Grandi Mostre #42

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Lo sguardo di Gianni Berengo Gardin sulle ceramiche

Marazzi di Sassuolo

Celebra i cinquant’anni dall’invenzione di un brevetto rivoluzionario nel settore ceramico, quello della monocottura rapida, la mostra Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci a Sassuolo. Le immagini del maestro italiano, oggi novantaquattrenne, sono esposte nelle Sale della Musica, degli Incanti e dei Sogni di Palazzo Ducale.

GLI SCATTI INDUSTRIALI A COLORI

È il 1977 quando Gianni Berengo Gardin viene chiamato dalla Marazzi a documentare le nuove linee ‘veloci’, che producono tonnellate di piastrelle per le nuove case degli italiani. Il suo sodalizio con l’industria aveva preso il via a Milano nel 1965 quando comincia a lavorare per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli, e soprattutto per Olivetti.

Quelle alle quali dà vita sono immagini completamente diverse dalle sue più note, in bianco e nero, in cui l’uomo è protagonista. Sono queste, infatti, fotografie a colori in cui si colgono le forme degli oggetti, la velocità della produzione. I soggetti seriali, i macchinari, gli ambienti proposti riescono a rendere l’atmosfera all’avanguardia di quel particolare momento della storia dell’industria italiana. Ogni tanto sbuca qualche traccia umana, una mano, un braccio, ma il lavoro è incentrato sugli oggetti e sul loro ritmo fenomenico.

FOTO “SOGNANTI, COLORATE, QUASI ASTRATTE”

“Mi fu chiaro subito come la sfida professionale fosse quella di riuscire a cogliere il flusso veloce dei colori, la scia dinamica delle forme. Il colore, che ho usato sempre poco, si imponeva,

quindi, come scelta”, racconta l’artista. “Provai inoltre a lavorare in modo diverso da quel che normalmente facevo. Qui cambiavo spesso la distanza, avvicinandomi molto ai soggetti, per riuscire a cogliere i dettagli, i frammenti di quel che vedevo e realizzare così foto diverse dalle altre: sognanti, colorate, quasi astratte”. La mostra è accompagnata da un volume, pubblicato da Contrasto, con i testi della curatrice Alessandra Mauro e dello stesso Gianni Berengo Gardin, che va ad arricchire la sua gigantesca produzione libraria, costituita da più di 250 volumi.

Si tratta, dunque, di un’occasione di scoperta di una parte inedita del lavoro di uno dei più noti fotografi italiani, una scoperta per certi versi spiazzante per quanti pensano a un autore dedicato perlopiù a tematiche squisitamente sociali in cui le persone sono protagoniste.

Artribune ha chiesto ad Alessandra Mauro, curatrice della mostra, di raccontare la storia del lavoro che Berengo Gardin ha realizzato per Marazzi.

Con uno strano gioco numerico quarantasette anni fa un fotografo di quarantasette anni ha accettato un incarico per realizzare delle immagini a colori: un’insolita situazione per Gianni Berengo Gardin. Ma come ogni bravo fotografo, e come è nella sua indole, Berengo si mette al lavoro e cerca di cogliere il meglio di quel che accade intorno a lui e dell’atmosfera in cui si trova. Del resto, non avrebbe avuto senso, nel tripudio di velocità e colori, lavorare in bianco e nero.

Come mai le foto sono a oggi ancora inedite?

Questo era un lavoro su commissione e le diapositive sono rimaste da Marazzi fino a quando la volontà di storicizzare e valorizzare gli interventi artistici fatti, nel tempo, non ha fatto riemergere questo piccolo, grande lavoro. Così, qualche anno fa ci siamo messi in moto: abbiamo recuperato le diapositive, le abbiamo scelte, scansite, realizzato un bellissimo volume e ora, appunto, questa mostra.

Ci troviamo di fronte a immagini molto vivaci in cui emerge un Berengo Gardin particolare. Vogliamo parlare dell’originalità di queste fotografie?

Queste immagini rappresentano un vero unicum nella produzione di Berengo Gardin. Io per prima, che penso di conoscere bene l’archivio Berengo, sono rimasta molto colpita. Non sono certo le prime foto a colori realizzate dall’autore, che per il Touring aveva lavorato con questo linguaggio in alcune situazioni e reportage, ma qui assistiamo a un passaggio in più: il colore non solo è utilizzato in modo sostanziale, ma sembra che il fotografo si sia fatto trascinare dall’essenza stessa dei colori inseguendoli lungo le “linee veloci” e realizzando delle composizioni astratte nuovissime per lui e per il fotogiornalismo dell’epoca.

Dal 12 settembre al 3 novembre 2024

GIANNI BERENGO GARDIN. MARAZZI, LE LINEE VELOCI

A cura di Alessandra Mauro Palazzo Ducale

Piazzale della Rosa, 10 - Sassuolo gallerie-estensi.beniculturali.it

Nel tuo testo in catalogo hai scritto che il fotografo in questa serie “abbandona la giusta distanza del fotografo sociale, quella che da sempre lui utilizzata per ritrarre le persone, si avvicina agli ingranaggi e realizza una serie di visioni macro per un racconto quasi astratto fatto di elementi isolati, di forme dinamiche, di strisce di colore che girano e si perdono, di mani sapienti che si muovono sui nastri. (…) dimostra non solo di riuscire a muoversi come sempre con attenzione esatta e sottile poesia, ma di riuscire anche a fermare, in tanti frammenti di secondo, il tempo colorato e veloce del lavoro che cambia”. Che traccia ha lasciato quel lavoro nella ricerca di Berengo Gardin? Io credo che più che una traccia, queste foto siano una testimonianza formidabile di come funzioni l’occhio del fotografo. Certo, ognuno ha uno stile; ognuno ha un approccio particolare che, soprattutto nel caso di Berengo Gardin, l’autore ama seguire e riproporre, pur con tutte le variazioni che il caso suggerisce. Ma un grande fotografo deve avere anche la duttilità di sguardo e di pensiero per cogliere al volo la peculiarità della situazione che ha di fronte. Deve avere l’intelligenza di inventare ogni volta una modalità narrativa nuova, avvincente e commisurata con quel che deve riprendere: in questo caso, l’emozione della velocità e dei nuovi tempi che arrivano. E come sempre, anche qui, Berengo ha dato prova di essere un grande autore e il suo, è un grande sguardo sull’Italia.

Il Palazzo Ducale, era la residenza estiva e “delizia” della corte estense e una delle più importanti residenze barocche dell’Italia settentrionale

La grande chiesa di San Francesco con il Santo Tronco, crocifisso miracoloso esposto al bacio dei fedeli il giovedì e venerdì santo e portato in processione

Il vicino Castello di Montegibbio, dove è anche custodita l’acetaia comunale di Sassuolo, curata dai Custodi dell’Arte dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena

MARAZZI, BREVE STORIA DI UN’AZIENDA ITALIANA

La prima fabbrica di Marazzi Ceramiche nasce nel 1935, in pieno fascismo, a Sassuolo, in provincia di Modena. L’azienda, che in quel momento era una delle poche, si distingue per l’attitudine alla sperimentazione che la porta a utilizzare le tecnologie più avanzate. Quella che era nata come una vicenda legata al mondo dell’artigianato diventa ben presto una storia industriale. Per comprendere il senso di questo lungo cammino è utile leggere le parole di Filippo Marazzi, presidente dell’azienda dal 1978 al 2012: “Trasformare la materia attraverso la forma, la luce e il colore per renderla viva: questo per Marazzi è fare ceramica una vocazione e un impegno che si sono nel tempo estesi a un più ampio disegno di ricerca, in cui l’azienda ha coinvolto artisti, architetti, designer”. Il dialogo con l’arte inizia sin da subito e negli anni ’40 si instaura un rapporto con Venerio Martini, che continua poi con Giò Ponti e Alberto Rosselli con cui nasce la piastrella “quattro volte curva”. Degli anni ’70 è l’incontro con il mondo della moda. A metà dello stesso decennio Marazzi avvia il lungo rapporto con Luigi Ghirri, oggetto di una recente mostra. Nello stesso periodo cresce il Crogiòlo, un centro di ricerca aperto ad architetti, designer, artisti e fotografi di fama internazionale, in cui nascono le Sperimentazioni, piastrelle d’autore. Rimarcando quella relazione tra la produzione di Marazzi e le diverse espressioni artistiche: “una storia”, ricorda l’amministratore delegato di Marazzi Group Mauro Vandini, è “che più volte si è intrecciata e ha incontrato grandi maestri dell’obiettivo, come Luigi Ghirri, Charles Traub o Cuchi White, e della matita, come Giò Ponti, Nino Caruso o Paco Rabanne, lasciandoli ogni volta liberi di sperimentare e di raccontare Marazzi dal loro punto di vista”. Spazio quindi alle fotografie di Gianni Berengo Gardin, in cui si riscopre “la fabbrica di allora e quell’attitudine alla sperimentazione che Marazzi ha continuato a coltivare nel tempo, affiancando alla ricerca di nuovi prodotti e processi, la promozione di letture differenti, personali, d’autore, della ceramica e del lavoro, che rappresentano oggi per noi un patrimonio inestimabile, accumulato in ormai 90 anni di storia, e una fonte inesauribile di ispirazione”.

a sinistra: Gianni Berengo Gardin. Marazzi, le linee veloci, installation view, Palazzo Ducale, Sassuolo.
Photo Simone Falso / Courtesy Marazzi Group
a destra: Gianni Berengo Gardin Marazzi Le Linee Veloci © Gianni Berengo Gardin e Marazzi Group

Baj tra Milano e la Liguria. Quando l’arte radicale sa essere spiritosa

La linea ironica è spesso rimasta sottotraccia, nell’arte italiana. Non sono mancati, nel corso del secondo Novecento, spunti di raffinato humour e forme di espressione spiritose nel senso più alto del termine. Questi sono stati tuttavia relegati in secondo piano a causa della seriosità di stili dominanti come l’Informale prima e il generale concettualismo poi. Con una grande eccezione: Enrico Baj (Milano, 1924 - Vergiate, Varese, 2003), uno dei massimi rappresentanti di questo approccio, con la sua filosofia Patafisica e con la sua costante capacità di analizzare le evoluzioni della società - anche ponendosi in forte opposizione - e di trovare la sintesi espressiva più felice e paradossale.

Risulta dunque più che meritata la grande celebrazione che gli riservano nel centenario dalla nascita Milano, con un’antologica al Palazzo Reale, Savona e Albissola, con una mostra in più sedi che analizza il suo lavoro con la ceramica. Baj chez Baj è il titolo generale dell’iniziativa, non solo per sottolineare l’unità del lavoro dell’artista – le sue incursioni nelle arti “minori” non sono per nulla divertissement secondarima anche perché Milano e la Liguria sono tra i “suoi” luoghi, dove visse ed ebbe esperienze professionali importanti.

Un affascinante palazzo ottocentesco pieno di gallerie d’arte contemporanea nel suggestivo Quadrilatero del Silenzio in Porta Venezia, in via Rossini

Il nuovo Parco della Luce dell’edificio Monte Rosa 91 del Renzo Piano Building Workshop con tre grandi opere d’arte pubblica di Cecchini, Arienti e Airò

Magico, laboratorio d’incisione nascosto nel cortile verde di Palazzo Galloni sui Navigli

DALL’ARTE NUCLEARE ALLA FUSIONE DI INFORMALE, DADAISMO E SURREALISMO

Al Palazzo Reale, con la curatela di Chiara Gatti e di Roberta Cerini Baj, cinquanta opere coprono il periodo primi anni Cinquanta-inizio Duemila, dimostrando la varietà assoluta di continue invenzioni che però non sono mai estemporanee: l’eclettismo della sua ricerca attinge a piene mani da istanze, cultura visiva e materiali della società di massa (per alcuni aspetti, la sua poetica è stata approssimativamente assimilata al Pop). Il Nuclearismo, naturalmente, rimane una delle sue invenzioni maggiori. Dopo la Seconda Guerra Mondiale,

prima della ricostruzione e del boom, il mondo si trovava stretto nelle prime fasi della Guerra Fredda, mentre l’arte cercava di metabolizzare l’eredità delle Avanguardie storiche e soprattutto del Surrealismo. Ecco che questa prima fase di Baj, con principale sodale Sergio Dangelo, fonde in maniera imprevista l’Informale allora imperante e il lascito di Dadaismo e Surrealismo, ironizzando allo stesso tempo in maniera impagabile sulla seriosità della nuova ricerca pittorica. La sua “bad painting” ante litteram, in parte ispirata dal gruppo Cobra, rappresenta in questo periodo inquietanti masse di materia e “non colore”, nelle quali si trovano incastonate immagini tratte dalla

Palazzo Reale

comunicazione, figure che si aggirano prive di coordinate spaziali e temporali.

BAJ, FUSTIGATORE DELLA

CULTURA DI MASSA SENZA ERGERSI A MORALISTA

Non mancano poi ovviamente in mostra i suoi cicli successivi, molti dei quali celebri (ma forse non sempre considerati appieno): le Dame e i Generali, ad esempio, rimangono anche a distanza di decenni perfette analisi della vanità del potere, della ricerca di una velleitaria distinzione dell’individuo all’interno di una società massificata, della superbia che caratterizza l’affermazione mondana. I cicli degli Ultracorpi, degli Specchi, del Meccano, dei Mobili e dell’Apocalisse fanno poi capire come la sua analisi della cultura di massa sia leggermente decentrata rispetto alla mera introduzione nell’opera d’arte di spunti e oggetti comuni, come invece faceva la Pop Art. I suoi materiali sono invece da subito “nostalgici”, franchi nel dichiarare la loro fattura artigianale e un po’ desolata anche quando vorrebbero ostentare il lusso. Radicale e antiborghese, Baj fustiga i costumi senza ergersi a maestro di morale, ma “sporcandosi le mani”.

I FUNERALI DELL’ANARCHICO PINELLI

La mostra milanese diventa ancor più importante grazie alla presenza dei Funerali dell’anarchico Pinelli, che tornano nella sala delle Cariatidi a dodici anni dalla precedente esposizione nello stesso luogo. E soprattutto a cinquantadue anni dalla loro mancata esposizione. Nel 1972, la monumentale opera doveva essere presentata al Palazzo Reale. L’uccisione del commissario Calabresi fece considerare inopportuna l’iniziativa e la mostra venne annullata. Oggi l’opinione pubblica, che è priva di una definitiva verità processuale sulla morte di Pinelli ma nutre pochi dubbi su come andarono le cose (anche tramite l’intermediazione e la divulgazione di grandi artisti come Dario Fo), può ritrovare un monumento di impegno civile che si ispira liberamente alla Guernica di Picasso, testimoniando e allo stesso tempo superando un’altra grande ispirazione che influenzò massicciamente l’arte del secondo Dopoguerra, quella del maestro spagnolo.

BAJ E LA CERAMICA

L’importante opera in ceramica di Baj è un’ulteriore conferma del suo approccio libero e della sua statura di innovatore. In un periodo in cui in Italia la pratica delle arti minori finiva addirittura per penalizzare un artista (si pensi a Fausto Melotti), lui ne fece parte integrante della

BAJ. UNA VITA

1924

Nasce a Milano 1938

Primi tentativi pittorici

1945

Si iscrive all’Accademia di Brera

Prima personale alla Galleria San Fedele di Milano 1952

Manifesto dell’Arte nucleare

1951

Primo catalogo generale 1974

Si trasferisce a Vergiate

Fine anni Settanta 1982

Mancata esposizione dei Funerali dell’anarchico Pinelli al Palazzo Reale di Milano 1973

Viaggi in Messico e in egitto

Personale al Palazzo della Ragione di Mantova 1984

Scenografia per l’Ubu Re di Jarry a Parigi

Dall’8 ottobre al 9 febbraio

BAJ CHEZ BAJ

Partecipa alla Biennale di Venezia con una sala 1972

Primi anni Novanta lavora alla Bottega Gatti di Faenza per realizzare le sue ceramiche “mitologiche”

2001

Retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma

A cura di Chiara Gatti e di Roberta Cerini Baj Palazzo Reale

Piazza del Duomo, 12 - Milano palazzorealemilano.it

Dall’8 ottobre al 9 febbraio

BAJ CHEZ BAJ

A cura di Luca Bochicchio

Museo della Ceramica di Savona, Centro Esposizioni e Casa Museo Jorn di Albissola

Marina musa.savona.it

in alto a sinistra: Enrico Baj, Berenice 1960, olio e collage su tela, 92x73 cm, Archivio Enrico Baj, Vergiate

in basso: Enrico Baj, Folla, 1992, maiolica dipinta in policromia, cm 65x531. Collezione Confartigianato Ravenna. Courtesy Archivio Baj, Vergiate

1953

Fondazione con Asger Jorn del Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista

1954

Partecipa all’Incontro internazionale della ceramica a Savona

Prima mostra a New York 1964

1960

2003

Muore a Vergiate (Varese)

2012 I Funerali dell’anarchico Pinelli vengono finalmente esposti nella Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale

sua ricerca. La mostra ligure, curata da Luca Bochicchio e suddivisa tra il Museo della Ceramica di Savona, il Centro Esposizioni di Albissola Marina e la Casa Museo Jorn sempre ad Albisola, racconta della sua produzione che fu già all’epoca esposta in loco ma anche in altri centri nodali della ceramica come Faenza. Particolarmente significative sono le ceramiche del periodo Nucleare, con la materia che trionfa nel diventare massa allo stesso tempo compatta e frastagliata, capace di irridere con la sua paradossale raffinatezza all’idea classica di “decorazione”. Così come sono notevoli quelle che testimoniano del postsurrealismo e quelle che giocano apertamente con il concetto di kitsch. Concetto quest’ultimo con il quale in fondo Baj ha giocato lungo tutta la sua carriera, fermandosi sempre al perfetto punto di congiunzione tra una volontà di testimonianza fedele della cultura diffusa e una capacità di trasfigurazione immaginifica, abile nel ridare spazio all’estetica in un mondo seriale e “preconfezionato”.

Uno straniero di nome Picasso, due mostre curate dalla sua biografa Annie Cohen-Solal

Nicola Davide Angerame

Annie Cohen-Solal è affabile, non ha il sopracciglio alzato dei critici d’arte eppure il suo approccio a Picasso rappresenta una rivoluzione che passa per due mostre, due cataloghi con contributi privilegiati e una biografia di oltre 600 pagine (Picasso. Una vita da straniero, Marsilio). Insieme, questi raccontano un Picasso straniero nella sua patria d’elezione, la Francia, e un Picasso poeta alle prese con le Metamorfosi di Ovidio e gli affreschi di Giulio Romano. Nelle due sedi di mostra, il Palazzo Reale di Milano e Palazzo Te a Mantova, sono raccolte 130 opere e molti documenti, con percorsi realizzati in collaborazione con il Musée national Picasso-Paris e il Musée National de l’Histoire de l’Immigration di Parigi, più la famiglia Picasso.

Con un approccio da sociologa dell’arte, e mossa da empatia, la doppia curatrice accede ad archivi e documenti a cui nessuno era ancora giunto, svelandoci un Picasso osteggiato ma vittorioso sulle guerre e sui nazionalismi, quello francese in primis. Ebrea sefardita, Annie Cohen-Solal è nata in Algeria, come suo zio Jacques Derrida: straniera a modo suo, a 28 anni, nel 1985, scrive una biografia su Sartre che diventa un best-seller; da allora la sua carriera non conosce confini. Oggi insegna alla Bocconi e vive tra Milano, Parigi e Cortona.

INTERVISTA AD ANNIE COHENSOLAL, CURATRICE DELLE DUE MOSTRE SU PICASSO

Cosa sarebbe stata l’arte di Picasso se non fosse rimasto straniero nella sua patria d’elezione, la Francia?

Avrebbe comunque dipinto Guernica, ne sono certa. Sono entrata nella vita di Picasso leggendo tutti i cataloghi custoditi all’École normale supérieure di Parigi, poi ho scritto un libro inchiesta. Da quando Leo Castelli mi introdusse all’arte americana, mi sono dedicata all’arte dal punto di vista dell’immigrazione, è l’originalità del mio lavoro. Da 40 anni ne scrivo con questo approccio.

Cosa la lega a Picasso?

Lui è rifiutato dalla Francia perché non appartiene al sangue e alla terra; è quel che ho sentito io, in quanto ebrea, arrivando in Francia dall’Algeria a 14 anni. Negli archivi della prefettura ho ritrovato quello “sguardo dell’altro” che, come diceva Sartre, ti trasforma in uno straniero.

Si sentiva così Picasso arrivando a Parigi?

Sapeva anche di essere un genio, dialogava con Velázquez. A 14 anni aveva copiato il ritratto di Filippo IV e la sua copia è meglio dell’originale. Eppure sei anni dopo, nella Francia dell’affaire Dreyfus, per la polizia è un reietto. Picasso entra dalla porta di servizio, con i catalani che sono stigmatizzati come anarchici. La sua vita interiore si riflette nella corrispondenza e nella sua arte. Gli archivi del Museo Picasso contano ancora 200mila documenti inediti, io ho letto le 4mila lettere della madre, che gli scrive quasi ogni giorno per 40 anni. Nel 1931 lui esprime la sua vulnerabilità con il Minotauro cieco guidato nella notte da una bambina. Nell’inamovibile I saltimbanchi di Washington (da cui esponiamo una copia) si identifica con Arlecchino; è un quadro che racconta la xenofobia e che ha ispirato sia Rilke sia Apollinaire. Tutta l’arte di Picasso è filosofica.

Picasso richiede la cittadinanza francese soltanto nel 1940 e gli viene negata, malgrado sia appoggiato da politici influenti. Nel 1940 è uno straniero vulnerabile in Francia e “artista degenerato” in Germania, oltre che esule del franchismo in Spagna. Ha paura

dal 20 settembre 2024 al 2 febbraio 2025 PICASSO LO STRANIERO

Curata da Annie Cohen-Solal

Palazzo Reale

Piazza del Duomo, 12 - Milano palazzorealemilano.it

Dal 5 settembre al 6 gennaio

PICASSO A PALAZZO TE. POESIA E SALVEZZA

Curata da Annie Cohen-Solal

Palazzo Te

Viale Te, 13 - Mantova centropalazzote.it

sopra: Pablo Picasso, La Mort de Casagemas, Parigi, estate 1901, Olio su legno, Musée national PicassoParis. Dation Pablo Picasso, 1979 © Succession Picasso by SIAE 2024, Photo © RMN-Grand Palais (Musée national Picasso-Paris) / Mathieu Rabeau

a destra: Torso del

dal

Minotauro
gruppo con Teseo, I secolo d.C., White marble, 50 × 116 × 42 cm, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo. Inv. 124665, Su concessione del Ministero della culturaMuseo Nazionale Romano. Photo Di Mino

di morire e chiede la cittadinanza. Ma già nel 1927 può diventare francese per una nuova legge e non ne fa richiesta. La mia domanda è: perché non gli interessa? Nel 1947, quando Picasso dona dieci opere allo Stato, Georges Salles, il direttore degli Musei francesi, dichiara: “Oggi finisce il divorzio tra lo stato francese e il genio” e gli viene elargito lo status di “residente privilegiato”. Però Picasso non diventerà mai francese: negli anni Sessanta rifiuterà la legione d’onore e la cittadinanza che gli offre André Malraux.

Il catalogo della mostra di Milano ricostruisce la storia de I saltimbanchi

Nel 1908, André Level, un collezionista molto interessante, va al Bateau Lavoir e lo acquista da Picasso, il quale ha bisogno di soldi per un viaggio. Qui, Level vede anche Les Demoiselles d’Avignon. Sono due momenti estetici diversi, separati da soli due anni di intervallo, 1905 e 1907. Level compra I saltimbanchi per mille franchi con l’accordo di pagare Picasso un diritto di seguito che nel 1914 sarà di 4mila franchi. Quando manda l’assegno, Level scrive a Picasso in un francese del Settecento, barocco, spiegandogli che lo ammira. È un altro “sguardo dell’altro” che Picasso avverte e che saprà sfruttare circondandosi di persone di primissima qualità. Il che lo rende uno stratega infallibile.

Poi c’è la questione urticante del “Kubismo”, come viene ribattezzato dai facinorosi nazionalisti francesi.

Praticamente, in Francia il Cubismo è invisibile. Intanto il mercante Daniel-Henri Kahnweiler lo vende nell’intero mondo oc cidentale, realizzando la prima globalizzazione economica in arte; quindi, Djagilev conosce Pi casso e il Cubismo in Russia. Per ca pire, serve tornare al periodo 18701914, quando il nemico più grande della Francia è la Germania. E sono proprio alcuni tedeschi ebrei a riconoscere il Cubismo. Come Picasso, anche loro vi vono a Parigi fuori dalle istituzioni, in una nazione rigidissima che ha allora nella polizia degli stranieri e nell’accademia di belle arti due istituti conservatori e nazionalisti. Nel 1914, Picasso diventa ricchissimo e il Cubi smo viene osannato in tutti gli imperi dell’est. Intanto a Parigi vengono seque strate 800 opere cubiste poi svendute in un’asta terribile, dal ‘21 al ‘23, e trat tate come un bottino di guerra. Tutto ciò fa di Picasso una vittima collate rale della xenofobia contro i tedeschi.

Les Demoiselles d’Avignon, MoMA, è un altro capitolo di questa storia xenofoba.

Nel 1939 Alfred Barr, direttore del MoMA, compra il quadro che André Breton aveva consigliato a Jacques Doucet di acquistare per donarlo al Louvre, il quale lo rifiuta. Barr farà di tutto per averlo, vi riconosce il genio di Picasso, teso tra eros e thanatos. Sei mesi dopo, un poliziotto ignoto scriverà di Picasso: “Questo straniero non ha nessuna qualità per diventare francese”. Il potere esorbitante che questo poliziotto ha su Picasso è paradossale, ma è anche una radioscopia della Francia di allora; ed è uno scandalo che uno dei più grandi pittori del secolo fosse trattato così, perdendo anche il suo nome: è una parabola quasi religiosa.

Picasso si difende anche con la poesia, tema della mostra di Palazzo Te a Mantova. Diventa poeta nel 1935 in un periodo di crisi senza uscita, sia politica sia professionale e personale. Fa una poesia dada. La mostra mette a confronto due trasgressori, Giulio Romano verso il papato e Picasso verso l’opera accademica di suo padre. È un percorso inedito incentrato sulle Metamorfosi di Ovidio che Picasso esegue su richiesta di Albert Skira nel 1931.

Quale oggetto di Picasso l’ha più colpita? L’agenda degli indirizzi, piccolissima, dove stipava tutti i suoi contatti, intersecando gli eterogenei mondi che frequentava. Ho studiato con Erving Goffman e pratico la micro-sociologia, interessandomi ai segni “deboli”.

Nel 1968 il ministro della Cultura, André Malraux, crea una legge per dotare i musei francesi delle opere di Picasso. Possiamo dire, con Jean-Jacques Neuer, che non è stato Picasso a diventare francese, ma la Francia a divenire picassiana?

Assolutamente sì. Quando si trattò del nome di Claude e Paloma, che sono nati “fuori del matrimonio” e non avevano il diritto di portare il nome del padre, anche se lui li aveva riconosciuti, Picasso impone un cambio di legge sulla famiglia.

L’8 aprile 1973 Picasso muore a Mougins. Quale eredità lascia?

La Francia era ipercentralizzata e Picasso l’ha decentralizzata andando a stabilirsi a sud nel 1955. Diventando comunista ottiene

visibilità e libertà. Ma è dissidente: nel 1953 il suo ritratto di uno Stalin contadino non piace agli ortodossi del partito, che vogliono cacciarlo, ma lui serve alla causa e quindi ancora una volta vince su chi lo avversa. Mi hanno impressionato le lettere dei tanti sindaci comunisti che gli chiedono un’opera per le loro città. Lui acconsente e così facendo modernizza la Francia. Picasso è lo straniero in cui la Francia nazionalista può specchiarsi, è il suo sguardo altro. Lo si vede anche nella sua scelta di lavorare come ceramista, con gli artigiani: feconda il nobile con il prosaico e l’alto con il basso, elevando gli artigiani contro gli accademici. A partire da una dimensione locale, Picasso costruisce la sua fama globale.

Ed infine c’è Gósol, il villaggio disperso sui Pirenei.

Torniamo al 1906, il sogno di Picasso è quello di essere superiore a Matisse, ma non gli riesce subito, è la chiave del mio libro. Così lascia Parigi e parte per questa comunità di contrabbandieri dove la polizia non ha mai messo piede. In lui avviene una trasformazione esistenziale. Dopo cento giorni passati con Pep Fondevila, il nonagenario capo del villaggio, apprende l’economia del contrabbando e capisce come deve vivere a Parigi. Picasso è un artista dotato ma è anche uno stratega politico e la sua lezione dice che non bisogna mai farsi vittime e che serve ribaltare le stigmate. Torna quindi a Parigi e finisce il ritratto di Gertrude Stein come maschera. Supera Matisse e diventa leader dell’avanguardia. Ho passato due estati a Gósol e nelle sue opere ritrovo tutto ciò.

Visitare la casa di Andrea Mantegna, un piccolo capolavoro di architettura quattrocentesca che lo stesso artista costruì e utilizzò come abitazione e studio

Godere dello skyline della città gonzaghesca dall’acqua, navigando tra i laghi di Mantova, la valle del Mincio e il Po

Visitare il Teatro Scientifico Bibiena, costruito tra il 1767 e il 1769 con una pianta a forma di campana e disposto su più ordini di palchetti lignei

Helen Frankenthaler: dipingere senza regole. La mostra a Firenze

Figura fondamentale nella seconda generazione di pittori astratti americani del dopoguerra, Helen Frankenthaler (New York, 1928 - Darien, 2011) si è imposta come una delle maggiori artiste della sua generazione. A questa donna, forse non molto nota fra il grande pubblico, Palazzo Strozzi dedica la retrospettiva, Helen Frankenthaler. Dipingere senza regole, mettendo insieme un’ampia selezione di opere realizzate tra il 1953 e il 2002.

LA FORMAZIONE E L’ASCESA

DI HELEN FRANKENTHALER

Con sguardo luminoso, il sorriso accennato, seduta a terra in una postura che trasuda sicurezza, fra mille colori che rispecchiano un sicuro talento: così si presenta la giovane artista, in uno scatto di Gordon Parks del ‘57. Proveniente da una famiglia colta e benestante, nel 1950 a ventidue anni mostra di sentirsi a proprio agio in quella realtà artistica sorta durante gli Anni Quaranta e frequentata da pittori musicisti scrittori d’avanguardia, che prenderà il nome di New York School. Il 1950 è un anno clou per Frankenthaler. Terminati gli studi conosce Clement Greenberg, critico d’arte del settimanale progressista The Nation e convinto assertore dell’Abstract Expressionism. Nessuno meglio di lui poteva introdurla e guidarla, nell’ambiente artistico-culturale di New York e suggerirle di perfezionarsi nella scuola di Hans Hofmann, che dal 1932 era stato maestro di numerosi esponenti dell’avanguardia americana. È proprio l’impatto con le opere di quest’ultimo ad averle suggerito, qualche tempo dopo, l’elaborazione della sua originale tecnica soak-stain. Nell’autunno dello stesso anno visita una personale di Jackson Pollock, dopo tre anni di dripping giunto all’apice della carriera. Ne rimane fortemente impressionata: “Lì c’era tutto. Volevo viverci in quella terra. Dovevo proprio viverci, e padroneggiarne il linguaggio”.

L’ESORDIO E LA FAMA

Il 1951 è l’anno dell’esordio di Helen Frankenthaler. Due sono le occasioni: una mostra collettiva in primavera, una esposizione personale in autunno. Alla prima partecipa insieme a una novantina di artisti della New York School, al Ninth Street Show. La ventitreenne pittrice espone accanto a Clement Greenberg, Elaine e Willem de Kooning, Joan Mitchell, Lee Krasner, Jackson Pollock, Robert Motherwell, Hans Hofmann, Ad Reinhardt, Robert Rauschenberg. L’evento fu accolto molto bene sia dalla

critica sia dal pubblico. La sua prima personale si tiene invece nella galleria Tibor de Nagy, editore e mercante d’arte di origine ungherese. La galleria, avrebbe raccontato l’artista, era dinamica e creativa, forniva opportunità: “Vi era un forte senso di cameratismo e di energia, di sperimentazione”. Si inserisce in un ambiente dove gli artisti non si limitano a parlare solo di pittura: discutono di spiritualità zen, di filosofia esistenzialista, di psicologia gestaltica. Un ambiente dove sono accostate la teoria di Pollock, il cui dripping sostiene l’automatismo della mano rispetto alla vigilanza dell’occhio, e quindi l’autonomia del dipinto rispetto alla consapevolezza del pittore, e la scrittura spontanea di Kerouac. Impressionata da tecniche e teorie degli espressionisti astratti, Frankenthaler riesce a instaurare un proprio stile e un metodo unico. Dedicandosi alle forme, al colore e privilegiando la luminosità

NUOVE PROSPETTIVE. IL 1952

È in questo contesto, nel 1952, che la ventiquattrenne Frankenthaler dipinge Mountains and Sea, un’opera destinata ad aprire nuove prospettive indirizzando l’arte americana verso gli Anni Sessanta. Con una tecnica nuova, l’artista fa cambiare rotta all’Abstract Expressionism spingendolo verso i nuovi orizzonti del color field painting e, in prospettiva, della Lyrical Abstraction. È così che apre, secondo alcuni, il varco che dall’eccitata tendenza emotiva e gestuale dell’action painting porta al più tranquillo e sereno linguaggio dei campi di colore, fino allo stile spontaneo e romantico che

avrebbe contraddistinto gli astrattisti lirici. Frankenthaler crea l’opera tornando da una vacanza a Cape Breton, nella parte settentrionale della penisola canadese della Nuova Scozia: inzuppa dall’alto il tessuto di una tela senza tenderla, riuscendo così a ottenere degli effetti fluttuanti simili a quelli dell’acquerello. È la nascita del soak-stain. Pur non essendo una dichiarata raffigurazione di paesaggi marini e montani della Nuova Scozia, il dipinto la rievoca con strisciate di blu che incrociano zone di verde. È l’alba di una nuova visione.

Dal 27 settembre al 26 gennaio HELEN FRANKENTHALER. DIPINGERE SENZA REGOLE

Curata da Douglas Dreishpoon

Palazzo Strozzi

Piazza degli Strozzi - Firenze palazzostrozzi.org

Helen Frankenthaler, Alassio, 1960, olio su tela, cm 216,5 × 332,7, New York, Helen Frankenthaler Foundation, © 2024 Helen Frankenthaler Foundation, Inc. / Artists Rights Society (ARS), New York.

Dietro le grandi mostre. Come viaggiano le opere d’arte

Chi può accedere alle sale delle mostre prima della loro inaugurazione incrocia spesso dei professionisti muniti di carrelli, avvitatori, livelle e che indossano magliette blu con il logo di Arterìa, una società leader in Italia per i trasporti di opere d’arte. Tanto per fare qualche esempio, nel 2024 ha movimentato i capolavori per le mostre Rome, the Eternal City del Tokyo Metropolitan Art Museum e Preraffaelliti a Forlì, e i bronzi di San Casciano per le esposizioni di Roma, Napoli, Reggio Calabria. L’amministratore delegato Antonio Addari ci spiega come si svolgono quelle operazioni delicate, e fondamentali, per l’organizzazione dei grandi eventi espositivi.

Ci racconta in breve la storia della vostra azienda?

Arterìa nacque nel 2000 per iniziativa del presidente Alvise di Canossa che acquisì quattro aziende storiche, incorporando le loro maestranze e i manager, con l’obiettivo di creare una società che potesse competere a livello internazionale nella movimentazione delle opere d’arte. Oggi abbiamo quattro sedi principali a Milano, Firenze, Roma e Venezia, più una all’aeroporto di Malpensa e un’altra più piccola a Torino; collaborano con noi più di cento professionisti tra autisti, imballatori, art handler, restauratori e personale per il coordinamento. Ci occupiamo anche di logistica per beni di lusso e per opere di collezioni private, gallerie, case d’asta.

Come si svolge il vostro lavoro?

Per prima cosa forniamo agli organizzatori delle mostre un budget. Nel momento in cui ci viene affidato l’incarico, redigiamo uno studio della logistica considerando le dimensioni delle opere, le provenienze, quali oggetti possono viaggiare su camion e quali in aereo. Contattiamo poi i prestatori per raccogliere le loro richieste sul tipo di imballaggio, sulla spedizione, sull’accompagnamento di un funzionario del museo. Si mette quindi a punto il programma degli arrivi e si stabiliscono i tempi per l’allestimento con l’organizzatore, quando è richiesto. Consegniamo quindi le casse, le apriamo e controlliamo le condizioni di arrivo (il controllo avviene anche in partenza e a chiusura della mostra), poi procediamo con l’allestimento e, a fine mostra, con il ritiro delle opere e la restituzione ai prestatori.

Come affrontate la questione della sicurezza? È cruciale evitare il danneggiamento dell’opera, ma se è imballata bene i rischi sono minimi: i camion hanno sospensioni pneumatiche, sono monitorati da remoto, non rimangono mai fuori la notte e non vengono mai abbandonati, quindi i furti sono quasi impossibili. Adottiamo inoltre soluzioni che regolano le condizioni di umidità e temperatura per scongiurare i danni per variazione microclimatica. Le aree di maggior rischio sono quella aeroportuale e le le fasi di allestimento della mostra: nella prima la movimentazione può essere fatta solo dal personale dell’aeroporto, che non ha una una formazione specifica ed è per questo che la “supervisione”

TRASPORTI SOSTENIBILI CON LA NAVETTA

A proposito di costi, Antonio Addari illustra un progetto di Arterìa che sta avendo successo: “Abbiamo attivato un servizio di sharing che, due volte alla settimana, collega gli aeroporti di Milano e Fiumicino con le nostre sedi. Riusciamo così a caricare su un camion più opere destinate alle mostre o per altre tipologie di servizi con budget più limitati. Oggi un un mezzo “Fine Art” con due autisti che percorre la tratta Roma-Milano può costare 2mila euro, mentre con la navetta il costo può limitarsi a 300 euro per una singola opera. Il vantaggio è doppio: ambientale ed economico”.

da parte di personale formato diventa importante. Durante le fasi di allestimento in sede espositiva è importante che non ci siano “interferenze” e che tutte le fasi di preparazione dell’allestimento siano terminate prima dell’arrivo della prima opera.

Come viene formato il vostro personale?

In Italia non esistono scuole di formazione e solo di recente alcuni istituti privati stanno creando dei percorsi formativi ad hoc. Il livello più problematico è quello relativo alla movimentazione delle opere: ci occupiamo internamente della formazione e affianchiamo i giovani al personale con maggiore esperienza per tutto il percorso di formazione.

Le operazioni di installazione della teca protettiva per l’opera di Piero della Francesca, la cosiddetta “Pala di Brera

MILANO

Dal 5 ottobre 2024

NIKI DE SAINT PHALLE

MUDEC - Museo delle Culture mudec.it

Dall’8 ottobre 2024

BAJ CHEZ BAJ

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Fino al 12 gennaio 2025

Fino al 24 novembre 2024

MILANO ANNI '60.

Da Lucio Fontana a Piero Manzoni, da Enrico Baj a Bruno Munari Palazzo delle Paure simulecco.it

Fino al 16 febbraio 2025 MARINA ABRAMOVIĆ

BETWEEN BREATH AND FIRE

Gres Art 671 gresart671.org

Museo di Santa Giulia bresciamusei.com GRANDI

GAE AULENTI (1927 – 2012)

Triennale - Palazzo dell'Arte triennale.org

Fino al 26 gennaio 2025

MUNCH Il grido interiore

Palazzo Reale palazzorealemilano.it

Dal 12 ottobre 2024

IMPRESSION, MORISOT

Dal 23 ottobre 2024

LISETTA CARMI

Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it

Dall’8 ottobre 2024

BAJ CHEZ BAJ Museo della Ceramica di Savona e MuDA – Museo Diffuso Albisola musa.savona.it/museodellaceramica

Dal 16 ottobre 2024

BERTHE MORISOT.

Pittrice impressionista

Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea .gamtorino.it

Dal 16 ottobre 2024

TINA MODOTTI. L’opera

Camera - Centro Italiano per la Fotografia camera.to

Fino al 27 ottobre 2024

BELLE ÉPOQUE. I pittori italiani della vita moderna. Da Lega e Fattori a Boldini e De Nittis a Nomellini e Balla

Palazzo Cucchiari palazzocucchiari.it

Fino al 30 novembre 2024 WALTER ALBINI. Il talento, lo stilista Museo del Tessuto museodeltessuto.it

Fino al 26 gennaio 2025

HELEN FRANKENTHALER: DIPINGERE SENZA REGOLE

Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org

fino al 20 ottobre

LOUISE BOURGEOIS DO NOT ABANDON ME Museo Novecento museonovecento.it

Dal 18 ottobre 2024 IL RINASCIMENTO A BRESCIA

Moretto, Romanino, Savoldo 1512-1552

Fino al 16 novembre 2024

ANTONIO LIGABUE A SORRENTO

Fondazione Sorrento fondazionesorrento.com

TRENTO

Fino al 20 ottobre 2024

DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL

TRENTINO

Museo del Castello del Buonconsiglio buonconsiglio.it

ROVERETO GORIZIA

Fino al 20 ottobre 2024

SURREALISMI.

Da de Chirico a Gaetano Pesce

MART - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto mart.tn.it

Fino al 27 ottobre 2024

ITALIA SESSANTA. Arte, Moda e Design. Dal Boom al Pop Palazzo Attems Petzenstein palazzoattems.regione.fvg.it

Fino al 15 dicembre 2024 IL SURREALISMO E L’ITALIA

Fondazione Magnani-Rocca Mamiano di Traversetolo magnanirocca.it

Dal 26 ottobre 2024

L’ETÀ DELL’ORO

Galleria Nazionale dell’Umbria gallerianazionaledellumbria.it

Fino al 24 novembre 2024 MONTE DI PIETÀ. Un progetto di Christoph Büchel Ca' Corner della Regina fondazioneprada.org

Fino al 27 ottobre 2024 CHAGALL. SOGNO D’AMORE

Castello Conti Acquaviva d’Aragona di Conversano

Fino al 31 ottobre 2025 MITORAJ. Lo Sguardo, Humanitas, Physis

Parco archeologico della Neapolis a Siracusa parchiarcheologici.regione.sicilia.it

Fino al 27 Ottobre 2024

TIZIANO, BELLINI, BRONZINO. Capolavori dalla Galleria Borghese a Palazzo Barberini Gallerie Nazionali di Arte Antica Palazzo Barberini barberinicorsini.org

Fino al 31 dicembre 2024 EMILIO ISGRÒ: protagonista 2024 La Galleria Nazionale lagallerianazionale.com

Fino al 19 gennaio 2025 BOTERO

Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it

Fino al 16 Febbraio 2025 ALLAN KAPROW. YARD MACRO – Museo d’Arte Contemporanea di Roma museomacro.it

SIRACUSA
ROMA
VENEZIA
PARMA
PERUGIA
BARI

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