PRERAFFAELLITI • GOYA • PICASSI E MIRÒ• GIOTTO E FONTANA• TOULOUSE-LAUTREC• RICHTER
38 DIETRO LE QUINTE DELLE GRANDI MOSTRE • LA MAPPA DELLE GRANDI MOSTRE
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PRERAFFAELLITI / FORLÌ
A Forlì Preraffaelliti e Old Master: un dialogo ininterrotto
Marta Santacatterina
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ei progetti del Museo Civico San Domenico di Forlì è sempre forte l’attenzione al possibile dialogo tra i linguaggi artistici delle varie epoche e quelli dell’Ottocento. Per la primavera 2024 il comitato scientifico ha scelto di concentrarsi sui Preraffaelliti, quel gruppo di artisti che, a metà del XIX secolo, ha saputo compiere un’autentica rivoluzione nell’Inghilterra vittoriana. E non solo lì, come emerge dal corpus di ben 320 pezzi che comprendono anche sculture e oggetti d’arte decorativa: dai disegni per vetrate a preziosissimi cofanetti, e poi maioliche, carte da parati, arazzi, oggetti d’arredo. Ma la peculiarità dell’esposizione è che per la prima volta i dipinti ottocenteschi vengono accostati a quelli degli “Old Master” italiani che hanno rappresentato i loro espliciti modelli. “Abbiamo raccolto circa 40 opere antiche”, spiega Cristina Acidini, una delle curatrici insieme a un team di studiosi italiani e internazionali “dai lavori di Cimabue, Giotto, Simone Martini, e poi di Guariento, Beato Angelico, Botticelli, che è uno dei
Dal 24 Febbraio al 30 Giugno 2024
PRERAFFAELLITI A cura di Cristina Acidini, Francesco Parisi, Liz Prettejohn e Peter Trippi Museo Civico San Domenico P.le Guido da Montefeltro, 12 - Forlì mostremuseisandomenico.it
miti più amati dal Preraffaelliti. Abbiamo ‘convocato’ anche, per l’area veneta, Giorgione, Tiziano, Veronese, Palma il Vecchio: modelli di riferimento meno famosi ma che hanno ispirato i canoni della bellezza femminile. Quelle donne opulente, dalle belle chiome, riprese in primo piano, sono tutte ‘figlie’ di Tiziano e di Palma il Vecchio”.
QUANDO GLI INGLESI SCOPRIRONO IL MEDIOEVO ITALIANO in alto: Edward Burne-Jones, William Morris and John Henry Dearle (designers), Morris & Co. (produttore, tessuto by Robert Ellis, John Keich, John Martin, and George Merritt), Arazzi del Santo Graal - L'Armamento dei Cavalieri, progettato nel 1890, tessuto nel 18981899; arazzo ad alto ordito con trama in lana e seta su ordito in cotone, Collezione privata a destra: Evelyn De Morgan, Flora, 1894, olio su tela. Barnsley, Trustees of the De Morgan Foundation Ford Madox Brown, Deposizione, 1868, olio su tela The Faringdon Collection Trust, Buscot Park, Oxfordshire
Nel 1848 in Italia si scatenarono le guerre di indipendenza. Nello stesso anno, in Inghilterra, la rivoluzione scardinò lo scenario artistico: “Tre giovanotti di circa vent’anni si discostarono dalla linea formativa della Royal Academy, dove pure erano studenti, non sopportando più gli stili dell’epoca. Si trattava di Dante Gabriel Rossetti, John Everett Millais e William Holman Hunt che decisero di rivolgersi alle suggestioni del gothic revival”, prosegue la curatrice. Nacque così la Confraternita dei Preraffaelliti, che elesse come riferimenti assoluti i capolavori italiani del Medioevo e del primo Rinascimento. Epoche la cui scoperta, in Gran Bretagna, avvenne soprattutto
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LA SORELLANZA La figura della donna è stata uno dei cardini della pittura preraffaellita. Sono ben note le vicende, anche tragiche, del rapporto tra Dante Gabriel Rossetti e le sue modelle, a cominciare dalla moglie Elizabeth Eleanor Siddall (che fu anche poetessa e pittrice, unica donna a esporre in una mostra dei Preraffaelliti nel 1857), a cui seguirono Fanny Cornforth e Jane Morris, consorte di William che è riconoscibile nell'opera di Rossetti esposta in mostra La donna alla finestra. Tuttavia le donne non furono solamente muse dei pittori preraffaelliti: i più recenti studi stanno infatti mettendo in luce il ruolo attivo della parte femminile che affiancava la Confraternita. Non si può non citare la sorella di Dante Gabriel, Christina Rossetti, che fu poetessa sensibile e che nella sua epoca era ritenuta una voce importante della cultura, poi dimenticata fino agli anni Settanta del Novecento. In mostra si convocano alcune delle esponenti di quella che si sta oggi delineando come una “Sisterhood”: ne sono esempi i lavori di Evelyn De Morgan, presente con Flora, splendida reinvenzione dell’allegoria di Botticelli, o ancora le testimonianze di Maria Eufrosyne Spartali Stillman e di May Louise Greville Cooksey.
grazie a John Ruskin, una figura chiave per la formazione degli artisti: “Fu lui a lanciare l’arte del passato divulgandola attraverso testi, illustrazioni e acquarelli”, spiega Acidini. “Basti pensare al successo che ebbero i suoi libri, quali ‘Le pietre di Venezia’ e ‘Mattinate fiorentine’”. Sull’onda dei viaggi di Ruskin, alcuni degli esponenti della Confraternita soggiornarono in Italia per studiare dal vivo i capolavori del passato, e in particolare Burne Jones giunse varie volte nel Belpaese. mentre Rossetti, nonostante le sue origini italiane, non mise mai piede nella Penisola. Il viaggio non era tuttavia l’unico metodo per studiare gli “Early Italian Painter”: “In quegli anni in Inghilterra stava infatti arrivando una grande quantità di opere italiane. Con l’età napoleonica molti luoghi di culto erano stati espropriati e i loro patrimoni requisiti, mentre andando verso l’Unità d’Italia le grandi famiglie si trovarono impoverite a causa dello spostamento degli equilibri politici e finanziari. Entrarono così sul mercato quantità massicce di opere che vennero acquistate alacremente dagli inglesi, dando luogo a collezioni straordinarie; fu in questo periodo che si formò la prima grande comunità museale di Londra, che poi diventerà la National Gallery” spiega Acidini.
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Watts è al centro della sezione dedicata al “venetismo”. Si indagano inoltre i ruoli che ebbero gli inglesi che abitavano a Firenze: “Non soltanto mandavano in Inghilterra fotografie o copie fatte da loro stessi, ma pure opere d’arte, perché erano anche mediatori e mercanti. Per loro tramite arrivarono in Inghilterra materiali straordinari”, racconta Acidini. Il cerchio si chiude con degli artisti italiani: anche nel nostro Paese, infatti, si sviluppò una sensibilità per il Medievale e il Rinascimento, ad esempio da parte di Giuseppe Cellini, Guido Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis: tutte figure che negli anni seguenti sfociarono nel Simbolismo e nell’Art Nouveau, accompagnando l’epilogo del Preraffaellismo.
COME SARÀ LA MOSTRA DEI PRERAFFAELLITI
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
Le opere realizzate prima di Raffaello fecero una profonda impressione negli artisti inglesi, ed ecco allora che gli Old Master sono protagonisti dell’incipit della mostra, ritornando pure in altre sale con accostamenti puntuali ai lavori dei Preraffaelliti. Dopo un focus su John Ruskin, segue l’approfondimento sulla nascita della Pre-Raphaelite Brotherhood. “La fase eroica e fondativa, trainata da Dante Gabriel Rossetti, comprende esempi molto importanti, come i primi studi su Dante Alighieri dello stesso Rossetti: emerge la tematica fondamentale dell’incontro tra Dante e Beatrice e l’interesse per la Vita Nova, quella produzione di prose e sonetti giovanili in cui il Sommo poeta racconta il suo amore totalmente immaginario”. Si ammira anche un dipinto di William Holman Hunt che raffigura Isabella e il vaso di basilico, una rivisitazione poetica di John Keats basata sulla novella di Boccaccio, a dimostrazione di quanto fossero importanti anche le fonti letterarie italiane. Il percorso prosegue con il secondo Preraffaellismo, basato sul sodalizio tra Rossetti, Edward Burne-Jones e William Morris. Quest’ultimo – che oggi chiameremo un grande designer – diede il via al movimento Arts and Craft, il cui stile informò per molto tempo l’estetica inglese, contribuendo al perdurare del gusto preraffaellita fino all’inizio del Novecento. La mostra accoglie inoltre espressioni cronologicamente lontane dal momento fondante, nonché diverse ispirazioni: Frederic Leighton, ad esempio, prese a modello anche Michelangelo e addirittura Guido Reni, mentre George Frederic
L’Abbazia di San Mercuriale, costruita nel XII secolo, che porta il nome del primo vescovo della città Le architetture di piazza Saffi, mix di epoche e stili, con la chiesa romanica di San Mercuriale i quattrocenteschi palazzo del Podestà e palazzo Albertini, l’architettura razionalista del palazzo delle Poste La Rocca di Ravaldino, classica fortezza difensiva medievale con torrioni circolari e mura a protezione della cittadella
Museo San Domenico
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GOYA / MILANO
Con Goya, l’artista diventa cittadino Stefano Castelli Fino al 3 marzo 2024 l sonno della ragione genera mostre”, si è cominciato a dire scherzosamente qualche tempo fa parafrasando Goya, per commentare la proliferazione di esposizioni non abbastanza ragionate: mostre che attraevano il pubblico di massa con un grande nome nel titolo per poi presentarne una ridotta quantità di opere minori. La stagione di Palazzo Reale di Milano smentisce questa tendenza, con un programma di livello che comprende tra l’altro proprio una mostra del rivoluzionario maestro spagnolo. Mentre la concomitante rassegna su El Greco (fino all’11 febbraio) soddisfa per ampiezza e importanza, quella su Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746-Bordeaux, 1828) non si struttura come retrospettiva completa, ma propone un affondo mirato che coordina approccio storico e sguardo contemporaneo. E va sottolineato per inciso come la compresenza dei due autori sia stimolante, perché in entrambi i casi ci si trova al cospetto di due anticipatori che, con sguardo retrospettivo, mettono in discussione (senza smentirla, ma sfumandola) la collocazione temporale del cambio di paradigma che a fine Ottocento/inizio Novecento scinde definitivamente antico e contemporaneo. Tornando a Goya, la mostra curata da Víctor Nieto Alcaide è intitolata La ribellione della ragione, e riunisce settanta opere tra dipinti e incisioni. Pur abbracciando a campione le diverse fasi della sua carriera, il percorso si focalizza in particolare sui momenti di deviazione, sulle successive rivoluzioni che superano i canoni dell’epoca e allo stesso tempo ripensano e modificano radicalmente la pittura dell’artista. L’allestimento dà il ritmo di queste evoluzioni, caratterizzato da una progressione dalla luce al buio, con l’intervallo del rosso che contrassegna il tema della guerra.
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DALLA CORTE AI TEMI POPOLARI
Nella prima sala, l’Annibale vincitore del 1771, l’Autoritratto al cavalletto del 1785, il Carlos IV e la Maria Luisa de Parma del 1789 gettano le basi del discorso, illustrando il punto di partenza della sua evoluzione stilistica dall’apprendistato al riconoscimento come pittore di corte, dunque come ritrattista di grande genio ma fedele ai criteri della committenza. La presenza in apertura dell’autoritratto facente parte del ciclo incisorio dei Capricci funziona come anticipazione di ciò che accadrà in seguito. La seconda sala introduce invece già il primo dei diversi passi fuori dai sentieri tracciati che si incontreranno nel corso della mostra. Pur rimanendo nell’ambito della corte, i dipinti affermano individualità in particolare nei temi “popolari”. Costituiscono uno degli apici
GOYA. LA RIBELLIONE DELLA RAGIONE A cura di Víctor Nieto Alcaide Palazzo Reale Piazza Duomo 12 - Milano palazzorealemilano.it
inaspettati della mostra le corride dipinte e incise e ancor più le piccole tele che illustrano momenti di gioco infantile. In quest’ultimo ciclo, in particolare, l’espediente pittorico raggiunge vertici altissimi nonostante o forse a causa della stilizzazione, colore e disegno si mescolano già alla perfezione (fenomeno che nella storia dell’arte si diffonderà solo diversi decenni dopo), lo sguardo è già “dalla parte del popolo” (come avverrà compiutamente e svelatamente solo a fine Ottocento con la pittura socialisteggiante).
GOYA, PITTORE SU COMMISSIONE
a destra: Francisco Goya (attribuito a) Il Colosso, post 1808, olio su tela, Museo Nacional del Prado, Madrid in basso: Francisco Goya, Il manicomio. Dalla serie “Cuadros de fiestas y costumbres”, 1808-12, olio su tavola, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Nel capitolo dedicato alle commissioni (si vedano qui tra l’altro La cattura di Cristo, 179799, San Francesco Borgia si congeda dalla sua famiglia, 1788 circa, e La Vergine con san Gioacchino e sant’Anna, 1786 circa) i temi della pittura sacra diventano il campo di una lotta inesausta e inesauribile tra buio e luce – e si instilla già il sospetto che, in Goya, le tenebre si guadagneranno definitivamente la scena. L’oscura grandeur della pittura dell’artista sboccia poi pienamente nelle sezioni successive, dove
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MODERNITÀ INCARNATA
Ma la rivoluzione deflagra e si infiamma definitivamente nelle ultime sale, intitolate rispettivamente Vigilare e denunciare; Goya e la guerra; La libertà critica e l’allargamento dell’immaginazione. L’artista diventa critico sociale, si congiungono arte e vita (non tanto con riferimento alla biografia dell’artista ma a ciò che gli succede attorno), la satira si ritaglia uno spazio di primo piano. Soggetti come
COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
sfilano i ritratti di stupefacente intensità che rimangono forse la sua produzione più nota e amata, o comunque quella dal tocco più immediatamente riconoscibile. Basti citare, qui la María Gabriela Palafox y Portocarrero, marquesa de Lazán (1804 circa), il Don Francisco García de Echaburu (1785 circa) o il Mariano Goya “Marianito” del 1813-15, in cui sembra di vedere già occhieggiare la successiva rivoluzione, quella di Manet. Nella sezione dedicata alle amicizie dell’artista in ambito illuminista, poi, ci si trova davanti a un altro momento di deviazione e straniamento. I volti dei ritratti qui riuniti abbandonano un po’ di maestosità per concedersi una caratterizzazione intensissima: l’inusitata resa del viso del Juan de Villanueva (1800-05) è, ad esempio, uno dei molti passaggi “perturbanti” della mostra. Manicomio, Processione di flagellanti, Scena di inquisizione (tutti e tre oli su tavola del 180812) vengono nobilitati pittoricamente senza essere addolciti - al contrario - e introducono alla nuova temperie oscura, infuocata e senza compromessi, per poi passare al tema della guerra: qui, il Colosso (posteriore al 1808) attribuito a Goya è un perfetto manifesto filosofico dei lati oscuri della società umana. Ad esso si affianca un’ampia selezione delle più importanti incisioni dell’artista, dai Disastri della guerra ai Capricci (in alcuni casi accompagnate dalla lastra appena restaurata). L’Autoritratto del 1815 e il Tío Paquete (1819-20 circa) rappresentano infine una sorta di riassunto di tutto quanto esplorato nel corso dell’esposizione, tele che appaiono come ricettacoli dell’oscurità del mondo ma che sono allo stesso tempo ricchi di vitalità, per quanto martoriata e dolente. L’esposizione milanese dimostra come con Goya l’idea di modernità politica e quella di Illuminismo si compiano a livello visivo, perché l’artista diventa pienamente cittadino. Entrano in gioco nella pittura l’analisi della situazione sociale e storica, l’idea di movimento dinamico
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La nuova Edicola Magenta, sorta dal recupero di un chiosco grazie all’associazione Zona Blu. Lo spazio espositivo su strada si propone come snodo culturale, con la collaborazione di un vivaio urbano, librerie indipendenti e uno studio creativo Le spettacolari sculture di Ron Mueck in mostra a Milano. In partnership con la Fondation Cartier, la Triennale presenta la prima esposizione italiana dell’artista iperrealista australiano e alle sue monumentali sculture Moiré Gallery, galleria e concept store di Ouafa Tahoun da poco aperta all’interno di un palazzo storico. Qui convivono oggetti di design, opere d’arte e installazioni, collezioni di haute couture
Palazzo Reale
della Storia (come invocazione del progresso oppure diagnosi di regresso), il confronto tra ideale e situazione storica contingente. E anche rimanendo in campo artistico, la rivoluzione di Goya è assoluta, perché anticipa la stagione dell’artista come individuo e creatore autonomo, non imbrigliato in canoni e precetti. Il che significa anticipare l’arte moderna.
DEL GROTTESCO E DEL BRUTTO: SI MOSTRA IL GOYA PIÙ PROSAICO Una delle grandi innovazioni di Goya è l’introduzione di un registro “basso” all’interno dei canoni della grande pittura. L’atmosfera del perturbante percorre tutta la sua opera e in varie fasi si concretizza in affondi relativi al grottesco, ai temi popolari, al “brutto”. Nella mostra milanese, la presenza di questi spunti costituisce un sottotesto del percorso espositivo. Il primo incontro con i temi popolari è quello con le Corride e i Giochi di bambini, dove la scelta del registro è un volano per l’innovazione formale. Ma anche nei ritratti celebrativi si insinua il germe del grottesco, che diventa poi conclamato in dipinti come El tío Paquete: la deformità del cieco madrileno ritratto da Goya non è meno “eroica” delle effigi su commissione dei sovrani, il brutto diventa soggetto a pieno titolo senza scale di valore con il bello classicamente inteso. Se il Manicomio e la Processione di flagellanti sono perturbanti soprattutto a livello di atmosfere, l’introduzione del grottesco nelle incisioni satiriche fa saltare qualsiasi convenzione. Il continuo sovrapporsi e ibridarsi tra l’uomo e la sua componente bestiale di questi fogli non ha nulla da invidiare a livello di efficacia all’arte satirica che si svilupperà nel Novecento durante la Prima Guerra Mondiale. Guerra che, ovviamente, è un tema fondamentale in questo ambito, un argomento che attraversa diversi cicli e che richiede di essere trattato secondo “canoni inversi” di bellezza e bruttezza.
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PICASSO E MIRÒ / MADRID / BARCELLONA
Finisce l’anno di Picasso. L’ultimo omaggio tra Madrid e Barcellona in dialogo con Mirò Picasso; due le visioni estetiche: lo stile Picasso e il linguaggio Mirò; due e diametralmente opposte anche le scelte di vita in reazione al regime totalitario in Spagna e agli orrori della guerra: il ritorno in patria di Joan, che si isola a Mallorca in un universo artistico intimo e simbolico; la violenta protesta espressa attraverso le immagini plastiche di Pablo, che sceglie l’esilio volontario in Francia fino alla morte. A raccontare tutto questo sono un centinaio di opere, provenienti da musei e collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, che dialogano con altrettanti pezzi appartenenti al fondo dei due musei di Barcellona, coinvolti anche in un interscambio di capolavori. Sulla collina del Montjuic, nelle sale progettate da José Luis Sert
Fino al 25 febbraio
MIRÒ PICASSO
Federica Lonati he Pablo Picasso (Málaga, 1881 - Mougins, 1973) e Joan Mirò (Barcellona, 1893 - Palma, 1983,) si conoscessero e che, negli anni Venti e Trenta, avessero frequentato lo stesso ambiente parigino e il circolo dei Surrealisti, è un fatto noto. Meno noto, invece, è che tra i due artisti spagnoli ci fossero amicizia e stima reciproche, che rimasero immutate anche negli anni di maturità e vecchiaia. Fra gli ultimi appuntamenti di questo Anno di Picasso, in cui è caduto il cinquantesimo anniversario della morte dell’artista, una mostra racconta il legame artistico e intellettuale con Joan Mirò, che come lui scelse di lasciare parte della propria eredità a Barcellona con la creazione di un museo, e un'altra è dedicata alla produzione del 1906, anno della trasformazione verso la modernità.
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IL SODALIZIO TRA PICASSO E MIRÒ A BARCELLONA
La mostra Mirò-Picasso, allestita fino al 25 febbraio, si configura come un evento unico e pieno di sorprese. Un’esposizione impostata sul doppio, sul dialogo e anche sulle differenze fra due figure fondamentali dell’arte del Novecento. Due le sedi: la Fundació Mirò e il Museu
Curata da Margarida Cortadella, Elena Llorens, Teresa Montaner e Sonia Villegas Museu Picasso e Fundació Mirò Barcellona fmirobcn.org museupicassobcn.cat Fino al 4 marzo
PICASSO 1906 La gran transformación Curata da Eugenio Carmona Museo Nacional Centro del Arte Reina Sofia - Madrid museoreinasofia.es
a sinistra: Pablo Picasso, Le Tre Ballerine, 1881–1973, olio su tela, 2153 × 1422 mm © TATE © Succession Picasso/DACS 2024 a destra: Joan Miró, Donna, uccello, stella (Omaggio a Pablo Picasso), 1966-1973, Olio su tela, 245 x 170 cm © Museo Nacional Reina Sofia
per la Fundació Mirò, sono stati trasferiti per l’occasione l’opus n.1 della serie de Las Meninas (1957) e un malinconico Arlecchino di Picasso, ritratto di Leonide Massine datato 1917. Nello storico Palazzo Berenguer de Aguilar, al Borne, sono ospitati invece l’Estrella Matinal di Mirò, una delle otto meravigliose Costellazioni, e LLama en el espacio y mujer desnuda, piccolo olio datato 1932 che rivaleggia per intensità di gesti e tinte forti con il Gran Desnudo en un sillón Rojo di Picasso, del 1929. In entrambe le sedi l'esposizione Picasso-Mirò di Barcellona segue le tracce del medesimo racconto cronologico sviluppate intorno a sette grandi temi trattati come tappe di un unico viaggio. L’incontro; la Parigi del Surrealismo; pittura e scrittura; anni di guerra; dall’assassinio della pittura alla ceramica; lo stile Picasso, il linguaggio Mirò; e, infine, Mirò che rende omaggio a Picasso, in vita e dopo la morte. Curati da Elena Llorens e Margarida Cortadella del Museu Picasso e da Teresa Montaner e Sonia Villegas della Fundació Mirò, gli allestimenti sono complementari e si basano sul confronto/raffronto fra temi, soggetti e tecniche artistiche, per sottolineare la mutua influenza, i progetti simili e le esperienze comuni dei due grandi maestri. È il caso della partecipazione “politica” al Padiglione della Repubblica durante l’Expo di Parigi del 1937: Picasso
PICASSO E MIRÒ / MADRID / BARCELLONA con Guernica e Mirò con un intervento murale realizzato direttamente sulle pareti del padiglione e purtroppo distrutto subito dopo; e ancora la presenza di entrambi alla decorazione monumentale del Quai Defense, a Parigi, negli anni Cinquanta, o come artisti ospiti al Richard Daley Center di Chicago, tra gli anni Sessanta e Settanta. Il frequente gioco di specchi, il raffronto serrato fra opere diverse per stile, ma simili per contenuti, permettono di individuare i tanti punti in comune nell’universo di Mirò e di Picasso: la medesima spinta innovatrice e il desiderio rivoluzionario di abbattere le convenzioni, di esplorare nuovi linguaggi (come la poesia e l’illustrazione per l’editoria) o di recuperare l’artigianalità nell’arte, con sculture, collage e opere in ceramica.
A MADRID UNA MOSTRA SULL’ANNO DELLA MODERNITÀ DI PICASSO
Diversa per impostazione critica, ma altrettanto rilevante per contenuti, è la mostra Picasso 1906. La grande trasformazione, allestita al Museo Reina Sofia di Madrid fino al 4 marzo. In questo caso, il curatore Eugenio Carmona ha scelto di circoscrivere il racconto biografico all’anno precedente la creazione de Les Demoiselles de Avignon, capolavoro oggi esposto al MoMa di New York che si considera l’opera simbolo della modernità in Picasso. Carmona raccoglie riflessioni sue e di altri studiosi per porre al centro della propria indagine il 1906, quando l’artista trascorre i mesi estivi a Gósol, località
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CRONOLOGIA DI UN RAPPORTO: PICASSO E MIRÒ PABLO RUIZ PICASSO (Malaga, 1881 – Mougins, 1973)
JOAN MIRÒ (Barcellona, 1893 – Palma de Mallorca, 1983)
1917
Barcellona Miró assiste al debutto di PARADE, spettacolo dei Ballet Russes con scene e costumi di Picasso
1920
Parigi Miró incontra per la prima volta Picasso
1921
Parigi Mirò espone alla Galerie La Licorne
1922
Parigi Mirò si installa nel atelier di rue Blumet 45
1924
Parigi Mirò assiste al debutto del balletto surrealista Mercure, con scene e costumi di Picasso
1930
Parigi Picasso e Mirò espongono collages nella collettiva alla Galerie Germans
1937
Parigi Picasso e Mirò partecipano entrambi al Padiglione della Repubblica spagnola all’Expo
1940
Barcellona/Palma di Mallorca Mirò ritorna in Spagna a causa dell’occupazione nazista in Francia. Picasso sceglie di restare a Parigi
1955
Parigi Picasso e Mirò partecipano alla decorazione della sede dell’Unesco
1963
Chicago Picasso e Mirò sono chiamati dal sindaco Dailey a realizzare opere d’arte pubblica per la città Barcellona Apre il Museo Picasso, per volontà del pittore e di un gruppo di amici catalani
1968
Barcellona Picasso dona alla città le 55 opere della serie Las Meninas. All’Hospital de Santa Creu si tiene la gran retrospettiva di Mirò organizzata dal Comune.
1973
Avignone Doppia esposizione di Picasso con le sue ultime opere.
1974
Parigi Mostra di Mirò al Gran Palais.
1975
Barcellona Apertura della Fondazione Joan Mirò
1981
Barcellona Mirò celebra l’amico Picasso nel centenario della nascita
L’ANNO DI PICASSO, UNA FESTA EUROPEA In virtù dei recenti accordi bilaterali, Pablo Ruiz Picasso avrebbe oggi il doppio passaporto: quello spagnolo di nascita e quello francese di residenza. Non è un caso che per celebrare il cinquantesimo anniversario della morte del grande artista – scomparso a Mougins, in Provenza, l’8 aprile del 1973 – sia nata per la prima volta una commissione bi-nazionale, guidata dai rispettivi Ministeri della Cultura, che ha coordinato un fitto calendario di mostre internazionali iniziato nell’autunno 2022 e che si concluderà nei primi mesi del 2024. L’eredità di Picasso, la straordinaria forza della sua arte e il fascino indiscusso della sua personalità sono tutt’ora vivi e sono il simbolo dell’arte del Ventesimo secolo, con tutte le sue contraddizioni. Per scelta del comitato delle celebrazioni, ciascuna delle mostre – che si sono svolte soprattutto in Spagna e in Francia, ma anche in Italia, negli Stati Uniti, in Svizzera, Belgio, Romania e Principato di Monaco - ha esplorato un tema specifico della vasta quanto eclettica produzione di Picasso, affrontando anche episodi o relazioni meno note all’interno della sua lunga biografia. Grazie soprattutto alla generosità di prestiti concessi dal Musée National Picasso di Parigi e dal Museu di Barcellona e alla proficua collaborazione con gli eredi del pittore, si sono potute ammirare opere meravigliose, spesso mai esposte in pubblico, che hanno permesso di fare luce su alcuni aspetti dell’arte di Picasso meno noti o persino inediti. Ne è emerso lo straordinario dialogo estetico con i maestri del passato, come Velázquez, Goya, El Greco ma anche Poussin; l’interscambio artistico e intellettuale attraverso le relazioni personali: con lo scultore Julio González, il mercante Daniel-Henri Kahnweiler, la stilista Coco Chanel, la collezionista e scrittrice Gertrude Stein, la prima compagna Fernand Olivier e l’amico Joan Mirò. E, non ultimo, alcune mostre hanno approfondito le tecniche del disegno e della ceramica nell’arte di Picasso, il rapporto fra sacro e profano nonché una rilettura in chiave contemporanea della sua opera. L’obiettivo delle commemorazioni è stato dunque consegnare alle nuove generazioni un’immagine di Picasso a 360 gradi, riletta alla luce dell’estetica contemporanea e depurata dagli stereotipi; forse, ma non del tutto, riscattata dalle accuse di misoginia.
dei Pirenei di Lérida, in compagnia della prima amante Fernande Olivier. All’epoca il giovane Picasso, concluso il cosiddetto periodo rosa, sperimenta nuovi linguaggi plastici, soprattutto attraverso il disegno del corpo nudo (maschile e femminile); si dedica inoltre alla rilettura di maestri come El Greco, Corot e Cézanne e scopre, gradualmente, le immagini dell’arte antica e primitiva: greci, iberi, egizi, etruschi, il romanico catalano e la cultura africana. Nelle sala del Reina Sofia sono esposte una serie di rappresentazioni di corpi nudi, perlopiù disegni su carta come Nudo con mani giunte, dell'Art Museum di Dallas, e i Due fratelli del Musée Picasso di Parigi; una sala intera è dedicata a Fernande, giovane donna dipinta in stile agreste, ispirato dall’ambiente di Gosol; e, tra tanti oggetti fonte di ispirazione, non mancano una serie di figure dalle fisionomie già marcatamente “primitive”, tra i quali bellissimi torsi e sculture in legno o in bronzo. Significativa la presenza a Madrid del celebre Ritratto di Gertrude Stein, dal Met di New York, non solo perché dipinto proprio nel 1906, in stile classico con tratti già primitivi, ma anche per sottolineare il livello transculturale dell’attività di Picasso, l’influenza delle avanguardie francesi e il ruolo svolto dalla scrittrice e collezionista americana nell’opera dell’artista spagnolo.
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GIOTTO E FONTANA / NUORO
Giotto e Fontana, lo spazio d’oro al MAN di Nuoro
Fausto Politino
L
o spazio è il problema cardine dell’arte figurativa fin dalle origini. Il nuovo progetto del Man di Nuoro, GIOTTO | FONTANA. Lo spazio d’oro, è impostato in tal senso, indagando il rapporto tra la ricerca spaziale di Lucio Fontana (Rosario, 1899 - Comabbio, 1968) e il senso dello spazio nelle creazioni di Giotto di Bondone (Colle di Vespignano - Vicchio, 1267 circa – Firenze, 1337), senza tralasciare la valenza simbolica del colore oro, che include la possibilità dell’infinito e dell’altrove.
L’ORO, GIOTTO E LA ROTTURA DELLA BIDIMENSIONALITÀ
Com’è concepita la spazialità dall’arte bizantina e medievale? L’ancoraggio al reale e la tridimensionalità tendono a perdere consistenza. Non ci deve essere “traccia di pesantezza terrena. Bisogna purificare la visione da
Fino al 3 marzo 2024
GIOTTO FONTANA. LO SPAZIO D’ORO Da un’idea di Chiara Gatti. Testi scientifici a cura di Andrea Nante Paolo Campiglio, Serena Colombo e Chiara Gatti MAN Nuoro via Satta, 27 - Nuoro museoman.it
a sinistra: Giotto (e bottega), Due apostoli, 1325-1330, Tempera e oro su tavola, Fondazione Giorgio Cini, Venezia a destra: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 196061, buchi, olio e graffiti su tela, MART Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2023
ogni contingenza”, scriveva Massimo Cacciari nel piccolo saggio Adelphi del 2007 Tre icone, se si vuole rendere visibile l’invisibile. Ciò che prevale è il fondo oro dei mosaici e delle tavole che sacralizza il manufatto artistico. L’oro non è concepito solo come colore: è un simbolo che rimanda al divino e che connota ieraticamente le figure dipinte nelle icone. Irrigidite in schemi prefissati che escludono l’espressività e il movimento, sono prive di corporeità. La quotidianità è inesistente, il vissuto è tagliato fuori. Del paesaggio neanche a parlarne. Poi arriva Giotto che fa saltare, mediante una nuova visione della realtà e dello spazio, la staticità delle immagini creando scene dinamiche e narrative. In che modo? “Bucando” la sacralità dello spazio. Il fondo oro si modifica: non è più lontana distaccata trascendenza, ma si trasforma in un cielo reale soggetto ai mutamenti atmosferici, diventa lucente e cristallino nelle giornate di primavera, rischiarato dalla luce della luna
GIOTTO E FONTANA / NUORO
La Cappella degli Scrovegni, dal nome del suo committente Enrico, fu affrescata in un tempo relativamente breve: dal marzo del 1303 al marzo del 1305. L’edificio rimase proprietà privata fino al 1880 quando si concluse la controversia tra la famiglia Foscari Gradenigo e il Comune di Padova che dopo averla acquisita la inserisce nel patrimonio della città. Il capolavoro di Giotto è l’affresco meglio preservato al mondo e la più elevata espressione del suo genio creativo. Affresco che occupa l’intera superficie interna della Cappella descrivendo la Storia della Salvezza in due percorsi diversi: il primo con le Storie della Vita della Vergine e di Cristo raffigurate lungo le navate e sull’arco trionfale; il secondo, che inizia con i Vizi e le Virtù visibili nella parte inferiore delle pareti maggiori, si conclude con l’imponente Giudizio Universale in controfacciata. e delle stelle, nell’oscurità. L’artista innesta il senso della terza dimensione. Basta guardare con attenzione la cappella degli Scrovegni a Padova, affrescata nel 1303-1305, dove progetta e realizza un’illusione architettonica: quella dei due coretti dipinti sulla parete di fondo, che sembrano la continuazione dello spazio reale della cappella. Giotto spazioso, lo definisce Roberto Longhi nel 1952, “per i due finti vani” che “bucano” il muro. Il grande pittore si allontana consapevole dall’astrazione rappresentativa, dalla bidimensionalità, dal linearismo e dalla frontalità, suggerendo che anche l’esperienza spirituale è inseribile in uno spazio tangibile. E che il fondo oro non è già più la condizione irreale della tradizione pittorica bizantina, ma il “mezzo per manifestare la Luce Intelligibile”.
IL DIALOGO CON FONTANA
La mostra tematica del Man quindi vuole far dialogare due autori che hanno influenzato nel profondo l’arte occidentale. Da un lato Giotto, il primo artista, per Ghiberti e Vasari, che abbia tratto ispirazione dalla natura e sia stato in grado di captare un’idea di realtà, e che sarà poi adottato da Novecento, il movimento che auspica il ritorno alle forme classiche e che riconosce a Giotto il merito di aver contribuito a definire l’idea occidentale della forma artistica. Due apostoli è la prima opera chiamata in causa. pubblicata per la prima volta da Miklòs Boskovits nel 2018. La raffinatezza e la grandiosità del disegno fanno ritenere che si tratti di un prodotto realizzato nella bottega e sotto la supervisione di Giotto, databile tra la metà e la fine del terzo decennio
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
LA CAPPELLA DEGLI SCROVEGNI, IL CAPOLAVORO DI GIOTTO
del Trecento. In una fase matura dell’attività giottesca. I due personaggi, nella loro solennità, sono perfettamente inseriti nello spazio. Uno spazio dorato, arioso, profondo. Come nella Maestà di Ognissanti, in cui la corte celeste, Madonna e Bambino compresi, sono inseriti in un ambiente concreto. L’infinito diventa realtà fisica, toccabile. E l’oro sembra abbandonare la propria valenza simbolica. Dall’altro Lucio Fontana, con il Concetto spaziale del MART di Rovereto. La scenografia nuova di Giotto si muta in uno spazio mentale realmente tridimensionale. L’artista di origine argentina non lo rappresenta ma lo costruisce. Lo crea. E lo può fare in quanto scaglia la mente oltre la superficie della tela per attingere a “un altrove da afferrare con le mani, da ghermire nella materia, da reificare in una immagine, in un corpo, in un volto o in un gesto”, come aveva precedentemente scritto la direttrice del Man Chiara Gatti. La fisicità del nostro ambiente, in cui siamo e in cui interagiamo con le opere, non è più opposta allo spazio ideale della creazione artistica, ma si lega ad esso mediante i buchi e le fenditure sulle tele. Tagli, buchi che non vanno interpretati secondo un’ottica distruttiva ma costruttiva, come aperture che si spalancano sull’enigma. Sono varchi che Fontana produce nella ricerca dell’oltre. Oltre che non sappiamo cosa sia. E neanche l’artista ne è a conoscenza. Ma lui non è obbligato a fornire risposte, solo a porre domande. E lo fa proponendo non un quadro nel senso tradizionale del termine ma un concetto. Come a dire che l’opera non tende a rappresentare qualcosa. Superando ogni legame con la residua tradizione figurativa è diventata un concetto reso visibile. “Scoprire il Cosmo”, sostiene Lucio Fontana, “è scoprire una nuova dimensione. È scoprire l’infinito. Così, bucando questa tela – che è la base di tutta la pittura – ho creato una dimensione infinita”. L’essere riuscito a concretizzare un’altra dimensione mentale è ancor più evidente nei dipinti d’oro. Oro che perde la propria connotazione cromatica per assumere quella dell’astrazione antinaturalistica, impossessandosi della totalità dello spazio. Oro che implica nella sua conformazione visivo-compositiva la luce stessa. Che diventa elemento plastico basilare quando Fontana realizza le prime sculture al neon. Il dialogo che la mostra propone a distanza di secoli è credibile. Condivisibile nel chiamare in causa due autori accomunati dalla stessa motivazione:
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La street art, che si ammira in primis in viale Sardegna, con il ciclo dedicato ad Angelo Caria e il murale de Il giorno del Giudizio di UndiciSei Squad, ma anche nella chiesa di Santa Croce e in piazza Italia Lo storico caffè Tettamanzi, salotto letterario della Belle Époque fondato nel 1875, dove si ritrovavano artisti e pensatori dell’epoca. Oggi è ancora sede di mostre d’arte L’impresa femminile Desacrè Design Sartoriale Creativo Ecosostenibile, al lavoro con tessuti e materiali non convenzionali per realizzare accessori di design e capi d’abbigliamento unici
MAN
la materializzazione dell’immateriale, la tensione verso l’infinito e il trascendente. Che ha alle proprie spalle una riflessione letteraria molto articolata, immersa nel tormento della pittura per la figurazione dell’assoluto. Uno nome per tutti, Georges Bataille, che declama la violenza che un artista/uomo fa a stesso per dire l’infinito che lo abita. Che lo tortura in modo esagerato per i limiti degli strumenti di cui dispone. Ma è una necessità alla quale l’artista non può sottrarsi: non può cessare di rispondere.
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TOULOUSE-LAUTREC / ROVIGO
Henri de Toulouse-Lautrec e la Parigi fin de siècle. La mostra a Rovigo Livia Montagnoli
I
manifesti pubblicitari, i disegni su teatri e bordelli, ballerine e circensi della Parigi fin de siècle, i dipinti che testimoniano la vivacità della scena artistica parigina a cavallo tra il XIX e il XX Secolo. Difficile imbrigliare l’attività di Henri de Toulouse-Lautrec (Albi, 1864 - Château Malromé, 1901), pur passato alla storia massimamente come primo artista “pubblicitario”, al lavoro per aziende e locali dell’epoca, in una definizione monolitica. Nato nella Francia meridionale, l’artista visse e interpretò con sguardo acuto e tecnica raffinata la fase di transizione tra Impressionismo ed Espressionismo, sperimentando la mondanità parigina da habitué dei ritrovi dei bohémien, ma dimostrando anche una spiccata visione imprenditoriale nell’intuire le connessioni che l’arte poteva stabilire con la pubblicità.
NELLA PARIGI FIN DE SIÈCLE
A Rovigo, la mostra a cura di Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard (direttrice del Museo Toulouse-Lautrec di Albi), con la collaborazione di Nicholas Zmelty per la parte grafica, si prefigge di raccontare la complessità dell’artista. E, attraverso di lui, mettere in scena la Parigi del tempo, crocevia artistico che avrebbe posto le premesse per le principali novità espressive del XX Secolo. Nel decennio tra il 1890 e il 1900, la capitale francese
fu uno dei principali centri culturali europei, polo di attrazione per quei giovani in cerca di nuove idee e confronti con una comunità artistica internazionale. L’Esposizione Universale del 1889 sublimò questa dimensione, mentre artisti provenienti da tutto il continente si ritrovavano in città, animando bistrot e cabaret, caffè e cenacoli intellettuali di ogni sorta, di giorno e di notte: la libertà di opinione e d’azione si affiancava alla libertà dei costumi. A promuovere l’appuntamento espositivo di
Palazzo Roverella è la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, e il sostegno di Intesa Sanpaolo. La mostra propone, accanto ai dipinti di Toulouse-Lautrec, anche una selezione dei suoi pastelli, beneficiando di prestiti da importanti musei americani ed europei, oltre che francesi; accanto stanno le opere di realisti, impressionisti, simbolisti, con cui l’artista condivise esperienze e momenti di vita quotidiana – a Parigi, il pittore si era stabilito a
TOULOUSE-LAUTREC / ROVIGO
COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
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Palazzo Angeli, da poco recuperato e oggi sede della Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Ferrara, affrescato alla fine del Settecento da Giovan Battista Canal La Pescheria Nuova, frutto di un ammodernamento ottocentesco del vecchio mercato ittico che ne ha valorizzato l’impianto neogotico e le decorazioni in stile Liberty
Palazzo Roverella
TOULOUSE-LAUTREC E LA PUBBLICITÀ. I MANIFESTI INFLUENZATI DAL GIAPPONISMO
Obbligatorio il focus dedicato agli immancabili affiches, i manifesti che Toulouse-Lautrec produsse con fare non troppo prolifico – qualità che invece caratterizzò il suo approccio al lavoro, nonostante la scomparsa prematura a 36 anni, per gli ictus provocati dalle complicazioni dell’alcolismo – ma con efficacia deflagrante, ispirato dalle stampe giapponesi, con tagli compositivi audaci, forme stilizzate e pose inconsuete, colori capaci di attirare l’attenzione. Un approccio evidenziato in mostra nella sezione sul giapponismo, che individua l’adesione dell’artista francese a metodologie compositive e arditezze prospettiche – che citano le rappresentazioni dell’ukiyo-e – ma anche il suo interesse per attori e figure del teatro.
LA VISITA ALLA MOSTRA DI PALAZZO ROVERELLA
Il percorso di visita si snoda attraverso oltre 200 opere, di cui 60 firmate da Toulouse-Lautrec, di cui si cerca di rappresentare l’intera attività superando le etichette troppo rigide attribuite
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L’ALTRO TOULOUSE-LAUTREC
Il tempio di Santa Maria del Soccorso, ribattezzato La Rotonda: il monumentale edificio ottagonale è riccamente decorato con teleri e sculture barocche, ma la sobrietà delle linee architettoniche tradisce la vicinanza di chi la progettò con il Palladio
Montmartre, e aveva esposto per la prima volta le sue opere al cabaret Le Mirliton di Aristide Bruant, nel 1885, anno in cui si legò sentimentalmente a Suzanne Valadon.
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alla sua opera. Un’opportunità per cogliere il gusto e le tendenze che orientavano la società dell’epoca, e approfondire vicende meno note covate dalla scena artistica parigina di fine Ottocento, come la parabola del movimento Dal 23 febbraio al 30 giugno 2024
“La semplice menzione del nome Toulouse-Lautrec evoca una sfilza di cliché e idee preconcette sulla Parigi di fine secolo, Montmartre e la bohème”. Non potrebbe essere più chiaro, Nicholas Zmelty, nel saggio a sua firma confluito nel catalogo della mostra di Palazzo Roverella. Più che paragonare Lautrec a un Emile Zola dell’arte – affibbiandogli ambizioni da cronista che non ha mai rivendicato – Zmelty preferisce evidenziare la sua insaziabile curiosità, che lo porta a catturate le vibrazioni del mondo contemporaneo, affinando quel tratto via via più sintetico che caratterizza soprattutto i suoi disegni e le litografie, a partire dagli anni Novanta del XIX secolo. Pragmatico ed epicureo al contempo, fu devoto principalmente “a un’indipendenza di spirito coltivata con accanimento fino alla fine dei suoi giorni”. Un artista soggetto “a incessanti evoluzioni e innovazioni della sua pratica”, precisa Fanny Girard nel saggio che scava nel processo creativo di Lautrec. Girard, direttrice del museo dedicato all’artista nella sua cittadina natale, sottolinea infatti come “formatosi presso artisti accademici, Toulouse-Lautrec abbia saputo attingere al bagaglio tecnico acquisito per inventare un nuovo linguaggio fluido e moderno, eccellendo nella pittura così come nel disegno, nei manifesti e nella litografia”. Persino nell’ultima opera dipinta, raffigurante un esame alla facoltà di medicina, si può apprezzare la voglia di sperimentare, attraverso “una materia colorata che si fa più presente”. Solo la morte prematura, nel 1901, metterà fine ai suoi esperimenti.
HENRI DE TOULOUSE - LAUTREC A cura di Jean-David Jumeau-Lafond, Francesco Parisi e Fanny Girard, con la collaborazione di Nicholas Zmelty Palazzo Roverella via Laurenti 8/10 - Rovigo palazzoroverella.com
a sinistra in alto: Henri de Toulouse-Lautrec, Etude de nu. Femme assise sur un divan, 1882, olio su tela, Albi, Musée Toulouse-Lautrec. Foto © F. Pons, Musée Toulouse-Lautrec, Albi, France a sinistra in basso: Henri de Toulouse-Lautrec, Divan Japonais, 1893, litografia a matita, pennello, spruzzo e retino su carta di cotone, mm 785,8 x 595,3. Museum of Fine Arts, Boston in alto: Henri de Toulouse-Lautrec, Docteur Gabriel Tapié de Céleyran, 1894, olio su tela, Albi, Musée Toulouse-Lautrec. Foto © F. Pons, Musée ToulouseLautrec, Albi, France
artistico francese Les Arts Incohérents, anticipatore di molte delle tecniche adottate dalle avanguardie del Novecento, come il Dadaismo. Tutte le opere del gruppo, date per disperse da oltre un secolo, sono state ritrovate nel 2018 e la mostra di Palazzo Roverella è la prima occasione per poterle nuovamente ammirare. C’è spazio anche per il mondo del cabaret artistico, rappresentato da Le Chat Noir, fondato nel 1881: il locale attirò da subito la schiera degli artisti simbolisti e anche uno dei litografi più interessanti del periodo, Henri Rivière, creatore di numerosi spettacoli di théâtre d’ombre che divennero rapidamente uno degli eventi notturni e delle attrazioni più ricercate della città. Mentre un salto temporale e spaziale introduce all’ultima sezione, che si concentra sull’opera di Toulouse-Lautrec come fonte d’ispirazione per gli artisti italiani del primo Novecento – da Ugo Valeri a Luigi Bompard e Anselmo Bucci –, attratti dalla libertà espressiva e dal tratto nervoso e fortemente grafico dell’artista francese.
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GERARD RICHTER / ST. MORITZ
Gerard Richter, ritorno in Engadina che pervade un dopoguerra difficile, tanto più in una Germania distrutta ed occupata che lo vedrà in fuga dalla Repubblica Federale verso le libertà d’Occidente. Così, spoglia di sovrastruttura direbbe Marx, la pittura di Richter si presenta nella sua natura artigiana, non partigiana e non schierata in senso politico, e questo anche quando agli inizi dipinge gerarchi nazisti e le loro vittime tratti da foto di giornali e album di famiglia.
RITORNO IN ENGADINA
Nicola Davide Angerame
C
he Gerard Richter (Dresda, 1932) sia uno dei massimi pittori viventi, le aste lo confermano, e ciò malgrado sia un pittore senza ideologia, senza un’assertiva filosofia dell’arte. Seguendo l’adagio di John Cage, a cui nel 2006 ha dedicato una serie di sei tele astratte che ora sono in mostra permanente alla Tate Modern di Londra, Richter sostiene anche lui: “Non ho niente da dire e lo dico”. Disarmato ma non per questo debole, il pittore tedesco non è però un “manierista”, non usa la citazione e non attraversa la storia dell’arte come un supermercato delle forme e degli stili, come Achille Bonito Oliva ha spesso teorizzato rispetto all’artista post-neoavanguardie. Il suo lungo sperimentare tecniche e approcci differenti serve ad alimentare una forma d’innocenza, dello sguardo come dello spirito, ben narrati in Opera senza autore, il film che Florian Henckel von Donnersmarck ha dedicato al pittore tedesco nel 2018.
PITTURA ARTIGIANA
Ma per capire la posizione di Richter nella storia dell’arte occorre considerare la sua capacità tecnica, per la quale ogni dipinto esprime una sintesi tra idea creativa e pratica
Fino al 13 aprile 2024
GERHARD RICHTER: ENGADINA a cura di Dieter Schwarz Segantini Museum Via Somplaz 30 - St. Moritz segantini-museum.ch
Gerhard Richter, Silsersee (Lake Sils), 1995. Olio su tela, 41 x 51 cm. Private Collection. Courtesy Sies + Höke, Düsseldorf © Gerhard Richter 2023
costruttiva, tra la qualità dell’occhio-mente e quella della mano. Richter non nutre l’ossessione per l’evoluzione del linguaggio pittorico che aveva Picasso, né partecipa delle angosce esistenziali che Rothko traduceva nella sua astrazione di profondità, eppure è tra di loro e con loro, in un certo modo. “Allievo” della Pop Art, così come di Fluxus, Richter propone una pittura “depurata” dal quel culto per gli ideali
Sulle orme di Giovanni Segantini e di Friedrich Nietzsche, che qui hanno trascorso parte della loro vita lasciando tracce indelebili, Richter torna ad esporre in Alta Engadina dopo circa trent’anni dalla sua personale presso la Nietzsche-Haus. Questa volta si tratta di un evento in più sedi, presso le abitazioni museo che furono del pittore italiano e del filosofo tedesco, più la nuova sede di Hauser & Wirth St. Moritz, che accolgono oltre 70 opere provenienti da musei e collezioni private, tra cui dipinti, fotografie dipinte, disegni e oggetti selezionati da Dieter Schwartz, uno dei massimi conoscitori del lavoro di Richter. Le opere esposte sembrano il controcanto visivo di quel che Nietzsche scriveva all’amico Carl Von Gersdorff in una lettera spedita da Sils-Maria il 28 giugno del 1883: “Ancora una volta sento che la mia vera patria e l’unico luogo di incubazione del mio pensiero è questo e nessun altro”. Forse, anche per Richter è stato un po’ così.
UNA CERTA IDEA DI PAESAGGIO
I primi dipinti di montagne di Richter risalgono al 1968, quando si allontana dalla figurazione (e dalle umane vicende) per avvicinarsi al sublime che la natura evoca, verso un’astrazione che spinge la pittura agli estremi. La mostra è il resoconto di uno sguardo inquieto che attraversa generi e mezzi per imporsi una libertà che ha reso il lavoro di Richter così emblematico. Il suo paesaggio montano, molto diverso da quello di Segantini, appare come un soggetto ben adatto per allestire l’incontro e lo scontro tra fotografia e pittura. Gli effetti fotografici della sfocatura, che appaiono in opere quali St.Moritz del 1992 o in Silsersee del 1995, così come la pittura applicata sulla stampa fotografica (Piz Bernina o Silsersee, Maloja, entrambi del 1992), confermano Richter come pittore foto-irrealista, come artista che aspira alla conciliazione tra l’occhio meccanico registratore di realtà e l’occhio pittorico che, nel suo resistere al fascino della macchina, applica La pittura come forma di difesa.
INTERVISTA AD ANDREA ISOLA
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Come nasce una grande mostra. L’exhibition designer Andrea Isola Ci illustri gli step che portano dall’idea al taglio del nastro di una mostra? Per prima cosa incontro i committenti e faccio con loro i sopralluoghi alla location, quindi studio il tema della mostra, gli artisti esposti, il progetto curatoriale in modo da capire cosa si intende comunicare al pubblico. In questa fase valuto anche le tipologie delle opere (dipinti, sculture o installazioni) e individuo le criticità. Segue la progettazione in 2D e in 3D, cercando di disegnare il percorso che devono fare i visitatori nonché di armonizzare l’allestimento con il tema. Una volta raggiunta un’idea condivisa con i clienti, scelgo i fornitori che devono realizzare pareti, teche, grafica, colori ecc. Infine coordino l’organizzazione del cantiere sulla base di un cronoprogramma, con costante supervisione fino all’opening.
Andrea Isola, Credits Camilla Ferrero, 2023
Marta Santacatterina
Cosa succede quando capitano degli imprevisti dell’ultimo minuto? Io mi ripeto sempre un mantra: “Non ci si deve mai affezionare alle proprie idee”. Può succedere che si debba cambiare la posizione di un’opera, ad esempio perché vedendola dal vivo si capisce che sta meglio altrove, e accetto sempre queste modifiche se hanno un senso. Capitano anche imprevisti relativi ai trasporti, e in
questo caso cerco di risolvere la situazione in modo che la mostra abbia comunque la sua logica. In questo mestiere la flessibilità è doverosa e bisogna sempre tener presente che l’allestimento deve essere funzionale all’esposizione. Qual è stato il progetto più sfidante? La sfida più importante è stata la prima volta che ho progettato da solo e per intero Unfair a Milano. Il cantiere è durato molte settimane e gli stand da allestire erano davvero tanti. Qual è il carattere distintivo dei tuoi progetti? L’accessibilità universale, a cui in pochi pensano. Ad esempio per la mostra di Ligabue alla Galleria Bper di Modena (2022) ho progettato pareti e vetrine in modo che anche i visitatori in carrozzina potessero avvicinarsi alle opere per osservarne i particolari. Dove vedremo i tuoi allestimenti nei prossimi mesi? Sto progettando lo stand di Allemandi per Artefiera a Bologna, oltre a una nuova mostra che inaugurerà in aprile sempre alla Galleria Bper. Per inizio maggio allestirò invece Exposed, il nuovo festival di fotografia di Torino e la nuova edizione di Unfair.
A
ndrea Isola è un exhibit designer. Ma cos’è, esattamente, un exhibit designer? “È un progettista di allestimenti di mostre e fiere d’arte” ci spiega Isola. “In sostanza io sono un architetto del mondo dell’arte e mi occupo della progettazione di mostre, stand, fiere, festival d’arte. Tra i miei committenti ci sono fondazioni, gallerie e altre organizzazioni”. Per Andrea Isola l’allestimento deve riunire in un’unica idea progettuale il tema della mostra, le opere e la location. Abbiamo rivolto alcune domande al professionista, in modo da sviscerare tutti gli aspetti del suo lavoro che fonde tre fattori fondamentali: “Il tema, le opere e la location, che non possono mai andare in contrasto l’uno con l’altro”. Quali sono i plus che offri ai tuoi clienti rispetto ad altre figure che allestiscono mostre? Lavoro da molti anni nell’ambiente dell’arte, ho a che fare con tutti i professionisti del settore e sono specializzato proprio nell’allestimento delle mostre. Leggo, studio, visito esposizioni e ho quindi maturato un profilo dedicato a questa mansione. Poi mi occupo di tutti gli aspetti dell’allestimento e consegno il risultato “chiavi in mano”, senza che il committente debba trattare con i fornitori o gestire altri aspetti tecnici.
Mostra All These Fleeting Perfections, Biblioteca Civica A.Geisser, Torino, credits Nicola Morittu
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GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE
MILANO
GALLARATE
BRESCIA
Fino al 3 marzo
Fino al 7 aprile
Fino al 9 Giugno
GOYA La ribellione della ragione Palazzo Reale palazzorealemilano.it
DADAMAINO 1930 – 2004 Museo MA*GA museomaga.it
I MACCHIAIOLI Palazzo Martinengo bresciamusei.com
Fino al 10 marzo RODIN E LA DANZA Mudec - Museo delle Culture mudec.it Fino al 10 marzo RON MUECK Triennale Milano triennale.org
TORINO Fino al 10 giugno LIBERTY. Torino capitale Palazzo Madama Museo Civico d’Arte Antica palazzomadamatorino.it Fino al 1 aprile 2024 HAYEZ L’officina del pittore romantico GAM - Galleria civica d’arte moderna e contemporanea gamtorino.it
MANTOVA Fino al 18 febbraio RUBENS! La nascita di una pittura europea Palazzo Te centropalazzote.it
GENOVA Fino al 7 aprile CALVINO CANTAFAVOLE Loggia degli Abati - Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it BOLOGNA Fino all’11 febbraio GUERCINO NELLO STUDIO Pinacoteca Nazionale di Bologna pinacotecabologna.beniculturali.it FIRENZE Fino al 7 aprile ALPHONSE MUCHA. La seduzione dell’Art Nouveau Museo degli Innocenti arthemisia.it Fino al 3 aprile NAMSAL SIEDLECKI. Endo Museo Novecento museonovecento.it NUORO Fino al 3 marzo GIOTTO, FONTANA Lo spazio d'oro MAN - Museo d’arte Provincia di Nuoro museoman.it
GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE ROVERETO
PADOVA
Fino al 3 marzo
Fino al 12 maggio
DÜRER. Mater et melancholia MART mart.tn.it
DA MONET A MATISSE. French Moderns 1850-1950 Palazzo Zabarella zabarella.it TRIESTE Dal 22 febbraio al 30 giugno VAN GOGH. Capolavori dal Kröller Müller Museum Museo Revoltella museorevoltella.it VENEZIA Fino al 18 marzo MARCEL DUCHAMP E LA SEDUZIONE DELLA COPIA Collezione Peggy Guggenheim guggenheim-venice.it FERRARA Fino al 25 febbraio
FORLÌ Fino al 30 giugno PRERAFFAELLITI. Rinascimento moderno Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it
ACHILLE FUNI. Un maestro del Novecento tra storia e mito Palazzo dei Diamanti palazzodiamanti.it ROMA Fino al 1 aprile ESCHER Palazzo Bonaparte mostrepalazzobonaparte.it Fino al 5 aprile FIDIA Musei Capitolini, Villa Caffarelli museicapitolini.org Fino al 5 aprile AALTO - Aina Alvar Elissa. La dimensione del progetto MAXXI maxxi.art
NAPOLI Fino al 7 aprile NAPOLI AL TEMPO DI NAPOLEONE Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano gallerieditalia.com
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