Arturo Martini genio irregolare
Marta Santacatterina
Il “caso” Arturo Martini (Treviso, 1889 – Milano, 1947) potrebbe essere riassunto con l’espressione “nemo propheta in patria”: il rapporto dell’artista con la sua città natale non fu sempre felice, nonostante non gli siano mancate opportunità di lavoro e il fatto che già durante l’età giovanile il museo locale abbia acquisito alcune sue opere. Certo non aiutò il carattere spavaldo,
fino al 30 luglio 2023 ARTURO MARTINI.
I CAPOLAVORI
a cura di Fabrizio Malachin e Nico Stringa
Catalogo Antiga Edizioni
MUSEO LUIGI BAILO
Borgo Cavour 24 – Treviso museicivicitreviso.it
irruente, raramente accomodante dell’artista, unito alla “voglia di affrancarsi a sostenere l’ostinata determinazione che mise in campo per esprimere una scultura nuova e ‘grande’”, scrive Fabrizio Malachin in catalogo. E non aiutarono nemmeno le profonde novità introdotte in scultura da Martini, che alla fine della Prima Guerra Mondiale si avvicinò al “ritorno all’ordine” e a quell’attenzione al “mestiere” teorizzata dalla rivista Valori Plastici
La mostra che ora riunisce al Museo Luigi Bailo di Treviso ben 280 opere di Martini – di cui 150 patrimonio delle collezioni trevigiane e 130 prestate da musei, istituzioni e collezionisti privati – intende porsi come una sorta di risarcimento nei confronti di un artista originale, che seppe sempre mettersi alla prova, elaborando soluzioni inedite pur rimanendo aderente a uno stile figurativo ed eleggendo a suoi modelli la tradizione etrusca, romanica, del tardo Medioevo fino al primo Quattrocento, senza tuttavia escludere occasionali incursioni nelle scomposizioni delle avanguardie.
OPERE IN DIALOGO
L’allestimento, che necessariamente si è adeguato a spazi non semplici, raduna le opere per soggetti, gli stessi sui quali Martini tornò spesso, realizzando numerose versioni. L’androne del Museo Bailo accoglie i visitatori con alcune opere colossali “che pesano tonnellate ma sembrano leggere come piume”, parola del loro stesso autore. Ecco allora che da Acqui Terme è giunto, con tutta la sua maestosità, Il
figliuol prodigo della collezione di Arturo Ottolenghi e Herta von Wedekind – tra i maggiori sostenitori di Martini – e accanto si scorgono il gesso bidimensionale del 1913-14 e la terracotta della maturità, tutte interpretazioni della stessa parabola biblica. Nel medesimo spazio stanno i due Leoni di Monterosso, anch’essi scolpiti per la villa degli affezionati committenti.
Entrando nel vivo del percorso, una sezione è dedicata a Tobiolo che stringe nelle mani un pesce (1933-34), richiesta ancora una volta dalla coppia Ottolenghi-Wedekind: forse è la scultura che ha segnato la prima autentica consacrazione della carriera del trevigiano. Con la sua evidente classicità, l’opera può quasi dirsi fatta a quattro mani, dal momento che Martini prese come spunto iniziale un bozzetto elaborato dalla stessa Wedekind, anch’esso presente nella sala, e vicino sta il più tardo Tobiolo “Gianquinto”
Un altro focus è dedicato alla Donna che nuota sott’acqua: il marmo, esposto alla Biennale di Venezia del 1942, dimostra tutta la portata della ricerca di Martini sulle forme. Il corpo pare inafferrabile – lo stesso principio è sotteso, pur con diversa intensità, al bronzo Saffo e al Torso di lottatore –, è acefalo poiché sott’acqua si perdono i connotati, e non si sa proprio da dove guardarlo. Curiosità: nella saletta accanto, attorno al bozzetto in bronzo, scorrono le scene del film muto, all’epoca considerato erotico, White Shadows in the South Seas, girato nel 1928 da W. S. Van Dyke e citato esplicitamente da Martini.
I CAPOLAVORI E LA COLLEZIONE PERMANENTE
Lungo il percorso si possono ammirare tante altre opere monumentali, alcune assolutamente inedite: lo stranissimo Sacro Cuore, talmente nuovo nella sua iconografia da essere rifiutato dalla parrocchia di Vado Ligure; l’incredibile gesso La sposa felice; la Chimera; Leda e il cigno; il Legionario ferito; l’enigmatica e suggestiva terracotta di enormi dimensioni La veglia e le più piccole La moglie del marinaio e Donna alla finestra. Vi sono naturalmente La Pisana e la Venere dei porti, quest’ultima acquisita dal museo esattamente novant’anni fa e nella quale Martini esprime forse il suo più alto livello di liricità.
Ma ampia è anche la rassegna delle sculture di piccole dimensioni: le serie degli animali, alcune formelle con la Via Crucis, il ciclo di Blevio con i suoi soggetti tratti dall’antichità, altre maioliche. E poi la sezione permanente al primo piano del Bailo, con le opere giovanili, quelle acquisite grazie a generose donazioni, le originali cheramografie (termine inventato
11 AGOSTO 1889
MARTINI & TREVISO
Arturo Martini nasce a Treviso
1908 Prima commissione da parte del Bailo
Realizza il gesso del Ritratto di Antonio Scarpa, poi quello per il monumento a Garibaldi che non viene mai finalizzato
1933 IX Mostra Trevigiana d’Arte
Accetta di partecipare alla mostra. Il Comune acquista la Venere dei porti
22 MARZO
Muore a Milano
1947 Prima mostra postuma 123 sculture, 20 pitture, 57 disegni e incisioni e 12 illustrazioni nel Palazzo del Governo
1959 Prime donazioni
Generose donazioni di privati entrano nella collezione permanente del Museo Bailo, che riserva così uno spazio a Martini
1967 Mostra del ventennale della morte Nel complesso di Santa Caterina viene organizzata un’ambiziosa retrospettiva, a cura di Giuseppe Mazzotti
1968 Paolo Saglietto gira Arte senza pace, documentario proiettato anche nell’attuale mostra
1989 Per il centenario della nascita, l’esposizione al Museo Bailo indaga il periodo giovanile di Martini
1993 Grazie a una raccolta fondi, il Museo Bailo acquista l’Adamo ed Eva
Restaurata l’ala nord del Museo Bailo, si ampliano gli spazi della sezione permanente, compresi quelli dedicati a Martini
MARTINI E
A 48 anni, complice una convalescenza necessaria dopo le grandi fatiche richieste per la realizzazione di alcuni gruppi scultorei, Arturo Martini cominciò a dedicarsi alla pittura. Le sue tele sono un filo rosso che si sviluppa in tutte le sale, una mostra nella mostra, spiegano i curatori Fabrizio Malachin e Nico Stringa a proposito degli oltre quaranta dipinti esposti per la prima volta in maniera unitaria. L’artista definì la pittura una “spina nel cuore” e vi si dedicò con tenacia e ostinazione al fine di raggiungere i risultati che si era prefissato. Lungo il percorso si possono scorgere i legami tra dipinti e sculture, l’evoluzione nell’uso del colore e le forme che si discostano dal pensiero tridimensionale caratteristico della principale attività di Martini, che si rivela così come un artista a tutto tondo.
Le sculture di Davide Rivalta al Castello di Brescia
intervista a cura di Stefano Castelli
Continua il progetto di rinnovamento e valorizzazione del Castello di Brescia: dal 26 maggio 2023 al 7 gennaio 2024 si instaura un confronto en plein air tra la scultura contemporanea di Davide Rivalta (Bologna, 1974) e il monumento storico. Abbiamo dialogato su ragioni e propositi dell’operazione con l’artista, il curatore Davide Ferri e il direttore della Fondazione Brescia Musei, Stefano Karadjov
Come riassumerebbe i cambiamenti del suo nuovo corso scultoreo, rispetto alle opere che hanno caratterizzato i suoi primi anni? Nella mostra bresciana si instaura anche un collegamento tra le diverse fasi del suo lavoro, tramite la presenza di “rifacimenti”.
Davide Rivalta: Il mio lavoro si è sempre dato nella relazione tra lo spettatore e l’animale, cioè tra l’io dello spettatore e l’alterità dall’animale ritratto. Ho sempre sentito la necessità di incontrare di persona gli animali: la mia opera è da sempre cominciata con una fotografia, in più oggi fotografo anche le sculture in mostra, in relazione all’ambiente in cui sono collocate, come se il processo fotografico si inscrivesse in un prima e un dopo e avesse un suo sviluppo parallelo a quello scultoreo. Inoltre ho imparato a inglobare maggiormente la casualità nel processo di realizzazione della scultura, affidandomi a gesti estemporanei come i lanci di creta, la cui energia continua a riverberarsi sulle superfici. La mostra di Brescia raccoglie tutti i primati che ho ritratto negli ultimi anni e i cambiamenti della mia scultura: la presenza di un nuovo gruppo di gorilla, molto più grandi e imponenti, ne è la prova.
dal 26 maggio 2023 al 7 gennaio 2024
DAVIDE RIVALTA.
SOGNI DI GLORIA
a cura di Davide Ferri
Catalogo Skira
CASTELLO DI BRESCIA
Via Castello 9 bresciamusei.com
Il luogo in cui vengono esposte influisce sulle sue sculture? C’è ancora differenza per uno scultore di oggi tra en plein air e indoor, galleria e spazi storici, idea di scultura e di “monumento”?
Davide Rivalta: Il luogo è talmente importante che di solito, mentre realizzo le sculture, le immagino in relazione allo spazio in cui saranno esposte per la prima volta, ma in
generale mi rendo conto che è come se ogni luogo in cui l’opera viene esposta la ridefinisse e reinventasse. I diversi tipi di spazi rappresentano potenzialità diverse non solo in termini formali (volumetria e luce, ad esempio) ma anche in termini di aspetti che ne definiscono il significato. Mi sono interrogato spesso sulla questione del monumento, sul fatto che le mie sculture, collocate frequentemente all’aperto e
in luoghi simbolici delle città, siano da considerare o meno dei monumenti. E direi che dal mio punto di vista non dovrebbero essere considerate come tali. Io associo sempre un’idea di stabilità al monumento, mentre le mie sculture mi sembra abbiano a che fare con la rappresentazione del momento, con un movimento eccentrico e transitorio nello spazio.
Come si inserisce la ricerca di Rivalta all’interno delle odierne pratiche scultoree? Si colloca in opposizione, in posizione del tutto autonoma oppure è partecipe di tendenze diffuse?
Davide Ferri: Il lavoro di Davide Rivalta mi è sembrato, per molti anni, in apparente controtendenza rispetto al panorama della scultura contemporanea, che andava sviluppandosi lungo fili conduttori che hanno a che fare con la leggerezza e l’anti-monumentalità, autonomia questa che ha reso il suo lavoro sempre affascinante ai miei occhi. Se ci penso bene, però, è come se negli ultimi anni questa distanza si fosse ridotta, soprattutto quando è stato recuperato da molti artisti il valore della manualità, di un sapere della mano che molte pratiche novecentesche sembravano aver messo in secondo piano. Il lavoro di Rivalta e le sue superfici vibrano di una specie di tattilità diffusa, che funziona da richiamo per lo spettatore, da spinta ad avvicinarsi alla scultura dopo la sorpresa dell’incontro con l’animale.
Come si struttura il percorso della mostra?
L’allestimento sarà marcatamente site specific, incentrato sulla storia del luogo?
Davide Ferri: Sogni di gloria, la mostra al Castello di Brescia, è pensata per tenere insieme tutte le serie di primati a cui Rivalta ha lavorato negli ultimi anni, un soggetto che nel tempo ha declinato in modi diversi e con materiali differenti. Ogni mostra di Rivalta è site specific, ma questa lo è, in qualche modo, ancora di più: il Castello di Brescia rappresenta per gli animali che le sculture ritraggono la vertigine del dominio e dell’altezza, un luogo che, attraverso i diversi spazi esterni, disegna idealmente una partitura di ipotetici movimenti e desideri di conquista di ogni gruppo di animali a scapito degli altri. In termini scultorei significa articolare una riflessione sull’opera e sul suo campo energetico, sul suo spazio di pertinenza.
Cosa vi ha portato a scegliere Rivalta per questa esposizione? Quale tipo di dialogo si aspetta tra le sue opere e gli spazi storici del Castello?
Stefano Karadjov: La scelta di Davide Rivalta parte prima di tutto dalla straordinaria forza evocativa delle sue creazioni animali. È noto, soprattutto ai bresciani, che fino agli Anni Ottanta del Novecento il Castello ospitava lo zoo cittadino. Su queste basi è nata l’idea di proporre una simbolica colonizzazione da parte dei primati del luogo un tempo sito della prigionia degli animali. Luogo che ora viene
IL CASTELLO DI BRESCIA FALCONE D’ITALIA
Arroccato sul colle Cidneo, il Castello di Brescia costituisce uno dei più affascinanti complessi fortificati d’Italia, e il secondo più grande d’Europa, nel quale si possono leggere ancora oggi i segni delle diverse dominazioni. Tra le sue mura, il Castello accoglie anche due musei, il Museo delle Armi Luigi Marzoli e il Museo del Risorgimento Leonessa d’Italia: quest’ultimo rappresenta un obiettivo strategico per la programmazione di Fondazione Brescia Musei ed è stato scelto come luogo votato nei prossimi anni a un importante sviluppo di natura archeologica e artistica
recuperato e riconquistato dalle forze primigenie della natura, simboleggiate dagli enormi gorilla orango e dai tanti scimpanzè e scimmie che si distribuiranno tra le pendici e la vetta del nostro Falcone d’Italia.
Questo percorso dedicato alla scultura si lega anche al nostro grande palinsesto di valorizzazione della Vittoria Alata, uno dei più importanti bronzi dell’antichità, simbolo della nostra città e del nostro sistema museale, allestita dall’architetto Juan Navarro Baldeweg nel Capitolium di Brescia, in un ideale di continuità scultorea tra l’età romana e il contemporaneo.
Si può già tracciare un primo bilancio, dal vostro punto di vista, delle iniziative legate a Brescia e Bergamo Capitali della Cultura?
Stefano Karadjov: Siamo molto contenti
contemporanea attraverso la lingua della scultura. Sono infatti in corso di realizzazione le passeggiate di scultura dedicate a Bruno Romeda e Robert Curtright, due artisti a cui la Fondazione da alcuni anni sta dedicando attenzione e risorse in virtù della loro emblematicità per il territorio bresciano. In un percorso di avvicinamento a questa realizzazione, Brescia Musei ha deciso di ingaggiare il dialogo con due grandi scultori contemporanei attivi e prolifici per altrettanti progetti espositivi sul 2023 e sul 2024, di cui il primo è proprio Davide Rivalta.
di come sono andati i primi tre mesi dal lancio della Capitale della Cultura, il 22 gennaio, che per noi ha coinciso con le inaugurazioni di due nuovi musei: quello del Risorgimento, proprio all’interno del Castello, e l’importante sezione rinnovata dell’età romana, presso il Museo di Santa Giulia.
In questi tre mesi abbiamo più che raddoppiato il numero dei visitatori dei nostri siti museali, senza tenere in considerazione i visitatori delle mostre temporanee, che stanno andando molto bene e che stanno soprattutto accreditando profondamente la nostra Fondazione per il valore scientifico e culturale delle stesse. Su tutte, la mostra dedicata a Giacomo Ceruti, che andrà anche al Getty Center di Los Angeles, e la mostra Luce della montagna, aperte rispettivamente fino a metà e fine giugno.
Ugo Mulas l’artista della fotografia
La mostra allestita nelle nuove Stanze della Fotografia di Venezia pone lo sguardo su alcuni dei capitoli più significativi della produzione e della ricerca di Ugo Mulas (Pozzolengo, 1928 – Milano, 1973).
Abbiamo chiesto ad Alberto Salvadori – direttore dell’Archivio dedicato al fotografo e curatore della mostra insieme a Denis Curti – di commentare alcune scelte fatte.
“Mulas è uno dei rari casi di artista che possedeva anche il dono dell’esegesi del proprio lavoro. I suoi scritti, le sue riflessioni e pensieri sono tuttora e credo rimarranno per sempre insuperabili. Sono fondamentali sia per il lettore
fino al 6 agosto 2023
UGO MULAS.
L’OPERAZIONE FOTOGRAFICA
a cura di Denis Curti e Alberto Salvadori Catalogo Marsilio Arte
LE STANZE DELLA FOTOGRAFIA
Isola di San Giorgio Maggiore – Venezia lestanzedellafotografia.it
sia per chi si appassiona al suo lavoro, ma anche per chi, in termini teorici e critici, intenda affrontarlo. Grazie alle sue parole diventa facile capire, entrare e anche uscire dalla fotografia. Ha reso il medium un elemento concettuale e reale allo stesso tempo”. Nella mostra
veneziana uno spazio importante è dedicato alle Verifiche, un’opera determinante per chi ha fatto fotografia dopo di lui. “Già da Spoleto nel 1962 aveva iniziato la sua riflessione non tanto sulla creazione ma sul processo, parola e concetto chiave nel mondo dell’arte dalla fine degli Anni Sessanta, e anche sul contesto, sull’ambiente, su quello che si definiva ‘environment’ creato dall’opera. Il suo è stato un percorso concettuale fin dall’inizio, ha lavorato sulla fotografia non esclusivamente come mezzo, ma come forma di pensiero. Nel 1965 l’amicizia con Duchamp lo porta ancora di più verso questa dimensione teoretica e le ‘Verifiche’ ne sono la summa, un lavoro concettuale e teorico a tutti gli effetti, un lavoro metafotografico”.
ARTE E FOTOGIORNALISMO
La rassegna presenta parte della produzione fotogiornalistica di Mulas: “La stampa gli dava la possibilità di viaggiare, anche nella sua città d’adozione, Milano, e fin dall’inizio ha fotografato altro che non fosse quello che gli veniva richiesto. Nascono subito le immagini di Milano notturna con i netturbini, la Milano della ricostruzione dal sapore neorealista, il Jamaica, i reportage sulla Germania, Danimarca, Russia, Svezia, realizzati in parallelo alle commissioni arrivate dall’industria. Determinante fin da subito è stato il mondo dell’arte, la frequentazione con gli artisti visivi ma anche imprescindibile il suo amore per la poesia e la profonda amicizia con poeti e letterati”, prosegue Salvadori. I suoi ritratti a Ungaretti e a Montale sono entrati nell’immaginario di tutti noi.
MULAS E LA F OTOGRAFIA
Mulas, con grande anticipo sui tempi, è riuscito a superare il genere in fotografia. “Penso che abbia usato e interpretato la fotografia come strumento semantico e non come una possibilità di riproduzione del reale. È andato oltre la mimesis. Si è concentrato fin dall’inizio sulla possibilità di fotografare essendo coerente al suo concetto di verità; mi ricorda molto la pratica di uno scrittore, di un musicista, di tutti gli artisti che non dipendono da cosa fanno ma sono ed esistono attraverso quello che fanno. Poi, se vogliamo fermarci alla fotografia, studiando il suo lavoro, subito mi sono accorto che in venti anni Mulas è stato tanti fotografi insieme, ha superato il concetto di genere fotografico e dentro di me si è creato un parallelismo immediato: Mulas è per la fotografia quello che Kubrick è stato per il cinema”.
CHI ERA UGO MULAS
Mulas rifiutava l’idea di scoop, il suo era un atto di non intervento e le immagini scelte per la mostra sono molto chiare in tal senso. “Fotografare era per lui una forma di pensiero, una modalità per pensare. Il non fare di Duchamp. Aborriva la frenesia dell’attimo irripetibile alla Cartier-Bresson, ripudiava la fotografia come costruzione dell’immagine speciale. Ha scritto molto bene come tutto questo fosse per lui da evitare e come questa modalità avrebbe portato a una omologazione del reale e a una situazione artefatta dello stesso, facendo diminuire la libertà di pensare e di vedere per molti di noi. In effetti viviamo in un’era dove tutto ciò è diventato realtà”.
Nel suo testo presente in catalogo Denis Curti ha ceduto la parola ad alcuni personaggi che hanno conosciuto Mulas, mentre Salvadori ha impostato il proprio in chiave musicale: “L’intero suo lavoro, eseguito tra il 1952 e il 1972, è una lunga e intera partitura per una grande sinfonia. Non ha fotografato due volte lo stesso soggetto, non è mai ritornato su un tema già affrontato, il destino e la sua volontà hanno deciso questo. La mostra di Venezia è appunto una grande partitura, un’opera unica suddivisa in tanti spartiti che suonano benissimo anche da soli. Le grandi opere sinfoniche si ascoltano in tutte le loro componenti, poi chi ha la conoscenza e le doti per farlo può soffermarsi e avere il piacere e godere del singolo strumento, ma la grandiosità sta nell’insieme delle parti e il suo lavoro ha queste specifiche caratteristiche”. Come già affermato, una grande, straordinaria opera totale.
LE STANZE DELLA FOTOGRAFIA
Stanze della Fotografia è il titolo del progetto pluriennale, inaugurato a Venezia nelle Sale del Convitto di San Giorgio Maggiore, sull’isola omonima, che vede come promotrici la Fondazione Giorgio Cini e Marsilio Arte. È il seguito di quanto è avvenuto, a partire dal 2012, alla Casa dei Tre Oci. Gli spazi sono stati predisposti dallo Studio di Architetti Pedron / La Tegola con la partecipazione del Teatro La Fenice. Si tratta di un luogo dedicato all’approfondimento della ricerca e dello studio della fotografia nello specifico e dell’immagine in una chiave più generale. Gli spazi, infatti, non saranno dedicati alla sola fotografia ma a laboratori, incontri, workshop, seminari con fotografi nazionali e internazionali, in collaborazione con istituzioni italiane e straniere. Il progetto è inaugurato, oltre che dalla mostra su Ugo Mulas, anche da Venezia alter mundus: 60 scatti di Alessandra Chemollo, esito di una profonda riflessione su una delle città più fotografate al mondo.
La strada di Ugo Mulas inizia alla fine degli Anni Quaranta con immagini di fotoreportage ambientate a Milano al bar Jamaica, alla Stazione Centrale. In seguito si dedica alla documentazione artistica dando vita a un nuovo modo di documentare la contemporaneità, per poi spaziare in ambiti fra i più diversi: dalla moda al settore commerciale, dal teatro alla ricerca personale con le Verifiche, al termine della sua breve vita. Partito da un territorio che potremmo definire neorealistico, con le sue ultime immagini Mulas assume l’identità di un artista concettuale
Lo studio che apre con la moglie Nini alla fine degli Anni Cinquanta diviene un punto di riferimento per i giovani fotografi che volevano allontanarsi da un modello di fotografia ormai superato. A partire da questi anni collabora con molte riviste fra le quali Domus e L’Illustrazione Italiana Nel 1964 realizza uno dei suoi lavori più significativi, L’Attesa, una serie di immagini sul taglio di Lucio Fontana: “Di tutte le fotografie, soltanto una serie praticamente fatta nel giro di una mezz’ora ha un senso preciso. Fino a quel momento l’avevo fotografato e basta, ora volevo finalmente riuscire a capire che cosa facesse. Forse fu la presenza di un quadro bianco, grande, con un solo taglio, appena finito. Quel quadro mi fece capire che l’operazione mentale di Fontana, che si risolveva praticamente in un attimo, nel gesto di tagliare la tela, era assai più complessa e il gesto conclusivo non la rivelava che in parte”. Nello stesso periodo è determinante il viaggio negli Stati Uniti dove, oltre agli artisti della Pop Art, conosce Marcel Duchamp, che considera, insieme a Man Ray, uno spartiacque per l’arte del XX secolo. Nel 1970 si ammala gravemente. Già due anni prima aveva iniziato a lavorare alle Verifiche, una serie nella quale convivono scrittura e fotografia. Un’opera divenuta fondamentale.
a sinistra: Ugo Mulas, Il laboratorio. Una mano sviluppa, l’altra fissa. A Sir John Frederick William Herschel, 19701972 © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano / Napoli
in alto: Ugo Mulas, L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander, 1971 © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano / Napoli
Le vertigini barocche di Luca Giordano
La mostra di Palazzo Medici Riccardi rappresenta un esempio di mostra
“come si deve”. Si concentra l’attenzione su un preciso aspetto della produzione di un grande artista (l’attività di Luca Giordano per committenti fiorentini e soprattutto gli anni in cui il pittore fu presente e operoso nella città toscana) e lo si illustra adeguatamente sia mediante opere da cavalletto che con le pitture che l’artista napoletano eseguì sulla volta dell’ambiente principale del palazzo che ospita la rassegna (la quale, pertanto, non potrebbe essere allestita altrove: una mostra site specific, per dirla con il linguaggio dell’arte contemporanea).
Si radunano molti dei dipinti di Luca Giordano (Napoli, 1634-1705) ancora presenti in città, integrandoli con una serie di prestiti da altri centri italiani e stranieri; in molti casi si tratta di opere di collezione privata, di notevole pregio e di non facile accessibilità (siamo quindi lontanissimi dal malcostume di portare in mostra opere di privati di qualità non eccelsa, al solo scopo di nobilitarle e aumentarne le quotazioni). Al piano superiore, si allestisce nella galleria affrescata da Giordano quella che è la sezione più affascinante della rassegna, in cui una serie di tele della National Gallery di Londra, in evidente rapporto con le pitture della volta, dialoga con le figure che volteggiano sopra le teste dei visitatori. Finalmente un allestimento temporaneo in uno spazio storico che ha senso:
fino al 5 settembre 2023
LUCA GIORDANO.
MAESTRO BAROCCO A FIRENZE
a cura di Riccardo Lattuada, Giuseppe Scavizzi e Valentina Zucchi
Catalogo Officina Libraria
PALAZZO MEDICI RICCARDI
Via Cavour 3 – Firenze palazzomediciriccardi.it
non opere che non c’entrano nulla con il contesto, e che lo umiliano e ne pregiudicano la fruizione – vengono in mente tante mostre allestite negli ultimi dieci, quindici anni nelle ricche e delicatissime sale di Villa Borghese e dei Musei Capitolini –, ma pezzi intimamente legati all’ambiente in cui sono esposti (si tratta probabilmente dei bozzetti preparatorî degli affreschi).
L’allestimento, per forza di cose, incide sulla fruizione e sulla visione d’insieme della galleria, ma cerca di farlo nella maniera più discreta possibile: indicativo di questo è il fatto che la struttura in cui sono inserite le tele londinesi è suddivisa in due parti, leggermente sfalsate tra di loro, in modo tale che la “pausa” tra i due supporti consenta di abbracciare in un solo sguardo l’intero sistema decorativo della vasta sala. Quanto finora ricapitolato è presentato in un percorso chiaro, illustrato al visitatore in maniera semplice eppure esaustiva, mediante pannelli e didascalie ben scritti. Insomma, in un certo senso nulla di straordinario, semplicemente una mostra che, come si diceva in apertura, è fatta come andrebbero fatte le mostre: ma in un’epoca di insulsi “dialoghi” tra antico e contemporaneo, di spazi storici temporaneamente deturpati da rassegne di dubbia convenienza, di Caravaggio trasferiti a Vinitaly e di Bernini in aeroporto, una buona mostra diventa qualcosa di straordinario.
LUCA GIORDANO A FIRENZE
Il percorso espositivo si apre ponendo l’attenzione sui primi contatti di Giordano con i committenti e i collezionisti fiorentini. Si ha così modo di apprezzare due opere importanti della prima maniera del pittore, quella in cui si avverte fortissima l’influenza di Jusepe de Ribera: il San Sebastiano di Lucca e il truculento Apollo e Marsia del Museo Bardini, dipinti entrambi databili intorno al 1665. La tavolozza tenebrosa di queste scene si schiarisce via via negli anni successivi, e cambia l’artista che Giordano prende a modello: il pittore – che non è solo un grande artefice, dotato di una tecnica impeccabile e di quella proverbiale rapidità d’esecuzione che gli valse il soprannome di “Luca fa presto”, ma anche un gran “furbacchione”, capace di fiutare i mutamenti del mercato e di assorbire, reinterpretare e quasi contraffare gli stili dei maestri della generazione precedente –sempre di più guarda a Pietro da Cortona, cui si ispira negli olî su tela e soprattutto nelle grandi decorazioni murali. Al punto che la produzione del napoletano può considerarsi la maggiore testimonianza del cortonismo nella seconda metà del Seicento, accanto all’operato, ancora più fedele ai dettami del maestro, di Ciro Ferri. Opportunamente in mostra, a visualizzare il forte influsso di Pietro su Luca, si espongono due bei disegni del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, in cui il pittore napoletano, all’incirca ventenne, ha riprodotto due dettagli della Volta Barberini.
Nelle sale successive si ripercorre il lavoro di Giordano per le famiglie fiorentine più in vista, e in particolare per i Corsini: sono esposti anche i bozzetti per la decorazione della cupola della cappella di famiglia nella chiesa del Carmine, affrescata dall’artista nel 1682. Non guasterebbero alcune foto o magari un video che mostri al visitatore il risultato finale e il modo in cui gli affreschi di Giordano dialogano con i rutilanti altorilievi marmorei di Giovan Battista Foggini,
PALAZZO MEDICI RICCARDI
La galleria con la volta “sfondata” dal pennello di Luca Giordano non è l’unico tesoro inestimabile di Palazzo Medici Riccardi, né quello più celebre. Vi è un ambiente molto più raccolto, a pochi passi dalla galleria, che è noto in tutto il mondo per essere una delle più perfette e preservate espressioni dell’arte del Rinascimento. Il riferimento è naturalmente alla Cappella dei Magi completamente affrescata, nel 1459, da Benozzo Gozzoli. Il palazzo ha così la peculiarità di ospitare al suo interno due ambienti altamente rappresentativi di due periodi diversi della storia dell’arte.
L’edificio fu costruito alla metà del Quattrocento da Michelozzo per Cosimo il Vecchio: dell’originaria facies del palazzo reca testimonianza anche il cortile, in cui un tempo troneggiava il David di Donatello, ora al Bargello, e dove ora si erge la bella statua di Orfeo di Baccio Bandinelli. Nel 1659 la residenza passò ai Riccardi, che fecero affrescare a Giordano non solo la galleria, ma anche l’adiacente, sontuosa biblioteca.
in questo sacello che è uno dei vertici del Barocco fiorentino. Seguono alcune sale in cui prevale piuttosto un criterio tematico: il pubblico ha modo di gustare la grande abilità del pittore nell’orchestrare splendide scene di storia sacra, così come episodi tratti dalla mitologia e dalla storia antica.
LA GALLERIA DEGLI SPECCHI
Al piano superiore, come si diceva, troviamo il cuore della rassegna: nella Galleria degli Specchi affrescata da Giordano tra il 1682 e il 1685 sono esposte tredici tele che sono in stretto rapporto con gli affreschi. Un rapporto sul quale la critica, in verità, non è concorde: l’ipotesi più probabile è però quella che si tratti di bozzetti, anzi di modelli di presentazione, realizzati poco prima dell’esecuzione degli affreschi, e questo spiegherebbe le frequenti differenze che si riscontrano tra le tele e le pitture finali (nel catalogo purtroppo non si approfondisce più di tanto la questione, mentre questa poteva essere l’occasione per chiarire finalmente la natura di tale rapporto). Dieci dei dipinti provengono dalla National Gallery, e sono appartenuti al grande storico dell’arte Sir Denis Mahon. Passeggiare nella galleria e gustare somiglianze e differenze tra i bozzetti e le scene affrescate è un vero godimento. Differenze in molti casi non di poco conto: nella scena centrale della volta, ad esempio, raffigurante l’Apoteosi della famiglia Medici, un ruolo di primo piano è occupato, nel bozzetto, da Cosimo I, che nella versione finale è relegato ai margini, e lascia il posto d’onore al regnante granduca Cosimo III. Sì, perché i committenti e proprietari del palazzo, i Riccardi, vollero glorificare non la loro stirpe, ma, in un notevole sfoggio di cortigianeria, quelli che erano i signori della Toscana e che erano stati i primi proprietari del palazzo.
A Barcellona va in scena il Marchese de Sade
Nicola Davide AngerameIl CCCB, il Centro di Cultura Contemporanea di Barcellona, dedica una mostra alla figura e al pensiero del Marchese Donatien-Alphonse-François de Sade (Parigi, 1740 – Charenton-le-Pont, 1814), ma soprattutto indaga la ricezione e le conseguenze della sua opera sulle arti visive e non solo, dal Surrealismo ai nostri giorni. “La mostra segue in larga misura la lettura di Sade data da Pier Paolo Pasolini”, dice uno dei due curatori: Alyce Mahon, che insegna arte moderna e contemporanea a Cambridge ed è un’esperta d’arte surrealista, erotica e femminista, e Antonio Monegal, professore di letteratura comparata e autore, tra gli altri libri, di una grande monografia su Luis Buñuel. Ne abbiamo parlato con loro.
Una mostra, due curatori. Come avete lavorato insieme?
Alyce Mahon: Con un approccio interdisciplinare e un lavoro di squadra, avvenuto con riunioni zoom a causa della pandemia. Volevamo entrare nella mentalità di Sade per metterla in scena con le sue idee filosofiche e quattro passioni fondamentali, che la sua scrittura ha tramandato alla cultura moderna e contemporanea: passioni trasgressive, perverse, criminali e politiche.
Sade è un riferimento estremo della cultura occidentale, ha scritto le sue opere in prigione ed è morto pazzo in manicomio. Come comprenderlo?
Antonio Monegal : È una figura contraddittoria e polemica, la mostra non vuole capire chi fosse, ma cosa può dirci e le domande che ci pone. Non stiamo cercando di difenderlo o condannarlo. Ci costringe al confronto con gli aspetti problematici della condizione umana, cose che spesso preferiremmo non guardare perché ci mettono a disagio, come gli angoli più oscuri del desiderio umano o la presenza della violenza intorno a noi. Sade è anche il grande apostolo della libertà individuale, mentre era imprigionato, perseguitato, censurato, proibito.
Alyce, nel 2020 lei ha scritto Il Marchese de Sade e l’avanguardia. Cosa rappresentava Sade per i surrealisti come Buñuel, Breton e Dalí?
Alyce Mahon: Rappresentava il desiderio in extremis e l’immaginazione radicale, usata per sfuggire dalla prigione dove ha trascorso gran
fino al 15 ottobre 2023 SADE. FREEDOM OR EVIL a cura di Alyce Mahon e Antonio Monegal Catalogo CCCB i el Gabinet de premsa i comunicació de la Diputació de Barcelona CCCB
Montalegre 5 – Barcellona cccb.org
parte della sua vita. Nel primo manifesto surrealista del 1924, Breton cita Sade come “surrealista nel sadismo” e dice che la sua arte ha inizio nel mondo reale ma poi la psiche prende il sopravvento senza più alcuna inibizione morale o sociale. I surrealisti hanno saccheggiato gli scritti di Sade. Dalí, ad esempio, era ossessionato dai “tre grandi simulacri”: escrementi, sangue e putrefazione, ma quando collaborò con Luis Buñuel crearono una dimensione più apertamente blasfema e politica. Anche le donne surrealiste ne furono affascinate. Leonor Fini illustra la Juliette nel 1944 celebrandola come una libertina che rifiuta la virtù, il pudore e la maternità. Offriva un modello alternativo per le donne dell’epoca. Nel 1944 il sadismo ovviamente risuonava potentemente nell’Europa dilaniata dalla guerra.
Sade ha anche anticipato Freud e la sua teoria delle pulsioni, dopo i surrealisti è stato riscoperto in Francia negli Anni Cinquanta e Sessanta da filosofi e letterati come Derrida, Klossowski, Bataille: quale ruolo ha oggi nella cultura letteraria contemporanea?
Antonio Monegal: Sade è stato assimilato nella nostra cultura a tal punto da essere allo stesso tempo ovunque e invisibile. È un classico della letteratura francese, pubblicato nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade, e, come dice Bernard Noël nella sua commedia Le Retour de Sade, ciò significa che non sia necessariamente letto. Sade è parte dell’atmosfera culturale del nostro tempo, il suo impatto può essere avvertito in ambienti più tolleranti per la rappresentazione di sessualità non normative, sebbene ciò possa cambiare in alcuni luoghi. C’è anche un’eredità diretta negli scritti trasgressivi di autori in diverse lingue, non solo francesi: Lydia Lunch, Virginie Despentes, Chuck Palahniuk, Angélica Liddell o Juan Francisco Ferré, tra gli altri. Ma ovviamente quell’eco si estende al mercato mainstream in best-seller come Cinquanta sfumature di grigio
LA MOSTRA IN BREVE
LA FILOSOFIA DI SADE
Joan Fontcuberta, Paul Chan, Pier Paolo Pasolini
PASSIONI TRASGRESSIVE
Salvador Dalí, Otto Dix, Luis Buñuel, Alberto Giacometti, Roberto Matta, Leonor Fini, Toyen, André Masson Hans Bellmer
PASSIONI PERVERSE
Pierre Molinier, Susan Meiselas, Robert Mapplethorpe, Miguel Ángel Martín, Jan Švankmajer, Nobuyoshi Araki, Quimera Rosa, Joan Morey, Carles Santos
PASSIONI CRIMINALI
Sira-Zoé Schmid, Paul McCarthy, Laia Abril, Domestic Data Streamers, Stanley Kubrick, Michael Haneke
PASSIONI POLITICHE
Joan Fontcuberta, Teresa Margolles, Marcelo Brodsky, Kara Walker, Blalla Hallmann
METTERE IN SCENA LA RIVOLUZIONE
Bernard Noël, Albert Serra, Candela Capitán, Angélica Liddell, Shu Lea Cheang
La pornografia è fenomeno sociale normalizzato e nel dark web si mercifica la violenza. Qual è il significato di “sadismo” nell’immaginario collettivo contemporaneo?
Alyce Mahon: Non credo esista un unico immaginario collettivo contemporaneo. Le nostre idee di sadismo, male e libertà, come tutto ciò che una società ritiene ammissibile e un’altra no, vengono costantemente messe alla prova. Mentre da una parte la censura persiste, assistiamo al sadismo diffuso sul dark web e intanto l’Oversight Board controlla i
capezzoli su Instagram e Facebook. Ci auguriamo che il pubblico esplori l’idea del sadismo come latente in tutti noi.
Pensa che sia possibile oggi “usare” Sade per meglio comprendere le evoluzioni o involuzioni sociali e politiche che stanno accadendo (autoritarismi, autarchie vs. democrazie, diritti LGBT, guerra in Ucraina)?
Antonio Monegal: Questo è proprio ciò che lo rende rilevante oggi. Sono molte le femministe e le pensatrici queer, le attiviste, le artiste e le scrittrici che invocano Sade come riferimento o interlocutore. Mostriamo una varietà di questi punti di vista con le collaborazioni di Shu Lea Cheang, Quimera Rosa e Joan Morey, tra gli altri. Ma includiamo anche riferimenti alla violenza di genere, alla tortura, alla schiavitù, al colonialismo e alla gratificazione vicaria del desiderio di sesso e violenza nella società dei consumi, argomenti raramente discussi nelle mostre su Sade.
Sade è stato lettore di Rousseau e di Voltaire ed è, a suo modo, un teorico della libertà. Come si riflette tutto ciò nelle arti visive?
Alyce Mahon: Sade fu testimone di tre momenti politici: i regimi di Luigi XVI, la Rivoluzione francese e l’Impero di Napoleone Bonaparte. I suoi romanzi erotici e gli opuscoli pornografici erano critica politica popolare. La mostra parte dal XX secolo, esploriamo la dinamica tra il corpo rappresentato, pornografico, e il corpo politico nel panorama delle due guerre mondiali, di quella in Vietnam e di quella contro il Terrore. Nel film Saló, Pier Paolo Pasolini metteva in guardia sull’ascesa del neofascismo negli Anni Settanta. L’arte insomma si fa veicolo per l’attivismo socio-politico.
L’IDENTIKIT DEL MARCHESE DE SADE
“Voleva che le sue strutture immaginarie fossero specchi del mondo o di quell’orrore da cui, per lui, non c’era scampo” sosteneva la scrittrice Kathy Acker, ora in apertura del catalogo della mostra Sade. Freedom or Evil. Ma chi è Sade? La sua figura controversa è decisiva per comprendere la modernità con i suoi intrecci di libertà d’azione, d’espressione e mercificazione di violenza e sessualità.
Di natali aristocratici ma radicalmente illuminista, questo scrittore “intollerabile”, incontenibile seguace delle proprie pulsioni, diagnosticato borderline ma anche chiaroveggente in un’epoca di assolutismi e rivoluzioni (per tre anni è anche membro della Convenzione nazionale), Sade ha per primo affrontato, con uno stile crudo e una poetica crudele, alcuni temi attuali decisivi. La profondità della sua scrittura, una grafomania instancabile, il destino tragico strutturano l’enigma Sade come una chiave a più combinazioni per accedere a una comprensione di noi stessi completa, inclusiva, oltre che della ragione e della morale, anche di pulsioni, passioni e perversioni (non soltanto erotiche) non coercibili o educabili.
Autore di romanzi divenuti leggendari, come Le 120 giornate di Sodoma (1785), Justine (1788), La filosofia nel boudoir (1795) e Storia di Juliette (1801), il “divin marchese” offre uno squarcio d’anima che apre l’opportunità di una superiore razionalizzazione (questa mostra sul suo pensiero ne è un’ulteriore prova), evitando di ridurre il lato oscuro dell’anima a una raccolta di tabù. Divenuto un’icona culturale nella misura in cui artisti e scrittori continuano a tornare sul suo pensiero, Sade va oltre la semplice pornografia sadomasochista. Nel suo testamento scrisse: “Mi auguro che il ricordo di me si cancelli dalla memoria degli uomini”. Così non è stato.
Fantasmi e altre storie dal Giappone a Bologna
Giulia GiaumeLa prima supereroina con poteri di ragno, potenti squadre di eroi che combattono il male viaggiando nell’universo conosciuto, gatti che si trasformano e combattimenti epici con maledizioni e incantesimi. Se anche fosse universalmente noto che le pergamene giapponesi del periodo Edo sono le antesignane di manga e anime, non sarebbe comunque possibile comprendere, senza averlo visto da vicino, quanto la loro straordinaria rivoluzione sia stata anticipata dalle stampe dell’orrore prodotte tra il Settecento e l’Ottocento nell’arcipelago nipponico. Glitter per dare l’idea della trasformazione, come poi nelle transizioni di Sailor Moon; brigate di cinque samurai che lottano per il bene, come quella dei Cavalieri dello Zodiaco; creature che si evolvono e stanno compresse in una zucca vuota per essere evocate al bisogno, come i Pokémon. Il radicale portato creativo della tradizione popolare giapponese, la sua rifondazione del genere horror e suspense, e la bellezza delle sue riproduzioni sono ora al Palazzo Pallavicini di Bologna, dove è allestita fino al 23 luglio la mostra Yōkai. Le antiche stampe dei mostri giapponesi, curata dal direttore del Museo di Arte Orientale – Collezione Mazzocchi di Coccaglio, Paolo Linetti.
CHI SONO GLI YŌKAI
Muovendosi attraverso più di duecento opere del XVIII e XIX secolo provenienti da ben diciassette collezioni private (tra cui xilografie, libri rari, armature e fermagli-sculture in avorio), i visitatori scopriranno cosa siano gli yōkai, creature (non sempre malvagie) con poteri straordinari e un aspetto mostruoso, e un periodo, quello della Grande Pace, in cui i grotteschi racconti tradizionali giapponesi hanno cominciato a essere trascritti permettendo la sopravvivenza di storie dal grande potere narrativo: la figlia del generale che impara la magia per combattere i traditori, eroi che scacciano infide donne-ragno (che irretiscono gli ubriachi) e mostri di fiume (che annegano i bambini), la volpe divina che sposa l’uomo che la salvò da un cacciatore, ma anche la donna-ciliegio che combatte il male e il gatto mutaforma che vendica la sua padrona.
LA MOSTRA A BOLOGNA
Queste le storie in mostra, raccolte in un prezioso catalogo e spesso incentrate su donne eroiche e magiche (tema familiare a chi
ama Hayao Miyazaki), tra cui spiccano L’Uccisione del vecchio Tanuki da parte di Naoyuki nel palazzo di Fukujima del maestro Ukiyo-e Tsukiyoka Yoshitoshi, il meraviglioso trittico
fino al 23 luglio 2023
YŌKAI. LE ANTICHE STAMPE
DEI MOSTRI GIAPPONESI
a cura di Paolo Linetti
Catalogo Skira
PALAZZO PALLAVICINI
Via San Felice 24 – Bologna mostrigiapponesi.it
de La principessa strega Takiyasha e lo scheletro [del padre] di Kuniyoshi Utagawa, le opere di Chikanobu Yoshu, Kyōsai Kawanabe, Kunisada e Hokusai, del quale vengono proposti i famosi quaderni manga, e quelle dei maestri che hanno realizzato le Cinquantatré stazioni parallele del Tokaido. Un percorso da guardare, ma anche da ascoltare: in quasi tutte le stanze – inclusa quella, oscura, del “Rituale delle 100 candele” – la voce di un samurai narra questi racconti.
Ideata e prodotta da Vertigo Syndrome, che già la presentò in forma simile alla Villa Reale di Monza, l’esposizione è un compendio divertente e variopinto ma anche ben ricercato, che – soprattutto grazie al curatore, di cui consigliamo le visite guidate – immerge adulti e bambini in un mondo terrificante ed eroico, modernizzato dall’illustratrice Marga “Blackbanshee” Biazzi e da approfondimenti pop, un cooking show e uno spettacolo di performing art, oltre a un percorso pensato per rendere i più piccoli dei “cacciatori di mostri”.
ARTE E PAESAGGIO
Si narra che Claude Monet fosse solito passeggiare lungo la Riviera tra Ventimiglia e Imperia, traendo spunto da queste luci e da questi paesaggi. Spesso si fermava nella quiete dei giardini di Bordighera. Infatti in questa cittadina, detta “città delle palme”, molto diffusa è la tradizione dei giardini d’arte.
Il Giardino di Irene si trova nel borgo di Sasso, caratteristica frazione di Bordighera, ed è stato voluto da Irene Brin (pseudonimo di Maria Vittoria Rossi), giornalista di moda e collezionista d’arte, fondatrice della galleria d’arte romana L’Obelisco. Si tratta di un giardino di tipo paesaggistico, cioè un ambiente naturale “disegnato all’inglese”. Si apre su una terrazza di cipressi centenari, euforbie e magnolie, che accompagna verso un percorso tipicamente ligure di coltivazioni a gradoni. Questo giardino ricco di alberi e specie botaniche rare è soprattutto un museo a cielo aperto, con opere d’arte e installazioni disseminate lungo i vialetti. Qui espongono o hanno esposto molti artisti, tra cui: Dompè, Pomodoro, Perez, Porfidia e recentemente Emmanuele De Ruvo, ultimo vincitore del "Premio Arte nel Giardino di Irene Brin".
IL GIARDINO DI LUDWIG WINTER
Il Giardino Esotico Pallanca è una delle meraviglie di Bordighera. Si tratta di un rigoglioso orto botanico di piante grasse, senza dubbio il giardino botanico più importante d’Italia e uno tra i primi cinque in Europa per quanto riguarda questa particolare tipologia vegetale. Fu fondato dalla famiglia Pallanca nella metà dell’Ottocento, sulle tracce di una vecchia coltivazione di uliveti a terrazza. Il disegno del giardino è realizzato dall'architetto del paesaggio Ludwig Winter. Nella seconda metà del Novecento la famiglia decide di aprire al pubblico questo museo vegetale, creando un orto botanico di cactacee e succulente unico in Italia. All’interno della proprietà di oltre 10mila metri quadrati, la collezione di piante si estende su un terreno soleggiato a picco sul mare. Qui sono raccolti oltre tremila esemplari di piante, patrimonio botanico suddiviso per aree tematiche e zone di provenienza.
BICKNELL E IL SUO GIARDINO
Il Museo e Giardino di Clarence Bicknell fu istituito nel 1888, nel centro di Bordighera, su disegno dell’architetto inglese Clarence Tait. Costituisce una tranquilla oasi di raccoglimento e di studio, oltre che di intrattenimento culturale. Qui l’illuminato inglese svolse la sua appassionata attività di filantropismo e ricerca scientifica. Il Giardino è mantenuto “secondo natura”: non sono contemplate potature inutili e non si somministrano pesticidi. Si rispettano le farfalle, gli impollinatori e si conservano nidi per piccola avifauna. All’ombra di due esemplari di Ficus macrophylla monumentali si apre un importante museo di tavole e dipinti botanici rari, oltre a una biblioteca naturalistica e a una collezione di fotografie, mappe e taccuini di viaggi
ASTE E MERCATO
Il Metropolitan Museum accomuna due artisti, Vilhelm Hammershøi (Copenhagen, 1864-1916) e Cecily Brown (Londra, 1969), che stanno sperimentando una significativa e nuova fortuna sul mercato internazionale e che saranno tra i protagonisti delle aste di New York di maggio.
I RECORD DI VILHELM HAMMERSHØI
Il primo è già nella collezione del museo newyorkese con uno dei suoi suggestivi interni, Moonlight, Strandgade 30 (1900-06) e nelle più recenti acquisizioni con Self-Portrait at Spurveskjul, dopo essere stato esposto, fino allo scorso 16 aprile, nella mostra dedicata dal Met all’arte danese del XIX secolo, Beyond the Light: Identity and Place in Nineteenth-Century Danish Art. Lungo tutto il 2022 il suo mercato si è di molto rafforzato, con un turnover di vendite di quasi 10 milioni di dollari, incluso il nuovo record del maggio scorso: l’aggiudicazione di Stue (Interior with an Oval Mirror) (1900) da Christie’s dalla Collezione Bass per 6,3 milioni di dollari, poco più su del precedente, registrato nel 2017, di 6,2 milioni. Restando su arene di mercato, Sotheby’s si è ora assicurata il consignment di un altro importante dipinto di Hammershøi, Interior. The Music Room, Strandgade 30 (1907), e lo offrirà alla Modern Evening Auction del 16 maggio nella Grande Mela con una stima di 3-5 milioni di dollari, la più alta di sempre per l’artista. L’opera ritrae la stanza della musica nella casa del pittore a Copenhagen, dove è stata tra l’altro custodita per oltre 75 anni.
CECILY BROWN DA CAPOGIRO
A far da controcanto Cecily Brown, protagonista al Metropolitan con Death and the Maid, la prima retrospettiva nella città in cui l’artista vive da trent’anni. La mostra ripercorre, con cinquanta opere, venticinque anni di carriera dell’artista londinese che ha sempre scommesso sulla pittura. Ed è proprio lei l’altra protagonista della sessione di aste in arrivo a maggio nella Grande Mela. A cominciare dal catalogo della collezione single-owner di Mo Ostin, leggendario discografico della Warner Bros Records, da cui arriva a Sotheby’s Free Games for May del 2015, con una stima di 3-5 milioni di dollari. Mentre Christie’s ha annunciato la presenza di Untitled (The Beautiful and Damned) del 2013 alla 21st Century Evening Sale del 15 maggio, con una stima di 5-7 milioni di dollari. Ma più in generale il lavoro di Cecily Brown è al centro di una tempesta di mercato perfetta. Il ritmo delle sue aggiudicazioni in asta per questa prima parte del 2023 è già arrivato quasi a 18 milioni di dollari, più della metà delle vendite annuali degli ultimi due anni, come segnalato da Artelligence. Paradossalmente favorito dall’interruzione nel 2015 della collaborazione con Gagosian e da alcune mostre museali, a cominciare da quella al Louisiana Museum in Danimarca nel 2018 e finendo, ora, con quella al Metropolitan di New York.
Cristina Masturzo