Arte come magia, arte come memoria. Louise Bourgeois a Roma
Fausto Politino
n lavoro che trae ispirazione dall’infanzia, e dalla memoria. Louise Bourgeois. L’inconscio della memoria è la prima esposizione che la Galleria Borghese dedica all’artista contemporanea franco-americana, tra le più autorevoli del panorama dell’arte del XX e del XXI Secolo. “La mostra insegue due aspetti molti significativi del percorso di Louise Bourgeois, l’inconscio e la memoria”, spiega la direttrice della Galleria Francesca Cappelletti “Le singole opere della Galleria conservano la memoria dei loro autori e delle loro vite, a volte anche i loro ritratti nascosti, come nel caso della Minerva di Lavinia Fontana, artista che all’inizio del Seicento usa la mitologia come suo specchio. Bourgeois sembra invece non
Fino al 15 settembre 2024
LOUISE BOURGEOIS. L’inconscio della memoria
A cura di Cloé Perrone, Geraldine Leardi e Philip Larratt -Smith
Galleria Borghese
Piazzale del Museo Borghese 5 - Roma galleriaborghese.beniculturali.it
in alto: Louise Bourgeois, Passage Dangereux, 1997 Mixed media 264.1 x 355.6 x 876.3 cm Ursula Hauser Collection, Switzerland Photo: Maximilian Geuter, © The Easton Foundation/Licensed by SIAE, Italy and VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY
a destra: Louise Bourgeois, Spider, 1996, bronzo 236,4 × 756,8 × 706,1 cm Private Collection, New York © The Easton Foundation/Licensed by SIAE 2024 and VAGA at Artists Rights Society (ARS), NY. Ph.by A.Osio
nascondersi, ma esporsi il più possibile, cercando di raccontare anche il suo inconscio, i livelli di coscienza che sono poco dicibili. In questo rimando continuo fra memoria personale e collettiva, fra specchi e gabbie, risiede la forza estetica della mostra”. Forza dimostrata dalla Bourgeois nel riuscire a dipanare lo gnommero, di gaddiana memoria, che si annida nelle profondità dell’esistere.
DA MARCEL DUCHAMP
A LOUISE BOURGEOIS
“Tutto il mio lavoro trova ispirazione nella mia infanzia. La mia infanzia non ha mai perduto la sua magia, il suo mistero e la sua drammaticità”. L’artista trova una metafora calzante, le gabbie (cells), innovative e sofisticate opere scultoree, per confrontarsi con il dolore, l’eros,
l’inconscio la vita la morte l’ossessione del ricordo. Sono involucri che occupano quasi lo spazio di una stanza creati nell’arco di due decenni. Un’arte che si riconosce nel cono d’ombre di Marcel Duchamp. I due autori sono dopotutto accomunati dallo stesso scopo: verificare se l’allontanamento di un oggetto dal proprio contesto e l’innesto in un altro, possa in qualche modo funzionare. Coesistere con mondi diversi. Anche se i ready-made duchampiani non sono inquadrabili come sculture vere e proprie, sono inseriti nello spazio del mondo, non in uno spazio a parte. Nei suoi oggetti c’è una dimensione ininterrotta che si contrappone al tempo che passa. Invecchia l’io narrante, ma loro mantengono la propria identità. Nella Cell XX (Portrait), in acciaio tessuto legno e vetro, Bourgeois riflette sulla ritrattistica consolidata e la decostruisce, offrendo a chi guarda lo scambio silenzioso tra due teste, enfatizzando l’emotività e lo scandaglio psicologico rispetto alla classe e all’identità sociale.
LA FAMIGLIA, LA MEMORIA
E I RITI DI PASSAGGIO
Tutto è famiglia e memoria, nell’opera di Bourgeois. In Cell (The Last Climb), al centro del salone d’ingresso, la priorità è riconosciuta alla scala racchiusa in una gabbia di rete metallica che però comprende un’apertura, come ad
invitare l’osservatore ad entrare. Oltre alla scala sul pavimento sono posizionate due sfere di legno che simboleggiano i genitori. E ancora: sfere di vetro celeste che tendono verso l’alto, che si dilatano man mano che si sollevano verso il cielo; la lacrima blu allungata al centro dell’installazione, che rappresenta l’artista, è attraversata da aghi filettati che si diramano verso le bobine collocate attorno alla gabbia metallica. Richiami palesi al laboratorio di restauro degli arazzi gestito dalla famiglia che Bourgeois vedeva fin dall’infanzia. In Passage Dangereux, la cell più grande creata dall’artista nel salone del Lanfranco, accosta objet trouvé alle sue sculture raccontando i diversi riti di passaggio di una giovane donna Sedie sospese per bambini – chiaro riferimento alla collezione di sedie sospese che il padre teneva nella soffitta con le travi in legno –, un banco di scuola e un’altalena sono i simboli dell’infanzia. Le sfere di plastica che contengono le ossa di animali, rimandano al ciclo della vita e della morte. La sedia elettrica simboleggia la colpa e la punizione. L’ultima camera, con una coppia che fa l’amore, implica il terrore del sesso, che la Bourgeois paragona alla morte. Nei giardini si trova Spider, uno dei grandi ragni in bronzo che scandiscano di frequente il suo percorso artistico, immagine del sostegno materno. Un tributo alla propria madre, quindi, che
La mostra di Mimmo Jodice a Palazzo Velabro, in un hotel unico che è anche spazio espositivo, cinema e biblioteca
Il nuovo spazio espositivo
Liminal Space, nato da un’idea degli ex fondatori di NONE Collective e interamente dedicato all’arte digitale
Il nuovo caffè ristorante Serre
Barberini, servizio di ristorazione di Palazzo Barberini all’interno di una serra ottocentesca
faceva parte di una antica famiglia tessitrice di arazzi. Ogni sua opera ricorda i complicati rapporti parentali, da quelli travagliati con il padre a quelli malinconici con la madre.
IL RAPPORTO TOTALE
CON IL MUSEO BORGHESE
La mostra romana, realizzata in collaborazione con The Easton Foundation e l’Accademia di Francia a Roma –Villa Medici, ha voluto privilegiare la pratica scultorea facendo leva su 30 opere che dialogano con i manufatti della Galleria Borghese, tra Casino Nobile, Collezione ma anche Giardini Segreti, Meridiana e Uccelleria. Quello di Bourgeois con il Museo Borghese è un rapporto del tutto particolare: l’artista era affascinata dalla città, e considerava la Galleria Borghese, e la relativa Villa, uno dei posti più importanti di Roma. “È stato meraviglioso, è un sogno: sei Bernini”, scriveva al marito. Un periodo cha ha portato a una fase determinante del suo percorso. Che pure cambiò molto lungo i sette decenni della sua attività creativa. Determinante, nella sua opera, il motivo della metamorfosi, esemplificata nell’ambigua e simmetricamente sospesa forma di Janus Fleuri Un riferimento al dio romano Giano, spesso raffigurato con due teste che si rivolgono in direzioni opposte perché guardano al passato e al futuro: l’artista ha realizzato sei versioni dell’opera, cinque in bronzo e una in porcellana, con ogni pezzo agganciato a un unico filo con la libertà di ruotare sul suo asse.
Il marmo di Luni e l’Impero di Roma. La mostra a Genova
Nicola Davide Angerame
rima che nell’Alto Medioevo i grandi edifici e le sculture pagane in marmo venissero trasformati in calce, o che i templi fossero smantellati per diventare chiese, l’Impero Romano aveva prima costruito e poi consegnato alla furia della storia una civiltà che proprio della metamorfica pietra si era infatuata, trasformandosi da civiltà di laterizi e bronzo in civiltà del marmo. È la storia del marmo di Luna quella che adesso una mostra a Genova racconta con dovizia di particolari, portandoci dai capolavori ritrovati a Luni fino ai monumentali edifici realizzati a Roma, passando per le scene di lavorazione nelle cave e per la vita dei naviganti sulle rotte del marmo. Curata da Matteo Cadario, Marcella Mancusi e Antonella Traverso, Pietra di Luna. Il marmo di Luni e l’Impero di Roma è organizzata da Musei Nazionali di Genova con il Museo nazionale e parco archeologico di Luni – uno dei più visitati della Liguria, oggetto di significativi finanziamenti – in collaborazione con il Museo Nazionale Romano.
PUNA CITTÀ DI MARMO
Nel 177 a.C. duemila coloni vennero inviati da Roma a fondare Luna per proteggere il suo porto dai Galli e dai Liguri indomiti, 40mila dei quali furono deportati nel Sannio. Luna era un porto del ricco sistema romano in un’epoca in cui i traffici per nave costavano trenta volte meno di quelli via terra. E da lì il marmo poteva facilmente raggiungere Ostia, il porto di una Roma che due secoli più tardi farà proprie le cave per rifarsi il look. La mostra racconta come la piccola città sia diventata una delle più splendenti avendo a disposizione le cave delle Alpi Apuane (quelle del marmo di Carrara), poco distanti. Ha inizio così la storia avvincente di una colonia che all’epoca, prima degli interramenti e delle sedimentazioni dei secoli a venire, si affacciava sul mare e sorgeva vicina a un’area lagunare ricca di approdi. La sua forma quadrangolare, formata da cardini e decumani, vedeva il suo centro nella grande piazza del foro, sulla quale si affacciavano le tabernae e gli edifici pubblici, in particolare il tempio capitolino e, più tardi, la basilica civile. Presto Luna diventò una città di marmo. Nel teatro progettato seguendo gli schemi di Vitruvio, le statue colossali si alternavano a quelle in miniatura, mentre il tempio di Luna ospitava alcune delle statue più belle oggi conservate in musei archeologici tra Roma e Carrara. La città contava anche una seconda piazza, più numerose ricche dimore e un anfiteatro.
AUGUSTO IL MARMORIZZATORE
Per mano del suo primo imperatore, Ottaviano Augusto, Roma assume l’eredità marmorea delle pòleis greche, rivestendosi della “pietra splendente” (ciò significa in greco il termine “marmaron”) al fine di dichiarare una supremazia culturale, estetica ed economica. Augusto vuole mettersi al pari delle capitali elleniche come Alessandria, che proprio l’Impero è riuscito a conquistare. Tutto ciò non sarebbe stato fattibile senza il marmo di Luna, che il geografo Strabone considera decisivo anche per la trasformazione monumentale di molte città galliche, come Arles, e ispaniche, come Terragona e Cordoba. Grazie a un allestimento che utilizza grafiche comparative per meglio fruire le opere esposte in relazione al contesto e alla sede originaria, la mostra rende conto degli edifici sorti con il marmo di queste cave, quali e quanti siano. Oltre che nella città eterna, il marmo lunense compare infatti nei siti archeologici di tutta Italia: solo in Campania troviamo il tempio di Augusto a Pozzuoli, il tempio dei Dioscuri a Napoli, l’arco di Traiano a Benevento. Dopo oltre quattro secoli di “coltivazione” a mano dei
marmi lunensi, e dopo gli ultimi utilizzi di Caracalla all’inizio del III Secolo, l’intenso sfruttamento delle cave tramonterà fino a scomparire, per poi tornare circa otto secoli dopo in epoca medievale e rinascimentale. Se le statue antiche realizzate in bronzo sono state tutte fuse – tranne quella di Marco Aurelio, perché scambiato per il primo imperatore cristiano Costantino –, il marmo, per quanto depredato e riutilizzato, è giunto fino a noi con monumenti feriti o resti di edifici. Metà del Colosseo è meglio di niente, del resto. E in questa storia di splendori e smarrimenti, il marmo della colonia di Luna ha dato un considerevole contributo.
L’INTERVISTA AI CURATORI
Marcella Mancusi, direttrice della Villa romana del Varignano (Porto Venere)
Matteo Cadario, professore di Archeologia classica all’Università di Udine.
Come nasce questa mostra così particolare?
Marcella Mancusi: Luni è la realtà archeologica più importante per l’età classica in Liguria, ma pochissimi sanno che il suo marmo ha avuto
Fino al 29 settembre 2024
PIETRA DI LUNA. Il marmo di Luni e l’Impero di Roma
A cura di Matteo Cadario, Marcella Mancusi e Antonella Traverso Palazzo Reale Via Balbi, 10 - Genova palazzorealegenova.cultura.gov.it
Dioscuri ed il Tempio della Concordia sono tutti rifatti in marmo di Luni in età augustea. Poi ci sono l’Ara Pacis, il Tempio di Apollo Palatino e il Foro di Augusto. Si tratta di un numero significativo; quando Augusto dice: “Ho trovato una Roma di laterizi e l’ho fatta di marmo”, non è solo una vanteria ma un dato reale.
Quali sono gli oggetti più importanti in mostra?
a sinistra: La pietra di Luna - sez Riconoscere il marmo in basso: La pietra di Luna - sez La città di Luna
copyright Musei Nazionali di Genova - Direzione regionale Musei Nazionali Liguria
una straordinaria importanza nell’Impero Romano. La mostra nasce dal desiderio di far conoscere questa realtà.
Matteo Cadario: Questa mostra è l’occasione per fare un primo bilancio e per presentare i reperti in marmo più antichi realizzati in età repubblicana. Studia anche il periodo esatto in cui le cave diventano di proprietà imperiale, bloccando le capacità produttive locali.
Dopo cosa accade?
MC: Luni resta concorrenziale sui materiali architettonici. Se l’imperatore vuole farsi fare la colonna Traiana viene a Luni, ma per i ritratti di Traiano non si usa quasi più il marmo lunense ma quello che proviene dalla Turchia.
Quanto è importante l’economia del marmo in quel mondo?
MC: Abbiamo pochissime informazioni sul costo della vita, ma in un mondo in cui le classi dirigenti costruiscono edifici per dimostrare il proprio “evergetismo” l’investimento è significativo, anche da parte degli imperatori. Nella città romana gli edifici pubblici e di culto sono in marmo nella loro parte esterna, per le parti interne si usano il cementizio o i laterizi, che costano meno perché prodotti in serie dagli schiavi.
Si tratta soltanto di un valore economico?
MM: Il marmo ha un valore anche ideologico, è uno strumento di potere utile per la propaganda politica. L’ampia diffusione dei ritratti imperiali dà la misura di un valore che non è quantificabile soltanto in termini di costi in una società in cui la comunicazione si basa sulle immagini.
Qual è il legame tra il marmo e Roma?
MC: La Repubblica non aveva questo marmo, ma in età augustea si valorizza la prossimità di Luni e ciò cambia le regole del gioco. Si può fare una lista significativa di edifici: la Basilica Emilia, il Tempio del Divo Giulio, il Tempio dei
MM: La mostra è divisa in sezioni. La prima è dedicata al riconoscimento dei marmi bianchi. Poi c’è la sezione sulla produzione, che prevedeva varie tappe e coinvolgeva numerose figure di lavoratori. Qui è esposto un rilievo con una rara raffigurazione di lapicidi all’opera. Nella sezione dedicata alla colonia di Luna punterei invece l’attenzione sulla statua di un comandante trovata nel tempio della dea eponima e protettrice della città. È un capolavoro, e poteva ritrarre Augusto.
Poi c’è il trono degli Alessandri.
MC: È un pezzo raro, di qualità eccezionale e stranissimo, anche per la presenza di figure di guerrieri. Probabilmente non è di età severiana, come si pensava, ma molto più antico. Difficile capire dove potesse essere ubicato e per quale funzione. I valori che presenta sono quelli del ginnasio, quindi ellenistici e non stricto sensu romani.
Nella sezione dedicata a Roma c’è una novità. MC: È il ritratto di Augusto da Isernia. Siamo i secondi, dopo Roma, a presentarlo; è fatto in marmo lunense ed è stato scoperto due anni fa. Con il capitello coi Pegasi del foro di Augusto dà bene l’idea dell’alta qualità formale che
Il Museo di Sant’Agostino, il Museo di Architettura e Scultura Ligure” di Genova, all’interno del complesso dell’ex convento dei frati Eremitani
La piccola parrocchia di San Luca, che ospita la Natività e l’adorazione del bambinello da parte dei pastori, capolavoro del Grechetto
Il Cimitero di Staglieno, tra i più grandi cimiteri monumentali d’Europa, amato da Hemingway e Twain
in età augustea il marmo poteva raggiungere attraverso la lavorazione di botteghe altissimo livello che lavoravano nella capitale.
Una Roma che guardava comunque alla Grecia.
MC: Sì. Dopotutto nel foro di Augusto c’erano le copie delle Cariatidi dell’Eretteo: Roma è il luogo dove gli scultori ateniesi si trasferiscono.
Fermare il tempo e dilatarlo. Calder in mostra a Lugano
Giulia Giaume
Èqualcosa di serio nonostante non dia l’impressione di esserlo”. Era il 1931 quando Fernand Léger incontrò l’opera di Alexander Calder (Lawnton, 1898 – New York, 1976), in mostra alla Galerie Percier di Parigi: la gioia e il colore insiti all’opera del fondatore dell’arte cinetica erano visti quasi come un ostacolo alla percezione del portato rivoluzionario della sua opera. E ancora oggi sembra allontanare l’idea della leggerezza il nipote dell’artista, Alexander S.C. Rower, presidente di quella Calder Foundation che più di tutti ha reso possibile la grande mostra Calder. Sculpting Time da poche settimane inaugurata al MASI Lugano: “Se credo che il suo lavoro abbia una componente di 'gioco'? 'Play' è una “four letter word”, una parola offensiva, e che spesso nel mondo anglofono allude all’assenza di intellettualità e profondità. Se parliamo invece della componente di costante scoperta e sperimentazione, c’è di sicuro questa
Fino al 6 ottobre 2024 CALDER. SCULPTING TIME
A cura di Carmen Giménez e Ana Mingot Comenge
Museo d’arte della Svizzera italiana Lugano – Sede LAC masilugano.ch
in alto e a destra: Veduta dell’allestimento Calder. Sculpting Time, MASI Lugano, Svizzera.
Luca Meneghel © 2024 Calder Foundation, New York / Artists Rights Society (ARS), New York
attitudine. Come quando un bambino fa le torri con i blocchi di legno e scopre man mano cosa funziona e cosa no, e continua a guardare avanti”.
UNA SPERIMENTAZIONE LUNGA UNA VITA
E davvero, Calder non si è mai guardato indietro. Nello spazio al primo piano (completamente liberato da ingombri) del grande museo svizzero – che con questa operazione punta a competere con le più grandi istituzioni elvetiche – si osserva un percorso articolato e sperimentale, che dalle prime astrazioni parigine, dalle densité, dalle sphérique, dagli arc e dai mouvements arrêté giunge ai mobile, termine coniato da Marcel Duchamp per quelle sue sculture cinetiche attivate dalle condizioni ambientali. E poi ancora ci sono gli standing mobile e gli stabile, a sua volta un nome ideato da Jean Arp per le opere dal “movimento implicito” (epica la grande Funghi Neri). Il periodo osservato è quello del 1931-1960: da una Croisière
L’affresco della Passione e della Crocifissione di Bernardino Luini, capolavoro rinascimentale ospitato nella chiesa di Santa Maria degli Angioli
Il Parco Ciani, che oltre a racchiudere diverse sculture (per esempio quelle di Messina e Vela), è anche luogo di eventi ed esposizioni temporanee
La street art a “tema naturale” tra viale Franscini e via Lavizzari
Sede LAC
in filo metallico e legno si passa al grande Big Bird di metallo, muovendosi progressivamente verso gli elementi mobili (stupende la grande Arc of Petals del ‘41) e le strutture sempre più composite: le materiche constellations prima, e le grandi strutture mobili poi, da Triple Gong a Quatre systèmes rouges, per poi approdare all’imponente Red Lily Pads (1956), esposta di fronte alla grande vetrata vista lago della sede LAC del MASI. “I suoi lavori sono quasi...vivi. E anche se non tengono in vita lui, sicuramente riescono a tenere vive le sue intenzioni, e spingere chi le guarda a vedere oltre le forme e i colori, a studiare. Sono opere complicate, che non hanno un 'senso' intuitivo”, continua Rower.
LA CURATELA DI CARMEN GIMÉNEZ
Dalla ricercata selezione delle circa trenta opere in mostra traspaiono l’esperienza e la visione d’insieme dall’esperta mondiale di Calder, nonché presidente del board del MASI a fine mandato, Carmen Giménez, affiancata nella curatela da Ana Mingot Comenge: “Non ho mai avuto una libertà di questo tipo, sono stata messa nelle condizioni di avere tutto lo spazio che desideravo e di radunare molte opere di grandissimo valore. Certo, ci abbiamo messo tanti anni: è da prima della pandemia che ci lavoriamo”, racconta la curatrice. Che si è tolta anche qualche soddisfazione, come vedere per la prima volta, portandola in mostra, l’opera Senza Titolo del 1939, esposta per la seconda volta nella storia (e mai durante la vita dell’artista). “Questo è il lavoro che consiglierei di osservare con più attenzione di questa mostra”, precisa il presidente della Fondazione. “Guardando quest’opera si apre uno squarcio che, oltre che temporale, è proprio multidimensionale”
CRONOLOGIA DI UNA SPERIMENTAZIONE
CRONOLOGIA DI UNA SPERIMENTAZIONE
1898 1925
I primi anni Dopo un’infanzia creativa, Calder si trasferisce a New York e studia alla Art Students League. Qui lavora alla National Police Gazette, illustrando eventi sportivi, e realizza centinaia di disegni a pennello di animali negli zoo del Bronx e di Central Park. Durante questo periodo, utilizza spesso lamiera e filo per progetti personali.
Passaggio all’astrazione. Dopo una visita allo studio di Piet Mondrian, Calder comincia a dare forma alle prime composizioni completamente astratte. Inventa la scultura cinetica e nascono i primi mobile Di questo periodo sono anche molti stabile. 1930 1936
1946 1952
La fama internazionale. Cruciale la mostra del 1946 alla Galerie Louis Carré di Parigi, per cui Sartre scrisse un importante saggio. Cresce la sua fama internazionale, anche grazie all’enorme soffitto acustico progettato per l’Universidad Central de Venezuela. Nel 1952 rappresenta gli Stati Uniti alla Biennale Arte di Venezia, vincendo il primo premio per la scultura.
1963 1976
1926 1930
La scultura in filo metallico e il Cirque Calder Si trasferisce a Parigi, e dopo poco sale agli onori della cronaca con il suo Cirque Calder: realizzato con fili e materiali di recupero, il Cirque è un’opera d’arte scultorea e performativa che apre Calder all’avanguardia parigina. Continuano le sperimentazioni con la wire sculpture.
1937 1945
Commissioni pubbliche. Oltre a completare il primo stabile ampliato da un modello, Devil Fish, Calder riceve due importanti commissioni, Mercury Fountain e Lobster Trap and Fish Tail. Nel 1938 tiene la sua prima retrospettiva alla George Walter Vincent Smith Gallery di Springfield, nel Massachusetts, seguita da un’altra al Museum of Modern Art di New York.
1953 1962
Sviluppi su larga scala e progetti intercontinentali Durante un soggiorno di un anno ad Aix-en-Provence, Calder realizza il primo gruppo di opere all’aperto su larga scala e contemporaneamente si sposta sulla pittura a guazzo. Viaggia molto, e in tutto il mondo.
Opere Monumentali. Nel 1963, Calder completa la costruzione di un grande studio con vista sulla valle dell’Indre. Con l’aiuto di una ferriera industriale su vasta scala, inizia a fabbricare le opere monumentali in Francia e dedica gran parte dei suoi ultimi anni di lavoro a commissioni pubbliche a New York.
Federico Barocci. Il pittore della Cristiana Letizia torna a Urbino
Emma Sedini
Tra i nomi illustri che hanno scritto nei secoli la storia di Urbino, Federico Barocci (Urbino, 1535 – 1612) ha oggi un posto importante. Quasi dimenticato nel periodo delle Avanguardie, è stato oggetto di una riscoperta che ha contribuito a ristabilirne la fama presso la critica. La grande mostra Federico Barocci Urbino. L’emozione della pittura moderna, organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, prosegue su questo percorso, offrendo al pubblico un’occasione di riscoprire un pezzo di storia della città, del Museo e di questo artista che celebrò le glorie del crepuscolo del Ducato. Dopo più di 110 anni da quando il fondatore della Galleria, Lionello Venturi, espresse per la prima volta l’intenzione di fare una simile esposizione, la promessa diventa realtà: grazie a prestiti nazionali e non, le 76 opere qui riunite illustrano tutta la carriera di Barocci, il pittore della Cristiana Letizia, nonché erede - mancato, per quel che riguarda la scena romana - di Raffaello.
UNA GRANDE MOSTRA
A URBINO
La ricca rassegna al Palazzo Ducale di Urbino –che come un grande trompe l’œil ne estende la
La casa di Raffaello, costruita nel XV secolo e acquistata nel 1460 dal padre di Raffaello, Giovanni Santi, umanista, poeta e pittore di corte
La Rocca Albornoz, una struttura fortificata posta sul punto più alto del Monte Sergio da dove si ha una vista panoramica unica su Urbino e il Montefeltro
L’Oratorio di San Giovanni Battista, grande esempio di Gotico Internazionale, e l’Oratorio di San Giuseppe, dove osservare il presepe cinquecentesco di Federico Brandani
visione oltre le tele in cui è spesso raffigurato – tratteggia un profilo esaustivo di Federico Barocci, risaltandone il valore. I sei nuclei narrativi, disposti in ordine cronologico, illustrano il contesto culturale dell’epoca, per poi entrare nel vivo della sua produzione con le grandi pale d’altare legate ai committenti religiosi. Emblematica è la Deposizione per il Duomo di Perugia, in cui emerge la struttura musicale della composizione, accompagnata dalla perpetua grazia delle espressioni e dei colori. Natura ed affetti caratterizzano la terza sezione, espressi anche attraverso la frequente inclusione di animali - cagnolini, uccellini, o gatti - che coabitano la
scena. Si prosegue poi nel tempo, fino alla conclusione della mostra, pensata nell’appartamento roveresco al secondo piano.
LA CENTRALITÀ DEL DISEGNO E DELL’INCISIONE
Due brani espositivi sono dedicati ai disegni preparatori e all’attività grafica di Barocci. Come emerge dalla mostra, ogni aspetto delle opere finali è accuratamente studiato e provato a più riprese su carta, alternando carboncino, pastelli e olio. L’idea compositiva mentale è verificata in concreto - si racconta facesse posare gli allievi per assicurarsi gesti naturali
FEDERICO BAROCCI
Pittore, incisore, e grande disegnatore. Federico Barocci (Urbino, 1535-1612) è uno dei più grandi maestri del tramonto del Rinascimento. La sua fama è strettamente legata alla città di Urbino, dove nasce e lavora per quasi tutta la vita, fedele nel suo essere artista “politico” al servizio del casato dei Della Rovere, di cui Francesco Maria II è l’ultimo erede.
Si forma dunque in un fervido contesto culturale, frequentando la bottega dei Genga, e assorbendo gli insegnamenti di Tiziano, Raffaello, e persino di un manoscritto di Leonardo, le cui opere figurano nelle collezioni del Palazzo Ducale. Ed è quest’ultimo - la residenza dai tipici torricini - a figurare più volte negli sfondi dei suoi dipinti, quale timbro iconico dal parallelo valore politico. Impressionato dalle Stanze raffaellite, si spinge nella Capitale, quale promettente erede di Raffaello, ma non fa in tempo a finire la sua prima commissione per la Casina di Pio IV nei Giardini Vaticani, che è costretto a tornare a Urbino per ancora oscuri motivi di salute. Un’ulcera, o forse un avvelenamento; certo è che la sua biografia prende una strada diversa dal conterraneo, relegandolo alla città marchigiana, dove lavora fino alla morte, malgrado l’infermità altalenante che ne rallenta i ritmi di produzione. Dalla finestra del suo studio, da cui si scorge tanto il Palazzo Ducale quanto la Chiesa dei Francescani, Barocci immortala con naturalismo dolce ed emozionale gli ultimi fasti della corte, assicurandosi il successo pur lontano da Roma. Non meno importanti sono le committenze religiose, legate alla Riforma cattolica della cerchia di Filippo Neri, a cui si riconduce il concetto di Cristiana Letizia.
e non forzati -, e solo poi trasferita su tela. Lo stesso vale per le luci e i colori: provati in miniatura per rendere al meglio la dolcezza caratteristica della Cristiana Letizia quale ideale di fede umile e fonte di gioia. Un capitolo a sé hanno infine le quattro incisioni, realizzate a morsure replicate. Una variante di acquaforte che avvicina la grafica alla pittura, ammorbidendone l’impatto chiaroscurale, quale innovazione assoluta per l’epoca.
L’INTERVISTA AI CURATORI
La mostra, affiancata da un intenso impegno di ricerca e restauro, intende restituire un grande urbinate alla contemporaneità, donando “un sorriso e un po’ di bellezza, di cui tutti oggi abbiamo bisogno”. Sono le parole di accompagnamento dei curatori Luigi Gallo e Anna Maria Ambrosini, che abbiamo intervistato in esclusiva.
Nei secoli, Urbino ha visto nascere ed emergere grandi nomi del panorama culturale, da Raffaello ai letterati della corte ducale. Federico Barocci è uno di questi.
Il suo ruolo a Urbino è fondamentale quale ultimo grande interprete di una scuola locale che ha prodotto personaggi del calibro di Pedro Berruguete e Raffaello. Barocci ne porta avanti il lascito dinnanzi ai suoi contemporanei, come
Fino al 6 ottobre 2024
FEDERICO BAROCCI URBINO. L’emozione della pittura moderna
A cura di Luigi Gallo e Anna Maria Ambrosini
Massari con Luca Baroni e Giovanni Russo Palazzo Ducale di Urbino
Piazza Rinascimento, 13 gallerianazionalemarche.it
a sinistra: Federico Barocci, Natività, 1597, olio su tela, 134 x 105 cm, Madrid, Museo del Prado
in alto: Federico Barocci, Autoritratto Giovanile, ca. 1570, olio su tela, Firenze, Galleria degli Uffizi
Caravaggio e i Carracci. È l’artista che, già in vita, figura come il più pagato d’Italia: i prezzi dei suoi quadri sono altissimi. Se non è il più famoso, di certo è il più costoso dell’epoca.
E qual è invece il ruolo di Urbino per l’artista? Urbino è altrettanto centrale per Barocci. Basti considerare che - ad eccezione di brevi momenti della sua vita - egli vive e lavora sempre
in città. E questa assume nelle sue opere una funzione iconica: ne diventa la firma distintiva. Allo stesso tempo, i suoi lavori - in cui ricorrono le immagini del Palazzo Ducale o gli scorci del convento - hanno forte valenza politica nella scacchiera delle famiglie più potenti europee. È in capolavori come la grande Crocifissione, commissionata per il Sovrano di Spagna, che l’edificio urbinate dipinto sullo sfondo esporta il prestigio del Ducato, affermandone la rilevanza presso le corti estere.
Entriamo nel vivo della mostra: una grande occasione di riscoperta di questo maestro moderno e di onore per il ruolo culturale marchigiano.
La mostra si inserisce in un percorso ormai pluriennale della Galleria, volto a porre in risalto l’irraggiamento culturale di Urbino nei secoli. Allo stesso tempo, però, è la realizzazione di una promessa: la fine di un’attesa lunga più di 110 anni. Si tratta della promessa fatta ai cittadini nel 1913 da un giovane Lionello Venturi, fondatore di questo museo. Dopo tre anni di studio e lavoro, è oggi realtà, forte dell’entusiasmo di ognuno dei prestatori coinvolti. Tutte le strade si riuniscono: la storia di Urbino, la biografia di Barocci, e l’origine della stessa Galleria.
Guardando alle opere riunite, colpiscono l’estrema dolcezza e la sensibilità nella mano di Barocci.
Sono l’espressione piena della Cristiana Letizia, sentimento promosso ai tempi da san Filippo Neri che mira a riavvicinare i fedeli alla Chiesa. A una Chiesa “degli umili”, improntata alla gioia cristiana. L’artista ha con lui stretti rapporti, concretizzatisi in due grandi pale (qui esposte) per la Chiesa della Valpolicella. La dolcezza di Barocci - quasi un sentimento romantico - si afferma come terza via, alternativa al crudo Realismo di Caravaggio, e al Classicismo dei Carracci. Sarà fondamentale per il Barocco successivo, e non solo: la sua sensibilità emozionale è estremamente moderna, e capace di attraversare le epoche.
In ultimo, non si possono tralasciare disegno e incisione.
Proprio così. Barocci utilizza molto il disegno preparatorio. Le fonti ce lo dicono e lo stile ce lo conferma: la sua è una ricerca molto attenta al naturalismo plastico delle luci e dei colori, e alla grazia dei sentimenti umani. Il che richiede un lungo studio prima della messa in opera definitiva. E poi ci sono le incisioni. Benché ne abbia prodotte solo quattro, sono testimonianza chiave di utilizzo di una tecnica innovativa, quella a morsure replicate, che richiede ripetute immersioni nell’acido, così da ottenere un chiaroscuro più morbido e sfumato. Un gioco di ombre da lui anticipato, che avrà un enorme successo nel pieno Seicento, e un ulteriore lascito di Federico Barocci, che ne riconferma l’importanza nel panorama della storia dell’arte.
Nostalgia ineluttabile. A Genova la grande mostra su un ‘sentimento moderno’
Giulia Giaume
Non deve sorprendere che in un mondo così ossessionato dalla tecnologia, dall’innovazione e dalla competizione come il nostro vi sia, a rovescio della medaglia, un costante sguardo volto all’indietro e all’altrove, un languore personale e civile che spinge al rallentamento, a tratti all’atrofia. Eppure questo sentire, che per molti è una delle cifre dei nostri tempi, non è affatto una qualifica esclusiva della nostra epoca, piuttosto una variazione su un tema: a indicarlo è un percorso tutto dedicato a un sentimento, quello della nostalgia, al Palazzo Ducale di Genova. Il lungo viaggio di Nostalgia. Modernità di un sentimento dal Rinascimento al Contemporaneo espone, in centoventi opere, l’evoluzione del tema nel corso di quasi quattrocento anni dalla sua formulazione, così come appare nella dissertazione medica di Johannes Hofer nel 1688 come disturbo dato dal “dolore del ritorno”.
I CORSI E I RICORSI
DELLA NOSTALGIA
Il foltissimo percorso, che molto deve ai prestiti della Wolfsoniana di Nervi ed è accompagnato da un podcast realizzato con Chora Media, si snoda in dodici sezioni tematiche tra le stanze dell’appartamento del Doge e la cappella, dove è esposta una grande installazione di Anish Ka-
Grand Tour di Loria e le rovine di de Pisis. Intensa, e familiare, la nostalgia nell’età della propaganda, con la famiglia che ascolta il duce di Ricchetti (ritoccata dopo la caduta del Fascismo) e il modellino del revanchista padiglione Italia all’Expo di New York del ‘39. Che vederci da lontano riesca a vaccinarci? “Non esiste un vaccino”, dice Fochessati, che ha qui lavorato in collaborazione con Anna Vyazemtseva della Wolfsoniana. “Tutte queste espressioni dell’arte fascista e nazista tornano ancora nei giorni nostri. Uno dei testi in catalogo, dello storico Ferdinando Fasce, parla proprio di questo: le strategie propagandistiche ideologiche di allora sono proprio le stesse che vediamo in Putin, Trump e nella Brexit. È la ciclicità della storia”.
È comunque ottimista il percorso, prima mostra sotto la direzione di Ilaria Bonaccossa, che da uno sguardo all’esotico approda alla nostalgia della felicità (tra spiagge piene di bimbi e le luci notturne di Coleman e Balla) e a quella dell’infinito, con un grande Spalletti e una
bellissima scultura di Martini. “Nonostante la nostalgia sia considerata un sentimento ‘un po’ sfigato’, è comunque qualcosa che può aiutarci a capire meglio il nostro passato, e quindi a pianificare meglio il nostro presente e il nostro futuro”, dice Fochessati. Più pratica la direttrice Bonaccossa: “Siamo una società del remake e della riappropriazione, sono temi molto frequenti nel nostro presente: c’è questo costante bisogno di guadare indietro, perché forse stiamo perdendo capacità di guardare avanti. Questa mostra invece ci chiede di muoverci in avanti, di fare un salto”
Fino al 1 settembre 2024 NOSTALGIA. Modernità di un sentimento dal Rinascimento al Contemporaneo A cura di Matteo Fochessati in collaborazione con Anna Vyazemtseva Palazzo Ducale di Genova Appartamento del Doge
Piazza Matteotti, 9 - Genova palazzoducale.genova.it
E luce sia: intervista al lighting designer Francesco Murano
Marta Santacatterina
Vi è mai capitato di lamentarvi per una mostra illuminata male, con riflessi sulle opere o dipinti invisibili perché lasciati pressoché al buio? Oppure di apprezzare un’illuminazione perfetta? Probabilmente sì. E infatti calibrare i punti luce è un’operazione complessa, che fa la differenza sulla fruibilità di un’esposizione. Tra i professionisti che “accendono i fari” sulle mostre italiane più importanti c’è Francesco Murano, che in questa intervista racconta cosa significa essere lighting designer
Come è nata la sua passione per la luce? È stato cruciale un corso che ho frequentato alla Domus Academy, dove ho incontrato Clino Trini Castelli, fondatore della disciplina chiamata ‘design primario’ e che si occupa di tutto ciò che è immateriale, come il suono, la luce, gli odori… Ho così cominciato a pensare alla luce non come semplice strumento di illuminazione ma come mezzo che potesse creare delle emozioni. Ad esempio quando illumino i dipinti cerco di capire come deve finire la luce sul muro, cioè in modo brusco, con un effetto molto definito e drammatico, oppure sfumando verso il buio.
Ci racconta la sua prima esperienza in quest’ambito?
La mia prima mostra è stata la monografica su Edward Hopper allestita al Museo di Roma nel 2010. Quando è arrivata la proposta, ho
cominciato a testare tutte le lampadine disponibili per valutare il loro effetto e per caso ho provato a usare simultaneamente una lampadina a luce calda e una a luce fredda: l’opera esplodeva di colori. Per l’allestimento ho quindi usato questo metodo che garantisce un’incredibile luminosità pur rimanendo all’interno dei lux massimi concessi.
Quanto contano le innovazioni nel campo delle luci?
Mi sono sempre interessato di tecnologia e ora con il Politecnico di Milano stiamo predisponendo dei sistemi totalmente innovativi che, grazie alla computer vision, riconoscono le forme dei dipinti e illuminano perfettamente il loro interno. Il prototipo è già funzionante e
speriamo di riuscire a utilizzare il sistema entro la fine dell’anno. È una soluzione ideale per i piccoli musei e per le gallerie private, dove non è facile avere a disposizione un operatore specializzato nelle luci. Inoltre sto finalizzando un progetto di didascalie auto-illuminanti che risolveranno tanti dei problemi di leggibilità dei cartellini.
Quali progetti le sono rimasti nel cuore?
Nel 2023 mi sono occupato dell’esposizione a Melfi di due sarcofagi romani, uno dei quali è grandissimo e sul coperchio reca scolpita una fanciulla sdraiata, che non è molto visibile: ho quindi usato degli specchi e il risultato è stato molto emozionante. Un’altra mostra che mi ha dato molte soddisfazioni è stata quella su Bosch a palazzo Grimani a Venezia, perché nella sala non c’era illuminazione e ho dovuto far entrare la luce attraverso una finestra. Poi amo lavorare sui dipinti di Klimt, le cui figure hanno un incarnato incredibile.
Quali sono le opere più difficili da illuminare? Quelle di grande formato, specie a olio e su fondo nero, perché sembrano quasi degli specchi. A volte arrivano addirittura all’altezza del binario dove si montano le luci, ed è molto complicato far sì che non si formino dei riflessi.
Ci può anticipare a quali nuovi progetti sta lavorando?
Nei prossimi mesi mi occuperò di Munch a Palazzo Reale di Milano, poi di Niki de Saint Phalle al Mudec, dove lavorerò anche sul progetto su Dubuffet e l’Art Brut. Poi, se tutto va come dovrebbe andare, dovrei rifare l’impianto illuminotecnico della Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova, che è uno dei miei sogni nel cassetto.
GRANDI
Fino al 23 settembre 2024
PINO PASCALI
Fondazione Prada fondazioneprada.org
Fino al 12 gennaio 2025
GAE AULENTI (1927 – 2012)
Triennale - Palazzo dell'Arte triennale.org
Fino al 6 ottobre 2024
MARGARET BOURKE-WHITE. L’opera 1930-1960
Camera Centro per la Fotografia camera.to
Fino al 1 settembre 2024 NOSTALGIA.
Modernità di un sentimento dal Rinascimento al Contemporaneo
Palazzo Ducale palazzoducale.genova.it
Fino al 29 settembre 2024
LA PIETRA DI LUNA. Il marmo di Luni e l'Impero di Roma
Palazzo Reale palazzorealegenova.cultura.gov.it
Fino al 24 novembre 2024
MILANO ANNI '60. Da Lucio Fontana a Piero Manzoni, da Enrico Baj a Bruno Munari Palazzo delle Paure simulecco.it
Fino al 27 ottobre 2024
BELLE ÉPOQUE.
I pittori italiani della vita moderna. Da Lega e Fattori a Boldini e De Nittis a Nomellini e Balla
Palazzo Cucchiari palazzocucchiari.it
Fino al 22 settembre WALTER ALBINI. Il talento, lo stilista Museo del Tessuto museodeltessuto.it
fino al 20 ottobre
LOUISE BOURGEOIS IN FLORENCE
Museo Novecento e Museo degli Innocenti museonovecento.it
Fino al al 1 settembre 2024 NAPOLI A BERGAMO. Uno sguardo sul ’600 nella collezione De Vito e in città Accademia Carrara lacarrara.it
TRENTO
Fino al 20 ottobre 2024
DÜRER E LE ORIGINI DEL RINASCIMENTO NEL
TRENTINO
Museo del Castello del Buonconsiglio buonconsiglio.it
ROVERETO GORIZIA
Fino al 20 ottobre 2024
SURREALISMI.
Da de Chirico a Gaetano Pesce
MART - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto mart.tn.it
Fino al 6 ottobre 2024
FEDERICO BAROCCI URBINO. L’emozione della pittura moderna
Galleria Nazionale delle Marche Palazzo Ducale di Urbino gallerianazionalemarche.it
Fino al 15 settembre 2024
KLIMT. LE TRE ETÀ
Galleria Nazionale dell'Umbria gallerianazionaledellumbria.it
Fino al 27 ottobre 2024
ITALIA SESSANTA. Arte, Moda e Design. Dal Boom al Pop Palazzo Attems Petzenstein palazzoattems.regione.fvg.it
SIRACUSA
Fino al 31 ottobre 2025
MITORAJ. Lo Sguardo, Humanitas, Physis
Parco archeologico della Neapolis a Siracusa parchiarcheologici.regione.sicilia.it
VENEZIA
fino al 15 settembre 2024
WILLEM DE KOONING E L’ITALIA
Gallerie dell’Accademia gallerieaccademia.it
Fino al 16 settembre 2024
JEAN COCTEAU.
La rivincita del giocoliere
Collezione Peggy Guggenheim guggenheim-venice.it
Fino al 24 novembre 2024
MONTE DI PIETÀ.
Un progetto di Christoph Büchel
Ca' Corner della Regina fondazioneprada.org
Fino al 15 settembre 2024
LOUISE BOURGEOIS. L’inconscio della memoria Galleria Borghese galleriaborghese.beniculturali.it
Fino al 6 ottobre 2024
GIOVANNI ANSELMO Oltre l'orizzonte MAXXI fondazionemaxxi.it
Fino al 1 settembre 2024
CARLA ACCARDI Palazzo delle Esposizioni palazzoesposizioniroma.it
Fino al 31 dicembre 2024
EMILIO ISGRÒ: protagonista 2024
La Galleria Nazionale lagallerianazionale.com