ovvero la qualità delle relazioni. Da noi gli artisti non solo risiedono per un periodo, ma tornano per continuare i loro progetti. Così è stato per l’americano Peter Fend, ma anche per Luca Vitone per il quale abbiamo prodotto alcuni lavori oggi visibili fino al 15 marzo nella grande mostra a lui dedicata dal Pecci di Prato. Un altro aspetto fondamentale che emerge dal nostro programma è quello del rapporto con l’ambiente. Riteniamo che l’arte sia un punto di vista privilegiato da cui osservare i cambiamenti globali e restituire degli strumenti di lettura critica della realtà”. All’interno di questa cornice la Fondazione ha inaugurato due mostre a fine febbraio. La prima, History repeats History, riunisce Petra Feriancová, Babi Badalov, Cyril Blažo, Stano Filko, Vladimír Havlík, Július Koller, Tamás St.Auby, Milan Tittel, configurandosi come una ricognizione transgenerazionale sugli artisti di est e centro Europa. La seconda è dedicata alla pittrice slovacca, esponente della Nouvelle Vague di Bratislava, Alexandra Barth, ed è in
PERCORSI
collaborazione con lo spazio urban gallery di Pescara. “Il 2020 è un anno importante per noi in quanto siamo rientrati nella mappatura OPIAC del Comitato delle Fondazioni italiane presieduto da Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Il dossier si basa sulla qualità e sulla continuità delle fondazioni private e la Fondazione Zimei compare come unica realtà operativa in Abruzzo. Inoltre a giugno inaugureremo un secondo spazio al centro di Pescara, che lavorerà con un progetto autonomo dalla sede principale, ma sempre in stretta relazione”, conclude Scuderi. L’EVENTO Dal 18 al 21 giugno torna per le strade di Civitacampomarano, in provincia di Campobasso, il CVTà Street Fest, con la direzione artistica di Alice Pasquini (aka AliCè). Nasce da una bella storia: invitata casualmente a dipingere dalla presidente della Proloco locale, la Pasquini torna nel borgo che è in realtà il paese natio del nonno; da questo viaggio nella memoria intrapreso nel 2014 prende vita un evento che torna a riqualificare e abbellire ogni anno la piccola località in Molise. IL MUSEO Il museo si trova in Molise. È L’Aratro, la galleria dedicata all’artista Gino Marotta e collegata all’Unimol, l’Università degli Studi del Molise. Diretta da Lorenzo Canova, “nasce nel 2007 come spazio dedicato a mostre di arte contemporanea, italiana e internazionale, presentata in tutte le sue diverse forme espressive attuali: dall’installazione al video, dal digitale fino alla pittura, alla scultura e al disegno,
nel loro intreccio con il design, l’architettura e la moda. Inoltre, all’interno del centro, è presente una collezione d’arte contemporanea aperta a tutti; una raccolta utile alla didattica, alla ricerca e al mondo dell’arte contemporanea”, spiega Piernicola Maria Di Iorio, curatore delle collezioni di arte elettronica. Fino al 15 aprile è in corso la mostra Vedere il paesaggio, dedicata all’artista Antonio Pettinicchi. “Ogni uomo ha intorno un microcosmo e ogni artista, con maggiore o minore coscienza, è imbevuto di quel microcosmo e finirà in qualche modo per rielaborarlo. È anche questa la storia e la consapevolezza di Antonio Pettinicchi, il cui microcosmo è il Molise, terra di emigranti, di un’emigrazione costante e rumorosa, terra nella quale le culture e i costumi mutano lentamente e che, ancora oggi, vive un’evoluzione placida e differente. Terra, infine, i cui abitanti si distinguono per quella nota eccessiva ma genuina e vitale di attaccamento alle proprie origini, di appartenenza. Pettinicchi stesso, interprete di questi luoghi e delle sue genti, volontariamente rinuncia all’esodo moderno attuato dai suoi coevi e, cosciente di trovare nell’antica lentezza ritmica e rurale del Molise quell’infinita armonia di luci e dinamiche esigenti, riesce attraverso i suoi lavori ad attuare una visione che non è solo regionale, ma comune e trasferibile in ogni luogo”, spiega il curatore. IL LUOGO Del nuovo museo MACTE di Termoli Artribune ha molto parlato. Si tratta di un progetto cominciato ben quattro anni fa e diventato realtà nel 2019 in una struttura pensata per essere mercato del pesce, poi destinata, dopo varie vicissitudini, al primo museo
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d’arte contemporanea della città. Il museo affonda le radici nella antica storia del Premio Termoli, nato nel 1955, grazie all’impegno costante dell’artista Achille Pace. Tante le acquisizioni, realizzate grazie al Premio, che oggi costituiscono il corpus di una interessante collezione, composta da ben 500 opere e allestita parzialmente (con la curatela di Laura Cherubini e Arianna Rosica) nelle sale del museo. Tante le trasformazioni, anche architettoniche, che ben presto riguarderanno lo spazio. Nel frattempo la Fondazione che ne governa le attività ha anche lanciato un bando pubblico per trovare il direttore. MANGIARE E DORMIRE Sia in Abruzzo che in Molise non mancano i luoghi in cui sperimentare la cucina generosa di queste due magnifiche regioni, entrambe abbracciate dal mare e accarezzate dai monti. A Pescara suggeriamo il Café Les Paillotes, con la cucina dello chef Walter Canzio. Si dorme al Sextantio a Santo Stefano di Sessanio, in provincia dell’Aquila, un albergo rustico diffuso nel piccolo borgo sul Gran Sasso, per un’esperienza di ospitalità di altissimo livello (ideata dall’imprenditore Daniele Kihlgren), che affonda le radici nella tradizione antichissima del luogo.
in alto: Antonio Pettinicchi, Mahler a Lucito (part.), 2003, courtesy Galleria Gino Marotta
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OLTRECONFINE
A Bilbao con Olafur Eliasson
di Federica Lonati
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acile, stimolante e coinvolgente. Se tutta l’arte del nostro tempo fosse, al primo approccio, così immediata come l’opera di Olafur Eliasson (Copenhagen,1967), avrebbe senza dubbio un appeal maggiore nei confronti della gente. E perderebbe forse quell’aura di oscuro oggetto per pochi iniziati, troppo spesso ostico e incomprensibile. L’artista danese di origini islandesi ‒ che vive e lavora tra Berlino e Copenhagen ‒ ha il dono di trasformare l’arte contemporanea in un’esperienza individuale o collettiva attraente, che, come un gioco, coinvolge i cinque sensi per portare il suo messaggio a destinazione. Lo testimonia il numero di visitatori che ha affollato l’estate scorsa la sua prima grande retrospettiva alla Tate Modern di Londra. La mostra In Real Life, realizzata in collaborazione con il Guggenheim di Bilbao, è ora allestita nel capoluogo basco, dove sarà possibile vederla o rivederla fino al 21 giugno, con qualche piccola variazione nel montaggio. PERCEZIONE SENSORIALE Per Eliasson lo spettatore non è una figura accessoria all’interno del processo creativo: senza l’interazione con il pubblico ‒ una partecipazione anche solo emotiva o stimolata da
pura curiosità ‒, il magico mondo dell’artista scandinavo non si animerebbe, perderebbe forse parte del suo significato più profondo. È il caso dell’ombra colorata sulla parete bianca di una sala vuota (Your encertain shadow, color, 2010): nel momento in cui entra in campo un soggetto, l’ombra compare in scena per proiettare e ingigantire ogni minimo movimento. “Tu dapprima vedi l’ombra, ne percepisci con sorpresa la presenza” ‒ spiega Olafur ‒ “e poi, in un secondo momento, anche l’ombra vede te, ti segue, in una doppia prospettiva che diverte molto la gente”. Eliasson sfrutta l’effetto sorpresa, invita a interagire con i suoi giochi ottici o esperimenti naturali; stimola a riflettere sull’apparente semplicità del mondo che ci circonda, fatto spesso di polvere e acqua, luci e ombre, colori e geometrie, specchi e riflessi. Ma non tutto ciò che sembra immediato o evidente è sempre così facile da creare o da capire. La realtà è talvolta (anzi molto spesso, secondo l’artista) puro artificio: lo dimostra la cascata ricreata al di fuori dal museo (della serie Waterfall, 2019, ma iniziata negli Anni Novanta), usando un’impalcatura di undici metri d’altezza dalla quale una pompa getta con forza nel lago sottostante l’acqua, che risuona nell’aria come se ci trovassimo sulle pendici alpine.
Fino al 21 giugno
OLAFUR ELIASSON In real life
a cura di Lucía Aguirre e Mark Godfrey Catalogo Tate Enterprise GUGGENHEIM MUSEUM Avenida Abandoiborra 2 – Bilbao +34 944 35 90 00 guggenheim-bilbao.eus
in alto: Olafur Eliasson, Your uncertain shadow (colour), 2010. Photo María del Pilar García Ayensa/Studio Olafur Eliasson. Thyssen-Bornemisza Art Contemporary Collection, Vienna © 2010 Olafur Eliasson a destra:
Olafur Eliasson. Photo Runa Maya Mørk Huber / Studio Olafur Eliasson © 2017 Olafur Eliasson
OLTRECONFINE
Tutti noi siamo atomi e batteri, ossia siamo natura. Quando gli atomi cominciano a riflettere sulla realtà degli atomi stessi, allora la natura si converte in cultura TRENTA OPERE PER TRENT’ANNI In Real Life racconta, attraverso una trentina di pezzi senza un preciso filo cronologico, trent’anni di attività dell’artista multidisciplinare. La mostra a Bilbao è curata dalla spagnola Lucía Aguirre, che ha collaborato al progetto insieme a Mark Godffrey, curatore dell’edizione londinese. L’architettura del museo ‒ il visionario edificio progettato da Frank Gehry più di vent’anni fa, dai soffitti altissimi e dalle pareti spesso sinuose ‒ ha influito sensibilmente sull’allestimento e sulla scelta delle opere in mostra. Rispetto a Londra, per esempio, a Bilbao non c’è un corridoio della nebbia, ma una vera e propria stanza, (Your atmosferic colour atlas, 2009), nella quale il visitatore si immerge come nell’atmosfera inquinata delle nostre metropoli, non senza una certa sensazione di disagio. La visita è libera e permette di accostarsi a opere d’esordio, della prima metà degli Anni Novanta (come la poetica Window projection del 1990) o Wannabee (del 1991) che Olafur crea in maniera del tutto sperimentale nel bar dove lavorava da giovane; fino ai recentissimi Colour Experiment (del 2019) o The presence of absence pavilion (bronzo del 2019), che richiama idealmente le grandi installazioni-performance realizzate con i ghiacci della Groenlandia a Copenhagen nel 2014, o durante la Cop21 di Parigi, nell’anno seguente. Ma sono il passaggio attraverso il cilindro a specchi deformanti di Your Spiral view (2002), gli effetti ottici stranianti della sala illuminata da lampade a monofrequenza (Room for one color, 1997) o la meravigliosa visione di Beauty (1993) a rendere la visita alla mostra un’esperienza sensoriale forte e intensa. Nella prima sala, un’immensa scatola trasparente (Model Room, 2003) custodisce circa 450 modellini o maquettes di progetti, artistici, architettonici o scientifici, datati tra il 1996 e il 2014, prima cioè dell’avvento del 3D. Stupisce la quantità e varietà delle ricerche che Eliasson affronta da anni nel suo studio di Berlino, insieme a un centinaio di collaboratori dalle più svariate specializzazioni, come architetti, artigiani, biologi, storici dell’arte e persino cuochi. L’arte di Olafur Eliasson è immersiva e affascinante: l’immagine riflessa upside down nello specchio concavo; l’aroma che emana dalla parete di licheni bianchi, soffici al tatto; il movimento di un grande ventilatore che oscilla sulla testa del pubblico, a seconda dell’energia che sprigiona, fino alla visione falsata delle opere in una stanza divisa in due da un telo spesso di plastica trasparente. Basta poi adagiarsi comodamente su Fog couch (2018), l’enorme sofà dello studio di Olafur a Berlino, per capire lo spirito
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La cucina è un processo collettivo, un sottoprodotto sociale delle nostre culture. Ogni giorno nella cucina dello Studio ci ritroviamo non solo per un momento di pausa e di riflessione, ma anche per sperimentare con gli alimenti 1967
Entriamo in un museo per vedere la realtà con maggiore densità, per capire noi stessi. L’arte non vive isolata dal suo intorno dell’artista: ogni singola posizione delle sedute (14 in tutto) corrisponde a un momento diverso nella sua giornata lavorativa. DESIGN E IMPEGNO SOCIALE Anche gli interessi politico-sociali e le preoccupazioni etiche di Olafur Eliasson sono evidenti: l’arte è riflessa nella geometria dell’universo e nelle sue leggi scientifiche, ma le meraviglie della natura ‒ i ghiacciai e fiumi che spesso fotografa ‒ sono contaminati dall’azione dell’uomo. L’arte si converte non solo in un mezzo straordinario per riflettere sul presente e indagare il passato, ma anche in uno strumento per agire sul futuro. Da qui le azioni di Olafur Eliasson fuori dai musei, che nascono spesso con una coscienza ecologica o con un proposito umanitario, e che l’anno scorso gli sono valsi il titolo di Ambasciatore di buona volontà nel programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. “L’arte non è l’oggetto ma ciò che l’oggetto fa al mondo”, dichiara l’artista. Nascono così i suoi tanti progetti etico-solidali ed eco-sostenibili, come The Sun Light (2012), per portare la luce nei luoghi dove l’assenza di elettricità non permette ai giovani di studiare; The Green Light, frutto di un doppio workshop artistico con immigrati e richiedenti asilo, in collaborazione con TBA21, la fondazione di Francesca Thyssen; e la recente SammanLänkad, serie di piccoli pannelli solari domestici esito della partecipazione dell’artista ai Democratic Design Days promossi da Ikea.
1990-1994
1995
Nasce a Copenhagen da genitori di origini islandesi
Esordio nel mondo dell’arte Fonda a Berlino lo Studio Olafur Eliasson
2003
Rappresenta la Danimarca alla Biennale d’Arte di Venezia con The Blind Pavilion
2010
Prima personale negli Stati Uniti al MoMA di New York
2012
Little Sun, la lampada ricaricabile a energia solare per dare luce alle popolazioni africane senza elettricità
2014-15
Ice Watch/Melting, a Copenhagen prima performance pubblica con il ghiaccio portato degli iceberg della Groenlandia
2016-17
Green Light, workshop artistico con la partecipazione di immigrati richiedenti asilo e rifugiati politici, a Vienna
2019
Nomina ad Ambasciatore di buona volontà del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile
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GRANDI CLASSICI
Simone Peterzano maestro e allievo di Stefano Castelli
Fino al 17 maggio
TIZIANO E CARAVAGGIO IN PETERZANO
a cura di Simone Facchinetti, Francesco Frangi, Paolo Plebani e M. Cristina Rodeschini ACCADEMIA CARRARA Piazza Giacomo Carrara 82 ‒ Bergamo 035 234396 lacarrara.it
Simone Peterzano, Venere e Cupido con due satiri in un paesaggio (part.), 1570, Pinacoteca di Brera, Milano
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llievo di Tiziano, maestro di Caravaggio: Simone Peterzano (Venezia, 1535 circa ‒ Milano, 1599) si colloca in una posizione di crocevia fondamentale nella storia dell’arte. Ma la sua opera, studiata approfonditamente solo in tempi recenti, ha un grande valore autonomo al di là di tale contingenza. La monografica che gli dedica l’Accademia Carrara di Bergamo (ospitata negli spazi dell’adiacente GAMeC) ne ristabilisce l’importanza ricostruendone tutto il percorso, dalla fase veneziana a quella lombarda. Ed è una mostra da non perdere per diversi motivi. Per l’ampiezza della gamma di opere di Peterzano presentata, in primis. Per il valore di ricerca e aggiornamento dell’esposizione, dato che nuovi particolari biografici e artistici, nuove attribuzioni e scoperte sono fioriti solo negli ultimi decenni. E non da ultimo per la presenza di prestiti di clamorosa importanza: basti citare, per quanto riguarda Caravaggio, i Musici (1597) dal Metropolitan Museum di New York e il Bacchino malato (1595-96) dalla Galleria Borghese e, di Tiziano, il San Girolamo penitente (1575) dal Thyssen-Bornemisza di Madrid e l’Annunciazione (1535) dalla Scuola grande di San Rocco a Venezia. SOBRIA MAESTOSITÀ Si parte da una sala-prologo che immerge immediatamente nella maestosità della pittura di Peterzano con i due monumentali teleri per la chiesa dei Santi Paolo e Barnaba di Milano (1573-74). Il restauro di uno dei due dipinti è stato appena terminato, quello dell’altro viene completato durante la mostra, alla presenza del pubblico. Il percorso vero e proprio, sistematico e cronologico, parte poi con gli anni giovanili dell’artista, quelli veneziani. Subito prende avvio il confronto con il maestro Tiziano, in particolare tra due Annunciazioni. Dipinti come la Cena in Emmaus e la Madonna col bambino (entrambi del 1560-65), poi, danno già da subito un’idea dell’eloquenza fortissima ma contenuta e sobria dello stile di Peterzano. Il confronto con Tiziano ma anche con il
Veronese, di cui è esposta una Madonna col bambino del 1555-60, evidenzia come la collocazione stilistica di Peterzano nell’ambito della pittura veneta del Cinquecento non sia discutibile, al di là delle prove documentarie. Seguono le sezioni sui soggetti profani. Prima le scene musicali, nelle quali l’artista si specializzò all’interno della bottega di Tiziano, e poi quella sui soggetti erotici, dove il confronto tra Peterzano (Venere con cupido e un satiro, 1565-70 e Venere con due satiri, 1568-70), Tiziano (Venere con cupido dal Prado di Madrid, 1550-55) e Tintoretto (Venere, Vulcano e Marte, 1550-52 dalla Alte Pinakothek di Monaco) è di vertiginoso livello, anche emotivo. GRANDEZZA E AUTONOMIA Al piano superiore, la fase lombarda viene esplorata con dovizia di particolari. Non solo grazie al confronto diretto con i capolavori dell’allievo Caravaggio, ma anche con una sezione sulla pittura sacra ‒ il confronto qui è tra due Resurrezioni di Peterzano e di Tiziano, mentre fra gli altri dipinti spicca un peculiare Cristo morto del 1582-84, che permette di apprezzare i cambiamenti, piuttosto veloci, nello stile dell’artista. Da ammirare anche la piccola e preziosa Deposizione di Cristo dalla croce su ardesia (1572-75), con un serratissimo rapporto tra l’estensione orizzontale e quella verticale della scena e una drammaticità accentuata dallo spazio ristretto. E c’è anche una sala con disegni di grande pregio ormai certamente attribuiti alla mano di Peterzano o in qualche caso alla sua bottega. Non mancano poi i documenti, come il contratto di apprendistato di Caravaggio e un esemplare delle Rime di Lomazzo che testimoniano dell’atto di commissione a Peterzano di Angelica e Medoro del 1571-72, altro straordinario dipinto esposto. Anziché cercare pretestuosamente consonanze letterali con Tiziano e Caravaggio, la mostra ricostruisce dunque la grandezza e l’autonomia di Peterzano, ricollocandolo definitivamente nell’ambito della pittura veneta e ristabilendone con completezza l’apporto a quella lombarda.
DIETRO LE QUINTE
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La luce e l’anima di Gaetano Previati di Marta Santacatterina
U
n ponte tra Simbolismo, Divisionismo e Futurismo: la curatrice Chiara Vorrasi presenta così Gaetano Previati (Ferrara, 1852 – Lavagna, 1920), uno dei rari artisti – con Giovanni Segantini, Medardo Rosso, Pellizza da Volpedo – a salvarsi dall’accusa di “passatismo” scagliata da Umberto Boccioni il quale, vedendo nel 1910 Paolo e Francesca del pittore ferrarese, ne rimase profondamente colpito, spingendolo a scrivere che con Previati le forme cominciavano a parlare come musica, i corpi aspiravano a farsi atmosfera e il soggetto era pronto a trasformarsi in stato d’animo. Quegli stati d’animo che, da fine Ottocento, divennero cruciali per tante discipline artistiche, dalla poesia di Baudelaire alla musica e alla pittura. Ma ci sono voluti cent’anni, dichiara ancora Vorrasi, “perché ci si ponesse il problema di riaprire il caso Previati, un artista che va considerato il padre dell’avanguardia del Novecento nonostante illustri storici dell’arte come Argan e come Longhi lo considerassero un fenomeno di superficie, un innamoramento causato dallo scientismo dell’Ottocento, tutto sommato non troppo convincente”; la mostra di Ferrara che ora ne celebra il centenario dalla morte finalmente lo riafferma quale caposaldo della via italiana alla modernità. LE OPERE IN MOSTRA Gli esordi di Previati si collocano in un contesto romantico che caratterizza la sua formazione e che lo porta a scegliere temi tradizionali, ma solo per poco; in breve, infatti, “capisce qual è la sua direzione e approda al Simbolismo, all’arte di esprimere l’inesprimibile, di varcare le apparenze reali e la gabbia che costringe le apparenze dentro la forma. Accede alla dimensione interiorizzata della fantasticheria e del sogno: le linee diventano fluide come la musica, mentre il colore è in grado di accendere la risposta empatica alle emozioni”, racconta sempre la curatrice. La mostra si apre allora con due sorprendenti versioni di un soggetto che riprende l’immaginario dei poeti maledetti intenzionati a superare la barriera della realtà oggettiva, cioè Le fumatrici di oppio, nonché con
un’inquietante, quasi gotica – e chi se lo aspettava, dal “pittore della luce”? – Prima comunione del 1884. Ma ben presto l’attenzione del pittore si rivolge a quella suggestione luminosa che solo il colore diviso può dare: ecco Pace (titolo originario di Nel prato, del 1889-90), con cui Previati aderisce al Divisionismo, tecnica che gli consente di esprimere una sensibilità moderna che, dopo l’avvento della fotografia, non è più disposta a credere all’apparenza sensibile delle cose. L’artista allora “scarta la realtà e recupera tutti gli stimoli che gli vengono dalla scena contemporanea e le atmosfere sfumate della Scapigliatura per creare un coinvolgimento in chi osserva l’opera, per invitarlo ad accedere alla dimensione dell’immaginazione”. UN PITTORE MODERNO Preziosa per la mostra – che riunisce 98 opere, compresi alcuni documenti inediti – è la collaborazione con l’archivio degli eredi poiché, oltre a rivelare la concezione originaria di alcune opere, ha permesso di studiare le ricerche di Previati sul connubio pittura e musica, e disegno e teatro. A tal proposito sono esposti dei lavori in cui l’artista ha dato un’interpretazione moderna a due temi prettamente ferraresi: uno centrato sul recente e inaspettato ritrovamento del quadro giovanile raffigurante Torquato Tasso e che si pensava perduto. Il secondo è rappresentato da un’opera totale che prevedeva la musica di Vittore Veneziani, la poesia di Domenico Tumiati e la proiezione dei disegni di Previati, che ora si possono ammirare e che raccontano la tragica storia di Ugo e Parisina, episodio di sangue avvenuto nel 1425 proprio nelle carceri del Castello Estense. Un’accelerazione improvvisa chiude il percorso: La ferrovia del Pacifico è un grande quadro databile attorno al 1914, e la data merita di essere sottolineata perché l’Italia in quegli anni era immersa nel turbinio futurista, con i suoi inni alla velocità e all’energia. L’anziano Previati non abbandona la tecnica divisionista, cifra del suo stile, ma accetta la sfida della modernità, e in quella locomotiva sbuffante che attraversa rapida un ponte sospeso in ferro c’è un po’ di quel sentimento che animava i suoi giovani “figli” futuristi.
fino al 7 giugno
TRA SIMBOLISMO E FUTURISMO. GAETANO PREVIATI
a cura di Chiara Vorrasi Catalogo Fondazione Ferrara Arte CASTELLO ESTENSE Largo Castello 1 – Ferrara 0532 299233 castelloestense.it
Gaetano Previati, Paolo e Francesca, 1909, Museo dell’Ottocento, Ferrara
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RUBRICHE
Arte e paesaggio
Il museo nascosto
asa Wabi è una fondazione con sede sulla costa di Oaxaca, in Messico. Nasce dal progetto visionario di Bosco Sodi e viene progettata dall’architetto Tadao Ando nel 2014. A questi nomi si affianca il ‘landscape designer’ Alberto Kalach, che sviluppa un giardino di 27 ettari, con l’obiettivo di catalogare e conservare le specie circostanti e di promuovere l’educazione ambientale. Oltre a varie specie di palme, cactus e succulente, il giardino ospita in particolare l’albero di guayacan, una specie autoctona quasi estinta. Questa pianta veniva utilizzata per scopi medicinali e la fondazione intende dare priorità alla sua sopravvivenza.
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THE UNDERGROUND SCULPTURE PARK Presso la Fondazione Casa Wabi si è da poco inaugurato The Underground Sculpture Park, il parco delle sculture seppellite, realizzato dal francese Loris Gréaud, primo artista a utilizzare tutto lo spazio del Palais de Tokyo di Parigi con il suo progetto Cellar Door (2008-11). Per Casa Wabi ha selezionato una ventina di opere iconiche, le ha distrutte e poi ha seppellito i resti per sempre lungo i sentieri vegetali cresciuti all’interno dei giardini. Questo vero e proprio ‘parco di sculture’ rimarrà di fatto nascosto al pubblico. Solo una serie di panchine, con la data di apertura ufficiale del parco, saranno collocate sopra gli spazi scavati per l’interramento delle opere, in attesa che la vegetazione torni a ricoprire i sentieri del giardino. I visitatori potranno sedere su di esse, godere con uno sguardo contemplativo il paesaggio circostante e riflettere sulle opere d’arte che – di fatto ‒ giacciono a pochi metri sotto i loro piedi. ARTE E IMMAGINAZIONE Il concetto veicolato da Gréaud, semplice e al tempo stesso estremamente intricato nella sua esecuzione, parte dall’idea di un luogo liberamente accessibile, apparentemente senza tempo, e in perfetta armonia con l’ambiente circostante. Le opere sono invisibili, ma fisicamente presenti. I visitatori sono quindi incoraggiati a pensare a questi pezzi, a immaginarli, a fantasticare su di essi. L’intenzione dell’artista non è quella di porre fine alle sue opere d’arte, ma di iniziare un’esplorazione delle loro potenzialità attraverso l’immaginazione di tutti, utilizzando questa forma di autonegazione. L’Underground Sculpture Park invita a osservare questo evento poetico, in cui l’opera d’arte è accessibile solo attraverso la mente delle persone. Un intrigante percorso tra archeologia e spazio vegetale, che pone domande sulla questione della visibilità delle opere d’arte e sulla loro potenziale destinazione. Claudia Zanfi
PUERTO ESCONDIDO Carretera Federal Salina Cruz Santiago Pinotepa Nacional Km. 113 casawabi.org
ella sua casa anche le ombre sono amiche, diceva Alfonso Gatto a proposito del palazzo di Girolamo Comi a Lucugnano. Siamo nel Salento estremo, a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca. Qui – dopo gli anni della formazione tra la Svizzera e Parigi e dopo una lunga permanenza a Roma – ritorna a casa il poeta Girolamo. Siamo nella seconda metà degli Anni Quaranta e con sé ha esperienza, visione e la voglia di impegnarsi per costruire in questo lembo periferico un’esperienza di condivisione e pratica, intellettuale e letteraria, insieme ai suoi compagni di strada.
Loris Gréaud, The Underground Sculpture Park, courtesy Fondazione Casa Wabi, Messico
LA STORIA DEL PALAZZO In un fatidico 3 gennaio 1948 al Palazzo Comi di Lucugnano fonda l’Accademia Salentina. Con lui gli scrittori e poeti Oreste Macrì, Michele Pierri e Maria Corti e gli artisti Vincenzo Ciardo e Ferruccio Ferrazzi. Il Palazzo, poco prima della sua morte nel 1968, viene venduto alla Provincia di Lecce per le difficoltà economiche di Girolamo. Prima di quel periodo drammatico per la sua vita, il collettivo si incontra, trascorre dei giorni insieme, vive le stanze dense di libri – una straordinaria biblioteca in lingua francese, anzitutto –, dipinti, arazzi e grandi sale accoglienti, dove vivono sotto l’occhio vigile della governante di casa, Tina Lambrini, che sarà poi moglie di Comi e, da vedova, straordinaria luce di questa grande casa, custode di una memoria densa. Concepiscono anche una rivista, a cui collaborano grandi firme del panorama culturale italiano.
Il giardino di Casa Wabi
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IERI E OGGI “‘Una generosa utopia’. Così Maria Corti nella premessa all’antologia della rivista ‘L’Albero’, curata da Gino Pisanò per Bompiani, definisce il progetto culturale di Girolamo Comi. L’Accademia Salentina, che muove i suoi primi passi all’inizio del gennaio del 1948, nasce con un respiro nazionale, a dispetto della perifericità geografica e culturale di Lucugnano e del Salento”, ricorda oggi Luigi De Luca, direttore del Polo biblio-museale di Lecce, all’interno del quale rientra anche Palazzo Comi grazie all’impegno della Regione Puglia. Ed è proprio l’assessore regionale all’industria turistica e culturale Loredana Capone a rammentare che “Girolamo Comi ha forse inventato la pratica delle residenze d’artista, quando ha aperto il suo palazzo di Lucugnano agli amici intellettuali e artisti dell’Accademia Salentina. Trascorrevano dei lunghi periodi di comunione, studiando, discutendo, scrivendo, ma anche passeggiando alla scoperta del Capo di Leuca”. Oggi un’associazione di giovani operatori culturali (dedicata alla memoria di Tina Lambrini) si rimbocca le maniche, giorno dopo giorno, per renderlo spazio fruibile dalla comunità. Quotidianamente è infatti spazio di impegno e progettualità. Lorenzo Madaro
LUCUGNANO (LE)
Palazzo Comi Via delle Grazie 1 380 4580810
Interno di Palazzo Comi. Photo Maurizio Buttazzo. Courtesy Polo biblio-museale di Lecce
RUBRICHE
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Aste e mercato
Il libro
arigi e Francis Bacon (Dublino, 1909 – Madrid, 1992) hanno avuto sempre un legame strettissimo. Basti pensare che la personale che lo consacra si tiene nel 1971 al Grand Palais e che la retrospettiva che lo celebra è allestita nel 1996 al Centre Pompidou. Per non parlare dell’amicizia intellettuale più stimolante, quella con Michel Leiris, e dell’autore della monografia indubbiamente più profonda, firmata da Gilles Deleuze.
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BACON 2019 A rinsaldare il legame tra la Ville Lumière e uno dei più grandi pittori del secondo Novecento è stata la mostra, ancora una volta al Pompidou, che si è tenuta da settembre 2019 allo scorso gennaio e che fino al 25 maggio è visitabile al Museum of Fine Arts di Houston. Una rassegna più contenuta rispetto a quella mastodontica del 1996, ma non per questo meno interessante: era focalizzata, infatti, sul rapporto tra Bacon e la letteratura, in particolare quel pugno di autori che hanno influenzato più direttamente (e talvolta esplicitamente) l’opera matura del pittore, cioè a partire dal 1971: Eschilo, Nietzsche, Bataille, Leiris, Conrad ed Eliot. Ad accompagnare l’esposizione, naturalmente un catalogo, curato da chi si è occupato anche della mostra stessa, Didier Ottinger. Il quale, stavolta in coppia con Anna Hiddleston, ha selezionato anche i saggi raccolti in Francis Bacon au scalpel des lettres françaises, antologia che presenta un’infilata di autori del calibro di Jean Clair, Hervé Guibert, Milan Kundera, Jonathan Littell, Philippe Sollers. COME SE NON BASTASSE... Patria par excellence del libro, poteva la Francia limitarsi a queste due pubblicazioni in un’occasione tanto propizia? Naturalmente no, e allora s’è mossa pure la corazzata Gallimard, chiamando a raccolta le forze intellettuali e memoriali di Yves Peyré, professione bibliotecario, alla direzione della Biblioteca letteraria Jacques Doucet prima, poi della Sainte-Geneviève – quella in cui lavorò Marcel Duchamp, sia detto en passant. Peyré ha conosciuto e frequentato Bacon nelle sue scorribande parigine, e già nel 1991 aveva pubblicato un bel libretto sulla sua opera, L’Espace de l’immédiat. Nulla a che vedere, però, con l’imponente monografia qui in oggetto. Che nulla ha a che vedere con quei table book tanto belli e curati quanto scarni nell’apparato testuale. Il libro Gallimard è insieme un lodevolissimo libro d’arte, con stampe precise e qualitativamente ineccepibili, quanto un approfondito studio della vita e della pittura di Francis Bacon. Che per una cinquantina di euro è assai onesto. Marco Enrico Giacomelli
YVES PEYRÉ
Francis Bacon ou la mesure de l’excès
Gallimard, Parigi 2019 Pagg. 336, € 49 ISBN 9782072847868 gallimard.fr
l debutto in asta e fresh to the market, Turning Figure di Francis Bacon ha guadagnato il terzo gradino sul podio dei top lot di arte contemporanea, in una Londra sottotono rispetto alla sessione analoga del 2019. A due settimane dall’uscita ufficiale del Regno Unito dall’Europa, infatti, una leggera fiacchezza ha serpeggiato nelle sale delle grandi case d’asta. Prudenza nelle stime, di poco più del 20% inferiori alle stesse aste del 2019, e pochi lotti aggiudicati oltre i 5 milioni di sterline: questi gli elementi che hanno contraddistinto le evening sale di metà febbraio. La sessione di Sotheby’s dell’11 febbraio è stata una contenuta eccezione, con un sale total da £ 92.5 milioni (nel 2019 erano stati 93.3), da una stima pre-asta di £ 85-118.8 milioni (omogenea a quella del 2019), con solo 3 invenduti su 46 lotti e 5 opere – di David Hockney, Jean-Michel Basquiat, Francis Bacon, Yves Klein e Christopher Wool – oltre i 5 milioni di sterline.
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I LOTTI DELLE SERATE Ad aprire la serata due recenti market darling: Julie Curtiss e Nicole Eisenman (così come la sera dopo i primi lotti da Christie’s sono stati di Jordan Casteel, Dana Schutz e Tschabalala Self). Top lot, invece – e già traino delle campagne di marketing di Sotheby’s –, Splash (1966) di David Hockney, con una stima di £ 20 milioni e la protezione di una garanzia, che è andato aggiudicato, dopo soli due rilanci, per £ 23.1 milioni (terzo miglior prezzo per l’artista). A pochi lotti di distanza da Hockney è arrivato il turno di uno dei grandi padri e maestri della pittura, Francis Bacon, già protagonista in Italia, con Lucian Freud e la Scuola di Londra, della recente e più che apprezzata mostra al Chiostro del Bramante a Roma (in collaborazione con la Tate di Londra). TURNING FIGURE L’opera Turning Figure arrivava in asta per la prima volta, dopo essere stata custodita nella stessa collezione europea dal 1986. Datato 1963, il dipinto appartiene a una fase della produzione di Bacon segnata, nello stesso anno, il 1962, dalla morte dell’amato Peter Lacy e dalla consacrazione critica della grande retrospettiva alla Tate Gallery, inaugurata solo 6 mesi prima della realizzazione di Turning Figure. Con un curriculum espositivo di rilievo, tra Marlborough Fine Art nel 1963 e i grandi musei europei, dalla Kunstverein di Amburgo al Moderna Museet di Stoccolma e The Municipal Gallery of Modern Art di Dublino, e poi, sul finire degli Anni Ottanta, con la retrospettiva della Galerie Beyeler di Basilea, l’opera è stata offerta nel catalogo di Sotheby’s con una stima pre-asta tra i 6 e gli 8 milioni di sterline, per andare aggiudicata a 7 milioni, terzo miglior risultato dell’intera sessione londinese. Cristina Masturzo
LONDRA
Sotheby’s
FRANCIS BACON
Francis Bacon, Turning Figure (part.), 1963, courtesy Sotheby’s
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RECENSIONI accontare il Novecento italiano in novantadue opere è l’ambiziosa sfida colta dalle curatrici della mostra ’900 italiano. Un secolo di arte ai Musei Civici agli Eremitani di Padova. Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti raccontano “una storia” del XX secolo, documentando senza pretese di esaustività una delle sue infinite letture possibili. I capolavori selezionati contestualizzano il susseguirsi e l’intrecciarsi delle correnti artistiche italiane, intrappolate nel cortocircuito dell’eterno ritorno della classicità, interpreti della parabola di peccato e redenzione del nostro Novecento. Dai voli pindarici nell’utopico universo futurista ai tragici abissi dei conflitti mondiali, il filo rosso della mostra è il tempo: è lui a cadenzare le sperimentazioni italiane e a condurle alla non figuratività.
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PADOVA fino al 10 maggio
’900 ITALIANO. UN SECOLO DI ARTE
Giorgio de Chirico, La partenza del cavaliere, 1923, Roma collezione privata
a cura di Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti Catalogo Skira MUSEI CIVICI AGLI EREMITANI Piazza Eremitani 8 ‒ Padova 049 8204551
GLI ARTISTI L’uomo-titano di Boccioni divampa di cieca fiducia nel progresso, come l’Italia nelle mani dei futuristi. Il “ritorno all’ordine” di de Chirico richiama l’arte alla chiusura nel silenzio metafisico, tra le macerie della Prima Guerra Mondiale. Alla deriva in un mare oscuro come l’Isola dei giocattoli di Savinio, gli artisti respirano la lucida consapevolezza dei limiti di essere umani: Morandi e Carrà si rifugiano nella poesia quotidiana del Realismo magico; si rincorrono l’austero Primordialismo plastico, il
oco fuori dal centro di Varese, una stradina in salita. Un ingresso tutt’altro che appariscente. Una della tante ville storiche del quartiere di Biumo, si direbbe. Non appena dentro, però, si intuisce all’istante che Villa Panza, dal 1996 proprietà del Fondo Ambiente Italiano, è un luogo fuori dall’ordinario. La mostra Villa Panza: un’idea assoluta. Giuseppe Panza di Biumo, la ricerca, la collezione offre l’occasione di fermare il tempo e fare esperienza della dimora così come fu concepita, ripresentando l’allestimento museografico originale indicato dal conte Panza, proprietario originario dell’immobile, al momento della sua donazione al FAI.
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VARESE fino al 19 aprile
VILLA PANZA: UN’IDEA ASSOLUTA a cura di Anna Bernardini VILLA E COLLEZIONE PANZA Piazza Litta 1 ‒ Varese 0332 28396 villapanza.it
Villa e Collezione Panza, Scuderia grande piano terra. Desire di Martin Puryear. Photo Michele Alberto Sereni, Magonza 2020 ‒ FAI Fondo Ambiente Italiano
MEZZO SECOLO DI STORIA Giuseppe Panza nasce a Milano nel 1923 da una famiglia che possiede un’azienda viticola in Piemonte. Villa Menafoglio Litta, successivamente Villa Panza, viene acquistata dal padre nel 1935. Dopo la laurea in legge, nel 1954 Giuseppe compie un viaggio nelle Americhe, e il soggiorno negli Stati Uniti influenzerà particolarmente il suo immaginario estetico e lo stimolerà a dare vita a una collezione internazionale e anticonvenzionale. Per Giuseppe Panza l’arte è significativa se esprime dei valori fondamentali della vita. Dopo l’iniziale interesse per l’arte informale e la Pop Art, negli Anni Sessanta e Settanta la collezione si concentra sull’arte minimalista, concettuale e ambientale. In questo
monumentalismo di Severini e Sironi, il realismo di Guttuso, mentre sotto la cupola di San Pietro si profila il suggestivo espressionismo della Scuola di Via Cavour. Sulle sue ali di aquilone l’angelo di Licini traghetta il visitatore nella seconda parte del secolo. Il Novecento lotta per la sopravvivenza della forma, rinnegata perché specchio delle angosce umane: nella necessità di uscire dalle regole estetiche di una società dalle mani insanguinate, gli artisti conducono il figurativo alla morte insieme al loro dio, lo sostituiscono con l’idea e si aprono al segno, allo spazio e alla materia. UN SECOLO IMPREVEDIBILE Isgrò salva parole che rischiano di scomparire per sempre, imperano i sacchi laceri di Burri e il gesto “sacerdotale” di Fontana. Le ricerche del gruppo Forma e della Pop Art italiana, l’Arte concettuale di Boetti e Paolini, l’etica dell’Arte Povera, insieme alle provocazioni del Gruppo Enne, sono solo alcuni dei volti in mostra di questo Novecento, mascherato da angelo del progresso e demone della guerra. Il capolinea è il ritorno al figurativo della Transavanguardia alla fine degli Anni Settanta: si scende, anche se il viaggio è appena iniziato. Serena Tacchini
periodo scopre Dan Flavin: a Villa Panza le sue installazioni occupano buona parte di un’ala del piano superiore. Si affiancano gli interventi site specific di James Turrell e Robert Irwin: white box con squarci acustici e architettonici, dove interno ed esterno si fondono e confondono. Più recente il corpus di monocromi di Phil Sims, Ruth Ann Fredenthal, Ford Beckman, Max Cole, Ettore Spalletti e Alfonso Fratteggiani Bianchi, simbiotico con gli arredi sontuosi e la luminosità naturale della villa. Risalgono agli ultimi decenni della vita di Panza le opere d’arte africana e primitiva allestite nell’ex salotto della casa, al piano superiore. UN’ESPERIENZA DI BELLEZZA Oltre che un luogo fisico, la villa è uno spazio mentale, e per Giuseppe Panza l’arte è stata la via per raggiungerlo. In tutti gli ambienti c’è il tocco di Panza, che da un momento all’altro sembra poter fare capolino. Chissà se il conte, il cui padre spirituale per molti anni è stato David Maria Turoldo, preferiva meditare nelle stanze al neon di Flavin o in quelle inondate di luce naturale di Robert Irwin e Turrell. “Per tutta la vita”, confessò anni fa a Philippe Ungar, “non ho fatto altro che cercare la bellezza. In sua presenza, ho l’impressione che la mia vita sia immersa nell’infinito. Mi capita di sentirmi così nel parco della Villa a Varese”. Margherita Zanoletti
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