Fantasmagorie dell’alterità. Pierre Huyghe a Venezia
Chi s’appresta ad entrare a Punta della Dogana a Venezia non è “ogne speranza” a dover lasciare, bensì ogni certezza. La catabasi orchestrata da Pierre Huyghe (Parigi, 1962) ci invita, più che a vagare in una fatale e ultraterrena dimensione, a immergerci in un abissale luogo di passaggio: un interstizio di futuro in cui l’umano è compreso e al tempo stesso negato, per fare spazio a tutto quello che umano non è.
LIMINAL: UNA MOSTRA VIVENTE
L’esposizione, nata dalla collaborazione tra Huyghe e la curatrice Anne Stenne, si rivela quindi una condizione transitoria e complessa, in cui le tematiche care all’artista si intrecciano in sottili giochi di rimandi. Ad accogliere il visitatore, un primo livello di crisi: l’invadente oscurità che avvolge gli spazi di Punta della Dogana. Affrontarla significa innanzitutto mettere in discussione l’affidamento sulla nostra percezione, attraversando una soglia che conduce all’estroflessione del sé. Predisporsi alla ventura delle tenebre è il primo passo per esperire una mostra che si presenta come un organismo vivente e mutevole. Molte delle opere presenti sono dotate di una continua e imprevedibile evoluzione, guidata dalla rilevazione di impulsi da parte di sensori disposti nello spazio espositivo e alla loro rielaborazione in tempo reale attraverso sistemi di intelligenza artificiale: è questa contingenza a determinare il montaggio del video Camata – in cui un gruppo di macchine paiono compiere un rituale su uno scheletro umano nel deserto cileno di Atacama – o a modificare i colori e i suoni della vaporosa installazione Offspring
Allo stesso modo, le luci degli acquari che compongono Circadian Dilemma (El Dia del Ojo) – contenenti le due varianti (cieca e vedente) dei pesci Astyanax Mexicanus – si spengono e si accendono in base in base a ciò che accade nell'ambiente circostante. Al centro dell’interesse di Huyghe vi è dunque la possibilità di innescare processi che, partendo da condizioni precostituite, si evolvano indipendentemente, accogliendo le variazioni determinate dal caso e dall’ambiente come parte dell’opera stessa.
OLTRE L’UMANO
Prendendo in considerazione agentività umane, animali e artificiali, la mostra di Huyghe si configura come un’entità ibrida, una chimera le cui parti riecheggiano l’una nell’altra, replicandosi o ribaltandosi costantemente. Se in Idiom i performer si aggirano nelle tenebre con il volto nascosto da una maschera dorata e luminescente, che produce i fonemi di una lingua inventata in tempo reale, la protagonista del video-simulazione Liminal (opera che dà il titolo alla mostra) vaga nuda in una landa para-lunare, dello stesso colore della sua pelle: al posto del suo viso, una cavità che si apre su un cranio vacante, oscuro, che accoglie e inghiotte la fioca luce esterna. Tramite l’elisione del volto, ovvero di ciò che più di ogni altra cosa incarna l’espressività umana, il corpo si rivela nella banalità dell’assemblaggio delle sue membra, privato della sua facoltà di esprimere i propri turbamenti e dunque di generare empatia. Parallelamente, in altre opere le fattezze umane vengono abitate da menti e fisicità non umane: è il caso del granchio eremita dell’acquario Zoodram 6, che vive all’interno della riproduzione della scultura Musa dormiente di Constantin
Brâncuși, raffigurante appunto un volto femminile. Forse quello assente in Liminal. Ma soprattutto è il caso di uno dei video più curiosi della mostra: Human Mask, in cui una scimmia si aggira nei locali vuoti di un ristorante di Fukushima, indossando una maschera umana e una parrucca. Il disturbo generato dall’incontro del maldestro travestimento e i gesti umani (come quello di passarsi i capelli tra le dita) è il veicolo di riflessioni sulle problematiche dell’umanizzazione del non umano, soprattutto alla luce del fatto che il video è ispirato a un episodio analogo a cui l’artista ha realmente assistito.
L’installazione di Klaus Littmann per la Biennale di Venezia 2024: un albero e una nuova isoletta in mezzo alla Laguna
Il rinnovato Palazzo Diedo, spazio di produzione artistica e mostre della Berggruen Arts & Culture
Le nuove gallerie, da Tommaso
Calabro a Capsule Shanghai fino alla nuova sede delle Galerie
Negropontes
INTERVISTA ALLA CURATRICE ANNE STENNE
Alla base della mostra vi è una stretta collaborazione tra te e l’artista: in che modo si è articolata?
Per me il concetto di curatela è molto vicino a quello di produzione per un artista come Huyghe. Con questa prospettiva, negli ultimi dieci anni ho lavorato con lui in quasi tutti i suoi progetti, a partire dal concepimento delle opere, passando dal coinvolgimento di tutte quelle professionalità che ne permettono l’esistenza (architetti, scienziati, biologi, giardinieri, ecc.), fino ad arrivare all’esposizione: per Huyghe è difficile immaginare l’opera senza considerare il contesto espositivo. Le mostre che abbiamo organizzato, così come quella a Punta della Dogana, non sono mai una mera raccolta di opere, ma un milieu, un ambiente che evolve nel corso del tempo.
NASCITA, MORTE, RINASCITA
Quella di Pierre Huyghe a Punta della Dogana è un’esposizione stratificata come poche altre, fatta di cornici e nervature che dal particolare sfociano nell’esistenziale senza soluzioni di continuità. Perché se questa mostra parla di vita, parla anche necessariamente di nascita, sesso e morte: punti collegati l’uno all’altro da una linea che non è retta bensì curva e, per la precisione circolare. Al principio e al termine della mostra sono esposti rispettivamente il calco di un ventre gravido in basalto e una coltura di cellule tumorali umane: nonostante la loro estrema carica mortifera, tuttavia, le variazioni della loro velocità di riproduzione risultano nella generazione di un video morphing, dal quale Huyghe ha poi modellato una creatura biomorfa. La continuità fra morte e nascita è sottolineata dalla possibilità, una volta conclusa la visita, di ricominciarla attraversando il varco che separa il principio e la fine della mostra; ma è oltremodo racchiusa in un video (De-extinction, 2014) che sembra perfettamente spiegare la locuzione francese che battezza l’orgasmo “petite mort”: una sequenza di riprese realizzate con telecamere macroscopiche e microscopiche rivela, all’interno di una pietra d’ambra, l’amplesso di due insetti preistorici, vissuti un milione di anni fa e cristallizzati per sempre nel momento in cui i loro addomi si incontrano. Per una mostra che sembra indagare il futuro, lo sguardo così ravvicinato ad un passato tanto distante non può che sottolineare una condizione del vivente (e non solo) libera da ogni cronotopia, e dunque inevitabilmente ancorata ad un eterno presente.
Una caratteristica importante della mostra è la sua capacità di modificarsi in base a stimoli interni ed esterni riprocessati dall’intelligenza artificiale. Possiamo quindi parlare di una co-autorialità tra artista, macchina e ambiente?
Credo che quello che Pierre intenda fare è porre i presupposti per la formazione di una volontà, esplorando le condizioni di possibilità e impossibilità. Nel catalogo della mostra, il filosofo francese Tristan Garcia si riferisce a Pierre Huyghe come a un “involontario inventore di volontà”: l’incertezza è la condizione dell’evoluzione delle sue creazioni e della loro esistenza così come della decentralizzazione dell’idea del sé. Si viene dunque a creare una dimensione esterna dalla quale è la creatura a guardare il suo creatore, e non solo il contrario. Non parlerei di co-autorialità, ma di co-esistenza e sviluppo autonomo a partire da condizioni predeterminate.
Qual è stata la sfida maggiore nella realizzazione della mostra a Punta della Dogana? Negli ultimi anni Pierre ha lavorato su tanti progetti site specific. In questo, la sfida era portare il suo lavoro all’interno di un edificio con delle caratteristiche specifiche e poco modificabili (non potevamo, per esempio, scavare nel pavimento o aprire il soffitto, com’è successo in altri contesti). Tuttavia, tali restrizioni ci sono apparse come opportunità per sfidare il suo solito processo creativo e lavorativo, e quindi come occasioni di crescita.
Il panorama teorico e speculativo legato al postumanesimo oggi è guidato dalle posizioni (talvolta contrastanti) di pensatrici e
pensatori come Donna Haraway, Rosi Braidotti e Nick Bostrom, tra gli altri. In che modo la pratica di Huyghe si inserisce in questo contesto?
Le tematiche dell’umano, del non umano e del postumano sono molto presenti nella pratica di Huyghe sin dal suo principio. Certamente la forma in cui queste tematiche si offrono muta e si evolve, ma la questione della decentralizzazione del sé rimane capitale e accomuna il lavoro di Huyghe alle ricerche dei filosofi che hai citato, ma anche a quelle di Federico Campagna e Reza Negarestani, in particolare per quanto riguarda il ruolo presente e futuro delle rovine. In passato ha esplorato soprattutto la questione della contingenza dell’accidentale nella materia vivente, mentre ora lavora anche con aspetti tecnologici per i quali, tuttavia, Huyghe non ha particolare fascinazione: nella sua prospettiva, l’intelligenza artificiale e le nuove tecnologie che adopera sono strumenti di narrazione, che aiutano a creare situazioni qui nous échappe, che sfuggono al nostro controllo. Credo che, al di là delle dimensioni filosofiche, siano quelle poetiche e speculative a costituire il fulcro della pratica di Pierre Huyghe.
In che misura possiamo parlare di fantascienza per quanto riguarda il lavoro di Huyghe?
Certamente la fantascienza è un’importante fonte d’ispirazione per narrazioni, come quella di Huyghe, che indagano le dimensioni dell’impossibile. L’oscurità in questo senso è centrale, in quanto elemento che pratica una distorsione spaziotemporale, come un ponte che unisce opere che si estendono dall’archeologia alle ipotesi di futuro; una distanza che è essenzialmente mediata dal racconto.
Fino al 24 novembre 2024
PIERRE HUYGHE
LIMINAL
A cura di Anne Stenne
Punta della Dogana – Venezia
in alto: Pierre Huyghe, Untitled (Human Mask), 2014, Pinault Collection, Courtesy of the artist; Hauser & Wirth, London; Anna Lena Films, Paris, © Pierre Huyghe, by SIAE 2023
in basso: Pierre Huyghe, Mind’s Eyes, Courtesy of the artist and Galerie Chantal Crousel, Marian Goodman Gallery, Hauser & Wirth, Esther Schipper and TARO NASU
NEBULA
BASEL ABBAS AND RUANNE ABOU-RAHME GIORGIO
ANDREOTTA CALÒ SAODAT ISMAILOVA
BASIR MAHMOOD CINTHIA MARCELLE AND TIAGO MATA MACHADO DIEGO MARCON
ARI BENJAMIN MEYERS
CHRISTIAN NYAMPETA
FONDAZIONE IN BETWEEN ART FILM 17.04—24.11 2024
COMPLESSO DELL’OSPEDALETTO VENEZIA
Guercino, il mestiere del pittore. La mostra a Torino
A ROMA, CON PAPA GREGORIO XV, E L’ATELIER-AZIENDA
IGiovanni Francesco Barbieri (Cento, 2 febbraio 1591 – Bologna, 22 dicembre 1666), detto il Guercino per via dello strabismo, rappresenta un tipo psicologico tra il workaholic ed il self made man, uno che sacrifica tutto sull’altare del proprio talento. Già infante, e senza alcune educazione specifica, dipinge sul muro esterno della casa natia una Madonna, che lo farà notare prima dai genitori, perduti prematuramente, poi da maestri e mentori, tra cui spicca il suo talent scout, il canonico Antonio Mirandola.
Nell’adolescenza centese, mentre lo Stato Pontificio conquista il ducato estense di Ferrara, Guercino frequenta pochi e scarsi maestri, ma un’opera gli è quasi sufficiente per apprendere il linguaggio e lo stile di una nuova relazione tra la realtà, la pittura e la luce: quella Madonna col bambino dipinta nel 1591 da Ludovico Carracci che lo inizierà a quella retorica delle passioni fino ad allora sconosciuta e che anni dopo, nel 1617, lo elogerà come “mostro di natura e miracolo da far stupire”. Guercino sfrutta la precoce fama e fonda la sua Accademia del nudo, a cui accorrono 23 alunni, anche dalla Francia. L’anno successivo visita Venezia, dove riceve il plauso di un Palma il Giovane estasiato dai suoi disegni. Studia i maestri veneti e apprende quel “tinger di forza” che rende la sua pennellata più sprezzante e di un colorismo più vigoroso. Ciò si aggiunge al suo linguaggio schietto e popolare con cui trasforma i miti classici in narrazioni vivide e drammatiche.
Quando il cardinal Alessandro Ludovisi, che lo ha sempre ammirato, sale al soglio pontificio come Gregorio XV, Guercino lo raggiunge nella Roma del nepotismo e del culto controriformista delle immagini per creare alcune delle sue opere più alte. Sono tre anni di lavoro ispirato ma anche di promesse infrante, come quella di affrescare la Loggia della Benedizioni in San Pietro che sfuma quando il pontefice e protettore muore nel 1623.
Rientrato a Cento, Guercino lavorerà nei decenni successivi in terra natale. Grazie a ciò potrà organizzare la sua bottega come una vera azienda, con regole ferree e compiti assegnati.
Fino al 28 luglio 2024 GUERCINO IL MESTIERE DEL PITTORE
A cura di Annamaria Bava e Gelsomina Spione
Musei Reali
Piazzetta Reale, 1 – Torino
in alto: Guercino, San Matteo e l’angelo, 1622, olio su tela, 120 x 180 cm Roma, Musei CapitoliniPinacoteca Capitolina
La mostra di Robert Capa e Gerda Taro da Camera – Centro italiano per la fotografia
La nuova galleria Edge Art Space, con artisti che rivoluzionano la pittura e una curatela di taglio sperimentale
Il debutto del primo grande Torino Foto Festival, in calendario da maggio a giugno con 29 mostre in 23 sedi
Quarantenne, rifiuterà sia di prender moglie sia gli inviti delle corti d’Inghilterra, della regina di Francia, Maria de’ Medici, e poi di Luigi XIII. Restare libero e prolifico è il suo obiettivo. La trasparenza è un valore e nel suo “Libro dei conti” annota ogni vendita: una miniera per gli storici dell’arte e uno strumento per la futura fama. Dotato di tariffario e tempi di attesa, l’atelier del Guercino è una macchina moderna che mal sopporta gli intermediari e i trafficoni. Il lavoro procede celato, nessuno può vederlo dipingere, tranne il suo copista Bartolomeo Gennari: ogni nuova creazione, infatti, viene copiata più volte e ogni copia venduta per un terzo del prezzo dell’originale, ma soltanto dopo che l’originale sia stato consegnato. Non c’è spazio per la sregolatezza, soltanto per il genio, anche organizzativo.
LA MOSTRA A TORINO
E IL PERIODO STORICO
Dopo la riapertura della Pinacoteca Civica di Cento, danneggiata dal terremoto del 2012, la Pinacoteca Nazionale di Bologna ha organizzato una monografica del pittore centese e un’altra giungerà in autunno alle Scuderie del Quirinale. Quella nella capitale sabauda rappresenta un capitolo fondamentale per quantità dei temi affrontati e per qualità delle opere. Il catalogo (Skira editore) è ricco di studi e di analisi di quel mestiere del pittore di cui Guercino
è l’emblema. Lui è un ingranaggio principale del sistema dell’arte della prima metà del Seicento, quando il Manierismo lascia il campo al Barocco. Galileo è costretto all’abiura nel 1633 ma gli ideali di una conoscenza metodica del reale iniziano ad imporsi dentro una rivoluzione scientifica che è nata a metà Cinquecento ma che matura nella filosofia empirista di Bacone (il Novum Organum è del 1620) e nel razionalismo di Cartesio (il Discorso sul metodo data 1637). Sacro e profano s’intrecciano nella danza degli affetti. Miti pagani, eroi ed eroine della storia antica, Ercoli e Sibille (una delle dieci sezioni della mostra è dedicata a loro) sono soggetti validi al pari di Madonne e Padri eterni (ve ne sono almeno tre in mostra). La magia, l’alchimia e l’astrologia (allegorizzata dalla Musa Urania) sono ancora parte di un mondo, quello principesco e cardinalizio colto, in cui laicità e religiosità procedono affiancate.
BOLOGNA, ATTO FINALE
Nello Stato Pontificio, di cui Bologna è la seconda città, l’arte s’infiamma di poesia ed estasi, assumendo l’afflato drammatico dei poemi dei letterati di corte, a cui anche il Guercino attinge, primi fra tutti l’Ariosto e il Tasso. Caravaggio, con la sua luce, il suo istinto cinematografico e (diremmo oggi) neorealista
sono un riferimento dell’epoca, così come la grazia e il distacco classicista di Guido Reni, che sarà per il Guercino un modello ma anche il concorrente più silenziosamente temuto. Dopo la scomparsa di Reni nel 1642, Guercino andrà a Bologna e vi passerà il resto della vita, concedendosi brevi viaggi. Nel 1649, la morte dell’amato fratello Paolo Antonio, autore delle più belle nature morte del suo studio, gli procura una depressione; con lui, il Guercino ha condiviso una solidissima fede cattolica e la casa-studio, dove ora subentrano la sorella e il cognato per aiutarlo nell’amministrazione. Il primo dei due infarti che colpiranno il pittore centese avviene nel 1961, cinque anni prima di quello fatale. Il suo lascito oggi appare enorme, come dimostrano le tante mostre a lui dedicate: segno certo di come il talento ben organizzato possa tramandare la propria fortuna nei secoli.
“LA GUERCINO-MANIA È ESISTITA DA SUBITO”.
INTERVISTA AD ANNAMARIA BAVA E GELSOMINA SPIONE, CURATRICI DELLA MOSTRA
Come avete lavorato su questa mostra?
Circa un anno fa abbiamo iniziato a pensare all’impostazione del progetto, facendo sopralluoghi, confrontandoci con la notevole mole di studi dedicati al pittore a partire dalle fondamentali ricerche di Sir Denis Mahon.
Abbiamo coinvolto alcuni dei più importanti studiosi del pittore nel Comitato scientifico.
È stato complicato ottenere i prestiti più importanti?
Alcuni prestiti importanti nascono dalla politica di scambio dei Musei Reali per valorizzare le proprie opere in un circuito nazionale e internazionale. In altri casi i prestatori hanno apprezzato il taglio dato alla mostra.
Sembra che esista una sorta di “Guercino-mania”?
È esistita sin da subito, come dimostra il gran numero di richieste giunte al pittore e alla sua strutturata bottega. Nella contemporaneità sono tante le mostre a lui dedicate, un numero quasi pari a quelle del Caravaggio. Ciò si spiega con la forza comunicativa e la straordinaria qualità delle sue opere.
Chi era Guercino nella vita privata?
Lo dicono le fonti e lo si deduce dalle sue lettere: era un uomo riservato e al tempo stesso schietto, legatissimo alla sua terra e alla sua famiglia, ma con un vero fiuto per gli affari. Era capace di tenere relazioni con personaggi molto diversi e di soddisfare anche committenti di rango.
Qual era il suo mondo, tra Cento e Roma, tra la periferia e la città eterna?
Cento è il luogo dell’anima, vi ritorna continuamente e lo lascerà solo nel 1642, costretto dalla guerra di Castro a rifugiarsi a Bologna. Roma è un episodio quasi imprevisto, legato all’invito che riceve da Gregorio XV; dopo la sua morte, Guercino non tornerà più nella capitale pontificia.
Cosa caratterizza questa mostra?
Al di là delle opere inedite presentate, l’esposizione permetterà di ragionare su alcuni snodi fondamentali della carriera del Guercino e innanzitutto sul ciclo Ludovisi, cioè sulle quattro tele commissionate dall’arcivescovo di Bologna tra il 1617 e il 1618, riunite
dopo più di quattrocento anni, e sulle quali ci si potrà nuovamente soffermare grazie al confronto attraverso una visione diretta.
Cosa porta in luce il ciclo Ludovisi?
Il momento della prima affermazione del pittore, tra l’exploit bolognese e l’aggiornamento sulla grande pittura del Cinquecento veneto avvenuto con il suo soggiorno nella Serenissima. Si vede una progressiva maturazione che è misurabile sulla diversa temperie stilistica dei quattro dipinti.
Che ruolo aveva la committenza nell’opera di un artista così orientato agli affari come Guercino?
In realtà Guercino, pur dentro i meccanismi del mercato e nonostante l’importanza dei committenti, conserva una grande autonomia e rivendica la libertà d’invenzione, anche nella resa dei soggetti. Il suo processo creativo prevedeva l’esecuzione di numerose prove grafiche prima di metter mano ai pennelli e sviluppare i soggetti sulla tela.
Una vita di colore. Franco Fontana protagonista del Brescia Photo Festival
Emma Sedini
l centro del VII Brescia Photo Festival
Ail Museo di Santa Giulia dedica una grande mostra a Franco Fontana, maestro indiscusso della fotografia a colori. La rassegna - un racconto che ripercorre tutta la sua carriera - è l’occasione per celebrare (con qualche mese di ritardo) il novantesimo compleanno del fotografo, nato il 9 dicembre 1933 in quella Modena a cui è rimasto legato per tutta la vita e dove ancora risiede. “Il colore… è la vita” - lo si sente affermare con sicurezza, come se raccontasse una di quelle verità esistenziali che l’umanità ricerca per tutta la permanenza terrena, e che solo con molti anni alle spalle è in grado, raramente, di afferrare. Che i colori siano tutto per Fontana, lo si intuisce guardando le sue foto. Scatti che non vogliono riprodurre il reale, ma rielaborarlo pittoricamente per esprimere l’essenza del fotografo che li realizza. Paesaggi naturali o urbani, liberi dai vincoli geografici, che non documentano, ma esprimono. Nelle sue mani, la macchina fotografica – analogica o digitale che sia: “non m’importa nulla” – diventa un mezzo funzionale a rendere visibile ciò che di solito non lo è: la sua interiorità, il suo vissuto. Come la penna per lo scrittore, o il violino per il musicista.
CINQUANT’ANNI E PIÙ DI FOTOGRAFIA A COLORI
Protagonista della grande mostra - curata dallo Studio Fontana, con il sostegno della Fondazione Brescia Musei e in co-produzione con Skira Arte - è il suo amato, e vissuto, colore.
Fino al al 28 luglio 2024
FRANCO FONTANA. COLORE
A cura di Studio Franco Fontana
Museo di Santa Giulia
Via Musei 55 – Brescia
in basso a sinistra:
Franco Fontana, Parigi, 1979 a destra: Franco Fontana, Riviera, 1990
nella pagina a fianco a sinistra:
Franco Fontana, Kuwait, 1979 a destra:
Franco Fontana, Basilicata, 1975
Che si vede in più di centoventi immagini che raccontano la sua carriera dal 1961 al 2017, dall’analogico al digitale, abbracciato da subito come un’innovazione utile, da usare a suo vantaggio, e poi “dimenticare”. L’allestimento - connubio sonoro, cromatico ed emotivo – funge da guida alla scoperta del lavoro di Fontana, il cui interesse non è mai stato riprodurre la natura in modo naturale. Ma trasformarla, reinterpretarla secondo la propria sensibilità. Quattro sezioni compongono il percorso: in ciascuna di esse, il visitatore va a indagare la presenza del fotografo che ha selezionato e scattato, cogliendo l’esperienza che ora condivide con il pubblico. Paesaggi umani, urbani, naturali, e gli Asfalti Titoli che devono ridursi a una semplice classificazione di convenienza, di necessità. Ciò che l’autore vuole trasmettere è altro: scompare il
campo assolato della Puglia, e così pure le strisce pedonali sulla strada. Emergono forme, geometrie, contrasti. Emergono colori: i colori della sua vita, che la illustrano, la ricordano, e la fanno continuare in eterno.
L’INTERVISTA AL MAESTRO FRANCO FONTANA
Cominciamo con una domanda che - in un certo senso - abbraccia tutta la sua vita. Che cos’è per lei la fotografia?
La fotografia per me è un modo di vivere. È qualcosa che mi dà soddisfazione, che mi corrisponde come se fosse uno specchio di quello che sono dentro. La fotografia mi fa esistere.
E il colore?
Il colore è la vita. Se si toglie il colore dalla vita, non rimane niente: solo il bianco e nero. Un’esistenza così, che valore potrebbe avere? Nessuno. Nel colore, poi, io rivivo il passato, quello che ho vissuto e che ormai è chiuso per sempre. E sarà ancora il colore - il colore delle mie fotografie - ciò che rimarrà di me, quando me ne andrò.
Come si approcciato al digitale, quando è arrivato? Con curiosità, o scetticismo?
Ho subito iniziato a utilizzarlo anche io. Sono convinto che sia il risultato quello che conta, e non il mezzo con cui lo si ottiene. Non capisco quelli che sono contrari al digitale: se permette di risparmiare tempo e migliorare il processo, perché non usarlo? In fondo, per me la
macchina fotografica è solo un mezzo. La adopero per fare le foto, e poi me ne dimentico. Ciò che importa è quello che si esprime. E il digitale per me è uno strumento con cui esprimermi, come fosse la penna per lo scrittore.
Parliamo della mostra: che immagini ci aspettano? Come interpretarle?
Nessuna delle mie fotografie va vista come qualcosa di documentaristico: non intendono rappresentare la realtà, ma me stesso. Quello che io sono e la quotidianità che è già stata parte di me.
Vale lo stesso per i paesaggi, immagino. Certamente. Quelli che vedete non sono i paesaggi reali della Puglia o della Basilicata. In essi, sono io - prima di tutto - che divento paesaggio, ed è il paesaggio che diventa me. Chi li osserva, può sempre imparare qualcosa: ne può trarre delle prospettive che altrimenti non avrebbe mai visto.
Testimoni è il tema Festival di quest’anno. Lei, personalmente, di che cosa si sente testimone?
Testimone dello spirito. E dell’invisibile.
I TESTIMONI DEL BRESCIA PHOTO FESTIVAL 2024.
INTERVISTA ALLA PRESIDENTE
Dodici mostre sono previste per la VII edizione del Brescia Photo Festival 2024, promosso dal Comune e dalla Fondazione Brescia Musei. A fare da filo rosso è l’essere testimoni. “Testimoni di un modo di fotografare che non ci sarà più; di un clic che sarà superfluo con l’AI” - spiega il curatore Renato Corsini. Si apre con l’omaggio a Franco Fontana e con una testimonianza - nel senso vero del termine - in memoria della strage di Piazza della Loggia, realizzata da Maurizio Galimberti. A seguire, tre mostre vedono protagonisti Federico Garolla, Chiara Samugheo e Carlo Orsi. Aprirà in estate il progetto di dieci fotografe, chiamate a reinterpretare il Vittoriale, per poi concludere con
un’ultima mostra a settembre. In occasione dell’inaugurazione, abbiamo intervistato la Presidente della Fondazione Brescia Musei, Francesca Bazoli
Qual è il valore della fotografia per il pubblico di oggi?
La fotografia si trova a dover esprimere il proprio valore artistico rispetto al proliferare dell’immagine digitale. Il compito delle Istituzioni culturali che se ne occupano - come il Museo di Santa Giulia - è approfondire questo medium come espressione simbolica e artistica,
3
COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
Il Corridoio UNESCO, una passeggiata monumentale di quasi un chilometro attraverso 2500 anni di storia che collega in un unico percorso pedonale, aperto al pubblico, l’area del Capitolium al complesso di Santa Giulia
La mostra sui Macchiaioli a Palazzo Tosio Martinengo, che presenta oltre 100 capolavori di Fattori, Lega, Signorini, Cabianca, Borrani, Abbati e altri, provenienti in gran parte da collezioni private
Il Teatro Romano, per osservarlo allo stato attuale prima che David Chipperfiel presenti il progetto per la valorizzazione del sito archeologico, così da ripristinarne la funzione di teatro
Museo di Santa Giulia
stabilendo un percorso di lettura destinato a chi, domani, impiegherà l’immagine per dare senso alle proprie comunicazioni, ma in modo consapevole delle ragioni artistiche del mezzo. “Il mezzo è il messaggio”, parafrasando Marshall McLuhan.
Arrivate da un 2023 di grandi numeri e spinte al futuro. Come sta andando il cambiamento innescato dall’essere Capitale?
Questa occasione ha letteralmente trasformato la nostra Fondazione. L’essenziale è stato comprendere il ruolo che la cultura, il patrimonio, i musei hanno per la comunità. Stiamo tutt’ora implementando decine di programmi di inclusione; il cambiamento si dirige verso partecipazione ed empowerment dei cittadini. La fotografia è per questo fondamentale, in quanto linguaggio più formativo della grande storia dell’arte.
E il Festival, come è cambiato dagli inizi a oggi?
Il Festival è sempre stato per noi un accompagnamento alla trasformazione strategica dell’Ente nella valorizzazione del patrimonio bresciano e della promozione della cultura contemporanea in Italia. Quest’anno ci dedichiamo proprio al tema della testimonianza del cambiamento, in atto nel nostro Paese dal Dopoguerra, con fotografi italiani che ci hanno raccontato al mondo negli ultimi ottant’anni. L’obiettivo è abilitare il pubblico - grazie al medium fotografico - a una lettura del proprio tempo.
Parliamo del tema di questa VII Edizione. Chi sono i Testimoni?
Sono tutti i fotografi protagonisti. Testimoni, appunto, della trasformazione della nostra società che, dal dramma della Guerra è riuscita a entrare prima nella modernità, poi nelle contraddizioni, nel benessere, negli abusi dell’opulenza, e ora nell’epoca dell’incertezza. Per citare giusto il primo, Franco Fontana racconta la potenza della modernità e la nascita della civiltà dei consumi, con colori binari e tracce essenziali, che evidenziano le contraddizioni e la solitudine di questo sviluppo.
120 immagini di due leggende
CAMERA
Centro Italiano per la Fotografia 14 febbraio – 2 giugno 2024
TORINO
Via delle Rosine 18 www.camera.to
Anselm Kiefer.
L’arte alchemica di un angelo caduto è in mostra a Firenze
Nicola Davide Angerame
Se fossimo tutti angeli caduti, Anselm Kiefer lo sarebbe di più e meglio, perché su questa nostra condizione esistenziale, in bilico tra il male del mondo ed il tentativo di redenzione, si gioca tutta la sua arte. “L’arte non smette di oscillare tra perdita e rinascita”, dice.
La mostra di Palazzo Strozzi è incentrata sulle ultime produzioni, ma ospita opere prodotte a partire fin dagli esordi nel 1969. Il viaggio ha inizio nel cortile interno, su un “fondo oro” di 63 metri quadrati, Engelssturz, ispirato al dipinto di fine Seicento di Luca Giordano, quel San Michele arcangelo che scaccia i rivoltosi dal Paradiso, quei “poveri diavoli” che per il maestro tedesco siamo tutti noi: angeli caduti.
ARTE ALCHEMICA
La mostra procede per temi, mettendo in risalto come l’arte di Kiefer non smetta mai di fare filosofia e poesia in un processo di trasformazione alchemica di materiali, segni e simboli. Una metamorfosi di linguaggi (della memoria personale, del mito, della religione, della storia, della letteratura e della filosofia) che avviene dentro le sue opere-crogiolo dedicate all’Eliogabalo di Artaud come a Raffaello, a Lucifero come ai Presocratici, a Raymond Roussel come a James Joyce o Robert Fludd, il filosofo, medico, occultista e alchimista inglese del XVII secolo che è una delle figure di riferimento di Kiefer.
Le direttrici spesso stabiliscono punti di fuga imperiosi; dai dipinti di Kiefer sembra raggiungerci un passato atavico. Sono quadri memoria, risultati di processi costruttivi che usano l’elettrolisi ed incamerano il tempo nelle stratificazioni delle rielaborazioni. Nell’installazione immersiva creata ad hoc per la mostra appaiono sessanta Dipinti irradiati (1983 – 2023) che saturano pareti e soffitto della sala espositiva con i loro corpi malati: Kiefer ha dipinto con le radiazioni.
Il collage di tela su tela è alla base di Ave Maria (2022), in cui le teste dei filosofi, decollate
Nasce a Donaueschingen, in Germania
8 marzo 1945
Non riesco a vedere un paesaggio in cui la guerra non abbia lasciato traccia
Le macerie sono come il fiore di una pianta; sono l’apice radioso di un metabolismo incessante, l’inizio di una rinascita
Per me un quadro non è quasi mai finito (…) lavoro a molti progetti contemporaneamente e il risultato è simile a un giardino dove crescono molte piante nello stesso momento
Il mio rapporto con Palazzo Strozzi è molto speciale (…) è uno dei miei palazzi preferiti al mondo
1966 Primi dipinti e studi presso le accademie di Friburgo e Karlsruhe
Di notte mi sposto in bicicletta da un quadro all’altro
Senza metamorfosi, non abbiamo nulla in cui sperare dopo la morte
Gli angeli assumono molte forme. Satana era un angelo. Non siamo in grado di immaginare Dio in uno stato puro, abbiamo bisogno di simboli meno puri che comprendano elementi umani
Quello che mi interessa (…) è la sfida di tradurre in termini plastici dei pensieri spirituali
I girasoli sono un simbolo della nostra “condition d’etre”
L’arte dovrebbe permettere di guardare al di là delle cose, il visibile dovrebbe essere semplicemente il supporto dell’invisibile, l’emanazione del mistero divino
come tanti Giovanni Battista, sono sospese come stelle nel firmamento verginale che introduce al Paradiso. L’iperuranio di Kiefer è ctonio, giace negli inferi terrosi di una pittura da cui emergono tracce di miti e simboli ancestrali sepolti e dove civiltà, culture e natura si fondono e stratificano da oltre mezzo secolo in opere fuori scala realizzate negli atelier di Germania e di Francia, divenuti opere d’arte essi stessi, laboratori alchemici in cui la materia bruta si trasforma nell’oro di un’arte poetica ed espressiva, abnorme ed intimista, materialista e spirituale, opulenta e desolata.
EBRAISMO
Cattolico di formazione, e delusione, Kiefer si converte allo studio del misticismo ebraico e della Cabala dopo aver studiato la prova dell’esistenza di Dio di Sant’Anselmo, così come la questione di Dio e il male, nella teodicea. In
1969 Esordio con le fotografie della serie Besetzungen (Occupazioni). Affronta la storia del Terzo Reich e l’identità post-bellica della Germania
1971 Entra in contatto con Joseph Beuys e partecipa alla sua azione Save the Woods Concepisce l’arte come strumento di catarsi e sceglie di lavorare con materiali poveri
1973 Sposa Julia, sua amica ai tempi dell’università, apre lo studio a Ornbach
mostra, la scultura En Sof (L’Infinito) del 2016 richiama lo Zohar, il Libro dello splendore che tratta dell’Uno e delle sue emanazioni. Morte e resurrezione sono il tema di Hortus philosophorum (1997-2011) in cui girasoli neri alti cinque metri sbocciano dal ventre del filosofo; l’opera
Fino al 21 luglio 2024
ANSELM KIEFER
ANGELI CADUTI
A cura di Arturo Galansino
Palazzo Strozzi
Piazza Strozzi – Firenze
in alto: Anselm Fiefer. Photo Davide Corona, SayWho
a destra: "Anselm Kiefer. Angeli caduti”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2024. Photo Ela Bialkowska, OKNOstudio
Con G. Baselitz rappresenta la Germania Ovest alla 39esima Biennale Arte di Venezia, dove espone i suoi libri d’artista
1980
1988 Mostra monografica itinerante e affermazion e negli Stati Uniti
1992 Lascia Höpfingen, e il suo studioinstallazione, e si trasferisce a Barjac in Francia
è basata su un collage di xilografie che sono un altro elemento caratteristico, così come la fotografia, spesso montata su grandi lastre di piombo. Le prime Kiefer le realizza nel 1969. Sono coraggiosi autoritratti con braccio teso e in divisa, quella paterna della Wehrmacht nazista; sono le celebri Occupazioni, con le quali un figlio del dopoguerra ha sfidato la memoria di una nazione, raccogliendo ostracismi e plauso. Con esse si conclude la mostra, un viaggio a ritroso che va dalle cadute attuali a quelle della storia passata.
LA GUERRA
“La distruzione è un mezzo per fare arte”, sostiene Kiefer, “le rovine non rappresentano solo una fine, ma anche un inizio”. Se Beuys ne ha fatto materia per la sua arte performativa e sciamanica e se Richter ne ha dipinto quel che appariva su giornali e vecchie foto di famiglia, Kiefer ha usato la guerra come tragica presa di coscienza conseguente alla distruzione della Germania e la separazione traumatica del suo
2003 Progetta set e costumi per Edipo a Colono del Burgtheater di Vienna e per Elektra di Strauss al San Carlo di Napoli
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
2007 Prima mostra di Monumenta al Grand Palais di Parigi. Il Louvre acquista tre sue opere. Nuovi atelier: uno nel Marais, l’altro a Croissy-Beaubourg vicino Parigi
Il Guerriero con lo scudo di Henry Moore, finalmente tornato a Palazzo Vecchio (per cui era stato pensato)
La casa museo Franco e Lidia Luciani, un luogo di collezionismo e memoria inaugurato da pochi mesi
Il controverso murale di Nemo’s, in via Palazzuolo, in uno spazio polifunzionale connesso al Museo
Novecento
2009 L’Opera Bastille gli commissiona Am Anfang ispirata ai testi biblici dell’Antico Testamento
2010 Primo artista plastico ad ottenere la cattedra di Creazione artistica del Collège de France
popolo. Un evento dal quale trarre non logiche speculazioni di geopolitica o di psicologia delle folle, ma per realizzare, in una pittura che va ben oltre se stessa, una grande elaborazione estetica del Senso della Storia: delle sue radici, relazioni e destini.
“Da bambino giocava con le macerie e costruiva piccoli edifici con i mattoni”, ricorda il direttore della Fondazione Palazzo Strozzi e curatore della mostra Arturo Galansino: sembra trattarsi, con il senno del poi, di un imprinting infantile destinato a segnare un cammino. O una caduta.
Tra la Storia magistra vitae di Cicerone e la “malattia storica” di Nietzsche, Kiefer sembra trovare una terza via trasfigurando la Storia in Arte, il “fatto storico” in azione creativa e la memoria in scenografia sublime intesa come dimensione spalancata e fagocitante in cui siamo chiamati a smarrirci e ritrovarci, per declamare infine i versi del poeta amato, Quasimodo: “Ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera”.
2020 Sue opere sono installate, in permanenza, al Pantheon di Parigi
2022 Apertura al pubblico della Fondazione Kiefer di Eschaton-Anselm a Barjac, Francia
2023 Wim Wenders gli dedica il documentario Anselm. Das Rauschen der Zeit (Il rumore del tempo) presentato al Festival di Cannes
DONNA
Donna in scena. A Treviso il nuovo secolo tra mondanità, erotismo ed emancipazione
Livia Montagnoli
Fasciata in un abito di seta gialla, con ipnotico copricapo en pendant, Wally Toscanini punta lo sguardo su chi le sta di fronte, oltre il ritratto che la immortala – sdraiata su un elegante sofà, come una dea della bellezza – in occasione di una festa in casa Visconti. È Alberto Martini, nel 1925, a prestare il suo talento per rappresentare la fascinosa figlia del celebre direttore d’orchestra –distintasi per l’impegno in diverse cause sociali e culturali, oltre il muro del pettegolezzo – nel pastello scelto come locandina della mostra Donna in scena Boldini, Selvatico, Martini, al
Museo Santa Caterina di Treviso, dal 13 aprile al 28 luglio. Con Wally, sono numerose le protagoniste di un progetto espositivo, a cura di Fabrizio Malachin, che si propone di “fotografare” un passaggio d’epoca, a cavallo tra XIX e XX secolo, attraverso il cambiamento di ruolo e prospettive della figura femminile nella società. A finire nei quadri degli acclamati ritrattisti del tempo – da Giovanni Boldini a Giacomo Grosso e Vittorio Corcos, fino al britannico John Lavery, oltre agli Italiens de Paris Giuseppe de Nittis e Federico Zandomeneghi, e ai veneti in nutrita compagine, da Ettore Tito a Eleuterio Pagliaro, Giulio Ettore Erler e Lino Selvatico – è la modernità che si nasconde dentro ai salotti
mondani, nel tempo libero di una nuova borghesia, persino dietro all’apparente frivolezza di vestiti all’ultima moda, merletti, gioielli. E che si manifesta anche attraverso l’erotismo. Seppur parziale nel suo restituire l’immagine di una parte minoritaria e privilegiata della società (quella delle Eleonora Duse, Toti Dal Monte, Lydia Borelli…), la mostra descrive un mondo che si muove verso il progresso, e che presenta alle donne l’opportunità di conquistare spazi di indipendenza e libertà prima preclusi. Sono più di 150 le opere riunite per l’occasione, frutto di prestiti da musei e collezioni pubbliche e private ma anche risultato di un lavoro di riscoperta delle collezioni dei Musei Civici di Treviso,
che aiuta a cogliere la vivacità economica e artistica del Trevigiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. L’input per la realizzazione della mostra si deve, peraltro, all’acquisizione di un vasto nucleo di opere di Lino Selvatico, campione del ritratto alla moda del primo Novecento tra Venezia, Milano e l’Europa.
LE DONNE DELLA MODERNITÀ. INTERVISTA AL DIRETTORE
DEI MUSEI CIVICI DI TREVISO, FABRIZIO MALACHIN
Con Donna in scena si rappresenta lo snodo di un’epoca verso la modernità attraverso la storia di donne che vivono questo passaggio come conquista di nuovi spazi. Che società ci raccontano queste protagoniste? Le donne ci raccontano il cambiamento di una società. Nell’epoca postunitaria il Paese sente la necessità di mettersi al passo con i più moderni Stati europei: si afferma la nuova borghesia, le città e i servizi subiscono processi di modernizzazione, vengono fatti investimenti pubblici in vari settori. Soprattutto si tratta dell’epoca in cui la donna entra in scena con prepotenza reclamando diritti elettorali, economici e sociali. Non a caso il ritratto femminile si afferma come genere in questo periodo, e con esso acquisiscono una straordinaria attenzione la moda, l’abbigliamento, gli accessori al femminile. Le donne diventano le protagoniste delle campagne pubblicitarie delle fabbriche emergenti di automobili, cioccolato, biciclette, birra. A loro si aprono attività prima esclusivamente riservate agli uomini, come andare a cavallo o in bicicletta per sport e tempo libero, o intraprendere professioni che gli erano state precluse (la prima donna medico entra in un ospedale trevigiano nel 1911).
E in questo contesto emerge il lavoro di grandi ritrattisti…
Il successo del genere del ritratto femminile dipende dall’estro di straordinari artisti – Boldini,
Dal 13 aprile 2024 al 28 luglio 2024
DONNA IN SCENA.
BOLDINI, SELVATICO, MARTINI
A cura di Fabrizio Malachin
Museo di Santa Caterina
Piazzetta Botter Mario, 1 – Treviso
De Nittis, Zandomeneghi, Grosso, Tallone, Bertini – ma anche dalle protagoniste, quelle donne che fanno a gara per farsi ritrarre: regine, nuove borghesi, attrici, cantanti, figure che assurgono a star, come la marchesa Casati. In mostra due sale sono riservate a queste personalità, per raccontarne le storie, che alternano sofferenze a vittorie e successi. Quello dell’emancipazione è in definitiva quasi un filo rosso che sottende il racconto artistico espositivo, volendo dare un senso forte e attuale alla mostra: una rassegna che presenta oltre 30 artisti, una galleria di oltre 150 opere, ma soprattutto il racconto di un processo di affermazione che purtroppo non è ancora completamente raggiunto.
Come le precedenti retrospettive dedicata a Canova, Martini, Ravenna, anche questa mostra fa luce su un periodo fortunato dell’attività artistica trevigiana. Che quadro si prospettava all’epoca?
il nostro patrimonio, mostrare al grande pubblico quel Genius loci che si esprime nell’arte, nel fare impresa, nel nostro paesaggio, nei nostri prodotti.
Negli ultimi anni si è lavorato con impegno alla valorizzazione dell’eredità e del patrimonio artistico trevigiano, con la programmazione espositiva temporanea e con l’apertura di nuove sale. Come riassume questo lavoro e i suoi obiettivi?
Uno dei primi obiettivi di un Istituto Museale è la valorizzazione del proprio patrimonio, dei beni spesso confinati nei depositi. Nuove sale sono state quindi aperte dedicandole ad artisti ben rappresentati nelle collezioni, finora non esposti – ultime quelle dedicate a Bepi Fabiano, Giovanni Barbisan, Nino Springolo, o la sala dedicata alla grafica di Alberto Martini grazie a un accordo con la Pinacoteca di Oderzo. Nuovi allestimenti, grandi mostre apprezzate da pubblico e critica, nonché le attività scientifiche proposte hanno riportato il museo al centro dell’attenzione anche dei collezionisti, che sono tornati a donare o ad affidarci opere in deposito. Proprio una di queste donazioni è stato l’innesco della rassegna. Dunque non vogliamo solo valorizzare il nostro patrimonio, ma anche incrementarlo per arricchire l’offerta e offrire al nostro pubblico nuove opportunità di visita e conoscenza. Con questo attivismo, proponiamo un modello di museo aperto, dinamico, continuamente da scoprire: alle esposizioni permanenti, limitate in termini di spazio, si predilige un costante rinnovamento espositivo, con sale monografiche e rotazioni di opere dai depositi. Per un museo che invita a tornare periodicamente e frequentemente.
a sinistra: Giulio Ettore Erler, Ritratto contessa
Calzavara, Musei Civici di Treviso
in alto: Alessandro Milesi, Ritratto di gentildonna, collezione privata
Con questa serie di mostre abbiamo voluto rappresentare l’eccezionalità di quel periodo per Treviso. Nel territorio nasce, si forma e afferma una quantità incredibile di talenti artistici, moderni, geniali e rivoluzionari, che certifica una unicità a livello nazionale. Oltre a Canova, Borro, Carlini, Arturo Martini e Ravenna, pensiamo ai protagonisti di questa rassegna: Alberto Martini, eccezionale nella grafica simbolista, strepitoso nei pastelli fino a raggiungere esiti geniali nelle opere surrealiste; e Lino Selvatico, il “pittore delle bionde”, il “Boldini veneto”. A questi si potrebbero aggiungere i Ciardi, e ancora gli artisti protagonisti delle esposizioni di Ca’ Pesaro promosse da Nino Barbantini, Gino Rossi tra tutti. Insomma Treviso davvero si presenta come una “piccola Atene”. Progettare queste mostre significa affermare il ruolo di Treviso nella storia dell’arte moderna, valorizzare
3 COSE DA VEDERE NEI DINTORNI
Ca’ Scarpa, tempio laico in omaggio a Carlo Scarpa e al figlio Tobia
L’ex chiesa di San Teonisto, oggi parte della Fondazione Benetton Studi e Ricerche
La Fondazione Imago Mundi, che ha trovato casa nelle ex carceri asburgiche della città
L’incanto del vero. A Modena la storia dell’alimentazione nei secoli
Giulia Giaume
La natura morta come veicolo per parlare della vita, passata e attuale. Nasce dalla volontà di proporre dei capolavori anche inediti della collezione di BPER Banca la mostra L’incanto del vero. Frammenti di quotidiano nella natura morta tra Sei e Settecento, e di avvicinare all’arte le nuove generazioni e quei visitatori meno avvezzi ai percorsi espositivi di ricerca. A Modena sono presentati quindici tra i dipinti più significativi del nucleo tematico della collezione, cui si affianca una selezione di undici pezzi da collezioni private e istituzioni pubbliche come i dipinti di Pier Francesco Cittadini dalla risorta Pinacoteca di Cento, in un afflato tra l’estetico, il didattico e il sociologico.
LA NATURA MORTA
COME STUDIO DELLA VITA
Lungi da una (anche apparente) banalità, lo studio del vero, che spazia dalle tavole imbandite alle variopinte raffigurazioni floreali, risveglia nell’oggetto domestico e inanimato una dimensione simbolica e permette ai soggetti di uscire “dalla loro dimensione meramente estetica e decorativa per ritrovare anche il senso del forte legame con lo scorrere della vita”, illustra la curatrice Lucia Peruzzi. Una lettura che si presta anche a confronti storici più ampi: l’esposizione affianca infatti alle opere pittoriche
Dal 5 aprile al 30 giugno 2024
L’INCANTO DEL VERO.
FRAMMENTI DI QUOTIDIANO
NELLA NATURA MORTA
TRA SEI E SETTECENTO
A cura di Lucia Peruzzi
La Galleria BPER Banca
Via Scudari, 9 – Modena
a sinistra: Bartolomeo Passerotti, Contadino che suona il liuto, olio su tela, 111 x 77 cm, Collezione BPER Banca, Modena
in alto: Adriaen Van Utrecht, Natura morta di ortaggi, frutta e cacciagione con figure, olio su tela, 151,5 x 196 cm, Collezione BPER Banca, Modena
nella pagina a fianco: Cristoforo Munari, Natura morta con frutta e spartito, olio su tela, 95 x 74 cm, Collezione BPER Banca, Modena
una raccolta di preziosi documenti d’archivio, che vanno dalle ricette alle curiosità, che permettono di osservare somiglianze e differenze con le nostre abitudini alimentari odierne. In bilico tra maioliche di pregio e semplici mazzi di fiori, tra mense aristocratiche e sporte domestiche, la mostra realizza così un tableau vivant che conduce il pubblico alla scoperta delle mode dell’epoca – come per i tulipani de La terra dona a Nettuno i bulbi di tulipano di Giovanni Andrea Sirani –, delle credenze religiose e popolari – come nella simbologia cristiana de La Madonna della rosa di Michele Desubleo e nel Contadino che suona il liuto di Bartolomeo Passerotti – ma anche solo del semplice gusto. È il caso delle Nature morte con vaso di fiori di Cittadini, in dialogo con il capolavoro d’ambiente estense Natura morta con frutta e spartito di Cristofaro Munari, e ancora di più della Natura morta di ortaggi, frutta e cacciagione con figure di Adriaen Van Utrecht, che porta alla corte piacentina temi e stili mutuati dalla sua nativa Anversa. La riflessione che ne risulta è estetica, psicologica, pedagogica, ponendo l’accento su temi dal carattere indispensabile, non da ultimo lo spreco alimentare.
L'INCANTO DEL VERO / MODENA
APRIRE UN TESORO AI CITTADINI.
L’INTERVISTA A SABRINA BIANCHI, RESPONSABILE DEL PATRIMONIO BPER
Come nasce la Collezione di BPER?
La Galleria Corporate Collection nasce nel 2017 come presa di coscienza dell’importante patrimonio culturale, sia pittorico sia archivistico, accumulato da BPER sin dagli Anni Cinquanta. Quando tutte le banche acquistavano dipinti per decorare palazzi e stanze di rappresentanza, anche la Banca Popolare di Modena acquistò un nucleo di opere emiliano-romagnole dal Quattrocento al Settecento, e oggi ha uno dei nuclei più significativi di opere del tempo. Con le incorporazioni e acquisizioni esterne, dalla ex Cassa di Risparmio di Ferrara, Ubi Banca e infine Cassa di Risparmio di Genova, la collezione si è arricchita: a fine 2022 il patrimonio è di 10mila opere inventariate, di cui 2500 di elevato valore storico artistico. A fianco delle opere sono entrati importanti archivi storici delle città ove le banche risiedevano, che raccontano la storia del territorio dall’Ottocento.
Oggi la collezione è diffusa sul territorio? Sì, a livello nazionale: c’è l’Emilia-Romagna con Modena, la Lombardia con Brescia, la Liguria con Genova, l’Abruzzo con L’Aquila, la Campania con Napoli, e la Sardegna, con un nucleo importante di opere di autori come Sironi. Di fatto è proprio una collezione diffusa.
Come avete deciso di condividere il vostro patrimonio?
Una volta completata la ricognizione, cioè la precisa catalogazione e gestione digitale per capire quali sono le opere, in che stato di conservazione sono e quale sia il loro valore d’acquisto fair value (considerando che molte opere sono vincolate), abbiamo preso coscienza di questo immenso patrimonio, e si è subito pensato alla valorizzazione. Con diverse modalità: la più semplice è la conservazione corretta, il restauro e il libero accesso per motivi di studio. A questo concetto quotidiano e costante, BPER ha aggiunto anche il prestito a progetti scientifici significativi, e il passo ulteriore è stata la prioritarizzazione della fruizione. L’idea è quella di restituire alla collettività il patrimonio, a lungo chiuso nelle stanze dei palazzi: da qui la scelta di aprire la prima sede, la Pinacoteca di Modena, cui nell’ultimo anno si sono aggiunte le sedi espositive di Brescia, Genova e Milano. La restituzione alla collettività contribuisce
alla sostenibilità e al miglioramento della società: BPER è una banca molto impegnata, tra tutela dell’ambiente, governance e sociale, dal sostegno ai centri antiviolenza alla creazione di percorsi formativi dei giovani in centri periferici. La fruizione del patrimonio nasce proprio da questo concetto di “restituire al sociale” e di promuovere una crescita sostenibile, e le mostre fatte negli anni (quasi una ventina) stimolano anche dei percorsi di riflessione, dalla parola alla diversità fino al valore del talento femminile.
Nella vostra ottica di sviluppo c’è un dialogo con il territorio? Sì, ne è esempio il sostegno al Festival della Filosofia di Modena, un’ iniziativa importante per il territorio modenese, o ancora il lavoro con la Fondazione Brescia Musei a Brescia, con cui abbiamo uno stretto rapporto di reciproci comodati, a Genova lavoriamo con la Fondazione Carige, sia in termini di apertura della nostra sede al 14esimo piano sia in occasione dei Rolli: ne risulta un dialogo con la città e un percorso di visita difficile da eguagliare. La nostra sede, ancora arredata come al tempo, non è più appannaggio di un’élite ma aperta a tutti. Poi a Milano, in Duomo, ci sono i progetti site specific che danno spazio a giovani artisti come Fabrizio Dusi, e apriamo la nostra sede anche qui con le giornate del FAI. La nostra idea non è quella di sostituirsi all’offerta delle istituzione pubbliche ma di affiancarvisi.
Una vera collaborazione tra pubblico e privato Stiamo scrivendo e muovendo i primi passi in questo senso: siamo nel mezzo di un percorso evolutivo che prevede la crescita della Galleria BPER e si concluderà nel giro di un paio d’anni. La prospettiva è quella di un’apertura di nuovi poli culturali, guardando oltre i grandi centri, alle città di provincia: hanno un altissimo potenziale culturale, ed è giusto che beneficino di un ulteriore propulsione culturale dai privati. Pubblico e privato secondo devono dialogare in modo trasparente e diretto.
E delle nuove aperture potete anticiparci qualcosa?
Sicuramente l’Emilia-Romagna verrà potenziata, tra Modena e Ferrara. Poi si aprirà in Abruzzo, all’Aquila, in un’ottica di sostegno a
un territorio che ha sofferto tantissimo ma che ha anche altissime potenzialità di crescita culturale, e anche qui ci affiancheremo alle istituzioni territoriali. Poi guarderemo alla Campania, non possiamo dimenticarcela! È un percorso innovativo e in fieri: abbiamo tantissimi palazzi storici importanti, a cui possiamo abbinare dei grandi nuclei collezionistici. Sarà una restituzione ancora più importante.
La mostra per festeggiare i 50 anni di Lupo Alberto al Museo della Figurina
Il gruppo scultoreo di sette statue in terracotta realizzate da Antonio Begarelli, nella chiesa di San Domenico affacciata sull’omonima piazza
La street art, raccolta su un sito web apposito grazie al progetto Urbaner promosso dal Comune
La Galleria BPER Banca
KOSMOS. La storia della conoscenza è al Castello di Miramare
Caterina Angelucci
Il tema del viaggio come metafora dell’eterno desiderio umano di superare i propri limiti di conoscenza è al centro della mostra presentata alle Scuderie del Castello di Miramare, a Trieste, che per l’occasione riaprono dopo una lunga pausa post-pandemica. Curata da Andreina Contessa insieme ad Alice Cavinato, Fabio Tonzar e Daniela Crasso dell’Ufficio mostre del museo, l’esposizione KOSMOS. Il veliero della conoscenza racconta l’evoluzione del sapere scientifico e l’impatto che questo ha avuto sulla società attraverso i secoli. Il tutto, anche grazie a un allestimento che si avvale di tecnologie innovative: attraverso installazioni digitali, modelli in scala e diorami, il pubblico può infatti salpare idealmente a bordo della celebre fregata Novara che nel 1857 – su iniziativa di Massimiliano d’Asbrugo – circumnavigò il mondo percorrendo più di 51mila
Fino al 16 giugno 2024
KOSMOS
IL VELIERO DELLA CONOSCENZA
A cura di Andreina Contessa insieme ad Alice Cavinato, Fabio Tonzar e Daniela Crasso
Scuderie del Castello di Miramare – Trieste
in alto e a destra Kosmos. Il veliero della conoscenza, fotografie della mostra
miglia marine e toccò cinque continenti, contribuendo alla conoscenza geografica, antropologica e scientifica del tempo. “Negli stessi anni in cui Massimiliano costruiva il Castello di Miramare e definiva la collezione botanica del suo grande giardino, promuoveva la scienza supportando una rete di conoscenze e contatti tra gli studiosi del tempo” , spiega Contessa, direttrice del Museo Storico e del Parco del Castello di Miramare. “La mostra è, infatti, un omaggio a Massimiliano d'Asburgo e alla sua passione per il mare, i viaggi e le navi. Principale promotore di missioni internazionali della Marina austriaca, di cui detenne il comando dal 1854, partecipò in prima persona alla spedizione in Brasile tra il 1859 e il 1860 e seguì a distanza il viaggio di carattere diplomatico, scientifico, commerciale e militare compiuto dalla Novara tra l’aprile del 1857 e l’agosto del 1859, con lo scopo di effettuare la circumnavigazione del globo”.
LA MAPPATURA DEL MONDO E UNA PRIMA IDEA DI ECOLOGIA
La descrizione cartografica di luoghi inesplorati, la conoscenza e lo studio delle popolazioni indigene, la raccolta e la catalogazione di reperti di minerali e di specie vegetali e animali, oltre agli interessi di carattere economico, strategico e diplomatico, hanno mosso la spedizione ottocentesca. La mostra è un omaggio a questo periodo – in cui, mai come prima, fu esplorata una così ampia superficie della Terra in così poco tempo – e ai suoi protagonisti, a cominciare dal grande geografo e naturalista tedesco Alexander von Humboldt (1769 – 1859) e alla sua opera letteraria Kosmos (da cui il nome del percorso), un’esaustiva descrizione fisica del mondo che raccoglieva tutte le conoscenze del tempo e che venne pubblicata pochi anni prima della spedizione della Novara. “Alexander Von Humboldt, nel volume in cui faceva riferimento alle scoperte scientifiche conosciute all’epoca, teorizzava che tutte le cose fossero collegate tra loro, anticipando il nostro concetto di ecologia”, puntualizza Contessa “La mostra vuole inquadrare il percorso che sempre viene fatto per scoprire il mondo. Ogni iniziativa e desiderio di scoperta nasce, infatti, da una necessità innata di conoscenza che ha l’uomo. Per scoprire il mondo bisogna intraprendere un viaggio e, questo percorso, porta ad altre domande e, inevitabilmente, ad altre culture”.
IL GRANDE VIAGGIO DELLA NOVARA
Partita da Trieste il 30 aprile 1857, la fregata Novara, scortata dalla corvetta Carolina, fece tappa a Gibilterra e poi a Funchal, sull’isola di Madeira. Il 20 giugno, la fregata si separò dalla corvetta (che farà rotta prima verso lo stato di Pernambuco, in Brasile, poi lungo la costa occidentale dell’Africa), giungendo a Rio de Janeiro all’inizio di agosto. Ad ottobre dello stesso anno, la Novara sbarcò a Capo di Buona Speranza, l’unica sosta programmata sulla costa africana. Toccando le isole di St. Paul, Amsterdam e Ceylon, durante la primavera del 1858 fece sosta in India (a Madras, oggi Chennai), alle Isole Nicobare, a Singapore e a Giava, giungendo a Manila, nelle Filippine, il 15 giugno. Durante l’estate, la fregata raggiunse Hong Kong e Shanghai, partendo poi alla volta dell’Australia (Sydney) e della Nuova Zelanda (Auckland), dove il geologo Ferdinand von Hochstetter rimase nove mesi per studiarne le isole dal punto di vista geografico e geologico. Nel gennaio 1859, la fregata toccò Tahiti e dal 17 aprile raggiunse le coste del Cile (Valparaiso). L’8 maggio gli ufficiali della nave ricevettero via posta la notizia degli scontri contro la Francia e il Regno di Sardegna – la Seconda guerra d’indipendenza italiana era di fatto già cominciata il 27 aprile – e cancellarono le successive tappe sudamericane. Karl von Scherzer lasciò la Novara per ottenere notizie commerciali, etnografiche e statistiche utili alla spedizione e informarsi sulla
sorte delle famiglie di emigranti tirolesi in Perù, passando per Lima e raggiungendo Panama via terra, da dove si imbarcò su un piroscafo per raggiungere Gibilterra e reimbarcarsi sulla fregata austriaca. L’11 giugno 1859 la Novara incrociava la rotta tenuta nel 1857, compiendo la circumnavigazione del globo e facendo rotta nuovamente per Trieste. Il viaggio si concluse il 26 agosto 1859.
UNA COLLEZIONE DI MERAVIGLIE
Tra strumenti storici di navigazione e rilevamento dati, reperti naturalistici ed etnografici ma anche libri antichi, dipinti, disegni e fotografie, il percorso espositivo presenta oltre 150 oggetti di pregio, molti dei quali raccolti durante la spedizione e che vennero presentati a Trieste al rientro della spedizione nel 1860. “È stato possibile raccogliere una così ampia varietà di reperti grazie ad alcuni importanti prestiti nazionali e internazionali. Per esempio, dal Civico Museo di Storia Naturale di Trieste arrivano oltre 200 reperti naturalistici, tra cui minuscole conchiglie, farfalle e l’esemplare di pinguino crestato dell’isola di St. Paul nell’oceano Indiano, mentre dal Civico Museo del Mare 12 strumenti nautici utilizzati a metà Ottocento per le misurazioni di bordo e per la navigazione”, racconta Alice Cavinato. A questi si aggiungono anche opere d’arte in prestito da alcuni tra i principali musei di Vienna, che al tempo entrarono a far parte della collezione asburgica: il Museo di Storia militare (l’Heeresgeschichtliches Museum Wien) ha contribuito con un dipinto di Alexander Kircher raffigurante la fregata Novara in alto mare e uno di Joseph Selleny (il pittore di bordo) che ritrae una colonia di pinguini sull’isola di St. Paul. Sempre di Selleny, che documentò ampiamente l’esperienza, sono anche i 37 disegni a matita, pastello e acquerello prestati dalla galleria Albertina, tra paesaggi marini, foreste tropicali e
Il Teatro Romano, riaffiorato nel 1938 con l’abbattimento di alcune case e costruito con pietra masegno, resistente alla salsedine
La grande mostra sul Vincent van Gogh che dopo Roma giunge al Museo Revoltella con 50 capolavori e due novità: i ritratti di Monsieur e Madame Ginoux
Il set brutalista del video “Tuta Gold” di Mahmood, nel quartiere di Rozzol Melara
persone in abiti tradizionali, mentre di interesse etnografico sono i 12 oggetti prestati dal Weltmuseum Wien, in cui rientra uno spettacolare scudo da parata con decorazioni in madreperla delle isole Salomone e il ventaglio di piume di pappagallo dal Brasile. È anche da questi manufatti che si evince come il viaggio esposto a Miramare non si limiti a documentare le scoperte di un tempo, ma racconti (di riflesso) l’importanza dei dati raccolti nella costruzione del sapere contemporaneo, tra strumenti aggiornati e tecnologie innovative che oggi aspirano a una conoscenza universale del mondo.
De Nittis italiano, parigino e londinese. A Milano la modernità “incarnata”
Stefano CastelliRipercorrere le evoluzioni dell’opera di Francesco De Nittis (Barletta 1846 – Parigi 1884), come consente di fare la monografica che gli dedica il Palazzo Reale di Milano, significa anche seguire la nascita e lo sviluppo dell’idea di modernità in pittura. È il “fascino retrospettivo” dell’arte di fine Ottocento, momento in cui si compie il passaggio definitivo all’idea odierna di opera d’arte e di artista. Un mutamento che, letto nel lavoro di un singolo autore, si incarna e appare come un corpo in trasformazione che subisce progressive, ravvicinate e convulse, ma coerentissime, metamorfosi. Certo, c’è anche il fascino dell’accostamento tra opere e biografia: de Nittis parte da Barletta, passa brevemente da Parigi, torna in Italia per poi diventare “definitivamente” parigino e londinese. E c’è il fascino suggestivo dei soggetti raffigurati e trasfigurati dall’artista, che oscillano tra la dimensione popolare e quella aristocratica, avvicinandosi sempre più all’idea Impressionista. Ma l’approccio più stimolante alla mostra rimane la scoperta dei successivi, piccoli o grandi momenti di rivoluzione che si riscontrano nell’opera.
LA RIVOLUZIONE DI DE NITTIS
L’esposizione alterna la sequenza tematica e cronologica ad affondi di particolare intensità, come quello che si incontra poco dopo l’inizio del percorso. All’interno della sezione sui paesaggi italiani, spicca infatti un gruppo di studi sulle pendici del Vesuvio: vero e proprio laboratorio di ricerca e innovazione nel quale il pittore scopre come “in diretta” nuovi modi di approfondire e trascendere il realismo, si dedica in anticipo a una sorta di astrazione, fonde con agilità ma in modo solenne analisi e sintesi, disegno e colore.
Con la successiva sezione su Parigi si fa spazio in mostra il De Nittis più conosciuto, ma anche qui si è testimoni di un’evoluzione progressiva. Prima, il mito e l’esperienza di Parigi si traducono in scene sì luminose ed eleganti, ma ancora “terrose”, concrete oppure popolari (si veda in quest’ultimo senso la densità di architettura e persone di un dipinto come la Place des Pyramides del 1875, in prestito dal Musée d’Orsay). In seguito, si fa strada l’influenza della luce, che trasforma profondamente la rappresentazione – e diventa ancora più suggestiva quando si manifesta per contrasto, all’interno di dipinti prevalentemente oscuri come Il
salotto della principessa Mathilde (1883). Straordinario come laboratorio di segni e forme anche un dipinto come Perla e conchiglia (1879), con il vestito che diventa parte dell’ambiente e elemento di “pittura in sé”, quasi completamente autonoma dalla rappresentazione tradizionale.
DA PARIGI A LONDRA, E L’APPRODO GIAPPONISTA
C’è poi la Parigi innevata, dove la luce è abbaglio totale e sensuale, quella delle corse al Bois de Boulogne, in pieno immaginario Belle Époque, prima di un ulteriore colpo di scena: le vedute londinesi che si abbracciano con lo sguardo in una sala dalla conformazione semicircolare - ed è un coronamento delle ricerche incontrate fin qui, tra luce e porosità, tra sensibilità per il “ventre pulsante” della città e ricerca di raffinata elevazione. Fino all’ultimo scarto, quello nel quale l’Impressionismo diventa maggiormente conclamato e si tinge di giapponismo. Nella sezione dedicata a quest’ultima tendenza, gli universi di colore - sprazzi cromatici improvvisi e totali - rappresentati dalla presenza del kimono sono il point d’orgue dell’intera sala. Infine, la straordinaria, luminosa malinconia dei dipinti degli ultimi anni chiude la mostra, lasciando immaginare la prosecuzione delle ricerche che De Nittis avrebbe potuto compiere se non fosse scomparso prematuramente.
Fino al al 30 giugno 2024 DE NITTIS.
PITTORE DELLA VITA MODERNA
A cura di Fernando Mazzocca e Paola Zatti Palazzo Reale
P.za del Duomo, 12 – Milano
Giuseppe De Nittis, Il salotto della principessa Mathilde, 1883, Pinacoteca Giuseppe De Nittis, Barletta
A cura di Riccardo Caldura
Mercoledì – Domenica, 11:00 – 19:00
Per informazioni: fondazionealbertoperuzzo.it
Nuova Sant’Agnese, via Dante 63 Padova
Willem de Kooning e l’Italia: la mostra a Venezia
Fausto Politino
Willem de Kooning è stato classificato in modi diversi: espressionista astratto, esponente dell’action painting o semplicemente della Scuola di New York, anche se le sue astrazioni, a differenza di quelle di Jackson Pollock o Mark Rothko, sono quasi sempre supportate da figure, oggetti o luoghi. In ogni caso sia l’Espressionismo astratto sia l’Action painting non sono mai stati movimenti rigidi, piuttosto atteggiamenti critico-creativi che hanno frantumato ogni aspetto dello schema figurativo, sia formale sia geometrico, adottando la carica dirompente dell’azione pittorica mediante il linguaggio segnico e la materialità cromatica. È proprio questa caratteristica di de Kooning a spiccare nell’esposizione, Willem de Kooning e l’Italia, alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, in una rassegna che riunisce circa 75 opere, dalla fine degli Anni Cinquanta agli Anni Ottanta.
DE KOONING E I PAESAGGI TRA ITALIA E SPRINGS
Con la scelta curatoriale che presenta in contemporanea disegni dipinti sculture per favorire una narrazione completa e coerente del percorso dell’artista, questo è il primo progetto espositivo che approfondisce i due periodi che de Kooning passa in Italia, nel 1959, all’apice del successo, e nel 1969, quando si accosta alla
scultura, e il profondo influsso che entrambi hanno avuto sul suo lavoro.
A Roma trascorre quattro mesi, dove entra in contatto con l’arte classica italiana e con il lavoro degli artisti italiani suoi contemporanei, creando una notevole quantità di opere in bianco e nero su carta, contraddistinte da metodi sperimentali: dipinge sul pavimento, mescola smalto con pietra pomice, strappa e fa collage con la carta. Tornato a New York, de Kooning lavora a grandi dipinti astratti che rivelano una nuova luminosità e una struttura più aperta. Verso la fine degli anni Cinquanta abbandona il caos urbano di Manhattan e si trasferisce nella frazione di Springs, Long Island, dove vive dal 1963 fino alla sua morte nel 1997. Stimolato dalla luce, dall’acqua del litorale di Springs, dai paesaggi ammirati in Italia, produce un gruppo di astrazioni per impri mere sulla tela precarie visioni natura listiche. Come in Screams of Children
Come from Seagulls del 1975. Con le impronte cromatiche tra il grigio pun tellato, il blu brillante, il rosa carne a ri chiamare il mare, la sabbia e la luce costiera di East Hampton: il vitali smo del segno qui è accentuato, ma senza l’urto drammatico delle masse e del colore di altre opere.
In A Tree in Naples de Kooning semplifica il proprio vocabolario visivo ricorrendo a poche pen nellate robuste ed estroverse che evocano le cromie presenti in natura. In Door to the River, le estese pennel late rosa giallo bianco marrone grigio configurano una sorta di rettan golo che rimanda a una porta posta al centro della tela:
Dal 16 Aprile 2024 al 15 Settembre 2024
l’opera non ha né i tracciati dell’insistente rielaborazione tipici dei primi dipinti, né l’agitazione coloristica dei lavori successivi. In Villa Borghese, del 1960, le ampie aree di colore suggeriscono corrispondenze naturalistiche: luce solare gialla, cielo e acqua blu, erba e fogliame verdi. In mostra questi tre lavori sono esposti insieme per la prima volta
L’OSCILLAZIONE TRA ASTRAZIONE E FIGURAZIONE
Tutto il percorso artistico di Willem de Kooning si distingue per il suo oscillare tra astrazione e figurazione. Nella mostra alla Sidney Janis Gallery, nel 1953, presenta una serie di donne di grandi dimensioni: figure turbate brutali, arcaiche, aggressive, grottesche che s’impossessano dell’intero spazio della tela. Il ghigno sui loro visi e gli occhi scuri dilatati rimandano alle Demoiselles d’Adi Pablo Picasso. Red Man with Moustache, del 1971, lo si può collegare a questa serie. Lo spazio, con una figura scultorea, è configurato mediante fitte pennellate gestuali che comunicano un’estrema vitalità in cui prevale il colore rosso. Come a veicolare passione e rabbia. Come se volesse emettere un grido abissale che necessariamente ricorda la spasmodica deformazione delle figure di Francis
WILLEM DE KOONING E L’ITALIA
A cura di Gary Garrels e Mario Codognato
Gallerie dell’Accademia
Campo della Carità, Dorsoduro 1050 Venezia
Willem de Kooning in his East Hampton Studio, New York, 1971 photograph by Dan Budnik ©2024 The Estate of Dan Budnik. All Rights Reserved Artwork © 2024 The Willem de Kooning Foundation, SIAE
Willem de Kooning, Clamdigger , 1972, bronze 151 x 63 x 54 cm, Purchase, 1979 Centre Pompidou, Paris Musée national d’art moderne/ Centre de création industrielle © 2024 The Willem de Kooning Foundation, SIAE
LA SCULTURA DI DE KOONING
Notevole la sezione della scultura, che intraprende dopo la seconda esperienza italiana del 1969. I soggetti ricordano la vischiosità del materiale dal quale derivano: l’argilla. In tali opere il gesto affonda e si perde come nelle sabbie mobili. Iniziando a scolpire sul serio a sessantacinque anni non si può non citare Clamdigger del 1972, una delle sue sculture in bronzo più famose. Gli scavatori di vongole che osserva ogni giorno lavorare sulla spiaggia, gli hanno ispirato l’opera che sembra strappata alla melma primordiale. Per questo tipo di scultura de Kooning prima prepara un’armatura di ferro e metallo su cui modella l’argilla bagnata, creando strati che si trasformano in una figura nodosa e tattile con lineamenti un po’ neanderthaliane: una piccola testa, occhi infossati e i piedi allungati.
GIORGIO GRIFFA
23 MARZO - 25 DICEMBRE 2024
Una linea, Montale e qualcos’altro Castello di Miradolo Via Cardonata, 2 San Secondo di Pinerolo (TO) fondazionecosso.it
L'AREA MEGALITICA DI AOSTA
Come nasce una grande mostra. Un mega allestimento per scoprire le origini di Aosta
Marta Santacatterina
Era il 1968, le città italiane erano in pieno sviluppo e spuntavano ovunque cantieri per riammodernare o espandere le aree urbane. Ruspe, gru e betoniere giunsero anche vicino all’abside della chiesa di San Martino ad Aosta, cominciando a sbancare il terreno per costruire degli edifici abitativi. Ma i lavori si fermarono poco dopo, poiché in quell’area emersero le prime testimonianze archeologiche di un sito estremamente interessante, che da qualche mese è stato riaperto al pubblico – insieme al relativo museo che “contiene” l’area archeologica –dopo importanti lavori di riqualificazione e riallestimento. Abbiamo interpellato Alessandra Armirotti, istruttore tecnico del Dipartimento soprintendenza per i beni e le attività culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta, per approfondire tutti gli aspetti legati a questa significativa operazione culturale che ha valorizzato in situ un ritrovamento unico in Europa per la sua straordinaria continuità di vita, ininterrotta dal V millennio a.C. fino all’età moderna, testimoniata da strutture megalitiche perfettamente conservate e da reperti di eccezionale valore.
UN PROGETTO CORALE
Sono stati numerosi i professionisti grazie ai quali Aosta può ora vantare un museo all’avanguardia, dove le nuove tecnologie sposano la preistoria e la storia. “Il progetto dell’allestimento si deve all’architetto Massimo Venegoni e alla sua équipe di Dedalo Architettura e immagine di Torino, oltre all’architetto Margherita Bert”, precisa Armirotti. “Gli apparati multimediali e di illuminazione sono stati realizzati da Acuson di Torino, gli allestimenti da Fallani di Venezia, le opere edili da Caruso di Aosta e quelle impiantistiche dalle aziende Péaquin e Actis Alesina, entrambe di Aosta”. Si deve inoltre aggiungere un cospicuo team composto da architetti, archeologi, topografi, operatori archeologici, geometri, restauratori della Soprintendenza regionale, coordinati dal responsabile scientifico Gianfranco Zidda.
“Uno dei principi cardine dell’allestimento è il coinvolgimento del visitatore attraverso un percorso scandito da momenti di forte impatto emotivo e cognitivo, finalizzati a trasmettere l’impressione di un viaggio alla scoperta delle storie. Il registro spettacolare non
Si apre un cantiere edilizio dietro l’abside della chiesa di San Martino di Aosta
Il Ministero dell’Istruzione dichiara i resti preistorici “di interesse archeologico e storico particolarmente importante” e notifica il sito
Si rinviene un torquis in bronzo e si avvia un’indagine archeologica diretta da Rosanna Mollo e Franco Mezzena
Si conducono nuove indagini archeologiche sotto la guida di Patrizia Framarin
Si succedono campagne di scavo che portano in luce l’intera area megalitica, una tomba dell’Età del Ferro e un insediamento romano
A sud di via Saint-Martin-de-Corléans vengono alla luce altri impianti megalitici e si scavano quattro tombe
Si identificano i primi due nuclei della necropoli romana
Si inaugura l’Area megalitica, comprensiva degli allestimenti museali
Si lavora al primo lotto degli allestimenti, progettati e diretti dall’architetto Massimo Venegoni con lo studio COPACO di Aosta
Si costruiscono le strutture e i volumi architettonici del futuro museo su progetto dell’architetto
Vittorio Valletti
Viene inaugurato il parco archeologico nell’Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans
è però fine a sé stesso, così come le tecnologie impiegate, in quanto strutturalmente connesse alla comunicazione dei temi archeologici”, spiega Armirotti. Gli obiettivi sono quindi due: stimolare la curiosità di chi attraversa il museo, anche grazie a precise scelte di materiali, colori, luce, e consentire un approfondimento scientifico. Le operazioni di riqualificazione si sono svolte in tre fasi distinte a partire dal 2004 (si veda la timeline) e lo scorso 11 novembre 2023 è stato finalmente possibile tagliare il nastro dell’ Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans, che da allora ha già accolto circa 7mila visitatori. L’importo dei lavori concernenti le parti attualmente aperte al pubblico è ammontato a circa 12 milioni di euro, provenienti da fondi europei e regionali.
LE EMOZIONI DELLA STORIA
Vediamo allora come è stato pensato il percorso grazie al quale è possibile attraversare le stratificazioni di Aosta, fino ad arrivare alle impronte dei primi esseri umani giunti in quel territorio. I visitatori vengono accolti da un “tunnel emozionale” dove sono state predisposte delle grandi riproduzioni fotografiche dei più significativi reperti del museo; le immagini si accendono man mano che si percorre il tunnel,
L'AREA MEGALITICA DI AOSTA
mentre dalle aperture vetrate si può già sbirciare l’area archeologica collocata a quota -6 metri dal piano stradale. Mediante una “rampa del Tempo” accessibile anche a persone disabili – il museo è infatti interamente accessibile a coloro che hanno problemi motori – si scende quindi in profondità, dove sono raccolti i reperti archeologici: si tratta di una sorta di “andata a ritroso nel tempo attraverso immagini e ricostruzioni 3D di personaggi e monumenti che hanno fatto la storia dell’umanità” spiega Armirotti. Lo sguardo può quindi abbracciare l’immensa area archeologica (circa 2500 mq) caratterizzata da antichissimi solchi di aratro, dalle stele antropomorfe e dalle costruzioni megalitiche visibili da una passerella in legno. Anche in questo caso il coinvolgimento è garantito da un’illuminazione artificiale fornita da 500 corpi illuminanti a led che simulano la diversa intensità della luce nello scorrere delle ore del giorno e della notte. E l’inabissamento in quel mondo a noi lontanissimo si completa nella sala immersiva, in cui un video ad altissima risoluzione racconta le evidenze archeologiche presenti nell’area: “Si può quindi ‘entrare’ virtualmente tra le tracce antiche lasciate dall’uomo, che per ovvi motivi di conservazione non posso essere calpestate dai visitatori, accompagnati da una musica altamente suggestiva e appositamente creata dal maestro Giovanni Sollima per l’Area megalitica di Saint-Martin-de-Corléans”, fa sapere l’istruttore tecnico. Le sale dedicate alla conservazione dei reperti comprendono invece le arature sacre, i pozzi, gli allineamenti di pali e di stele antropomorfe e infine le tombe megalitiche. Di particolare fascino è la sala delle Stele, dove si concentrano gli imponenti monoliti, alti anche più di 2 metri: “Per la prima volta vengono esposte al pubblico le stele antropomorfe del III millennio a.C. rinvenute abbattute nel sito o reimpiegate nelle tombe dell’età del Bronzo. Dopo un lungo lavoro di restauro e
ricostruzione, mediante un sistema di esposizione brevettato all’avanguardia, le stele sono state verticalizzate e orientate secondo gli allineamenti originari”, racconta Armirotti. Segue quindi il focus sull’Età del Bronzo, epoca in cui l’area diventa principalmente uno spazio da coltivare: si sono conservate infatti le tracce dell’aratura e, “cosa assai sorprendente e rara, delle orme umane databili al 2400/2200 a.C. impresse nel terreno da quattro individui dotati di scarpe”. Nell’Età del Ferro l’area assume una nuova funzione, sacra e funeraria, evidente dalle sepolture monumentali e dai ricchi corredi rinvenuti attraverso gli scavi. Tra i manufatti di maggior pregio, il grande tumulo funerario con la sepoltura a inumazione e il preziosissimo corredo in bronzo databile tra IV e inizio III sec. a.C., composto da un torquis, una fibula e un bracciale liscio. Il girocollo, in particolare, è proprio quello ritrovato fortuitamente nel 1968 e da cui presero origini le indagini archeologiche.
UN VIAGGIO
NELLA STORIA DI AOSTA
Il viaggio nel tempo, dopo una pausa relax nella sala realizzata ad hoc, risale il corso dei secoli e conduce i visitatori nell’età romana e poi medievale: si possono così conoscere le abitudini quotidiane degli antichi Romani, per poi avvicinarsi al contesto della grande necropoli che ha restituito una quantità impressionante di oggetti, “alcuni dei quali estremamente rari, tra cui unguentari in alabastro, utensili in ambra, un rarissimo abaco in bronzo e un bicchiere in vetro decorato a foglia d’oro con una teoria di Santi”. Gli oggetti di età medievale, tra cui spiccano alcune monete in argento, testimoniano infine la continuità di vita del sito tra epoca repubblicana fino a età moderna.
a sinistra e sopra: Area megalitica Aosta, photo Enrico Romanzi
MILANO
Fino al 30 giugno
GRANDI MOSTRE IN ITALIA IN QUESTE SETTIMANE
DE NITTIS PITTORE DELLA
VITA MODERNA
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
Fino al 30 giugno
CÉZANNE / RENOIR
Capolavori dal Musée de l’Orangerie e dal Musée d’Orsay
Palazzo Reale palazzorealemilano.it
AOSTA
Fino al 7 aprile
FELICE CASORATI
PITTURA CHE NASCE
DALL’INTERNO
Museo Archeologico Regionale regione.vda.it
TORINO
Fino al 2 giugno
ROBERT CAPA
E GERDA TARO: la fotografia, l’amore, la guerra
Camera – Centro Italiano per la Fotografia
camera.to
Fino al 10 giugno
LIBERTY
Torino capitale
Palazzo Madama
Museo Civico d’Arte Antica palazzomadamatorino.it
Fino al 28 luglio
GUERCINO
Il mestiere del pittore
Musei Reali museireali.beniculturali.it
GALLARATE
Fino al 7 aprile
DADAMAINO 1930 – 2004
Museo MA*GA museomaga.it
SAVONA
Fino al 15 luglio
ARTURO MARTINI
La trama dei sogni
Museo della Ceramica musa.savona.it
PISTOIA
Fino al 14 luglio
‘60 POP ART ITALIA
Palazzo Buontalenti pistoiamusei.it
PRATO
Fino al 22 settembre
WALTER ALBINI. Il talento, lo stilista Museo del Tessuto museodeltessuto.it
FIRENZE
Fino al 7 aprile
ALPHONSE MUCHA. La seduzione dell’Art Nouveau
Museo degli Innocenti arthemisia.it
Fino al 21 luglio
ANSELM KIEFER Angeli Caduti
Palazzo Strozzi palazzostrozzi.org
BRESCIA
Fino al 9 Giugno
I MACCHIAIOLI
Palazzo Martinengo bresciamusei.com
Fino al 28 luglio
FRANCO FONTANA
Colore
Museo di Santa Giulia bresciamusei.com
PALERMO
Fino al 3 giugno
JAGO. Look Down
Palazzo Reale ars.sicilia.it
PADOVA TRIESTE TREVISO
Fino al 12 maggio
DA MONET A MATISSE. French Moderns 1850-1950
Palazzo Zabarella zabarella.it
Dal 13 aprile al 28 luglio
DONNA IN SCENA
Boldini, Selvatico, Martini
Musei Civici di Treviso museicivicitreviso.it
VENEZIA
Fino al 24 novembre
PIERRE HUYGHE Liminal
Punta della Dogana pinaultcollection.com
Dal 17 aprile 15 settembre
WILLEM DE KOONING E L’ITALIA
Gallerie dell’Accademia gallerieaccademia.it
Fino al 30 giugno
VAN GOGH
Capolavori dal Kröller
Müller Museum
Museo Revoltella museorevoltella.it
Fino al 30 giugno
ANTONIO LIGABUE
Museo Revoltella museorevoltella.it
FERRARA
Fino al 21 luglio
ESCHER
Palazzo dei Diamanti palazzodiamanti.it
BOLOGNA
Fino al 9 giugno
MIMMO PALADINO
NEL PALAZZO DEL PAPA
Palazzo Boncompagni palazzoboncompagni.it
FORLÌ
Fino al 30 giugno
PRERAFFAELLITI. Rinascimento moderno
Museo Civico San Domenico mostremuseisandomenico.it
PESARO
Fino al 30 giugno
MARINA ABRAMOVIĆ
The Life
Centro Arti Visive Pescheria fondazionepescheria.it
ROMA
Fino al 9 giugno
CARLA ACCARDI
Palazzo delle Esposizioni coopculture.it
Fino al 5 maggio
ARCHITETTURE INABITABILI Centrale Montemartini centralemontemartini.org
Fino al 26 maggio
ANTONIO DONGHI
La magia del silenzio Palazzo Merulana palazzomerulana.it
NAPOLI
Fino al 7 aprile
NAPOLI AL TEMPO DI NAPOLEONE
Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano gallerieditalia.com
Fino al 30 giugno
GLI DEI RITORNANO
I bronzi di San Casciano
Museo Archeologico Nazionale mann-napoli.it
CATANIA
Fino al 7 luglio
MIRÓ
La gioia del colore
Palazzo della Cultura beniculturali.it