Grandi Mostre #23

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MENDINI/NAPOLI • MOLLINO/REGGIO EMILIA

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IN APERTURA / MENDINI / NAPOLI

Alessandro Mendini: design e fantasia Giulia Marani a mostra Alessandro Mendini: piccole fantasie quotidiane gode di un doppio primato: è la prima retrospettiva che un museo pubblico italiano dedica al poliedrico artista e progettista milanese dopo la sua scomparsa, avvenuta nel febbraio dello scorso anno, ed è la prima mostra di design allestita al Madre di Napoli. Il percorso espositivo, curato da Gianluca Riccio e Arianna Rosica e prodotto dalla Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee della Regione Campania, condensa cinquant’anni di attività creativa ai massimi livelli (dal 1970, anno in cui Mendini assume la direzione della rivista Casabella), scegliendo come chiave di lettura principale il rapporto tra la poetica mendiniana e la cultura artistica d’avanguardia, con l’obiettivo di restituire la vivacità e la curiosità intellettuale di un uomo che in un celebre disegno si era rappresentato come un drago: una creatura composita con il corpo da architetto, la testa da designer, la coda da poeta e così via. Al centro non ci sono, quindi, le icone, i prodotti industriali frutto della collaborazione con le aziende che hanno fatto la storia del made in Italy, ma piuttosto il grande lavoro di ricerca che li precede e che incrocia in più punti il percorso dell’arte contemporanea, dialogando con l’Arte Povera e il Futurismo, raccogliendo gli echi della cultura divisionista e metafisica oppure instaurando un confronto critico con l’estetica della Pop Art.

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PAROLA AI CURATORI

Costruire questo progetto a Napoli, per i curatori, si è imposto da subito come un’evidenza. “L’idea della mostra è nata qui in Campania, due o tre anni fa. Gianluca e io stavamo lavorando con Alessandro a due progetti per il Festival del Paesaggio di Capri”, racconta Arianna Rosica. “Lui ha accettato subito, purtroppo però non c’è stato il tempo di sviluppare il tutto fino in fondo. Dopo la sua scomparsa abbiamo lavorato a stretto contatto con l’Atelier Mendini e con le sue figlie, Fulvia ed Elisa, che ci hanno permesso di accedere all’archivio”. Tra il progettista e la città c’è un legame importante: è qui che Mendini ha lavorato di più e che si è espresso in maniera più piena anche dal punto di vista metodologico. “Con le ‘Stazioni dell’Arte’, per esempio, ha messo in pratica la sua idea di progettazione come dimensione comunitaria”, spiega Gianluca Riccio. “Non un luogo di affermazione egocentrica, quindi, ma un luogo di apertura al contributo di altri

architetti e artisti, in un’idea utopica di collaborazione tra le arti. Nel suo lavoro c’è, poi, una vena che potremmo definire mediterranea, una solarità che si esprime nell’uso del colore e della luce”.

LE SEZIONI DELLA MOSTRA

Il racconto si sviluppa attraverso una sequenza di stanze tematiche che corrispondono ad altrettanti momenti della poetica mendiniana: dal Radical, la sezione più nutrita, nel quale ritroviamo l’esperienza a forte carica utopica e anarchica di Global Tools, con la ricostruzione di un’opera per sua natura effimera come la Sedia di paglia del 1974, e gli Oggetti ad uso spirituale realizzati intorno alla metà degli Anni Settanta, alla Città filosofica, con le installazioni urbane degli Anni Novanta e Zero, passando per Alchimia Futurismo, Mobile Infinito, Proust (con l’iconica poltrona e con tutte le variazioni sul tema successive, fino ai Tre Primitivi del 2018) e Stilemi. “Abbiamo scelto di usare un doppio binario: c’è una linearità temporale che però si interseca quasi da subito con un piano temporalmente sfalsato”, chiarisce ancora Riccio. “Questo riflette quello che era un metodo di Mendini. Progetti realizzati negli Anni Settanta e Ottanta vengono rielaborati e ripresi nel tempo, magari a distanza di anni. C’è una continua idea di ripensamento, un ritornare sulla sua stessa storia per riviverla, magari ribaltando funzioni e obiettivi”.

fino al 1° febbraio

ALESSANDRO MENDINI: PICCOLE FANTASIE QUOTIDIANE a cura di Gianluca Riccio e Arianna Rosica Catalogo Edizioni Madre MADRE Via Settembrini 79 – Napoli info@madrenapoli.it madrenapoli.it sopra: Alessandro Mendini, Busto di donna, 2000. Courtesy Archivio Alessandro Mendini, Milano. Photo © Alberto Ferrero a destra: Alessandro Mendini, Zabro, 1984 . Courtesy Zanotta SPA. Photo © Zanotta SPA


IN APERTURA / MENDINI / NAPOLI

MOSTRE E GIARDINI

Nel 1996 le Scuderie di Palazzo Reale ospitano una sua mostra, Artinmosaico, con quindici piccole costruzioni rivestite di tessere di mosaico Bisazza a rappresentare altrettante forme archetipiche dell’architettura: strada, ponte, muro, chiesa… Tra il 1997 e il 1999 Mendini lavora al restyling della Villa Comunale, uno dei principali giardini storici di Napoli, con l’aggiunta di una cancellata “luminosa” che ingloba i lampioni. Proprio questi ultimi, alti, snelli e decisamente contemporanei, susciteranno una serie di polemiche dando il via a una querelle,

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1931

Il legame con Napoli Mediterranea, caotica, generosamente eclettica, Napoli è la città italiana in cui la mano del milanesissimo Alessandro Mendini è più evidente. Qui, più che altrove, la sua idea di “museo all’aperto” urbano, in cui anche le strade, i mercati e le piazze sono considerati opere d’arte, si concretizza in una serie di interventi che non si riducono a un semplice maquillage estetico ma, al contrario, incidono in profondità sullo spazio pubblico e sulla sua fruizione da parte degli abitanti. Il dialogo tra il progettista e la città – sempre forte e mutualmente proficuo, seppure talvolta turbato da improvvise dissonanze – comincia intorno alla metà degli Anni Novanta.

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anche politica, tra sostenitori della sperimentazione e istanze conservatrici.

LE STAZIONI DELL’ARTE

Nello stesso periodo parte il progetto delle Stazioni dell’Arte, che vede Mendini nel ruolo di coordinatore e si basa su tre principi: le fermate della metropolitana come occasione di riqualificazione urbana ed estetica di interi quartieri, l’eclettismo dei progettisti chiamati a ridisegnarle (si va da Gae Aulenti a Karim Rashid, da Dominique Perrault ad Álvaro Siza ed Eduardo Souto de Moura), l’intima collaborazione delle opere d’arte di artisti internazionali con le architetture che le ospitano. Due stazioni, Salvator Rosa e Materdei, portano la firma dell’Atelier Mendini. La prima sembra suggerire il tema tutto partenopeo del presepe, con il corpo principale che, con le sue arcate, riprende l’andamento di un ponte romano e quasi lo ingloba, la guglia d’acciaio dall’aspetto fiabesco e i palazzi circostanti, arrampicati sulla collina e nobilitati dall’intervento di artisti come Ernesto Tatafiore e Mimmo Paladino. La seconda offre suggestioni acquatiche con i suoi mosaici nei toni del verde e dell’azzurro, un’impressione rafforzata dalla presenza, all’esterno, della grande carpa giapponese protagonista della scultura di Luigi Serafini.

Nasce a Milano

1970 Diventa direttore di Casabella

1972 Comincia a creare gli Oggetti ad uso spirituale

1978 Progetta la Poltrona Proust

1979 Vince il primo Compasso d’Oro

1981 Vince il secondo Compasso d’Oro

1989 Fonda l’Atelier Mendini con il fratello Francesco

1994 Disegna per Alessi il cavatappi Anna G, ispirato alla silhouette dell’amica designer Anna Gili

1999 Ultima il restyling della Villa Comunale di Napoli

2010 Cura per il Triennale Design Museum la mostra Quali cose siamo

2014 Vince il terzo Compasso d’Oro, alla carriera

2019 Muore a Milano a 87 anni


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OPINIONI

La cultura d’Europa

Il caso dello stadio fiorentino

Bruno Racine direttore di Palazzo Grassi-Punta della Dogana, Venezia

Antonio Natali storico dell’arte

è una frase che viene citata spesso, attribuita a Jean Monnet, a proposito della costruzione dell’Europa: “Se fosse da rifare, io ripartirei dalla cultura”. Anche se apocrifa, la citazione riflette sia una frustrazione reale, sia un’aspirazione ancora più potente. Ci ripensavo ascoltando un’intervista a Luca Massimo Barbero, curatore e direttore dell’Istituto di Storia dell’Arte della Fondazione Cini di Venezia, a proposito della notevole mostra che il Centre Pompidou Metz dedica a Yves Klein. Piuttosto che insistere sul legame che l’artista ha tessuto con altri protagonisti della scena artistica francese, la mostra pone l’accento sul ruolo che hanno avuto il Giappone e ancor più la città di Milano nel percorso artistico del pittore. Il capoluogo lombardo, infatti, ha rappresentato una delle piattaforme più fertili per l’avanguardia europea negli Anni Sessanta, offrendo così una risposta originale e prolifica alle ricerche che nello stesso periodo avevano avuto origine negli Stati Uniti; che la galleria Apollinaire sia stata a Milano, sotto l’impulso di Pierre Restany, il luogo di nascita dei Nouveaux réalistes è un fatto troppo spesso trascurato se non addirittura ignorato.

a responsabilità d’ogni ritardo e d’ogni dilazione è attribuita in Italia alla burocrazia. Magari poi, quando càpiti di sperimentarne i ceppi, si potrà forse constatare che il disagio dipende, più che dalla burocrazia, da chi la maneggi, dai burocrati cioè (che sono armi nelle mani della politica). La burocrazia è la prima (e sovente l’unica) imputata di qualsiasi deficienza. È un’attitudine che in questi mesi trova un veridico riscontro a Firenze, dove si discute del futuro dello stadio. Si tratta d’una controversia che – com’è noto – vede contrapposto chi vorrebbe modificarlo (se non addirittura demolirlo) per farne uno che sia aggiornato alle necessità attuali (soprattutto economiche), a chi invece vi s’oppone, adducendo la ragione che lo stadio fiorentino, disegnato da Pier Luigi Nervi e tirato su agli esordi degli Anni Trenta del secolo scorso, sia uno degli esempi più alti dell’architettura del Novecento.

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UNA CARTOGRAFIA CULTURALE

Abbiamo dunque bisogno di conoscere questa cartografia culturale dell’Europa per prendere atto e coscienza di cosa è esattamente la cultura europea. Non un “melting pot”, ma una rete in perenne evoluzione in cui emergono centri di creazione più o meno longevi e che intrattengono tra loro un dialogo più o meno sostanziale, veri e propri punti di incontro. Le persone della mia generazione ricordano ancora con meraviglia le grandi esposizioni inaugurali del Centre Pompidou di Parigi alla fine degli Anni Settanta volute dal più cosmopolita degli svedesi, Pontus Hultén, e divenute leggendarie: Paris-Berlin, Paris-Moscow o Paris-New York; mostre

che facevano prendere coscienza ai francesi del fatto che, se il ruolo storico di Parigi era fondamentale nella prima metà del XX secolo, nello stesso periodo esisteva anche una geografia della produzione artistica molto più vasta, dinamica e diversificata, che non si sarebbero mai immaginati. Un tale lavoro di decentramento è paradossalmente indispensabile per comprendere, dal punto di vista culturale, il significato dell’espressione “l’unione dell’Europa nelle sue differenze”, che rischierebbe altrimenti di essere solo uno slogan vuoto.

La cultura europea è una rete in evoluzione LA RIFLESSIVITÀ EUROPEA

Il momento di angoscia che stiamo vivendo rispetto al futuro spinge un numero crescente di europei a volersi difendere dietro barriere illusorie. Sarebbe un tema importante da affrontare da parte dei grandi musei europei per riflettere e mettere in luce questa cartografia dalla metà del secolo, sottolineando non solo ciò che è riuscito a imporsi su un panorama internazionale dominato dagli Stati Uniti, ma anche ciò che è stato ignorato, o ancora ciò che è riuscito a resistere e si è fatto conoscere seppur in un ambito ristretto. Questa necessità di mettere in prospettiva è senza dubbio il segno di un’epoca che vede i propri punti di riferimento confondersi ed è significativo che la Biennale di Venezia, l’anno in cui la pandemia l’ha costretta ad annullare l’edizione 2020 dedicata all’Architettura, abbia scelto di esporre la propria storia attraverso i propri Archivi, dove anche qui emerge un ampliamento della scena artistica mondiale che oltrepassa sempre più il mondo occidentale. La riflessività, che a volte può prendere la forma di una cattiva coscienza, non è forse il marchio di fabbrica dell’Europa?

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In Italia la responsabilità di qualsiasi ritardo è attribuita alla burocrazia LE POLEMICHE E IL DIBATTITO

Non c’è giorno che la stampa non dia conto d’un dibattito (anche aspro nei toni) fra quelli che si battono per la salvaguardia dello stadio di Nervi e quelli che premono per la sua trasformazione. Fra questi ultimi, a far la voce grossa sono i tifosi della Fiorentina, che non vogliono rischiare di sdegnare un ricco imprenditore italo-americano, disposto a investire nella squadra di calcio molto danaro (questo almeno è quanto promette), purché gli si consenta di modificare lo stadio. E però i tifosi sono sempre meno molesti d’alcuni politici (inopinatamente di spicco) che ne cavalcano il malumore per cavarne consensi elettorali. Politici arroganti; che rivelano peraltro una modestissima conoscenza del nostro patrimonio e della legislazione saggia pensata per proteggerlo; e perfino

della Costituzione. Politici disposti a cambiare le regole della tutela pur di secondare interessi particolari. Chi sostiene la salvaguardia dello stadio s’avvantaggerebbe – si sente dire – delle pastoie burocratiche che da sempre tengono al palo l’Italia.

BUROCRAZIA E LEGGI

La burocrazia? Cos’ha a che vedere la burocrazia con le leggi? Giacché sono le leggi (che grazie a Dio l’Italia s’è data), col fondamento etico che le sottende, a imporre una tutela rigorosa dei beni come lo stadio fiorentino, architettura ch’è sui manuali di tutto il mondo. Non ci fossero state le leggi promulgate per custodire i beni comuni, oggi le nostre città sarebbero stravolte dai guasti prodotti dal capitale privato. Soltanto l’ignoranza della storia e una cultura men che approssimativa possono far venire in mente di proporre – com’è successo – interventi sullo stadio che ne preservino però le strutture reputate più emblematiche e innovative; quasi che le celebri scale elicoidali – per esempio – o la svettante torre di Maratona avessero valore in sé e non in relazione al loro contesto; come se lo stadio di Nervi non fosse un’entità omogenea e coerente. Interventi che vengon gabellati per interpolazioni parziali dettate da benefici economici. Un po’ come dire che, se ci fossero vantaggi finanziari ragguardevoli, si potrebbero – a beneficio dei turisti – sostituire i tetti degli Uffizi con terrazze panoramiche a tasca affacciate sul cuore di Firenze. Ma ora il terrore mi viene d’aver dato un’idea a queste menti illuminate.


OPINIONI

La bufala dell’audience engagement

Musei e territorio

Stefano Monti economista della cultura

Fabrizio Federici storico dell'arte

l mondo culturale italiano da un po’ di tempo ha un vero e proprio debole per il lessico cool. Abbiamo iniziato con gli acronimi (MAMbo, MAGA, MADRE) per poi virare verso espressioni sempre più anglofone, come storytelling o audience engagement. Proviamo a mettere un po’ di ordine a partire dalle definizioni.

l rapporto tra musei e territorio è storicamente, in Italia, molto stretto: gli spazi espositivi formano con le chiese, i castelli, il paesaggio quel continuum stratificato e denso di testimonianze che costituisce il tratto saliente del nostro patrimonio artistico e culturale (ancor più di quanto avvenga nel resto d’Europa e all’estremo opposto di quel che accade, naturalmente, alle grandi collezioni americane di arte europea, asiatica, africana, che quasi nessun legame hanno con ciò che le circonda). Tale rapporto si è tuttavia allentato negli ultimi anni in seguito a una serie di tagli e di riforme del sistema della tutela, che hanno portato musei e territorio a procedere su strade diverse, con i primi che sono in genere riusciti a tirare avanti e, anzi, hanno fatto registrare ottime performance, nei pochi casi di grandi istituzioni autonome su cui si è puntato come attrattori turistici; e con il territorio che ha visto naufragare tutela e valorizzazione, a causa della carenza di fondi e della mancanza di personale.

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Per stimolare un coinvolgimento bisogna conoscere l’audience Iniziamo con audience. Termine inglese, derivante dal latino audientia, identifica un insieme di persone che vengono raggiunte da un determinato messaggio tendenzialmente rappresentato da un prodotto culturale: importato dalla lingua inglese nell’ambito televisivo e, per estensione, nel mondo dello spettacolo dal vivo, di recente ha riscontrato un particolare successo anche in altri settori culturali, ad esempio quello museale. Complice di tale successo è stata anche un’altra “parola” tanto apprezzata nel nostro scenario: engagement. A livello internazionale, questo termine è nato nell’ambito del marketing. Glossario Marketing lo definisce come “coinvolgimento, attaccamento emotivo del consumatore nei confronti di una marca che scaturisce da specifiche esperienze da esso vissute nel corso dell’interazione con la marca medesima e con altri consumatori”. Unendo i significati delle due parole, si può intendere con audience engagement una serie di azioni che portano a “coinvolgere” l’audience, in questo caso i visitatori di un museo, al fine di incrementare il “beneficio” da questi percepito durante le interazioni con la struttura museale e con i suoi contenuti.

CONOSCERE IL PUBBLICO DEL MUSEO

Ma come deve essere condotta l’audience engagement? Per stimolare un coinvolgimento è necessario conoscere la propria

audience e dunque avere un universo statistico di riferimento, una serie di rilevazioni che consentano di stabilire, all’interno di un certo “intervallo di confidenza”, chi visita i nostri musei. La maggior parte dei musei italiani, però, non ha un sistema di CRM che permetta di profilare i visitatori. Senza un sistema di rilevazioni, cosa abbiamo, di concreto, sull’audience dei musei? Quando va bene, delle “analisi” condotte da stagisti e/o studenti universitari e in alternanza scuola-lavoro che chiedono, più o meno a caso, informazioni ai visitatori. Il problema è che quelle indagini non permettono di affermare che gli intervistati siano realmente un campione rappresentativo dei visitatori del museo. Dunque per coinvolgere la tua audience devi avere rilevazioni sufficienti a poter definire (entro certi margini di approssimazione) chi abbia visitato il tuo museo.

LE POLITICHE DI COINVOLGIMENTO

Facciamo un altro passo. Non è sostenibile, né consigliabile, attivare una politica di “engagement” verso tutta l’audience potenziale di un museo, perché un’opera può piacere a qualsiasi tipologia di persone a prescindere dal sesso, dal credo religioso, dal livello di reddito e di scolarizzazione. Per fare audience engagement, quindi, bisogna scegliere tra i visitatori del museo quali si possono coinvolgere attivamente. Per poter fare un’azione di audience engagement, inoltre, è necessario stabilire come coinvolgere le persone e perché. Se non conosciamo chi va al museo, non sappiamo decidere il giusto target delle politiche di engagement, né stabilire o monitorare gli esiti di tali pratiche. A meno che non si strutturi una politica di coinvolgimento seria dei visitatori, che parta da un obiettivo concreto, che definisca per quell’obiettivo sia il target che le azioni da condurre e che possa essere misurata nel tempo. Mi pare evidente, tuttavia, che non sia questo lo stato dell’arte.

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L’ESEMPIO DEGLI UFFIZI

Per fortuna c’è chi prova a mantenere vivo il dialogo tra il museo e l’ambiente circostante. Un’istituzione che si dimostra da anni sensibile a queste tematiche sono gli Uffizi: l’ex direttore Antonio Natali ha promosso, in particolare, le mostre del ciclo La città degli Uffizi, che hanno portato in diverse località della Toscana (e non solo) opere delle Gallerie Fiorentine, eventualmente integrate con pezzi provenienti dal territorio, a imbastire percorsi espositivi che mettevano in luce il legame tra quelle opere musealizzate e quelle determinate aree geografiche. Il successore di Natali, Eike Schmidt, ha sollevato forti polemiche (più che altro per l’esempio scelto, la Madonna Rucellai di Duccio), auspicando il ritorno nelle chiese di molte opere d’arte di carattere religioso. Le parole di Schmidt hanno curiosamente riecheggiato quanto sosteneva (e praticava) nella Roma

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dei Barberini il collezionista Francesco Gualdi, che più di una volta si privò di un pezzo sacro in suo possesso e lo sistemò in una basilica romana, “ut esset sanctitate loci venerabilior” (“perché sia degno di maggiore venerazione per la santità del luogo”). L’operazione può avere ancora oggi un senso, in pochi casi in cui si va a ricostituire un contesto di alto valore; ricordando sempre che, se anche l’opera riacquista una dimensione spaziale sacra, il nostro sguardo rimane, nella gran parte dei casi, uno “sguardo museale”, perché laico: al di là della sanctitas loci, l’opera è percepita come admirabilis assai più che come venerabilis.

Tagli e riforme hanno allentato il rapporto fra musei e territorio UN MUSEO DIFFUSO

Lo stesso Schmidt sta portando avanti con determinazione il progetto che va per ora sotto il nome di Uffizi diffusi: una disseminazione del museo su scala regionale che può portare benefici culturali ed economici alle località interessate, e rivitalizzare monumenti splendidi, come la Villa Medicea dell’Ambrogiana a Montelupo Fiorentino. A patto che le nuove realtà espositive siano organismi vitali, con reali radici nel territorio, e non semplicemente depositi visitabili.


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FOTOGRAFIA / MOLLINO / REGGIO EMILIA

Tra le stanze di Carlo Mollino Elena Arzani ollino/Insides inaugura la stagione autunnale 2020 della Collezione Maramotti di Reggio Emilia, regalando al pubblico uno scorcio sulla vita intima del poliedrico Carlo Mollino (Torino, 1905-1973). A essere esposte sono le opere pittoriche di Enoc Perez, le fotografie di Brigitte Schindler e dello stesso Mollino, realizzate all’interno dell’abitazione di Torino in via Napione, attuale sede del Museo Casa Mollino. La mostra sembra ispirarsi ai versi di Proust: sono infatti gli oggetti raffigurati, con il loro potere narrativo, a svelare l’architetto, designer e fotografo torinese, e la misteriosa dimora che concepì come una tomba egizia. Una perfetta armonia platonica permea gli spazi, abbracciando ogni dettaglio, luce e ombra comprese. Queste ultime caratterizzano le opere di Perez e Schindler che, utilizzando tecniche differenti, ricreano il perfetto negativo-positivo d’immagine.

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DALLA FOTOGRAFIA ALLA PITTURA E RITORNO

Perez imprime su tela l’essenza solarizzata di Casa Mollino. Nel dettaglio di un quadro, l’opera Tears (1930-32) di Man Ray, omaggia colui che ha fatto di questa tecnica la sua inconfondibile cifra stilistica. L’elemento simbolico dell’occhio, inoltre, invita a ricercare con lo sguardo ulteriori indizi. I quadri ottenuti a partire da foto scattate nel 2019 si inseriscono nel filone di architetture d’interni, di cui la Collezione Maramotti possiede il dittico Casa

Malaparte del 2008. Le fotografie di Schindler, stampate su carta di cotone, hanno un’inedita tattilità, tipica dell’opera pittorica. Risultato di tre anni di lavorazione, propongono una stratificata lettura d’immagine, in cui simbolismo, composizione, prospettiva e luce ricreano un’atmosfera rarefatta. L’osservatore è guidato all’interno di un mondo in cui l’immaginario e il reale sembrano allinearsi sullo stesso piano e catturare l’anima stessa di Mollino. Nei giochi di specchi, tra i pattern dei muri, dietro l’angolo di una parete adornata da quello che Fulvio Ferrari, direttore del museo, chiama “esercito di farfalle”, tutto ci parla di Mollino.

EROS E FEMMINILITÀ

La riflessione filosofica trova la sua completezza armonica nell’elemento femminile, evocato dal design dei complementi e dalle polaroid di Mollino. Fotografie di donne a cui si affiancano oggetti di uso quotidiano che, come nei collage di Schwitters, vengono nobilitati. Analogamente all’artista torinese, Brigitte ha realizzato fotografie che incarnano l’espressione concettuale del “fare foto”, opposta allo “scattare”. Immagini sensuali, in sintonia con l'opera di Mollino, che fanno dell’eros un raffinato gioco di linee, proporzioni ed eleganza. Trasversale nell’opera dei due artisti, l’elemento femminile completa, come nel Tao orientale, l’equilibrio cosmico. Casa Mollino è un microcosmo all’interno del macrocosmo, questa la sintesi degli stratificati “insides” di una dimora che metaforicamente compone e svela l’identità nascosta di uno dei più interessanti personaggi dell’ultimo secolo.

fino al 16 maggio

MOLLINO/INSIDES Catalogo Silvana Editoriale

COLLEZIONE MARAMOTTI Via Fratelli Cervi 66 – Reggio Emilia 0522 382484 collezionemaramotti.org

in alto: Veduta della mostra Mollino/Insides, Collezione Maramotti, Reggio Emilia 2020. Photo Roberto Marossi a sinitra: © Maurizio Ceccato per Grandi Mostre


FOTOGRAFIA / MOLLINO / REGGIO EMILIA

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Mollino e il misticismo. Parola a Sara Piccinini

Senior Coordinator della Collezione Maramotti

MOLLINO E LA FOTOGRAFIA

+ Nel 1949 pubblica Il messaggio dalla camera oscura con 323 riproduzioni fotografiche di 132 autori

MOLLINO E L’ARCHITETTURA

+ 1936-40 Società Ippica Torinese 1946-47 Slittovia al Lago Nero a Sauze d’Oulx 1955 Casa del Sole a Cervinia 1964-72 Palazzo degli Affari a Torino 1965-73 Ristrutturazione del Teatro Regio di Torino

MOLLINO E IL DESIGN

+ 1947 Lampada Cadma 1949 Sedia Gaudí 1950 Tavolo Arabesco 1953 catalogo Zanotta Poltrona Gilda 1955 con Enrico Nardi Bisiluro DaMolNar

Questa mostra nasce dall’ingresso di un’opera di Perez nella collezione permanente in cui per la prima volta è raffigurato un interno. L’artista ha sempre dipinto edifici, vivendoli come ritratti delle persone che li avevano concepiti o come visioni utopistiche del progresso, nel caso di architetture moderniste. Negli Anni Novanta decide di dedicarsi agli interni: ambienti densi di significati. Pertanto, dato che Casa Mollino è stato il primo di questa serie, abbiamo pensato a una mostra che mettesse in dialogo i due artisti. La dimora presenta una serie di significati complessi, ancora allo studio, evinti da egittologi, psicologi, antropologi. Sono letture ipotetiche, tuttavia plausibili, poiché Mollino, che l’ha disegnata, costruita e abitata, non ha lasciato documenti scritti. Questa Wunderkammer può continuare a svelare segreti e corrispondenze per sempre, Mollino aveva una conoscenza sconfinata ed era molto interessato alla cultura classica ed egizia. Mentre lavoravamo a questo progetto insieme a Fulvio Ferrari, direttore del museo, abbiamo intercettato il lavoro di Brigitte Schindler, che è molto intenso e coglie le particolari vibrazioni della casa, quelle

connessioni tra gli oggetti, le luci, gli specchi relativamente riflettenti. La qualità degli scatti è quasi pittorica. Questo dettaglio, opposto al procedimento di Enoc, che parte da fotografie per fare pittura, ci è piaciuto molto. Non conosciamo il fine di Mollino per questa casa. Per il direttore Ferrari, che la studia da oltre vent’anni, si tratta di un luogo costruito in preparazione della vita ultraterrena, non una dimora in cui soggiornare. Contiene simboli di morte e rinascita. Non ultimo, la natura con i suoi elementi è molto presente. Entrando si sente l’acqua del fiume, che scorre accanto, si vedono le farfalle, la carta animalier e le conchiglie. Chiamava le sue modelle larve luminescenti nella notte. Pertanto si crede vi sia una corrispondenza tra queste polaroid di donne, in cui glorifica la bellezza anche con ritocchi, e le farfalle, tratte dalle pagine di un libro Hachette, incorniciate nella boiserie della stanza, dove è posizionato il letto ad arca. Curava nei minimi dettagli i set, mandava a prendere abiti da Parigi. Non ha mai firmato nessuno di questi lavori, oltre a non averli mai mostrati. Probabilmente lui non li riteneva un’operazione artistica, bensì uno studio sulla bellezza.

Brigitte Schindler: fotografare Mollino Non ho mai lavorato in una casa da sola, durante la notte e senza luce, perfino a Capodanno. Sentivo di avere un appuntamento con la mia macchina fotografica, per esplorare uno spazio che non si vede, che impone di dimenticare la logica; dove c’è una console, scopri nuovi significati al di là dell’oggetto apparente. La prospettiva gioca con il cervello e suggerisce nuove letture spostando il piano dei significati, rendendo le stanze talvolta irriconoscibili. Questo era il mio punto di vista, non quello di un architetto, bensì la creazione di un mondo diverso, che esplora il mistero, dietro a ciò che a prima vista è una semplice abitazione. Gli specchi recano le tracce del tempo, affiorano le pennellate

d’argento, particolarità che non avevo mai visto. All’interno di questa casa, immersa nella città, vi è pace e armonia. Mi ispiro ai maestri fotografi della luce. Degli scatti di Mollino mi intriga il gioco per gli occhi, una schiena di donna, ad esempio, affiancata alle linee curve di una sedia. Nei miei scatti, pezzi unici su carta di cotone, ho voluto creare o aggiungere qualcosa con la mia percezione di donna, senza copiare. Ancora oggi vi sono angoli che devo esplorare. Casa Mollino per me è stata questo, la generosità di poter avere tutto il tempo per realizzare un progetto, che è piaciuto. Le foto sono scatti unici, atipici per il mezzo, stampati su carta.


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GRANDI CLASSICI / RAFFAELLO / BRESCIA E MILANO

Raffaello tra Brescia e Milano Stefano Castelli a grandezza di un maestro si vede anche dall’eco della sua opera, soprattutto quando questa dura per secoli. Le due mostre (accompagnate da numerose iniziative collaterali) con cui Brescia e Milano celebrano il cinquecentenario della morte di Raffaello (Urbino, 1483 – Roma, 1520) si concentrano sulle stampe che nei secoli hanno riprodotto e reinterpretato la sua poetica.

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BRESCIA E RAFFAELLO

Al Museo di Santa Giulia, la rassegna bresciana parte dal Cinquecento e giunge all’Ottocento, riunendo più di cento stampe provenienti dai Musei civici. “L’intenzione è sottolineare il legame che Brescia ha con Raffaello, testimoniato in particolare dalla presenza di due dipinti giovanili alla Pinacoteca Tosio Martinengo”, spiega la curatrice Roberta D’Adda. “Tra le opere presenti citerei innanzitutto un prezioso foglio con il ‘Giudizio di Paride’: un’incisione nella quale Marcantonio Raimondi lavora la lastra prima che con il bulino con una pietra pomice – si crea così una sorta di tono di fondo che si è perso dopo le primissime tirature. Una delle cose che colpisce di più i visitatori sono invece i pilastri delle Logge vaticane di Giovanni Volpato: incisioni dalle quali emerge la straordinaria ricchezza ed eleganza delle invenzioni raffaellesche. Una serie che, dice Alessandro Verri in una lettera, ha cambiato il gusto dell’Europa”.

L’EREDITÀ DI RAFFAELLO

Esplorare l’eredità di un maestro significa anche riscontrare i cambiamenti nella percezione del suo stile. Protraendo la sua indagine lungo diversi secoli, la mostra sottolinea come ci siano stati diversi Raffaello a seconda del mutare dello spirito del tempo. “Le prime due sale, ad esempio, ci presentano un Raffaello che noi non conosciamo, con la produzione di bottega di Marcantonio Raimondi che lavorava non a riprodurre grandi affreschi e dipinti, ma disegni. La nostra idea di Raffaello si viene attestando dalla fine del Settecento, legata alle madonne, alle sacre famiglie, ai ritratti... Il soggetto più riprodotto nei vari esemplari in mostra non sono, come potremmo pensare, le Stanze vaticane, ma le scene della Bibbia delle Logge vaticane”.

LA MOSTRA A MILANO

L’altro capitolo della doppia mostra su Raffaello è programmato per fine novembre al Castello Sforzesco di Milano. Curato da Claudio Salsi, ricostruisce l’apporto di Giuseppe Bossi al “mito” di Raffaello, proponendo disegni, stampe e maioliche rinascimentali ispirate all’opera del maestro. “Mentre a Brescia Paolo Tosio acquistava due Raffaello, a Milano Giuseppe Bossi faceva molto per coltivare il mito del pittore”, spiega Roberta D’Adda. “Milano e Brescia erano molto legate, la cultura di Tosio era quella di Bossi e viceversa. In questo anno così difficile abbiamo pensato di unirci almeno nel nostro territorio per riflettere sul fatto che la Lombardia ha – paradossalmente – una tradizione raffaellesca”.

LE ALTRE MOSTRE IN ITALIA fino al 10 gennaio

RAFFAELLO. L’INVENZIONE DEL DIVINO PITTORE a cura di Roberta D’Adda Catalogo Skira MUSEI DI SANTA GIULIA Via Musei 81/b – Brescia bresciamusei.com

PINACOTECA DI BRERA – MILANO Performing Raffaello

fino al 7 febbraio COMPLESSO MUSEALE DI PALAZZO DUCALE – MANTOVA Raffaello trama e ordito. Gli arazzi di Palazzo Ducale a Mantova

fino al 6 gennaio PALAZZO BALDESCHI – PERUGIA Raffaello in Umbria e la sua eredità in Accademia

dal 27 novembre al 7 marzo

GIUSEPPE BOSSI E RAFFAELLO AL CASTELLO SFORZESCO DI MILANO a cura di Claudio Salsi Catalogo Skira

CASTELLO SFORZESCO Piazza Castello – Milano milanocastello.it in alto: Raffaello Sanzio, Angelo (part.), 1500-01, Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo

fino al 29 novembre COMPLESSO DI CAPO DI BOVE SULL’APPIA ANTICA – ROMA La lezione di Raffaello. Le antichità romane fino al 30 gennaio ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA – ROMA Raffaello. L’Accademia di San Luca e il mito dell’Urbinate


DIETRO LE QUINTE / COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM / VENEZIA

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Le risposte dei musei alla pandemia Arianna Testino n un autunno che fronteggia l’ombra lunga dell’emergenza sanitaria, abbiamo deciso di dare voce alle istituzioni culturali impegnate nel difficile compito di mantenersi accessibili al pubblico. A inaugurare questa serie di interventi, raccontando il “dietro le quinte” della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia in un’epoca incerta come quella attuale, è la sua direttrice Karole P. B. Vail.

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Quali ripercussioni concrete ha avuto sulla vita del museo l’emergenza sanitaria che stiamo attraversando? Dopo 90 giorni di chiusura, il 2 giugno abbiamo riaperto, cautamente, il sabato e la domenica fino ad arrivare, il 2 settembre, alla riapertura quotidiana, ma solo della collezione permanente. La mostra temporanea rimane chiusa. I costi per la sua riapertura sono troppo alti e il budget del museo non permette di coprirli. Stiamo portando avanti la campagna di raccolta fondi Insieme per la PGC, affinché la Collezione possa tornare a garantire non solo oggi ma in futuro l’apertura quotidiana, il programma di mostre e la gratuità delle attività per il pubblico. È anche grazie ai primi incoraggianti risultati che oggi siamo aperti sei giorni su sette. La strada per raggiungere l’obiettivo è ancora lunga, l’entusiasmo non ci manca, alimentato da gesti come quello di Anish Kapoor, il quale ha realizzato un’opera in edizione limitata che donerà a chi a sua volta sosterrà la campagna. Da direttrice di una delle istituzioni culturali più radicate nel tessuto veneziano, quali strategie sta mettendo in campo per far fronte alle limitazioni imposte dalla pandemia? Fin dalla riapertura abbiamo rispettato la normativa per il contenimento del Covid-19, garantendo una visita in totale sicurezza, con ingressi contingentati. Seguendo questa modalità, la nostra capienza media è ora oltre la metà della media giornaliera pre-Covid. Ci tengo a dire che proprio dalla riflessione sulle limitazioni imposte da questo “nuovo presente” è nato il progetto SuperaMenti, quattro workshop gratuiti che il museo insieme a Swatch Art Peace Hotel propone agli under 25. In questo momento di grandi incertezze, siamo felici di poter instaurare un dialogo con la cosiddetta Generazione Z e poter offrire loro uno strumento per superare i limiti di questa attualità contingente.

Suppongo che la crisi globale abbia messo in discussione anche il futuro palinsesto espositivo della Collezione Peggy Guggenheim. Come si pianifica una mostra al tempo della pandemia? Le perdite dopo la chiusura sono state pesanti. La Collezione Peggy Guggenheim è una fondazione non profit senza scopo di lucro, le cui fonti principali di entrate sono la biglietteria, i Museum Shop e l’affitto degli spazi esterni per eventi privati. Abbiamo dovuto posticipare alla primavera del 2022 la mostra dedicata a Edmondo Bacci mentre siamo felici di poter confermare Surrealismo e magia. La modernità incantata organizzata con il Museum Barberini di Potsdam, a cura di Grazina Subelyte. La mostra si terrà dall’8 maggio al 13 settembre 2021, per poi spostarsi a Potsdam.

Durante il lockdown abbiamo cercato di potenziare al massimo i nostri programmi digital e oggi sempre di più stiamo cercando di investire in questo. Ad aprile abbiamo lanciato il nuovo sito del museo. Per quanto la comunicazione sui nostri canali social fosse già ricca, senz’altro questi ultimi mesi ci hanno portati a potenziarla, creando veri e propri palinsesti giornalieri, che ci permettono di fidelizzare una grandissima parte di pubblico impossibilitata a viaggiare. Ciò naturalmente non significa che per noi non conti la visita reale, che credo sia insostituibile, ma in questo particolare momento di incertezza siamo proiettati sempre di più verso nuove piattaforme digitali che permettano di sviluppare l’e-commerce, così come di ottimizzare l’acquisto dei biglietti online.

Le crisi rappresentano spesso anche una opportunità: crede che questa massima possa valere per la Collezione Peggy Guggenheim guardando al futuro?

Prendendo come punto di osservazione il museo che lei dirige e la città di Venezia, come vede il mondo di domani? E con quale augurio? Venezia è una città meravigliosa, ricca di storia, che tutti desiderano visitare, ma è altrettanto fragile e deve essere rispettata. Il nostro museo ha senz’altro bisogno di visitatori, che siano turisti ma anche residenti. Credo che la città debba trovare un equilibrio in un’offerta che sia sì rivolta ai turisti, ma anche ai suoi abitanti. Si devono creare nuove opportunità di lavoro, potrebbe diventare un hub per la ricerca sul clima, l’ambiente, la sostenibilità, ad esempio. Ci sono molti spazi che potrebbero essere deputati al co-working, come succede in altre città europee.

COLLEZIONE PEGGY GUGGENHEIM Palazzo Venier dei Leoni Dorsoduro 701 – Venezia 041 2405411 guggenheim-venice.it in alto: Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. Photo Matteo De Fina


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PERCORSI /PIEMONTE

5 indirizzi in Piemonte a cura di Santa Nastro Due giornalisti, un filosofo e un architetto offrono cinque consigli per un itinerario alternativo in Piemonte.

LA MOSTRA

E luce fu è la mostra promossa da Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e Fondazione CRC. Quattro artisti, travolti dalla magnifica ossessione della luce, da sempre spirito guida, schiavitù e delizia nella creazione di un’opera, inseguono il tema, in un percorso intergenerazionale che coinvolge Giacomo Balla, Olafur Eliasson, Lucio Fontana e Renato Leotta. I lavori, inclusi nelle collezioni del Castello ed esposti presso il Complesso Monumentale di San Francesco a Cuneo, sono stati selezionati dalla direttrice Carolyn Christov-Bakargiev e da Marcella Beccaria, con la consulenza curatoriale di Marianna Vecellio per il progetto di Renato Leotta, portando gli spettatori a immergersi in un allestimento ambientale che trae ispirazione dal luogo ospite. La luce segna il movimento nelle opere di Balla – basti pensare a Fuoco d’artificio del 1917, in pieno afflato futurista; la luce è il punto di partenza e arrivo, è la bussola nelle grandi installazioni di Eliasson, che trae linfa dagli smisurati paesaggi e dalle luminescenze delle sue terre di origine, Islanda e Danimarca: non a caso c’è The sun has no money, 2008, dove chiarore e ombre lottano strenuamente per conquistare lo spazio dell’abside. Di Fontana è in mostra l’Ambiente Spaziale del 1967 a luce di Wood, mentre per Renato Leotta è presente Sole, del 201920, realizzato nell’intero ambiente della Chiesa con fari di automobili dismesse che rischiarano il percorso alla scoperta delle architetture.

fino al 14 febbraio E LUCE FU a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria COMPLESSO MONUMENTALE DI SAN FRANCESCO Via Santa Maria 10 – Cuneo 0171 452711 fondazionecrc.it

TORINO

CUNEO

LA FONTANA DEL TRAFORO DEL FREJUS Piazza Statuto

PARLAPÀ Corso Principe Eugenio 17 011 4365899 parlapa.com TORINO

IL MONUMENTO

Per molto tempo sono passato, con disinteresse giustificato solo dalla fatica di tornare tardi la sera dall’università, davanti a un grande monumento al centro di Piazza Statuto a Torino: la fontana del Traforo del Frejus. Un giorno, per caso, ho alzato lo sguardo. Scoprire qualcosa di più sul monumento è stata una conseguenza naturale data dallo stupore: nato da un’idea del Conte di Veglio, che era presidente dell’Accademia delle Belle Arti, nel 1860 (poi terminata nel 1879), è una immensa piramide costituita da grandi pietre che provengono dal Traforo del Frejus con in cima un maestoso Genio Alato che porta sul capo una stella a cinque punte. Sui vari massi della fontana si trovano invece, bellissime, le statue di alcuni Titani abbattuti dal Genio stesso. Sembrerebbe la classica allegoria della vittoria della Ragione (il Genio

NH COLLECTION Piazza Carlo Emanuele II 15 011 8601611 nh-collection.com

I PARCHI FLUVIALI LUNGO IL PO E LA DORA


PERCORSI / PIEMONTE

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Olafur Eliasson, The sun has no money, 2008. Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino, in comodato da Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT. Courtesy Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino. Photo Paolo Pellion

Alato) sulla forza bruta (i Titani) ma in realtà, ed è per questo che adoro questo luogo, le statue dei Titani sono la sofferenza cristallizzata degli uomini che lavorarono alla costruzione del traforo. Il monumento, dunque, è in realtà un memoriale posto in quella che all’epoca era la fine della città: dove il sole scompare e dove iniziano le tenebre secondo l’articolazione mistica della geografia della magia di Torino bianca e di Torino nera. Memoria, morte, magia, misticismo erano sempre stati lì, eppure non li vedevo: i monumenti obbligano a guardarsi intorno. (Leonardo Caffo, filosofo)

IL LUOGO

È una bella giornata di primavera o autunno? Allora è un’ottima occasione per saltare su una bicicletta e andare alla scoperta di una dimensione sorprendente della città, quella che si sviluppa lungo gli argini dei fiumi. Ve la sentite di pedalare per 50 chilometri? Allora partite dai Murazzi di Piazza Vittorio Veneto, il cuore ormai perduto della vita notturna di Torino, rigorosamente a pelo d’acqua. Se viaggiate in direzione sud, passerete dagli antichi fasti del Parco del Valentino ai campi agricoli alla confluenza con il Sangone, accompagnati dai runner e dai canottieri che vogano sul

fiume. Se invece pedalate verso nord, passando sotto il balcone di Casa Mollino, giungerete presto agli ampi spazi del Parco Colletta e del Parco del Meisino, dove ogni anno stormi di uccelli migratori si fermano a riposare sui tronchi d’albero affioranti dall’acqua del fiume alla confluenza con la Stura. A valle della diga di Bertolla c’è un’isola, tre volte più grande del Valentino, totalmente inaccessibile all’uomo: una riserva di wilderness praticamente sconosciuta, un’inaspettata oasi di biodiversità a due passi dal centro e dalla tangenziale. Infine, sulla via del ritorno, non mancate una deviazione lungo le sponde della Dora, verso ovest: attraverserete il nuovo distretto della creatività e raggiungerete un sorprendente parco pubblico ricavato da vecchie strutture industriali di stabilimenti siderurgici. Torino è una città operosa, ma lungo i suoi fiumi la sentirete respirare. (Luca Poncellini, architetto).

MANGIARE

Parlapà in piemontese è un’esclamazione tipo “caspita” o “accidenti”. Ma è anche il nome di un’enoteca con cucina a due passi da Piazza Statuto dove si mangia tra bottiglie di whisky e calvados. Io amo il rognone, non proprio facile da trovare: qui lo fanno trifolato al limone ed è una vera delizia, come le animelle & granelle al marsala o le “grive” monferrine con il fegato nel budello di maiale. I vini sono italiani, i distillati di tutto il mondo e il bello è che non si deve fare un mutuo. (Rocco Moliterni, giornalista)

DORMIRE

In questo edificio, in una delle più belle piazze di Torino, un secolo fa c’era la redazione dell’Ordine Nuovo di Gramsci. Era un palazzo di ringhiera, ora è diventato un hotel a quattro stelle, l’NH Carlina, ma ha conservato il suo fascino discreto. La quiete del cortile ti catapulta lontano dal centro città, così ci vengo volentieri d’estate a leggere i giornali o a sorseggiare un Margarita. Nella lounge ci si può perdere con i lavori tanto di artisti internazionali, come Per Barclay, quanto di geni torinesi, come Carlo Mollino. (Rocco Moliterni, giornalista)


IL DISEGNO DI HENRY MOORE AL MUSEO NOVECENTO DI FIRENZE enry Moore torna a Firenze. A quasi cinquant’anni dalla memorabile mostra al Forte di Belvedere del 1972, che vide protagonista il maestro della scultura inglese, il Museo Novecento gli rende omaggio con Il disegno dello scultore. Henry Moore, mostra curata da Sebastiano Barassi, Head of Henry Moore Collections and Exhibitions, e Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento. L’esposizione, organizzata in collaborazione con la Henry Moore Foundation, dal 13 novembre al 23 maggio vedrà il museo fiorentino ospitare una corposa selezione di disegni, circa settanta, assieme a grafiche, sculture e altri oggetti e un programma video dedicato all’artista, cui si deve una profonda rilettura dell’umanesimo in arte. Le forme naturali – rocce, ciottoli, radici e tronchi –, gli animali, ma anche i teschi e poi la relazione tra lo scultore e la materia, esemplificata dai disegni che ritraggono le mani dell’artista o la sua figura al lavoro nel paesaggio, divengono il fulcro della mostra, che si propone come occasione per entrare nel vivo della genesi concettuale e formale del suo lavoro creativo. Traendo spunto da una rilettura di alcuni temi centrali nella produzione di Moore, l’esposizione intende proporre un approfondimento sul valore del disegno nella sua pratica pressoché quotidiana e sulla sua relazione con la scultura. Secondo Moore, infatti, “l’osservazione della natura è decisiva nella vita dell’artista. Grazie a essa anche lo scultore arricchisce la propria conoscenza della forma, trova nutrimento per la propria ispirazione e mantiene la freschezza di visione, evitando di cristallizzarsi nella ripetizione di formule”. Come una sorta di mostra nella mostra, sarà esposta anche una selezione di piccole sculture presenti in collezioni private fiorentine e non solo, a sancire il legame con il territorio toscano inaugurato con la celebre retrospettiva del ’72 al Forte di Belvedere a cura di Giovanni Carandente.

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LA MOSTRA

Nella sala al piano terra del Museo Novecento viene esposto eccezionalmente un cranio di elefante proveniente dallo studio dell’artista, su cui Moore si è applicato costantemente nel corso degli anni realizzando una serie di incisioni, che sottolineano l’analisi delle forme da punti di vista variati e con soluzioni formali molteplici. Con Il disegno dello scultore. Henry Moore si accende quindi un faro sulla produzione grafica di questo protagonista della scultura

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dal 13 novembre al 23 maggio

IL DISEGNO DELLO SCULTORE. HENRY MOORE

MUSEO NOVECENTO Piazza Santa Maria Novella 10 – Firenze 055 286132 museonovecento.it a cura di Sebastiano Barassi e Sergio Risaliti

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

contemporanea, che nel corso della sua intensa attività ha avuto modo di confrontarsi non solo con la scultura primitivista ed extraeuropea e con le sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie storiche – su tutte, le esperienze di Brancusi e Picasso –, ma anche con la tradizione della grande arte italiana dei secoli precedenti, in particolare con quella dei maestri rinascimentali attivi a Firenze e in Toscana. La mostra, significativa per


LA VITA DI HENRY MOORE

sopra: Henry Moore al lavoro su una lastra all'acquaforte per l'Elephant Skull album, Perry Green 1970 circa. Photo Errol Jackson. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation a sinistra: Henry Moore, Rock in Landscape, 1982. Photo Nigel Moore, Menor. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation

presenza di opere e per il carattere inedito della scelta, frutto di una preparazione scientifica che ha impegnato il museo negli ultimi due anni, rinsalda pertanto il legame di Moore con il territorio, che tuttora ospita opere dell’artista – ad esempio il Guerriero nel Chiostro di Santa Croce, la monumentale scultura in marmo nella vicina Prato – e che ha accolto, oltre all’importante esposizione del 1972, una mostra nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio nel 1987. Va ricordato poi che Firenze ha rappresentato un momento saliente e forse cruciale nella formazione del genio artistico di Moore, giunto in città per la prima volta nel 1925, durante il suo primo viaggio di studio in Italia, realizzato grazie a una borsa di studio messa a disposizione dal Royal College of Art. Fu quella l’occasione per ammirare e osservare le creazioni dei grandi maestri del passato, tra cui Giotto, Donatello, Masaccio e soprattutto Michelangelo. “Lo scopo principale dei miei disegni è di aiutarmi a scolpire. Il disegno è infatti un mezzo per generare idee per la scultura, per estrarre da sé l’idea iniziale, per organizzare le idee e per provare a svilupparle… Mi servo del disegno anche come metodo di studio e osservazione della natura (studi di nudo, di conchiglie, di ossi e altro). Mi accade anche, a volte, di disegnare per il puro piacere di farlo”, ha dichiarato Moore.

I TEMI

Soffermarsi sull’opera grafica dell’artista e sui temi a lui prediletti significa allora entrare nel vivo della genesi della sua arte. Il disegno appare non solo come esercizio preparatorio

Henry Moore (Castleford, Yorkshire, 1898 – Much Hadham, Hertfordshire, 1986) è considerato uno degli scultori più significativi del XX secolo. Nato in una famiglia di minatori e settimo di otto figli, Moore mostra da subito un precoce interesse per la scultura, ma, persuaso dal padre, si forma come insegnante prima di arruolarsi nell’esercito britannico allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Nel 1919 entra nella Leeds School of Art, dove completa il biennio di disegno in un anno e diventa l’unico studente del corso di scultura. Dal 1921 al 1924 frequenta il Royal College of Art a Londra, rimanendovi in qualità di insegnante fino al 1931. Nel 1925 compie un viaggio in Italia della durata di sei mesi, visitando Roma, Firenze, Assisi, Pisa, Siena, Padova, Ravenna e Venezia: ha così modo di studiare le opere dei grandi maestri come Giovanni Pisano, Giotto, Masaccio, Michelangelo, Donatello. Numerose commissioni e mostre negli Anni Trenta hanno contribuito ad accrescere la reputazione di Moore, come la sua prima personale del 1928 alla Warren Gallery o la prima commissione pubblica per la sede della London Transport, per la quale realizza un bassorilievo in pietra collocato sopra alla stazione della metropolitana di Londra St. James. Divenuto insegnante al Royal College, incontra Irina Radetsky, una studentessa di pittura che sposa l’anno seguente. I due trasferiscono ad Hampstead la loro casa studio, dove frequentano giovani artisti tra cui Naum Gabo, Barbara Hepworth, László Moholy-Nagy e altre personalità di rilievo dell’avanguardia.

L’ASCESA AL SUCCESSO

Dal 1932 al 1939 Moore dirige il corso di scultura alla Chelsea School of Art, partecipando inoltre a numerose esposizioni, come quella organizzata presso la Mayor Gallery di Londra con il gruppo Unit One, “espressione di uno spirito autenticamente contemporaneo in arte” secondo le parole del pittore Paul Nash; e ancora la Mostra Internazionale Surrealista alle New Burlington Galleries di Londra; Cubismo e Arte Astratta al Museum of Modern Art di New York; la Mostra Internazionale di Arte Astratta allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Nel 1940, in seguito al bombardamento del suo studio, si trasferisce a Much Hadham nell’Hertfordshire, dove trascorre il resto della sua vita. Dagli Anni Quaranta diviene celebre, oltre che come scultore, anche come disegnatore, ritraendo le persone che si rifugiavano nella metropolitana di Londra durante i bombardamenti nella celebre serie Shelter Drawings. Nel 1946 il Museum of Modern Art di New York gli dedica la prima grande retrospettiva e nel 1948 l’artista ottiene il prestigioso Premio Internazionale di Scultura alla Biennale di Venezia. Dagli Anni Cinquanta la sua carriera è caratterizzata dal successo internazionale, consacrata da numerose commissioni in Inghilterra e in giro per il mondo, come la prestigiosa commissione per la sede parigina dell’UNESCO per la quale realizza una Reclining Figure scolpita direttamente nelle cave di Carrara. È del 1951 il documentario Henry Moore prodotto da John Read per la BBC, il primo film mai dedicato a un artista vivente. Nello stesso anno si tiene anche la prima retrospettiva alla Tate di Londra. Nel 1974 inaugura a Toronto l’Henry Moore Centre alla Art Gallery of Ontario, alla quale fa dono di più di duecento opere tra sculture, disegni e grafiche.

LA MOSTRA A FIRENZE DEL 1972

Nel 1972 viene allestita a Firenze, nella suggestiva cornice del Forte Belvedere, la più grande mostra mai dedicata a Henry Moore, in collaborazione con il British Council, inaugurata alla presenza della principessa Margaret. “No better site for showing sculpture in the open-air, in relationship to architecture, & to a town, could be found anywhere in the world, than the Forte di Belvedere, with its impressive environs & its wonderful panoramic views of the city. – Yet its own powerful grandeur and architectural monumentality make it a frightening competitor for any sculpture – and so I know that showing my work here would be a formidable challenge, but one I should accept”, scrive l’artista in una lettera indirizzata a Luciano Bausi, allora sindaco di Firenze. Nella sede fiorentina sono esposte più di duecento opere tra sculture monumentali all’esterno sui bastioni, disegni e opere di bronzo o pietra di piccole dimensioni. La mostra risulta una tappa fondamentale nella cultura di Firenze e ha la funzione di un evento iniziatico. Si può dire che con quell’evento la città prese confidenza con il linguaggio dell’arte moderna e contemporanea.

LA HENRY MOORE FOUNDATION

Nel 1977 l’artista crea la Henry Moore Foundation per amministrare la vendita e l’esposizione delle sue opere, l’anno seguente dona 36 sculture alla Tate Gallery di Londra. Nel 1982 vengono inaugurati la Henry Moore Sculpture Gallery e il Centre for the Study of Sculpture a Leeds e due anni dopo l’artista dona l’intera proprietà di Perry Green alla Fondazione, perché la gestisca in perpetuo incoraggiando le giovani generazioni di artisti e la promozione della scultura nella vita culturale del Paese. L’artista muore il 31 agosto 1986 all’età di 88 anni nella sua casa di Perry Green, dove ha sede oggi la Henry Moore Foundation.

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GLI ALTRI APPUNTAMENTI AL MUSEO NOVECENTO L’intensa stagione in corso al Museo Novecento propone un programma ricco di mostre, eventi e talk dedicati ai grandi maestri dell’arte internazionale e alla promozione di giovani artisti emergenti.

FRANCOLINO, MONTINI, GURRIERI E LAKO Tra gli appuntamenti da non perdere, si segnalano le quattro mostre temporanee aperte al pubblico il 25 settembre. Humus di Andrea Francolino (fino al 17 dicembre), a cura di Sergio Risaliti e Luca Puri, progetto site specific che vede 28 bandiere installate nel loggiato rinascimentale del museo corrispondenti ai 27 Paesi dell’Unione europea e alla bandiera che li raccoglie tutti, la cui disposizione rievoca quella dei rappresentanti dei singoli Paesi all’interno del Parlamento europeo riuniti insieme a decidere sulle sorti del pianeta – una riflessione che ruota attorno a temi come l’emergenza ecologica, la salvaguardia del pianeta e la creazione di un terreno comune tra le nazioni. Incanto di Irene Montini e Rocco Gurrieri (fino al 28 gennaio), a cura di Sergio Risaliti e Luca Puri, una fiaba noir dalle atmosfere oniriche articolata tra film, fotografie e una grande scultura a forma di pianta, tanto miracolosa quanto malefica, perno centrale della narrativa di questa vicenda misteriosa. Suspense di Lori Lako (fino al 23 novembre), a cura di Sergio Risaliti, progetto che parte da un unico lavoro di grandi dimensioni incentrato sulla riflessione attorno al passato recente dell’Albania, Paese natale dell’artista, per trasformarsi in una denuncia globale circa l’impatto dannoso dell’uomo sull’ambiente. Infine Paradigma. Il tavolo dell’architetto: on-line (fino al 28 gennaio), a cura di Laura Andreini, ciclo espositivo con cadenza quadrimestrale che ha visto avvicendarsi i lavori di tanti protagonisti dell’architettura internazionale. Durante il lockdown, il progetto si è trasferito sulle piattaforme digitali del museo e della rivista specializzata Area, coinvolgendo numerosi studi professionali, ai quali è stato chiesto di riflettere sulla dimensione peculiare del lavoro dell’architetto.

MARIO MAFAI Tra gli appuntamenti dedicati ai maestri del Novecento, la monografica intitolata a Mario Mafai (Roma, 1902-1956), pittore romano esponente della “Scuola di via Cavour”, in mostra fino al 25 febbraio. L’esposizione, a cura di Sergio Risaliti e Stefania Rispoli in collaborazione con Stefania Delia Previti e Rebecca Ricci, offre una selezione di opere provenienti dalla collezione permanente del museo che racconta i decenni centrali della carriera del pittore a cavallo del secondo conflitto mondiale e si inserisce nell’ambito del progetto Dall’Aula al Museo, realizzato in collaborazione con il Dipartimento SAGAS dell’Università degli Studi di Firenze.

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MCARTHUR BINION Modern Ancient Brown è la prima personale in un’istituzione europea del grande artista afroamericano McArthur Binion, a cura di Lorenzo Bruni e realizzata in collaborazione con la Galleria Massimo De Carlo (fino all’11 febbraio). La mostra presenta una serie di opere realizzate appositamente per il museo, tra disegni, dipinti e una grande pala su tavola intitolata proprio Modern Ancient Brown, che riprende il nome della fondazione istituita da Binion nel 2019 a Detroit per promuovere il lavoro degli artisti black che si dedicano all’interdisciplinarietà tra arti visive e letteratura. Nella sala cinema del museo viene presentato in anteprima mondiale il documentario sull’artista intitolato Stuttering: Standinf: Still (Afterthoughts), realizzato dalla filmmaker Marika Mairova e prodotto per l’edizione di Art Basel 2020 rimandata a causa della pandemia.

LE COLLEZIONI DELLA RAGIONE E IANNACCONE Vissi d’arte. Cento capolavori dalle collezioni Della Ragione e Iannaccone è un eccezionale percorso espositivo con opere da Carrà a Morandi, da Guttuso a Vedova e tanti altri maestri italiani del Novecento in corso al Museo della Città di Livorno (fino al 31 gennaio). La mostra, a cura di Sergio Risaliti, Eva Francioli ed Elena Pontiggia riunisce per la prima volta le opere di due importanti collezioni dedicate all’arte italiana del Novecento: quella di Alberto Della Ragione, custodita al Museo Novecento di Firenze, e quella di Giuseppe Iannaccone, entrambe caratterizzate dalla presenza di opere di artisti italiani realizzate a cavallo tra le due guerre.

MARINELLA SENATORE Ultimo appuntamento di questo autunno l’intervento site-specific che l’artista Marinella Senatore realizzerà il 25 novembre, in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, nel loggiato rinascimentale del museo. L’artista campana, conosciuta a livello internazionale per le sue spettacolari parate e installazioni luminose, realizzerà Assembly, un wall-painting, sorta di nastro continuo di immagini montate come un collage con le quali esprime le sue idee rispetto alle grandi questioni dei diritti civili e della difesa delle minoranze. L’artista sarà anche protagonista di un talk sul suo lavoro e sulla sua poetica-politica legato al dibattito sulla violenza di genere e sull’arte come strumento per contrastarla.

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

Henry Moore, Tree Trunks I, 1982. Photo Henry Moore Archive. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation

dello scultore, concentrato a bloccare l’immaginazione per poi comprendere le forme e il loro sviluppo tridimensionale. Emerge infatti, dalla selezione delle opere, una pratica anche autonoma, poeticamente libera, che sembra indicare con estrema precisione quali siano state fin dalla giovinezza le sue fonti d’ispirazione naturali: “Il profondo interesse che nutro per la figura umana non mi ha impedito di prestare, da sempre, una grande attenzione alle forme naturali, come ossi, conchiglie, sassi e così via”. È ancora lo stesso Moore a dichiarare, inoltre: “La natura fornisce allo scultore un repertorio illimitato di forme e di ritmi (reso ancor più vasto dal telescopio e dal microscopio) che gli permette di arricchire immensamente la propria esperienza della forma… I sassi e le rocce ad esempio mostrano il modo in cui la natura lavora la pietra… nelle rocce, nel loro ritmo nervoso, irregolare e discontinuo, si ha la dimostrazione di come si possa agire sulla pietra spaccandola, tagliandola in modo netto… Gli ossi presentano una sorprendente potenza strutturale unita a una forte tensione formale… Gli alberi (i tronchi d’albero) insegnano a riconoscere i principi con cui si sviluppano e si rinforzano le articolazioni, rendendo agile la connessione tra le varie parti della struttura… Nelle conchiglie la natura ci offre l’immagine della forma dura e cava (scultura metallica) perfettamente conclusa in se stessa”. A partire da un’indagine sul rapporto di Henry Moore con il dato naturale e con i principi di ritmo e forma a esso sottesi, verrà costruita una narrazione che muove dalla relazione tra l’immagine dell’artista e il paesaggio roccioso, per poi svilupparsi intorno allo studio degli elementi naturali fino ad arrivare alla rappresentazione della forma primordiale. L’attenzione per la forza strutturale


I TEMI DELLA MOSTRA ALBERI

LE MANI DELL’ARTISTA

ROCCE

ANIMALI

che soggiace alle diverse conformazioni della natura, unita all’osservazione dell’anatomia umana e dello spazio circostante, costituisce il fondamento di una ricognizione su alcuni motivi iconografici ricorrenti nella produzione grafica di Moore. Tra questi, si distinguono i paesaggi, le rocce, gli alberi, gli animali, i monoliti e le mani dell’artista. La scelta di questi temi è stata dettata dalla volontà di “scavare” in una zona del lavoro di Henry Moore finora poco indagata e meno nota al grande pubblico italiano, la cui conoscenza è legata soprattutto alle sculture che rappresentano figure sdraiate e ai disegni della Seconda Guerra Mondiale. Collegati da una comune ricerca sulla struttura e sulla forma, i soggetti individuati consentono di rileggere la produzione di Moore rivelando importanti richiami alla tradizione anglosassone, tra pittura romantica di paesaggio (il riferimento è, in particolare, ai disegni dedicati agli eventi atmosferici, a Turner ad esempio) e osservazione più prettamente scientifica (si pensi ai disegni dedicati agli animali tipici di una certa cultura anglosassone).

MOORE A FIRENZE DAL FORTE DI BELVEDERE AL MUSEO NOVECENTO (Sala Cinema)

PAESAGGI

L’UMANESIMO DI MOORE

Era tempo ormai che la città di Firenze, culla dell’umanesimo in arte, tornasse a rendere omaggio a Henry Moore, lo scultore moderno che più di ogni altro ha saputo interpretare e sviluppare la lezione dei grandi maestri del Rinascimento, dando vita a un’esperienza nuova, diversa anche se consequenziale per molti aspetti a quella di Masaccio e Donatello, di Brunelleschi e di Michelangelo. “Un’arte che oggi è ancora più che mai esemplare in quanto al di là di argomentare sul suo astrattismo o meno si avverte sempre la presenza dell’uomo, nel suo rapporto con la storia e la natura, con i suoi tormenti e le sue inquietudini, con i suoi conflitti e le sue riconciliazioni”, ha dichiarato Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento. Un nuovo umanesimo in arte di cui Moore era consapevole: “Disapprovo l’idea secondo

TESCHI E OSSA

ARAZZO

SCULTURE IN BRONZO

cui l’arte contemporanea sarebbe un atto di fuga dalla realtà. Il fatto che l’opera d’arte non abbia come scopo la riproduzione fedele delle sembianze della natura non è motivo sufficiente per ritenere che essa sia uno strumento di evasione dal mondo e dalla vita: al contrario, è proprio attraverso l’arte che è possibile addentrarsi ancor più profondamente nella vita stessa. L’arte non è un sedativo o una droga, né un semplice esercizio di buon gusto, e neppure un abbellimento della realtà con piacevoli combinazioni di forme e di colori; è invece una espressione del significato della vita e un’esortazione a impegnarvisi con sforzi ancora maggiori”. Sono parole di Moore, che valgono come viatico a questa mostra e forse anche a chi voglia ancora trovare nell’arte uno strumento per migliorare il proprio rapporto con la realtà, gli altri e la natura che ci circonda.

LE MANI, LA NATURA, LA FORMA

Il motivo delle mani dell’artista permette infine di approfondire un altro tema caro a Moore. Le mani, infatti, non costituiscono solamente uno strumento indispensabile dell’attività artistica, ma sono a loro volta un soggetto che consente di veicolare un ampio spettro di emozioni, sensazioni, sentimenti. Al motivo della mano viene inoltre ricondotta l’origine della creazione e della costruzione della forma nello spazio. Le mani, oltre allo sguardo, diventano veicolo della connessione profonda tra l’oggetto naturale e la coscienza interiore di esso. Secondo lo scultore, infatti, “la percezione della forma è per lo scultore una sensazione interiore: ogni forma, infatti, indipendentemente dalle sue dimensioni e dalla sua complessità, viene da lui percepita come se fosse contenuta nell’incavo della sua mano, e visualizzata mentalmente nella molteplicità dei suoi aspetti”.

Henry Moore, The Artist's Hands, 1982. Photo Sarah Mercer. Riprodotto con l'autorizzazione della Henry Moore Foundation

MUSEO NOVECENTO FIRENZE

in collaborazione con

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#23

RECENSIONI

fino al 17 gennaio

fino al 14 febbraio

a cura di Claudia Zevi Catalogo Silvana Editoriale

a cura di Hubertus Butin, Lisa Ortner-Kreil Catalogo Hatje Cantz Verlag

MARC CHAGALL. ANCHE LA MIA RUSSIA MI AMERÀ PALAZZO ROVERELLA Via Giuseppe Laurenti 8/10 – ROVIGO 0425 460093 – palazzoroverella.it Non è facile trovare un equilibrio tra divulgazione e ricerca, tra rigore scientifico e capacità di suscitare emozioni. Sono poche le mostre che centrano tale obiettivo e tra queste rarità possiamo includere Marc Chagall. Anche la mia Russia mi amerà. Le esposizioni sul pittore nato a Vitebsk non si contano: è amato sia dagli specialisti sia dagli appassionati d’arte, è in grado di coinvolgere – lui che visse appieno nei contesti delle Avanguardie, accogliendole solo in parte – anche chi è allergico all’arte non figurativa. I dipinti di Chagall ci proiettano infatti in un mondo favolistico, ci sembrano sogni a occhi aperti con i loro personaggi assurdamente colorati – le mucche blu, i cavalli rossi, i violinisti verdi – e con le loro atmosfere surreali. L’IMMAGINARIO DI CHAGALL Questo è proprio uno dei punti di partenza della mostra, che indaga le costanti ed esplicite interferenze tra l’opera di Chagall e la cultura popolare russa (con tutte le sue favole) da un lato, e quella ebraica, più intellettuale, dall’altro. Ecco allora che il preambolo dell’avvincente narrazione mette a fuoco lo shtetl, il villaggio abitato dalla comunità di ebrei dove l’artista vide la luce. Quelle piccole case, gli animali da cortile, i personaggi che paiono sempre viandanti popolano le sue prime tele (disprezzate dalla famiglia, che le usava come zerbini per asciugarsi le scarpe, come racconta il pittore nella sua autobiografia Ma vie, più volte citata in mostra). Molte di queste immagini, come quelle dipinte durante l’esperienza a San Pietroburgo

GERHARD RICHTER: LANDSCHAFT

KUNSTFORUM WIEN Freyung 8 – VIENNA (+43 1) 5373326 – kunstforumwien.at e il soggiorno a Parigi, trovano puntuali corrispondenze in fogli volanti illustrati, diffusissimi in Russia, chiamati lubki e che a Rovigo sono esposti vicino alle opere di Chagall; inoltre un’intera sala accosta queste ultime ad antiche icone – provenienti dalla collezione vicentina di Intesa Sanpaolo – e impressionano i collegamenti visivi e di significato che si instaurano tra le une e le altre. TEMI E PITTURA Ancora originari della cultura tradizionale russa ed ebraica sono i temi ricorrenti nella pittura di Chagall, che vanno a formare le successive sezioni del progetto espositivo, tracciando al contempo le coordinate delle vicende biografiche del pittore: le caprette, la pendola (importante per una casa ebrea, dove i riti sono scanditi al minuto), il gallo che si confonde con l’uccello di fuoco, l’androgino. Il dialogo, incessante, non compromette il piacere della scoperta di minuti particolari, dettagliatissimi se confrontati con la stesura vaporosa della superficie pittorica, le atmosfere fortemente liriche, le figure volanti, e poi una scultura in bronzo con il suo gesso (che sorpresa!), le cromie cupe e i tratti spigolosi dei quadri dipinti negli anni dell’esilio newyorkese, quando Chagall dovette affrontare anche la morte dell’amata moglie Bella, la prima persona che, al rientro dal viaggio in Francia, gli regalò dei fiori.

Marc Chagall, La slitta nella neve, 1944, Parigi, collezione privata © Chagall ® by SIAE 2020

Marta Santacatterina

La mostra Gerhard Richter: Landschaf è una raccolta di circa 140 opere, soprattutto dipinti – ma anche foto, grafiche e libri d’artista – tratti dalla vasta ed eterogenea produzione dell’artista. Gerhard Richter nasce a Dresda nel 1932 e si diploma all’Università di belle arti nel 1956 in un clima di realismo socialista. Nel 1961, in una Germania ormai politicamente scissa tra Est e Ovest, riesce a fuggire dalla sua città stabilendosi a Düsseldorf, e anni dopo a Colonia. LA PITTURA E IL PAESAGGIO Risalgono al 1963 i primi paesaggi in cui Gerhard Richter dipinge soggetti da vecchie foto, definendoli “di seconda mano; immagini da immagini”. Quasi nessun altro tema coinvolgerà l’interesse dell’artista per tale genere, spingendo all’estremo la pratica secondo cui il “suo” paesaggio non debba essere una costruzione oggettiva, ma una realtà mediata da modalità creative e linguistiche, portando il “genere” a offrirsi come meta-pittura. Oltre il colore e le forme, c’è un quid, che progressivamente agisce in maniera destrutturante nel rapporto convenzionale con la realtà naturale. È così nelle tracce residue del rapporto tra passato e presente, o nel grado di offuscamento delle linee e dei contorni, o in certi ribaltamenti speculari, o quando applica pennellate casuali sopra scorci di luoghi o paesaggi. Dispositivi che danno l’impressione ineliminabile dell’incertezza tra vero e falso. Il fascino della pittura di Richter sta nel trovarla intrappolata in questa insuperabile ambiguità. Gerhard Richter, Venedig-Treppe, 1985 © Gerhard Richter 2020

RICHTER E L’ASTRAZIONE In tutte le declinazioni figurali ci si presenta una pittura dell’inganno, un fare che adombra una realtà, anche grazie a titoli referenziali, e poi, più che mostrarsi, l’“oggetto” si nasconde, si offusca. Una strategia che a Richter riesce anche nella pura astrazione, filone pittorico di cui la mostra offre esempi significativi. Qui l’artista stratifica i colori e poi raschia la tela mediante l’uso di grandi spatole, riportando a vista, sotto forma di minuscoli tratti e sfumature, le stesure sottostanti: un gioco tra profondità e superficie del quale l’artista accetta perfino l’esito di una componente casuale. Il dipinto astratto Sankt Gallen (1989), di smisurata dimensione, si profila come paradigma di questa calcolata tecnica informale. Così che questa linea pittorica pare essere lo stadio maturo, e quanto mai coerente, di una grande carriera artistica e intellettuale. Richter, oggi ottantottenne, ha appena annunciato l’addio alla pittura. Qualcuno a lui vicino ha però puntualizzato che, con tutta probabilità, il maestro si riferiva alla pittura di grandi dimensioni. Franco Veremondi


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Dal 10 Ottobre 2020 al 17 Gennaio 2021 Palazzo Attems Petzenstein Gorizia Musei Provinciali di Gorizia

Erpac, Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia Servizio Ricerca, Musei e Archivi storici

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