Grandi Mostre #35

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35 JODICE/TORINO • SIGNORELLI/CORTONA KUSAMA/BILBAO • BATTAGLIA/ROMA • BASQUIAT/BASILEA

La realtà fotografata da Mimmo Jodice

Un mondo noto, eppure sconosciuto, si dispiega davanti agli occhi di chi entra in connessione con gli scatti di Mimmo Jodice (Napoli, 1934). È l’universo poetico, straniante, atemporale, ma vividissimo, catturato dallo sguardo del fotografo campano, che sin dagli Anni Sessanta ha colto le molteplici opportunità del mezzo fotografico per creare visioni di realtà svincolate dalla contingenza documentaristica. Superando, dunque, la supposta antitesi tra analisi del reale e indagine introspettiva, poiché l’attaccamento alle cose umane e l’osservazione acuta del mondo naturale possono manifestarsi in tutta la loro potenza anche (tanto più) aggirando un approccio didascalico.

Mimmo Jodice, con il bagaglio visivo che ha saputo condividere in settant’anni di carriera vissuti da maestro della fotografia del Novecento, è il protagonista della mostra allestita alle Gallerie d’Italia di Torino, a cura di Roberto

fino al 7 gennaio 2024

MIMMO JODICE. SENZA TEMPO a cura di Roberto Koch Catalogo Edizioni Gallerie d’Italia | Skira

GALLERIE D’ITALIA

Piazza San Carlo 156 – Torino gallerieditalia.com

Koch, secondo capitolo di un ciclo di appuntamenti espositivi avviato nel 2022 con Lisetta Carmi, per omaggiare La Grande Fotografia Italiana. Per l’occasione, arrivano a Palazzo Turinetti 80 opere dell’artista, di cui 22 fotografie della produzione dagli Anni Sessanta ai Settanta e 11 lavori realizzati su commissione di Intesa Sanpaolo, centrati sull’esplorazione della natura come duplice dimensione, nella relazione con gli elementi che ci circondano, ma proiettata verso l’indagine di sé.

JODICE E LA CAMERA OSCURA

La sezione Natura, esposta per la prima volta in una retrospettiva di Mimmo Jodice, del resto, non fa che approfondire e dare merito a una ricerca molto personale sul paesaggio avviata dal fotografo negli Anni Ottanta, dopo gli esordi a stretto contatto con il tessuto culturale e sociale della sua città natale, Napoli (la prima personale, alla Libreria La Mandragola, risale al 1967), vissuti sì nel segno della sperimentazione di nuovi

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Livia Montagnoli
MIMMO JODICE/TORINO
Atleti della Villa dei Papiri, Napoli, 1986 © MIMMOJODICE/RIPRODUZIONE VIETATA

LE GALLERIE D’ITALIA 1999

Palazzo Leoni Montanari

pittura del Settecento Veneto e icone russe

2007

Palazzo Zevallos Stigliano

pittura e scultura del Meridione italiano tra Seicento e Novecento

2022

Vicenza

PAROLA AL CURATORE ROBERTO KOCH

Jodice porta alle Gallerie d’Italia la sua capacità di scavalcare la contingenza temporale per abbracciare il tempo lungo della comprensione, comunque centrato sul desiderio di mostrarci la realtà. Che impatto avranno le sue foto sul pubblico?

Mimmo Jodice è uno dei più importanti fotografi italiani in assoluto; sarà una splendida occasione per poter offrire al pubblico in modo completo la sua poetica, basata sulla profondità della indagine. Il suo modo di affrontare la fotografia esprime e divulga la felicità del fotografare, che Mimmo ha ricercato e praticato per tutta la vita. La sua coerenza e la sua passione sono state e sono così forti da portarlo ad affermare che ogni fotografia che ha fatto la rifarebbe di nuovo, ancora una volta, per poterne rivivere la felicità del momento e potersi di nuovo esaltare come ha fatto durante tante serate, trascorse in camera oscura ad agire con la superficie sensibile, con l’ingranditore, con la luce e con la pienezza dei mezzi che dominava nei dettagli con naturalezza. Mimmo sottolinea che prima di ogni sua fotografia c’è una visione (ed è questo che lo affascina come – appunto – visionario), che poi lui controlla e perfeziona nel processo di compimento della stampa, unico suo “vero” originale.

Napoli

nuova sede nell’ex Banco di Napoli

collezione arricchita da ceramiche attiche e magnogreche e da opere d’arte contemporanea

2011

tra Piazza della Scala, Via Manzoni e Via Morone

opere dell’Ottocento e della seconda metà del Novecento italiano

2022

Palazzo Turinetti

Archivio Publifoto Intesa

Sanpaolo, opere del Barocco piemontese e nove tele seicentesche realizzate per l’antico  Oratorio della Compagnia di San Paolo

Milano

Per Intesa Sanpaolo, Jodice ha realizzato un ciclo sulla natura, esposto per la prima volta in una retrospettiva sul fotografo, approfondendo ulteriormente un interesse maturato nel tempo. Cosa aggiunge alla sua ricerca?

Il lavoro sulla natura (iniziato nel 1980) è stato condizionato da un estremo sentimento di disagio verso la vita quotidiana che Mimmo ha vissuto in quel periodo, che era cupo.

“Una realtà senza speranza diventa anche un panorama indecifrabile e, quindi, enigmatico. Queste fotografie raccolgono quindi il malessere che provo rispetto alle cose che vedo e che sento e la natura che fotografo e che vedo trasformata agisce in modo aggressivo verso la realtà. In queste immagini l’atmosfera è sospesa, metafisica, rarefatta. Il vuoto, l’assenza, il silenzio diventeranno, da questo momento, le parole chiave del mio lavoro”.

La mostra sarà affiancata da un public program, che partirà a ottobre. Cosa dobbiamo aspettarci?

Come è ormai tradizione nelle mostre della grande fotografia italiana, personaggi di rilievo verranno a raccontare durante la mostra la poetica di Mimmo Jodice, come il critico Andrea Viliani, direttore del Museo delle Civiltà di Roma, o il regista Mario Martone, che ha anche lavorato recentemente su un film documentario su Mimmo Jodice, e altri ancora in corso di definizione.

Torino

fonte gallerieditalia.com

linguaggi tecnici, ma ancora molto orientati a dare voce all’impegno sociale dell’artista (le inchieste sul lavoro minorile, i reportage nelle carceri e negli ospedali psichiatrici). Poi, la figura umana sparisce, o meglio viene interiorizzata in immagini concentrate sulla rappresentazione di un paesaggio di natura, di civiltà, di memoria e di sogno. Senza tempo, come recita il titolo della mostra torinese, è l’astrazione di scene sospese, con il contributo dell’intervento in camera oscura, vera fucina creativa di Jodice, territorio di estrema libertà tecnica e concettuale, per comprendere come “forzare i limiti del linguaggio fotografico, stravolgere le regole convenzionali e arrivare a una dimensione autonoma”. Fra contrasti portati all’estremo per far sparire le mezze tonalità e acidi aggressivi usati sulla pellicola per far esplodere la grana.

LE CITTÀ SOSPESE E IL MARE

Vuoto, assenza, silenzio sono le parole chiave della poetica visiva del fotografo, tradotta in atmosfere metafisiche e rarefatte (il debito verso de Chirico e Savinio è dichiarato), anche quando intorno brulica la vita quotidiana, come nelle Vedute di Napoli (1980), di certo stranianti, ma capaci di arrivare al cuore del

problema, quel sentimento di disagio verso una realtà enigmatica assorbita dalla sensibilità dell’artista. Uno sguardo applicato anche ai “ritratti” di altre città (La città invisibile, 1990), caratterizzati da paesaggi urbani spesso presentati in modo minuzioso, ma congelati e astratti dalla quotidianità, come reazione all’incapacità di accettare il caos: immagini del mondo – da Boston a Parigi, da Tokyo a Mosca, Roma, San Paolo – che hanno fatto il giro del mondo.

Il mare (si veda Mediterraneo, 1995) è invece l’elemento pacificante, “il luogo privilegiato dove si incontrano realtà e sogno”, immanente nella sua capacità di riproporsi agli uomini del passato, presente e futuro, dunque “origine ancestrale del mito e della civiltà”, desume Jodice. “Prediligo il mattino presto o il crepuscolo, e soprattutto l’inverno. Il mare ha luci straordinarie da contemplare e da amare”, spiega introducendo il nutrito corpus di lavori dedicati all’elemento acquatico, ben rappresentato pure nel catalogo della mostra. L’esposizione prevede anche il coinvolgimento del regista Mario Martone, che ha diretto e realizzato un filmato documentario sulla vita di Mimmo Jodice – suo amico e concittadino –, mostrato nelle sale espositive per la prima volta.

79 #35 MIMMO JODICE/TORINO

Luca Signorelli, faro del Rinascimento

Ai centenari non si scappa! Stavolta i secoli passati sono cinque e allora le celebrazioni diventano inevitabili. E per fortuna, visto che Luca Signorelli, scomparso il 16 ottobre 1523, non è un pittore conosciuto quanto altri grandi artisti della sua epoca e dei decenni successivi. Le sue opere si possono ammirare spesso nelle mostre collettive, dove spiccano per la loro raffinatezza, come è stato per la Maria Maddalena ospitata ai Musei San Domenico di Forlì in occasione dell’indagine sull’affascinante protagonista del Cristianesimo. Quella tavola lascia di nuovo il suo “domicilio” nel Museo dell’Opera del Duomo di Orvieto per soggiornare, fino all’8 ottobre 2023, a Cortona, la città natale di Signorelli, che oggi raccoglie in una monografica circa trenta opere, alcune delle quali si “ricongiungono” dopo antiche dispersioni.

L’obiettivo della mostra è riportare finalmente l’attenzione su un pittore che in vita ebbe grande fama, tanto da essere coinvolto nella decorazione della Cappella Sistina, e di cui è innegabile sia la qualità del suo lavoro sia l’importanza che rivestì per artisti quali Michelangelo e Raffaello. Ma Signorelli rimase “vittima” proprio di questo confronto con i giganti che vennero poco dopo di lui e che ne pregiudicarono la fortuna critica. Un po’ come accadde per Perugino, spesso qualificato solo come “maestro di Raffaello”, sottovalutando le innovazioni, la grazia e l’equilibrio che introdusse nell’arte italiana.

Il progetto, allestito al MAEC di Cortona e capitanato da Tom Henry, ripercorre ora tutte le fasi della carriera di Luca Signorelli e le ricerche condotte dal curatore e dall’équipe di studiosi coinvolti nella redazione del catalogo hanno potuto confermare la rilevanza di Signorelli nello scenario artistico degli inizi del XVI secolo. “Fu il cardine tra Piero della Francesca e Raffaello e Michelangelo”, ci spiega Henry. “Può quindi essere definito come il primo artista del Cinquecento e non l’ultimo del Quattrocento, come pensa certa storiografia. In mostra si possono verificare di persona le sue grandi qualità di colorista, di pittore ‘scultoreo’ e di iconografo assai originale”.

IL MISTERO DEGLI ESORDI DI SIGNORELLI

Di solito gli esordi di un pittore del Rinascimento sono conosciuti attraverso due tipologie di fonti: le prime opere, magari acerbe e debitrici dei rispettivi maestri, e i documenti che ne testimoniano le relazioni e gli spostamenti.

Nel caso di Luca Signorelli mancano del tutto le fonti materiali, vale a dire i dipinti, e la ricostruzione del suo periodo giovanile è affidata sostanzialmente alla vita che ne scrisse Giorgio Vasari. Il letterato e pittore fiorentino narra che Signorelli fu allievo di Piero della Francesca e che nelle sue prime opere imitò così bene lo stile del maestro da rendere difficile distinguere le mani. Nonostante le ricerche più recenti, non si è ancora riusciti a confermare

o a respingere quanto scritto da Vasari e non sono note opere assegnate con sicurezza al cortonese prima della sua impresa nella Cappella Sistina. Lì dipinse la scena con il Testamento di Mosè, ma questa non poteva essere la sua prima prova: “Un numero significativo di opere precedenti doveva presumibilmente aver spianato la strada alla sicurezza del suo disegno e della sua esecuzione”, afferma Laurence Kanter nel suo saggio in catalogo.

#35 80 LUCA SIGNORELLI / CORTONA

SIGNORELLI E LA CAPPELLA SISTINA

L’autentica svolta per la carriera di Luca Signorelli avvenne nel momento in cui Sisto IV lo convocò a Roma per completare la decorazione parietale della Sistina. È ancora Giorgio Vasari a testimoniare che il pittore cortonese dipinse la già citata scena con il testamento e la morte di Mosè; gli studi successivi hanno però consentito di riconoscere la mano di Signorelli in altri brani pittorici. Ancora Kanter propende per attribuire a Signorelli il ruolo di assistente di Perugino, di cui accolse la grazia e l’eleganza, identificando la sua mano anche nel riquadro con la Consegna delle chiavi Nell’Urbe – dove arrivò presumibilmente nella primavera-estate del 1482 – il cortonese ebbe modo di scoprire la classicità: la conoscenza delle sculture romane ebbe un ruolo cruciale nel raggiungimento di quella sua capacità di rendere le figure nude e il movimento nello spazio. Il suo disegno si fece così più plastico,

SULLE TRACCE DI SIGNORELLI

dinamico e naturalistico, culminando nei portentosi nudi realizzati nella cappella di San Brizio a Orvieto, a tutti gli effetti il lavoro più celebre di Signorelli, riprodotto in ogni manuale di storia dell’arte. “Quello di Orvieto, ultimato nel 1504, può essere descritto come il primo ciclo di affreschi del Rinascimento, o meglio del secondo Rinascimento. Ma, al contrario, i dipinti vengono in generale interpretati unicamente come precursori della Stanza della Segnatura di Raffaello o del soffitto della Cappella Sistina di Michelangelo, completati rispettivamente nel 1511 e nel 1512. In altre parole, Signorelli fu ‘oscurato’ durante la sua stessa esistenza, e l’ombra di Raffaello e Michelangelo si proietta tuttora sulla sua reputazione moderna”. Raffaello e Michelangelo hanno invece guardato, eccome, all’arte di Signorelli: “Si può dire” – aggiunge Henry – “che senza il suo stimolo la loro strada sarebbe stata diversa, in particolare per l’approccio al nudo maschile”.

GRANDI RITORNI

La reputazione ottenuta nella Cappella Sistina spalancò al pittore le porte verso una brillante carriera testimoniata in mostra da lavori quali l’Annunciazione di Volterra del 1491, i numerosi tondi con le Madonne con bambino, come quello proveniente da Parigi, la Flagellazione da Venezia e la Crocefissione con santi proveniente da Sansepolcro. Peraltro a Cortona le opere di Signorelli conservate stabilmente nelle chiese e nel Museo Diocesano sono tutte successive all’inizio del Cinquecento, e la presenza in mostra di tavole databili al decennio precedente rappresenta un punto chiave per comprendere quello stile che tanto fu apprezzato dai contemporanei.

VALDICHIANA ARETINA E AREZZO

Castiglion Fiorentino Collegiata di San Giuliano

Foiano della Chiana Collegiata dei Santi Martino e Lorenzo

Lucignano Museo Comunale

Arezzo Museo Statale d’arte medievale e moderna; Museo Diocesano

VIA LAURETANA TOSCANA

Montepulciano Chiesa di Santa Lucia

Pienza Chiesa di San Francesco

Chiusure Abbazia di Monte Oliveto Maggiore

Siena Chiesa di Sant’Agostino, Cappella Bichi

VALTIBERINA

Città di Castello Pinacoteca comunale

Morra Oratorio di San Crescentino

Citerna Chiesa di San Francesco

Umbertide Chiesa-museo di Santa Croce

Sansepolcro Chiesa di Sant’Antonio

Il curatore è particolarmente orgoglioso di essere riuscito a ricomporre alcune parti disperse di un capolavoro: “Esponiamo tutti i frammenti della Pala di Matelica per la prima volta”, spiega Henry. “Uno di questi proviene da una collezione privata inglese, non è mai stato mostrato in Italia prima di oggi ed è un’opera di altissima qualità. Si tratta delle ‘Quattro figure in piedi’ che fu acquistata dal cardinale Joseph Fesch nel 1844 dalla famiglia degli attuali proprietari. La tavola, restaurata nel 2023, è in ottime condizioni, con dorature veramente splendide”.

A questo frammento si affiancano il brano con il Calvario proveniente da Washington, quello con un Uomo su una scala (da Londra), una Pia donna in pianto, la Testa di Cristo (da Bologna) e la Testa della Madonna da una collezione privata. La grande pala venne eseguita da Signorelli tra il 1504 e il 1505 e rimase in situ nella chiesa di Sant’Agostino a Matelica fino al 1736, per poi essere smembrata e dispersa. Ma eccezionali sono anche i prestiti dei pannelli con la Nascita e Il miracolo di San Nicola, che per la prima volta ritornano in Italia dagli Stati Uniti; e ancora il ricongiungimento, mai riuscito in epoca moderna, della tavola centrale del Polittico di Santa Lucia a Montepulciano con la relativa predella, in cui Signorelli esprime tutta la sua vena narrativa.

fino all’8 ottobre 2023

SIGNORELLI 500.

MAESTRO LUCA DA CORTONA

PITTORE DI LUCE E POESIA

a cura di Tom Henry

Catalogo Skira

MAEC

Piazza Luca Signorelli 9 – Cortona

CORTONA

Museo Diocesano

PERUGIA E ORVIETO

Perugia Galleria Nazionale dell’Umbria; Museo Diocesano

Orvieto Duomo, Cappella di San Brizio; Museo dell’Opera del Duomo

MAEC ‒ Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona

Chiesa di San Niccolò

Chiesa di San Domenico

Il Palazzone

Santa Maria delle Grazie al Calcinaio

cortonamaec.org

81 #35 LUCA SIGNORELLI / CORTONA
Luca Signorelli, Annunciazione, 1491. Olio su tavola, 258 x 190 cm. Volterra, Parrocchia Basilica Cattedrale presso Pinacoteca Civica di Volterra

Essere Yayoi Kusama

Federica Lonati

La più famosa artista giapponese vivente. L’artista donna più quotata dell’attualità. La Lady Gaga dell’arte, che alle sue mostre attira folle di visitatori, in tutto il mondo. Yayoi Kusama (Matsumoto, 1929) è molto di più dell’anziana signora di origini asiatiche, dal look eccentrico e multicolore, che di recente ha ceduto la propria immagine e i suoi inconfondibili pois per promuovere un marchio del lusso francese. Malgrado i novantaquattro anni compiuti, e la volontaria reclusione in un ospedale psichiatrico, Kusama oggi più che mai gode di grande successo e non teme la mercificazione della sua immagine in una pressante campagna mediatica nel mondo della moda.

Del resto, nel clima effervescente della New York degli Anni Sessanta, l’artista giapponese aveva già intuito alcuni segni di rinnovamento. Kusama sperimenta, in anticipo sui tempi, nuove forme di creatività, come la riproduzione in serie e la performance, l’installazione e l’arte immersiva, persino una collezione di moda artistica; e, soprattutto, sfrutta il potere dei media per amplificare i suoi messaggi, espressi con il corpo, la propria immagine e gli happening in pubblico.

KUSAMA DAL SURREALISMO AL POP

“Kusama è forse l’artista che oggi più che mai rappresenta un referente nella storia dell’arte contemporanea”, spiega Lucía Aguirre, curatrice del Museo Guggenheim di Bilbao e, insieme a Doryun Chong e Mika Yoshitake, della mostra antologica allestita nella capitale basca. “La sua modernità consiste nel porre sempre la persona al centro del proprio universo artistico, come elemento di connessione con la natura e l’ambiente circostante, come punto di incontro fra sé e gli altri”.

Kusama non è soltanto una maestra, una pioniera, una antesignana per aver creato un linguaggio artistico multidisciplinare, che spazia dal Surrealismo al Minimalismo fino agli albori della Pop Art. Il suo messaggio naturalista e animista, pacifista e biocosmico è oggi più che mai di attualità, così come la sua sensibilità verso una forma d’arte terapeutica, in grado di migliorare le persone, di salvare dalla malattia e dall’annichilimento.

L’ARTE DI KUSAMA DAL 1945 A OGGI

A poco più di dieci anni dalla prima retrospettiva in Spagna – allestita nel 2011 al Museo Reina Sofía di Madrid, in collaborazione con la Tate Modern di Londra –, giunge a Bilbao una nuova antologica proveniente dal museo M+ di Hong Kong. Attraverso duecento opere di diverso genere e formato – prestiti da collezioni pubbliche e private, soprattutto di provenienza

fino all’8 ottobre 2023

YAYOI KUSAMA: DAL 1945 A OGGI a cura di Doryun Chong e Mika Yoshitake in collaborazione con Lucía Aguirre Catalogo, edizione spagnola a cura del Guggenheim Museum, su autorizzazione di Thames & Hudson, M+ e studio dell'artista

GUGGENHEIM MUSEUM

Avenida Abandoibarra 2 – Bilbao guggenheim-bilbao.eus

asiatica –, la mostra racconta la vicenda artistica di Yayoi Kusama dal 1945 a oggi. Il percorso biografico spazia, infatti, dai timidi esordi in forma calligrafica di una fanciulla giapponese sconvolta dall’orrore della guerra agli ultimi straordinari lavori senili, come la serie intitolata My Eternal Soul (2009-21), un’esplosione di colori su tele dall’identico formato quadrato, che esaltano la vita e celebrano l’amore.

“La mostra di Bilbao è molto completa e offre una lettura corale, d’insieme, del percorso artistico di Kusama” – precisa Aguirre – “permettendo di coglierne la complessità Pur evolvendosi, impiegando materiali e linguaggi espressivi diversi, l’artista mantiene negli anni una coerenza estetica assoluta: dai primi

#35 82 YAYOI KUSAMA / BILBAO

‘Infinity Net’, attraverso le ‘Accumulation’, i collage, le ‘Infinity Room’ fino alle opere più recenti, l’essenza dell’arte di Kusama resta immutata”.

I CORSI E RICORSI DI UN’OSSESSIONE INFINITA

La mostra di Bilbao è costruita intorno a grandi temi ricorrenti. L’introduzione è affidata agli autoritratti, espressione di autoreferenzialità e di autoaffermazione presente fin dal primo oscuro Self-Portrait del 1950. Il concetto di infinito, sviluppato nelle prime gigantesche tele dipinte con reti, The Infinity Net della fine degli Anni Cinquanta, persiste immutato nelle opere più recenti, passando attraverso le diverse varianti di Infinity Room e intrecciandosi con l’accumulazione ossessiva di segni grafici sulla tela, o di appendici blande, perlopiù falliche, che ricoprono oggetti comuni come sedie, poltrone o barche, fino a farli scomparire. La tendenza alla ripetizione seriale è una costante anche nelle opere biocosmiche degli Anni Ottanta e Novanta: le gigantesche zucche, talora riflettenti, e le sculture biomorfe sono anch’esse ricoperte dagli onnipresenti pois colorati, che sono come esseri viventi e che “convertono l’energia della vita nei punti dell’universo”.

LA STORIA DI YAYOI KUSAMA

La biografia di Yayoi Kusama dovrebbe essere letta cronologicamente al contrario. Si capirebbero, forse, le ragioni intime ed estreme che inducono l’artista, alla fine degli Anni Settanta del secolo scorso, ad abbandonare la vita pubblica e scegliere di rinchiudersi, in maniera volontaria e irrevocabile, in un ospedale psichiatrico. Affetta fin da giovane da allucinazioni e gravi forme di instabilità psichica, che più volte l’hanno indotta a tentare il suicido, Kusama ha trovato in tarda età la stabilità emotiva per avviare una nuova, appassionante stagione creativa. Dallo Seiwa Hospital di Tokyo, dove tuttora vive, si reca infatti ogni giorno nel vicino studio per lavorare senza sosta agli ultimi progetti e per sovrintendere, con il suo staff, alle richieste di mostre da tutto il mondo.

Cresciuta in un ambiente familiare conservatore e oppressivo, nel 1957 Kusama lascia il Giappone e approda a New York per sentirsi libera di esprimere al meglio le sue innate doti artistiche, ispirata dalla figura di Georgia O’Keeffe. Negli Anni Sessata e Sessanta tuttavia – in quanto donna e di origini asiatiche – lotta per emergere nell’ambiente artistico della Grande Mela, instaurando relazioni con figure come Andy Warhol e Donald Judd, Joseph Cornell e Claes Oldenburg, che spesso traggono spunto dalle sue stesse sperimentazioni per ideare nuovi linguaggi estetici. Il suo impegno politico, espresso anche a corpo nudo durante le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, per la libertà sessuale e contro la discriminazione di genere, non è sufficiente per fare emergere la sua personalità e imporre le sue opere sul mercato contemporaneo. Delusa nelle aspettative e oppressa dalle frequenti crisi nervose, nel 1973 Kusama rientra in Giappone, dove tuttavia la società non è pronta per capire i suoi lavori e considera scandalosi i suoi comportamenti, aumentando la sua depressione.

Isolatasi volontariamente in una struttura psichiatrica, Kusama scompare fino agli ultimi Anni Ottanta, quando Alexandra Munroe le dedica la prima personale al CICA (Center for International Contemporary Arts) di New York, nel 1989. Da allora inizia un percorso di ascesa verso la popolarità che l’ha portata, negli ultimi trent’anni, a trasformarsi in una delle icone dell’arte internazionale, contesa fra i più potenti galleristi del mondo. Nel 1993 è la prima donna a occupare con un solo show il padiglione del Giappone alla Biennale di Venezia (dove aveva debuttato, in maniera del tutto spontanea e senza autorizzazione, nel 1966 con il suo Narcissus Garden, vendendo palloni argentati per 1200 lire). Nel 2004 giunge l’atteso trionfo in Giappone, con la prima mostra al Mori Art Museum di Tokyo. Oggi il museo della sua città, Matsumoto, ospita un’ampia raccolta di opere di Kusama e la tranquillità della routine quotidiana permette all’artista ultranovantenne di esprimersi con una nuova esplosiva creatività.

LE STANZE SPECCHIANTI DI KUSAMA

A Bilbao, la mostra giunge sull’onda del successo riscosso dalla recente esposizione di Infinity Mirrored Room, A Wish for Human Happiness Calling from Beyond the Universe, opera del 2020 ceduta dallo studio dell’artista a Tokyo per un lungo prestito al Guggenheim, in occasione del 25esimo anniversario del museo.

“Il fatto che i giovani si ritrovino immersi nel gioco infinito di specchi creato dalle stanze dell’artista, e che con i loro smartphone amplifichino ulteriormente l’effetto di moltiplicazione dell’immagine, sicuramente è in sintonia con l’estetica di Kusama, da sempre ossessionata dalla ripetizione infinita dei segni e degli oggetti”, commenta Aguirre, spiegando che l’Infinity Room chiude il percorso di visita della mostra.

“In questi mesi estivi Kusama sarà presente un po’ ovunque all’interno dell’edificio di Frank Gehry”, conclude la curatrice. “Oltre all’esposizione nelle sale al secondo piano e all’‘Infinity Room’, nell’atrio al piano terreno, vicino a un’opera di Lucio Fontana, abbiamo voluto collocare una serie di 'Nubi' in metallo riflettente, che richiamano le sfere del celebre ‘Narcissus Garden’, allestito in maniera non autorizzata alla Biennale di Venezia del 1966”.

a sinistra: Yayoi Kusama, Portrait, 2015. Acrilico su tela, 145,5 × 112 cm. Collezione di Amoli Foundation Ltd.

© YAYOI KUSAMA

in alto: Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – A Wish for Human Happiness Calling from Beyond the Universe, 2020. Specchi, legno, sistema di illuminazione a LED, metallo, pannello acrilico, 293,7 × 417 × 417 cm

© YAYOI KUSAMA. Courtesy Ota Fine Arts

83 #35 YAYOI KUSAMA / BILBAO

Le installazioni di Fabrizio Plessi a Brescia

Una creatività analogica, ma con strumenti digitali”. Questo il cuore delle cinque video-installazioni del pioniere della videoarte Fabrizio Plessi (Reggio Emilia, 1940) pensate per il terzo appuntamento dei Palcoscenici Archeologici bresciani. Snodandosi tra Capitolium, Basilica di San Salvatore e Museo di Santa Giulia – anche grazie al “chilometro accessibile” del nuovo Corridoio UNESCO –, il percorso immersivo Plessi sposa Brixia offre un viaggio nel colossale patrimonio della co-Capitale italiana della Cultura reinterpretato con l’aiuto di colate dorate, che sciolgono i monumenti, e un anello, simbolo del matrimonio tra Plessi e Brixia: “Come il doge si sposava con il mare, io ora sposo la città”, dice l’artista. Ne abbiamo parlato con lo stesso Plessi, con la curatrice Ilaria Bignotti e con la presidente della Fondazione Brescia Musei, Francesca Bazoli

fino al 7 gennaio 2024

PLESSI SPOSA BRIXIA

a cura di Ilaria Bignotti

Catalogo Skira

PARCO ARCHEOLOGICO DI BRESCIA

ROMANA E MUSEO DI SANTA GIULIA

Via Musei 55 e 81/b – Brescia bresciamusei.com

Nel percorso emergono sia il tema della confutazione dell’egocentrismo contemporaneo sia il rispetto e l’amore per l’antico: come dialogano queste due tematiche? E come si collocano nella sua storia artistica?

Fabrizio Plessi: Cammino da sempre con un piede calcato nel futuro e l’altro piede è, naturalmente, nel solco della coscienza storica del passato. Non è tanto una critica all’egocentrismo contemporaneo, o meglio, all’autoreferenzialità dei nostri tempi, ma un tentativo di far convivere situazioni apparentemente impossibili, opposte biologicamente. Il progetto bresciano mi ha permesso di esprimere perfettamente questa mia poetica.

Il progetto punta a trasmettere un messaggio di responsabilità e consapevolezza del patrimonio di Brescia alla sua cittadinanza e non solo: quanto la sua opera vuole coinvolgere il pubblico in un dialogo che fa della tecnologia un agente di comunicazione di valori?

#35 84 FABRIZIO PLESSI / BRESCIA
Intervista a cura di Giulia Giaume in alto: Fabrizio Plessi, Plessi sposa Brixia. Basilica di San Salvatore, Museo di Santa Giulia © Fondazione Brescia Musei. Photo Petrò Gilberti a destra: Brixia. Parco Archeologico di Brescia Romana, il Capitolium ©Archivio Fotografico Civici Musei di Brescia. Photo Tomás Quiroga

Fabrizio Plessi : Mi sembrava importante, nell’anno in cui Brescia con Bergamo è Capitale italiana della Cultura 2023, lasciare un segno forte e anche in un certo senso inedito di questo strano e precario equilibrio tra il tempo presente e il nostro enorme passato. Un segno di amore e passione. Un nuovo codice visivo, nuove forme che codificano il mio messaggio, cioè quello di essere, da sempre, un archetipo di tutte le desinenze che derivano dal futuro.

Come possono la videoarte e le videoinstallazioni coinvolgere il pubblico in una riscoperta del patrimonio bresciano e in una sua cura? In che modo Fabrizio Plessi è l’autore perfetto per rappresentare questo incontro?

Ilaria Bignotti: Fabrizio Plessi ha fondato un codice unico nel suo genere, che non è solo videoarte, né unicamente digitale tecnologico. Come mi ha detto in questi mesi: “Il mio linguaggio è barocco e minimalista, è una contraddizione armoniosa”. Un modo di umanizzare ciò che appare straniero e distante, e di rendere nuovo e diverso ciò che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi. Ecco, credo sia questo un modo magistrale di insegnare al pubblico di prendersi di cura del proprio patrimonio.

Come è stato integrato il bacino di iconografie, anche musive, di Brixia all’interno delle opere e del percorso?

Ilaria Bignotti: Credo che questa mostra sia un archetipo, un modello di interazione e di interdipendenza tra forme antiche e contemporaneità. Cinque installazioni che hanno scelto sculture, mosaici, architettura per tradurli quali concetti di un fiume che scorre, dorato e quieto, senza fine, tra il dolore della perdita e la meraviglia della rigenerazione. L’anello, che si sposa un monumento, è una visione folle e appassionata di un amore vero tra le fondamenta del tempo e le derive del presente.

Prosegue la contaminazione tra arte contemporanea e archeologia. L’esperienza con gli altri progetti cosa ha dimostrato?

Francesca Bazoli: Tutte le esperienze degli ultimi anni, dall’installazione di sei artisti contemporanei all’interno della basilica longobarda di San Salvatore, e poi Juan Navarro Baldeweg, Francesco Vezzoli, Emilio Isgrò, Davide Rivalta, hanno dimostrato il grandissimo interesse di pubblici nuovi o anche già appassionati rispettivamente a scoprire ovvero a rileggere il patrimonio antico e archeologico grazie alla leva generata dall’installazione contemporanea. Il lavoro con artisti contemporanei produce energia creativa che invade anche i dipartimenti di conservazione e ricerca dei musei tradizionali come il nostro, generando talvolta dei clash culturali, altre volte – e più spesso – idee e spunti creativi anche per la valorizzazione del patrimonio antico. In questa contaminazione,

PALCOSCENICI ARCHEOLOGICI E IL CORRIDOIO UNESCO

Plessi sposa Brixia è il nuovo capitolo del format Palcoscenici archeologici di Fondazione Brescia Musei, ambizioso progetto inaugurato nel 2021 con la monografica site specific di Francesco Vezzoli e proseguito nel 2022 con Emilio Isgrò, e che coniuga il grande patrimonio storico e archeologico bresciano con le più interessanti voci dell’arte contemporanea. Palcoscenici archeologici evidenzia il grandissimo potenziale di reciproco arricchimento interpretativo insito in un dialogo diretto ed esplicito tra arte antica e contemporanea; inoltre, getta luce da un lato sulla perdurante capacità del classico di permeare la contemporaneità e dall’altro sulle ineludibili fonti d’ispirazione e confronto dell’arte dei nostri giorni. Fondazione Brescia Musei, ente di governo dei cinque musei civici bresciani diretto da Stefano Karadjov, con le monumentali installazioni multimediali di Fabrizio Plessi compie un ulteriore passo in avanti nella direzione della reinterpretazione e valorizzazione del patrimonio cittadino: un progetto espositivo completato dal nuovo spazio museale del Corridoio UNESCO, grazie al quale l’area monumentale della Brescia antica può essere fruita in forma integrata e fisicamente unificata da un chilometro di passeggiata nella bellezza. Uno spazio museale che diventa un tutt’uno con lo spazio civico dell’abitare quotidiano e che rende la nostra archeologia elemento vivo e creativo per il contemporaneo.

che diventa semina continua per la ricerca museale, sta la natura vera del nostro progetto di ricerca culturale attraverso il contemporaneo nell’archeologia.

L’iniziativa inaugura il Corridoio UNESCO: sarà un’opportunità per collocare Brescia in una posizione di sempre maggiore rilievo nell’ambito degli itinerari artistici d’Italia?

Francesca Bazoli: Tutto quanto stiamo facendo tende a riqualificare e a promuovere su pubblici nazionali e internazionali l’identità culturale e patrimoniale di Brescia antica. Lo facciamo attraverso gli eventi temporanei, ma

anche migliorando costantemente il sistema dell’offerta museale – la nuova sezione dell’età romana – La città del Museo di Santa Giulia, il raddoppio delle sale dell’arthouse cittadina Nuovo Eden, il restauro percettivo illuminotecnico dell’Oratorio di Santa Maria in Solario, il riallestimento del tempio Capitolino con la Vittoria Alata e ora questo chilometro di bellezza liberamente fruibile nel più vasto parco archeologico a nord di Roma – per valorizzare la grande potenzialità di Brescia, con il suo straordinario ed enciclopedico patrimonio, come uno dei grandi destinatari dell’interesse, dell’attenzione e della fruizione turistico culturale europea.

85 #35 FABRIZIO PLESSI / BRESCIA

La fotografia senza fine di Letizia Battaglia

Si intitola Senza Fine la mostra dedicata a Letizia Battaglia (Palermo, 1938-2022) dalle Terme di Caracalla. Si tratta di un ulteriore omaggio a una particolare figura di fotoreporter, che attraverso il suo linguaggio ha documentato e indagato alcune fra le pagine più drammatiche della storia d’Italia.

Una delle chiavi di lettura del percorso fotografico di Battaglia, durato oltre cinquant’anni, è stata proprio la rottura degli schemi, non tanto da un punto di vista tecnico, quanto da un punto di vista linguistico. Il suo è stato fotogiornalismo allo stato puro Attraverso le immagini si raccontano delle storie, senza alcuna censura.

I materiali sono distribuiti in più spazi, quattro per l’esattezza. Non ci troviamo di fronte a una mostra costruita in chiave cronologica o tematica. Vi è, piuttosto, una libertà di schemi che imita quella operativa di Battaglia.

fino al 5 novembre 2023

LETIZIA BATTAGLIA SENZA FINE a cura di Paolo Falcone

Catalogo Electa

TERME DI CARACALLA

Viale delle Terme di Caracalla 52 – Roma soprintendenzaspecialeroma.it

Assai particolare è l’allestimento della mostra, con le immagini bifacciali poste fra cristalli appoggiati al suolo. Non sono presenti infrastrutture invasive e sono stati costruiti labirinti di immagini ri tmati da cavalletti di cristallo, un elemento poco usato che non altera la percezione formale.

Le immagini sono di diverse misure, anche molto grandi. Lo spettatore si trova immerso in una fitta boscaglia iconografica in cui le fotografie sono poste tra cristalli. È un richiamo

all’allestimento di Lina Bo Bardi realizzato nel 1968 per la collezione del MASP-Museu de Arte de São Paulo in Brasile.

Tra gli scatti esposti, oltre a quelli di mafia, assai noti al pubblico, e a quelli dedicati ai diversi mondi palermitani, dalle classi più povere all’alta borghesia all’ex nobiltà, vi sono anche numerose fotografie che Battaglia ha realizzato nell’ospedale psichiatrico della sua città, cercando di instaurare con i pazienti un rapporto attivo, di partecipazione.

Naturalmente non mancano i i suoi scatti più famosi, tra i quali Lunedì di Pasquetta a Piano Battaglia del 1974, Il giudice Giovanni Falcone ai funerali del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa del 1982, la vedova Rosaria Schifani del 1992, ma anche il nudo sulla neve realizzato nello Utah nel 2019. Paolo Falcone, curatore della mostra, promossa dalla Soprintendenza Speciale di Roma, organizzata da Electa in collaborazione con l’Archivio Letizia Battaglia e la Fondazione Falcone per le Arti, ci ha raccontato i dettagli.

#35 86
Angela Madesani
LETIZIA BATTAGLIA / ROMA
Letizia Battaglia, Arkhangelsk. URSS, 1989

INTERVISTA AL CURATORE PAOLO FALCONE

Perché il titolo Senza fine?

Il titolo nasce da una serie di suggestioni con Rosanna Cappelli, amministratrice delegata di Electa. Il titolo proposto ci è sembrato avere la cifra dell’omaggio che volevamo dedicare a Letizia Battaglia alle Terme di Caracalla. Un progetto attraverso cui narrare i tantissimi aspetti della sua fotografia in maniera inedita. Una narrazione originale dove immagini iconiche e fotografie meno note costruiscono un percorso atematico e atemporale che racconta cinquant’anni di fotografia. Una costruzione

CHI ERA LETIZIA BATTAGLIA

Letizia Battaglia ha vissuto una lunga vita, 87 anni. Il suo è stato un intenso percorso esistenziale. Sposa ad appena 16 anni, dal matrimonio sono nate tre figlie. Nel 1969 si dedica in un primo tempo al giornalismo e quindi alla fotografia per L’Ora, un giornale palermitano dichiaratamente antimafia. La fotografia è per lei uno strumento di emancipazione in una società in cui stavano iniziando a cambiare le regole per le donne. Palermo è durissima, così per qualche tempo si trasferisce a Milano, ma nel 1974 vi torna, insieme al nuovo compagno, Franco Zecchin, con il quale fonda l’agenzia Informazione Fotografica. I suoi fotoreportage sono molto forti, riesce sempre a essere prima degli altri sui luoghi dove la mafia ha compiuto i suoi misfatti e offre una documentazione precisa di quei terribili momenti. Nel 1979 è cofondatrice del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”.

Tra gli Anni Ottanta e Novanta entra in politica, ma capisce che quello non è il suo mondo e ne esce a testa alta. Nel 2017 inaugura a Palermo, all’interno dei Cantieri Culturali alla Zisa, il Centro Internazionale di Fotografia.

Nel corso del tempo ha conquistato numerosi premi, tra i quali a San Francisco The Mother Jones Photography Lifetime Achievement Award nel 1999 e il Cornell Capa Infinity Award a New York nel 2009.

È stata protagonista di numerosi documentari e il suo lavoro è stato esposto in alcune istituzioni di grande prestigio italiane ed estere, tra le quali il Centre Georges Pompidou e il Palais de Tokyo di Parigi, la Tate Modern di Londra, Palazzo Grassi, Fondazione Pinault di Venezia, il MAXXI di Roma, l’Istituto Moreira Salles di Rio de Janeiro e São Paulo.

polifonica, dove ogni immagine rappresenta uno strumento che compone un’orchestra visiva e dove emozioni contrastanti rendono più diretto, empatico e differentemente mediato il rapporto con lo spettatore. Una costellazione caotica e ordinata dove le sequenze non dettano linee narrative secondo temi o cronologie. Era troppo riduttivo, e come sempre fuorviante nel lavoro di Letizia Battaglia, raggruppare fotografie per temi, spesso riconosciute attraverso degli stereotipi.

Da alcuni anni parecchie sono le mostre dedicate a Letizia Battaglia. Quali le particolarità di quest’ultima, ospitata in una fra le cornici più affascinanti di Roma?

L’opportunità delle Terme di Caracalla è sembrata immediatamente una sfida molto interessante. Dialogare con lo spazio, crearne una relazione, coglierne lo spirito per un ritorno originale a Roma, dopo la grande mostra al MAXXI. Una sfida perché siamo in uno spazio esterno e con poche coperture, sottoposti al vento, al sole, alle intemperie.

Poi era importante costruire un organismo espositivo che non entrasse in contrasto o in competizione sia con la maestosità e l’imponenza del luogo, sia con le esigenze del visitatore del sito archeologico. Il sistema di allestimento della mostra evita sprechi. La sostenibilità delle mostre è un tema oggi fondamentale. Non bisogna solo parlarne, ma anche provare a trovare nuove soluzioni. Una volta smontata, la mostra, senza avere toccato nulla dello spazio originale, è pronta per una sede diversa, e, come per Caracalla, non richiede l’ausilio di infrastrutture, la costruzione di muri, la loro successiva messa in discarica. Della mostra di Caracalla tutto viene riusato.

1974-1991

Dirige il team fotografico del quotidiano del pomeriggio L’Ora di Palermo

1974

Qual è il criterio che vi ha guidato nella costruzione della mostra?

La selezione delle fotografie innanzitutto. Parto sempre da due principi cardine: opere e spazio. In questa mostra si è inteso costruire un dispositivo espositivo aperto, dove lo spettatore può seguire la narrazione disegnata dal curatore oppure scrivere visivamente la propria sequenza. Non lavoro molto sui muri, solo quando serve. Le mostre realizzate negli anni con Letizia prevedevano sempre installazioni con immagini bifacciali sospese, attraverso un percorso che ha come fulcro il centro dello spazio con la costruzione di un rettangolo, che poi esplode in alcuni elementi, dando loro dinamicità, tagli e prospettive inedite.

Olimpia a Mondello (2020), una mamma incinta stesa sulla sabbia e accarezzata dalle onde del mare, mentre abbraccia la figlia primogenita sul proprio grembo, chiude il percorso di mostra. Un inno alla vita. Al futuro. Dopo tanto dolore e sofferenza. Ma anche tanta dignità e amore.

Per creare il particolare allestimento avete rinunciato a utilizzare materiali vintage della fotografa?

Certo. Non è il luogo adatto. In molte mostre usiamo copie da esposizione. Immagini già lavorate negli anni con Letizia e pronte per la stampa, che seguono un preciso protocollo. In Italia solo tre stampatori sono autorizzati a toccare i materiali originali. Il discorso poi cambia da mostra a mostra: dall’istituzione che invita, in questo caso la Soprintendenza Speciale di Roma, dal taglio scientifico e curatoriale che si vuole tracciare, dalle caratteristiche intrinseche dello spazio dove esporre, dal budget, dalla sicurezza.

1985

Fonda con il suo compagno Franco Zecchin l’agenzia Informazione Fotografica

È la prima donna, ex aequo con Donna Ferrato, a ricevere a New York il W. Eugene Smith Grant per la fotografia sociale

1991 2017

1935 2022

È inserita dal New York Times tra le undici donne del pianeta piu rappresentative dell’anno

87 #35
LETIZIA BATTAGLIA / ROMA
Nasce
il 5 marzo Muore
il 13 aprile
a Palermo
a Palermo

I dipinti italiani di Jean-Michel Basquiat in mostra a Basilea

La lunga storia dei rapporti tra street art/ graffiti e “arte ufficiale” si è sviluppata come un appassionante percorso sospeso tra movimenti contrari: attrazione e repulsione, purezza e compromessi, autarchia e ibridazioni. Per un periodo la questione è stata quella relativa alla musealizzazione, mentre oggi la definitiva mescolanza tra ambiti in partenza diversi è un dato di fatto, in linea con il più generale processo di ibridazione tra cultura alta e bassa intrapreso già negli Anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso.

Il caso di Jean-Michel Basquiat (New York, 1960-88) è esemplare e anticipatore in questo senso, perché la sua opera è oggi considerata a pieno titolo un classico della pittura novecentesca, persino un luogo comune nell’immaginario del grande pubblico, ma non subisce una normalizzazione – anzi continua a esercitare la sua funzione libertaria e di contestazione. Il suo graffitismo si è inoltre quasi subito ibridato con il linguaggio pittorico “da galleria”, trovando nella tela un corrispettivo non sminuente delle superfici dello spazio pubblico.

BASQUIAT ALLA FONDATION BEYELER

Ricollegare l’opera di Basquiat al suo contesto underground oppure raccontare il suo percorso nel mondo dell’arte “ufficiale” sono dunque direzioni non contraddittorie. Mentre la Philharmonie de Paris analizza i suoi rapporti con la musica nella mostra Basquiat soundtrack (fino al 30 luglio 2023), la Fondation Beyeler ricostruisce un passaggio decisivo del suo dirompente ingresso sulla scena di gallerie e musei. L’esposizione-focus The Modena paintings riunisce infatti otto monumentali quadri realizzati nel 1982 per una mostra che avrebbe dovuto svolgersi alla galleria Mazzoli di Modena, ma che non si tenne mai.

Oggi dispersi in varie collezioni private, i dipinti riuniti a Basilea compongono la fotografia di un momento, danno vita all’affascinante remake di una “mostra fantasma”, raccontano infine una storia che coinvolse alcuni dei principali attori del mondo dell’arte di quell’epoca. Nel 1981 Emilio Mazzoli gli aveva dedicato la sua primissima personale. Nel 1982, il gallerista italiano lo invitò a Modena per dipingere sul posto i lavori della successiva personale, in un capannone adibito a quelle che oggi si chiamerebbero residenze. Ma i rapporti tra la galleria italiana e quella newyorkese, Annina Nosei, virarono al disaccordo e la mostra venne cancellata.

LE OPERE MODENESI DI BASQUIAT

Rimangono per fortuna i dipinti, e l’occasione di vederli insieme va molto oltre la curiosità di rievocare un episodio storico ricco di retroscena. Dotate allo stesso tempo di rabbia underground e di maestosità “classicheggiante”, sospese tra velocità dell’istinto e incredibile controllo a livello compositivo, le tele coniugano agevolmente ambiti svariati: affresco, allegoria, danza macabra, murales, manifesto, pittura rupestre, disegno infantile/irregolare, cromatismi degni di un maestro della pittura di inizio Novecento.

Il tutto trasfigurato in una pittura che viene dalla strada ma è decisamente colta, tanto da

potersi permettere di parificare spunti alti e bassi senza scadere nel qualunquismo estetico. Quelli di Basquiat non sono pastiche postmoderni (per quanto artisti come Basquiat, Haring, l’ultimo Warhol furono decisivi per la definizione dell’estetica postmodernista). Piuttosto, ogni suo quadro – e in particolare gli otto “modenesi” – rappresenta un gesto improvviso e rivoluzionario, che straccia la mappa di riferimenti esistente per stabilire nuove coordinate, libertarie e liberatorie.

fino al 27 agosto 2023

BASQUIAT.

THE MODENA PAINTINGS

a cura di Sam Keller e a Iris Hasler

Catalogo Hatje Cantz Verlag

FONDATION BEYELER

Baselstrasse 77 – Riehen

fondationbeyeler.ch

#35 88
JEAN-MICHEL BASQUIAT / BASILEA
Jean-Michel Basquiat, Untitled (woman with Roman Torso [Venus]), 1982. Acrilico e pastello a olio su tela, 241 x 419,7 cm. Collezione privata © Estate of JeanMichel Basquiat. Licensed by Artestar, New York. Photo Robert Bayer

ARTE E PAESAGGIO

Il paesaggista olandese Piet Oudolf (Haarlem, 1944)

è tra i maggiori garden designer contemporanei. Chiamato a realizzare giardini pubblici e privati in tutto il mondo, conteso dai più noti studi di architettura, è balzato sulle pagine della stampa mondiale per la realizzazione della High Line a New York, uno straordinario parco lineare sui resti di una vecchia ferrovia nel cuore di Manhattan: oggi è uno dei parchi urbani più visitati al mondo.

Oudolf inizia a interessarsi alle piante da giovane. Non segue speciali corsi o master in botanica, ma lavora sul campo, collezionando semi e studiando direttamente la vegetazione. Nel 1982 acquista un terreno dove mette a punto le proprie ricerche e approfondisce la passione per le piante resistenti e a bassa manutenzione. Le ispirazioni di Piet Oudolf si collegano al movimento inglese The New Perennial, gruppo pioniere del “giardino spontaneo e pittorico”, che opera creando un dialogo tra piante perenni e piante autoctone, con intense sfumature e palette di colori dette appunto “pittoriche’”

IL GIARDINO PER HAUSER & WIRTH

Tra i progetti più recenti di Piet Oudolf c’è il giardino per la sede sull’isola di Minorca di Hauser & Wirth, una delle più importanti gallerie d’arte contemporanea. La galleria è collocata in un ex ospedale navale settecentesco dell’Illa del Rei. La ristrutturazione è a cura dell’architetto di origini argentine Luis Laplace, nell’ottica di ricavare otto ambienti dedicati alle mostre, uno spazio per la didattica, un bookshop e un ristorante. Ad affiancare gli edifici storici sono i Giardini mediterranei di Piet Oudolf. Per la creazione di questo paesaggio Oudolf ha voluto dare alla vegetazione un aspetto il più possibile naturale, quasi selvaggio. Il risultato ben si adatta al luogo e al clima locale, nel rispetto delle specie autoctone e resistenti al calore, come ulivi, timi, cardi, agapanthus, e una varietà di succulente. Il giardino ospita gli interventi di Louise Bourgeois, Franz West, Joan Miró, Eduardo Chillida

IL PARCO PER IL VITRA CAMPUS

Un’altra recente opera di Piet Oudolf è il giardino del Vitra Campus a Weil am Rhein, in Germania. Qui sono stati creati una serie di percorsi, con sentieri, cespugli, graminacee ed erbe perenni, per realizzare un vero e proprio parco. Persicaria, Cimicifuga, Lobelia, Echinacea, Molina sono alcuni dei suggestivi nomi delle specie vegetali utilizzate. Un sapiente dialogo tra architettura e natura, tra spazi interni e spazio esterno, in modo da godere ogni fioritura, in ogni stagione. Oudolf da sempre progetta i propri giardini partendo dalle forme e dalla personalità delle piante, espressione che si rivela in tutte le quattro stagioni, in autunno specialmente. “Vorrei che le persone si perdessero nel giardino, invece di attraversalo” è l’affermazione chiave del paesaggista olandese. Lui stesso conferma che la creazione di un giardino è un’esperienza sia estetica che emozionale.

ASTE E MERCATO

L’intervento di Piet Oudolf per Hauser & Wirth a Minorca.

Courtesy Hauser & Wirth

All’asta di Modern Art di Dorotheum a Vienna, lo scorso 23 maggio, il miglior prezzo di aggiudicazione è stato quello realizzato da una natura morta di inizio Novecento del pittore russo Alexej von Jawlensky (Toržok, 1864 – Wiesbaden, 1941), uno dei padri dell’Espressionismo.

L’OPERA DI ALEXEJ VON JAWLENSKY

Una tavola imbandita, per la precisione, che dalle stime pre-asta di 400-600mila euro è passata da una collezione privata di Belgrado a un nuovo proprietario per oltre 700mila euro. Per quanto il prezzo resti lontano dai grandi record multimilionari dei ritratti – ossessione ripetuta – degli Anni Dieci, l’opera Gedeckter Tisch ha riscosso successo presso un pubblico che ne ha riconosciuto il valore di soglia sulla strada dell’Espressionismo, oltre che la qualità e l’intensità del trattamento della materia pittorica. A essere ritratti a tinte accese sono una tavola e gli oggetti che la abitano, nel solco del tema della natura morta, avvio, insieme ai paesaggi, della pratica di von Jawlensky.

“Al tempo dipingevo per lo più nature morte perché in quelle trovavo più facilmente me stesso. Ho provato in quei dipinti ad andare oltre gli oggetti materiali e a esprimere in colore e forma ciò che sentivo vibrare dentro di me, e credo di aver raggiunto alcuni buoni risultati”. Una strada maestra, secondo le parole dell’artista, dunque, per lo scandaglio dell’umano, oltre che per la ricerca artistica che da lì sarebbe partita fino ad approdare ai traguardi pienamente espressionisti.

ALEXEJ VON JAWLENSKY A LUGANO

Dieci anni dopo la datazione di questo dipinto, nel 1914, con il precipitare della Prima Guerra Mondiale, von Jawlensky, che dalla Russia era intanto andato in Germania, dove fu tra i fondatori della Neue Künstlervereinigung München e membro del Blaue Reiter, si muove ancora e arriva in Svizzera, prima a SaintPrex, poi a Zurigo e infine, tra 1918 e 1921, ad Ascona, in Ticino. A ripercorrere questo momento è la mostra in corso al MASI Lugano, Alexej von Jawlensky ad Ascona “… I tre anni più interessanti della mia vita…” Curata da Cristina Sonderegger e allestita fino al 1° agosto 2023 nella sede del LAC, riunisce oltre venti dipinti provenienti da collezioni pubbliche e private. A testimonianza di un periodo particolarmente importante sia per l’artista che per il Cantone. È proprio nella luce del Ticino e del Verbano che Alexej von Jawlensky realizza gli ultimi paesaggi della sua produzione e poi volge la sua attenzione ossessiva ai ritratti e alla raffigurazione del volto umano e di Cristo. Luoghi dove il suo linguaggio pittorico si consolida, coniugando cromie e linee espressioniste e sintesi astrattista.

Alexej von Jawlensky, Gedeckter Tisch (part.), 1904-05. Courtesy Dorotheum, Vienna

89 #35 RUBRICHE
I GIARDINI DI PIET OUDOLF ALEXEJ VON JAWLENSKY DOROTHEUM

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