PHRONEIN - supplemento a Atelier nr.90

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PHRONEIN Comune a tutti è il pensare

Rivista filosofica semestrale

Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche Numero 1 11


Trimestrale di poesia, critica e letteratura Supplemento del n. 90 (giugno 2018) Direttore: Giuliano Ladolfi (direttore responsabile) Direttori editoriali: Guido Mattia Gallerani e Chiara Bernini Direttrici Atelier online: Clery Celeste ed Eleonora Rimolo Direttore supplementi internazionali: Francesca Benocci Coordinatore redazionale: Matteo Fantuzzi Direttore mark eting: Giulio Greco Direttore Editoriale di Phronein: Mario Guarna Redazione: Maria Vittoria Cristiano, Francesco Iannitti, Stefania Lombardi, Riccardo Roni, Giuseppe Scarciglia Copertina realizzata da Daniele Rizzuti Direzione e amministrazione C.so Roma, 168 - 28021 Borgomanero (NO) - tel. e fax 0322835681 Sito web: http://www.atelierpoesia.it indirizzo e-mail: redazione@atelierpoesia.it Autorizzazione del tribunale di Novara n. 8 del 23/03/1996. Associazione Culturale “Atelier”

Quote per il 2018: euro 25,00 sostenitore: euro 50,00 (*) I versamenti vanno effettuati sul ccp n. 12312286 intestato a Ass. Cult. Atelier - C.so Roma, 168 - 28021 Borgomanero (NO).

(*) AI «SOSTENITORI» SARANNO INVIATE IN OMAGGIO ALCUNE pUBBLICAzIONI EDITE DALLA CASA EDITRICE “GIULIANO LADOLFI”. I testi delle edizioni Atelier sono distribuiti da Ladolfi Editore e inclusi nel relativo catalogo. per informazioni: http://www.ladolfieditore.it 2


INDICE

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Phronein – Comune a tutti è il pensare Mario Guarna

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Responsabilità, cura e amore in Erich Fromm Maria Vittoria Cristiano

17 Psicologia dell’attesa: dall’inconscio all’assenza Stefano Coletta 34 Filosofia del rispetto Riccardo Mainardi 43 Nel solco della tra svalutazione onto-logica Marco Viscomi 64 Verso una psicoterapia esistenziale Alice Gardenghi 91

Conoscenza e «rivoluzione dell'informazione» Pasquale Indulgenza

99 Gli autori

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MARIO GUARNA Phronein Comune a tutti è il pensare

ξυνόν ἐστι πᾶσι τὸ φρονέειν Eraclito (Frammento 113)

Eraclito, sia nel frammento 113, ξυνόν ἐστι πᾶσι τὸ φρονέειν, (Comune a tutti è il pensare [phronein]), che nel frammento 116, ἀνθρώποισι πᾶσι μέτεστι γινώσκειν, (A tutti gli uomini è concesso conoscer se stessi ed essere temperanti [sophronein], esalta la possibilità del pensiero, che è comune a tutti, è ciò che è comune è comprensivo e disponibile. Bisogna mantenere questi pensieri opposti in comunicazione, in scambio reciproco, invece di lasciarli chiudere in “se stessi” e intirizzire, solo così si ritroverà l’immanenza del pensare a cui si lega la connessione. Nonostante queste indicazioni “i molti”, si comportano da “idioti” come se avessero un pensiero esclusivo, discriminante, egocentrico. L’uomo non deve dirigere la comprensione solo su se stesso, ma anche con lo stesso dispiegamento, a ciò che lo mette in comunicazione con gli altri. Quindi bisogna stare dinanzi al pensiero dell’altro come due specchi che s’incontrano e nulla s’interpone tra le reciproche riflessioni. Il comprendere in questo caso, non significa solo comprendere in termini intellettuali, apprendendo mediante la conoscenza, in gioco c’è la propria larghezza di vedute, abbracciare i diversi aspetti della cose e di essere intenti senza impuntarsi, essere disponibili ad accogliere il punto di vista dell’altro. In questo caso il pensiero non è tanto “farsi un idea di” quanto “rendersi disponibile a”; e questa disponibilità è necessaria al pen5


siero, perché permette di attivare la disposizione del distacco da ogni punto di vista particolare, limitato e discriminante. Essa non è solo uno stato preparatorio alla conoscenza, ma resta la condizione necessaria per esercitarla. perché solo essa da accesso al “phronein”: permette di cogliere le risorse del pensiero opposto, è ciò rende possibile il pensiero altrui non più estraneo ma “invocante”, non più isolato, ma “invitato”. Il phronein supera i giudizi del “pensiero discriminante” su ciò che è possibile e non possibile, su ciò che è pensabile e non pensabile. per ogni pensiero c’è il suo possibile, per ogni pensiero c’è il suo pensabile. Il “suo” deve essere considerato come riscontro, che ogni pensiero possiede intrinsecamente un possibile, un pensabile, questa appartenenza allora assume il valore di inerente. Il phronein consiste nel dispiegarsi dall’uno all’altro pensiero: non più proiettare un giudizio secondo il quale è razionale o non razionale, ma comprendere come ogni pensiero sia “possibile”; come ogni pensiero possiede ugualmente la sua legittimità. Non giudicare ma comprendere, non tracciare sentenze ma chiarire l’evidenza del fondo comune, dove tutto può essere legittimato e dove anche l’impensato non viene trascurato. Il phronein non considera le delimitazioni (tra il “mio” e un “suo”), non appena si sostiene che è “mio”, si instaurano delle separazioni. Questo accade quando tali delimitazioni fungono da categorie ideologiche, come nel pensiero discriminante: ponendo da una parte ciò che è “accolto” e dall’altra ciò che è “rifiutato”, si “classifica” secondo il grado di ciò che è “noto”. Ciò che caratterizza la formula del phronein, è che, evitando la divisione “mio” da un lato, e “tuo” dall’altro, si mantiene costantemente nel “framezzo” di transizione dall’uno all’altro; così non c’è bisogno di scegliere e recidere di netto. Luogo della negazione dell’ego-pensiero del “mio” e del “tuo”. E’ nel phronein che i pensieri s’incontrano rivolgendosi l’uno al6


l’altro, nel quale essi non asseriscono né solo “mio” né solo “tuo”, e a partire dal quale i pensieri rinascono in perfetta reciprocità. In tal modo l’unilateralità dell’ego-pensiero viene reciprocamente dissolta nel fondo d’intesa, così che la comunicazione possa essere dispiegata nella sua immanenza. La comunicazione che si dispiega non è la determinazione di un senso, che segue la logica delle specificazioni, ma può far comprendere il con- filosofare nelle sue sfumature e insieme nella sua profondità. Tale è infatti la dissoluzione della contraddizione, non si tratta di risolvere l’antitesi dialettizzando i pensieri per svelare una categoria universale ad essi nella quale ritrovare la sintesi; si tratta invece di non scegliere nessun punto di vista, né “suo” né “mio”, in modo da potersi muovere spontaneamente tra di esse, e di non trovarsi più imprigionato da nessun lato. piuttosto di dipanare la contraddizione con un progresso del pensiero che permetta di superarla, la si dissipa eliminandola, liberandosi da ognuno dei punti di vista avanzati; piuttosto cioè di pretendere di accedere ad una metasintesi della contraddizione, si tende a ritirarsi nella quiddità di essa e a liberarsene: non c’è sintesi delle posizioni, ma loro ritiro in quanto “tesi”. In breve, non esiste una promozione di un universalismo, ma disponibilità del pensiero per assenza di una “scelta”. Ciò che è proprio del phronein è che non resta indirizzato su nessun punto di vista: dato che abbandona istantaneamente tanto l’uno quanto l’altro, e sempre pronto a volgersi verso l’uno o verso l’altro, in questo modo è in grado di “corrispondere” ad essi perennemente. Sono sufficienti alcune formule per chiarire il processo del phronein: mio “eppure” tuo, quanto come mio “in quanto” tuo, i termini “eppure” e “in quanto”, servono come formule medie e indicano tanto una “disponibilità” quanto una “possibilità”. È proprio comprendendo il valore di questi due termini si capisce, 7


che non si tratta di un’esclusione tra due modi di pensare ma dell’interazione e dispiegamento che permette il rovesciamento dell’uno nell’altro.

BIBLIOGRAFIA MARIO GUARNA, Filosofia del lontano, Acireale, Bonanno, 2010 FRANçOIS JULLIEN, Figure dell’immanenza, Bari-Roma, Laterza, 2005 FRANçOIS JULLIEN, Il saggio è senza idee, Torino, Enaudi, 2002 FRANçOIS JULLIEN, L’ansa e l’accesso, Sesto San Giovanni (Mi), Mimesis, 2011 FRANçOIS JULLIEN, L’universale e il comune, Bari-Roma, Laterza, 2010 FRANçOIS JULLIEN, Parlare senza parole, Bari-Roma, Laterza, 2008

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MARIA VITTORIA CRISTIANO Responsabilità, cura e amore in Erich Fromm Per un’etica umanistica Nonostante il suo aspetto apparentemente disorganico e frammentario, causato dalle numerose correnti di pensiero, interessi e orientamenti sorti al suo interno, la Scuola di Francoforte, in linea generale e almeno in una delle sue fasi, sembra presentare un concetto focale, un punto di convergenza comune, particolarmente interessante ai fini della nostra indagine: la teoria secondo la quale sarebbe presente un forte ed innegabile intreccio tra fenomeni politico-sociali (di tipo autoritario, in particolare) e processi inconsci individuali1. Questa tematica, così come la riflessione sui rapporti tra potere, controllo, libertà, responsabilità e cura, sembrano essere centrali all’interno della riflessione filosofica – prima ancora che psicoanalitica – sottesa a una certa fetta di produzione tra le opere di Erich Fromm. Il punto di partenza implicitamente assodato nel pensiero frommiano pare essere la tendenza ad evitare una settorializzazione delle scienze umane, e a vedere quasi una sorta impossibilità oggettiva di analisi fattuale che non abbia approccio che, oggi, definiremmo, forse, multidisciplinare, giacché mostra di voler includere ed integrare prospettive diverse, proprie, ad esempio, dell’economia, della sociologia, della psicoanalisi e della filosofia tout court. Qual è il rapporto intercorrente tra l’individuo e le dinamiche sociali che vive ed esperisce all’interno della sua contemporaneità? L’individuo è completamente passivo, vittima sorda, cieca e impotente delle proprie dinamiche intrapsichiche o – peggio – del flusso inarrestabile degli eventi, oppure ha un qualche tipo di responsabilità, se non di potere, rispetto a sé stesso e rispetto agli eventi che gli accadono? 9


Ancora, quale ruolo riveste il sistema valoriale di un singolo individuo per la definizione della sua personalità? E quali, le sue eventuali dirette conseguenze nello spazio dell’agito? In ultimo, cosa dobbiamo intendere esattamente con la parola cura? Sono interrogativi, questi, di una certa problematicità, cui, tuttavia, proprio Fromm, pare darci un qualche spunto di riflessione. Secondo Fromm, infatti: “i problemi etici non si possono omettere nello studio della personalità, nel sul piano teorico, né su quello terapeutico”2, poiché sono proprio i giudizi di valore espressi da un individuo a determinarne le azioni. Non solo: è la stessa validità di tale giudizi di valore a costituire la base della salute mentale e, in ultimo, della felicità in senso lato di un singolo individuo3. In aperta polemica con certe interpretazioni del pensiero di Freud4, Fromm arriva, ci pare, a rigettare l’idea che i giudizi di valore possano essere considerati unicamente come semplici “razionalizzazioni di desideri inconsci e irrazionali”, arrivando a concluderne che la nevrosi stessa possa essere, in ultima analisi, un vero e proprio “sintomo di fallimento morale”5. La forte influenza dei grandi pensatori “umanistici” del passato, ai quali Fromm pare più volte richiamarsi, porta l’autore – sociologo e psicoanalista – a pensare che la frattura tra psicologia ed etica risalga solo ad una data relativamente recente e ad una scelta più o meno arbitraria, mentre, nella sua ottica, l’intendimento della natura umana e la comprensione dei valori e delle norme e della vita umani, sono, ipso facto, interdipendenti6. La “scienza dell’uomo” nasce quindi, per Fromm, da questa profonda esigenza di riunificare la psicologia alla filosofia, così come entrambe alla sociologia e all’economia. La “scienza umana”7, nell’ottica di Fromm, va a tradursi in qualcosa che trova il suo tema principe nel’analisi della natura e delle condizioni umane ma che “non parte da un quadro completo ed adeguato di quanto la natura umana sia”, infatti, “una definizione soddisfacente del suo argomento ne costituisce il fine non la premessa”8. 10


per realizzare tale tentativo, risulta quindi essere un passaggio obbligato per Fromm, riformulare lo stesso concetto di cura, andandone a recuperare il senso etimologico originario di epimeleia, ovvero di sollecitudine, premura, attenzione, compartecipazione. Andandosi parzialmente a distaccare dalla sorge Heideggeriana, così come, certamente, da una visione strettamente medica del termine, il concetto di cura inteso da Fromm sembrerebbe partire dall’osservazione empirica sulla forza effettiva degli impulsi verso la felicità e la salute, considerati quale effettivo bagaglio naturale e spontaneo proprio dell’essere umano9. Curare, secondo Fromm, consisterebbe, quindi, nel rimuovere quegli ostacoli, determinati, magari, da infrastrutture secondarie, che impediscono a tali impulsi naturali, di essere efficaci, ovvero di seguire il loro fluire e procedere spontaneo10. Lungi sal fornire ricette pronte per l’uso e risposte preconfezionate per raggiungere la felicità o la pace della mente, cerca, in un modo per l’epoca abbastanza nuovo e inusuale, di porre ,piuttosto, davanti al proprio interlocutore diretto, nuovi interrogativi. All’interno della crisi e confusione morale in cui l’uomo del Secolo Breve pare essere stato gettato (per le grandi trasformazioni sociali, per la continua minaccia nucleare, per l’imperativo tecnocratico cui si è trovato assoggettato), Fromm sembra proporre una sorta di terza via che si discosti dal relativismo morale assoluto, sostenendo la possibilità di risalire a norme etiche valide formulate a partire dalla ragione umana, senza quindi assumere sfumature e caratteristiche “autoritarie”, senza, in altre parole, attingere a fonti esterne all’uomo stesso, (ri)appellandosi al principio di competenza e allo spirito critico dell’individuo stesso11. per Fromm, “bene è ciò che è bene per l’uomo, male è ciò che per l’uomo è nocivo”12 , ma tale principio, sempre secondo l’autore, non implica che la natura umana possa dare un giudizio di valore positivo, se segue correttamente l’orientamento fornito dalla ragione, 11


a concetti come l’egoismo o l’isolamento13: lo scopo dell’uomo, per Fromm, può adempiersi, di fatto, solo ed esclusivamente in relazione all’Altro da sé e, in ultima analisi, al mondo. In tal modo l’etica proposta da Fromm, seppure spuria e descritta qui ancora in modo molto embrionale, ci appare un’etica decisamente orientata alla dimensione dell’intersoggettività. Secondo Fromm, ancora, una delle caratteristiche costitutive della reale natura umana sarebbe proprio quella di trovare compimento e felicità soltanto nel “trovarsi in rapporto di relazione e solidarietà con i propri simili”, inoltre “l’amore verso il prossimo non è fenomeno che trascenda l’uomo, come valore imposto da un’autorità esterna e “irrazionale”, ma si tratta di qualcosa in lui intrinseco, che da lui irradia”. L’etica che va qui mano a mano delineandosi, sembra essere paragonabile ad un insieme di norme volte al raggiungimento dell’eccellenza nell’arte di vivere14, che ricava i suoi principi dalla natura della vita in generale, dell’esistenza umana in particolare, così come la concepisce Fromm, dove il primo dovere di un individuo è il “dispiegamento dei suoi poteri, secondo le leggi della sua natura”15. In tal senso, quindi, è precisa responsabilità dell’individuo permettere a sé stesso il pieno dispiegamento di tali potenzialità, sempre secondo ragione e secondo natura. Andando avanti nel dispiegarsi di questa strana etica-in-fieri, così come la definisce l’autore a più riprese nella sua opera, Fromm individua alcune dicotomie esistenziali16, all’interno della natura umana che ha ormai spezzato il suo legame ancestrale con il mondo animale, ovvero: quella tra vita e morte (che l’uomo ha tentato di risolvere ricorrendo alle ideologie più disparate); quella tra ciò che si potrebbe realizzare sviluppando pienamente le proprie potenzialità e ciò la relativa brevità della vita dell’uomo gli consente di fare; 12


l’essere solo e contemporaneamente in rapporto rispetto agli altri17; Mentre l’essere umano può concretamente reagire a contraddizioni storiche, ad esempio, annullandole o limandole con la propria azione diretta, non può, secondo Fromm, eliminare tali dicotomie esistenziali, ma solamente reagire ad esse in modi diversi. E qui che, nuovamente, interviene il concetto di responsabilità all’interno della proposta frommiana, nella sua seconda declinazione, esattamente nel momento in cui l’uomo – qui inteso in maniera ambivalente sia come individuo che come società nel suo complesso è chiamato a decidere quale atteggiamento adottare rispetto alla propria esistenza, scegliendo un determinato tipo di orientamento o direzione rispetto ad essa18. Anche per quanto riguarda la teoria dei “caratteri” a proposito dei singoli individui, Fromm si discosta notevolmente dalla lettura psicoanalitica all’epoca dominante, proponendo, in alternativa al modello comportamentista, una visione dinamica, dove “la base fondamentale del carattere non è vista nei vari tipi di organizzazione della libido, ma in tipi specifici della relazione di una persona col mondo”19. In sostanza, il nucleo del carattere di un individuo, per Fromm, sarebbe costituito, ancora una volta, dagli orientamenti mediante i quali egli decide di porsi in relazione col mondo. La dicotomia esistenziale rintracciata da Fromm nel dato della solitudine umana e della sua separazione rispetto al mondo, nella sua sostanziale incapacità di sopportare tale condizione, porterebbe, secondo l’autore, alla ricerca incessante, conscia o meno, del raggiungimento della relazione con l’altro e, in ultima analisi, ad una sorta di ritrovata unità20. In ultima analisi, l’unico modo autentico, con cui l’uomo può mettersi in relazione con il mondo, secondo Fromm, è comprenderlo con l’amore e con la ragione, presi come un tutto unico, sebbene concetti-categorie appartenenti a due piani diversi. 13


L’amore, per come pare intenderlo qui Fromm, nonostante tutte le sue possibili declinazioni, va quasi a sovrapporsi, se non ad identificarsi, proprio con i concetti di cura e responsabilità. Tale concezione va a definire l’amore come una vera e proprio attività21, piuttosto che come “passione da cui si è sopraffatti, affetto da cui si è affetti”22, come “attività produttiva” in quanto mezzo di espressione delle potenzialità – emotive e razionali – umane e modalità d’approccio e di comprensione dell’esistenza. Comunemente, l’esempio più frequente di un tale tipo di amore a cui si ricorre è quello materno: si noti, a mero titolo di esempio come nella lingua ebraica il termine usato per descrivere l’amore di Dio per l’uomo e l’amore di questi per il suo prossimo sia lo stesso, rachim, la cui radice si identifica proprio in rechem, grembo appunto. In questo caso specifico, l’amore non va, però, inteso o ridotto ad un rapporto simbiotico o di dipendenza (come, appunto, quello del bambino verso la madre). Amore, in questo caso, è donazione gratuita, è rispetto e conoscenza dell’altro, riconosciuto come simile, eppure completamente diverso dal proprio sé individuale. Amore qui è il campo della libertà, ma soprattutto, lo ribadiamo – e in questo non possiamo non condividere la visione frommiana – è l’ambito più proprio della cura e della responsabilità. La responsabilità, sia essa sociale o individuale, non è, come dice Fromm, dovere che venga imposto dall’esterno o da un’autorità verticale estranea al contesto che la genera, ma è la risposta a un’esigenza che riguarda l’individuo direttamente. Ancora una volta, viene in mente una curiosa corrispondenza etimologica che, forse, può chiarire meglio il senso del presente tentativo di interpretazione del pensiero di Fromm: i termini responsabilità e risposta, hanno in comune la stessa radice: respondere. Essere responsabili, dal nostro punto di vista, significa sostanzialmente “essere pronti a rispondere”23. Amare qualcosa o qualcuno (anche sé stessi), significa scegliere di 14


esserne responsabile: amare l’essere umano, in altre parole, significa prendersi cura e divenire responsabile di quest’essere, il cui compito pare essere, semplicemente, quello di tornare “dalla parte di sé stesso”. NOTE 1 Si veda, a tale proposito e a mero titolo di esempio: MAx HORkHEIMER, ERICH FROMM, HERBERT MARCUSE, Studien über Autorität und Familie, paris, Alcan 1936. 2 ERICH FROMM, Dalla parte dell'uomo. Un’indagine sulla psicologia della morale, Roma, Astrolabio-Ubaldini 1971, tit. orig. Man for himself. An inquiry into the psychology of ethics, New York, Rinehart 1947, p. 9. 3 Ibidem. 4 Fromm pare trovare un'eccezione piuttosto significativa a tali tendenze, nella scuola psicoanalitica di C. G. Jung, il quale a suo avviso, riconobbe effettivamente un certo legame tra psicologia e psicoterapia da un lato e, dall'altro i grandi problemi filosofici e morali dell'uomo. Nonostante ciò, Fromm ritenne che l'orientamento Junghiano avesse, nella pratica, condotto semplicemente ad una sorta di “reazione antifreudiana, non ad una psicologia filosoficamente orientata”. Cfr. Ibidem. 5 Cfr. Ibidem. 6 Cfr. Ibidem. 7 Fromm, in questo specifico frangente, sembra utilizzare una definizione di “scienza dell'uomo” in parte simile a quella adoperata da R. Linton. Cfr. RALpH LINTON (a cura di), The science of Man in the World Crisis, New York, Columbia University press 1954. 8 ERICH FROMM, Dalla parte dell'uomo, Roma, Astrolabio-Ubaldini 1971. 9 Ibidem, p. 11. 10 Ci sembra significativa l'influenza che alcune scuole filosofiche orientali hanno finito per avere sul pensiero di Fromm a proposito sia della cura che della natura umana. Non essendo questa la sede adatta per un'analisi approfondita di tali influenze, si rimanda per ulteriori approfondimenti e a mero titolo di esempio, a ERICH FROMM, DAISETSU TEITARō SUzUkI, RICHARD DE MARTINO, Psicoanalisi e Buddhismo Zen, Roma, Casa Editrice Astrolabio-Ubaldini Editore 1968. Tit. orig., Zen Buddhism and Psychoanalysis, New York, Harper & Brothers 1960. 11 Ci pare chiaro, qui, il riferimento e la ripresa dell'impianto etico kantiano. Cfr. Erich Fromm, op. cit., Astrolabio-Ubaldini 1971, pp. 15-20. 12 Ibidem, p. 20. 13 Ibidem, p. 21. 14 L'esistenza umana stessa viene più volte paragonata da Fromm, nel corso delle sue opere, ad un'arte. In questo caso si tratterebbe dell'arte più difficile e complessa di tutte, poiché in essa “l'uomo è insieme l'artista e l'oggetto della sua stessa arte”, Ibidem, 15


p. 24. Ibidem, p. 25. 16 Ibidem, p. 40. 17 Ibidem, p. 41 18 ERICH FROMM, Avere o Essere?, Milano, Mondadori 1977. Tit. orig. To have or to be?, New York, Harper & Row, 1976. 19 ERICH FROMM, Dalla parte dell'uomo, op. cit., p. 52. 20 Ibidem p. 74. 21 Si veda a tal proposito ERICH FROMM, L'arte di amare, I ed., Mondadori, Milano 1963. Tit. orig. The art of loving, New York, Harper & Row, 1956. 22 ERICH FROMM, Dalla parte dell'uomo, op. cit., p. 80. 23 Ibidem, p. 81. 15

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STEFANO COLETTA Psicologia dell’attesa: dall’inconscio all’assenza Elaborato psico-filosofico sul sentimento dell’attesa Abstract Il lavoro, seguendo il tracciato della filosofia fenomenologica, evidenzia come il sentimento dell’attesa sia alla base della nostra coscienza. partendo dalle diverse descrizioni dell’inconscio, si osservano le varie forme psicopatologiche, nevrotiche e psicotiche, come modulazioni dello stato di attesa. Da tale impostazione emerge come la comprensione della psicopatologia non possa prescindere da una visione filosofica della stessa, prima ancora che di una visione tecnica e scientifica. In conclusione si analizza il concetto di attesa nelle pratiche meditative. Primo paragrafo. Dall’inconscio all’attesa L’inconscio, già da Jung, è stato definito come un sottobosco irrazionale, un caos interno in grado di contenere insieme tutti gli opposti, come l’amore e l’odio ad esempio. Da questo caos emerge l’Io, ovvero la ragione, che separando gli opposti fa sì che il suo contenuto diventi sim-bolico in quanto unisce ciò che la ragione, emergendo da esso, separa. Ma una configurazione che presenti gli opposti uniti rimanda necessariamente ad un mondo “altro” che coincide col divino: ecco perché analizzare il divino significa analizzare la psiche stessa1. Dio infatti, per dirla con Eraclito, «è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, fame e sazietà: il suo mutare è come quello del fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome da ciascuno di essi», ovvero contiene tutti gli opposti, condizione questa che la psicologia ha appunto chiamato inconscio. Anche la Bibbia ci parla del caos come sinonimo di magma, di mescolanza disordinata di elementi opposti che poi Dio, nominandoli, li separa, dando così luogo ad una cosa nuova, 17


ovvero al cosmo, pensato come un atto volontaristico che separa e ordina tutti quegli elementi non ancora separati. E dunque, se l’inconscio corrisponde a quella coincidentia oppositorum da cui emerge, separandosi, il nostro Io, la sostanza di cui esso è fatto non può che essere l’attesa: è l’attesa infatti che permette tale separazione, attesa verso tutto ciò che ancora non siamo e che potremmo essere, verso quella completezza a cui tendiamo senza mai poterla raggiungere perché nessuno può essere “tutto”, aggettivo che si adatta solo al divino, proprio a causa della coscienza che divide ma che, proprio per questo, consente di formare il nostro Io2. Ma non solo. per la psicoanalisi l’inconscio è stato storicamente considerato sia come il luogo del rimosso e quindi del passato, come fu per Freud, sia come il luogo della propria realizzazione e quindi del futuro: per Jung ad esempio l’inconscio esprime un progetto d’esistenza e quindi un possibile futuro, così per Lacan, secondo il quale esso è nell’ordine del “non ancora”: il non ancora visto, il non ancora saputo, il non ancora realizzato etc, dove l’esistenza stessa, per dirla con Jaspers, indica uno stare fuori di sé dove ci si attende là dove non si è ancora e ci si ricorda là dove non si è più. Esso, secondo la nostra ipotesi, non contiene tanto il passato quanto l’attesa di poterlo modificare che, essendo vana, diventa sovente il luogo della sofferenza psichica: non soffriamo cioè per quello che ci è accaduto ma per quello che non è accaduto, per quelle parole che non siamo riusciti a dire e per quei gesti che non siamo riusciti a fare in quella determinata circostanza. Ma siamo anche in attesa di tutte le parole ancora da dire e di tutte le cose ancora da fare, ovvero di come potremmo ancora essere, raffigurazione questa dell’inconscio come progetto futuro. Ecco perché l’attesa non è uno spazio in cui si aspetta qualcosa ma è uno spazio che ci separa da quel qualcosa, rendendo così possibile il manifestarsi del mondo esterno. Tutto ciò è ben evidente nel rapporto tra la mamma e il bambino, 18


in quella che vien chiamata l’alternanza dei ritmi: durante la poppata il bambino è impegnato in una attività mentre la mamma è in attesa che il bimbo finisca; poi, finita la poppata, il bambino prende fiato e si mette in attesa della mamma, in attesa delle sue parole e dei suoi gesti, ed è lì che la mamma inizia a parlargli. Questa alternanza di attese permette lo strutturarsi della coscienza del bambino in quanto predispone a quella separazione tra se e la mamma che rende possibile il palesarsi del mondo esterno. Il tempo dell’attesa e la costituzione della coscienza Ci immaginiamo là, nel futuro, ed è proprio questa separazione tra presente e futuro che determina l’attesa, che diventa quindi fondamentale per la coscienza tanto da poter dire, con Grimaldi, che la coscienza stessa non è nient’altro che attesa. La coscienza infatti è uno spazio che tiene a distanza e che consente il manifestarsi della dualità originaria tra il soggetto e l’oggetto, e quindi della relazione col mondo esterno: ognuno è separato da ciò che sta diventando, da ciò che dovrebbe o potrebbe essere e da tale separazione deriva una frattura interna tra sé e le inevitabili aspettative insoddisfatte3. È da questa separazione, diciamo noi, che prende forma quel dualismo costitutivo della psiche che funziona, per l’appunto, per coppie di opposti4 e che consente la formazione dell’Io che si determina sempre in contrapposizione a ciò che l’Io non è: l’Io infatti, lungi dall’essere un sistema chiuso, si struttura proprio separandosi dal mondo esterno quando, secondo recenti studi di neuroscienze, il bimbo inizia a discernere le informazioni prodotte dal proprio cervello da quelle invece che il cervello accoglie dall’esterno: quando cioè il bimbo inizia a comprendere che quella voce che sente fuori di sé non è la sua voce ma una voce altra-da- sé5. L’attesa dunque è quell’intervallo che, separando il presente dal futuro, separa il nostro Io da come potremmo ancora essere ed ecco il perché del suo essere spaventosa: a differenza della memoria in19


fatti, che ci fa sentire la continuità del presente con il passato, l’attesa, essendo aperta al futuro apre una crisi: è l’aspettativa di pericolo che rende la sentinella attento ai più piccoli rumori e al minimo movimento6. È nell’attesa che «vediamo l’avvenire venire verso di noi e attendiamo che questo avvenire divenga presente» come dice Minkowski7 che vede l’attesa come l’opposto dell’attività in cui «il fenomeno vitale che si contrappone all’attività, pur essendo situato sul suo stesso piano, non è come ragione vorrebbe, la passività, bensì l’attesa». Se dunque l’attesa rappresenta una proiezione al futuro, per analizzare l’attesa basta anticipare le varie rappresentazione del tempo: in fondo, è proprio perché l’attesa è l’esperienza di un continuo avvenire che ci rappresentiamo il nostro tempo come un flusso, dove la passività di aspettare gli eventi che accadono fa sembrare il futuro sempre in ritardo rispetto alle nostre aspettative. Ed è proprio dal grado di precisione e chiarezza con cui riusciamo ad immaginare noi stessi nel futuro che dipende la nostra capacità di aspettare, dove è importante il «viaggio mentale nel tempo» ovvero la capacità di spostarsi col pensiero nel futuro e nel passato, capacità che sembra appartenere solo all’uomo mentre gli animali sarebbero spinti solo dagli istinti ed inchiodati al presente; l’ “Io Futuro” dunque darà molta importanza alla gratificazione immediata, mentre l’ “Io presente” preferisce l’opzione ottimale per lungo periodo: e sono proprio queste due istanze che danno il via ai conflitti intrapersonali8. Ma l’attesa non è solo attesa di un futuro ma può essere anche attesa di un passato, da cui prende avvio il tipico vissuto dell’angoscia: kierkegaard ben ci spiega come anche il passato si possa ripresentare come futuro, ovvero come possibilità di ripetersi, ed è questo che rende il passato non passato e che genera tale vissuto9; per cui, potremmo dire, che l’angoscia è il restare in attesa del passato, in quella vana attesa di poterlo modificare, ovvero in attesa di tutte 20


quelle parole che non abbiamo saputo dire e di tutte quelle cose che non abbiamo saputo fare. Anche V. E. Frankl, nell’«ansia da attesa», ci dice che il paziente reagisce ad un dato sintomo con la paura che esso possa ripetersi e da tale ansia da attesa consegue che il sintomo si ripresenta realmente. Ciò vuol dire che ci possono essere diverse modulazioni dell’attesa, grazie alle quali è possibile comprendere le nostre sensazioni e i nostri vissuti: ogni sensazione ha una intensità, quindi gradi: diminuendo la quantità delle sensazioni si arriva ad una soglia sotto la quale possiamo avere una condizione in cui non succede nulla, di pura ricettività, che Grimaldi chiama un’attesa pura. Secondo paragrafo. Dall’attesa all’“assenza” L’attesa dunque, nella sua separazione originaria, è quella precondizione che rende possibile avere delle mète: finché c’è l’attesa infatti, io mi so come essere limitato che ha ancora qualcosa da raggiungere perché senza limiti, dice Heidegger, non saremmo neanche capaci di vedere le cose in quanto viviamo in un mondo culturale con un suo orizzonte che ci permette di fare esperienza solo entro certi limiti10. Ecco perché l’attesa non è tanto quello spazio in cui si aspetta qualcosa ma bensì è quello spazio che ci separa da quel qualcosa; e a livello psichico, diciamo noi, essa non ci separa tanto da un luogo, da una persona o da una cosa del mondo quanto da un altro Io, da un altro modo di essere che si cela dietro i luoghi, le persone e le cose del mondo: infatti non siamo mai in attesa di un qualcosa ma sempre e solo in attesa di un altro Io che quel qualcosa promette, così come non desideriamo mai un oggetto ma sempre e solo quel diverso modo di essere che tramite quell’oggetto potremo sperimentare. L’attesa cioè separa l’Io da tutti gli altri “possibili Io” racchiusi nei gesti non fatti e ancora da fare, nelle parole non dette e ancora da dire, insomma da tutti quegli atti mancati che confluiscono in quella che abbiamo voluto chiamare “assenza”, ovvero 21


la rappresentazione di tutto ciò che non siamo mai riusciti ad essere, a cui però tendiamo e a cui siamo destinati e con cui ci relazioniamo nei nostri dialoghi interiori. Analogamente si potrebbe ricondurre allo studio di Markus11 et al. che hanno ipotizzato l’esistenza di una serie di “possibili sé” che comprendono sia i sé che si vorrebbe diventare sia i sé che si temono: quando una persona ci parla di sé infatti sta sì raccontando la sua vita, ma con essa sta raccontandoci anche di tutte quelle vite che non ha vissuto e che, restando sullo sfondo, rendono possibile il racconto della “propria” vita. L’ assenza dunque è una raffigurazione di tutte le nostre possibilità raggiunte e mancate, che si celano dietro i luoghi, le persone e le cose del mondo: l’esistenza umana infatti, ci dice kierkegaard nel suo «Concetto sull’angoscia» non è una realtà ma bensì una possibilità in cui l’uomo diviene ciò che è in base alle scelte che compie. Ma ogni possibilità nasconde in sé tanto la possibilità-che-sì, che le cose si realizzino, tanto la possibilità-che-no, che le cose non si realizzino, esponendo l’uomo alla minaccia della nullità. L’uomo cioè si trova davanti a possibilità che non sempre si realizzano e quindi il suo modo di essere non è la realtà ma bensì la possibilità: l’essere dell’uomo infatti, dice Heidegger, è caratterizzato dal ritrovarsi di fronte a un complesso di possibilità che non tutte necessariamente si realizzano e dunque il suo modo di essere è quello della possibilità e non della realtà12. Quindi l’umana presenza, il suo progettarsi, il come essere nel mondo, è un anticiparsi e questa possibilità di futuro non è un insieme di generiche possibilità ma di determinate possibilità che trovano la loro base in ciò che essa già fu. Questo anticiparsi, diciamo noi, è un immaginarsi, per cui ogni azione lascia dietro di sé l’alternativa mancata che ritorna come assenza, ovvero come un’immagine di come potremo ancora essere ed è tale condizione che genera identità, ovvero un Io che è tale perché non è tutto, perché è separato dal tutto. 22


Dunque possiamo immaginare la psiche come composta da un Io in attesa di tutti gli altri possibili Io, dove il mondo altro non è se non una continua attesa verso ciò che ancora non siamo, verso tutti quegli altri “Io” racchiusi nelle parole ancora da dire, nelle cose ancora da fare, che costituiscono quei limiti e quell’alterità entro cui è possibile lo strutturarsi dell’Io stesso e che rappresentano quella moltitudine che abita la nostra psiche. Nevrosi e psicosi: dilatazione e restringimento dell’attesa Da Husserl, ripreso da Binswanger, in poi la fenomenologia ha sempre cercato di comprendere le varie forme psicopatologiche partendo dai tre tempi passato, presente e futuro. Noi proveremo, in base a quanto esposto, ad osservare i disagi psichici, dalle nevrosi alle psicosi, sotto l’ottica dell’attesa. Come abbiamo detto, l’attesa è quello spazio che ci separa da tutti quegli altri Io racchiusi nelle parole ancora da dire, nelle cose ancora da fare, in tutto ciò che non siamo riusciti ad essere e in tutta quella vita che attende di essere vissuta, contenuti in quella “assenza” che rappresenta quella “controparte” grazie alla quale è possibile lo strutturarsi dell’Io. Quando si perde la giusta distanza dalle assenze, quando si resta in attesa di dire ciò che non si è riusciti a dire o fare, e quindi del passato, l’Io si sente minacciato, teme di annullarsi, ed è questa la condizione da cui prendono avvio determinati sintomi. In quel momento accade “tutto insieme” (e da lì il “sintomo”, termine greco che sta proprio ad indicare ciò che accade insieme) e la soggettività sembra sparire, in quanto perde ciò che è altro da sé che la determina e ciò crea quel vissuto angoscioso caratteristico sia delle nevrosi, che hanno origine psicogena e la funzione del reale preservata, sia delle psicosi, che invece hanno origine somatica con cessazione della funzione del reale. Mediante l’approccio qui esposto, è possibile vedere le nevrosi come quella condizione in cui si 23


perde la giusta distanza data dall’attesa e le psicosi come quella condizione in cui invece l’attesa si riduce così drasticamente da perdere la separazione dall’assenza, ovvero la separazione dai propri limiti, dando così avvio al tipico vissuto di illimitatezza che caratterizza l’alienato. Vediamoli più nel dettaglio. Il disturbo d’ansia generalizzata viene descritto dal DSM V, ovvero dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, come «eccessiva ansia e preoccupazione (attesa apprensiva), che si verificano per la maggior parte dei giorni per almeno 6 mesi, relative ad una serie di eventi o attività (performance lavorative o scolastiche)». Secondo pierre Janet la differenza tra un’attesa ordinaria e un’attesa patologica, che sarebbe alla base di tutte le fobie, è che l’attesa ordinaria è caratterizzata dalla previsione e dalla preparazione all’evento, mentre nella patologica è l’attesa a creare una previsione dove i soggetti si sentono inadeguati alle azioni che dovrebbero svolgere, da cui deriva l’agitazione che ci fa capire l’importanza dello stato emotivo per analizzare l’attesa13. per Bovet l’attesa diventa ansiosa quando l’oggetto previsto suscita un qualche timore14, dove il soggetto si sente minacciato da un evento imminente, come una disgrazia; non si sa di cosa abbia paura, ed è proprio questa assenza di un motivo conosciuto dal soggetto che determina l’attesa patologica15. L’ansia generalizzata dunque viene esperita come una continua “attesa apprensiva” ovvero, diciamo noi, come un’attesa che, dilatandosi eccessivamente, ha perduto quella giusta distanza dall’assenza: quando infatti l’attesa non tiene più alla giusta distanza l’Io da ciò che è altro-da- sé, esso si ritrova a contatto con una sorta di attesa infinita che non ha più argini, da cui deriva la paura di tutto ciò che potrebbe accadere e il conseguente vissuto di spaesamento. Senza la giusta distanza dall’assenza è come se perdessimo quella controparte in grado di strutturarci in quanto, come abbiamo visto, 24


l’Io non potrebbe strutturarsi senza ciò che l’Io non è: da ciò prende avvio quell’intensa sensazione di morire, cioè di perdere il proprio Io, tipica dell’attacco di panico che è uno stato acuto di ansia definito da un periodo preciso di paura e disagio durante il quale sono presenti sbandamento, instabilità, derealizzazione o depersonalizzazione. Da questa attesa compromessa scaturiscono anche le fobie, descritte come una paura persistente eccessiva ed irragionevole specificamente espressa nei confronti di un oggetto, di una situazione o di una circostanza: esse rappresentano dei limiti forzati che “non consentono di…” - “che impediscono di…” che l’Io si crea pur di determinarsi: l’oggetto fobico cioè diventa un punto fermo in grado di arginare quell’illimitata attesa sottostante. Tra i disturbi d’ansia v’è anche il disturbo ossessivo/compulsivo, definito nel manuale diagnostico da sintomi prettamente ossessivi (pensieri) e compulsivi (azioni propiziatorie o riparatorie). Le ossessioni sono definite da immagini, impulsi e pensieri ricorrenti e persistenti vissuti come intrusivi o inappropriati che causano ansia o disagio. Le compulsioni invece sono comportamenti ripetitivi (lavarsi le mani, riordinare, etc) o azioni mentali ( pregare, contare, etc) che la persona si sente obbligata a mettere in atto in risposta ad un’ossessione. Dunque il D.O.C. che è caratterizzato da pensieri ossessivi che spingono il soggetto ad attuare persistenti rituali, può essere visto come una sorta di cortocircuito dell’attesa: nel ripetere gli stessi gesti rituali infatti si rimane fissi in un’attesa mai nuova dove l’unica cosa che si attende è ciò che è stato già fatto, dando così l’illusione di aver reperito i propri confini. Un’attesa senza la giusta distanza dall’assenza è un’attesa senza più limiti in grado di determinare l’Io, che dunque si vede costretto a reperirli nell’attesa stessa, in una sorta di coazione a ripetere. Nelle nevrosi ciò che si teme di più è di perdere il proprio Io, ovvero non si sa più come “essere” in quella determinata situazione; è 25


come se vi fosse l’incapacità di immaginarsi oltre quella paura, in quanto oltre non v’è nessuna assenza, nessuna immagine in grado di accoglierci. Man mano invece che l’attesa si riduce prendono avvio tutti quei vissuti di “oppressione” rintracciabili anch’essi in alcuni disturbi d’ansia e fobie, fino ad arrivare alla depressione e alle psicosi, che rappresentano la perdita completa delle attese. Infatti quando l’attesa si riduce oltre un certo limite, l’Io non può far altro che vivere in modo allucinato a contatto con quegli atti mancati divenuti voci e visioni senza corpo, cioè senza mondo: ed è il caso della schizofrenia e delle psicosi. Le psicosi abbiamo detto sono caratterizzate dalla mancanza del senso di realtà, da deliri, ovvero alterazioni della coscienza e della percezione dell’ambiente con deficit di memoria e alterazioni del linguaggio e allucinazioni come quelle uditive, il sentire voci e suoni inesistenti, o visive. Queste manifestazioni non sono tanto mancanza di limite16 quanto rottura di quella giusta distanza che mantiene la separazione dai propri limiti e che, facendo coincidere l’Io con l’assenza, lo rende allucinato, abitato cioè da quelle voci e da quelle figure che sono rappresentazioni di ciò che l’Io-non-è, e che tenute a distanza e collocate nelle cose del mondo determinano l’Io stesso. Ciò che ci conduce alle allucinazioni è un modo di pensare autistico17 cioè, diremmo noi, chiuso in quell’Io insieme all’assenza, ovvero insieme a tutte quelle parole mai dette e quei gesti mai fatti che, senza separazione, lo rendono allucinato. Nella psicosi v’è come il vissuto che le cose del mondo, oggetti, luoghi, non permangano là dove si sono veduti o visitati ma si spostino, perdendo la loro collocazione e assumendo caratteristiche tipiche dell’umano: lo psicotico cioè è come se non riuscisse a mantenere le cose che vede e i luoghi che frequenta là, nel mondo; è come se andando via da un luogo egli abbia l’impressione che quel 26


luogo non rimanga là, ma si perda, diventando un fantasma persecutorio in quanto non più collocato nel mondo. Ma come abbiamo detto, dietro ai luoghi e le cose del mondo v’è sempre un Io, un’immagine di come potremo essere in quel luogo o con quella cosa, ed è questo Io che, non più collocato nelle cose del mondo in quanto non più separato e tenuto a distanza dall’attesa, diventa una fantasia persecutoria. Il ri-creare attese dunque, il ristabilire un collegamento tra l’Io e l’assenza sulla base di quanto detto, potrebbe risultare uno dei punti focali per affrontare le psicosi, cercando di comprendere quale Io non si è riusciti a distanziare e a mantenere nel mondo. A tal proposito va ricordata inoltre l’importanza del “saper aspettare” per la giusta formazione dell’attesa, in quanto se non si impara a ritardare la gratificazione in età infantile non sarà facile apprendere poi l’autocontrollo in quanto l’immediata soddisfazione dei desideri non fa altro che creare adulti impulsivi, insoddisfatti e molto aggressivi18. Anche la depressione, caratterizzata da umore depresso, diminuzione di interessi, perdita di peso, agitazione o rallentamento psicomotorio, mostra questa distanza compromessa tra l’Io e ciò che l’Io non è, in cui le cose ancora da dire o da fare divengono così troppo ravvicinate ed opprimenti da non lasciare più spazio all’agire, tanto da diventare cose che non si possono più dire e cose che non si possono fare, vissuti questi da cui prendono avvio i racconti depressivi e il conseguente senso di colpa. In pratica come abbiamo visto, è come se si restasse in attesa del passato che diventa così un futuro che non potrà mai manifestarsi19. E restare in attesa del passato significa restare in attesa di poterlo modificare, ed è in questa tragica impossibilità che il depresso resta invischiato. Inoltre sono assai frequenti pensieri di morte o pensieri contro la propria volontà, caratteristici anche del delirio psicotico e di sva27


riate altre psicopatologie, che possono essere riconducibili al fatto che l’Io, perdendo la giusta distanza data dall’attesa, si trova davanti a tutto ciò che l’Io non è, e questo repentino avvicinamento delle assenze può essere esperito come un senso di colpa per tutto ciò che non si è riusciti a dire o a fare. I pensieri contro la nostra volontà allora rappresentano una sorta di punizione in grado di far espiare la colpa mettendo inoltre a tacere quel senso di oppressione che l’avvicinamento alle assenze comporta, essendo essi di carattere assai più inquietante ed improvviso. Ciò avviene quando non si riesce più ad esprimere la propria volontà, essenziale come abbiamo visto per mantenere una certa separazione dalle cose e quindi per lo strutturarsi dell’Io, che viene così rimpiazzata da una “contro” volontà che sono appunto quei pensieri percepiti come estranei da sé. Il mondo è “là” con tutti i suoi significati, come “là” sono tutte quelle parole ancora da dire e da ascoltare che le persone rappresentano. Ed è in questa distanza che è possibile strutturare un “Io”, perduta la quale egli viene sommerso da voci e immagini senza più un mondo a cui poterle attribuire. Entro certi limiti ciò si traduce nella costituzione di quel “doppio” di cui parla Rank essenziale per lo strutturarsi di un dialogo interiore ma che, se superati, portano fino al vissuto angoscioso della psicosi. Ulteriori considerazioni: l’attesa nella meditazione e nelle pratiche orientali L’attesa come abbiamo visto, non è tanto l’opposto dell’attività20 ma bensì il tempo dell’Io, in quanto non esiste un “presente” poiché esso sconfina necessariamente sul passato e sul futuro: la caratteristica del tempo è che scorre e il tempo già trascorso è il passato e il presente è solo l’istante in cui scorre21. Anche Venturini ritiene che quel presente su cui ci si concentra nelle meditazioni non vada inteso come un «totalitarismo dell’immediato con esclusioni unilaterali come verrebbe a essere un presente privo di 28


spessore, senza memoria e senza progetto» ma come un «presente come presenza che (ri)assume in sé ricordo e previsione: anche la bellezza effimera di un fiore non è priva di “radici” ed è aperta alla promessa del frutto. Ovviamente, anche i ricordi o le fantasie possono essere oggetti sui quali praticare la consapevolezza del presente, ma soltanto se osservati proprio in quanto ricordi o fantasie in atto. […] Diversamente, l’enfasi sulla meditazione come tempo e pratica separati ed esclusivi finirebbe per produrre una nuova inflazione egoica e mancherebbe di essere strumento di progresso spirituale»22. Ciò aiuta a comprendere meglio come quel “presente” tanto in voga nelle meditazioni orientali trapiantate in Occidente anche sotto forma di pratiche psicoterapeutiche (“mindfulness”) forse non si riferisce tanto al “mio” presente, ovvero al presente dell’Io che in realtà non esiste o a ciò che si sta facendo in “questo” momento, ma forse quel presente si riferisce semplicemente alla consapevolezza di essere in attesa. Nelle meditazioni infatti si insegna che si perviene allo stato di abbandono proprio attraverso l’attesa: un’attesa pura in cui non si attende nulla, in cui non v’è più alcun oggetto da cercare e dove, crollando l’oggetto, ci si libera anche dell’Io. Nello zen ad esempio il “risveglio” o “Illuminazione” (Satori) è al termine di ciò che viene chiamata attesa-attenzione, ovvero una vigilanza senza oggetto: tanto è vero, come abbiamo visto, che in psicofisiologia l’attenzione, mezzo basilare delle pratiche meditative in cui ci si concentra sul corpo o sul respiro, è considerata proprio come una variante dello stato di attesa. Nell’osservare il respiro ad esempio si evidenzia come all’estinzione di un fenomeno (ad es., nella pausa post- espiratoria) segua il manifestarsi di un altro fenomeno (inizio e manifestazione del nuovo respiro) ovvero, diciamo noi, la fine del respiro porta con sé l’attesa verso un nuovo respiro in una continuità priva di fratture, come accade nello scorrere di un liquido. 29


L’Illuminazione, il Nirvana, il Satori o risveglio è l’ultimo stadio di un processo di meditazione in cui v’è il vissuto di unione col “tutto” e il dissolvimento dell’Io. Il punto è collocarsi oltre ogni forma di dualismo, oltre gli opposti senza generare con questo nuove forme di dualismo e nuove opposizioni23. Secondo la nostra visione ed in base a quanto fino ad ora esposto, questo è possibile in quanto la consapevolezza, posizionandosi nell’attesa, si va ad inserire in mezzo agli opposti, tra l’Io e l’assenza, diventando un tutt’uno con essi. Non sono tanto gli opposti che si uniscono quanto la consapevolezza, in mezzo agli opposti, diventa un tutt’uno con essi. Anche un antico libro indiano, il Vijñanabha irava Tantra [Il tantra della coscienza divina] che raccoglie 112 insegnamenti indirizzati al controllo mentale, recita: «Nel momento in cui [il praticante] ha percezione o conoscenza di due oggetti o di due idee, dovrebbe simultaneamente eliminare le due percezioni o conoscenze e colta la distanza o l’intervallo - cioè l’attesa- tra i due dovrebbe mentalmente appoggiarsi ad esso. In quella distanza la Realtà risplenderà improvvisamente». È bene anche considerare, soprattutto in riferimento alle pratiche meditative che insegnano a stare nel presente, che esso è sempre inteso come un presente dell’Io e che tra Oriente ed Occidente abbiamo due diverse, se non opposte, concezioni dello stesso. In Oriente infatti si è soliti comprendere la psiche senza parlare necessariamente di un “me”: nelle poesie giapponesi ad esempio si parla di una foglia che cade, della primavera che arriva o dell’acqua che scorre e tutto ciò corrisponde ad uno stato d’animo che si riconosce, senza però parlare di un “Io”. Un famoso Haiku recita «Il vecchio stagno. Una rana si tuffa. Plop!». L’Occidente invece è caratterizzato da un tipo di pensiero centrato sull’Io, che piega alla propria volontà le cose del mondo e della natura, come ben spiega Nietzsche, dove è nell’agire che l’uomo costituisce la propria identità. 30


In Oriente, d’altro canto, si ha un tipo di pensiero che struttura un senso dell’Io diametralmente opposto, dove è l’uomo che si connette alle cose del mondo e si comprende solo come parte della natura e del tutto. proprio su queste differenze tra Oriente ed Occidente, C. G. Jung”24 disse: «Il mio atteggiamento critico di rifiuto nei confronti dello yoga non significa affatto che io non consideri questa conquista spirituale dell’Oriente una delle cose più grandi mai create dallo spirito umano. Spero che dalla mia esposizione risulti con sufficiente chiarezza che la mia critica investe esclusivamente l’uso dello yoga da parte dell’occidentale. In Occidente, lo sviluppo spirituale ha seguito vie del tutto diverse da quelle dell’Oriente, preparando un terreno oltremodo sfavorevole alla pratica dello yoga». NOTE 1 RICCARDO VENTURINI, Coscienza e cambiamento, Assisi, Cittadella, 1998. 2 NICOLAS GRIMALDI, Traité de la banalité, parigi, presses Universitaires de France, 2005. 3 Ibidem. 4 RICCARDO VENTURINI, Coscienza e cambiamento, Assisi, Cittadella, 1998. 5 CHARLES JR LAUGHLIN, Brain, Symbol, and experience, New York,Columbia University press, 1992. 6 NICOLAS GRIMALDI, Traité de la banalité, parigi, presses Universitaires de France, 2005 7 EUGENE MINkOwSkI, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 1971. 8 FABIO pAGLIERI, Saper aspettare. Come destreggiarsi fra pazienza e pigrizia, Bologna, il Mulino, 2014. 9 SøREN kIERkEGAARD, Il concetto dell’angoscia, Milano, Se, 2007. 10 GIANNI VATTIMO, Introduzione ad Heidegger, Bari, Laterza, 1971. 11 HAzEL MARkUS, Possible selves, Am. psychgol., vol 41, 1986. 12 GIANNI VATTIMO, Introduzione ad Heidegger, Bari, Laterza, 1971. 13 MLLE MORAND, L’attente attitude de conscience, «L’année psychologique», 1914b, vol. 21. 14 pIERRE BOVET, La conscience de devoir, Archives de psychologie, 1908. 31


pAUL HARTENBERG L, Archives de Neurologie, l’Année psychologique, 1903. EUGENIO BORGNA, Come se finisse il mondo, Milano, Feltrinelli, 2002. 17 THOMAS SzASz, La schizofrenia. Simbolo sacro della psichiatria, Roma, Armando, 1984. 18 FABIO pAGLIERI, Saper aspettare. Come destreggiarsi fra pazienza e pigrizia, Bologna, il Mulino, 2014. 19 SøREN kIERkEGAARD, Il concetto dell’angoscia, Milano, Se, 2007. 20 EUGÈNE MINkOwSkI, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 1971. 21 HENRI BERGSON, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra corpo e spirito, Bari, Laterza, 2009. 22 Tratto dall’articolo Un Buddhismo per l’Europa d’oggi dal blog «ilblogdiriccardoventurini.blogspot.com». 23 RICCARDO VENTURINI, Coscienza e cambiamento, Assisi, Cittadella, 1998. 24 CARL GUSTAV JUNG, Lo yoga e lOccidente, in Opere, vol. xI, Torino, Boringhieri, 1936 15 16

BIBLIOGRAFIA AA. VV., DSM V, Milano, Raffello Cortina Editore, 2014 BAUMAN zYGMUNT, Modus vivendi. Inferno ed utopia del mondo liquido, Bari, Laterza, 2007 BERGSON HENRI, Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra corpo e spirito, Bari, Laterza, 2009 BORGNA EUGENIO, Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica, Milano, Feltrinelli, 2002 BOVET pIERRE, La conscience de devoir, «Archives de psychologie», 1908 FRANkL VIkTOR, Dio nell’inconscio, Brescia, Morcellania, 1975 GRIMALDI NICOLAS, Traité de la banalité, paris, presses Universitaires de France, 2005 HARTENBERG pAUL, Archives de Neurologie, «L’Année psychologique», 1903 JUNG CARL GUSTAV, Lo yoga e l’Occidente, in Opere, vol. xI, Milano, Boringhieri, 1936 32


JUNG CARL GUSTAV, Lettere, vol. I, Roma, Ed. Magi, 2006 kIERkEGAARD SøREN, Aut-aut, Milano, Mondadori, 2002 kIERkEGAARD SøREN, Il concetto dell’angoscia, Milano, Se, 2007 LAUGHLIN CHARLES JR ET AL., Brain, Symbol, and experience, New York, Columbia University press, 1992 MARkUS HAzEL ET AL., Possible selves, Am. psychgol. , vol 41, 1986 MINkOwSkI EUGÈNE, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, Einaudi, 1971 MORAND MLLE, Qu’est-ce que l’attente, «L’année psychologique», 1914°, vol. 21 MORAND MLLE, L’attente attitude de conscience, «L’année psychologique», 1914b, vol. 21 MORAND MLLE, VII. Conclusion. La nature de l’attente, «L’année psychologique», 1914c, vol. 21 NIETzSCHE FRIEDRICH, Idilli di Messina. La gaia scienza e scelta di frammenti postumi (1881-1882), Milano, Mondadori, 1979 NIETzSCHE FRIEDRICH, Umano troppo umano, in Opere, Milano, Adelphi, 1979 pAGLIERI FABIO, Saper aspettare. Come destreggiarsi fra pazienza e pigrizia, Bologna, il Mulino, 2014 RANk OTTO, Il Doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Milano, SugarCo, 1987 SzASz THOMAS, La schizofrenia. Simbolo sacro della psichiatria, Roma, Armando, 1984 VATTIMO GIANNI, Introduzione ad Heidegger, Bari, Laterza, 1971. VENTURINI RICCARDO, Coscienza e cambiamento, Assisi, Cittadella, 1998

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RICCARDO MAINARDI Filosofia del rispetto

“Nella mia vita ho conosciuto molti uomini e molti animali. Dai primi ho appreso le peggiori atrocità. Dai secondi ho imparato l’amore, il rispetto e il concetto di anima”.

Quando, alcuni anni fa, lessi questo epitaffio sulla lapide di un uomo sepolto nel cimitero di Urbino, rimasi particolarmente colpito dalla sua amara profondità disillusoria nonché dal suo carattere eversivo e rivoluzionario. Il dilagare di continue guerre in Medio Oriente e nel Nord Africa, la politica arrogante e spietata messa in atto dagli Stati Uniti a partire dalla seconda metà del Novecento e la risposta terroristica alla “guerra infinita” americana, sembrerebbero testimoniare l’indiscusso dominio dell’Homo homini lupus che ha instaurato una vera e propria “tempesta di guerra” 1. Alla fine del secondo conflitto mondiale, dopo le macabre scoperte dei campi di sterminio, nessuno avrebbe potuto immaginare che a quell’olocausto così impietoso, così orrendo, così assurdo, ne sarebbero seguiti altri, seppur meno eclatanti ma altrettanto devastanti e atroci, spesso in paesi nei quali non esiste neppure la consolazione della memoria e del ricordo. La guerra mostra le sue nuove facce. Da un lato droni telecomandati mietono un crescendo di vittime civili, dall’altro, il terrorismo colpisce indiscriminatamente uomini, donne, bambini, al fine di destabilizzare i governi democratici dell’UE che spalleggiano la politica guerrafondaia statunitense. Era inevitabile che a un’escalation imperialistica che mette in pericolo la vita di centinaia di migliaia di civili corrispondesse una risposta in termini di flussi migratori talvolta carichi di un enorme potenziale offensivo. 34


George Bush, in un discorso del 24 giugno 2002, ha affermato il concetto di guerra infinita, ma ha altresì ribadito con categorica fermezza che il tenore di vita degli americani non è negoziabile2 . Va da sé che in un mondo in cui 2,8 miliardi di persone cercano di sopravvivere con meno di 2 dollari al giorno, un essere umano su 6 non ha l’accesso all’acqua potabile e ogni anno muoiono 11 milioni di bambini in prevalenza sotto i 5 anni, un’affermazione di tale tenore è di per sé una dichiarazione di belligeranza nei confronti di gran parte della popolazione mondiale e cancella definitivamente dal vocabolario il termine rispetto. per contro, osservando invece il comportamento di alcuni animali si potrebbe affermare senza dubbio alcuno che l’uomo dell’epitaffio avesse proprio ragione. persino Darwin, teorico dell’evoluzionismo, in alcuni suoi passi sembra porsi sulla stessa lunghezza d’onda. Ad esempio quando afferma che preferirebbe essere il discendente di quel babbuino che strappò il suo compagno all’assalto di una muta di cani, piuttosto che provenire da quel selvaggio-uomo che si compiace nel torturare i suoi nemici, che pratica l’infanticidio senza rimorso, che tratta la moglie come una schiava ed è dominato da assurde superstizioni3. Ricordo di aver letto diversi anni fa un articolo contro i safari e il bracconaggio che descriveva un fatto commovente realmente accaduto in zambia. Un maschio di pachiderma tentò di liberare la sua compagna intrappolata dalle sabbie mobili, tirandola invano a sé con tutta la forza della sua proboscide. Il maschio avrebbe potuto salvarsi ma non la abbandonò. Sfinito, esaurito l’ultimo tentativo, le si affiancò per farle sentire tutta la profondità del suo indissolubile legame. poi i due elefanti intrecciarono le loro proboscidi e attesero che quell’ingannevole palude immortalasse per l’eternità le loro sagome unite in quell’estremo atto d’amore. 35


La scienza, negando l’esistenza della coscienza nei mammiferi diversi dall’uomo, relega certi fenomeni al concetto di istinto animale. Ma la scienza si fonda su congetture basate su probabilità4. Il bagaglio delle esperienze e delle conoscenze di cui disponiamo non ci consente di comprendere il mondo animale, ma neppure di capire a fondo persone di un’altra lingua, di un’altra razza, o che professano una diversa religione. Anziché trarre da questo limite ragione sufficiente a generare il rispetto per tutto ciò che non conosce, l’uomo ha assunto la diversità quale motivo per imporre la sua volontà di sopraffazione e di dominio. La difficoltà di comprendere le altrui religioni, gli usi, i costumi e le tradizioni di altre etnie dovrebbe al contrario indurlo a comportarsi secondo basilari principi morali fondati su rispetto e tolleranza. Ma questo mutamento radicale, a mio giudizio, potrà avvenire solo quando l’uomo riuscirà a scrollarsi di dosso l’ottusità della sua visione soggettiva e smetterà di prestare esclusivo assenso al ristrettissimo campo delle sue conoscenze e delle sue esperienze razionali. Il concetto di rispetto, in un mondo in cui i 4/5 della popolazione detengono soltanto 1/5 della ricchezza mentre il restante quinto detiene l’80% delle risorse complessive (economiche, monetarie, energetiche e alimentari), parrebbe essere pura elucubrazione teorica, materia di dibattito filosofico-morale, ma totalmente incapace di risolvere i problemi concreti dell’uomo. purtuttavia il mio innato ottimismo si scontra con quest’ultima affermazione. Esso non si fonda sulla mera speranza bensì su alcune certezze. Se tutt’oggi sono ancora moltissimi coloro che da troppo tempo amano crogiolarsi nel profondo sonno dell’inconsapevolezza, per nostra fortuna ci sono persone che hanno deciso di affacciarsi sull’abisso dell’orrore e che, quindi, non potranno mai più restare indenni dal dolore degli altri. Solo grazie a costoro potrà cominciare un nuovo corso. 36


Il mio ottimismo nasce anche dalla certezza dell’esistenza dell’anima e dalla convinzione che essa non si arrende. Sono sicuro che tutte le anime di coloro che sono stati uccisi dalle guerre, dalle torture, dalla voglia di sopraffazione e di dominio, dalla cecità, dall’indifferenza, dalla follia, busseranno in eterno alle coscienze delle generazioni future. Le faranno specchiare negli orrori della storia affinché ciò che è accaduto non accada mai più. In questo breve saggio, volutamente, non parlo del rispetto verticale, verso un’autorità riconosciuta, somma o assoluta. Bensì del solo rispetto orizzontale che gli uomini devono gli uni agli altri. Esso dovrebbe nascere a mio giudizio dall’analisi introspettiva del rispetto di sé per estendersi, volgendo lo sguardo al mondo circostante, all’altro, alla natura. Sono molti i filosofi che hanno parlato di rispetto, di azioni morali e che hanno definito nel tempo il concetto di bene. Da platone ad Aristotele, dagli Evangelisti a Rousseau, da kant a Rawls. Secondo alcune filosofie utilitaristiche è bene ciò che soddisfa gli interessi e le aspettative del maggior numero, e non importa se certe minoranze permangono in uno stato di emarginazione e di degrado5. Secondo tali filosofie bene non equivale a moralmente giusto e, se il prodotto Interno Lordo di una nazione e il benessere economico di un popolo crescono, quel che conta è il dato aggregato, disgiunto da quelle aberranti contraddizioni della crescita economica che determinano una concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e un impoverimento di sempre più vasti strati della popolazione. Una fra le più autorevoli tesi secondo cui il significato di bene coincide con quello di giusto è quella kantiana, il cui concetto di morale, allontanandosi da Epicuro, Spinoza e da tutte quelle teorie utilitaristiche e eudemonistiche che pongono il fine dell’azione nel raggiungimento del proprio benessere e della propria felicità, sposta il concetto di bene a un livello assai più alto, coincidente cioè con ciò che è moralmente giusto. 37


In altri termini, per kant, il bene supremo è obbedire alla legge morale. per giungere a tale principio egli compie una profonda analisi che, criticando la pura ragione ne evidenzia i limiti, sfatando l’illusione che si possa ridurre la filosofia ad una scienza esatta come la matematica, allontanando così il pensiero filosofico dal cieco razionalismo in cui lo aveva condotto Cartesio. Egli mostra magistralmente i limiti della ragione evidenziando altresì quelli della Teologia Razionale. Quest’ultima tenta di fornire prove dell’esistenza di Dio, ma tali prove, indimostrabili empiricamente, costituiscono tutt’al più postulati di fede. L’indimostrabilità dell’esistenza di Dio e dell’anima non deve però condurre l’uomo allo sconforto e all’abbandono di se stesso. Al contrario gli offre un’opportunità unica: quella di vivere secondo leggi morali! Queste leggi per kant divengono imperativi categorici: gli esseri umani devono essere considerati come fini in sé, come persone razionali, libere ed eguali. L’uomo, inoltre, deve agire come se le leggi della sua volontà possano divenire leggi universali. Questi due imperativi sono, a mio giudizio, le più alte espressioni di morale che una mente pensante sia mai riuscita a concepire e contengono in sé l’essenza del rispetto6. kant, in fondo, ci invita ad estendere agli altri, e, quindi, anche ai meno avvantaggiati, ai diversi, agli appartenenti a differenti etnie, quelle regole fondamentali del rispetto di sé, della propria libertà, della propria dignità, delle proprie idee che, se fossimo liberi di scegliere, porremmo a salvaguardia della nostra vita e della nostra dignità di individui. Molti ritengono che il perdurare di guerre, odio, discriminazioni, intolleranza, sia la prova lampante del fallimento di concetti come quello kantiano di morale e, più in generale, del fallimento della cultura e del sapere. 38


Io credo invece che questo mondo senza kant sarebbe stato molto diverso. Credo che se nei principali articoli delle Costituzioni di alcuni stati democratici è stata introdotta una forte tutela dei diritti fondamentali inalienabili e dei diritti civili lo si debba anche a lui. Egli ci ha solo indicato il percorso verso ciò che è moralmente giusto, a prescindere dalla fede in Dio. Il suo concetto di morale è una voce che grida e tormenta la nostra coscienza e da cui nessun uomo può sfuggire. Vorrei concludere raccontandovi un fatto che mi ha insegnato più cose sul rispetto di quante ne abbia potute apprendere leggendo molti libri o studiando all’università. Un mio caro amico, docente di filosofia in un liceo classico, mi raccontò che diversi anni fa, fra i suoi studenti di terza liceo vi era un ragazzo originario del kosovo molto intelligente ma perennemente triste. Una mattina, a fine lezione, il professore chiese a kosar (così chiamerò quello studente per tutelarne la privacy) se si trovasse bene in Italia e perché i suoi genitori non fossero mai venuti ai colloqui con i professori. Ma il ragazzo di colpo si adombrò e non riuscì a trattenere le lacrime. poi raccontò la sua storia. Disse che, nel marzo del 1999 quando, dopo i bombardamenti della NATO, in kosovo divampò la rappresaglia serba, suo padre decise di rifugiarsi in Italia, con la sua famiglia. Trovò un lavoro onesto in un’impresa edile. Ma una triste mattina di novembre degli sconosciuti, armati di fucili, si appostarono davanti alla loro baracca e la crivellarono di proiettili. Suo padre e suo fratello di sei anni morirono. Sua madre perse l’uso di una gamba. Soltanto kosar restò miracolosamente illeso. Il delitto - di cui i quotidiani parlarono pochissimo – fu di una crudeltà e di un’efferatezza senza limiti. Vennero arrestati quattro giovani sui quali la polizia raccolse numerosi indizi. Erano i figli di alcuni notabili dell’imprenditoria. Difesi da autorevoli principi del Foro, vennero scagionati e rilasciati 39


in breve tempo. La famiglia di kosar era sfuggita alle persecuzioni dei serbi per morire in Italia ad opera di quattro razzisti figli di papà. Nell’ascoltare il racconto di quel ragazzo il docente restò pietrificato e non riuscì a proferire parola. Nei giorni che seguirono quell’episodio fu devastato da una terribile crisi. Ciò che insegnava e a cui credeva con tutto se stesso gli sembrò all’improvviso completamente inutile, privo di senso. persino i concetti di alcuni grandi filosofi che per anni avevano costituito i capisaldi del suo credo gli apparvero totalmente vani, privi di qualsiasi valore. Aristotele e la sua Logica, kant e la critica della ragione, Tommaso D’Aquino e le sue cinque prove sull’esistenza di Dio: solo una montagna di parole inutili! Dinanzi a una tale barbarie ogni valore si ribalta, ogni certezza diventa dubbio, ogni credo si dissolve. per il resto di quell’anno scolastico il professore pensò addirittura di cambiare mestiere. Ma un giorno, dopo gli esami di maturità, kosar – che si era diplomato a pieni voti – gli chiese di parlargli. per il mio amico quello fu uno dei giorni più belli della sua vita. Il ragazzo gli raccontò che per anni, dopo la tragedia, aveva pensato sempre e soltanto alla vendetta. Quel pensiero lo aveva tormentato come un male oscuro che a poco a poco conduce in un tunnel senza via d’uscita. per mesi aveva seguito quei quattro giovani. Conosceva perfettamente le loro abitudini. La sera riusciva a prendere sonno solo nella consapevolezza che, prima o poi, avrebbe realizzato quel sanguinario progetto. Ma, gradatamente, qualcosa lo dissuase dal compiere a sua volta un orribile crimine. Gli disse che, dopo aver ascoltato alcune lezioni di filosofia, cominciò a intravedere una nuova via, un nuovo percorso. 40


Dovette metabolizzare a lungo quel cambiamento. poi ogni dubbio svanì. pensò che la sua vendetta, in fondo, non avrebbe impedito che, ogni giorno, per motivi razziali o di intolleranza, venissero compiuti centinaia di altri crimini. Mentre se quel suo cambiamento fosse divenuto patrimonio del più ampio numero di persone possibile, forse qualche crimine analogo si sarebbe potuto evitare. «Vorrei che le nuove regole che mi sono dato possano un giorno divenire universali! per questo un domani vorrei fare anch’io il docente di filosofia» confessò raggiante al mio amico. Aggiunse che ogni giorno, per il resto della sua vita, avrebbe cercato di insegnare ai suoi studenti le regole della tolleranza e del rispetto. Se soltanto dieci fra loro avessero tradotto quelle regole in condotta di vita si sarebbe generato un effetto moltiplicatore perché quei dieci avrebbero diffuso quei principi ad altri cento, quei cento ad altri mille e così via. Sì, quella sarebbe stata la sua sola, unica vendetta. Anche quel giorno il mio amico non riuscì a proferire parola. Era talmente felice che non poté far altro che stringere forte kosar al suo petto. E, da allora, non ha mai più pensato di cambiare lavoro! E’ proprio questa storia che ha contribuito a trasformare in certezze il mio innato ottimismo. Essa è non solo una vittoria del concetto di rispetto, ma della filosofia nel suo complesso. Una disciplina in grado di formare negli individui una coscienza morale e un senso di responsabilità verso gli altri, verso l’ambiente naturale, verso la vita, indispensabili basi di qualsiasi vivere civile organizzato. In cuor mio, continuo inoltre a sperare che quell’immenso stormo di anime senza requie distenda finalmente le sue ali sopra i cieli per diffondere il seme di una nuova genesi e perseveri a bussare ogni notte alle porte della nostra coscienza.

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NOTE 1 THOMAS HOBBES, Il Leviatano, Bari, Laterza 1974, p.109. 2 Discorso riproposto da GEORGE w. BUSH anche nei mesi successivi e conosciuto come Dottrina Bush, New York, The New York Time, 17/03/2003. 3 CHARLES DARwIN, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Roma, Newton Compton, 2006, p. 92. 4 JOHN LOCkE, Saggio sull’intelletto umano, Milano, Bompiani 2004. 5 HENRY SIDGwICk, I metodi dell’etica, Milano, Il Saggiatore 1995. 6 per kant rispettare una persona significa trattarla come un fine e non come un mezzo.

BIBLIOGRAFIA DARwIN CHARLES, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Roma Newton Compton, 2006 HOBBES THOMAS, Il Leviatano, Bari, Laterza, 1974 LOCkE JOHN, Saggio sull’intelletto umano, Milano, Bompiani, 2004 pOppER kARL RAIMUND, Congetture e confutazioni, Torino, paravia 1986 SANGER DAVID, Bush’s Doctrine for war, New York, The New York Time, 17/03/2003 SIDGwICk HENRY, I metodi dell’etica, Milano, Il Saggiatore, 1995

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MARCO VISCOMI Nel solco della trasvalutazione onto-logica Sul conflitto speculativo interno agli aristotelici principi primi Secondo la tradizionale accezione metafisica dell’aristotelismo, quattro sono le cause e tre i principi della realtà. Le prime costituiscono la declinazione della causalità in base ai tratti materiale, formale, efficiente e finale dell’essente. I secondi identificano i capisaldi primi, dai quali dipende la modalità d’essere degli enti e la loro possibilità di venir riconosciuti razionalmente dall’essere umano. La filosofia, come scienza delle cause e dei principi primi delle cose, non esprime nient’altro che questa duplice dimensione dell’unica ricerca da Aristotele ritenuta degna di definirsi “filosofica”. L’intento aitiologico di comprendere il modo d’essere degli enti e il corrispettivo impegno a considerare l’attualità della predicazione categoriale e la possibilità stessa che tale modo del dirsi dell’essere sia reale, rappresentano alcuni dei tratti preponderanti dell’indagine aristotelica. In questo contesto teoretico, sorge in prima istanza il carattere problematico di ridurre la questione platonica sull’essere, colto e contemplato in sé per sé, alla più circoscritta e sicuramente meglio risolvibile definizione causalistica degli enti. Dinanzi l’impossibilità di oggettivare la questione che si annuncia con la parola “essere”, infatti, diviene per Aristotele più prudente limitarsi all’umana modalità del venir detto dell’essere da parte delle categorie della ragione. Sebbene riferiscano a proposito della realità dell’essente, in quanto questo si mostra corrispondere a ciò che di esso viene detto dall’umano, quelle categorie pongono un accento preponderante sulla modalità esplicativa degli enti di ragione e di esperienza umana. parlando delle cause senza un riferimento non-causalistico al fondamento, quelle dicono soltanto la manifestazione figurale e apparente al soggetto umano degli enti da quest’ultimo oggettivati. 43


Da una simile critica non sono espunti, ma anzi piuttosto essenzialmente implicati, i termini inquadrati da Aristotele nei tre principi di identità, di non-contraddizione e del terzo escluso. Questi infatti si pongono sin dall’inizio in un ordine linguisticamente ambiguo, nel momento in cui di essi si predica cioè come di “principi primi” (αἱ πρώται ἀρχαί), quasi si abbia a confermare che ciò che si mostra come principio abbia in se stesso il tratto fondamentale di essere “principiale”, cioè proprio del fondamento. Epperò, proprio perché Aristotele esprime a chiare lettere di non voler volgere al fondamento d’essere degli enti, cioè all’essere stesso, ma al solo modo categoriale di potersi dire dell’essere stesso negli enti, al filosofo di Stagira si presenta la necessità esplicativa di enunciare i principi onto-logici della metafisica come qualcosa che sta “prima” di tutto il resto. Un qualcosa quindi che in se stesso non rappresenta il “principio” (singolare), ma il posizionamento argomentativo ed elenctico di termini che fungano da primi (plurale) per tutto ciò che ad essi segue e che da essi appare possibilitato ad essere. per tale ragione, i tre primi principi aristotelici espongono i punti iniziali, inconcussi e non eliminabili, a partire dai quali risulta possibile ed effettualmente reale tutto ciò che da essi segue, vale a dire tutto ciò che in virtù di essi l’essere umano può identificare come reale. Sono però ancora quegli stessi principi che, occultando il senso originario di una parola che tentasse di dire il principio medesimo come platonico “essere”, si palesano quali indizi di un’indagine più originaria, sottesa alla metafisica aristotelica, implicitamente evocata da una ricerca che sia degna del nome di Filosofia. Il presente articolo tenta di far emergere, tra le righe del discorso fatto proprio da Aristotele, l’insegnamento platonico tra esse occultato e, in certo senso, profondamente tradìto. Ciò che ritengo venga trasmesso dalla tradizione aristotelica, consiste in una tensione inappagabile verso la problematizzazione del principio. Un 44


termine, quest’ultimo, che non deve essere però semplicemente castrato in un restringimento empiristico o razionalistico sull’essente, ma che piuttosto deve spronare ad una continua interrogazione fondamentale. È proprio di quest’ultima tentare di volgere gli occhi a ciò che consente il posizionamento di qualunque “primo” principio della ragione e il riconoscimento del nesso causa-effetto, internamente alla catena delle causazioni e a prescindere dall’insieme individuabile degli effetti. La questione che emerge da una tematizzazione, se si vuole, “platonica” del detto aristotelico, non consiste soltanto in uno stravolgimento dell’impianto speculativo della metafisica dello Stagirita, ma ancor più in una vera e propria trasvalutazione dell’essenza metafisica di qualunque professabile ed incarnabile aristotelismo. Muovendoci nel contesto, problematico più che tematico, di un raffronto di questa questione con la forma del pensato heideggeriano, si vorrebbe tentare di seguito un’indicazione, presente anche nel filosofo di Messkirch, di ciò a cui attiene qualunque espressione platonizzante del pensiero. Diviene cioè importante considerare come ogni sorta di meditazione autentica sul principio non possa che farsi speculazione originaria sul fondamento che, nella storia del pensiero occidentale, ha assunto fra gli altri anche il nome centrale di “Essere”. Un terzo compreso nella differenza fra essere e non-essere Nel punto della sua Metafisica in cui Aristotele enuncia il principio del terzo escluso, si viene a conoscenza del modo in cui risulta possibile il dirsi categoriale dell’essere annunciato dallo Stagirita. Se infatti si ammette che l’essere si possa dire in molti sensi1 e che il primo di questi modi dicendi non è altri che la sostanza2, diviene fondamentale comprendere in che termini è possibile dire adeguatamente a proposito dell’essere di cui si predica. Rivolgendosi risolutamente agli enti, presenti col loro essere ciò che si danno a manifestazione dicibile, Aristotele espone il principio del terzo 45


escluso riconoscendolo come termine chiave per la corretta dicibilità aggettivale delle entità. In questo senso, il filosofo asserisce che «non è possibile che fra due contraddittori ci sia un termine medio, ma è necessario o affermare o negare, di un medesimo oggetto, uno solo dei contraddittori, qualunque esso sia»3. In mezzo ad una coppia di contraddittori, cioè fra due termini aggettivali contraddittori come bianco e non-bianco, non si dà un punto intermedio, quindi un termine terzo, che si possa riconoscere come assegnabile categoricamente ad un’entità essente. Un ente può infatti dirsi nel proprio essere precipuo o come ente bianco, oppure quale ente non-bianco, tertium non datur. ponendo ancora l’accento su colui che predica dell’essere dell’ente, Aristotele può dire del modo di essere di qualcosa o secondo verità o secondo falsità. Infatti, a seconda che un soggetto parlante riconosca il tratto proprio di un ente nella sua precipuità categoriale, quest’ultima verrà riconosciuta nel proprio tratto non-contraddittorio, esattamente in virtù del principio del terzo escluso. Se un ente si dà secondo il modus essendi “bianco”, non potendo non dirsi di quell’ente altrimenti che come di un ente categoricamente altro dal non-bianco, il dire che il colore di quel preciso ente sia bianco corrisponderà al vero, mentre sarà erroneo ammettere il contraddittorio. Sostenere infatti che un ente bianco sia nello stesso tempo anche non-bianco, non implica semplicemente autocontraddizione, ma dimostra altresì la perentorietà predicativa e giudiziale del principio del terzo escluso. Quest’ultimo ribadisce infatti la validità del principio cardine della non-contraddicibilità dei modi d’essere e di dirsi degli enti, affermando l’impossibilità logica di un termine medio fra le possibili coppie di contraddittori aggettivali. Queste rappresentano le diadi di termini fra i quali non si può non predicare se non nei termini della non contraddittorietà. per poter cogliere ancora più a fondo il tratto particolare di queste 46


enunciazioni di principio, Aristotele pone un distinguo linguistico preciso. Il filosofo si preoccupa infatti di differenziare fra loro il contraddittorio (ἀντίφασις) e la contraddizione (ἐναντία)4. Il primo termine si riferisce all’azione precisa di negare qualcosa, non contrapponendo a questo qualcosa un termine altro da se stesso, ma dicendo semplicemente di no (ἀντίφημι) al suo essere. Il contraddittorio consiste infatti nel negare un termine preciso, colto nella possibile contraddizione a se stesso: dinanzi al caso che un ente possa essere bianco, si dà la possibilità parallela che quel medesimo ente avrebbe anche potuto essere differente da come è, cioè avrebbe potuto darsi e dirsi come non-bianco. La non-contraddittorietà attiene per questo al non potersi dire (φημί) di un ente nei termini antitetici (ἀντί) al suo preciso modo d’essere, così da consentire il riconoscimento di quest’ultimo nella propria specificità individuale e, appunto, intrinsecamente non-contraddittoria. per quanto riguarda il termine della contraddizione5, invece, esso indica quell’insieme infinito di nessi relazionali, che correlano fra loro le molteplici possibilità categoriali di dire il modo d’essere di un ente. Una parola esprime qualcosa di contrario a un’altra, infatti, non tanto negando il termine diretto al quale si riferisce, ma proponendo dirimpetto a quest’ultimo (ἐν) un’alternativa differente (ἀντίον) e riconoscibile nella propria specificità. Rimanendo nell’esempio dei colori, contrario al bianco è il nero e non certo il nonbianco, il quale indica il contraddittorio e non il contrario di ciò che è espresso nel termine “bianco”. L’elemento che consente di distinguere fra queste due accezioni apparentemente sinonimiche consiste nel fatto che, mentre tra due contraddittori non si dà un punto intermedio ma semplicemente una reciproca e sostanziale esclusione, nel caso dei contrari si danno infinite possibilità intermedie. Tra bianco e nero si danno infatti infinite sfumature di grigio, le quali possono essere proprie di un ente che non è né bianco né nero in 47


maniera determinata. Il modo di dirsi del contrario, allora, non consente un’identificazione assoluta e di principio, ma espone più che altro ad una predicazione più particolare il modo d’essere dell’ente: mentre quest’ultimo necessita di dirsi nel suo tratto onto-logicamente non contraddittorio, la predicazione si esprime secondo i tratti dialettici della contraddizione predicativa. Ora, se tentassimo di applicare questa enunciazione aristotelica di principio al discorso heideggeriano, ci troveremmo dinanzi un’impasse cruciale. Ad Heidegger non interessa infatti nulla dell’ente, né tantomeno della sua possibile aggettivazione categoriale, della quale si fa portavoce il principio del terzo escluso. Il filosofo di Messkirch appare interessato soltanto all’essere dell’ente, cioè al fondamento che sostiene il modus essendi et dicendi di ogni essente particolare. A questo pensatore importa dell’essente nella sua specificità solo per quel tanto che riguarda il tratto differenziale che consente di intravedere l’essere stesso come differente dall’ente e dall’esserci umano. Nella misura in cui Heidegger non si concentra sulla correttezza predicativa degli enti, ma sul tentativo di far giungere al linguaggio l’essere stesso6, l’applicazione del principio del terzo escluso alla meditazione heideggeriana fa sorgere il seguente problema: l’essere stesso non si può dire in molti sensi, come invece afferma Aristotele sia possibile fare con l’essere dell’ente, cioè col modo d’essere degli essenti particolari che si danno ad essere e che si espongono alla predicazione categoriale dell’essere umano. Riguardo l’essere stesso, infatti, non si danno aggettivazione di sorta, in quanto lo Seyn heideggeriano non è un ente, né il modo d’essere di singoli essenti esponibili in una predicazione logicamente corretta. Se nonostante questa fondamentale difficoltà volessimo avvalerci della strumentazione aristotelica per intendere il rapporto che con quest’ultima intesse il pensato heideggeriano, non dovremmo considerare il termine principiale dell’esclusione di un termine medio interposto fra due contraddittori, ma un caso particolare della con48


traddizione. Interrogando solo l’ente in quanto è, cioè l’essere stesso riverberante nella sua differenza dagli enti, Heidegger chiede dei due particolari opposti essere-nulla. Fra questi due si pone quel preciso ordine dialettico del divenire, enunciato chiaramente da Hegel7 ma rifiutato perentoriamente da Heidegger. Il senso più propriamente ontologico del terzo escluso si ritrova proprio nel ricondurre questo principio alla non-contraddittorietà implicita nel darsi ad essere di ogni possibile entità. Quest’ultima risulta dicibile dall’essere umano secondo l’espressione logica dell’impossibilità di contraddirsi, solo in quanto tale impossibilità risiede sul fondamento che rende possibile il dirsi di ogni possibile datità. Guardando anche a quest’ultima, ma concentrandosi in maniera preponderante sul dirsi dell’essere degli enti, Aristotele elude il percorso seguito da Heidegger in certa riaffermazione del principio di non-contraddizione. Esso non viene più saldato alla mera dicibilità logica del dirsi degli enti, ma risulta finalmente rimandato al tratto principiale (cioè ontologico e fondamentale) del darsi dell’essere stesso piuttosto che del nulla. La duplice necessità interna all’identità Heidegger non si interroga su ciò che sembra guidare l’intera indagine aristotelica, cioè il chiedere ragioni del divenire e il dare spiegazioni del mutamento in virtù delle deduzioni addotte nel ragionamento. Il pensatore tedesco non pone l’accento sul divenire, intendendolo come forma di conciliazione e di ricomprensione degli opposti (contrari e non certo contraddittori) essere-nulla. ponendo l’accento su quello che traduciamo come evento-appropriazione (Ereignis), ciò a cui si tenta di riferirsi è, da un lato, il darsi in assoluto di qualcosa contrariamente alla possibilità del nulla e, dall’altro lato, il termine proprio proveniente dal nulla della nullificazione (Nichtung), cioè della fondazione di ogni possibile “no” della logica e dei modi d’es49


sere, proveniente dal nulla8. Tra questi due poli si sarebbe portati ad ammettere una necessaria forma di dialettica, che culminerebbe in Heidegger nell’affermazione per la quale tanto l’essere, quanto il nulla non costituiscono altro che il medesimo e unitario accadere dell’evento dell’essere. Tuttavia il pensatore di Messkirch risulta risolutamente ostinato nel rifiutarsi di ammettere questa forma specifica di conciliazione, la quale lo porterebbe troppo vicino alla Versöhnung hegeliana e, a suo modo d’intendere, all’oblio metafisico dell’essenza dell’essere. Fra essere e nulla non bisogna quindi pensare in Heidegger alla ricomprensione degli opposti in una unità pacificata e mantenente distinti i contrari, ma in quella continua oscillazione (Erschwindung)9 e vibrazione (Erzitterung)10 fra gli opposti, in mezzo ai quali si delinea l’evento dell’essere. Arrivati a questo punto, però, sorgono spontanee alcune domande di metodo. In primo luogo, cosa fonda in Heidegger l’oscillazione essere-nulla, tanto da far scansare l’opzione dialettica del divenire e da indurre il filosofo all’indicazione del semplice eventuarsi dell’essere, quale fondamento di ogni datità e di ogni possibile nullificazione? Che rapporto c’è, ancora più in profondità, fra l’essere e il non-essere, fra il nulla e non-nulla? Cioè, che rapporto si instaura fra i termini contraddittori corrispondenti a ciascuno dei due termini coinvolti nella polarità di contrari essere-nulla? Che rapporto va intravisto al fondo dei contraddittori posti in relazione all’essere e al nulla, cioè il non-essere e il non-nulla? In termini heideggeriani si potrebbe provocare la meditazione con un ultimo interrogativo: l’essere è ancora per noi puro non-essere, categoria astratta, vuota e ultimamente inessenziale, e il nulla rimane ancora un vuoto nonnulla, cioè una parola con la quale si esprime una mera assenza di oggetti o qualcosa di affatto nullo in se stesso? per poter trovare anche solo la traccia del percorso indicato da questi interrogativi, occorre ritornare al principio di non contraddizione espresso da Aristotele. Anche qui, tuttavia, è importante contestualizzare l’ar50


gomentazione metafisica di stampo aristotelico con quella indicazione anti-metafisica11 posta da Heidegger in linea di principio, cioè in dirittura di segnalazione del principio medesimo. La non-contraddizione esprime una duplice necessità, a un tempo, logica e ontologica. per un verso, nessun essente può essere inteso differentemente da ciò che, in dato momento e da una singola prospettiva, quel particolare ente appare o si riconosce che sia. per altro verso, ogni cosa è nella sua essenza ciò che è, perché, in un preciso spazio-tempo, quella determinata cosa è ciò che è e non ciò che essa non-è. Quello che Aristotele definisce “il più sicuro di tutti i principi” (βεβαιοτάτη αὕτη τῶν ἀρχῶν πασῶν)1 recita: «è impossibile che una cosa, nello stesso tempo, sia e non sia»1. Una simile affermazione di ordine prettamente ontologico, cioè tale da asserire qualcosa sull’essere dell’ente, viene di seguito nel testo rimandata al ragionamento e al modo di dirsi sia dell’essere, sia dell’ente. Aristotele infatti riconosce che la via possibile per comprendere la legittimità del principio di non-contraddizione consista nella sola dimostrazione dell’impossibilità della non validità di tale medesimo principio. Colui che infatti tentasse di negare questo principio, dovrebbe in assoluto intenderlo ed usarlo, altrimenti non potrebbe parlare affatto, in quanto non avrebbe né comprensione, né conoscenza di ciò che dice o di ciò che tenta di esprimere. Il fulcro sul quale viene impostata la validità di questo principio di ordine ontologica viene spostato da Aristotele sul versante prettamente logico elenctico della speculazione. Questo principio diviene infatti discrimine per considerare la solidità e la possibilità stessa di ogni ragionamento14, quindi di ogni possibile e fattuale modo umano di dire l’essere e gli enti. «Esiste negli esseri [ἐν τοῖς οὖσιν] - scrive Aristotele - un principio rispetto al quale non è possibile che ci si inganni, ma rispetto 51


al quale, al contrario, è necessario (ἀναγκαῖον) che si sia sempre nel vero: è questo il principio che afferma che non è possibile che la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non sia, e che lo stesso vale anche per gli altri attributi che sono fra loro opposti (ἀντικείμενα) in questo modo»1. Internamente a ciò che è, cioè a ogni essente particolare e allo stesso darsi in generale delle entità, si ritrova quel principio ontologico e logico a un tempo, che si dice della non-contraddizione. Esso esprime, rispetto l’essente, il suo non poter essere ciò che esso non-è e il nostro umano non poter dire, di ciò che ci appare essere, che questo non-è ciò che esso invece ci appare (cioè sappiamo e riconosciamo) essere. L’uomo è nel vero, cioè nella veridicità dei modi in cui egli predica riguardo l’essere degli enti, corrispondendo alla verità medesima che fa essere gli enti, in un preciso spazio-tempo, ciò che sono e non il loro contraddittorio. Il principio in esame esprime quindi una necessità intrinseca all’essente, la qual cosa risulta però in Aristotele, in maniera preponderante, tale da necessitare il pensante umano al ragionamento non-contraddicibile della sua speculazione. In tal senso, il rimando di natura fondamentale alla necessità dell’essere stesso, in quanto non-essente ciò che lo Seyn non si dà ad essere, diviene in Aristotele la garanzia certissima della predicabilità categoriale degli enunciati logici di ragione. Qui, si può asserire con la nota formula provocatoria di Heidegger, dell’essere stesso non ne è effettivamente più nulla. Sui contraddittori dell’essere e del nulla Ora, se tentiamo di applicare al pensato heideggeriano i termini enunciati implicitamente da Aristotele nella sua professione metafisica (ontologica) del principio (logico) di non-contraddizione, ci troviamo dinanzi due coppie di contraddittori assolutamente problematici. Se ripartiamo dal binomio frutto dei contrari essere-nulla, i contraddittori essere e non-essere, nulla e non-nulla si impongono 52


come tali da necessitare una esplicazione più particolareggiata. Nel mettere in questione la relazione presente fra questi termini, ci si avvede immediatamente di come il lato logico della speculazione vacilli e crolli inesorabilmente. Il versante argomentativo e soggettivisticamente razionalistico dal quale viene approcciato il principio di non contraddizione, infatti, si interessa in maniera consapevole al solo ed esclusivo ambito del dirsi dall’essere. Aristotele stesso d’altronde, considera l’essere stesso per quel tanto che gli interessa riferirsi agli enti particolarmente essenti e non al darsi generale dell’essere piuttosto che del nulla. La logica classica pensa qui l’essere come primo e più importante modus essendi dell’ente, cioè come prima categoria di ciò che è, vale a dire quale sostanza (οὐσία). L’essere accolto da Aristotele nella sua essenzialità non contraddittoria, invece, non appare identificabile con nessuna entità precisamente predicabile, al punto da risultare sì la costante categoriale di ogni predicabilità logica, ma in alcun modo il fondamento (ὑποκείμενον) implicito al possibile darsi di ogni essente e di qualsiasi particolare essenzialità predicabile. per quanto riguarda la problematica del nulla, invece, l’approccio aristotelico non può che considerarlo come una mera assenza di enti, o al massimo nei termini di una privazione d’essere, cioè perdita del darsi dell’essere particolare di un singolo ente. Il nulla è logicamente nullificazione o di singole entità, che vengono ammesse come nulle nella loro esistenza, quindi semplicemente non essenti, o della totalità dell’ente, cioè appunto l’assenza in generale di un qualche ente presente in virtù del suo potersi dire “essente”. Ciò che identifica il termine “nulla” viene ricondotto ad una modalità del dirsi generale dell’essere, nel senso che questa particolare parola giunge ad esprimere l’aporetica presenza di un’assenza, vale a dire l’assenza di un ente singolo, che si riconosce nel suo semplice non esserci, o l’assenza in generale dell’ente in quanto tale, cioè l’utopistico e controfattuale darsi del nulla piuttosto che dell’essere stesso. 53


I termini contraddittori all’essere e al nulla vengono allo stesso modo tacciati di inconsistenza logica, divenendo così completamente oscurati in quella validità ontologicamente fondamentale, che Heidegger non si stanca di richiamare al pensiero. Sia il non essere un ente da parte dell’essere stesso, sia il non-nulla che l’essere stesso si mostra essere nel suo generale darsi ad evento, costituiscono quei due poli problematici, che la logica surclassa impropriamente come vaneggiamenti del pensiero. Il fatto che la logica non possa approcciare con i suoi strumenti razionalistici le problematiche fondamentali della metafisica, infatti, non costituisce di per se stesso una scusante che possa in qualche modo legittimare la pretenziosità censoria della deduzione logica. È quest’ultima infatti a trarre fondamento da quel non-razionalizzabile sostrato, a partire dal quale anche lo stesso principio di non contraddizione deve la necessità della sua pregnanza argomentativa e metafisica. Esattamente in quanto attiene alla necessità implicita nel libero disporsi dell’evento dell’essere, ogni principio della logica può avere validità onto-logica, può cioè riferirsi in generale secondo veridicità alla verità stessa dell’essere. Soltanto in quanto dice l’essere stesso nella pregnanza ontica della sua intrinseca “logicità”, cioè in linea con quell’essenziale che riguarda il λόγος e non semplicemente la scienza dei discorsi (ἐπιστήμη λογική), il principio logico della noncontraddizione assume una validità predicativa corroborabile dalla fattualità essente. Quest’ultima infatti può darsi alla necessità del proprio modo d’essere e dei modi particolari di venir predicata, solo in quanto primariamente l’essere stesso si dà ad evento e il nulla non è alcunché di essente. Ciò che la logica intravede qui come problematico, senza poterlo però interrogare né affrontare, privandosi per di più della possibilità di intenderlo in una maniera ontologicamente appropriata, indica il fondamento detto da Heidegger come evento-appropriazione. L’Ereignis costituisce infatti quel termine unificante e non mediatore 54


colto dal pensatore di Messkirch come continua oscillazione tra essere e nulla, vale a dire quale costante vibrazione identificabile nella relazione accadente del divenire. Quest’ultimo risulta hegelianamente sotteso nella compenetrazione di essere e nulla16, mentre va riconosciuto secondo Heidegger in termini contrari alla metafisica dialettica del superamento (Aufhebung) e della conciliazione. Nell’intendimento heideggeriano, infatti, l’oblio operato dalla metafisica viene additato in quella pretesa razionalisticamente ricomprensiva, che tenta la sintesi idealistica dell’evento dell’essere in un unico pensato sistematico. Quest’ultima pretesa del pensiero umano si staglia per Heidegger contro l’essenza stessa del pensare originario (Andenken), inteso come un continuo rammemorare trascendentale a ciò che costituisce la condizione di possibilità ontologica a che ciò che viene all’essere, al dirsi e alla propria manifestazione possa in effetti accadere. L’esito estremo dell’abbandono formale della dialettica operato da Heidegger consiste nel preciso attacco rivolto alla δδδδδδδδ soggettivisticamente sintetica1, in direzione del ritorno questionante a ciò che precede tanto la soggettività capace di dire l’essere, quanto l’oggettività riconoscibile nel darsi delle entità essenti. Heidegger attacca quindi il pensiero metafisico pensandolo come unilateralmente dialettico e decidendo di contrapporvisi in una maniera contraria (ma mai ovviamente contraddittoria) nella ferma convinzione che l’intera metafisica occidentale abbia obliato ciò che, in verità, solo certo tipo di idealismo e di realismo sono stati portati a fare. Il pensatore di Messkirch pare cioè convinto che la conclusione annichilente e tecnica propria della metafisica, giudicata quale evento estremo della storia dell’oblio dell’essere, dipenda da quell’attenzione razionalisticamente ricomprensiva che, partendo dall’intendimento prevalentemente logico della Metafisica aristotelica, si sia compiuto nell’attuazione pianificata e logistica della tecnica planetaria18. 55


Uguale e medesimo nella loro conflittualità La proposta di Heidegger non si comprende appieno, se di essa si pensa come di una mera contraddittorietà posta in seno alla metafisica, secondo l’intenzione assurda di voler annullare la metafisica attraverso il medesimo pensare di questa. Il pensiero dell’Ereignis rimane infatti pur sempre una meditazione speculativa sulle istanze originarie dell’essere e del nulla e sul rapporto fondamentale di questi due termini. Sebbene su questo punto critico Heidegger voglia a tutti i costi allontanare la possibilità di una dialettica ricomprensiva, tuttavia in questa modalità di meditazione emerge con ancora più forza la necessità prima di non fare, dell’essere, un qualche tipo di entità e, del nulla, un’assenza ontica o qualcosa di nullo in se stesso. Ciò che avviene nella rivalutazione dei principi aristotelici, implicitamente manipolati e applicati nel pensato heideggeriano, consiste in una vera e propria trasvalutazione dell’essenza onto-logica di quei principi. Similmente a come accade nella “trasvalutazione di tutti i valori” (Umwertung aller Werte) operata da Nietzsche, anche qui non vengono sostituiti i vecchi principi del pensare con nuove modalità del pensiero. Ciò che avviene nella trasvalutazione heideggeriana consiste nell’annullare quello stesso posto di preminenza assoluta assegnata ai principi della logica e del pensiero, in favore della riabilitazione del pensare medesimo nell’alveolo del principio stesso. Heidegger, cioè, mostra la parzialità ontologica dei principi logici del pensiero umano, impegnandosi nell’indicare l’istanza fondamentale del principio, cioè di quel termine che consente il potersi dare in generale di un ambito ontologico dell’essere e logico del dire. L’Ereignis indica precisamente quell’identità prima e fondamentale, della quale tanto il principio di non contraddizione, quanto quello del terzo escluso necessitano in maniera essenziale. Il principio che attiene all’identità, infatti, non dice semplicemente che ogni entità è uguale a se stessa, vale a dire A = A, ma espone qual56


cosa di molto più originario e fondamentale. Nel riconoscere l’identità di ogni cosa a se stessa, sostiene Heidegger, non si espone la mera eguaglianza formale di ogni cosa col proprio modo d’essere, ma si esperisce il fatto che ogni cosa sia ciò che essa non può non essere. Un simile intendimento viene lasciato implicito da Aristotele, nel momento in cui il suo interesse si rivolge tutto al dirsi dell’essere e dell’ente, senz’oltre più curarsi della fattuale identità di ogni ente col proprio essere ciò che è. Un simile assunto risulta infatti implicito in ogni successiva dissertazione logica, in quanto quest’ultima può darsi soltanto in quanto primariamente (evidentemente) si dà essere e non piuttosto il nulla, cioè si dà l’insieme degli enti predicabili e non piuttosto l’assenza totale di qualunque entità. È vero che lo sviluppo più propriamente scientifico del pensiero si può articolare soltanto a partire dalla considerazione che intende la realtà essente come una datità osservabile, studiabile e manipolabile. E tuttavia l’esperienza fondamentale che indica il pensare filosofico si pone all’origine della nascita di ogni possibile scienza, proprio perché si cura di questionare il fondamento sotteso alla possibilità e alla realità di ogni entità. Lo spirito originario di quel rammemorare a cui richiama Heidegger consiste nella continua consapevolezza, per la quale l’identità esplicata nell’essere di ogni singolo ente esprime la realità dell’accadere e del semplice darsi di ogni possibile ente che si dà ad essere. Il principio di identità, allora, non rappresenta semplicemente l’uguaglianza di A con se stessa, ma indica il fatto che ogni ente è nel tratto proprio della sua essenza dandosi ad essere per ciò che la sua essenzialità precipua indica costantemente19. La differenza che si esprime al fondo del principio logico dell’identità rimanda a quel distinguo iniziale, che si intravede fra l’essere stesso e l’essente, vale a dire quel distinguo fondamentale che, nel pensiero riguardo il nulla (Nichts), richiama alla dialettica originaria e mai ultimativa dell’accadere. L’eventuarsi del divenire costituisce appunto quel termine conflittuale e, per Hei57


degger, mai conciliato, nel quale affondano le loro radici tutti i possibili principi della metafisica. Ritornando al tratto principiale, cioè proprio del fondamento in quanto principio, Heidegger consente di rivedere in Aristotele quei caratteri propriamente platonici, che il filosofo di Stagira eredita e rielabora a partire dal suo maestro. Il pensatore tedesco si esprime solo sporadicamente e quasi di passaggio a proposito dei capisaldi della metafisica aristotelica, ma dimostra di pensare nel senso originario di una trasvalutazione dei principi della logica classica. Heidegger si cimenta infatti in una ridefinizione valutativa, in ordine al fondamento e al principio, di ciò che i tre principi di identità, noncontraddizione e terzo escluso danno per implicito nella loro validità necessitante l’umano dirsi dell’essere. Ciò di cui si può pensare che la metafisica abbia costantemente la possibilità di far oblio, riguarda precisamente questo implicito riferimento al sostrato fondamentale dell’essere, del nulla e del divenire. Nell’unità di questi rimandi, stagliati sempre sullo sfondo speculativo di ogni possibile pensiero, il pensare si articola continuamente nel conflitto dialettico fra l’identità dell’essente al proprio essere e la differenza di ogni essente al darsi in generale dell’essere stesso. Ciò a cui richiama la continua rammemorazione di questo punto originario del pensare, attiene ad un esplicito rimando di principio, cioè proprio del principio medesimo. La direzione verso la quale guarda la speculazione sull’origine consiste in quel che si annuncia in Heidegger come evento-appropriazione degli essenti alle loro possibilità categoriali e dell’essere stesso alla fattività del proprio darsi effettuale.

NOTE 1 «L’essere si dice in molteplici significati [πολλαχῶς], ma sempre in riferimento ad una unità e ad una realtà determinata. L’essere, quindi, non si dice per mera omonimia, ma nello stesso modo in cui diciamo “sano” tutto ciò che si riferisce alla salute» (ARISTOTELE, Metafisica, Γ 2, 1003 a 33-35). 58


Cfr. ivi, Γ 2, 1003 b 15-19. 3 Ivi, Γ 7, 1011 b 23-24. 4 Cfr. ivi, Δ 10, 1019 a 20 sgg. 5 per una definizione particolareggiata di come si dicano i contrari in Aristotele, si veda ivi, Δ 10, 1019 a 25-35. 6 È indubbio l’accorgimento speculativo per il quale ad Heidegger non interessi tanto il dirsi umano dell’ente, quanto piuttosto la problematica fondamentale riguardante il darsi in generale di essere piuttosto che del nulla. Nell’approccio che cerca di indagare il nesso fra la manifestazione dell’essente e la possibilità per la quale quest’ultimo risulta umanamente dicibile, il percorso heideggeriano non si focalizza sulle modalità veritative dell’enunciazione predicativa, ma sul nesso dinamico e per lui non dialettico fra l’essere e il pensare. «L’essere e il pensiero, nel loro coappartenere - sostiene Heidegger - sono riportati al λόγος inteso come dire, quindi al linguaggio. Il linguaggio si mostra come il fondamento; il pensiero e l’essere come le sue manifestazioni. pensiero ed essere si fondano sul linguaggio. È quest’ultimo che fa da sostegno al rapporto» (MARTIN HEIDEGGER, Bremer und Freiburger Vorträge, Gesamtausgabe, Band 79, ed. Jaeger, Frankfurt a.M. 1994; trad. it. Giovanni Gurisatti, Conferenze di Brema e Friburgo, Milano, Adelphi, 2002, p. 207). Il legame, che istituisce la dicibilità dell’essere nei molti sensi enucleati da Aristotele, né si fonda né si corrobora a partire dalla sola speculazione umana sul sussistente, ma consiste in quello stesso punto originario dal quale si origina la medesima possibilità che all’uomo sia dato di parlare, di intendere e di conoscere. «Tutte le volte che l’uomo dice qualcosa - infatti - egli parla soltanto se già prima ha prestato ascolto al linguaggio. [...] L’uomo proferisce parola a partire da quel linguaggio che è stato conferito alla sua essenza. [...] propriamente è il linguaggio che parla, non l’uomo. L’uomo parla solo nella misura in cui cor-risponde al linguaggio (der Sprache entspricht)» (MARTIN HEIDEGGER, Aus der Erfahrung des Denkens (1910-1976), Gesamtausgabe, Band 13, ed. H. Heidegger, klostermann, Frankfurt a.M. 1983; trad. it. Nicola Curcio, Dall’esperienza del pensiero, Genova, Il melangolo, 2011, p. 123). 7 A proposito di questo nesso presente fra l’essere e il nulla, si legge in Hegel di quella specifica forma di conciliazione (Versöhnung) la quale, lungi dal rappresentare l’esito di una sintesi concettuale operata dalle forme umane della conoscenza, si mostra quale dispiegamento del vero. Quest’ultimo termine non si riferisce infatti in Hegel al detto espresso nella veridicità categoriale della forma predicativa, che tende a corrispondere ad uno stato di cose che si manifesta innanzi. La verità della quale si parla nell’identità e nella differenza che si delineano fra il puro essere e il puro nulla tenta di esprimere il senso stesso del divenire, l’automovimento (Selbstbewegung) dello spirito. Se infatti si riconosce il puro essere come immediatezza indeterminata, che per tale sua indeterminazione ontica non è differente dal puro nulla, e si comprende che 2

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il puro nulla, a sua volta, consiste nel vuoto intuire e pensare alla medesima assenza di determinazioni, che è il puro essere, allora ci si avvede di come l’essere e il nulla siano lo stesso in tale loro indeterminata immediatezza. Epperò, sostiene Hegel, «il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, non passa, ma è passato, nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi che essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla sono differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta» (GEORG wILHELM FRIEDRICH HEGEL, Wissenschaft der Logik, Schrag, Nürnberg 1812-1816; trad. it. Arturo Moni e Claudio Cesa , Scienza della logica, Bari, Laterza, 2008, p. 71). La conciliazione che già sempre si dà nella dialettica fra essere e nulla consiste nel preciso richiamarsi dei due a vicenda, in quanto alla similarità di assenza di determinazione, compenetrandosi l’uno nell’altro in un reciproco superamento, che di ciascuno dei due fa una nuova unità conciliata e tale da superare ciascuno dei due nella loro differente modalità di indeterminazione. Ciò che compone questa indeterminatezza nel movimento determinante del divenire è appunto la Versöhnung di essere-nulla-divenire. Essere e nulla, sostiene Heidegger, non sono alcunché di essente, sebbene abbiano direttamente a che fare con la fondazione dell’essere di ogni possibile ente. Da un lato, l’essere indica il fondamento sulla base dell’accadere del quale sia ogni ente può sussistere, sia l’esserci esistere; dall’altro lato, il nulla costituisce l’apertura questionante e problematica, nella quale si intravede l’essenza della negazione di ogni possibile “no” e “non”. La possibilità della negazione logica, così come la fattualità stessa per la quale un essente possa ritornare al nulla dal quale proviene la sua determinazione ontica, infatti, dipendono entrambe dall’essenza nullificatrice del ni-ente, del non-ente che è l’essere stesso. L’essere è quindi il fondamento che fa sussistere gli enti ed esistere l’esserci; il nulla è l’apertura questionante in cui si intravede l’essenza della negazione di ogni possibile “non”. L’essenza del nulla è allora per Heidegger la Nichtung intesa come “nientificazione”, vale a dire il nullificare del nulla. «Essa sostiene il filosofo - non è un annientamento dell’ente, e neppure scaturisce da una negazione. La nientificazione non è nemmeno commisurabile all’annientamento o alla negazione. È il niente stesso che nientifica» (MARTIN HEIDEGGER, Wegmarken, Gesamtausgabe, Band 9, ed. F.-w. von Herrmann, klostermann, Frankfurt a.M. 1976; trad. it. Franco Volpi, Segnavia, Milano, Adelphi, 2008, p. 70). L’essenza del nulla non risiede infatti nella possibilità logica della negazione (contraddicente o contraddittoria che sia), ma indica il fondamento di qualunque possibile “no” pronunciabile ed intendibile dall’uomo. Il carattere di negatività di ogni assumere in sé 60


un qualunque assioma affonda le proprie radici nella possibilità di negazione e di negatività, che viene dall’eventuarsi dell’essere stesso ad accadimento. «“Niente” significa: il non essere lì presente davanti, il non essere di una cosa, di un ente. Il “niente”, nihil, vuol dire quindi l’ente nel suo essere ed è pertanto un concetto ontologico (Seinsbegriff), non un concetto assiologico (Wertbegriff)» (MARTIN HEIDEGGER, Nietzsche (1936-1946), Gesamtausgabe, Band 6, ed. B. Schillbach, klostermann, Frankfurt a.M. 1996-1997; trad. it. Franco. Volpi, Nietzsche, Milano, Adelphi, 2005, p. 578). 9 Cfr. MARTIN HEIDEGGER, Beiträge zur Philosophie (Vom Ereignis) (1936-1938), Gesamtausgabe, Band 65, ed. F.-w. von Herrmann, klostermann, Frankfurt a.M. 1989; trad. it. Franco Volpi, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), Milano, Adelphi, 2007, §§ 22, 133, 141, 142, 164, 169, 197, 217, 226, 239, 242, 252, 256. 10 Cfr. ivi, pp. 244, 268. 11 Ritengo sia qui opportuno parlare di una anti-metafisica heideggeriana, piuttosto che di una non-metafisica. Il pensiero del filosofo di Meßkirch non si pone infatti quale mera contraddittorietà scettica del pensato metafisico a lui precedente, ma si colloca nel solco di una ripresa fondamentale di ciò che, a suo ritenere, la metafisica ha obliato. In questo senso, l’opzione heideggeriana si determina come un’alternativa altra rispetto alla meditazione fatta propria da certo tipo di metafisica, contrastando la quale Heidegger stesso si fa promotore di una speculazione particolare. Quest’ultima non è stata inaugurata in maniera assoluta da questo pensatore tedesco ma, a dispetto della perentoria valutazione heideggeriana, si ritrova in gran parte della storia del pensiero occidentale precedente, mostrandosi già nel passato come alternativa contraria alla linea di pensiero dominante in senso razionalistico, psicologistico o positivistico 12 ARISTOTELE, Metafisica Γ 4, 1006 a 4-5. 13 Ivi, Γ 4, 1006 a 3-4. 14 Nella sua dissertazione per indicare l’autocontraddittorietà di colui che volesse impegnarsi nel confutare il principio di non contraddizione, Aristotele chiosa affermando che «proprio per distruggere il ragionamento, quegli si avvale di un ragionamento» (Ivi, Γ 4, 1006 a 25-26). Esattamente nell’intento di attaccare il principio di non contraddizione e di minare quindi la dicibilità dell’essere per via categoriale, chi volesse negare tale principio non potrebbe che utilizzarlo in senso logico e predicativo. In una simile messa a tema della non contraddicibilità dell’essere dell’ente, il dirsi in senso razionalmente veritativo a proposito dell’essenza scavalca l’istanza ontologicamente non contraddicibile, per la quale un ente non può essere ciò che esso non è. Io posso infatti dire il contraddittorio, ma non posso mai persuadermi della sua verità, in quanto la veridicità del dicibile non indica la medesima cosa espressa dalla verità intrinsecamente non contraddittoria dell’essere. 61


Ivi, k 5, 1061 b 34 - 1062 a 2. L’espressione hegeliana per la quale “l’essere e il nulla sono lo stesso” non pone l’accento su una qualche uguaglianza dell’essere e del nulla nella loro rispettiva indistinzione. Quella proposizione, cioè, non nega la differenza fra i due termini posti in relazione, ma li contrappone nella loro differente modalità di indeterminatezza, in quanto l’essere è immediato indeterminato, mentre il nulla è l’indistinzione in se stessa, cioè i vuoti intuire e pensare alla indeterminatezza. Asserire che l’essere e il nulla sono lo stesso rappresenta piuttosto il tentativo di considerare e di contenere nella loro diversità i due termini nel polo di conciliazione che si figura come “divenire”. Questa proposizione, riconosce Hegel, si nega come asserzione di giudizio nel momento stesso in cui viene esposta e, così avvenendo, quella medesima espressione che tenta di dire il divenire si fa essa stessa azione della compenetrazione fra essere e nulla, cioè si fa essa stessa divenire. È a proposito di questa particolare relazione fra essere, nulla e divenire che Hegel, in questo seguìto fedelmente da Heidegger, ravvisa che «la proposizione, in forma di giudizio, non è atta ad esprimere le verità speculative. La conoscenza di questa circostanza potrebbe servire ad eliminare molti malintesi circa quelle verità. Il giudizio è una relazione identica fra soggetto e predicato. Nel giudizio si prescinde da ciò che il soggetto ha altre determinatezza oltre quella del predicato, come vi si prescinde da ciò che il predicato è più esteso del soggetto. Se ora il contenuto è speculativo, anche il non identico, del soggetto e del predicato, è un momento essenziale; ma questo nel giudizio non è espresso. L’aspetto paradossale e bizzarro che una gran parte della filosofia moderna assume per chi non ha familiarità col pensare speculativo, dipende spesso dalla forma del semplice giudizio, quando viene adoperata a esprimere i risultati speculativi» (Georg.wilhelm Friedrich Hegel, Scienza della logica, op. cit., p. 80). 17 L’obiettivo critico di Heidegger sembra quindi essere la dialettica in quanto tecnica (τέχνη) propria del discorso categoriale volto alla ricomprensione razionalistica dell’essente e del dicibile. In tal senso, gli avversari speculativi del pensato heideggeriano andrebbero ricalibrati in questo senso: in merito all’idealismo tedesco, il pensatore di Messkirch non avversa lo spirito assoluto di Hegel ma l’io assoluto di Fichte; a proposito del pensiero sul trascendentale, non viene attaccato direttamente il pensiero del limite della Kritik di kant ma la fondazione soggettivistica del fenomeno di Husserl. 18 «La preminenza del reale effettivo pratica la dimenticanza dell’essere. Mediante questa preminenza viene buttato via anche l’essenziale riferimento all’essere. [...] Quale riferimento all’ente basta il conoscere che, secondo la specie essenziale dell’ente nel senso del reale effettivo assicurato, deve risolversi nell’oggettivazione e diventare così calcolare. Il segno della sminuizione del pensiero è l’elevazione della logistica al rango di vera logica. La logistica è l’organizzazione calcolativa dell’incondizionata ignoranza circa l’essenza del pensiero, posto che il pensiero, pensato in modo essen15 16

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ziale, sia quel sapere progettante che si risolve nella conservazione dell’essenza della verità in base all’essere» (MARTIN HEIDEGGER, Nietzsche, op. cit., p. 936). 19 Un ente può essere inteso nella propria identità ontica anche a prescindere dal fatto che quel singolo ente possa darsi o meno alla propria modalità di essere. Una simile possibilità di pensiero si colloca internamente a quella sorta di astrazione logica, che il ragionamento umano può operare a partire dall’essente fattivo. Quando però si voglia parlare di quest’ultimo in maniera non semplicemente veritativa, ma attinente alla verità dell’essere stesso, non si può astrarre dal fatto che ogni cosa sia la cosa specifica che si dà ad essere. E questo preciso tratto fattuale dell’evento dell’essere non consiste semplicemente nella possibilità umana di categorizzare correttamente l’ente che è, ma riguarda molto più originariamente ciò che viene esplicato nel principio di identità. In quest’ultimo, infatti, nel momento in cui si adotta la formula A=A nel tentativo di esplicarlo, si sta parlando di un’uguaglianza che uniforma due termini tra loro identici, vale a dire la rappresentazione umana dell’ente e la fattività del medesimo ente presente innanzi agli occhi. posto in questi termini, il principio logico in esame non è in grado di esprimere ciò che vorrebbe dire, vale a dire il fatto che ogni A è essa stessa lo stesso che essa specificatamente è, vale a dire quello “stesso” (Selbe) che Hegel declina come compenetrazione di essere e nulla. perché il termine A sia accomunato in se stesso con lo stesso che esso è, Heidegger predilige la formula “A è A”: attraverso essa non si dice soltanto che ogni A è essa stessa lo stesso, bensì che ogni A è essa stessa, con se stessa, lo stesso che essa è. In questo carattere del Selbe viene enucleato il proprio essere se stesso, la stessità (Selbigkeit), dell’essere di ogni elemento essente, in quanto essente in relazione a se stesso e all’essere stesso. L’identità, l’uguaglianza di un qualcosa a se stesso si espone così nel suo senso di originaria unità, espressa dal fatto che quell’essente sia il medesimo a se stesso e con se stesso (cfr. MARTIN HEIDEGGER, Conferenze di Brema e Friburgo, op. cit., pp. 149-152).

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ALICE GARDENGHI Verso una psicoterapia esistenziale Il medico che si fa filosofo è simile a un Dio: ιατρòς φιλόσοφος ἰσόθεος1 Ed è pretendere molto che, nella freddezza, il cuore rimanga desto2.

Qualsiasi considerazione sul pensiero di Jaspers, sia essa di natura psicopatologica o di genere filosofico, deve partire dal presupposto antropologico fondamentale della sua intera teoresi: l’idea di uomo come infinità inesauribile e in quanto tale inoggettivabile. più volte, nel corso della sua opera psicopatologica, Jaspers si richiama a quella forma di Respekt di fronte all’infinita possibilità del singolo che sola deve caratterizzare lo sguardo dello psicopatologo e che d’altra parte non può che seguire lo Staunen di fronte a tale inesauribilità. Il carattere marcatamente umanistico del suo pensiero attraversa anche i saggi dedicati all’analisi del concetto di medico3 – nella particolare valenza di medico “dell’anima”, cioè di psicoterapeuta – in cui la critica serrata ma consapevole nei confronti della psicoanalisi – rea di aver leso mortalmente la libertà dell’uomo e di aver soppresso le condizioni per il darsi di una comunicazione autentica tra medico e paziente – si accompagna alla proposta di un ritorno all’antica idea del medico che è al contempo filosofo, poiché solamente la conversione a una prospettiva filosofica consente, secondo Jaspers, una pratica della scienza medica che abbia accesso al 64


significato della malattia, al senso cui il mero fatto della malattia rinvia, inattingibile dalla semplice τέχνη (pur necessaria)4. Solo una pratica sorretta da un ἦθος umanitario e umanistico mette al riparo dalle derive razionalistiche in cui la medicina è incorsa per via dell’eccessiva specializzazione nell’era della tecnica5, poiché munisce il medico della capacità di vedere l’uomo nel suo insieme6, ma soprattutto della consapevolezza dei limiti delle proprie possibilità7. Jaspers auspica, si è detto, il recupero da parte della medicina di un’autentica comunicazione tra medico e paziente, che si profila a tutti gli effetti come esistenziale e che segna lo spazio in cui può individuarsi, all’interno della sua concezione, il legame tra filosofia e medicina; secondo Jaspers, tale dinamica comunicativa fondata sulla libertà dei soggetti comunicanti non è sempre stata tralasciata, ma è venuta meno quando si è iniziato a trascurare l’aspetto soggettivo della malattia a favore di un’oggettività dei dati, assoggettandosi al giogo dell’esattezza8; si è sacrificato, insomma, l’aspetto propriamente relazionale dell’intervento medico nel momento in cui si è deciso che alla base della malattia vi sono esclusivamente cause oggettive, bypassando l’indagine relativa agli aspetti soggettivi e riconducendo la malattia a una serie di processi causali di matrice corporea – secondo le dinamiche dell’Erklären che ho già cercato di delucidare. In una concezione del corpo come mero organismo, come vivente, come Körper da trattare meccanicisticamente, la malattia può essere intesa solo come l’effetto di una causa, come un fatto che si esaurisce in se stesso; si tratterà allora, sem65


plicemente, di arruolare le capacità esplicative al fine di individuare le disfunzioni organiche alla base dell’insorgere della malattia, appiattendo la pluridimensionalità della malattia medesima – mentale o fisica che sia – e collezionando una serie di dati irrelati e privi di significato9; nel caso in cui, invece, si consideri il corpo come un corpo vivente in un mondo (Leib)10, il potere della spiegazione è destinato a venire meno, non essendo in grado di comprendere perché la malattia si sia generata, e si dovrà fare ricorso a quelle risorse “umane” che fanno del medico un uomo tra gli uomini e che mirano a comprendere l’esistenza di chi soffre, anelando continuamente ad afferrare il senso cui il fatto della malattia rimanda e che si nasconde nella malattia medesima. In quest’orizzonte non si dà, insomma, una contrapposizione netta tra un medico inteso come soggetto e un paziente che è oggetto fra gli altri oggetti, ma un intreccio sempre vivo in cui soggettività e oggettività si relazionano fino quasi a fondersi11; il medico dovrà, in altri termini, abitare questo spazio tra sé e il paziente, modulare fluidamente una tale distanza intersoggettiva, ricercando costantemente un equilibrio tra la completa immedesimazione nei vissuti dell’altro, perfettamente aderente alla soggettività dello stesso e un’osservazione distaccata dei fenomeni psichici – propria dello sguardo che oggettiva. Si tratterà, insomma, di fare in modo che si possa in qualche misura rivivere in sé l’esperienza del paziente – attraverso un riconoscimento che è prima di tutto riconoscimento della soggettività dell’altro e secondariamente di quella radice umana che ci accumuna – 66


nello sforzo costantemente teso a salvaguardare le dinamiche che consentono una riflessione lucida e scientificamente fondata sulla patologia: “impassibilità e commozione devono procedere insieme”12, in un anelito di comprensione che, come dice Ballerini, è in fondo un’auto-comprensione (comprendiamo nell’altro quello che comprendiamo in noi)13, ma al contempo nella razionale e ragionevole consapevolezza del carattere ineludibilmente provvisorio e illimitato di ogni tipo di conoscenza di sé e dell’altro14. In definitiva, educazione e autoeducazione diventano esiziali per accedere allo spazio del senso che travalica i confini della cura meramente biologica. Il rapporto che il medico intrattiene con il paziente si nutre di virtù morali che solo la frequentazione della filosofia, secondo Jaspers, permette di sviluppare15; ecco allora un ulteriore piano in cui si legge l’importanza decisiva della filosofia all’interno della pratica medica, per definizione scientifica: la filosofia è come il terreno su cui altre forme di sapere – in questo caso la medicina – devono poggiare per potersi muovere con maggiore ampiezza. Anche un medico che rifiutasse di accostarsi alla filosofia, ne sarebbe comunque intriso, trovandosi sempre costantemente ad avere a che fare con la sofferenza, che costituisce la situazione-limite fondamentale, dunque con ciò contro cui s’infrange l’empiricità e a partire da cui si rivela l’esistenza nel senso più pieno del termine – semplicemente, essa non sarebbe strutturata, e dunque perderebbe in fecondità. Ciò che fa la differenza è, secondo Ja67


spers, quell’“attitudine interiore” del medico che dipende dal livello di autochiarificazione esistenziale e che lo colloca di fronte all’esistenza autentica, propria e del paziente. Il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio: con ciò Jaspers non si riferisce semplicemente allo studio della filosofia16, ma a quel medico che, “mentre agisce, pensa secondo norme eterne”17, e sottomette l’intelletto andando al di là di esso, ma senza per questo smarrirlo; una tale auto-educazione non deve in nessun modo essere confusa con quell’“analisi didattica” che gli psicoanalisti pongono a fondamento della formazione del medico, istituzionalizzandola e circoscrivendola in una forma determinata: benché la psicoanalisi riconosca, al pari di Jaspers, la necessità che il medico faccia luce a se stesso, intraprendendo un processo di autochiarificazione, essa diverte radicalmente e in modo decisivo da Jaspers nel voler strutturare in modo impersonale un tale procedimento, per definizione appannaggio esclusivo del singolo18; come una comunicazione pianificata tra medico e paziente è destinata a ridursi a falsità, così un processo di autorivelazione non può in nessun modo abdicare al metodo interpersonale e precostituito dell’analisi, pena la soppressione di una libertà che è fine e guida tanto nel percorso di “guarigione” del malato – o, per meglio dire, di risveglio dell’Existenz – quanto nell’espressione della personalità del medico, in quella comunicazione esistenziale in cui l’uno si lascia mettere in questione dall’altro e viceversa.

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2. Per una psicoterapia esistenziale Nelle varie edizioni di Allgemeine Psychopatologie Jaspers tratteggia una concezione della psicoterapia che si profila a tutti gli effetti come esistenziale, ma che di fatto non si traduce in una prassi psicoterapeutica e psichiatrica, principalmente a causa del precoce abbandono della carriera di clinico19. Com’è indicato nella prefazione alla prima edizione dell’opera, la psicoterapia non è più una cosa che riguarda solo alcuni uomini; pur essendo nata nell’alveo della medicina, essa si è infatti svincolata dalla sua origine, tanto che ora lo studio della medicina non è più decisivo nella formazione dello psicoterapeuta. Al fine di rendere accessibile a un pubblico più ampio la sua concezione di psicoterapia, Jaspers ripubblica all’interno dei saggi relativi all’idea di medico i due capitoli di Allgemeine Psychopatologie – opera nella sua interezza preclusa al lettore comune – in cui si dedica a un esame approfondito della questione20. Qui Jaspers esordisce definendo la psicoterapia come quella cura dell’anima che prevede l’utilizzo di strumenti che agiscono sull’anima stessa e sul corpo, per la cui riuscita è fondamentale la collaborazione spontanea, attiva, del malato – cosa che ci rimanda alle dinamiche che abbiamo visto in riferimento alla comunicazione esistenziale21, poiché anche qui l’accento è posto sulla simmetria, sulla biunivocità di un rapporto, quello tra medico e paziente, che è prima di tutto un rapporto tra due esistenze. Già nella prima edizione di Allgemeine Psychopatologie Jaspers presenta una distinzione fondamentale nell’ambito della psicoterapia: quella tra mezzi terapeutici che si rivol69


gono al paziente come persona e mezzi che agiscono su di esso solo indirettamente. In particolare, tra i metodi appartenenti al secondo gruppo, egli cita innanzitutto le pratiche suggestive, attraverso le quali si mira a esercitare un’influenza sul paziente e che si fondano non solo sulla potenza coercitiva di chi opera la suggestione, ma anche sulla “fede” del paziente, sulla sua totale e convinta fiducia nel metodo applicato. In secondo luogo, egli fa riferimento ai metodi catartici, il cui fine è quello di far “abreagire” ciò che è all’origine della sofferenza del paziente; si tratta di quel trattamento – inaugurato da Freud e da Bleuler – proprio della psicoanalisi, che mira a far sì che il paziente compia una sorta di sfogo liberatorio, per la cui riuscita è fondamentale che il paziente si senta accolto, compreso, ma soprattutto non giudicato sotto il profilo morale. Spesso la pratica consiste nel far riemergere alla coscienza del paziente determinate esperienze vissute, la cui rimozione si è tradotta in disagio psichico22. Alla base dell’approccio psicoanalitico vi è infatti l’idea secondo cui la guarigione del malato deriva dalla trasposizione di un’esperienza (vissuta come traumatica) dalla zona d’ombra dell’inconscio al fascio di luce della coscienza. Come si vede, anche in questo caso è decisiva l’auctoritas del medico rispetto al paziente, il potere che egli acquista in funzione della sua posizione di superiorità e del bisogno del paziente di essere guidato, incarnando così una modalità relazionale costantemente criticata da Jaspers, il quale auspica che anche nello spazio psicoterapeutico possa stabilirsi un rapporto del tutto analogo a quello che s’instaura tra le 70


due esistenze che cercano di realizzare se stesse. I metodi terapeutici su cui Jaspers concentra la propria attenzione – soprattutto a partire dalla quarta edizione di Allgemeine Psychopatologie23 – appartengono però a un altro dominio, quello in cui ci si rivolge direttamente alla personalità del paziente, cui comunque spetta l’ultima parola – coerentemente con una concezione del rapporto tra psicoterapeuta e paziente in cui l’uno non si trova in una posizione di superiorità rispetto all’altro ma anzi lo guida, per così dire, a trovare o a ritrovare se stesso attraverso l’impiego delle proprie risorse, che si sono come smarrite, perse di vista. Quando la responsabilità dell’effetto terapeutico è riposta nella personalità del malato, quando è lui stesso a prendere le decisioni ultime, quando il suo giudizio rimane determinante e la sua è un’azione diretta, il metodo è fondamentalmente diverso rispetto ai casi visti finora. È più semplice nella forma, ma umanamente più significativo di tutti quelli precedenti, meno adatto a essere ricondotto a regole, legato al tatto e alle sfumature24. È un metodo in cui si gioca a carte scoperte, in cui si deve parlare chiaro25 (tanto che il medico è chiamato a condividere le proprie conoscenze mediche con il paziente). Esso mira, infatti, a rendere il paziente il più possibile consapevole della situazione in cui si trova, ad accrescerne l’autocoscienza, soprattutto relativamente ai meccanismi dell’inconscio26 (in quanto extracosciente). perché il paziente possa dotarsi della capacità di educare la propria volontà, egli deve innanzitutto 71


imparare a discernere quali fenomeni inconsci – sub- e extracoscienti – siano stati inibiti e quali abbiano preso il sopravvento sulla personalità. Abitualmente la personalità si trova infatti in lotta con il proprio inconscio: la sfida è rendere il malato consapevole di questo; agire terapeuticamente facendo appello alla personalità del paziente significa, in altre parole, mettere il paziente medesimo di fronte all’inconscio e alla sua problematicità. Il ruolo dirimente – nella formazione della personalità e nella “guarigione” della stessa – che Jaspers assegna all’inconscio all’interno del discorso sui mezzi terapeutici personali più significativi, lo mette al riparo, a mio avviso, dagli attacchi di coloro che hanno fatto equivalere la critica di Jaspers alla psicoanalisi con una critica dell’inconscio tout court; ciò che Jaspers rigetta non è l’idea d’inconscio, né il fatto che esso possa essere rilevante in ambito psicopatologico e psicoterapeutico, ma l’estensione abnorme delle dimensioni dell’inconscio in sede psicoanalitica, di un inconscio pressoché fagocitante l’area della coscienzialità. Il grande errore di Freud, secondo Jaspers, è stato quello di aver assegnato all’inconscio – peraltro inteso erroneamente– un ruolo smisuratamente importante, mentre egli avrebbe dovuto collocarlo in posizione soltanto ancillare, per così dire, rispetto alla coscienza, mirando a farlo confluire in essa. È proprio la dimensione del metodo psicoterapeutico rivolto alla personalità che ci consente di chiarire questo punto, poiché rendere il paziente in grado di educare la propria volontà significa far sì che impari a influenzare la vita subconscia, di 72


cui è come in balia e che non sa dominare né sfruttare – una volta appreso in che direzione essa vada influenzata. Nel caso in cui siano dominanti fenomeni psichici inibiti, occorrerà aiutare il paziente ad abbandonarsi all’inconscio, a seguirne il flusso; nel caso, invece, in cui l’inconscio abbia sopraffatto la personalità del paziente e la tenga come in ostaggio, si tratterà di aiutarlo a contenerne gli effetti. presupposto ineliminabile per poter manovrare efficacemente il proprio inconscio è la comprensione del contrasto della personalità con l’inconscio medesimo, comprensione possibile solo se si è dato avvio a un processo di autochiarificazione. In altri termini, il medico deve aiutare il malato a diventare trasparente a se stesso, a sopportare il peso della scoperta dell’autentico sé, in modo del tutto analogo a quanto avviene nella comunicazione tra le esistenze. Ciò che è all’origine di un cammino di vita, nel paziente, è sempre in ultima analisi demandato alla sua responsabilità, a una sua decisione esistenziale. Il massimo che si può fare è sviluppare, nella comunicazione, quelle possibilità che potrebbero dare avvio al risveglio del malato, nello sforzo costantemente teso a salvaguardare la dignità e la libertà del malato in quanto uomo. L’uomo, in quanto soggetto, è comunque autore della propria vita. Senza dubbio, Jaspers ha qui in mente il proficuo rapporto costruito all’interno della “comunità spirituale” della clinica di Heidelberg, sotto lo sguardo vigile ma caldo dell’insigne Nissl; in essa vive, infatti, un’attiva vita collettiva, un comune respiro spirituale, pur nella salvaguardia – anzi, nella valorizzazione – del percorso individuale di ciascuno26. 73


L’ineludibile traccia filosofica poderosamente presente a partire dalla quarta edizione di Allgemeine Psychopatologie si rivela, allora, proprio nell’accentuazione del rilievo dato alla comunicazione esistenziale tra medico e paziente: è qui, insomma, che la filosofia dell’esistenza (come filosofia non meramente contemplativa) si traduce – in linea teorica – in pratica medica, perché è in questo luogo che si annuncia l’importanza di un sostegno filosofico all’attività di medico, tale da consentire l’instaurarsi di un rapporto affine a quello della comunicazione fra le esistenze, che è il medio privilegiato della realizzazione del sé. La dimensione terapeutica che si rivolge alla personalità valica, quindi, la mera scientificità, arruolando capacità che dipendono in gran parte dalle qualità personali del medico. È qui che la filosofia s’incunea nella scienza facendosi strumento di essa, come vera e propria prassi esistenziale28: solo un medico formatosi alla sensibilità filosofica è in grado di fare dei limiti della propria pratica varchi oltrepassabili mediante l’impiego di risorse che possiamo a buon diritto definire umane29 e che si raffinano con l’esperienza. Dove la scienza fallisce ci si affida alla propria “arte”, facendoci responsabilmente carico dei pericoli insiti in un utilizzo di essa eccessivamente entusiastico e non ragionato. Su questo orizzonte si collocano alcune questioni dirimenti che Jaspers affronta con la sensibilità propria di colui che ha vissuto ciò di cui sta trattando; innanzitutto, il tema della malattia e quello ad esso legato ma di segno opposto della salute: nei casi conclamati e sulla cui natura vige un accordo 74


universale il problema non sussiste, ma nei casi dai contorni indefiniti, che sfumano, è estremamente difficile stabilire un punto a partire dal quale si possa sensatamente parlare di malattia30. La brutalità con cui Jaspers è sempre forzatamente ricondotto alla corporeità per via della malattia organica da cui è affetto31, gli impedisce di relegare i trattamenti di tipo tecnico-causale, corporei, a uno spazio solo marginale e lo avvezza a una frequentazione dei problemi etici connessi al trattamento terapeutico. Jaspers aderisce sempre fortemente alla sfera della corporeità, che si fa sentire nella virulenza caratteristica delle situazioni-limite. possiamo allora comprendere, come ci suggerisce Oscar Meo, per quali ragioni egli rifiuti di accostarsi alle considerazioni platoniche intorno alla malattia, dove riconosce l’alterigia tipica di chi si considera appartenente alla categoria dei sani, in contrapposizione a quella inferiore dei malati32, un vero e proprio disprezzo che sembra sfociare in un rifiuto della malattia o che delinea quantomeno un quadro in termini generici bypassando l’individualità del malato, che è prima di tutto un singolo, non semplicemente riducibile a un caso particolare di una classificazione scientifica. La problematicità di una fissazione del concetto di malattia33 emerge in tutta la sua urgenza nel momento in cui si passa dal somatico allo psichico, perché se nella prima dimensione si ha a che fare con dati di fatto osservabili oggettivamente che possono essere ricondotti a processi organici, comunque misurabili, quantificabili, riconoscibili, nell’altra il confine tra 75


il sano e il patologico è labile ed evanescente34 tanto quanto il limen che separa, all’interno delle considerazioni jaspersiane, ciò che è meramente scientifico da ciò che è propriamente filosofico. Jaspers capovolge la prospettiva: la malattia della psiche non è più qualcosa da delimitare cristallizzandola in una definizione, ma è una dimensione da considerare nella sua immensa profondità, perché foriera di chiavi interpretative con cui illuminare dimensioni dell’essere umano altrimenti insondabili35. Ecco allora che la malattia – nella particolare accezione di malattia psichica – si fa emblema della personalità, vero e proprio signum –per utilizzare un termine carissimo a Jaspers – dell’umano, di quell’umano-residuo, ultimo, che ci è comunemente precluso e che possiamo solo anelare di comprendere, in una tensione mai paga che se da una parte si manifesta come attrazione irresistibile, irrinunciabile, dall’altra ci respinge ineludibilmente. Dal punto di vista dell’indagine sull’umano la malattia mentale in Jaspers assume, dunque, un volto non semplicemente positivo ma decisivo: essa è, metaforicamente, un potenziamento delle nostre capacità sensoriali, una lente d’ingrandimento su un terreno inaccessibile all’occhio normale. Anche qui, allora, si rivela lo sguardo filosofico all’interno di un discorso comunque attento a non mancare di rigore scientifico: lo Jaspers filosofo s’incastona nello Jaspers medico proprio in questa concezione di malattia che si’impone per le caratteristiche della singolarità e della differenza. Heidegger parlerebbe al riguardo di un “essere-nel-mondo”, poiché non vi è contrapposizione tra salute e malattia mentale, ma un modo di rap76


portarsi alle cose che se da un lato è foriero di disagio psichico, dall’altro è espressione di possibilità umane in quanto tali non definibili come “anormali”. È la categoria della differenza – non più quella dell’anormalità – a essere dirimente nella comprensione della malattia mentale36. In un certo senso, allora – modulando la lettura di Minkowski, che nega vi sia una differenza qualitativa tra normale e patologico37 – da questo punto di vista ognuno è sano e ognuno è malato. Rifiutando la netta opposizione, propria della psichiatria, tra esser-sano e esser-malato38, Jaspers intende porre l’accento sulla necessità di osservare i fenomeni psichici nella loro evidenza immediata e intuitiva, ricusando ogni arbitrarietà. 3. La malattia mentale come situazione-limite Al di là della valenza positiva, del valore aggiunto che la malattia mentale assume in una prospettiva gnoseologica, è bene non perdere di vista la questione primigenia, vale a dire quella relativa al trattamento psicoterapeutico, alla cura del malato. È a questo punto che si manifesta, a mio avviso, la necessità di tematizzare un’altra questione capitale all’interno del percorso speculativo jaspersiano: quella riguardante il concetto di situazione-limite. Jaspers, si è visto, riabilita la condizione del malato, che assurge a emblema non solo dell’inaccessibilità alla conoscenza dell’Existenz, ma anche – in quanto essere sofferente e, appunto, malato – della condizione dell’uomo, che si trova sempre, da un punto di vista esistenziale, delimitata da situazioni-limite, le quali rappresentano la soglia che separa 77


la dimensione della mera empiricità, del Dasein, da quella esistenziale, che si affaccia e si rapporta alla Trascendenza. Nel momento in cui la malattia mentale assume le fattezze della situazione-limite, essa diventa veicolo per raggiungere la dimensione dell’esistenza, e in quanto tale si fa vera e propria cifra dell’esistenza stessa. La comprensione psicologica, che recluta l’empatia (Einfühlung) e la compassione (Mitgefuhl) raggiunge il proprio compimento nella comunicazione esistenziale in cui il medico e il paziente condividono un comune destino. Benché si sia soliti ritenere che le situazioni-limite rivestano un ruolo solo minore in Psicopatologia generale, vi è nell’opera, a mio avviso, un ulteriore modo – più sottile – in cui si può leggere l’intreccio tra questi due concetti; la malattia mentale, infatti, non si limita a incarnare, per così dire, la situazione-limite, ma è signum di una “vulnerabilità esistenziale”, di una sensibilità che pone chi ne è affetto nella condizione di non potersi sottrarre al confronto con quelle condizioni fondamentali dell’esistenza – il fatto inevitabile della colpa, l’impossibilità di sfuggire alla libertà, la fragilità del nostro corpo, l’inesorabile finitezza dell’esistenza empirica – che ai più rimangono celate – o, per meglio dire, che i più riescono a mantenere celate, e che sono determinanti per cogliere se stessi come un’esistenza. Un tale faccia a faccia con queste situazioni risulta fatale per chi non può volgere lo sguardo altrove, e può condurre a una malattia psichica. Sulla scorta di Thomas Fuchs, non credo ci si possa limitare a intendere questa vulnerabilità, questa fragilità esistenziale come il ri78


sultato di variabili puramente oggettive (genetiche o fisiologiche); mi pare piuttosto che essa debba essere intesa di tutt’altra profondità, di natura “ontologica”39; ecco perché la maggior parte degli uomini si affanna a stordire la propria coscienza esistenziale, a erigere un riparo rassicurante, un “guscio” (Gehäuse) – per servirsi, impropriamente, di un altro termine tipicamente jaspersiano – con cui sottrarsi a un tale destabilizzante confronto e alle implicazioni ontologiche dello stesso. Il rifugio, ponendo un muro tra sé e le situazioni-limite, li illude di aver disinnescato quegli aspetti detonanti delle situazioni-limite che sovvertirebbero la loro visione del mondo e ne smaschererebbero l’inconsistenza40, sommergendoli di un’angoscia irrimediabile. Nel caso in cui il paziente non riesca ad affrontare criticamente la situazione-limite trincerandosi dentro il “guscio” o non riesca a esercitare sulla propria volontà quel dominio che gli consentirebbe di cambiare le proprie convinzioni (e, conseguentemente, i propri comportamenti41), Jaspers ritiene effettivamente necessaria una qualche azione coercitiva del medico, che deve prendere le redini della vita del paziente per permettergli di superare il trauma del confronto con la situazione-limite, dopo averne smantellato il Gehäuse. L’attività del medico, in questo senso, si profila duplice: da un lato, infatti, egli deve muoversi al fine di “risvegliare” il paziente, di ristabilire in lui un’autentica coscienza di sé – il che significa, come si è visto, acquisire anzitutto consapevolezza dell’inconsistenza della propria visione del mondo, incapace di reggere l’urto con la situazione-limite e, secondariamente, 79


imparare a sostenere la vista della situazione-limite senza infingimenti – dall’altro il medico deve far sì che il malato si riappropri della capacità di controllare, di determinare la propria vita, esercitando un controllo sulla propria volontà42; il fine è, in altri termini, l’esercizio del potere sulla propria esistenza. Come si vede, si tratta di un’operazione articolata, che richiede un radicale cambiamento di atteggiamento da parte del medico che si relaziona al paziente; proprio in questa complessità Jann Schlimme colloca la ragione della mancata attuazione, a livello pratico, di questa che a rigore dovremmo definire una trasposizione della filosofia dell’esistenza di Jaspers in termini di trattamento psicoterapeutico43. A ben vedere, tale atteggiamento potrebbe essere alimentato solo dalla comunicazione esistenziale44, che incarnerebbe un rapporto tra medico e paziente in cui i due non sono più semplici categorie professionali , ma come “compagni di viaggio”45 segnati da un analogo destino – quello di un essere, in definitiva, in cammino verso l’esistenza. NOTE 1 Nei testi dedicati all’idea di medico Jaspers fa più volte riferimento a questa massima ippocratica (cfr. kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., pp. 20-59); la pratica del medico è, per Jaspers, concreta filosofia, e solo un convergere della filosofia e della medicina consente di preservare l’idea di medico. 2 Ibidem, p. 13. 3 Il riferimento è ai saggi composti tra il 1950 e il 1955, raccolti per il pubblico italiano nel sopracitato Il medico nell’età della tecnica. 4 A questo proposito Umberto Galimberti parla di “due volti della malattia” (cfr. UMBERTO GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano,Feltrinelli, 2000, p. 719). 5 Qui Jaspers ha in mente, in particolare, quella forma di sapere “esperto” costituita dal sapere biomedico, che considera il malato un caso particolare dell’“universale80


malattia” e che mira a imbrigliare la soggettività del paziente nelle maglie di un’oggettività di fatto inesistente. Secondo Jaspers, la soggettività del malato non può essere ingabbiata in un’oggettività scientifica, ma solo avvicinata dalla soggettività stessa del medico, che si trova così ad avere, per così dire, solo se stesso come strumento. 6 Un tale medico “non dimentica mai la dignità del malato e la sua autonomia decisionale, né il valore insostituibile di ogni singolo uomo” (kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., p. 2). 7 “Il medico scorge i limiti del proprio potere. Non può sopprimere la morte, anche se oggi è in grado di prolungare la vita come mai prima. Non può sopprimere le malattie mentali, anche se in certi casi può essere d’aiuto. Non può sopprimere la sofferenza, anche se oggi è in grado di lenirla in una misura che non ha precedenti. Nonostante i suoi successi, il medico avverte più ciò che non è in suo potere di ciò che lo è” (Ibidem, p. 13). 8 È questo, secondo Jaspers, il grande “peccato” della scienza medica contemporanea, che, disperdendosi in una specializzazione infinita, fiacca nel medico la capacità di osservare il malato nel suo particolare vissuto. pur affacciandosi su un sapere sterminato, mai raggiunto prima, il medico “dell’età della tecnica” si vede privato di quelle facoltà personali che, non trasmissibili in modo oggettivo, non possono essere insegnate né apprese, ma come respirate nella frequentazione di un ambiente votato al nutrimento spirituale di sé. “Quanto più crescono conoscenza e competenza, quanto più le apparecchiature per la diagnostica e la terapia aumentano le loro prestazioni, tanto più è difficile trovare un buon medico […]. Il dovere del medico è pur sempre quello di curare, di volta in volta, il malato singolo, nella continuità della sua vita” (Ibidem, p. 47). 9 In un tale contesto tutto ciò che è empatia, spirito umanitario, non solo è irrilevante, ma è anche, a volte, di ostacolo. 10 per Jaspers non vi è una scissione tra la realtà fisica e la realtà psichica; nel modo in cui l’esistenza vive il proprio corpo si rivela il modo in cui essa è al mondo: è necessario superare il dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, recuperando alle scienze mediche il senso del “corpo vivente” (cfr. kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., p. 28). 11 Si veda CLAUDIO FIORILLO, Rischio e responsabilità. Una questione etica tra abilità tecnica ed ethos umanitario, in Il rischio clinico: metodologie e strumenti organizzativi gestionali, a cura di Augusto panà e Simona Amato, Roma, Esseditrice Cecchina, 2007, p. 53; Jaspers non parla di un soggetto di fronte a un oggetto, bensì di un “io” in relazione a un “tu”, di un “sé” che incontra il “volto dell’alto” (cfr. kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., p. 29). 12 kARL. JASpERS, Psicopatologia generale, op. cit., p. 24; “è un atteggiamento di apparente 81


imperturbabilità quello di cui ha bisogno proprio il medico, il più esposto alla commozione […]. Da questa serenità scaturisce quello sguardo che sa penetrare senza che le lacrime ne pregiudichino la chiarezza, rendendo possibile operare con la mano che non trema” (kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., p. 13). 13 ARNALDO BALLERINI, Karl Jaspers, 1913-2013: cento anni di soggettività, in «Studi jaspersiani», II (2014), p. 21. 14 L’altro può essere avvicinato, approssimato, può essere accostato ma non può in nessun modo essere raggiunto, afferrato; cionondimeno è proprio la consapevolezza che la conoscenza di un’altra persona è un compito infinito a tenerci all’erta, come sottolinea Stanghellini, circa lo spessore dell’essenza dell’uomo (cfr. Giovanni Stanghellini, The ethics of incomprehensibility, in One Century of Karl Jaspers’ General Psychopathology, a cura di Giovanni Stanghellini, Th. Fuchs, Oxford Univ. press, Oxford 2013, p. 173). 15 Cfr. JEAN CLAUD GENS, L’impact de la philosophie jaspersienne de l’éxistence sur la Psychopathologie Générale, in La psychopathologie générale de Karl Jaspers 1913-2013, a cura di ph. Cabestan-J-C. Gens, Le Cercle Herméneutique, paris 2012, p. 171. 16 Anzi, Jaspers ritiene che il medico debba rigettare lo studio della filosofia specialistica, nella misura in cui questa potrebbe condurlo in seno a un’astrattezza del pensiero nefasta per la pratica medica. 17 kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., p. 15. 18 “Non si può sottoporre a controllo e certificare ciò che, in maniera sempre unica e irripetibile, accade nell’agire interiore […]” (Ibidem, p. 136). 19 Ludwig Binswanger non esita, infatti, a definire quest’interruzione come “la più grande possibilità mancata della psichiatria moderna” (cfr. JEAN CLAUD GENS, L’impact de la philosophie jaspersienne de l’éxistence sur la Psychopathologie Générale, in La psychopathologie générale de Karl Jaspers 1913-2013, op. cit., p. 167); in realtà, lo Jaspers psicopatologo ha sempre continuato a esistere e a maturare accanto allo Jaspers filosofo, essendo, questo, come un completamento e una radicalizzazione del primo; benché Jaspers sia sempre stato restio a dare applicabilità clinica ai propri principi filosofici e psicopatologici, sono propensa a considerarne la filosofia come una sorta di cura hominis, una vera e propria terapia “dal volto umano” intesa a ristabilire nell’uomo la capacità di autodeterminarsi, a sorreggerlo e guidarlo nel cammino verso l’Existenz. 20 kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., p. 56. 21 Si veda il primo capitolo del presente lavoro. 22 Tra i metodi che non si rivolgono alla personalità del paziente, ma che esercitano solo un’azione indiretta sul paziente medesimo, Jaspers colloca anche delle pratiche – in questa sede meno rilevanti ma da lui non trascurate – basate sull’esercizio, la cui formula vincente consiste nella ripetitività, e che si fondano sull’idea che se si agisce sul corpo anche l’anima è indotta a trasformarsi; infine, Jaspers cita particolari metodi 82


educativi consistenti nella prescrizione da parte del medico di una completa regolamentazione della vita del malato: quest’ultimo deve sapere, ora per ora, quello che deve fare, e in virtù dell’autorevolezza del medico, deve sentirsi pressoché obbligato a farlo. 23 In quest’edizione l’indubbio affievolirsi del rigore scientifico va di pari passo con l’accentuarsi di un orientamento più specificamente filosofico, tanto che paola Ricci Sindoni la definisce “una riflessione filosofico-esistenziale sui dati della psichiatria” (pAOLA RICCI SINDONI, Sul nesso verstehen-erklären nella psicopatologia jaspersiana, op. cit., p. 166). 24 kARL JASpERS, Il medico nell’età della tecnica, op. cit., pp. 87-88. 25 Quella della chiarezza, della trasparenza reciproca, è una caratteristica che riecheggia – anticipa, se ci riferiamo al percorso jaspersiano nel suo ordine cronologico – gli imperativi alla base della comunicazione esistenziale e dell’amore come massimo compimento della stessa. 26 “Dallo psichiatra non vengono quegli uomini il cui inconscio spicca per equilibrio, affidabilità nonché forza dei sentimenti e delle pulsioni emergenti, uomini che sanno di essere una sola cosa con il loro inconscio, ma quelli il cui inconscio è turbato, insicuro, incostante, coloro che sono in guerra con se stessi e si trovano, per così dire, seduti su un vulcano” (Ibidem, p. 89); è questa, a mio avviso, una concezione che richiama l’idea jaspersiana di “processo” (Prozess), che egli tematizza in relazione e in contrapposizione a quella di “sviluppo della personalità” (Entwicklung einer Persönlickeit); il Prozess indica proprio quella personalità che non si sviluppa in modo lineare e armonico, ma che subisce una frattura dalle conseguenze psichiche drammatiche e irreversibili (cfr. DIETRICH VON ENGELHARDT, La psicopatologia della gelosia in Jaspers, in «Studi jaspersiani», II (2014), pp. 225-226). 27 Dalle pagine della sua Autobiografia filosofica traspare chiaramente una sensibile influenza, nello Jaspers psicopatologo e filosofo, dell’esperienza vissuta all’interno di questo gruppo di medici; è Jaspers stesso, in questa sede, a parlare di “comunità spirituale” per indicare un luogo relazionale che per tutta la vita continuerà a essergli d’ispirazione; inoltre, è proprio sulla base delle indagini svolte all’interno di questo potentissimo team di ricerca, che egli formula la distinzione tra “sviluppo della personalità” e “processo” che ho ricordato appena sopra (cfr. kARL JASpERS, Autobiografia filosofica, op. cit., pp. 23-27). 28 OSCAR MEO, Psicopatologia e filosofia in Karl Jaspers, op. cit., p. 218. 29 Rimando al precedente paragrafo, in cui specifico che i due volti della pratica medica sono la tecnica e l’ἦθος umanitario. 30 Una radicalizzazione del problema si ha relativamente alla malattia mentale, in cui ci si trova a stabilire se vi sia, nel malato, consapevolezza delle proprie azioni (qualora criminali), dunque una discrezionalità dell’agire – valutando, insomma, la “libera de83


terminazione della volontà” nei delinquenti (cfr. kARL JASpERS, Psicopatologia generale, op. cit., pp. 844-846). 31 Jaspers soffre fin dalla nascita di una bronchiectasia congenita che se da un lato ne amputa la carriera medica, dall’altro ne plasma la sensibilità e ne approfondisce lo sguardo, sorreggendone e come segnandone il tracciato filosofico. La decisione di accettare il “destino” della malattia non deve leggersi, a mio avviso, come un atto di passiva rassegnazione, bensì come l’incarnazione di una scelta di adesione alla situazione comunque data, come un amor fati che solo consente all’Existenz di emergere nel dispiegamento delle proprie possibilità, che se non sono infinite sono comunque autentiche e perseguibili (cfr. kARL JASpERS, Volontà e destino: scritti autobiografici, op. cit., pp. 58-59). 32 OSCAR MEO, Psicopatologia e filosofia in Karl Jaspers, op. cit., pp. 200-201. 33 In Psicopatologia generale Jaspers scrive: “La malattia è un concetto che racchiude le realtà più eterogenee; un giudizio che, alla fine, non significa nulla” (kARL JASpERS, Psicopatologia generale, op. cit., p. 23); secondo Gérard Ulliac, questa posizione pone Jaspers a metà strada tra un relativismo culturale e un totale negazionismo sulla materia (cfr. GéRARD ULLIAC, L’homme est plus que ce qu’il peut connaitre de lui-même, in La psychopathologie générale de Karl Jaspers 1913-2013, op. cit., p. 91). 34 Tanto da sfociare, spesso, in una totale arbitrarietà del termine “malato” in relazione allo psichico. 35 Mi pare che si muova in questa direzione anche GIOVANNA BORELLO nel suo La filosofia come cura: Karl Jaspers filosofo e medico. Dall’antipsichiatria alla politica attraverso una filosofia dell’esistenza, op. cit., p. 35. 36 Canguilhem esamina e abbraccia la posizione di Jaspers, ritenendo che alla base della coincidenza tra malattia mentale e anormalità vi sia un improprio giudizio di valore (cfr. GEORGES CANGUILHEM, Le normal et le pathologique, paris, presses Universitaires de France, 1966, trad. it. Il normale e il patologico, a cura di Mario. porro, Torino, Einaudi, 1998, p. 90). 37 Cfr. EUGéNE MINkOwSkI, À la recherche de la norme en psychopathologie, in «évolution psychiatrique», n. 1, paris 1938, p. 76. 38 Come sottolinea Gérard Ulliac, è proprio con queste considerazioni che Jaspers si affranca dalla psichiatria – che si fonda su una sorta di ontologia della malattia – e si muove da psicopatologo (cfr. GéRARD ULLIAC, L’homme est plus que ce qu’il peut connaitre de lui-même, op. cit., pp. 92-93). 39 Si veda THOMAS FUCHS, De la vulnérabilité existentielle: élements pour une psychopathologie des situations-limites, in La psychopathologie générale de Karl Jaspers 1913-2013, op.cit., pp. 151-153. 40 Secondo Fuchs, tale inconsistenza si rivelerebbe – con l’urgenza che solo il rimosso può avere – di fronte a certe situazioni vitali, empiriche, del tutto irrilevanti; esse 84


causerebbero la formazione di crepe irreparabili in tali “gusci”, dietro le quali si annidano i fatti fondamentali dell’esistenza (Ibidem, p. 153). 41 può darsi il caso, infatti, in cui il paziente riconosca di non poter plasmare la propria vita a immagine delle proprie aspettative, di non poter agire in accordo con le proprie intenzioni, malgrado lo voglia e agisca in questa direzione; in tale circostanza il medico non dovrà gravare il paziente della drammaticità insita nella coscienza dei propri limiti, perché il paziente ha ben presenti tali limiti; si tratterà, piuttosto, di mutuare un modo di procedere filosofico, che consenta al paziente di accettare tali limiti, che solo se assimilati possono diventare spazio d’azione per possibilità comportamentali nuove. 42 È, questa, una volontà che potremmo definire “orientata verso la libertà”, piuttosto che a scopi particolari – una forma, insomma, esistenziale di volontà – poiché ciò cui mira è proprio l’esistenza –alla cui acquisizione sono preliminari l’autocoscienza e l’autocontrollo; un tale habitus richiede, secondo Jaspers, che entrambi, medico e paziente, avviino un’operazione di autochiarificazione esistenziale, che insomma “filosofino su stessi”, riconoscendosi responsabilmente come in cammino verso l’esistenza (cfr. JANN E. SCHLIMME, Jaspers’ existential concept of psiychotherapy, in One Century of Karl Jaspers’ General Psychopathology, a cura di Giovanni Stanghellini, Thomas. Fuchs, Oxford, Oxford Univ. press, 2013, pp. 159-161). 43 Tra i pericoli insiti nell’applicazione terapeutica di queste concezioni, Jaspers colloca la probabile confusione che deriverebbe da un utilizzo di concetti filosofici in un ambito non filosofico, che non solo non faciliterebbe il processo di chiarificazione esistenziale, ma ne sarebbe di ostacolo ulteriore; per questo – oltre che per ragioni biografiche – Jaspers decide di rinunciare a mettere in pratica quanto elaborato e di muoversi, piuttosto, in direzione di una teorizzazione della filosofia dell’esistenza (cfr, JANN. E. SCHLIMME, La concezione esistenziale della psicoterapia in Karl Jaspers, «Studi jaspersiani», II (2014), pp. 94-95). 44 prerogativa di una tale comunicazione è il riconoscimento delle proprie potenzialità di essere un’esistenza e al contempo il cogliere se stessi come esistenza, in una sorta di circolarità ermeneutica – già più volte tematizzata – in cui medico e paziente si rivelano l’uno all’altro (e a se stessi) mettendosi in questione e reciprocamente alla prova. 45 JANN. E. SCHLIMME, La concezione esistenziale della psicoterapia in Karl Jaspers, op. cit., p. 96.

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PASQUALE INDULGENzA Conoscenza e «rivoluzione dell’informazione» Ci proponiamo di delineare, con questa breve riflessione, le nuove dinamiche di costruzione e diffusione della conoscenza che si vanno affermando unitamente agli sviluppi socio-tecnici della «rivoluzione dell’informazione»1, e, correlativamente, i problematici nessi intercorrenti tra i processi di innovazione tecno-scientifica e l’evoluzione degli assetti socio-economici. I processi dirompenti ai quali facciamo riferimento suscitano alcune, fondamentali domande. In che modo le sempre più profonde interazioni con le tecnologie e i media digitali, che creano i nuovi ambienti nei quali si muovono oggi le esistenze sociali, stanno cambiando il nostro rapporto con la conoscenza? Come mutano i processi di costruzione della conoscenza e di comunicazione del sapere nell’epoca in cui l’informazione viene trattata attraverso dispositivi computer based che, mentre assicurano interconnessioni via via più potenti, sottomettono la produzione e la circolazione dei saperi a colossali processi di standardizzazione? Cominciamo con l’evidenziare come la trasformazione in formato digitale dell’informazione costituisca una decisiva chiave di lettura del nostro tempo e perché essa non possa ridursi ad una nuova tecnica di rappresentazione, ma assuma il carattere di un cambiamento di segno radicale, una transizione che può dirsi vera e propria mutazione delle forme essenziali del nostro vivere. Nei punti di intersezione maggiormente significativi emergenti dal confronto tra gli studi di filosofia della scienza e della tecnica, la ricerca storica e le analisi sviluppate nell’ambito delle scienze umane e sociali, sono stati focalizzati principalmente i seguenti aspetti: – i rilevantissimi mutamenti intervenuti nel rapporto tra conoscenza ordinaria e conoscenza tecnico-scientifica; – le emer91


genti modificazioni del nostro quotidiano «fare esperienza», sempre più condizionato dalla partecipazione a reti informative, comunicative e di produzione simbolica altamente complesse e in continua trasformazione; – la problematica centralità acquisita dalla produzione e dalla circolazione di conoscenza nello sviluppo delle attività economiche e produttive. L’estroflessione cognitiva prodottasi con l’affermarsi dell’info-telematica e della Rete, l’imporsi della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, recano conseguenze enormi a livello, culturale, sociale e tecnico, in un «passaggio d’epoca»2 lungo il quale cogliamo di essere coinvolti nel vortice di un profondo rivoluzionamento epistemico. Se è certo che l’attuale rivoluzione tecnico-scientifica implica una crescita quantitativa del sapere e del suo collegamento reticolare, e con essa un cambiamento radicale delle modalità di accesso alla conoscenza, ciò che rimane in discussione è il passaggio ad una nuova qualità del sapere a partire da una connessione globale. La riproduzione tecnica «allargata» della conoscenza3 produce infatti un enorme allargamento della superficie di contatto con un sapere delle cui possibilità di penetrazione nella realtà e di comprensione della sua complessità, tuttavia, siamo tuttora poco coscienti. Le trasformazioni determinatesi nel lavoro, la parcellizzazione delle scienze e la loro separazione dalla cultura quotidiana, la segmentazione dell’esperienza quotidiana, unitamente al continuo impatto con masse di dati in forme non strutturate, accentuano la già profonda messa in crisi di ciò che significa episteme in quanto sapere razionalmente comprovato: l’essere informato del mondo, l’avere conoscenza delle cose e delle nozioni, trattare con esse, portare la molteplicità dei fenomeni attraverso teorie, l’agire con la coscienza del proprio sapere. Il punto è che siamo coinvolti e trascinati in processi incalzanti, che avanzano a ritmi accelerati:entro pochi anni la quasi totalità 92


dell’informazione prodotta nel mondo sarà digitale, ma già oggi, nel dibattito corrente, si parla di «conoscenza digitale»; i motori di ricerca che animano la Rete risultano determinanti nel processo di acquisizione e consolidamento della conoscenza umana,rendendo imprescindibile verificare le informazioni che ogni giorno riusciamo a trovare, di cui però risulta sempre più problematico valutare origini e attendibilità. È perciò dall’interno di questa concreta difficoltà che dobbiamo risalire all’interrogazione circa il valore epistemico delle informazioni circolanti nel Web, per capire come esso si riproponga rispetto alla classica distinzione proposta da Michael k. Buckland (informazione «come cosa» (i documenti), informazione «come processo» (l’apprendimento) e informazione «come conoscenza» (ciò che viene appreso)4. Si tratta di una questione cruciale, congiuntamente a quella del rapporto tra conoscenza e rappresentazione e organizzazione della stessa, che assume aspetti inediti proprio in virtù del fatto che oggi ci troviamo di fronte a tecnologie dell’informazione e della comunicazione che “incorporano”, modalità d’organizzazione del sapere radicalmente alternative rispetto a quelle fin qui usuali ed egemoni. Il capitalismo bio-cognitivo pone la conoscenza in un ruolo nevralgico, sia nel momento della sua generazione (economie di apprendimento) che nella fase di trasmissione e diffusione (economie di rete). La conoscenza è sia un input che un output: strumento di produzione e nello stesso tempo bene comune. Il controllo della generazione della conoscenza, così come il controllo della sua trasmissione/diffusione, costituiscono oggi cardini imprescindibili dei processi produttivi e del mercato del lavoro, ma, nel contempo, impongono il loro funzionamento in ogni ambito della vita sociale. L’importanza di questi aspetti interpella alla radice la qualità innovativa dei dirompenti cambiamenti in atto. A quasi trent’anni dalla nascita ufficiale del World Wide Web, risulta del tutto evidente che il processo di trasformazione che stiamo vivendo da un lato offre 93


straordinarie opportunità per le attività individuali e la sfera personale, da un altro comporta che saperi e conoscenze siano oggetto su scala globale di un sistemico lavoro di incorporazione nelle logiche produttive e commerciali delle grandi espressioni del potere economico-finanziario nonché di un sempre più capillare controllo da parte delle agenzie di quello politico-istituzionale. Una processualità che investe, con una capacità di assorbimento tendenzialmente onnicomprensiva, il quotidiano esprimersi dell’identità e dell’autonomia dei soggetti individuali, dei quali essenziali prerogative – privacy, informazioni personali, gusti e relazioni sociali – vengono ‘catturate’ dai dispositivi di registrazione/ elaborazione della Rete, fruttando ai giganteschi soggetti che ne sono padroni enormi vantaggi per realizzare profitti in pubblicità e marketing, ottenendo nel contempo di orientare modalità e risultati delle nostre quotidiane frequentazioni della Rete, senza che se ne sia consapevoli. L’ineludibilità della considerazione di questi processi sistemici e dei rischi che essi comportano è tutt’uno con la problematicità della definizione di un tempo storico che, con l’imporsi dell’informazionalismo e la logica dei Big Data, l’irresistibile espandersi di una infosfera che si connota anche come una sempre più avvolgente semiosfera, disvela l’affermarsi di un colossale processo di oggettivizzazione e standardizzazione delle conoscenze. Negli ultimi anni, la ricerca sociologica e mediologica ha visto la ripresa di un significativo impegno ad una analisi critica di queste dinamiche, producendo studi e ricerche che consentono di scandagliarne più incisivamente che in passato gli esiti problematici5. La linea di sviluppo che ha segnato la rivoluzione dell’automazione del controllo contiene in sè la spinta ad una sempre più spinta artificializzazione dell’esperienza sociale e l’affermarsi della comunicazione globale, fattori di formidabile, inedita capacità di sponda alla logica della produttività integrale e dello scambio mercantile glo94


bale, ‘figlia’ dell’industrialismo, tesa ormai a sussumere ogni aspetto della nostra esistenza. proprio la pervasività di questo fenomeno è al centro della riflessione tenuta da alcuni dei più importanti pensatori contemporanei, da Martha Nussbaum a Judith Butler, da Michael J. Sandel a Amarthia Sen, nel contesto di un confronto intellettuale ed una produzione scientifica che si stanno finalmente arricchendo di un più maturo dialogo tra studi filosofici e scienze sociali6. È il caso di ricordare, del resto, che già verso la fine degli anni Sessanta, nel proporre la sua riflessione sulla società tecnologica del capitalismo maturo, Jürgen Habermas rimarcava che «una teoria radicale della conoscenza è possibile solo come teoria della società»7. In questo senso, due aspetti, nella trasformazione del modo di produzione dominante, risultano particolarmente rilevanti per rendere più chiare le surrichiamate linee di analisi: l’internizzazione della scienza e dell’innovazione tecnologica al ciclo di produzione, e la centralità della trattazione dell’informazione dentro le logiche di un evidente, incalzante processo di mercificazione. È su questa base, il carattere sistemico assunto dalla trattazione delle informazioni ai fini del processo produttivo, che oggi si richiede di tornare a sviluppare in modo adeguato alla complessità presente la dialettica di coppie categoriali (manuale/intellettuale, concreto/astratto, materiale/immateriale) cui tuttora si ricorre per definire i mutamenti dello status conoscitivo della capacità umana di produzione di attività sociale, in altri termini il cambiamento di status che si produce tramite un certo lavoro nelle conoscenze relative ad una sfera di attività umana. Nella cornice concettuale di un rapporto dialettico tra determinismo tecnologico e determinismo sociale8, sono state prodotti, nell’ambito delle scienze umane e sociali, i contributi maggiormente significativi intorno al significato e alla portata del cambiamento in atto (con particolare riferimento alla qualità delle interazioni tra 95


tecnologie dell’informazione e della comunicazione e mondi sociali), alla ricerca dei rapporti di continuità/discontinuità rispetto agli assetti sistemici che l’hanno preceduto e nella considerazione che un’accorta definizione di questi nessi ha importanza cruciale ai fini della comprensione dell’odierna complessità sociale. Nel corso degli ultimi quindici anni, peraltro, sono state prodotte analisi e riflessioni sulla «rivoluzione di Internet» e del digitale che hanno fortemente messo in discussione l’ottimismo spinto delle concezioni del digitale impostesi tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Una pista di ricerca, quest’ultima, frequentata da autori di diversa ispirazione e collocazione, basata però sulla convinzione comune che sia necessario riaprire e rilanciare quel «confronto delle idee» perorato con forza, già alla fine degli anni Novanta, da Tomás Maldonado9, quando ancora i critici della «rivoluzione digitale» potevano dirsi in minoranza, allo scopo di esaminare non solo le applicazioni delle tecnologie, ma anche le loro interazioni con le dinamiche sociali. Studiosi provenienti da ambiti culturali e di ricerca diversi – da Nicholas Carr a katherine Hayles, da Bernard Stiegler a Geert Lovink, da Evgeny Morozov a Tim Berners-Lee – hanno preso ad approfondire la portata dei processi in corso, prendendo ad indagare anche le implicazioni che l’odierna rivoluzione tecnologica va avendo sull’attività cognitiva e sul pensiero umani. La «devoluzione delle menti» e lo sviluppo di una intelligenza artificiale globale portati dall’imporsi di Internet e della comunicazione globale sono al centro di queste analisi e puntano a focalizzare le modalità con cui questo processo si intreccia e si salda con le dinamiche globali del potere economico-finanziario dell’odierno capitalismo digitale, con i connessi rischi di un insinuarsi sempre più decisivo nelle nostre vite e un condizionamento sempre più potente di tutte le nostre scelte10. La digitalizzazione è un macro-fenomeno frutto del ‘combinato 96


disposto’ di due processi: la numerizzazione, ovvero la conversione in cifre dei contenuti prima espressi in linguaggi differenti, e la binarizzazione. La sovrapposizione tra digitalizzazione e linguaggio binario è uno dei passaggi decisivi che caratterizzano la diffusione simbolica e materiale dei media digitali nella cultura contemporanea11 . La convergenza al digitale, cioè il progressivo trasferimento verso il formato digitale di tipologie di informazione tradizionalmente collegate a media diversi – rende ormai possibile una integrazione strettissima, totalmente inedita, fra codici e linguaggi che in passato eravamo abituati a considerare lontani. E, per questa via, rende possibile forme di comunicazione nuove, le cui caratteristiche e potenzialità stiamo cominciando a sperimentare sia a livello individuale che a livello di massa, e configura un nuovo «ecosistema dell’informazione». Ma la progressiva migrazione di pratiche informative e comunicative verso il digitale, incentivate da sempre più sofisticati device e da continui update, pone in essere anche una sorta di «colonizzazione interstiziale», una appropriazione di territori esistenziali e attività quotidiane che pone questioni rilevantissime sia in riferimento al mutare del comportamento dei singoli nel flusso dell’azione (l’attenzione, ad esempio), che a quello delle forme dell’interazione sociale12. La connettività totale, in particolare, suscita una modalità di comunicazione e relazione che alimenta una sempre più forte ed estesa aspettativa sociale, la pretesa di una nostra «presenza» ubiquitaria e di un suo immediato riscontro nelle rappresentazioni sociali. È questo il punto dirimente sul quale si va oggi focalizzando l’attenzione delle scienze socio-umane e in particolare della ricerca sociologica, in concorso con la filosofia della tecnica più avveduta, in vista della maturazione di una rinnovata ecologia cognitiva13: lo studio del divenire del pensiero in funzione delle condizioni ambientali dove esso si sviluppa, nella consapevolezza che l’ambiente dell’attività cognitiva è oggi costituito, in primo luogo, dai nuovi assetti 97


tecnologici che rendono possibili gli scambi e le interazioni che innervano la comunicazione globale. NOTE 1 LUCIANO FLORIDI, La rivoluzione dell'informazione, Torino, Codice Edizioni, 2012 2 ALBERTO MELUCCI, Passaggio d'epoca, Milano, Feltrinelli, 1994. 3 ANDREA CERRONI, Scienza e società della conoscenza, Torino, UTET, 2006. 4 MICHAEL BUCkLAND, What kind of science can information science be?, «Journal of the American society for information science and technology», 63, n. 1, 2012. 5 Da segnalare, al riguardo, il numero 3-4 della «Rivista Italiana di Sociologia», luglio/dicembre 2015, interamente dedicato allo “stato dell’arte” della ricerca internazionale. Tra i lavori che il fascicolo raccoglie, risultano di utilissimo riferimento l’introduzione di OTA DE LEONARDIS (Il potere dei grandi numeri), il saggio di VANDO BORGHI e BARBARA GIULLARI (Trasformazioni delle basi informative e immaginazione sociologica), il contributo di MASSIMO MAzzOTTI (Per una sociologia degli algoritmi). 6 In Italia, uno degli studiosi che si distinguono in questo impegno è il sociologo FRANCO CRESpI, autore del saggio Esistenza-come-realtà. Contro il predominio dell’economia, Napoli, Orthotes, 2013. 7 JURGEN HABERMAS, Teoria e prassi nella società tecnologica, Roma-Bari, Laterza, 1978, p. 9. 8 L'assunto è già ben presente nei lavori proposti negli Anni Novanta da peppino Ortoleva, dedicati all'analisi storico-sociale della natura di «dispositivi sociali» delle nuove «macchine per comunicare». 9 TOMáS MALDONADO, Critica della ragione informatica, Milano Feltrinelli, 1997. 10 ANNA MUNSTER, Nerves of data: The neurological Turn in/against Networked Media, «Computational Culture», 2.12.2011. 11 GABRIELE BALBI – pAOLO MAGAUDDA, Storia dei media digitali. Rivoluzioni e continuità, Roma-Bari, Laterza, 2014. 11 Emblematicamente, è questo il tema centrale dell’intervista rilasciata nel 2016 da Tim Cook, amministratore delegato della Apple, al washington post, riproposta in Italia su La Repubblica del 18/08/2016, che ne enfatizza il senso sin dalla citazione nel titolo (Saremo connessi per sempre). 12 Il termine, come noto, è stato coniato da pierre Lévy, che ne ha proposto l’inserimento all’interno del campo sociologico. Secondo Lévy, il pensiero ha alla base attori collettivi cui partecipano organicamente dispositivi tecnici ed istituzioni sociali, giacché una tecnologia intellettuale deve essere analizzata come una molteplicità infinitamente aperta, capace di interpretare gli usi sociali.

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GLI AUTORI

Stefano Coletta è uno psicologo iscritto all'Ordine degli psicologi del Lazio. Già consulente presso la clinica “San Raffaele” di Velletri (Roma), curatore della Rubrica di psicologia nel blog del personaggio Tv Luca Sardella (http://www.lucasardellaejanira.it/specialisti.php?id=9), curatore della Rubrica di psicologia nel mensile "Vivere Light" diretto da Janira Majello, curatore della Rubrica di psicologia nel mensile "Dimensione Benessere"(anno 2013 / 2014), ha collaborato con il prof. Riccardo Venturini - già Ordinario di psicofisiologia Clinica alll'Università “La Sapienza” di Roma - circa l'utilizzo terapeutico di alcune pratiche meditative (“Mindfulness”). Autore de "L'Immagine Risanatrice", un nuovo approccio nella gestione dell'ansia e delle fobie che unisce la psicologia alla Filosofia orientale, ha partecipato, in qualità di esperto, a diverse puntate del programma Tv "I primi"su Agon Channel. Maria Vittoria Cristiano, classe '83, di origini partenopee, vive a Bologna da circa dieci anni. Di formazione classica, si avvicina al mondo della a filosofia sotto la guida di Stefano Gensini, appassionandosi allo studio del linguaggio e della mente negli animali non umani. Ben presto i suoi interessi si spostano dalla Filosofia della Mente e dalla Semiotica, alla Filosofia Morale e politica, laureandosi, quindi, a pieni voti all'Università Orientale di Napoli, con una tesi sul Principio di Responsabilità e cura in Erich Fromm, redatta sotto la supervisione di Rossella Bonito Oliva e il supporto di Romano Biancoli, padre fondatore dell'Istituto “Erich Fromm” di Bologna e membro della Erich Fromm Society, con il quale intesse un proficuo e profondo scambio fino al 2009. Trasferitasi a Bologna, i suoi interessi virano principalmente sulla Bioetica e sulla Filosofia del diritto, conseguendo la laurea magistrale a pieni voti con una tesi su L'Eugenetica come forma di potere e controllo all'interno degli Istituti Psichiatrici, sotto la guida del penalista Stefano Canestrari. Uno studio storico comparato di diritto penale internazionale, questo, che ha portato allo sviluppo di diversi articoli e di un saggio e che rappresenta, tuttora, il suo principale filone di ricerca. Nel corso degli anni ha collaborato con diverse riviste di settore e non, risultando finalista e vincitrice per due anni di seguito al premio Nazionale di Filosofia, per diverse categorie. Si è formata, poi, come consulente filosofico, presso la Scuola parresia di Bologna, associandosi all'AppF, per la quale è responsabile per la regione Emilia Romagna. Oltre all'attività letteraria e di ricerca, svolge la sua professione di Consulente Filosofico a Bologna dove collabora con diversi professionisti. Alice Gardenghi ha conseguito la Laurea ha magistrale in Scienze filosofiche all’Università degli studi di Bologna con una tesi in Filosofia Teoretica dal titolo: Karl Jaspers, la realizzazione del sé nella comunicazione esistenziale e nelle situazioni-limite. 99


Mario Guarna si è laureato in Filosofia nel 2004 all’Università di Firenze. Nello stesso anno la sua opera inedita Mirò è altrove viene premiata con il Fiorino d’oro al premio Internazionale Firenze. Nel 2006 alla sua tesi di laurea Filosofia del Lontano-La teoria dell’umorismo in Pirandello viene assegnato il primo premio al premio Nazionale ”Totus Tuus”. A gennaio del 2007 fonda “L’Associazione Nazionale pratiche Filosofiche”, della quale diviene presidente, convertita, nell’agosto 2014, in “Associazione professionisti pratiche Filosofiche”. Nell’aprile 2006, istituisce e presiede il premio Nazionale di Filosofia “Le figure del pensiero”, giunto quest’anno alla dodicesima edizione. Nel 2010 consegue l’attestato del corso di perfezionamento post laurea in Philosophy for children/ Philosophy for community all’università di Firenze e l’attestato di teacher Philosophy for children/ Philosophy for community al Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica di Roma. Dal 2010 organizza e presiede il convegno annuale di “pratiche filosofiche”. Nell’ottobre 2014 viene nominato direttore scientifico della casa editrice “Sillabe di sale”, per la sezione filosofia. Nel 2017 consegue l’attestato di Mediatore civile presso Icotea. Dal 2017 direttore scientifico della collana filosofia per la casa editrice “David and Matthaus”. È Direttore e insegnante della scuola “parresia (pratiche filosofiche)” di Firenze. Dal 2018 èpresidente dell’Associazione “Immagine”, dove organizza “Cinesofia”. incontri di cinema e filosofia. Pasquale Indulgenza è docente di filosofia e scienze umane, membro A.N.S. (Associazione Nazionale Sociologi) e Segretario dell’Associazione Culturale “Michele De Tommaso”, con sede ad Imperia, riconosciuta dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. È autore di saggi scientifici su temi di interesse filosofico e storico Riccardo Mainardi, laureato in Scienze politiche, ha diretto a lungo alcune filiali di un primario istituto di credito prima di ritirarsi a vita privata e potersi finalmente dedicare alle sue più grandi passioni: la filosofia e la letteratura. Il suo esordio letterario risale al 2011 con il libro di racconti Le ultime lezioni dell’anno (Edizioni Gammarò) che si classificò secondo al Concorso Letterario Internazionale “per un mondo migliore” (ex premio Bettanin) - edizione 2011. Da allora ha vinto numerosi concorsi letterari e di filosofia nelle sezioni narrativa, poesia, saggistica e aforismi. Fra questi, nel 2014, si è aggiudicato il primo premio al concorso “Scriviamo Insieme” di Roma nella sezione “Narrativa Inedita” con il romanzo Polvere nella nebbia, successivamente pubblicato dalla casa editrice Liberodiscrivere di Genova. Quest’ultimo romanzo figura altresì tra i dieci finalisti del premio Carver 2015 e ha ricevuto altri quattro riconoscimenti. Negli ultimi anni ha vinto quattro premi nazionali di 100


filosofia: primo nel 2017 e nel 2015 – sezione paradossi, secondo nel 2014 – sezione aforismi, al premio Nazionale di Filosofia “le Figure del pensiero” di Certaldo (FI); primo nel 2016 al premio Nazionale di Filosofia “Alla ricerca dell’anima” di Modena, edizione incentrata sul saggio filosofico L’anatomia del rispetto. Ha appena ultimato la stesura del suo terzo romanzo intitolato Il sogno di Amos, una densa metafora sul percorso fin qui battuto dall’umanità che, tramite la voce di un fanciullo immortale, apre a prospettive inusitate che scongiurino il ripetersi degli errori commessi. Marco Viscomi è ricercatore in Discipline filosofiche teoretiche, morali ed estetiche. Ha scritto il saggio La formazione di un concetto. Temporalità autentica e tempo originario in Martin Heidegger (Roma, Città Nuova, Cnx/Filosofia, 2014). È autore dei seguenti contributi in volume: Differenza ontologica e indifferenza teologica. Sul problema delle essenze in Heidegger e Marion, in Frammenti di filosofia contemporanea (Ix, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 59-71); In cammino sui sentieri dell’originario. Bonaventura e Böhme a confronto, in Frammenti di filosofia contemporanea (VIII, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 1-14); In tempi di guerre ideologiche. La sfida cusaniana della pax fidei, in Schegge di filosofia antica (Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 227-240); Ridestare l’attenzione per l’originario. Spunti di riflessione dall’intervista di Heidegger allo Spiegel, in Frammenti di filosofia contemporanea (VII, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 55-63); Raccogliersi presso le radici della parola. Le accezioni di λέγειν e λόγος in Martin Heidegger, in L’essere del linguaggio, il linguaggio dell’essere (Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 7-22); Fra personalismo assoluto e necessità causale. Jacobi e Schelling interpreti di Spinoza, in Filosofi e modernità. Antichi e nuovi sentieri (Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 149-161); Il fondamento sotteso all’azione. La dialettica fra etica e potere secondo Heidegger, in Prospettive storiografiche di teoria sociale (Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 107-120); Umanesimo e umanismi. L’umanità che permane al variare delle esistenze, in Frammenti di filosofia contemporanea (V, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 57-65); Bisogno e fine della filosofia. Oltre la mediazione dialettica dell’idea, in Frammenti di filosofia contemporanea (III, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2015, pp. 1-14); Infinità e trascendenza di Dio in noi. “Il marchio dell’artefice” secondo Descartes e Lévinas, in Oltre Cartesio. Percorsi di cultura francese moderna (Comporre Edizioni, Gaeta 2014, pp. 119-131); Il doppio volto della traduzione testuale. La concezione heideggeriana del tradurre, in Schegge di filosofia moderna (xIII, deComporre Edizioni, Gaeta 2014, pp. 59-71).

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