Phronein nr. 7

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1 1 ComunePHRONEINatuttièilpensareRivistafilosoficasemestraleAssociazioneProfessionistiPraticheFilosoficheNumero7

NO/NOV3e2106/2022nAVAARAbinv.Post.DL353/2003(conv ista di poesia, criticRiv aturaa e letter2comma1,art.27/02/04),L.Sped.s.p.aItalianeosteAbPANNOXXVII-GIUGNO2022MERO106•NU PVIVERE LAA PAACE 2 Redazione: Francesco Iannitti, Stefania Lombardi, Giuseppe Scarciglia Comitato scientifico: Ubaldo Fadini, Riccardo Roni Copertina realizzata da Daniele Rizzuti Direzione e amministrazione C.so Roma, 168 - 28021 Borgomanero (NO) - tel. e fax 0322835681 Sito web: http://www.atelierpoesia.it indirizzo e-mail: redazione@atelierpoesia.it Autorizzazione del tribunale di Novara n. 8 del 23/03/1996. Associazione Culturale “Atelier” Quote per il 2022:euro 25,00 sostenitore: euro 50,00 (*) I versamenti vanno effettuati sul ccp n. 12312286 intestato a Ass. Cult. Atelier - C.so Roma, 168 - 28021 Borgomanero (NO) oppure su Banco Posta IBAN IT26T0760110100000012312286 BIC/SWIFT BPPIITRRXXX (*) AI «SOSTENITORI» SARANNO INVIATE IN OMAGGIO ALCUNE PUBBLICAZIONI EDITE DALLA CASA EDITRICE “GIULIANO LADOLFI”. I testi delle edizioni Atelier sono distribuiti da Ladolfi Editore e inclusi nel relativo Percatalogo.informazioni: http://www.ladolfieditore.itTrimestrale di poesia, critica e letteratura Supplemento del n. 106 (giugno 2022) Direttore: Giuliano Ladolfi (direttore responsabile) Direttore editoriale: Giovanna Rosadini Direttrici Atelier online: GiovanniIbello ed Eleonora Rimolo Direttore supplementi internazionali: Francesca Benocci Coordinatore redazionale: Luca Ariano Direttore marketing: Giulio Greco Direttore Editoriale di Phronein: Mario Guarna

1 Titolo deciso di concerto tra Danilo Campanella e Stefania Lombardi. Il materiale audio-video e divulgativo della conferenza è disponibile sul repository Zenodo all’interno della community “Testimonianza e testimoni. Memoria, presenza e testimonianza tra passato e presente” al seguente link: https://zenodo.org/communities/testimonianza_e_testimoni/

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TESTIMONIANZA E TESTIMONI. MEMORIA, PRESENZA E TESTIMONIANZA TRA PASSATO E PRESENTE

INDICE 5La leggenda del grande inquisitore Antonina Nocera 9La testimonianza dell’esistenza Antonio Martone 17La testimonianza politica. Il caso di Aldo Moro Danilo Campanella 21Guerra mediatica e guerra reale nell’epoca della posterità Fulvio Sguerso 27Sothy e la testimonianza della scrittura come permanenza dentro e fuori di noi Giulia Calamida 33La testimonianza come principio etico e sociale in Paul Ricœur Giuseppe D’Acunto 41Piani nei piani: il rapporto tra Dune di Frank Herbert e William Shakespeare Massimo Moro 49Testimoni della parola: tra pensiero ebraico e poesia Sergio Daniele Donati 53Testimonianza di norme sociali: Polonio ai figli Laerte e Ofelia Stefania Lombardi 57L’Ermeneutica in Verità e metodo di H. G. Gadamer Stefano Bracali 65Dono e testimonianza: un’aria di famiglia Susy Zanardo 75La testimonianza dell’Imperatore-dio di Dune Filippo Rossi 95Gli autori 4

La Leggenda del grande inquisitore è un capitolo fondamentale del romanzo testamento di F.M. Dostoevskij: I fratelli Karamazov.

Antonina Nocera

LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE

Al centro, la figura di Cristo catapultato nel mondo moderno, in una piazza di Siviglia, mentre si consumano autodafé al cospetto del Grande Inquisitore. Collocato in una posizione nodale e strategica, il poema di Ivan Karamazov –è lui l’autore della Leggenda infrange lo spazio della narrazione con un racconto dentro il racconto intriso di profondi significati. L’attualità di questo scritto è

cogente: una riflessione sul tema della libertà, sulla fede, sulla prigionia delle false credenze, sugli inciampi della storia come accadimento “biopolitico” per riprendere una terminologia foucaultiana. Le istituzioni e le ideologie, in primis la chiesa cattolica e il socialismo sono messi pesantemente dentro “il crogiuolo del dubbio”, un dubbio che strutturalmente investe ogni azione e pensiero fino a corrodere le viscere dell’uomo, come accade all’impiegato che si arrovella dentro le maglie dei pensieri strabordanti, il celebre uomo del sottosuolo, del romanzo omonimo.

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Non è un caso che Il grande inquisitore riprenda, con alcune varianti, le parole dell’uomo del sottosuolo, facendo riferimento al diritto dell’uomo a esercitare la vera vita, quell’intenso grumo di pulsioni originarie che non possono essere imbrigliate nei paletti delle costruzioni e nelle costrizioni sociali: una di queste rappresentate ad esempio dal falansterio, l’edificio auspicato da Charles Fourier per ospitare la comunità secondo i dettami socialisti. Il falansterio diviene ben presto simbolo di prigionia, cozza con l’idea fondamentale propugnata all’interno della leggenda: la libertà dell’uomo. Nel problema della libertà, l’assioma su cui si fonda la teo-

logia e la scienza dell’uomo di Dostoevskij, il dilemma polifonico diviene lotta perenne, bruciante. Lo scrittore abbozza una sintesi di questo immenso materiale: così delinea il grande capitolo della Leggenda del grande inquisitore. Per Dostoevskij, il problema della libertà è ontologico e primario, esiste prima che l’uomo venga messo di fronte al bivio della scelta del bene o del male. Solo la libertà primigenia consente all’uomo di scegliere in coscienza, al contempo questo è il primo nucleo del dilemma. Berdjajev ne colse molto lucidamente il senso: Il problema della libertà di ricollega in Dostoevskij a quello del male e della colpa. Il male è inesplicabile senza la libertà. Il male appare sulla via della libertà. Senza questo legame con la libertà, non esiste la responsabilità del male. […] Anche il bene è figlio della libertà. A ciò si ricollega il destino umano, il mistero della Allavita.luce di queste brevi considerazioni, non è difficile cogliere la modernità bruciante di questo scritto messo in dialogo con la complessità dei nostri tempi. Se il valore della testimonianza è quello di trasmettere proiettivamente un sapere e una riflessione, allora La leggenda è una lettura obbligata per chiunque desideri avere una lente di ingrandimento sulle grandi trasformazioni sociali culturali le ideologiche dei nostri tempi. Nell’abdicare la propria libertà al “miracolo, mistero, all’autorità”, l’uomo ha commesso il suo errore più grande, soffocando il suo diritto inalienabile e consegnando di fatto la sua essenza a un superiore padrone. Rozanov delinea perfettamente nel suo saggio sulla leggenda questo punto cruciale, identificando, sulla scorta della parola dostoevskiana, in Cristo il recupero di quella libertà che cristianamente coincide col dono di sé, con lo svuotamento dell’essere, con l’azione agapica di condivisione. Nessuno può essere come Cristo, sebbene Egli rimanga come una sorta di aspirazione, un orizzonte, sembra essere la conclusione

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della leggenda: il silenzio di Cristo prigioniero e il bacio con cui suggella il muto dialogo con l’inquisitore è un’immagine misteriosa, densa. È questo un silenzio interrogante, paradossale, il silenzio degli orrori della storia di fronte alla sottomissione dell’uomo, dei totalitarismi trasformati in barbarie, dell’“abbassamento psichico dell’uomo”, per riprendere una formula di Rozanov, di fronte ai grandi dilemmi del pensiero, ormai ridotti a vaniloquio.

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Il periodo pandemico, non ancora del tutto debellato, è stato un momento di grande snodo per tutta l’umanità coinvolta in una partita a scacco continua con la morte, il destino, il “morbo” con tutte le implicazioni simboliche che detiene, come ebbe a dire Givone in un suo importante saggio. Come accade al pubblico del grande Inquisitore, l’umanità intera è stata messa sotto scacco e con lei anche la libertà, messa alla prova da uno stato emergenziale del tutto eccezionale. Non sono sicura che l’umanità abbia dato il meglio di sé in questa occasione: non a caso uno dei primi contrasti è stato quello sulla “libertà” ridotta ad uso e consumo dei propri interessi individuali, trasmutati in rivendicazioni locali, piccoli e abietti. “Mors tua, vita mea” sembrava essere l’adagio di quei tempi bui in cui non vi era più alcuna differenziazione tra la libertas minor e libertas maior, dove l’individualità spinta aveva sostituito l’interesse per la comunità, per la collettività. In tal senso è possibile leggere anche laicamente la leggenda, come monito sempre vivo a mantenere alta la guardia del pensiero critico, alla luce di un alto concetto, quanto più universale possibile e dialogante con la complessità dei nostri tempi che non chiedono essenzialismi ma forti stimoli per pensare la possibilità di un mondo migliore.

Bibliografia1 NOCERA ANTONINA, Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F. M. Dostoevskij, Milano, FrancoAngeli, 2010 NOCERA ANTONINA, “Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij, Belgioioso, Divergenze, 2020 AA. VV., Il poema del Grande Inquisitore: fra Teodicea e Modernità (Roma, Castelvecchi, in corso di pubblicazione) 1NOTAPeralcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica 8

Eppure, non esistono molti elementi, né particolarmente sicuri, per distinguere il vero testimone. Indubbiamente, l’aver fatto esperienza di ciò di cui si testimonia è un dato imprescindibile per esser credibili. Un altro criterio su cui è possibile fare un minimo di affidamento è il fatto che il testimone autentico non pretende di identificarsi con ciò che testimonia. La testimonianza di un evento è comunque un’altra cosa rispetto all’evento stesso, e chi pretendesse di incarnarlo in toto, cadrebbe ipso facto nel ruolo dell’ideologo. In altre parole, la peculiarità della testimonianza è che la conoscenza testimoniale stessa non risiede propriamente in noi, ma in qualcun altro. L’Altro a cui ci si richiama, testimoniando, evoca un’esperienza ritenuta degna di essere – appunto – testimoniata.

La testimonianza dell’esistenza – pertanto – è un’azione mondana che può essere intesa sia in senso soggettivo sia oggettivo. Se la intendiamo nel primo senso, mettiamo l’accento sul portatore della testimonianza – il testimone appunto –, se invece la intendiamo in senso oggettivo, l’accento cade sull’esistenza e allora la testimonianza si mostrerà strumento attraverso cui l’esistenza stessa, e la sua specifica ontologia, si dispiega nel mondo, diventando evento d’una realtà che inesorabilmente trascende la soggettività testimoniale.Èchiaroche

1. Testimonianza

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LA TESTIMONIANZA DELL’ESISTENZA

Anzitutto, la vera testimonianza va distinta da quella dei “falsi profeti” di cui il mondo è pieno fin dall’alba dei secoli. Quante ideologie sono nate nella storia umana? Non è possibile enumerarle ma soltanto evocarle, in maniera generica, nella loro carica di menzogna.

Antonio Martone

la testimonianza implica l’interrogazione del presente, ma ciò non sarebbe possibile se tale interrogazione non

richiamasse la memoria. La filosofia, pur nella varietà delle sue forme, si è spesso ritrovata nella necessità di “render ragione” (nel senso letterale dell’espressione) della sua peculiare maniera di interrogare la memoria e la tradizione. Per lo stesso motivo, la filosofia, ossia una delle forme più alte e significative di testimonianza, conduce una lotta contro l’oblio che permette la risorgenza di antiche violenze o l’affermarsi di ideologie di sapore dispotico.L’attualità

della questione della testimonianza investe l’intero mondo umano – e ciò sotto il profilo culturale, filosofico, sociale, estetico e politico –. In un certo senso, essa può essere perfino connessa a quella più generale dell’espressione e della comunicazione: si chiede al pensiero di riconfigurarsi sempre di nuovo alla luce delle sfide dei nuovi tempi storici. Per fare soltanto qualche esempio, la filosofia ha il compito di interrogare i testimoni del passato, ponendosi così, a sua volta, come testimonianza rispetto a questioni fondamentali come quelle del perdono e della pacificazione storica, e attiene anche alla gestione degli archivi e del segreto di Stato. La sua testimonianza, infine, appare fondamentale anche per quanto riguarda il diritto all’oblio – fatto fondamentale in un tempo che ha innalzato il digitale a strumento di comunicazione quasi esclusivo. Come detto, la testimonianza passa attraverso una verità che inesorabilmente ci supera, ma che, ciononostante, contribuisce a fondare un mondo umano basato sulla simbolizzazione dell’esperienza e sulla potenza dei racconti tramandati. Non è tanto la testimonianza dell’artista, del filosofo o dell’uomo politico ad appoggiarsi sulla verità, quanto la verità ad aver bisogno di testimonianza espressa. Insomma, la testimonianza è fondamentalmente un’esperienza vissuta. Quando parliamo della testimonianza, ci stiamo rivolgendo verso qualcosa che è peculiare dell’umano: simbolizzare la propria vita, sforzandosi di essere sinceri davanti a sé stessi, è già di per sé un’opera di testimonianza. Essa è tale anche, 10

e soprattutto, perché necessita di comunicazione all’interno di un mondo che è ontologicamente abitato dalla dimensione politica della pluralità. In Vita activa, è Hannah Arendt a scrivere che E non perché l’uomo è un essere pensante, ma perché esiste solo al plurale, la sua ragione è anch’essa bisognosa di comunicazione e rischia di smarrire la rotta quando ne sia privata: in verità, come osservava Kant, la ragione non «è fatta per isolarsi, ma per comunicare».

La funzione di tale discorso senza voce — tacite secum rationare, secondo Anselmo di Canterbury, «ragionare silenziosamente con sé stessi» –è di venire a capo di tutto ciò che è dato ai sensi nelle apparenze quotidiane; il bisogno di ragione consiste nel rendere conto – logon didonai, come più esattamente dicevano i Greci –di tutto ciò che sia o che sia avvenuto. […] Dare un nome alle cose, la pura e semplice creazione di parole, è il modo dell’uomo di far proprio e, per dir così, disalienare un mondo al quale, dopo tutto, ognuno di noi è nato come nuovo venuto e come straniero1. 2. Il testimone L’espressione che indica l’uomo come uno straniero richiama esplicitamente un altro autore che ha scritto pagine fondamentali sullaConsiderotestimonianza.leseguenti

citazioni un esempio paradigmatico della letteratura morale intorno al tema in oggetto. Nelle seguenti righe, vengono chiarite espressioni come testimone obiettivo, partecipazione diretta, sincerità della testimonianza, partecipazione solidaristica nei confronti delle vittime. E dunque, nelle ultime, intensissime, pagine del romanzo La peste, Albert Camus scrive quanto segue: La nostra cronaca volge alla fine. È tempo che il dottor Bernard Rieux confessi di esserne l’autore; ma prima di riferire gli ultimi 11

A questo brano, già molto radicale, se ne aggiunge un altro subito dopo. In esso, Camus mostra i moventi, ossia ciò che spinge un testimone a testimoniare. E anche in questo caso, il movente non può essere altro che una formidabile quanto irresistibile spinta morale: Dal porto oscuro salirono i primi razzi dei festeggiamenti ufficiali. La città li salutò con una lunga e sorda esclamazione. Cottard, Tarrou, coloro e colei che Rieux aveva amato e perduto, tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati. Il vecchio aveva ragione, gli uomini erano sempre gli stessi. Ma era la loro forza e la loro innocenza, e proprio qui, al disopra d’ogni dolore, Rieux sentiva di raggiungerli. In mezzo ai gridi che raddoppiavano di forza e di durata, che si ripercuotevano lungamente sino ai piedi della terrazza, via via che gli steli multicolori si alzavano più numerosi nel cielo, il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che 12

avvenimenti, egli vorrebbe almeno giustificare il suo intervento e far capire come abbia voluto assumere il tono del testimone obiettivo. Per tutta la durata della peste il suo mestiere lo ha messo in grado di vedere la maggior parte dei suoi concittadini e di raccoglierne i sentimenti; era quindi nella migliore situazione per ripetere quello che ha veduto e sentito; ma ha voluto farlo col ritegno desiderabile. In maniera generale, egli si è adoperato a non riferire più cose di quante non ne abbia potuto vedere, a non prestare ai suoi compagni di peste pensieri che, in definitiva, essi non erano costretti a formulare, e a servirsi soltanto dei testi che il caso o la fortuna gli aveva messo tra le mani. Chiamato a testimoniare, in occasione d’una sorta di delitto, egli si è attenuto a una certa riserva, come si conviene a un testimone di buona volontà; ma nello stesso tempo, secondo la legge dei cuori onesti, egli ha preso deliberatamente il partito della vittima e ha voluto unirsi agli uomini, concittadini suoi, nelle sole certezze che avessero in comune, ossia l’amore e la sofferenza e l’esilio. Di modo che non vi è nessuna angoscia dei suoi concittadini che lui non abbia condivisa, nessuna situazione che non sia stata anche la sua2.

3.Il successo storico e il silenzio Nell’orizzonte della Peste camusiana, esiste dunque un nesso strettissimo fra la testimonianza e i flagelli. Ovviamente, ciò non va assolutizzato. È chiaro che si può testimoniare tanto il male quanto il bene, eppure c’è qualcosa, dal punto di vista storico, che rende più urgente la testimonianza del male rispetto a quella del bene. In un certo senso, è come se i vincitori non avessero bisogno di testimoniare o, meglio, è la loro medesima presenza a testimoniare per loro. In questa luce, ciò dovrebbe indurci una forte diffidenza nei confronti dei testimoni che hanno vinto. Se credessimo che il successo sia l’unica forma di legittimazione dell’azione testimoniale, noi non crederemmo davvero alla realtà della testimonianza. Non si crede alla testimonianza, infatti, quando gli unici testimoni che interroghiamo – o di cui disponiamo – sono coloro che hanno vinto. Io credo che, su questo punto, occorra essere guardinghi rispetto a una certa tradizione hegeliana o, più in generale, di realismo politico secondo cui Die Weltgeschichte ist das Weltgericht (la storia del mondo è il tribunale del mondo). Se guardassimo alla storia del mondo tenendo conto soltanto del suo lato divenuto, realizzato, passato in essere, ignoreremmo un dato fondamentale, ossia che la testimonianza più importante fra tutte è proprio quella di chi non ha più voce per poterla esprimere. Su questo punto, vorrei richiamare uno dei grandi testimoni del secolo scorso. È Primo Levi a scrivere quanto segue: 13

qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”3.

Lo ripeto, non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. È questa una nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni.

Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto, ma sono loro, i «mussulmani», i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione”4 Se, come credo, qui Levi ha toccato il punto vero, bisogna allora riconoscere che il martire – da cui anche la radice greca della testimonianza – è il testimone per eccellenza, ossia colui che attesta attraverso una scelta netta e non negoziabile le proprie convinzioni, a costo di rimetterci tutto: il testimone pone la libertà, e l’ideale che essa incarna, al di sopra della sua stessa vita. Però, appunto, tante libertà sono state soppresse insieme alle vite su cui si sostenevano. Occorre allora chiedersi quante opere dell’umano avrebbero potuto portare un contributo importante all’espressione generale e collettiva dello spirito? Eppure, di quelle opere, di quelle vite, di quelle peculiari capacità di vedere il mondo, non sapremo mai niente. In fondo, da un punto di vista quantitativo, la storia è fatta meno di possibilità realizzate che di possibilità espresse. Quelle possibilità erano tali perché si incarnavano nel corpo vivente di donne e uomini che hanno attraversato l’esistenza. Quegli esseri umani sono stati silenziati: a volte con l’esilio, a volte con il frastuono inascoltabile del conformismo, a volte addirittura con la morte. La loro passione ideale è rimasta invendicata, seppellita dal trionfo dei vincitori. La loro vita potenziale, le loro opere inespresse, si sono perdute nella notte del vuoto metafisico.

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4. Il vuoto d’esperienza

ARENDT HANNAH, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2018 CAMUs ALBERT, La peste, Milano, Bompiani, 2017 LEVI PRIMO, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 2015

2 ALBERT CAMUs, La peste, Bompiani, Milano 2017, ebook.

Bibliografia5

3 Ibidem 4 PRIMO LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 2015, ebook.

5 Per alcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 15

1NOTEHANNA ARENDT, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2018, ebook.

Il nostro tempo, però, ha l’arroganza di eternarsi in un istante che si pretende sempre giovane. Il main stream della nostra contemporaneità non si chiede se quell’eterno, artificialmente procurato, o stupidamente ostentato, non sia vuoto di vita, e proprio per questo è incapace di testimoniare il proprio passaggio nell’esistenza – non può che essere vuoto di vita un’eternità che non testimonia né protegge alcun tempo dentro di sé.

Nelle pieghe misteriose e abissali della mente, i ricordi possono apparire più vivi di quando gli eventi a cui la memoria si riferisce furono vissuti. Le rughe dei vecchi sono il segno e la testimonianza della loro vita. Le rughe e le parole dei testimoni costituiscono un vero e proprio testo che si tratta di decodificare. Il nostro tempo sembra aver dimenticato che l’esperienza del passato è vita condensata in uno sguardo, in una piega del volto o in un racconto. Il tempo in cui viviamo – e ciò è ancora più grave – sembra aver smarrito la capacità di imparare dalla storia. Presi dall’attimo presente, co-involti fino in fondo dall’esigenza indotta di consumare ed inquinare il mondo, abbiamo dimenticato che, soltanto nell’intelligenza e nella sensibilità degli uomini, la vita diviene più profonda, più densa e più vera.

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Danilo Campanella Il linguaggio del mondo istituzionale si è sempre arricchito di termini nuovi, di nuovi significati, di nuovi indirizzi, indicati dalle necessità del momento. Nel Dopoguerra si è fatta strada, anche nel nostro Paese, una visione politica di tipo strategico che arricchì, senza tuttavia sostituirla, una visione politica di tipo ideologico. Di strategia “pura” si fa riferimento quando si parla, ad esempio, sella politica degli Stati Uniti, i cui governi si avvicendano secondo una logica strategica e non politica in senso stretto.

Il sistema nordamericano ha permesso di imporre il proprio status quo sullo scacchiere internazionale, per lo meno, fino all’avvento della potenza cinese, senza per altro allargare i propri confini: gli Stati Uniti, infatti, attraverso un profilo istituzionale democratico, hanno tratto profitto dall’instabilità internazionale. Mi riferisco ai vari colpi di Stato, alle guerre tribali africane, al comunismo prima e al terrorismo islamista dopo. L’Italia, Paese che ha tratto vantaggio dall’aiuto degli Alleati, durante la fine della Seconda Guerra Mondiale, ha cercato, negli Anni Settanta, di indebolire le Sinistre estreme ed extraparlamentari, con grande sollievo del governo americano. Tuttavia, i processi politici hanno, a volte, un’evoluzione propria, non eterodiretta, e nel 1976 il Partito Comunista Italiano, non senza, bisogna dirlo, l’aiuto dell’URSS, guadagnò terreno rispetto alla Democrazia Cristiana, partito egemonico italiano. L’allora Presidente del consiglio Aldo Moro ritenne, a torto o a ragione, che un appoggio della DC alle Sinistre avrebbe tolto il PCI dalle “grinfie” dei sovietici, riportando la Sinistra a posizioni più centraliste. Il governo degli Stati Uniti, tuttavia, guardava con sdegno a questo “compromesso”, temendo un coinvolgimento della Russia, 17

TESTIMONIANZA

LA POLITICA. IL CASO DI ALDO MORO

allora Unione Sovietica, nel governo italiano, quest’ultimo, a sua volta, coinvolto negli affari NATO. Il Segretario di Stato americano Henry Kissinger, era sostenitore della strategia geopolitica della Realpolitik, durante le presidenze di Richard Nixon e Gerald Ford. Il “realismo kissingeriano” aveva condotto a una, sebbene precaria, fase di bilanciamento degli equilibri tra Washington e Mosca. Kissinger operava in funzione dei rapporti di forza e della de-ideologizzazione della relazione con Mosca, in un’ottica multipolare, che finì per costruire un sistema bipolare. Dopo la sua carriera universitaria, si era avvicinato agli ambienti politici grazie alla mediazione all’allora governatore di New York Nelson Rockfeller. A ventisette anni, studiò gli scritti di Spengler e Toynbee a proposito di declino della civiltà occidentale, esaminando il tema della coesistenza di una multipolarità d’imperi. L’Italia al termine della Seconda Guerra Mondiale era legata agli Stati Uniti e Aldo Moro, ispirato da principi cari alla filosofia personalista (Mounier, Maritain), intendeva ricondurre i ceti popolari italiani all’interno dei nuovi sistemi della politica di massa, nell’ottica di una Comunità Europea dei popoli, che potesse portare, col tempo, a un progetto continentale, in cui gli Stati Uniti d’Europa sarebbero stati guidati dai popoli stessi e non da “poteri forti” di qualsivoglia genere: Può essere ottenuta sul piano economico con la bilancia dei pagamenti fra l’Europa e l’America? Ci si domanda come si potrà arrivare a un equilibrio se si pensa che esisterà ovunque un eccesso di produzione (…) Da qui la necessità di trovare nuovi sbocchi nei terreni arretrati e insufficientemente sviluppati nel mondo itero (…) Si arriva dunque ad una concezione non soltanto europea, ma universale. Una concezione, inoltre, di natura sociale, un problema sociologico. Non è dunque la soluzione soltanto economica che ci porterà a quella politica; non è un problema soltanto economico. È una soluzione di giustizia sociale fra tutti i popoli del mondo. L’aspetto attuale è perciò un aspetto morale e di giustizia1.

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Aldo Moro approfondì la conoscenza delle fonti filosofiche personaliste partendo da Tommaso d’Aquino, anche attraverso l’incontro con l’Ordine Domenicano, nel quale entrò come appartenente al Terzo Ordine, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. Prendendo spunto proprio dalla definizione tomista, si arricchì di una concezione della personalità, fondata sulla trascendenza dell’intelletto e della volontà: il carattere personale dell’uomo diventa il fondamento della personalità di quei rapporti sociali che gli uomini stabiliscono tra loro, non solo per difendere i propri diritti, ma anche per favorire l’incremento della vita intellettuale, spirituale, morale e religiosa. Non è un caso se una tale concezione sia presente nell’art. 4 della Costituzione italiana, alla cui redazione Moro partecipò.Perlo statista, attraverso la tutela dei diritti fondamentali, si può aspirare a una società che permetta ampio spazio al confronto e alla collaborazione e in cui la legge sia uguale per tutti. Fra le diverse possibilità associative una supera tutte le altre in ampiezza e perfezione: la società civile, che in epoca moderna si definisce e si compie nella creazione dello Stato democratico, in cui la mediazione e l’inclusione svolgono i compiti più gravosi diventando i motori primi dell’agire sociale. L’innovazione morotea consiste in una laicità unita all’interesse per la cosa pubblica: laicità e politica sono un 19

La partecipazione dei corpi intermedi dello Stato (famiglia, associazioni, sindacati) era per Moro fondamentale affinché si mantenesse vivo il dialogo tra le parti, favorendo il dinamismo democratico ed evitando il rischio di una politica troppo rigida di regime. I corpi intermedi avrebbero permesso ai partiti di costituirsi in partiti programmatici, senza il rischio di divenire centri di potere. In tale processo il continuo dialogo tra i corpi intermedi si sarebbe sotituito alla mera ricezione dei “desideri” dei cittadini da parte degli uomini politici attraverso il dialogo, costituendo un sistema ciclico, spiraliforme, in contrapposizione ad uno piramidale.

tutt’uno, poiché per entrambe si abbisogna della “testimonianza”. Nel Discorso pronunciato ai Gruppi parlamentari DC il 28 febbraio 1978, egli parlò dunque della testimonianza politica e religiosa, che per lui non era un’“astratta coerenza”: La testimonianza è la cosa più pulita e quindi adatta a una coscienza cristiana [...] forse riscatta, con il suo valore spirituale, tante cose meno belle che ci sono nelle nostre esperienze. Ma, se io dovessi decidere in base alla difesa, che pur tocca a noi, di alcuni interessi, non grandi interessi, ma i normali, i legittimi interessi di questi 14 milioni di elettori, se io dovessi scegliere, per quanto riguarda la loro integrità, la loro difesa, ecco, io avrei anche qualche esitazione a scegliere la via della testimonianza2

C AMPANELLA DANILO, Aldo Moro. Politica, filosofia, pensiero, Roma, Paoline Editoriale, 2014 MORO ALDO, Discorsi politici, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1978

Bibliografia3

2 ALDO MORO, Discorsi politici, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1978, p. 190.

3 Per alcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 20

I due principali “attori” politici del dopoguerra, Moro e Kissinger, sono interpreti di due modi diversi di intendere la politica, il potere e, in definitiva, il postmodernismo. Due differenti testimonianze: Moro vedeva il potere come un mezzo, il secondo, lo intendeva inteso come il “fine”; un modo diverso di approcciarsi alla testimonianza, alla politica, alla vita.

1NoteALCIDE DE GASPERI, Discorso a conclusione del convegno delle Nouvelles équipes internationales, Sorrento, 14 aprile 1950.

GUERRA MEDIATICA E GUERRA REALE NELL’EPOCA DELLA

FulvioPOSTERITÀSguerso

Se anche in tempo di (relativa) pace le tecniche della manipolazione psicologica e della propaganda vengono continuamente e impunemente adoperate nell’agone politico, e non solo – basti pensare all’impiego delle tecniche di persuasione in campo giudiziario, commerciale e aziendale e all’importanza che aveva l’arte retorica, cioè del persuadere indipendentemente dal giusto o dall’ingiusto, per i sofisti nella Grecia del V secolo – si può ben comprendere la verità dello slogan (mi si passi il bisticcio): «La prima vittima di ogni guerra è la verità». Questo slogan, coniato da Eschilo e riproposto dal senatore statunitense Hiram Johnson nel 1917, dà comunque per certo che una verità esista e che la verità prevalga in tempo di pace. Ma è proprio questo il problema: esiste una sola verità o ne esistono molte; anzi, una, nessuna e centomila come nel romanzo di Pirandello? Il quale sembra ispirarsi al sofista Protagora, secondo cui tutto dipende dal parere di ciascuno: «Come sembra a me, tale è per me e come sembra a te, tale è per te» (cfr. Così è, se vi pare). Per l’autore dei Lógoi katabállontes «di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono»; siamo qui in presenza di un relativismo e soggettivismo assoluti: la realtà in sé è inconoscibile, ma ognuno, nella varietà e molteplicità dei suoi stati sensoriali e mentali, determina l’essenza delle cose. Ne deriva che nessuno può affermare il falso, dal momento che quello che sembra a ciascuno nel qui e nell’ora è certo; ne consegue anche che qualsiasi argomento può essere considerato da due punti di vista contrapposti ma entrambi veri: «La materia è fluttuante e, fluendo essa ininterrottamente, si verificano 21

Voi capite che, una volta eliminati i fatti, cioè la realtà, sarà impossibile distinguere il vero dal falso, la verità dalla menzogna, la cronaca dal commento e, insomma, la narrazione autentica dalla mera propaganda, soprattutto in tempo di guerra (cioè sempre, come dice il greco Mordo Nahum a Primo Levi in La tregua) e, per di più, nell’epoca in cui è tecnicamente possibile far passare una finzione per realtà e una realtà per finzione (ancora Pirandello). È chiaro a tutti che, parallelamente alla guerra reale sul terreno, si sta combattendo una guerra mediatica senza esclusione di colpi fatta di false notizie, di ricostruzioni storiche di comodo e di stereotipi atti a confermare nell’opinione pubblica interna ed esterna le buone ragioni e la giusta causa di chi combatte contro le mistificazioni e la disinformazia del nemico. In una recente intervista la scrittrice Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz, denuncia il suo sconforto nel constatare come l’evidenza dei massacri di civili inermi perpetrati dall’esercito russo in Ucraina, anziché sollevare un coro unanime di sdegno, animi invece crescenti dubbi e perplessità. Gli stessi che gli storici definiti “negazionisti” adottarono per provare a sconfermare l’esistenza traumatica della Shoah. Un recente manifesto che riunisce noti e autorevoli giornalisti invita a verificare le prove, procedere con cautela nella lettura dei fatti, attenersi al reperimento degli indizi certi prima di formulare giudizi e attribuire responsabilità. Quanti sono stati veramente i bambini uccisi? Le donne stuprate? Gli uomini torturati? I civili ammazzati? Davvero sono morti a centinaia sotto il teatro di Mariupol? Chi lo dice? Dove sono le prove? E di quali misfatti si sono macchiate le truppe ucraine? Quale è la responsabilità del governo di Kiev nel rappresentare a sua volta 22

aggiunte al posto delle perdite e le sensazioni mutano e variano secondo l’età e secondo le costituzioni del corpo di ciascuno». Sembra di leggere Nietzsche, per il quale, come è noto, non ci sono fatti ma solo interpretazioni, che è l’assioma su cui si basa il cosiddetto “pensiero debole” postmoderno di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti.

Prendiamo la posizione pacifista e neutralista di chi in buona fede sostiene che è inutile e addirittura dannoso per non dire anche immorale l’invio di armi all’Ucraina sotto il fuoco dell’esercito russo; come non capire che una posizione simile è musica alle orecchie di Putin? E, se le tesi dei pacifisti sono musica alle orecchie di Putin, figurarsi quelle di chi accusa la Nato e gli Usa di aver “costretto” la Russia a difendersi attaccando l’Ucraina in procinto di entrare anch’essa nell’Alleanza atlantica! Se questo non è filoputinismo, che cos’è? Ma guai a etichettarli come tali, sarebbe come insinuare che fungono da megafoni alla propaganda del Cremlino e, di conseguenza, da quinte colonne occidentali di Mosca; non per niente costoro sono insorti come un sol uomo quando il «Corriere della Sera» ha pubblicato in prima pagina, con tanto di foto segnaletica, una lista, peraltro incompleta, di filorussi italiani. Sintomatiche alcune risposte rilasciate da Michele Santoro –non compreso nella “lista di proscrizione” stilata (in verità con qualche approssimazione, non si è ancora capito se involontaria o volontaria) dal «Corriere» –intervistato dalla «Stampa» il 9 giugno 2022: “Sempre contrario all’invio delle armi? Certo, ci sono già gli Americani a farlo, sono otto anni che armano gli Ucraini. Davvero pensate che senza le nostre armi non si sarebbero difesi? I Paesi piccoli, senza scatenare guerre mondiali hanno sempre vinto contro i Paesi grandi. L’Afghanistan ha buttato fuori i russi, il Vietnam gli Usa. Dovremmo abbandonare gli ucraini al loro destino? Senza le armi americane gli Ucraini avrebbero scelto altri modi di combattere e non saremmo arrivati alla distruzione dell’Ucraina. 23

in modo solo propagandistico la verità? “(Massimo Recalcati, «La Stampa» dell’11 maggio 2022). A questo punto si pone la questione: “Èpossibile, con queste due (o tre, se consideriamo anche quella economica) guerre, quella sul terreno e quella mediatica in corso in cui ogni parola, ogni espressione facciale, ogni sospiro viene interpretato a favore degli uni o degli altri, evitare di fare propaganda anche involontaria?”.

Kiev e Mosca sparano e i cannoni, di una parte e dell’altra, seminano distruzione in una guerra infinita. Con la guerriglia non ci sarebbe stata. Ma quale guerriglia se Mosca ha bombardato Kiev? Se resisti in un certo modo, chi aggredisce alza il tiro e i morti aumentano. Ripetiamo pure mille volte che il responsabile è Putin, non li faremo resuscitare.

Ma vediamo in base a quali argomentazioni Michele Santoro si dissocia dal prendere posizione a favore di Zelensky e del popolo ucraino aggredito dai russi: 24

Non la spaventano le parole di Medvedev contro l’Occidente?

Sono parole di guerra, che peso possono avere? Servono a chi le pronuncia per presentarsi come un combattente indomito. Scenderebbe in piazza contro Putin? No, perché sarei allineato col 90% dei telegiornali, il 97% delle forze politiche e il 90% dell’informazione e della stampa. Sarebbero come le manifestazioni delle camicie nere a favore dell’intervento in Africa di Mussolini. Siamo in un regime fascista? Certamente no, ma nemmeno in una democrazia in buona salute.

Ecco qui in sintesi lo spaccato di questa nuova guerra civile italiana, per ora (e speriamo per sempre) soltanto ideologica: da una parte i “cobelligeranti” (o “guerrafondai”), dall’altra i filorussi o “putiniani”; ciascuna convinta di essere nel giusto, ciascuna con le proprie ragioni. Lo si constata assistendo all’incrocio delle armi retorico-dialettiche dei contendenti nei talk show televisivi dove non si verifica mai il caso che qualcuno venga con-vinto dalle argomentazioni dell’avversario (il che mi ha sempre lasciato perplesso e dubbioso circa l’utilità di queste schermaglie, quando non vere e proprie risse, verbali tra i partecipanti e talvolta con lo stesso conduttore o la stessa conduttrice. A meno di concludere con Massimo Recalcati che è solo una questione di audience, oltre che di dar voce alle rispettive propagande).

Torniamo alla questione posta all’inizio: esiste una verità oggettiva che non dipenda dai nostri desideri o dai nostri particolari interessi ma sia unica, anche in guerra, per tutti e per ciascuno?

2) La scelta di aiutare gli Ucraini a difendersi dagli aggressori russi anche con l’invio di armi equivale a una dichiarazione di guerra implicita e non fa che aggravare la situazione dell’Ucraina oltre a mettere a rischio anche noi che, fino a ieri, eravamo amici della Russia.

3) Non intendo allinearmi alla propaganda anti Putin della maggioranza dei media e della classe politica italiana asservita agli Usa e alla Nato (e sorvolo per carità di patria sul paragone con le camicie nere).Sequesta non è propaganda filorussa, che cos’è? Ci troviamo dunque di fronte a due propagande antitetiche senza poter dirimere la controversia appellandoci a un giudizio che le trascenda entrambe, dal momento che tanto i sostenitori della necessità di aiutare gli Ucraini anche con l’invio ulteriore di armi quanto i “pacifisti” e i neutralisti secondo cui ne abbiamo già inviato fin troppe sono convinti di essere dalla parte della ragione.

1) questa guerra non ci riguarda, è una guerra per procura di Biden contro Putin.

Insomma, dov’è la verità? Esiste o è un semplice flatus vocis?

Come già abbiamo detto, non è una questione astratta perché, se dessimo ragione al sofista Trasimaco piuttosto che a Socrate, dovremmo concludere che la verità, come la giustizia, appartiene al più forte in campo e a decidere non sarebbe la ragione ma la spada.

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Ecco, quindi, che possiamo veramente entrare nel merito di questa seconda accezione che riguarda lo stretto legame tra la parola greca M αρτυρέω (testimoniare), da cui martys in greco e martyr in latino. Quindi, il martire è colui che testimonia per eccellenza le proprie convinzioni, anche a costo della vita. E oggi 27

SOTHY E LA TESTIMONIANZA DELLA SCRITTURA COME PERMANENZA DENTRO E FUORI DI NOI

è una parola importante e altisonante che ci riporta a svariati ambiti, discorsi e argomentazioni che si perdono nella storia di tutti i tempi, di tutte le letterature e filosofie. Volendo seguire un filo abbastanza semplice, si può partire dall’etimologia della parola, che, come sempre, ci porta al centro del suo significato più vero. La prima accezione può essere fatta risalire alla derivazione dal latino: terstis - munus, cioè “chi sta terzo”, e quindi depone durante un processo, colui che ha il compito di riportare i fatti in base a riscontri razionali di ciò che viene affermato. Ma non solo: qui troviamo la parola munus, “dono che obbliga allo scambio” un pegno, un debito, quindi un dono da dare, non da ricevere, che chiama in causa l’onere di mettere in pratica le proprie parole con le proprie azioni. Chi è immunis, quindi, si ritrae da quest’obbligo di restituire. Il testimone acquisisce così una seconda accezione che si identifica con l’impegno o il compito di trasmettere certi contenuti sulla scorta di esperienze vissute e della loro stessa forza suggestiva. Quindi, in base non solo a ciò che si sa, ma a ciò che si esperisce, meglio ancora se ciò che viene testimoniato passa da un evento traumatico, che implichi sofferenza, e quindi un processo di evoluzione catartica, che risolva tutti i mali e che tocchi quelle corde ancestrali legate all’empatia umana.

Giulia Calamida

“Testimonianza”

non occorre essere agnelli sacrificali sull’altare religioso, siamo tutti un po’ martiri sugli altari dei nostri impegni quotidiani: martiri del lavoro, martiri della famiglia, martiri in amore.

Io credo che la scrittura sia quel veicolo che non fa altro che testimoniare fatti ed esperienze vissute, per cui chi legge si rispecchia nell’esperienza di chi scrive, per opera di quel processo di immedesimazione che coinvolge entrambe le parti, come in un’osmosi che esercita uno scambio reciproco, e in compenetrazione di esperienze, suggestioni, richiami. Ecco, quindi, la catarsi che riunisce il passato con il presente, ricompone le ferite e corregge gli errori, secondo un linguaggio universale, quello della conoscenza della realtà attraverso l’esperienza, che è democratica e paritaria, soprattutto nella distribuzione del dolore, che appartiene a tutti. La scrittura ne è un veicolo di divulgazione.

E Sothy vive proprio in un mondo che è già intriso di quella presa di coscienza a cui, idealmente, aneliamo. Attraverso la dimensione del sogno, dell’inconscio, lei vive la sua vita negli splendori dell’antica Angkor Wat della Cambogia a cavallo tra il dodicesimo 28

Sothy accompagnaaltri sette racconti riuniti nell’antologia Di Pari Passo, edita da Blitos (aprile 2022). Questi sono legati tra loro dal filo rosso della parità di genere, e ognuno di essi descrive con sfumature e sfaccettature differenti, storie di donne, ma anche di uomini, in cammino su strade difficili, scomode, dolorose, non giuste. E implicitamente, il quesito che sottende tutte le trame sembra sempre la stesso: i binari sociali e culturali su cui viaggiano queste vite, vanno di pari passo, scorrendo in maniera più o meno parallela? L’Uomo e la Donna, con tutto il loro ben distinto bagaglio biologico e culturale, saranno destinati a fondersi su un’unica linea di contatto, acquisiranno la stessa velocità di passo? Forse solo una presa di coscienza comune potrà cambiare le sorti delle protagoniste e dei protagonisti di Di Pari Passo, mettere in pace il presente con il passato, e ricostruire un futuro nuovo.

e tredicesimo secolo. Ma poi rinasce in nuovi corpi di donne che vivono in differenti contesti storici e sociali, alcuni molto meno felici e fortunati del suo.

Sothy è il punto di partenza, ma anche di ritorno. Si parte dal buono, dall’ideale che lei rappresenta: Sothy la commerciante di pietre preziose, Sothy la concubina e amante dell’imperatore, Sothy la ballerina che attraverso le sue movenze ripropone i valori eterni, della sua società, di un mondo ideale. Valori universali che rimarranno scolpiti indelebilmente nella pietra dei grandiosi templi della piana di Angkor e che tuttora testimoniano la magnificenza e la grandezza di quella cultura che riconosceva alla donna il suo ruolo sociale, economico, che ne celebrava la bellezza e la grazia. Ma da queste altezze bisogna per forza cadere in basso, attraversare il buio, vivere l’oblio, affrontare l’evoluzione. Così Sothy esperirà tutto questo nelle misere vite di cui sono protagoniste una bambina africana e una indiana, vittime di infibulazione e violenza sessuale, sacrificate nella loro innocenza e purezza, in epoche e contesti spaziali diversi, da un mondo arretrato, violento, becero, in cui i diritti delle minoranze non esistono. E l’oblio nel quale vengono relegate queste due povere vite è lo stesso per il quale l’arte cerca di ammonirci. Lo fa tutti i giorni attraverso la testimonianza dei solidi monumenti sacri, dei palazzi fastosi, delle pietre che riportano i balli e le scene del palazzo di corte, che rappresentano le danze eterne della stessa Sothy. Lo fa attraverso il nobile lascito dei nostri padri, che vogliono ricordarci il lato divino e le infinite potenzialità dell’essere umano. Lo fa ponendoci costantemente di fronte alla nostra grandezza di Uomini, in quanto artefici di opere megalitiche, eterne, sublimi, e quindi l’arte come testimone di valori eterni, cristallizzati al di là dello spazio e del tempo. Ma anche la scrittura testimonia, attraverso l’esperienza della donna Sothy, l’esperienza di tutti, perché Sothy racchiude questa consapevolezza dormiente di tutti 29

gli esseri umani, che si reincarnano di vita in vita, sotto diverse forme e in diversi tempi e luoghi, con diverse origini. E dà voce a chi non può averla. Al contempo, ho sperimentato che la scrittura testimonia e riflette anche l’esperienza di chi scrive. Dall’individuale al collettivo, il testimone si specchia in chi legge e viceversa, secondo un processo di riconoscimento innescato spesso dall’esperienza della sofferenza, arrivando quindi al risveglio di una coscienza collettiva. Sothy è un modello che si muove in un processo di inclusione di qualsiasi possibilità, inevitabilmente ammantato di dolore, che viaggia verso un’evoluzione della coscienza e dell’anima universale, che accomuna le persone, oltre le differenze di genere. Sothy è maschio e femmina, è ricca e povera, è amata e abbandonata, ma è “persona di valore”, come suggerisce il suo nome proprio, utilizzato in Cambogia per entrambi i sessi. Tutto torna ad essere Uno, attraverso la forza dell’inconscio, della connessione con un mondo altro. È l’Animus che si rispecchia nell’ Anima, secondo la teoria degli archetipi di Jung; il maschile si riflette nel femminile, il logos paterno come portatore del principio di ragione, giudizio, riflessione e differenziazione si fonde con l’eros materno, legato alle qualità femminili delle emozioni, dell’istinto naturale, della propensione alla relazione secondo un principio connettivo. È così, sempre secondo il nostro Jung, che questi due archetipi si possono manifestare internamente attraverso il Sogno, l’Immaginazione e le Visioni, oppure esternamente, attraverso la proiezione di sé stessi nell’incontro con uno dell’altro sesso. È un’esperienza morale del mondo e l’arte, quindi anche la scrittura, la rappresenta con suggestioni, senza per forza voler dimostrare. I simboli sono spesso strumento di questo linguaggio suggestivo, e ritornano in modo più o meno voluto anche in Sothy. E, se Anima e Animus si rendessero consapevoli di sé stessi, liberandosi dalla dominazione del loro Archetipo, riusciremmo ad 30

Gli interrogativi sono e rimarranno sempre aperti. Nel mondo della “maya’, che è il mondo di Sothy, che è il nostro mondo, sotto quel velo, convivono infiniti opposti, infinite tragedie, infinite contraddizioni, infinite isole alla ricerca di altrettante isole nelle quali ritrovare sé stesse, che si tendono la mano nel passaggio di quel testimone che, come nella staffetta, viene affidato di mano in mano con la stessa abilità e cura che usano gli atleti nello scambio del prezioso bastoncino, a tutela della memoria.

Bibliografia1 AA. VV., Di Pari Passo, Capannori (LU), Blitos Edizioni, 2022 1NOTAPeralcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica.

È quel munus che noi tutti, in quanto isole galleggianti sullo stesso mare, siamo chiamati a donarci l’un l’altro, fino all’agognato disvelamento della verità.

andare davvero incontro all’altro, a riconoscerne le differenze e a valorizzarle, creando quindi rapporti autentici, scevri da pregiudizi legati ad una visione distorta della propria interiorità? Un compito veramente arduo nelle moderne società, basate in particolare su principi patriarcali. Per dirla alla Jung, laddove l’individuo, infatti, si identificherà sempre più con la propria Maschera, là aderirà a quegli specifici stereotipi stratificati nei secoli, negli usi, nel linguaggio, riducendo così la voce della propria Anima.

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In una delle sue ultime opere, La memoria, la storia, l’oblio, Paul Ricœur muove da una configurazione della testimonianza come di un “atto linguistico” vero e proprio, nel senso che, in essa, l’asserzione di realtà, in cui di fatto consiste, fa tutt’uno con il gesto di autodesignazione del soggetto testimone1.

Da questo accoppiamento procede la formula tipo della testimonianza: io c’ero. Ciò che viene attestato è indivisibilmente la realtà della cosa passata e la presenza del narratore sui luoghi dell’occorrenza. Ed è il testimone a dichiararsi, innanzitutto, come testimone. Egli nomina sé stesso2. Nella formula «io c’ero», abbiamo, infatti, tre elementi dotati di un profilo spiccatamente deittico e ostensivo: la prima persona del singolare, il tempo passato del verbo, nonché la menzione di una scena passata che viene rievocata in rapporto a una situazione presente.

Il gesto di autodesignazione si inscrive poi entro una cornice dialogale, perché è sempre davanti a qualcuno che il testimone attesta la realtà di un qualcosa cui dice di aver assistito, da attore o da vittima, ma in ogni caso in qualità di terzo rispetto ai veri protagonisti dell’azione. Di un terzo che, poiché viene in tutti i sensi “interpellato”, non mette mai in mostra primariamente sé stesso, ma dice piuttosto: “eccomi!”3 33

LA TESTIMONIANZA COME PRINCIPIO ETICO E SOCIALE IN PAUL RICŒUR Giuseppe D’Acunto

1. La testimonianza come “atto linguistico” e come istituzione

[…] si trova così in una posizione intermedia tra una constatazione fatta da un soggetto e una credenza assunta da un altro soggetto in fede della testimonianza del primo4.

Per questo motivo, l’importanza affettiva di un avvenimento capace di colpire il testimone […] non coincide necessariamente con l’importanza che a esso annette il ricettore della testimonianza5.

Ora, proprio questa struttura dialogale della testimonianza è ciò da cui discende direttamente la sua dimensione fiduciaria. Il testimone chiede, infatti, di essere creduto. Pertanto, non si limita solo a dire: «io c’ero», ma, in più, aggiunge anche: «credetemi», così che la testimonianza viene, in tal modo, non soltanto certificata, ma anche Laaccreditata.testimonianza

Da non lasciarsi sfuggire è, inoltre, il fatto che nel gesto di autodesignazione affiora pure un’altra cosa: «l’inestricabile opacità di una storia personale» che si trova coinvolta, essa stessa, nel complicato intreccio di altre storie.

Ricœur sta qui dicendo che, prima di parlare e di essere ascoltato da qualcuno, il testimone ha «visto, sentito, provato», ossia è stato «impressionato, colpito, scioccato, ferito, in ogni caso raggiunto e toccato dal fatto», per cui ciò che il suo dire trasmette e che può anche non essere recepito a dovere da altri, è un qualcosa che riguarda innanzi tutto proprio questo suo «esser-impressionato da», ossia l’«impronta del fatto […], anteriore alla testimonianza stessa […], impronta […] che comporta una faccia di passività, di pathos, [un] tratto “patico”6.

Dicevamo del fatto che la testimonianza non soltanto certifica qualcosa, ma chiede anche un’accettazione, da parte di altri, di ciò che essa stessa certifica. Ebbene, è esattamente qui che si apre l’alternativa tra affidabilità da accordare al testimone, da un lato, e so34

Ricœur nota come è proprio questo tratto ciò che apparenta la testimonianza alla promessa e, più precisamente, «alla promessa che sta prima di ogni promessa, quella di mantenere la propria promessa, di mantenere la parola»10. Questa struttura stabile della disposizione a testimoniare fa della testimonianza un fattore di sicurezza nell’insieme dei rapporti costitutivi del legame sociale; […] fa della testimonianza un’istituzione. […] [Un’] istituzione naturale11. In altre parole, ciò che costituisce un’istituzione è dato, innanzi tutto, proprio dalla «stabilità della testimonianza», nella misura in cui essa può essere reiterata, nonché dal contributo che la sua affidabilità «apporta alla sicurezza del legame sociale, in quanto questo riposa sulla confidenza nella parola altrui». 35

spetto da nutrire verso quel che egli dice, dall’altro7. Ma proprio questa possibilità di sospettare dischiude, a sua volta, un ampio «spazio di controversia», tale che, all’interno di esso, molte testimonianze e molti testimoni possono essere messi a confronto: «spazio [che] può essere qualificato come spazio pubblico»8.

Non c’è “vero” testimone senza “falso” testimone. […] [N]on c’è altro rimedio contro la falsa testimonianza che un’altra testimonianza più credibile, e non c’è altro rimedio contro il sospetto che una attestazione più affidabile9. In tal modo, il testimone aggiunge una terza clausola alle due, da noi, già incontrate in precedenza. Dopo «io c’ero» e «credetemi», abbiamo ora: «se non mi credete, chiedete a qualcun altro». Accade così che la dimensione fiduciaria della testimonianza viene corroborata da un’istanza di ordine morale supplementare, destinata a rafforzarla dal lato dell’affidabilità e della credibilità: la disponibilità del testimone a reiterarla nel tempo.

Ma anche in un altro senso la reiterabilità che caratterizza la testimonianza è ciò che le conferisce lo statuto dell’istituzione. Essa, infatti, per quanto è originariamente orale e va quindi ascoltata, intesa, può essere successivamente raccolta per iscritto, depositata.

Entro la cerchia dei membri di una comunità, la fiducia nella parola altrui rafforza così non soltanto la reciprocità, ma, attraverso lo scambio delle confidenze, anche la somiglianza, dove, in particolare, è proprio la prima ciò che promuove e consolida in ognuno di noi la presupposizione di un mondo comune ossia la percezione di essere uomini che esistono in mezzo ad altri uomini.

Tale legame a base fiduciaria si estende poi a tutti i rapporti interpersonali di scambio, a tutti i contratti e patti e, col tempo, si consolida come un vero e proprio habitus, così che «il credito accordato alla parola altrui fa del mondo sociale un mondo intersoggettivamente condiviso»: «condivisione [che] è la principale componente di quello che possiamo chiamare “senso comune”»12.

Un passaggio, questo, che è naturale alla testimonianza, in quanto essa, implicando, fin dalla sua origine, una certa distanza dall’evento riferito e iscrivendosi, perciò, in quella sfera che Ricœur definisce come «quasi empirica»13, si costituisce, fin da subito, come narrazione, racconto: racconto che opera un transfert, una conversione, dal piano dell’instabilità delle cose viste al piano della permanenza delle cose scritte. Nasce così l’operazione di archiviazione, attraverso la quale, con l’imporsi della scrittura, l’attività storiografica fa il suo ingresso in essa.

2. La testimonianza come promessa In precedenza, abbiamo visto come Ricœur accomuni la testimonianza alla promessa, in base al fatto che ciò da cui l’una e l’altra traggono la loro dimensione fiduciaria è dato dall’«impegno» di mantenere la parola in tutte le circostanze. Più precisamente, en36

che il beneficiario di una promessa può essere visto anche come un testimone, Ricœur ne trae lo spunto per approfondire l’analogia che corre tra promessa e testimonianza. Certamente, la seconda, a differenza della prima, consiste in un’attestazione con cui si intende asserire la realtà fattuale dell’evento riferito. Tuttavia, nella fase di autenticazione di una deposizione in tribunale, ad esempio, si dà sempre un richiamo al comportamento ordinario del testimone ossia a ciò che, in rapporto alla promessa, si chiama affidabilità.MaRicœur

[P]uò […] capitare che la testimonianza faccia ricorso alla promessa, qualora venga richiesto al testimone di rinnovare la propria deposizione. Il testimone è così colui il quale promette di testimoniare di nuovo17. Ecco, dunque, in che modo la dimensione fiduciaria, comune tanto alla testimonianza quanto alla promessa, nella misura in cui «si estende ben al di là della circostanza del loro esercizio», può essere vista come ciò che sta a fondamento delle istituzioni umane, in generale, e dell’istituzione del linguaggio, in particolare. Linguaggio la cui pratica usuale ingloba in sé «una tacita clausola di sincerità 37

trambe sono due “atti linguistici” 14 il cui esercizio presuppone un’istanza morale originaria.

[O]gni singola promessa riceve la propria credibilità, nei confronti del beneficiario e del testimone della promessa stessa, dalla affidabilità abituale che si ricollega alla promessa prima della proOra,messa15.dalfatto

coglie non solo delle affinità fra promessa e testimonianza, ma afferma, in più, anche che la seconda, «in una delle sue fasi, implica [sempre] un momento di promessa»16. Il che si verifica proprio quando – lo abbiamo già visto in precedenza – al testimone in un processo viene richiesto di rinnovare la propria deposizione.

RICŒUR PAUL, Percorsi del riconoscimento. Tre studi (2004), a cura di F. Polidori, Milano, Cortina, 2005, p. 147

BRUNO ANGELO, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricœur, Milano-Udine, Mimesis, 2013

RICŒUR PAUL, L’ermeneutica della testimonianza (1972), in Id., Testimonianza, parola e rivelazione, a cura di F. Franco, Roma, Dehoniane, 1997, pp. 73-108

RICŒUR PAUL, Sé come un altro (1990), a cura di D. Iannotta, Milano, Jaca Book, 1993 R ICŒUR PAUL , Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato (1998), tr. it. di N. Salomon, Bologna, il Mulino, 2004

e, se così si può dire, di carità», «clausola» che trova espressione nel principio: «io voglio davvero credere che tu intendi proprio ciò cheLadici»18.promessa, per Ricœur, si coniuga infine anche con il perdono e chissà se, viste le analogie che corrono fra essa e la testimonianza, non si possa arrivare a dire che anche quest’ultima è, in fondo, una forma di perdono. E ciò proprio in virtù del radicamento profondo dell’una e dell’altro nella dimensione etica della «carità».

AUSTIN JOHN L., Come fare cose con le parole. Le «William James Lectures» tenute alla Harvard University nel 1955 (1962), ed. it. di C. Penco e M. Sbisà, tr. it. di C. Villalta, Genova, Marietti, 1987

RICŒUR PAUL, La memoria, la storia, l’oblio (2000), a cura di D. Iannotta, Milano, Cortina, 2003

S EARLE J OHN , Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio (1969), tr. it. di G. R. Cardona, Torino, Bollati Boringhieri, 1976 38

Bibliografia19

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8 PAUL RICŒUR, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 231. Al riguardo, PAUL RI CŒUR, L’ermeneutica della testimonianza, op. cit., sottolinea il fatto che, poiché la maggior parte delle cose umane sta sotto il segno della controversia, noi possiamo mettere a punto un giudizio o prendere una decisione solo dopo un dibattito, «un confronto tra opinioni avverse e punti di vista opposti». In tal senso, l’umano è il dominio del «probabile», il quale «non è afferrato se non attraverso una lotta di opinioni» (p. 79).

1NOTECirca il riconoscimento della testimonianza come “atto linguistico”, Ricœur è stato preceduto da JOHN. L. AUSTIN, Come fare cose con le parole. Le «William James Lectures» tenute alla Harvard University nel 1955 (1962), ed. it. di C. Penco e M. Sbisà, tr. it. di C. Villalta, Marietti, Genova 1987. Qui, il filosofo inglese opera un richiamo alla legge americana sulla testimonianza, dove il resoconto, da parte di qualcuno, di un fatto avvenuto viene riconosciuto come una prova processuale equiparabile non tanto a «qualcosa che egli ha detto», quanto a «qualcosa che egli ha fatto», ossia a «una sua azione» (p. 16).

9 PAUL RICŒUR, Sé come un altro, op. cit., p. 99, in PAUL RICŒUR, L’ermeneutica della testimonianza, op. cit., ciò che fa la differenza tra il testimone falso e quello veritiero e fedele è «l’impegno (engagement) del testimone nella testimonianza», visto come «il punto fisso intorno al quale ruota l’insieme del significato» (p. 85).

3 Cfr. PAUL RICŒUR, Sé come un altro (1990), a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993, p. 99. Sul testimone come colui che «non si limita a testimoniare che…, […] ma testimonia [anche] per…, […] a…», cfr. PAUL RICŒUR, L’ermeneutica della testimonianza (1972), in Id., Testimonianza, parola e rivelazione, a cura di F. Franco, Dehoniane, Roma 1997, pp. 73-108, il quale aggiunge: «Il testimone è capace di soffrire e di morire per ciò che crede». In questo caso, egli «cambia nome: si chiama martire. Ma cambia [veramente] di nome? μάρτυς, in greco, è testimone» (p. 83). 4 Ivi, p. 77.

5 PAUL RICŒUR, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 230.

7 A proposito di questa alternativa, Ricœur, in ivi, scrive che il contrario dell’affidabilità «non è il dubbio, nel senso strettamente epistemico del termine, bensì il sospetto», cosa che fa sì che la verità storica sia un qualcosa che rimane sempre «in sospeso, plausibile, probabile, contestabile, insomma, in continua ri-scrittura» (p. 19).

6 PAUL RICŒUR, Ricordare, dimenticare, perdonare L’enigma del passato (1998), tr. it. di N. Salomon, il Mulino, Bologna 2004, p. 18.

2 PAUL RICŒUR, La memoria, la storia, l’oblio (2000), a cura di D. Iannotta, Cortina, Milano 2003, p. 229. Per una ricostruzione più completa dei molteplici aspetti in cui si articola il tema dell’attestazione e della testimonianza, in Ricœur, cfr. ANGELO BRUNO, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricœur, Mimesis, Milano-Udine 2013.

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40

10 PAUL RICŒUR, La memoria, la storia, l’oblio, op. cit., p. 231. Ivi, pp. 231-232. Ivi, p. 232.

15 PAUL RICŒUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi (2004), a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005, p. 147. 16 Ivi, p. 148. 17 Ivi, p. 149. Ibidem

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13 PAUL RICŒUR, L’ermeneutica della testimonianza, op. cit., p. 77.

14 Per una considerazione della promessa come di un caso paradigmatico di “atto linguistico”, cfr. JOHN SEARLE, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio (1969), tr. it. di G. R. Cardona, Bollati Boringhieri, Torino 1976.

19 Per alcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica.

18

PIANI NEI PIANI: IL RAPPORTO TRA DUNE DI

La citazione che dà il titolo al mio intervento, contenuta nel capitolo 25, ci fornisce una prima conferma di queste intuizioni. Lady Jessica, madre del protagonista, sta fuggendo insieme al figlio. Solo delle frecce luminose li guidano, «un’altra freccia indicò la via davanti a loro. La superarono e la freccia si estinse, mentre una terza si accese. Ora stavano correndo. “Piani nei piani nei piani” pensò Jessica. “Siamo forse parte del piano di qualcun altro?”».

Questa citazione riecheggia ironicamente un’osservazione del Barone Vladimir Harkonnen, il feroce avversario della Casa Atreides, 41

Brian Herbert intuisce, quindi, che le grandi tragedie shakespeariane sono una delle influenze fondamentali, in particolare a livello formale, della vicenda tragica di Paul Atreides, dove la volontà non può nulla contro le forze più potenti ed irrazionali che albergano e trascendono l’animo umano.

FRANK HERBERT E WILLIAM SHAKESPEARE Massimo Moro Dune di Frank Herbert è uno dei romanzi che ha plasmato il genere fantascientifico; William Shakespeare è probabilmente il più grande drammaturgo occidentale. Come possiamo sintetizzare il rapporto tra questi due autori? La biografia scritta dal figlio Brian Herbert (Dreamer of Dune) offre un eccellente punto di partenza per questa breve indagine: «quando, in Dune, Frank Herbert scriveva di [...] “piani dentro i piani dentro i piani”, il suo linguaggio ricordava il Riccardo II» (II, III, 87): Fammi grazia della grazia, lascia stare lo zio. Non faccio da zio ai traditori, e la parola “grazia” in una bocca disgraziata mi sa di bestemmia.

contenuta nel secondo capitolo. Di fronte al piano orchestrato dal suo mentat deviato Piter de Vries, il Barone impone al nipote FeydRautha di ascoltare attentamente e di osservare «come i piani s’incastrino nei piani, in altri piani». In questi due passaggi del romanzo possiamo cogliere la profonda influenza su Frank Herbert del Bardo dell’Avon, in particolare grazie alle splendide traduzioni curate da Nemi D’Agostino (19241992), finissimo anglista, curatore per Garzanti delle Opere complete di Shakespeare, che ci ha lasciato magistrali analisi del teatroInshakespeariano.particolare,Nemi

d’Agostino definisce “la grande tragedia” come un modello formale, insieme letterario e teatrale, in cui un mondo drammatico costituito dai “sottomondi” dei personaggi –sottomondi cui appartengono tutti i sentimenti, le affermazioni, i giudizi e i valori che si trovano nel testo – e che consiste nel rapporto conflittuale di questi sottomondi, viene mostrato e non dimostrato […] non è veicolo di tesi o messaggi. […] Il mondo della tragedia si sottrae a ogni spiegazione che non possa venire contraddetta da un’altra, appare estraneo a ogni certezza, a ogni dogma e sistema di valori, nemico della logica che pretenda di essere l’unico canale della conoscenza... Questa è la visione tragica quale si manifesta nella tragedia ma in seguito anche in altre forme letterarie, per esempio nella narrativa […] di Dostoevskij... Ciò che l’autore tragico ci trasmette è il suo senso tragico del mondo.

I tre tragici greci che conosciamo incominciarono a essere fraintesi o contrastati già in vita […] e non furono più capiti quando, al volgere del V secolo, tramontò in Grecia l’immaginazione tragica insieme alla congiuntura che l’aveva resa possibile.

Tuttavia […] il senso del tragico s’iscrisse nella lunga durata della storia […] europea, per riemergere non appena glielo permettesse una nuova congiuntura favorevole […] Solo in Inghilterra […] trovo! la possibilità di riemergere […] Ciò avviene […] soprattutto ad opera di Shakespeare. E questa congiuntura presenta molte analogie con quella dell’Atene periclea. Anche il teatro in42

E certamente Dune nasce da un’analoga congiuntura storica, in cui riemerge un’immaginazione tragica analoga a quella di Shakespeare.Come non cogliere nei piani nei piani intuiti da Lady Jessica e sui quali punta il Barone Harkonnen, ingannandosi nel momento in cui sembra assaporare la vittoria futura, la stessa ironia tragica, lo stesso genio crudele che Nemi D’Agostino, tra gli altri, riconosce in Shakespeare?

glese nasce come una grande esperienza di riflessione sul reale, libera dalla tirannia della ragione e da quella della fede...

Suggestiva, in questo senso, è l’analisi di Dune svolta da un grande esperto di fantascienza quale è Alessandro Pin: egli propone la tesi che nel romanzo la narrazione è al servizio di un contesto deterministico […]. La preveggenza in dono a Paul non sempre è conclusiva; non perché la realtà non funzioni in modo deterministico, ma a causa dell’elevato numero di variabili. […] Per capire ciò, Frank Herbert suggerisce che la chiave di lettura […] è il principio di indeterminazione di Heisenberg: il dispendio di energia, che rivela a Paul ciò che vede, cambia inevitabilmente ciò che sarà […] il punto critico ed è […] come Paul cerchi costantemente di rompere la sua profetica visione e, alla fine, altro non possa fare che arrendersi alla sua predestinazione... Da ciò, il paradosso del determinismo, dovuto all’incertezza, che rende la narrazione oltre modo intrigante. Dune trasmette una seria mo43

I personaggi di Herbert, con enorme sofferenza, si assumono la responsabilità di colpe che non potevano non commettere. Di questa necessità non sono coscienti come non lo è nessun eroe tragico, nemmeno quando intuiscono di essere nelle mani del destino. Piano umano e piano soprannaturale, destino e libertà sono grandi temi sia di Shakespeare sia di Herbert. Come conciliarli rimane anche in Herbert un quesito senza risposta. Anche le imprese di Paul Atreides e degli altri protagonisti del ciclo duniano saranno, come per Macbeth o Agamennone, ambiguamente vinte e perdute.

Un’analisi mirabile, dalla quale però vorrei distaccarmi, poiché isola Herbert dalla lunga durata culturale del senso del tragico espresso, in particolare, da Shakespeare: non è indispensabile ricorrere in Herbert all’indeterminismo influenzato da Heisenberg per spiegare la sua particolare visione, insieme classica e moderna (quindiHerbert,originale).davero

artista, mostra i suoi personaggi mentre parlano e agiscono, senza preoccuparsi di mettere loro in bocca o far loro impersonificare una sua tesi o una sua morale, liberi di agire nel palcoscenico della sua Storia futura, ma spinti da forze che non comprendono o, al massimo, intuiscono, come già furono i personaggi creati dal Bardo. In Herbert, come anche in Shakespeare, non troviamo una risposta soddisfacente, se non sul piano estetico, al dilemma che l’umanità affronta da secoli tra carattere e destino, tra libero e servo Illuminante,arbitrio.aquesto proposito, è il principio della doppia motivazione, per cui l’azione dell’uomo può dirsi libera e insieme eterodiretta, come proposto dallo studioso delle religioni Rudolph Otto.

rale sulle conseguenze previste e impreviste a seguito delle scelte compiute dai personaggi.

Vale per gli eroi shakespeariani come per gli eroi herbertiani. Paul Atreides, nei primi tre romanzi del ciclo di Dune, vive una crescita, ambigua e complessa – ma profondamente umana – da giovane erede di una casa feudale a orfano fuggiasco in disgrazia; si trasforma da eroe ribelle a leader carismatico di una sanguinosa crociata, con il segreto scopo di evitare la distruzione dell’umanità; come un nuovo Edipo, accecato dai suoi avversari e guidato solo dalle sue visioni che si stanno spegnendo, si esilia nel deserto, tuonando contro l’aberrante dinastia teocratica da lui stesso concepita, come un futuristico Re Lear, e condannando il figlio, ultima sua guida nella vendetta finale, a un destino mostruoso, che lui stesso non ha saputo accettare, per salvare l’umanità. 44

Sono temi tragici che Herbert, riprendendo la lezione shakespeariana, sviscera da par suo e che raggiungono l’apice in L’Imperatore Dio di Dune, vero capolavoro dell’autore e trampolino verso quello che, in altra occasione, ho già definito «il finale (non) aperto del ciclo di Dune».

Questo strumento stilistico serve a dimostrare come il personaggio sia arrivato ad uno stadio cosciente tanto da essere in grado di verbalizzare l’accaduto. Non a caso […] i passaggi […] sono in prima persona singolare e al tempo presente. Tra questi due modi stilistici ne emerge un terzo, una forma narrativa che tenta di presentare la consapevolezza dei personaggi at45

A livello linguistico e formale ci sono molti elementi che accomunano e che avvicinano Dune a quella polifonia che è intrinseca a Shakespeare. Ci aiuta in questo la notevole tesi di laurea su Dune, svolta da Silvia Bernardini, nell’anno accademico 1993-1994. Silvia Bernardini ci ricorda che in Dune […] da un punto di vista formale, troviamo tre stili narrativi: il discorso diretto, il discorso indiretto, ed una forma che potremmo definire di discorso quasi-diretto. Questi tre stili si integrano perfettamente nell’insieme, in quanto Herbert si pone come narratore omnisciente non solo nei confronti della storia ma anche nei confronti dei singoli personaggi. È come se ogni singolo stile narrativo presentasse, nel suo piccolo, una sorta di risveglio della consapevolezza.Unprimo stile narrativo, che potremmo definire descrittivo, è quello che più resta obiettivo nei confronti dell’evolversi della trama. È il discorso indiretto, cioè la descrizione costante di fatti ed avvenimenti. […] Un altro stile presente è quello del monologo. […] Generalmente […] quando un autore presenta questo tipo di narrazione, sposa la filosofia del suo personaggio e ne riporta i pensieri quasi in esclusiva rispetto agli altri. Non è invece il caso di Herbert, il quale non riporta i pensieri di un unico personaggio, ma riporta tutti quei pensieri che possono via via aiutare il lettore a comprendere il corretto evolversi dei fatti.

questi tre interagiscono tra di loro quasi a creare forme espressive nuove dove intervengono non solo aspetti verbali della comunicazione ma anche, e in alcuni casi soprattutto, aspetti non verbali. Questa interrelazione è bene evidenziata in una scena particolare del romanzo. Subito dopo l’arrivo degli Atreides su Arrakis, Jessica decide di organizzare una cena di benvenuto. […]

Nel dettaglio, la scena è esemplificativa […] specialmente per come i significati vanno a definirsi nei confronti del contesto linguistico in cui vengono prodotti e degli atteggiamenti non verbali ad essi correlati. […] Herbert come narratore omnisciente non solo riesce a descriverci la scena così come essa appare, ma riesce a descriverla così come essa viene effettivamente vissuta attraverso Jessica. Inoltre, si vede anche bene come i discorsi dei personaggi, malgrado abbiano un’apparenza generica, siano in costante riferimento con due dei maggiori temi conduttori di Dune: ecologia e religione. […] Sulla base di questo riusciamo anche a capire le idee dei personaggi di contorno, anche se questi non vengono mai esplorati nel dettaglio. […].

traverso fatti verbalmente inespressi. Si attua cioè una forma di correlazione tra i pensieri di un personaggio (in prima persona singolare e al tempo presente), l’espressione di tali pensieri, una conseguente reazione non verbale di altri personaggi, ed eventualmente una verbalizzazione da parte di uno dei reagenti […] secondo un’analogia che dovrebbe chiarire le idee, il linguaggio che userebbe uno spettatore di teatro per spiegare a terzi i contenuti di un Naturalmentemonologo.

C’è dunque da chiedersi quale sarà il punto di vista condiviso dal lettore. La scena del banchetto di per sé può essere interpretata diversamente, a seconda del grado di attenzione con cui viene letta... Però, il riportare i pensieri di Jessica […] implica un coinvolgimento da parte del lettore. Non è come leggere un libro, ma […] è come essere seduti in teatro ed assistere ad una rappresentazione. È questa partecipazione che impone un attimo di riflessione al lettore. Il lettore […] è chiamato soprattutto a far parte di un conte46

sto come osservatore, quasi come personaggio di contorno che partecipa anche se passivamente alla scena...

E dunque la struttura linguistica di Dune, che si presenta così complessa ed articolata, rispecchia e contemporaneamente determina la complessità di una trama che si svolge per piani dentro ai piani, dentro ai piani: “Piani nei piani nei pianiò penso! Jessica. “Siamo forse parte del piano di qualcun altro?”. Il linguaggio in Dune, dunque, presenta delle peculiarità, ed è cosa abbastanza ovvia, se pensiamo che per Herbert la scrittura è soprattutto un mezzo per far riflettere i propri lettori. […] Al di là degli scopi estrinsechi ed intrinsechi dell’opera, Dune si presenta come un’opera linguisticamente molto articolata, senza per questo risultare frammentaria, in cui coerenza narrativa e linguistica procedono di pari passo. Anche nella tesi di laurea di Silvia Bernardini riemergono i piani nei piani nei piani da cui siamo partiti. E tornano in relazione a un’analisi del linguaggio herbertiano che trova notevoli legami con la complessità del linguaggio con cui si esprimono i personaggi delle maggiori tragedie shakespeariane. Non dimentichiamoci che, nel Macbeth, troviamo una famosa scena del banchetto che ha sicuramente influenzato il maestro di Tacoma.

Ulteriore conferma dell’assunto del mio intervento si trova nel recente mastodontico saggio Dune. Tra le sabbie del mito a firma del grande Filippo Rossi, al quale dedico con profonda ammirazione questo mio intervento. In particolare, leggiamo che Frank Herbert sa inserirsi a testa alta nel flusso artistico che […] i testi dell’inglese William Shakespeare rielaborano... L’Universo di Dune […] è caratterizzato dalla vaga consapevolezza del degrado, ma dall’impossibilità di porvi rimedio […] uomini e donne […] sono schiacciati dall’assenza di valori e sostenuti dalla sola ricerca della sopravvivenza. Ogni figura è un universo e tutti questi universi sono in lotta tra loro, senza soluzioni certe per i problemi 47

può valere, quindi, quanto già scritto da Nemi D’Agostino su Shakespeare: il grande artista è come un uomo strabico. Un occhio guarda al futuro, e l’altro agli archetipi in fondo al breve passato umano. Egli è! originale in due sensi, quello comune e quello per cui sa tornare alle origini.

che vivono. È pura tragedia […] i dogmi […] si fanno da parte […] per lasciare il campo […] alle contraddizioni. Nessuno si conosce sul serio, libertà e responsabilità sono […] dubbi sui dubbi […] lo stesso Uomo è mistero, ancora più imperscrutabile vista la doppia natura di […] naturale e sovrannaturale. L’eroe tragico, nella finzione […] fa da ponte ingiudicabile tra l’immanente […] e il Anchetrascendente...perHerbert

Bibliografia1 HERBERT FRANK, Dune, Roma, Fanucci Editore, 2019 HERBERT FRANK, L’imperatore-Dio di Dune, Fanucci Editore, 2015 ROSSI FILIPPO, Dune. Tra le sabbie del mito, Viterbo (VT), Edizioni NPE, 2021 SHAKESPEARE WILLIAM, Macbeth, a cura di N. D’Agostino, Milano, Garzanti, 2016 1NOTAPeralcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 48

Si vuole con questo rimarcare la necessità che nelle aule giudiziarie non possa essere prestata testimonianza de relato (ovvero riferire di fatti di cui si è avuto notizia da terze persone) e che il testimone possa dar contezza solo di ciò che ha visto o udito nella contemporaneità dello svolgimento del fatto oggetto di valutazione da parte del giudice.

Da un punto di vista filosofico e della sua vita quotidiana, religiosa e non religiosa, l’ebreo si concepisce come testimone di eventi cui da un punto di vista temporale non ha partecipato.

Certo il pensiero ebraico non si discosta da questo nella sua elaborazione giuridica; tuttavia, aggiunge una nota che della testimonianza da una nozione più ampia, fuori dalle aule giudiziarie.

Tali eventi sono considerati come rinnovati in ogni generazione e devono essere fatti oggetto di costante sforzo di memoria, perché possano essere trasmessi. 49

Sergio Daniele Donati Il tema della testimonianza è una traccia che attraversa il lungo cammino del pensiero ebraico e che in esso si collega direttamente al tema della memoria.

Siamo abituati a una nozione giuridica di testimonianza, che è fondativa di uno dei pilastri del diritto democratico moderno e che trova radici già nell’antico diritto romano.

È questo un principio cardine che vuole evitare che la semplice diceria sia posta alla base di un giudizio che potrebbe avere conseguenze nefaste per l’imputato.

TESTIMONI DELLA PAROLA: TRA PENSIERO EBRAICO E POESIA

Il testimone non può prestare testimonianza che di fatti di cui ha avuto cognizione diretta o di eventi a cui ha partecipato.

Così, ad esempio, a Pesach si narra della uscita dalla schiavitù in terra d’Egitto perché (non “come se”) chi racconta e chi ne ascolta la narrazione è stato schiavo egli stesso e necessita di liberazione.

Così testimonianza e memoria si pongono fuori dal tempo o, meglio, vengono vissuti nella compresenza dei tre tempi (passato, presente e futuro) in ogni istante.

Questa non è una semplice, per quanto nobile, dichiarazione d’intenti di manifestare per tutti il valore fondante e identitario di certi eventi per la vita delle nuove generazioni. Vi è molto di più, un di più che si collega direttamente con la dimensione collettiva e plurale della vita ebraica.

L’ebreo definisce la sua identità nell’altro da sé e nella missione della trasmissione di generazione in generazione di valori etici; da questo deriva l’esigenza costante della riattualizzazione di tali eventi, perché non si tratta di un mero racconto,ma della possibilità di rivivere nel presente ciò che dentro di noi è già memoria.

Ad ogni respiro siamo testimoni di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che sarà.

Ciò è tanto più vero per l’elemento di maggiore gioia e importanza per la storia ebraica.

Fissità del testo e dinamica ermeneutica permettono la rinnovazione del dono nel presente, rendendo la tradizione non un monolite spaventevole, ma ridonandole tutto il valore prorompente del suo etimo latino. 50

Al dono della Torah, si dice, non sono stati testimoni solo le generazioni che accompagnarono Moshè (Mosè) nel deserto. Testimoni di quel dono siamo tutti noi, ebrei e non ebrei, in tutte le generazioni. Testimoni veri. Siamo in ogni generazione testimoni di un dono fondativo di un’etica molto importante per il pensiero occidentale.Ancheper questo il testo della Torah non può essere modificato di una sola virgola, mentre la vitalità delle migliaia millenarie sue interpretazione è un elemento dinamico fondativo anch’esso.

Cosa viene consegnato? Un testo fisso e immutabile e un flusso millenario di interpretazioni cui il destinatario della consegna è tenuto col tempo a dare il suo contributo per permettere che la stessa traditio non abbia mai fine.

Per questo il tema del ritiro di Dio dalla Sua creazione o del poeta dalla sua opera è tanto importante. 51

Ciò che ora riceve lo ridona adesso nell’adesso di chi lo riceve.

Come tutto questo possa collegarsi al linguaggio poetico è evidente, se di poesia ci riappropriamo della sua definizione forse più antica.Ilpoeta, al di là delle sue capacità linguistiche, è un attraversato da un flusso di parole che affonda le sue radici nell’antichità dell’uomo e del suo dire e si proietta verso il futuro. Più è fine la capacità d’ascolto del poeta più la trasmissione di voci non sue trova possibilità di vita. Scrittura e poesia mal gestiscono i possessivi ed è solo di un pensiero piccolo percepire che la scrittura appartenga solo a chi scrive.

il tema dell’ascolto è tanto importante sia per il poeta che per il pensiero ebraico, il cui rapporto con la trascendenza è molto spesso più auditivo (diDiononvediamol’imago, ma sentiamo la voce ed è un dire il primo atto creativo della genesi: «E Dio disse sia luce e luce fu») che visivo.

Di questo onere ed onore ognuno di noi, ebreo e non ebreo, è testimone.

Traditio significa consegna: di padre e madre in figlio, di maestro in allievo, di generazione in generazione.

Scrittura, per l’ebreo e per il poeta, è qualcosa di ben più ampio che il semplice dar fiato ad un ego ipertrofico e senza radici. Il poeta, come il lettore o l’ermeneuta, non è tanto lasciar segno, quanto lasciarsi segnare, permettere l’attraversamento, magari arricchendolo, da un flusso che non avrà fine con la sua morte o col suo “zittimento”.Perquesto

Ciò che è donato non appartiene più al donante, ma si muove trasportato da un fiume antico e profondo che solo un ascolto attento saPertanto,cogliere.

DONATI SERGIO DANIELE, E mi coprii i volti al soffio del Silenzio, Milano, Mimesis, 2018

DONATI SERGIO DANIELE, Il canto della Moabita, Roma, Ensemble, 2021 1NOTAPeralcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 52

Bibliografia 1

se usciamo dal contesto giuridico e sostiamo soprattutto nel pensiero ebraico e nella poesia, possiamo asserire di essere testimoni di eventi a cui non abbiamo assistito direttamente. Questa portata è enorme e merita riflessione nella testimonianza.

TESTIMONIANZA DI NORME SOCIALI: POLONIO AI FIGLI LAERTE E OFELIA Stefania Lombardi Nella tragedia Hamlet di Shakespeare, Polonio, ciambellano di corte, ci viene quasi presentato come una sorta di emblema del senso comune; è un esempio di quel “comune” inteso come politico, interscambio, dialogo.

Il discorso di Polonio al figlio Laerte è, almeno in partenza, molto sensato, ma è anche altrettanto scontato e, se vogliamo, persino un po’ banale, colmo com’è di enunciati del senso comune: Tu non dare mai lingua ai tuoi pensieri, e non tradurre in fatti quelle idee che non hanno misura e proporzione; sii semplice, ma non privo di stile; gli amici di provata fedeltà stringili al cuore con cerchi d’acciaio, ma non ti cresca sul palmo della mano il callo di chi stringe intimità col primo sbarbatello, con il primo culetto che sa ancora di covata; attento a attaccar briga, ma una volta che ci sei dentro, fa’ che il tuo nemico stia bene attento a te; puoi regalare a tutti le tue orecchie, non la voce; ascolta le opinioni di chiunque, non dire mai la tua. Piano col sarto: vèstiti bene senza dar nell’occhio e non spendere più delle tue tasche. Tu sai bene che l’abito fa l’uomo e i francesi di razza proprio in questo sono i massimi arbitri del gusto. Non chiedere denaro e non prestarlo, che serve solo a perdere l’amico insieme ai soldi, e per spuntare l’arma al fare economia1.

Amleto uccide Polonio, uccide il senso comune, uccide il suo vincolo, il suo schema che gli permetteva di auto-superarsi.

Premesso che lo schema, i vincoli e i pregiudizi siano alla base del nostro vivere in quanto nessuno è in grado di riuscire a fornire di volta in volta un giudizio originale su qualsiasi argomento, fatto o 53

è sì emblema del senso comune, del pregiudizio, ma è, anche, tuttavia, un affresco sul bravo politico che tenta di uscire dal pregiudizio, favorendo il proprio stesso annientamento (anche in senso letterale alla fine).

cosa con cui nel corso della sua vita avrà a che fare, una tale mancanza di pregiudizi esigerebbe una vigilanza oltre le umane doti; è la politica che deve impegnarsi a combatterli perché il rischio del pregiudizio, e quindi del pericolo a esso connesso, sta proprio nel suo essere così ben saldato nel passato da impedire un’azione concreta del presente e nel presente.

Quando si accomiata dal figlio con il sopracitato discorso pregno di senso comune, al termine dirà anche: «Ma, soprattutto, sii onesto con te stesso. Ne verrà, come viene la notte dopo il giorno, che non sarai mai falso con nessuno2».

Per quanto Amleto non mostri sentimenti di amore per i genitori, anzi, sembri essere stato molto più legato a Yorick, il buffone di corte e si esibisca in dolci parole tenendone in mano il teschio (eh, sì, quando recita il celeberrimo terzo monologo «to be or not to be», non ha in mano alcun teschio), pare che un reale rapporto padre-figlio o, meglio, di freudiana opposizione padre-figlio, ce l’abbia con Polonio, padre della donna che dice di amare, dicendole che può dubitare di tutto, ma non del suo amore, amore a cui Ofelia crede ma non Polonio (e nemmeno il fratello Laerte che ammonisce la sorella in modo molto più gentile rispetto al padre) che riprende la figlia 54

Quel che è più importante, dopo tutto quel preambolo, è l’onestà con sé stessi che presuppone quel pensare le cose mentre si agisce (in virtù dell’essere sempre presenti a sé stessi anche grazie all’immaginazione3

intesa come “pensare al posto di”) che porta a distruggere i precedenti giudizi.

Chi è nella posizione di dover dissipare i pregiudizi dovrebbe, in una prima istanza, cercare il giudizio passato che vi sta a monte, e questa capacità di comprensione è opera dell’immaginazione, del pensiero.Polonio

Amleto dirà a Polonio che legge «parole, parole, parole» per sottolineare come in comune avessero solo vuote “parole” e che non c’era tra loro possibilità di dialogo poiché a dividerli c’era la probabile differente interpretazione data alle parole stesse; tale differente interpretazione era dovuta anche a una diversa condizione socioculturale.Lasingola

è il limite, quel limite che Amleto non ha. Ma Amleto si serve di lui, ha bisogno di vedere quel limite per superarlo, fino all’annientamento estremo (che avviene anche letteralmente).

Amleto, come sappiamo, ne fa anche un oggetto di derisione, irride e deride tutte le regole di corte e di una società intera mentre canzona Polonio che ne è la rappresentazione estrema.

E così Amleto uccide Polonio, uccide suo padre o, meglio, la figura più vicina a un padre che potesse avere o sperare, il suo antagonista.

al riguardo ricordandole che per posizione sociale (ma anche perché di sesso differente) Amleto ha un raggio d’azione ben più ampio di quanto sia a lei concesso e che Ofelia sarà la sola vittima delle conseguenze del loro frequentarsi.

parola “nuda e cruda” può essere pertanto veicolo d’incomprensione quando si è divisi da contesti socioculturali differenti; tutto ciò è al contempo stimolante e paradossale se si pensa al linguaggio verbale come a un tentativo di comunicare meglio.

Nella dicotomia Amleto-Polonio si è consumata la tragedia tra vincoli che costringono a stare nel “cielo di carta” di pirandelliana memoria e superamento degli stessi in virtù della presa di coscienza dello squarcio nel cielo di carta (Pirandello anche qui) e che, con Amleto, porta con sé, le sensazioni della modernità.

Molti discorsi sensati anche qui, ma anche molti pregiudizi e una fotografia sulla situazione femminile e con molti più vincoli e accortezze.Polonio

Amleto uccide Polonio per il compimento di quei tragici destini. 55

1NOTEWILLIAM

SHAKESPEARE, Amleto, tr. it. di Garboli C., Torino, Einaudi, 2009, pp. 2728, Atto I, Scena III, . 2 Ibidem 3 Sul tema dell’immaginazione e relativa capacità di pensare in contrapposizione alla mancanza di pensiero e di immaginazione tipica dei contesti troppo burocratizzati se ne è occupata HANNA ARENDT in La banalità del male, tr. it. di P. Bernardini, Torino, La Feltrinelli, 2011. 4 Per alcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 56

SHAKESPEARE WILLIAM, Amleto, Torino, Einaudi, 2009

Bibliografia4 ARENDT HANNAH, La banalità del male, Torino, Feltrinelli, 2011

L’ermeneutica filosofica è da considerarsi come una nuova lingua comune, una nuova koiné. Possiamo così parlare di “una svolta ermeneutica”, assumendo così il termine stesso di ermeneutica una valenza universale. Il termine “ermeneutica” esiste da sempre in teologia come dottrina a supporto della interpretazione e della comprensione della Sacra Scrittura, oltre che nel campo della Giurisprudenza dove indica l’arte di interpretare le leggi in modo che la loro applicazione al caso giuridico sia corretta.

L’intenzione è conferire al concetto di filosofia una dimensione nuova che comprenda in sé anche altre culture. Invero, verso la fine del XIX secolo, si sono manifestati i primi segnali di una nuova problematica che ha messo in rilievo la validità universale dell’ermeneutica stessa e il suo metodo fenomenologico. Per la prima volta in altre discipline siamo di fronte al testo del mondo, al testo della storia universale, che abbiamo il compito di interpretare, rendendo necessaria la conquista di una nuova e diversa comprensione di noi stessi. Inevitabilmente, acquista rilevanza il problema del “tempo”.

L’ERMENEUTICA IN VERITÀ E METODO DI H. G.

StefanoGADAMERBracali

Precisato questo, possiamo evincere il primo principio ermeneutico: l’ermeneutica non è produzione di verità definitive che possano essere fissate dogmaticamente. Ciò lo possiamo asserire, visto il suo carattere universale, anche per l’ambito filosofico. Non si tratta di un nuovo sistema filosofico né di un ulteriore sviluppo a una tradizione culturale filosofica propriamente europea.

Oggi siamo interessati soprattutto al tempo vissuto più che a quello misurato; teniamo a cuore il modo in cui la vita umana e le sue imprese si articolano nel mondo con categorie e modalità dove 57

la poesia, l’arte figurativa ed il mondo concettuale riescono a trovare un’espressione. L’universalità assunta dal problema del tempo è essenziale allo scopo ermeneutico. L’interpretazione è un atteggiamento del tutto immanente, non oggettivo. Essa non cerca per mezzo di un osservatore neutrale di stabilire qualcosa con certezza bensì mira alla comprensione autentica di un’intima struttura di senso senza inseguire una qualche verità oggettivamente fissata, lasciando la parola a ciò che si nasconde “in” tali “strutture di senso”, permettendo che “ciò parli liberamente di sé”. Di fronte a un singolo poeta, spesso, non riusciamo a leggerne un passo ad alta voce, badando alla inflessione, al ritmo, alla musicalità. Musica e musicalità operano in modalità del tutto diversa rispetto alla attività della mente. Musica e musicalità ci coinvolgono infatti nel corpo, nell’anima e nella nostra stessa voce. La voce non è qui da intendere come fonazione che ciascuno di noi possiede, bensì, trattasi di quella “voce” che le cose stesse hanno e devono avere per “riuscire a parlarci”. Questo è il particolare compito di fronte al quale ci troviamo. È necessaria una presenza del tutto nuova nel comprendere e interpretare le cose. Nelle scienze naturali non accade questo; in esse, il ricercatore deve abbandonare la propria soggettività per farsi anonimo osservatore spersonalizzato in grado di ripetere l’esperimento sempre allo stesso modo così da verificare che la teoria costruita su di esso sia correttamente fondata. È del tutto evidente che all’elemento soggettivo non spetta alcuna importanza. L’ermeneutica, invece, abbraccia tutte quelle scienze nelle quali è impossibile operare una tale riduzione in quanto la struttura, in cui si modula e si articola la comprensione, non è altrimenti riproducibile se non nell’atto stesso in cui si realizza. Siamo di fronte ad una “nuova morale dell’atto del comprendere” che interessa anche il “pensare” filosofico dell’evoluzione stessa della filosofia. Il merito è di Heidegger che ha concepito «l’ermeneutica come struttura dell’esserci che si articola nella comprensione e nel linguaggio». 58

Ricordiamo che il Novecento è stato proprio il secolo in cui la filosofia ha messo al centro dell’attenzione il linguaggio. È possibile dare adesso un’ulteriore definizione di “linguaggio”. Esso può essere inteso come un mezzo di comprensione, considerando fondamentale il concetto di segno dove il linguaggio è prossimo alla struttura per mezzo della sua funzione simbolica rimandando a qualcosa di altro e, contemporaneamente, compiendo un’opera di decifrazione della parola scritta. In Heidegger questo è ancora più chiaro. Per lui l’ermeneutica ha una nozione estesa e costituisce una struttura fondamentale dell’essere umano ovvero la facoltà di fare qualcosa che ci permetta di intendere un testo o di rendere comprensibile l’espressione dell’altro, muovendo dal principio per cui il linguaggio è solo nel dialogo e nel colloquio.

Questa affermazione esprime il fatto che noi non usiamo il linguaggio come un sistema arbitrario di segni con cui comunicare, bensì, che questo linguaggio, reso condivisibile a tutti, deve anche essere sviluppato attraverso uno sforzo comune. «Il linguaggio è nel dialogo» significa che non sono io a parlare e non è nemmeno il mio interlocutore, bensì, come disse con una formulazione provocatoria Heidegger, «Èillinguaggiocheparla». Il linguaggio è qualcosa che solo attraverso di noi può giungere all’essere, così come l’Essere si dà nel/per/con il linguaggio; siamo in una dinamica di “reciprocità”.Èimportante adesso chiarire la nozione di reciprocità e quali siano le implicazioni della formulazione «è il linguaggio che parla». Siamo di fronte un paradosso che allude al fatto che l’esperienza fondamentale dell’uomo situato nel mondo non consiste nel tentativo operato dal singolo o dal gruppo di mantenersi in vita di fronte a una realtà estranea grazie al ricorso consapevole a una facoltà linguistica. Considerando il linguaggio da noi parlato, l’importante non è tanto quale sia il linguaggio quanto “il fatto stesso del linguaggio”, non la molteplicità delle lingue come tali, bensì la facoltà 59

riferire un determinato atteggiamento di fondo dell’uomo nel mondo che trova attuazione solo nel dialogo con un altro. Questo è il nuovo passo avanti compiuto nella svolta ermeneutica. Non è più sufficiente muovere dall’autocoscienza. Di fronte al problema “è il linguaggio che parla”, l’umanità deve far fronte ad una responsabilità del tutto diversa, un compito che spetta a ciascuno di noi in quanto parte di quel mondo che tutti condividiamo.

Heidegger interpretava la retorica e l’etica come due ambiti della filosofia aristotelica nella quale la reciprocità si determina tramite il discorso e mediante la prassi dell’azione. Finalmente, adesso, le scienze della natura possono essere arricchite di un “nuovo dominio del sapere” che parla una “lingua propria”, non più il linguaggio della matematica utile per formulare con misurazioni quantitative le teorie scientifiche sulla natura, bensì, una “lingua” capace di porsi in ascolto del linguaggio stesso.

Dire che «l’ermeneutica è l’arte di saper ascoltare» riferisce la grande difficoltà di imparare a farlo in quanto tutti noi siamo vincolati dalla relazione con noi stessi. In psicoanalisi, per esempio, si parla di narcisismo, riferendosi al celebre mito antico. È necessario che gli esseri umani imparino ad ascoltare gli altri esseri umani, senza distinzioni, astenendosi dal volerne anticiparne il pensiero credendo di averlo già intuito, essendo quindi disposti a prestare attenzione. L’arte dell’ermeneutica è l’arte del lasciarsi rivolgere la parola. Rispondiamo alla esigenza di quell’istanza di cui aveva parlato Kant, sottolineando la nozione di rispetto per gli altri. In questa 60

di compiere azioni simboliche, di plasmare parole e strutture linguistiche, dando vita alla reciproca comprensione ovvero alla comunicazione.Quisiintende

Heidegger aveva persuaso il suo maestro Husserl che Aristotele fosse un vero e proprio fenomenologo, considerandolo molto più fenomenologo di quanto possa esserlo qualsiasi filosofo moderno, compreso lo stesso Husserl. Aristotele era strettamente legato a una società nella quale la “reciprocità” era l’aspetto dominante e in quell’occasione

differenza c’è anche il rifiuto di quella smisurata e opprimente autostima che insegna a non considerare gli altri al pari di sé stessi. Emerge un elemento comune che conferisce al linguaggio la sua piena realtà, la linguisticità.

La solidarietà sempre sarà ostacolata e afflitta da divergenze e contrasti. In questo si esprime il concetto per cui pur nelle divergenze non si può mai abbandonare un terreno comune. Dobbiamo considerare la solidarietà come nozione, presupposto e luogo dialettico, di dialogo, in cui prende forma il linguaggio. Intendiamo il linguaggio vero e proprio, quel linguaggio capace di condurre a una reciproca comprensione che avrà luogo sempre solo nell’irripetibilità della situazione dialogica, quando cioè si ascolta e ci si esprime così come può avvenire solo nell’istante dialogico in maniera vincolante. Platone, descrivendo l’essenza della filosofia, affermava che sono molti i mezzi dei quali ci serviamo parlando tra di noi; vi sono le parole con i loro significati, le proposizioni con la loro costituzione semantica, gli esempi intuitivi con i quali ci intendiamo reciprocamente, ma, alla fine, il presupposto fondamentale è che tutti questi mezzi intervengano realmente solo nello scambio istantaneo del dialogo, con una comprensione immediata, fulminea. Un ruolo davvero importante nella nostra società così regolata spetta all’essenza dell’arte e all’esperienza dell’arte. 61

La nozione di linguisticità costituisce l’anima stessa dell’ermeneutica dove le cose che vengono dette non hanno pretesa di dimostrarsi come verità definitive. L’interlocutore è spinto a pensare ciò che non si sa esprimere per incontrarsi proprio nel punto in cui linguaggio viene a costituirsi. Così, viene a crearsi, in amicizia, quella “solidarietà” che costituisce un vincolo reale attestato dal fatto che con quella persona ci capiamo, ci intendiamo, potendone condividere la comprensione conquistata. La linguisticità agisce qui come quella facoltà di imparare vicendevolmente a capirsi in riferimento al nostro mondo.

Qualcosa di analogo accade nella lettura dell’opera d’arte figurativa, così come lo stesso vale per tutte le esperienze che coinvolgono la sfera estetica. Da una molteplicità di istanti improvvisi scocca, in un attimo di sospensione, una nuova presenza che fa parte di noi stessi, è una sorta di amicizia con le cose della vita, un’intimità che stabiliamo con le creazioni spirituali. Schelling ha definito questo accadimento/luogo “il puro immemorabile” ovvero il realizzarsi di una forma autentica di comunanza nella quale si possa formare il linguaggio, la facoltà di fondersi reciprocamente in una comunione prima, in una fusione di orizzonti nella/della comprensione poi. I principi dell’ermeneutica dovranno risultare essenziali in quelle discipline che noi chiamiamo scienze dello spirito.

Dovrà essere appresa ed insegnata la dimensione della formazione reciproca come ricerca di un linguaggio comune nel dialogo. È una questione la cui portata filosofica è fondamentale. Le scienze moderne costruiscono nuove comunanze, pensiamo per esempio al modo in cui la cultura tecnica irrompe nella nostra vita. La tecnica ci stupisce con i suoi più recenti progressi, ma il suo significato è ancora maggiore laddove la tecnica è tale da farci dimenticare il suo operato nel suo stesso intervento, rinunciando alla propria invasività. Invero, la nostra cultura europea, a causa della grande unilateralità della concezione monologica del sapere, non ha saputo sufficientemente valutare l’orizzonte dialogico in tutta la sua legittimità.

Nessuno può spiegare mediante regole perché un oggetto sia bello. È indubitabile che anche nella poesia il linguaggio si faccia parola. Nessuno può negare che in ciò la poesia è affine alla musica. La musica deve essere suonata, la semplice lettura delle note non equivale a fare musica. Così, leggere una poesia non è ancora la vera lettura della poesia. La lettura della poesia avviene soltanto quando questa, leggendola, scioglie il suo canto; si tratta appunto di una sorta di esecuzione musicale che ogni volta è ripetibile, tornando a far risuonare la sua unicità in forme sempre nuove.

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Nella vita, dobbiamo ammettere, vi è una saggezza maggiore di quella raggiunta dalla scienza. Possiamo affermare che ci vogliono grandi doti per far sì che questo nostro mondo umano in cui vige un enorme controllo della realtà, della natura e della stessa esistenza dell’uomo, venga colmato da quella “vita” che ci fa sentire in esso come a “casa nostra”. L’ermeneutica è l’arte e insieme la svolta della filosofia che consiste nel coltivare quanto di memorabile abbiamo in comune. Sarà così possibile superare la ristrettezza della civilizzazione scientifica costruendo un futuro per l’umanità che coinvolga in esso anche le altre culture, le altre lingue, le altre genti ed il regno animale nel nostro universo vitale/esistenziale di comprensione, potendo così affermare che questo mondo è il nostro mondo. Bibliografia1

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GADAMER HANS GEORG, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2001 1NOTAPeralcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica.

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Tali cornici individuano la dimensione rituale delle relazioni di dono, disciplinata da un complesso di norme in certa misura vincolanti che regolano la forma relazionale dello scambio di doni (nelle società arcaiche come in quelle moderne). La dimensione della libertà introduce, invece, la capacità di reinterpretare questa catena di vincoli, assegnandole un senso personale e relazionale, a contatto 65

DONO E TESTIMONIANZA: UN’ARIA DI FAMIGLIA

Susy Zanardo Dono e testimonianza mi paiono due figure strettamente apparentate, se si intende la testimonianza nel senso dell’attestazione e trasmissione di un contenuto di sapere (di fede o conoscenza certa) e come incarnazione – nell’esperienza intima e nei comportamenti – di quello stesso contenuto (creduto o saputo)1. Per comprendere questa parentela – quest’aria di famiglia – occorre esplicitare il significato di dono. Comincerò pertanto a circoscrivere tale figura mettendone in luce alcune costanti formali, per interrogarmi sulla possibile intersezione fra i due campi semantici. Introducendo il dono, mi richiamo al celebre Saggio sul dono (1923-24)2 di Marcel Mauss, dove esso viene descritto come una forma relazionale complessa: un ibrido di obbligo e libertà, reciprocità e gratuità. Non si possono qui analizzare singolarmente i termini né la tensione dinamica tra le due coppie di opposti; tuttavia, per illustrare la tesi proposta, è sufficiente un cenno per ciascuna dimensione.Perobbligo

si intendono le cornici formali delle varie pratiche di dono culturalmente consolidate e accolte entro un dato contesto spazio-temporale (per esempio, l’offerta del caffè nella cultura italiana, le feste e gli inviti a condividere il cibo nelle diverse tradizioni, lo scambio dei doni nelle festività delle varie confessioni religiose).

Essa può essere significata in molti modi; ne scelgo due particolarmente suggestivi: Victor Frankl individua nell’auto-trascendenza l’elemento costitutivo dell’umano comune, in quanto tensione a uscire da sé stessi e superarsi, in direzione di un compito da onorare o un ideale da realizzare o qualcuno da amare o una testimonianza cui prestare fede4. Luisa Muraro5 descrive il “per-altri” nei termini di una mancanza strutturale dell’umano, chiamato a farsi spazio affinché l’altro/l’altra possano abitare presso di lui/lei. La mancanza rinvia così all’eros platonico6 quale corsa inesausta del desiderio verso il bene infinito alla cui luce appaiono tanto la povertà (penia) quanto l’inventività (poros) dell’umano, che sta con un piede confitto nel limite (nella plastica ricezione provvisoria delle forme) e un altro che già risale verso il cielo, aspirando a uno sguardo secondo il tutto. I nostri doni stanno sempre da qualche parte fra le dimensioni polari descritte. Essi, infatti, riflettono la tensione del desiderio che, proteso in avanti, si colora di speranza, e l’impasto delle nostre ambivalenze che ci convocano dinanzi alle più penose zone d’ombra. In questo modo, le esperienze di dono, internamente intessute di 66

Per rappresentare poi la polarità di reciprocitàegratuità, possiamo ricorrere – accogliendo la suggestione di Paul Ricœur3 – all’immagine di due assi di un ipotetico piano cartesiano: l’asse orizzontale della reciprocità descrive il bisogno umano di appartenere a un contesto, ossia di ricevere – una volta venuti al mondo –una seconda nascita (vale a dire una nascita culturale), segnata dal riconoscimento di chi ci accoglie in seno a una comunità. L’asse verticale invoca, invece, la gratuità ovverola dimensione del “per-altri”.

con la propria vita, storia, aspirazioni, desideri e fragilità. Nella tensione fra le due dimensioni polari, il dono risulta pertanto un atto di re-invenzione, ovvero l’immissione del proprio respiro nella tessitura della storia condivisa o nel corpo della tradizione (di cui si può dare testimonianza).

Il riconoscimento triangola allora su un oggetto che rappresenta l’individuazione simbolica di chi dona; infatti, secondo Hénaff, l’essere umano ha scoperto che poteva prelevare qualcosa che gli era caro e offrirlo come pegno e simbolo di sé. Ora, in questa triangolazione (in quel terzo che è l’oggetto, intenzionato non per il suo valore d’uso o di scambio, ma per il suo valore di legame), le due parti (individuali o collettive) stabiliscono un’alleanza, un patto, un’intenzionalità condivisa, un noi agente. L’oggetto del dono è anche e sempre un simbolo: è certamente più del dato, cioè va al di là del visibile e riflette la capacità umana di «immaginare altrimenti»9 e di sporgere rispetto al qui e ora, inserendo il dato in una trama di senso di cui l’umano è un instancabile cercatore. L’oggetto del dono, poi, può essere (e più spesso è) una pratica (come nel dono del sapere o della parola o della memoria o della testimonianza) e, più profondamente, è il dono di sé come kenosi (Filippesi 2,7) o come ritrazione, all’opera per esempio nel dono del tempo, il quale non mi appartiene, ma è al più intimo di me10. Resta da chiederci perché l’essere umano abbia selezionato il gesto del dono per stringere alleanze e cooperare. Intrecciando la lettura di Mauss con quelle di Hénaff, Alain Caillé e Jacques Godbout11, osservo che l’altro essere umano mi è massimamente simile, in quanto orizzonte spalancato sul tutto, e al contempo massimamente estraneo, in quanto connotato da un’altra storia, altre aspirazioni, 67

Per condensare il complesso gioco di intrecci fra simboli e persone all’opera nel dono di Mauss, propongo – rielaborandola – la definizione dell’antropologo

francese Marcel Hénaff8: il dono è il gesto di riconoscimento della persona d’altri (in quanto libertà che resiste a ogni presa oggettivante) attraverso la mediazione di un oggetto (o di un simbolo o di un benemateriale o immateriale)nella speranza di un legame sociale.

«squilibri gratificanti, ma anche penosi», descrivono l’estetica e la drammatica delle nostre relazioni7.

In questa condizione, sospesa tra l’attesa e il timore, la disparità e la reciprocità, l’invocazione di relazione e la tentazione dell’assoggettamento, il dono rappresenta quel gesto, pratica o forma relazionale che lega e libera al tempo stesso: lega liberando l’altro dall’obbligo di corrispondere mentre lo invita a un’analoga risposta.

altre ferite: potrebbe abbandonare la partita o persino aggredirmi.

In modo non dissimile da ciò che accade nelle relazioni di dono, la testimonianza triangola chi la offre e chi la riceve su un contenuto che trascende i due, ma a cui il testimone – nella misura in cui incarna il contenuto, lo manifesta e performa nel proprio agire – offre un’impronta originale. Così accresciuto, l’oggetto della testimonianza è consegnato al destinatario, che a sua volta, mentre lo riceve, lo può vivificare e rimettere in circolo. Accettando di dare testimonianza, il testimone si iscrive in una storia più grande di lui: una storia che gli ha dato le parole per pensarsi e le pratiche per muoversi nel mondo, ma che è filtrata dalla luce singolare del suo volto. Secondo il grado della sua vulnerabilità e pienezza, ma anche delle congiunture storiche e della volontà ricettiva di altri, il testimone –come il donatore – rilascia nel tessuto sociale dei semi di continuità e di creatività che, al di là dei suoi disegni e del suo angolo di visuale, possiedono una gestazione autonoma nelle pieghe della storia. Occorre ora delucidare il tipo di reciprocità in gioco nel mutuo riconoscimento simbolico del dono per verificare come essa si applichi alla dinamica del testimoniare. Tale reciprocità è esplicitata dalla nozione di hau che Mauss riprende dalle parole del saggio maori Tamati Ranaipiri, informatore di Elsdom Best. Lo hau è il vento, il respiro, lo spirito, la forza simbolica e spirituale che informa l’oggetto (o la pratica o il sapere) e lo trasforma in un «legame di 68

In questa reciprocità di movimenti, fatti di ritrazione e invocazione, accade di trasformare la diffidenza in fiducia, l’incertezza in un legame che, pur essendo atteso, resta indecidibile nella misura in cui salvaguarda la libera risposta dell’altro/a.

Ora, di questo tipo di reciprocità contenuta nello hau, il saggio maori dice due cose. La prima: il dono va restituito; non mi è lecito trattenerlo. Non posso interrompere la circolazione di questa forza e mescolanza di anime senza che me ne venga del male, persino la morte, che potremmo interpretare come una morte simbolica (il deperimento di sé) e sociale (l’interruzione del legame). Il dono non restituito mi perseguita, imprigiona, indebolisce, soffoca. Se blocco il respiro del dono, se smetto di darne testimonianza, esso si spegne e spegne la mia stessa esistenza sociale, così che mi ritrovo fra le mani le mie paure, i fantasmi, le proiezioni, le immagini ingrandite e deformate di me stessa, la mia buia disperazione. In modo analogo, nel Vangelo di Matteo (25, 14-30), si narra di un uomo che, ricevuto un talento dal suo signore, anziché metterlo a frutto, lo seppellisce per paura di perderlo; ed è proprio il gesto del trattenere che lo condanna alla perdita di sé. Anche nella parabola del talento sepolto, 69

anime», secondo le parole di Mauss. Nel dono, infatti, colei o colui che dona mette sé stessa/o (conoscenze, aspirazioni, ambiguità, fragilità…) nella cosa donata, la quale acquista l’impronta del donatore cui rimane permanentemente legata pur passando di mano in mano, di bocca in bocca. L’oggetto o il sapere narrano allora della storia fra di noi, del male che ci facciamo e del desiderio che nutriamo in reciprocità, delle ferite e delle promesse, in modo proporzionale al legame fra donatore e donatario, fra chi dà e chi riceve testimonianza. In fondo, si tratta di un’esperienza diffusa: l’oggetto o il sapere appartenuto e ricevuto da una persona cara racchiude e sprigiona una cascata di ricordi, racconti, sentimenti che nutrono la trama della nostra storia e il senso di noi stessi. Se nel dono è raccolto lo spirito del donatore, così come nel racconto si dispiega quello del testimone, allora colui o colei che lo accolgono acconsentono a un con-tatto con l’anima del donatore. Ne viene che il dono/testimonianza è il luogo in cui la tua anima si mescola con la mia; i miei sogni, il mio respiro, la mia carne si mescolano con i tuoi.

C’è un secondo e decisivo punto nella narrazione del saggio maori: la trasmissione del dono non è mai fra due termini esclusivi (che si scambiano una proprietà), ma prevede l’intervento di una terza parte sociale (che parimenti dà vita e futuro alla testimonianza). Perciò, non necessariamente restituisco indietro il dono/testimonianza a colei o colui che me lo ha consegnato, ma più radicalmente sono chiamata a trasmetterlo in avanti, affidandolo ad altri a venire. In tal modo si forma una rete di scambi incrociati e di legami che alimentano il tessuto sociale. Ce ne offre una conferma lo stesso Mauss quando scrive: «La vita sociale e comunitaria è un dare e un prendere, una corrente ininterrotta e rivolta in ogni direzione di doni offerti, ricevuti, ricambiati»12.

Per esplicitarlo, riprendo da Michael Tomasello l’intuizione secondo la quale la «caratteristica più peculiare» dell’umano «è l’elevato grado (e le nuove forme) di cooperazione»13. Una tale cooperazione, che ha permesso ai membri della specie umana di sopravvivere ed evolvere verso forme complesse di cognizione e socialità, si sviluppa secondo due dimensioni della cultura: una dimensione coordinativa (i membri di un gruppo si coordinano attraverso «strutture cooperative auto-create») e una trasmissiva che passa alle generazioni successive il corpo di credenze, norme, simboli e istituzioni. Ora, il dono e la testimonianza contemplano entrambe le dimensioni.

come nello hau melanesiano, il dono è un compito da custodire e una responsabilità cui adempiere generosamente. Arrestare la sua forza significa rendersi incapaci di entrare nel circolo della vita, proprio come interrompere la trasmissione della testimonianza significa perderne la storia e, con essa, perdersi come suoi attori.

Qual è dunque il grado di parentela fra dono e testimonianza?

Sul piano coordinativo o orizzontale: si dona e si trasmette il flusso della memoria «per collegarsi, mettersi in presa con la vita, far circolare le cose in un sistema vivente, far parte della catena, trasmettere, sentire che non si è soli e che si appartiene, che si fa 70

parte di qualcosa di più vasto»14. In questo senso, alla cifra dell’interesse, sottesa alla massimizzazione del profitto individuale, si sostituisce la cifra dell’inter-essere ovvero dell’interconnessione e interdipendenza di ogni essere vivente che abita la Terra. Lo si coglie in un bel detto maori che compare nel Saggio sul dono: «Le nostre feste sono simili al movimento dell’ago che serve a unire le parti della copertura di paglia per fare un solo tetto, una sola parola»15. Il legame del dono e quello della testimonianza sono simili al movimento di cucitura della trama che realizza la casa comune (l’ecumene), raccolta in «una sola parola». In questa «sola parola» (resa dai testimoni) è possibile sentire l’eco del logos, verbo-parolasenso come capacità di intendere e di intendersi16 o come con-senso, cioè comunità di ricerca del senso e condizione trascendentale del comunicare; infatti, anche quando si dissente, lo si può fare sulla base di un con-sentire più originario (nell’assumere una direzione di senso)17. Il legame del dono e quello della testimonianza appaiono allora come il luogo di tessitura di libertà reciproche e incommensurabili che, nel legarsi, si danno senso: significano sé nell’incontro con altri in una tensione eu-topica come luogo del vivere e convivere in pienezza e giustizia18. Vengo infine al dono-testimonianza come trasmissione intergenerazionale. A monte: ognuno entra nella vita come colui o colei che è stato preceduto dal dono della testimonianza. E impara a rimettere in circolo solo chi riesce a trasformare il ricevere non in un prendere possesso, ma in un accogliere nell’intimità del proprio essere. È allora che si introietta l’oggetto buono (il dono di testimoni e maestri), lo si nutre con la propria vita e lo si lascia rivivere attraverso sé. Accade così che il vissuto di gratitudine, quale «memoria morale dell’umanità» 19 , esperito come la piega interna della gratuità/generosità, divenga «una delle espressioni più evidenti della capacità di amare»20, in quanto lenta assimilazione dei gesti di cura e riconoscimento. 71

La testimonianza possiede perciò la stoffa etica della donazione come trasmissione dello spirito del dono e circolazione di senso che, aprendo gli scrigni della storia condivisa, li passa al setaccio della propria sensibilità. Attinge perciò alla propria fonte sorgiva e la lavora, auscultando fibra per fibra il proprio sentire e addestrandosi a sentire il sentire degli altri. Accade allora che, a un certo punto, dalla periferia della coscienza, dove si affolla il sovrappiù di immagini e significati ancora disorganizzati e caotici, si raccolga e condensi un grumo di senso, in quanto orizzonte di ispirazione e cura concreta offerti a chi li vorrà accogliere.

GODBOUT JACQUES, Il linguaggio del dono (1996), Torino, Bollati Boringhieri, 1998

A valle: il dono-testimonianza adotta il principio della reciprocità aperta e transitiva, il quale prescrive di offrire liberamente qualcosa a qualcuno affinché possa, a propria volta, trasmetterlo ad altri e solo eventualmente a me. È quanto avviene, per esempio, nel dono del sapere e nella pratica della testimonianza: essi sono offerti affinché l’altro infonda loro il proprio respiro, li rivesta con le proprie parole e li immetta in altri circoli reciprocanti.

DERRIDA JACQUES, Donare il tempo. La moneta falsa (1991), Milano, Raffaello Cortina, 1996

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GODBOUT JACQUES (con la collaborazione di A. Caillé), Lo spirito del dono (1992), Torino, Bollati Boringhieri, 1998 72

Bibliografia21 CAILLÉ ALAIN, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (1998), Torino, Bollati Boringhieri, 1998

HÉNAFF MARCEL, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia (2002), Enna, Città aperta, 2006

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1NOTEPerlo sviluppo del significato di testimonianza come memoria e tradizione, rinvio con piacere al testo di SERGIO DANIELE DONATI, Testimoni della parola: tra pensiero ebraico e poesia, supra. 73

ROMANO, L’animalevisionario.Elogiodelradicalismo, Milano, il Saggiatore, 1999

10 JACQUES DERRIDA, Donare il tempo. La moneta falsa (1991), Milano, Raffaello Cortina, 1996.

13 MICHAEL TOMASELLO, Diventare umani, Milano, Raffaello Cortina, 2019, p. 4.

19 GEORGE SIMMEL, La gratitudine. Un tentativo sociologico (1907), in Sull’intimità, Roma, Armando Editore, 2004, p. 93.

20 MELANIE KLEIN, Invidia e gratitudine (1957), Firenze, Martinelli, 1985, p. 30.

ROMANO MADERA, Il metodo biografico. Come formazione, cura, filosofia, Milano, Raffaello Cortina, 2022.

12 MARCEL MAUSS, Saggio sul dono, op. cit., p. 48, corsivo mio.

14 JACQUES T. GODBOUT, Il linguaggio del dono (1996), Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 28.

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21 Per alcuni autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 74

7 PIERANGELO SEQUERI, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Milano, Vita e Pensiero, 2002, p. 132.

11ALAIN CAILLÉ, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono (1998), Torino, Bollati Boringhieri, 1998; JACQUES T. GODBOUT (con la collaborazione di A. Caillé), Lo spirito del dono (1992), Torino, Bollati Boringhieri, 1998.

3 PAUL RICŒUR, Percorsi del riconoscimento. Tre studi (2004), Milano, Raffaello Cortina, 2005.

LUISA MURARO, Il dio delle donne, Milano, Mondadori, 2003; EAD., Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Milano, Mondadori, 2009.

16 FRANÇOIS JULLIEN, L’identità culturale non esiste (2016), Torino, Einaudi, 2018.

ROMANO MADERA, La comunità della ricerca di senso come bene comune, in C. Vigna - E. Bonan (a cura di), Multiculturalismo e interculturalità. L’etica in questione, Vita e Pensiero, Milano 2011, pp. 59-72.

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8 MARCEL HÉNAFF, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia (2002), Enna, Città aperta, 2006.

15 MARCEL MAUSS, Saggio sul dono, op. cit., pp. 33-34.

6 PLATONE, Il Simposio, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2000.

2 MARCEL MAUSS, Saggiosuldono.Formaemotivodelloscambionellesocietàarcaiche (1923-24), Torino, Einaudi, 2000.

ROMANO MADERA, L’animalevisionario.Elogiodelradicalismo, Milano, il Saggiatore, 1999.

4 VIKTOR EMIL FRANKL, Alla ricerca di un significato della vita (1952-1972), Milano, Mursia, 2016.

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LA DELL’IMPERATORE-DIO DI FilippoDUNERossi

Dopo Dune le dune sono infinite, eppure terminano.

Le complessità politiche e la ricchezza del mondo fittizio creato da Frank Herbert rendono in poco tempo famoso il romanzo originale Dune (1965) nei campus universitari della controcultura degli Anni Sessanta, proprio come succede al precedente Signore degli Anelli dell’inglese Tolkien. Il capolavoro del ‘65 segna la carriera dello scrittore americano: come primo, grande romanzo di fantascienza ecologica, che abbraccia molte tematiche interconnesse tramite l’esposizione dei punti di vista di più personaggi, rappresenta un metodo di lavoro cui il maturo Herbert resta fedele. Ne scrive ben cinque seguiti letterari, ma la loro produzione è sofferta.

TESTIMONIANZA

Nonostante la popolarità del capostipite, lo sforzo patito nella scrittura e la frustrazione per la ritardata pubblicazione fanno passare tre anni prima che l’autore inizi l’attesissimo seguito, per di più molto diverso: in una forma più sintetica e minimalista. Dune Messiah, scritto in un anno e pubblicato nel 1969, continua la storia del protagonista Paul nelle sue nuove vesti di “salvatore” e Imperatore. È un romanzo secco, triste, che in Italia giunge come Messia di Dune. L’opera, drammatica e sincera, è accolta male da pubblico e critica.Passano quindi quasi dieci anni per la chiusura della trilogia con il mastodontico, polimorfo Children of Dune (I figli di Dune) del 1976. Chiude la storia degli eroici Atreides in una sorta di kolossal letterario. Protagonisti, i due figli di Paul e Chani, Leto II e Ghanima, e la sorella di Muad’Dib Alia. Nel 1981 ecco l’allucinato, inquietante, interminabile God Emperor of Dune (L’imperatore-dio Dune), che porta avanti di migliaia 75

di anni l’incredibile vicenda semi-umana dell’erede di Paul, Leto II; libro che tocca vette filosofiche e tragiche ancora inedite.

Seguono gli ambiziosi, oscuri e un po’ astrusi Heretics of Dune nel 1984 (Gli eretici di Dune) e Chapterhouse: Dune nel 1985 (La rifondazione di Dune), che dilatano l’Universo oltre l’immaginabile e il comprensibile. Protagonisti assoluti sono l’evoluzione delle Bene Gesserit e soprattutto il duellante Duncan Idaho, “resuscitato” in una sorta di zombi-clone dotato di memoria e poteri crescenti. Frank Herbert termina la sua avventura terrena un anno dopo il sesto e ultimo libro, lasciando incompiuta la saga. 1981: il trionfo dell’Imperatore-dio Chiusa la trilogia, a Herbert resta un protagonista inconcepibile: Leto II Atreides. La figura gli consente l’ennesimo salto artistico ossia il punto di vista sui fatti storici, espressi in prima persona da chi li realizza sulla propria pelle. Nel quarto episodio L’imperatoredio di Dune, tra le martellanti elucubrazioni di un uomo che sta diventando creatura millenaria vi è la chiave per spalancare i nostri fragili occhi sul futuro. La testimonianza filosofica diventa fatto concreto.Herbert usa il genere fantascientifico per esplorare complesse idee personali su filosofia, religione, psicologia, sociopolitica ed ecologia. Il tema che ricorre in tutta la produzione è l’evoluzione umana e i modi della sua sopravvivenza in ambienti ostili. Afferma: «La fantascienza aiuta a concentrarsi in direzioni molto interessanti, di tipo relativistico». Per lui questo genere letterario prova che l’umanità possiede l’immaginazione necessaria per più opportunità e diverse scelte, poiché di solito ci si autolimita a risposte uniche e preordinate che racchiudono l’orizzonte infinito a pochi, poveri sistemi di vita. Il punto di vista da terra va innalzato al cielo, in modo da intuire dall’alto ciò che sta succedono là fuori. Gli umani tendono a evitare di guardare in distanza, mentre il tempo moderno richiede 76

di allargare la prospettiva per capire cosa si stia infliggendo alla madre Terra. Herbert indica libri di fantasociologia come i distopici Brave New World (Il mondo nuovo di Aldous Huxley, 1932) o 1984 (di George Orwell, 1949) non come mezzi per prevenire il disastro, ma stimoli per costringere il genere umano a rendersene conto e, quindi, abbassare le possibilità che questo avvenga davvero. La letteratura di speculazione è indispensabile per accettare con coraggio e, quindi, prevenire il meno improbabile dei possibili futuri: quello della catastrofe.

Il dio imperiale che domina il quarto romanzo del ciclo duniano è la rappresentazione plastica di questi concetti. Protagonista scioccante, disturbante; che eleva sia il dono (o la dannazione) della prescienza del padre Paul Muad’Dib, sia la coscienza delle memorie ancestrali dei pre-nati, all’ennesima potenza di un corpo fisico che non ha quasi più nulla di umano. Accettando l’intuizione paterna, il figlio ha avviato un graduale processo di metamorfosi nella bestia aliena più famosa. Si tratta del vermiforme Leto Atreides che, dai nove del precedente episodio, si catapulta in un batter d’occhio ai suoi pazzeschi tremilacinquecento anni di età. Il libro inizia in un futuro remotissimo, nel quale la cultura della Terra è ormai dimenticata da tutti, tranne che dal protagonista. Una figura indimenticabile, eternamente adolescente senza aver mai provato nella carne l’adolescenza. Contrariamente agli stereotipi, i ragazzi pensano moltissimo al futuro. La giovinezza è il momento nel quale si decide il corso della propria vita. Per una giovane mente seria e interessata alla politica, ciò si traduce nel quesito: come servirò la collettività? Può un individuo fare davvero la differenza? L’imperatore-dio di Dune offre una sferzante risposta positiva, ma ambigua. I lettori comprendono, inevitabilmente con difficoltà, che il “sì” a quelle domande tanto più è necessario, quanto è più arduo, rischioso, anche doloroso. I libri herbertiani sono una lezione, in realtà, su cosa non fare. 77

L’autore analizza i disegni ciclici della società e i nostri vari motori evolutivi. Usando l’innata memoria genetica multipla, Leto è l’unico ad avere la conoscenza dell’intera storia umana. Può ricordare gli schemi e gli effetti di tutte le istituzioni tiranniche, da Babilonia a quelle cristiane della Vecchia Terra. Può allora costruire un tipo futuristico di istituzione totalitaria che unisce e sublima tutti gli esempi L’Imperoprecedenti.deldivino

Atreides, però, è diverso da qualsiasi altro: è deliberatamente disegnato per terminare nella sua stessa distruzione.L’unico scopo che ha è essere parte di uno sterminato piano per salvare l’umanità dall’estinzione, il pericolo già visto dagli oracoli del padre messianico. Il figlio-verme esplora, in diversi millenni di visioni, gli effetti emergenti della civilizzazione. Nota che ogni struttura sociopolitica gerarchica è il residuo più durevole di urgenze legate alla primitiva sicurezza tribale. La gerarchia è quindi un’involuzione, destinata a tendere non all’infinito ma, al contrario, alloLeto,zero.instaurando

un lunghissimo impero autocratico perfettamente sicuro ma assolutamente stabile, consegna la più terribile lezione sulla maggiore redenzione razziale. Una lezione così dura sarà valida attraverso la Storia… Insomma: per operare il necessario passo nell’evoluzione e salvarsi dalla scomparsa definitiva, al genere umano serve dimenticare per sempre questo stato inamovibile, fisso. Serve spostarsi, avanzare staccandosi da ogni concetto preistorico legato alla tribù. Restare fermi è la soluzione più facile; ma la più importante regola naturale, valida soprattutto per le relazioni umane di qualsiasi livello, è che senza movimento giunge la morte. Dopo una lezione dittatoriale così terrificante, la finora inascoltata teoria che alla stasi sia sempre da preferire il dinamismo, che alla paralisi serva opporre l’azione, per gli uomini e le donne diverrà l’automatica pratica. 78

Questo Arrakis, un tempo conosciuto come Dune, ha compiuto di conseguenza la trasformazione ecologica sognata da Liet-Kynes. È verde e temperato, perfettamente abitabile dagli umani: esempio globale della dinamica incessante della natura, umana e planetaria. Non a caso l’Imperatore-dio intende ora ripetere il ciclo, riavviarlo per riportare il pianeta al deserto di un tempo. Il romanzo è stilisticamente nuovo. L’introduzione è ambientata molto tempo dopo la narrazione. È un “a posteriori” nel quale gli archeologi e storici dell’ancora più remoto futuro, capitanati da una tale Hadi Benotto, rintracciano i diari personali dell’Imperatoredio; lo fanno a Dar-es-Balat su un certo Rakis, dopo la misteriosa Diaspora – come vedremo, termini ed eventi ripresi nei due seguiti, Eretici e Rifondazione –. Con questi Diari rubati gli studiosi del futuro integrano e chiariscono l’antichissima vicenda di Leto II Atreides, dai contemporanei detto «il Verme». Segue la mole vera e propria del libro di Herbert, tutto ritmato da citazioni e riflessioni espressi dal solo personaggio principale, cosa mai successa prima nel ciclo, nel quale i punti di vista si moltiplicavano per ogni capitolo. Si tratta di un artificio legato a come Herbert ne ha pensato la stesura: la prima composizione dell’Imperatore-dio viene realizzata con una voce narrante in prima persona, compresa di note d’aiuto nel caso di trascrizione nella più classica terza persona – scelta editoriale poi effettivamente compiuta –. L’autore allora integra nel romanzo tutto il materiale in prima persona non riscritto, trasformandolo nei Diari Rubati redatti cinquecento anni prima dell’azione dal disperato Leto per trasmettere la propria intima personalità ai critici a venire. Testi sinceri, informali e provocatori che variano da tematiche governative ad altre profetiche, dalla natura di sé fino a quella del linguaggio. In questo modo Leto II domina il libro a tal punto che gli altri personaggi sembrano esistere solo per estrarne e metterne sotto il microscopio le alienate variabilità caratteriali. Tutte queste pur in79

dimenticabili figure di comprimari sono ossessionate nel privato dal raccapricciante God Emperor. Leto II è un violento setaccio di emozioni umane: scuote senza cortesie uomini e donne e ne scruta, nell’animo, la risultante essenza della verità degli eventi. Sono enormi poteri che però gli hanno tolto ogni emozione personale. Resta l’onnisciente visionario immerso nella noia perenne di una lunghissima esistenza senza sorprese. Ogni avvenimento imprevisto, per quanto spiacevole, è allora un insperato sollazzo, un divertimento inestimabile. È il prezzo dell’onnipotenza immortale.

Il destino è di mutarsi in un vero e proprio Creatore. Pur potendo strisciare e rotolare come un grosso lombrico, preferisce essere trasportato dall’enorme Carro Reale costruito dai tecnici di Ix, con ruote e sospensori. Richiama ironicamente l’indecente obesità del bisnonno Vladimir Harkonnen. È il suo animo, però, ad aver subito il cambiamento più triste. Da eroe sacrificale, mosso dalla volontà di regalare all’umanità in pericolo il terribile ma luminoso Sentiero Dorato; adesso è il più illiberale dittatore mai esistito, lunatico e instabile. Un bieco pazzo con in mano il potere più incontrastato e longevo della storia. Il Verme dopo tre millenni e mezzoè ancora sicurissimo delle sue azioni, ma 80

La sua forma ibrida è in continua evoluzione. I Piccoli Creatori che gli avevano coperto con la pelle di trota il corpo di bambino sono mutati in un organismo vermiforme. Più di tremila anni dopo I figli di Dune, quando Leto si descrive nell’introduzione del quarto romanzo (i diari poi scoperti a Dar-es-Balat), è lungo circa sette metri e largo più di due, dal peso di cinque tonnellate. In crescita. All’estremità del corpo costolato, le gambe sono inutili appendici a forma di pinne. Dall’altra parte le braccia e mani umane e la faccia da erede degli Atreides, ad altezza d’uomo e avvolta negli anelli della creatura aliena come da collare e cappuccio richiudibili a volontà, contribuiscono alla ripugnanza del suo grottesco aspetto.

I libri di Dune sono racconti di avvertimento e monito. «Non fidatevi che i capi siano sempre nel giusto» ripete l’autore. I suoi tiranni prescienti usano il carisma e un’intera storia umana di religioni messianiche per creare orrori indicibili. L’eroe tragico, intuito dai greci, viene riproposto da Shakespeare, dal drammaturgo francese Jean Racine (1639-1699) e dallo scrittore russo Fëdor Dostoevskij (1821-1881). Ma non si tratta di testi didattici. Paul e Leto II sono protagonisti inizialmente simpatici. Non si tratta di vedere come il genere umano reagisca ai despoti, bensì come i despoti ritengano, sul lungo periodo, indispensabile e giusto divenire tali. La differenza è che prima Paul, poi soprattutto Leto non “ritengono”, sanno. Quest’ultimo è a conoscenza che il fardello di fare il poliziotto cattivo è un obbligo, che la sua guerra è di certo quella che porrà fine a tutte le guerre. Dalla visione non esiste fuga. La gente che nel romanzo crede di poterglisi ribellare in effetti è al servizio dei suoi obiettivi. Se il leader è sia onnipotente sia presciente, la resistenza, la stessa vita dei sudditi sono semplicemente permesse e cooptate. Stavolta il punto di vista di dio è da interpretare in modo letterale. Il Sentiero Dorato o la Via Aurea è al centro della prospettiva: la sofferenza è da imporre a sé stesso ma anche alla razza, affinché impari. Oltre tutto, servono discendenti sui quali la dannata prescienza sia inattiva. Il regime oppressivo di Leto è l’unico modo di suscitare la maturazione morale e biologica dei primitivi umani. 81

sembra impossibile capire come queste abiezioni epocali possano essere utili allo sviluppo di una civiltà benigna.

La sconsolata invenzione narrativa di Herbert, ancora una volta, è comprensibile grazie a un estratto del rigoroso Jung: Se mi chiedo quale sia stato il valore della mia vita, posso apprezzarlo solo nella prospettiva di secoli […] vagliata con il metro delle idee di oggi, essa non ha alcun significato.

Rimangono i ricordi del passato. L’incesto sublimato è consumato con l’amatissima gemella Ghanima (dall’arabo ال ن مة, “bottino di guerra”). L’unione feconda di lei con l’intellettuale Farad’n, il superstite di una catastrofe sociale che acquista, come nella fine straziante e cataclismatica del Re Lear, una seppur fragile consapevolezza morale – la readiness dell’Amleto terminale –. Il Corrino, infatti, sa superare gli inganni delle vie più brevi, come ad esempio l’assurdo tentativo della madre Wensicia di impiantare il ciclo verme/droga su Salusa Secundus; e, riconoscendo la forza sovrannaturale che comanda la vita umana, accetta i propri limiti: altro legame di Herbert con il Bardo, anche se forse il morente Amleto non matura così tanto dietro le sue innumerevoli maschere. Una seppur labile maturazione tocca invece Re Lear, stroncato e consapevole della strage che ha causato nell’orgoglio senile. In questo senso le coppie Ghanima/Farad’n e Siona/Duncan sopravvivono a quello che credono un eroe divino, unione tra il troppo umano e l’oltre umano. Anche loro spietati, perfino nel sacrificio delle loro discendenze a un progetto incerto. Insomma, meno Amleto, melodramma di morte graziato da uno dei personaggi più memorabili, e più Re Lear, la tragedia definitiva. Inoltre, la sessualità che, se per Leto non è genitorialità ma solo motore psicologico del procedere della specie, per Ghanima e Farad’n assume una valenza più pratica, fonte di una discendenza Atreides/Corrino/Harkonnen che è sintesi pilotata al miglioramento. L’erede Siona, infatti, è geneticamente invisibile alla prescienza, le sue azioni umane nascoste all’onniscienza divina. Irrompe l’urgenza del presente. È nella situazione di Leto II, sfinge che pone indovinelli mentali e cerca di ingannare chi ha davanti per continuare il progetto edipico nella menomazione dell’onnipotente, che esprime nondimeno il desiderio sensuale verso colei che non può raggiungere e che sa essere stata costruita per distruggerlo, come pure nella condanna dell’Imperatore-dio, sovrano filo82

sofo e sterminatore come Marco Aurelio (121-180 d.C.): spezzare l’eterna ruota che ci precipita nel baratro, immolandosi per quei sudditi che per millenni ha schiacciato sotto di sé; nella maledizione del serpente fallico che vive al buio e atterrisce: Leto è una sorta di despota orientale, con tanto di guardia pretoriana costituita da fanatiche guerriere dette Fish Speaker, Ittiointerpreti – un harem in senso figurato, dato che non è più un essere umano; nel mistero concretizzato del Potere carismatico: è l’incarnazione dello Stato inteso come il grande Leviatano. L’immagine del mostro biblico, evocata in epoca moderna dal filosofo e matematico inglese Thomas Hobbes (1588-1679), serve a rappresentarne la forza inarrestabile, in cui coincidono le figure della singola guida e dell’intera Nazione guidata.Herbert

supera sé stesso. Dopo aver mostrato perché l’umanità, nel tempo, cambi l’ambiente e come l’ambiente, nel tempo, condizioni l’umanità, inserisce nell’equazione l’incognita definitiva: un uomo divinizzato in grado di trascendere i congeniti limiti mortali e manovrare le tre variabili (ambiente, cultura e tempo) per piegare, in modo vertiginoso, il destino. Al centro del palcoscenico umano e universale si piazza l’individuo, estraniato dai suoi pari per assumere il ruolo di artigiano degli eventi, l’unico scopo cercato da sempre, in ogni luogo. Jung strappa l’origine psicologica di questo turpe leader illimitato, monopolista, genetista:Al“Mondo di Dio” apparteneva tutto ciò che era sovrumano, la luce abbagliante, l’oscurità dell’abisso, la fredda impassibilità dello spazio infinito e del tempo, l’apparenza irreale e grottesca del mondo irreale del caso. “Dio”, per me, era tutto fuori che “edificante”.

Al servizio di Leto II, figlio di Paul Atreides e Imperatore-dio mutante, ci sono l’alternanza dei Duncan, frutto delle continue rinascite del Ghola di Idaho, tutti ogni volta comandanti delle Ittioin83

terpreti.

Tra queste amazzoni c’è l’instabile Nayla, fanatica esecutrice che Leto usa per i compiti più delicati. Infine il testimone Moneo Atreides, discendente di Ghanima e maestro di palazzo.

Tra i nemici, per prima Siona Ibn Fuad Al Seyefa Atreides, figlia di Moneo e comandante dei ribelli. Sua più fedele compagna è proprio Nayla, ma è una fedeltà dovuta all’ordine impartitogli da Leto di ubbidire a qualsiasi costo. Ciò provoca all’Ittiointerprete, decisiva spia imperiale, grossi problemi psicologici.

Le Bene Gesserit sono immancabili, seppur marginali: la Suprema Syaksa e le Reverende Madri Tertius Eilean Anteac, abile e scaltra, e Marcus Claire Luyseyal, superficiale Veridica. Compongono il quadro i sempre intriganti e contundenti Tleilaxu, dall’ambasciatore su Arrakis Duro Nunepi all’assistente Othwi Yake; e gli influenti e più furbi Ixiani, soprattutto la nuova ambasciatrice Hwi Noree e suo zio Malky. Due personaggi importanti. I tecnocrati di Ix costruiscono umani per distruggere Leto. Il primo è Malky, un “diavolo” contrapposto al dio imperiale, il Male incarnato in un affascinante Lucifero che scandaglia le profondità della pietà. L’obiettivo di questa malizia incarnata è spingere Leto a rivoltarsi sulla sua santa creazione. Malky fallisce perché nessun più della sua vittima divina è a conoscenza della blasfemia che ha creato. Proprio mentre Leto usa la pianificazione genetica delle Bene Gesserit per arrivare a un umano invisibile alla veggenza psichica, Ix inventa un’altra soluzione: le non-camere, un costrutto elettromeccanico che nasconde il suo contenuto alla prescienza: la rivincita della tecnologia. Nella prima non-camera nasce la nipote di Malky, che sostituisce nell’ambasciata ixiana. Hwi è l’opposto dello zio, una creatura “angelica” di pura bontà che, come Siona, non è mai apparsa nelle visioni di Leto. Ella, donna perfetta, è frutto dell’inedita alleanza della tecnica di Ix con la genetica del Bene Tleilax, artificio biologico per portare il Verme all’autodistruzione psicologica. È un successo, la vittima onnipo84

L’Idaho rappresenta la lealtà, l’umanità e lo spirito dell’ignoto, per Leto inesistente, visto che possiede la perfetta prescienza e le memorie di tutti gli antenati. Gli ego-ricordi del primo Duca Leto e di Paul Atreides, all’interno dell’Imperatore-dio, amano il vecchio amico e ne apprezzano la compagnia. Al contrario, la coscienza all’antica di Idaho è inevitabile si ribelli, spingendolo al tentativo di assassinio del tiranno. Leto afferma che solo diciannove dei suoi Duncan sono morti naturalmente, tutti gli altri li ha giustiziati lui stesso.IGhola giungono a corte psicologicamente instabili, spiazzati dai cambiamenti millenari. Si sentono antiquati e usati, subiscono il conflitto interiore tra la lealtà alla famiglia Atreides e il disgusto per l’oppressione dell’Imperatore-dio, che considerano corrotto. Il maschilista Idaho non è a proprio agio alla guida di un esercito di amazzoni fanatiche, le Ittiointerpreti. Il fatto che queste donne obbediscano senza pensare è opposto alla vecchia etica atreide. Ogni Duncan accetta la spiegazione del Verme: le femmine non hanno istinti predatori come i maschi. È sollevato dallo scoprire che Leto stesso dichiari il suo culto un obbrobrio. 85

L’invenzione del “clone” multiplo del Maestro di Spada di Ginaz Duncan Idaho prende la mano all’autore. Il principale problema dell’immortale Leto è la noiosa solitudine: per alleviarla, impone ai Tleilaxu la produzione dei Ghola di Idaho. Ciascun esemplare rimpiazza il predecessore alla sua morte; è una lunga serie di singoli compagni. Essi non hanno i ricordi delle copie successive, ma solamente quelli dell’originale ucciso dai Sardaukar in Dune.

tente si innamora. Ma Hwi è sedotta a sua volta dalla tragica visione del sentiero Dorato, che il sentimentale Leto le rivela. Egli morirà comunque, l’Impero crollerà affinché l’umanità, passando attraverso grandi sofferenze, possa diventare più matura e responsabile. Questa catena di eventi porta l’Imperatore-dio ad allentare la morsa tanto da concedere una possibilità alla rivolta di Siona.

Il romanzo inizia con un novello Ghola che ricorda come, resuscitato in un Mentat e filosofo Zensunni, è incaricato dai Tleilaxu di uccidere un Volto Danzante con le fattezze dell’amico Paul. Il rituale ripetizione dello shock psicologico in Messia di Dune è il metodo dei padroni per risvegliare le memorie biologiche della “prima vita”. Quest’ultimo Idaho, tuttavia, ricorda anche la sua “seconda vita”: pare essere una prova del Bene Tleilax, che avrebbe attivato pure i ricordi del primo Ghola fondendone il DNA a quello dell’originale.Non è l’unico giocattolo vivente di Leto. Molti giovani Atreides, tra i quali Moneo, hanno lottato contro l’Imperatore-dio per poi rientrare nei ranghi. Leto si definisce una sorta di «predatore»del genere umano. Come spiega al confuso maggiordomo, i Ghola di Duncan sono fondamentali nel programma genetico ripreso dal Bene Gesserit e, stavolta, legato al Sentiero Dorato. Essi si “sovrascrivono”, rafforzando precisi tratti biologici. Se Paul realizza il sogno dei Fremen di rendere Arrakis un mondo verde e fertile, essi diventano completamente funzionali alla sua causa e quel modo di vita è alterato nel profondo. È un antico popolo che si estingue. Se Leto realizza il piano di salvezza della specie, gli umani non smettono di combattersi e uccidersi a vicenda. La famiglia Atreides, insomma, è responsabile del bene comune con la realizzazione del Sentiero Dorato; ma è un clan di mostri, visto l’impattoche ha prima sul pianeta Dune e i suoi abitanti, poi sull’universo con l’ammontare di morte, guerra e terrore inflitto per il fine superiore. Herbert scrive nella seconda metà del ventesimo secolo, con la sensazione diffusa che la Storia terrestre si muova in una precisa direzione. In risposta alle due guerre mondiali avviene l’istituzione internazionale di governi liberal democratici, ma l’autore ritiene che la lezione non sia stata imparata. Afferma ad esempio che il suo presidente americano preferito è il reazionario e corrotto Richard Nixon (1913-1994), perché «ci ha insegnato a non fidarci dei go86

vernanti». Come stigmatizza Leto II, i ribelli odiano la necessaria crudeltà del predatore. L’illusione di un’unica, orrenda scelta di uno per la sopravvivenza dei molti è un classico della narrazione fantascientifica. L’idea estrema che possa esistere una sola soluzione al problema eterno, per la quale vada pagato un prezzo terrificante, attrae gli autori poiché mette l’intera umanità in un’enorme arena drammatica nella quale esistono infiniti modi per morire e uno per vivere. In questo caso non possiamo certo controbattere all’Imperatore-dio che la sua sia, appunto, un’idea illusoria. Egli conosce l’intero passato fino a Babilonia, parla la lingua di Saba, esclama «bestemmie già antiche quando la Caldea era giovane»… e con la trance di Spezia domina la prescienza dei futuri probabili. Possiamo certamente criticargli l’oggi, se non gli ieri e i domani: le vittime sparse nel momento presente. Ma, soprattutto, dobbiamo porgli domande precise sulle sue certezze variabili, poiché la preveggenza dell’oracolo racconta probabilità non risolutive. Lo stesso Sentiero Dorato è una speranza; su solide basi e con conseguenze certe, ma non definitive. La sopravvivenza dell’umanità non è un gioco enigmatico da risolvere in un solo modo; il nostro futuro è l’estremo wicked problem. Le soluzioni ai wicked problem non sono “vero/falso”, bensì sono “bene/ male” e non sono mai sufficienti, poiché collegate ad altri problemi. Le ripercussioni sono talmente vaste e numerose che addirittura la prescienza di Leto II Atreides mostrerebbe i suoi congeniti limiti. Il pianificatore che opera con i sistemi aperti è coinvolto nell’ambiguità delle loro ragnatele casuali. Sono preoccupanti affermazioni che contaminano anche il problema irrisolvibile dei nostri tempi, il cambiamento climatico. Ma non si tratta di una teoria che impedisce alle migliori menti politiche, sociali, filosofiche e scientifiche l’esame delle prove e l’azione; semplicemente, significa che l’attesa di un supergenio che ci mostri l’unica via d’uscita è una speranza falsa e pericolosa. È facile pensare 87

che ci debba essere stato un singolo momento in cui avremmo potuto fare la scelta per assicurarci un futuro migliore; un po’ come succede nella tragicommedia dell’assurdo Rosencrantz e Guildenstern sono morti scritta nel 1964 dal drammaturgo inglese Tom Stoppard, anche film nel 1990, in cui si cerca invano una soluzione altragico wicked problem di Amleto. Ma la verità è più terrificante e piena di speranza: sia il passato sia il futuro sono fatti di quei momenti decisivi. La questione della salvezza del mondo non presuppone un “sì” o un “no” come risposta, tutti in certa parte lo distruggiamo o lo salviamo costantemente. Ogni atto, per quanto binario e semplice sembri, è frutto di moltissime decisioni prese in precedenza su tanti sistemi diversi, e implica ripercussioni, alcune delle quali impossibili da prevedere. Anche per un Imperatore-dio Verme la salvezza dell’umanità è una buona cosa ma non riducibile a una semplice lista di cose da fare e da non fare. È questa l’immensa tragedia di Leto II Atreides, l’onnipotente e limitato figlio di Muad’Dib: l’obiettivo predefinito del suo sacrificio è l’essere maledetto in favore della speranza dell’anarchia.Primadi

arrivare a Tuono avviene una scena indimenticabile. Leto chiede a Hwi di condividere le anime, visto che non possono interagire fisicamente nel sesso data l’anormalità dell’uomo. Lei mostra una profonda empatia e riesce a vedere oltre l’abisso che separa l’amato dal resto dell’universo umano: una voragine che nessun altro oserebbe varcare. Questo amore gli fa versare lacrime, per quanto velenose. Agli Atreides che lo circondano, Leto deve sempre dimostrare l’orrore assoluto da evitare tramite la sua apparente tirannia del Sentiero Dorato; al contrario Hwi, senza alcuna prova, ne riconosce l’altruismo e sa credergli. Lei ama l’uomo-verme millenario, risvegliando in lui sentimenti dimenticati ed emozioni perdute: timore, sorpresa, ammirazione, comprensione reciproca, un momento di vera felicità della quale aveva perso ogni speranza. 88

Nel frattempo, si scava nel rapporto tra l’eversiva Siona e il Ghola consapevole di Duncan Idaho. L’Imperatore decide che la ragazza è rimasta indipendente abbastanza e manda le Ittiointerpreti a prelevarla. La accoppia con il Ghola e li manda in viaggio insieme. Siona, furiosa, porta l’uomo a Goygoa, un tempo noto come Jacurutu, l’antico luogo segreto di Leto. Una decisione crudele. Duncan è avvicinato da un giovane, figlio di un precedente sé stesso. Le personalità multiple entrano in conflitto. La madre sfoggia un’inquietante somiglianza con Lady Jessica, ricorrente fascinazione del personaggio. I due eroi si insultano a vicenda, frustrati dalle manipolazioni del Verme. Continua il dramma di Moneo, tanto fedele da capire che la cerimonia di matrimonio tra Leto e Hwi sia l’occasione per attentati. Egli rinchiude Duncan e Siona, con la fida Nayla, in un’oasi proibita chiamata Tuono. Le pareti a strapiombo permettono se ne esca solo tramite Ornitotteri volanti. Leto, divertito dalla cosa, decide che il luogo delle nozze sia proprio Tuono! La ribelle Atreides e il Ghola preparano l’agguato e dominano la parte più d’azione e romantica. Litigi da futuri innamorati si alternano a imprese fisiche al limite del possibile. Duncan, ammaliato da Hwi e nervoso con Siona, scala l’impossibile parete verticale che circonda l’oasi. È Nayla, l’Ittiointerprete devastata dalla guerra interiore, ad avere in canna il colpo finale. Ella è in preda a una crisi schizofrenica: l’Imperatore-dio le ha imposto segretamente di obbedire a tutti gli ordini dell’odiata Siona, ma come può lei uccidere il suo padrone? È l’inconsapevole agente del suicidio del tiranno. L’attentato fa cadere il sovrano nell’acqua, sostanza letale per lui così vicino alla natura dei vermi di Dune. Se il fluido qui è morte, è anche il ritorno all’utero fremente della madre Chani. L’acqua è il simbolo più ambiguo, il bene e il male insieme: dal liquido amniotico della nascita alle onde che solchiamo, i flutti in cui annegheremo sognando l’immortalità e la restituzione al ventre materno. Mentre scivola dal Carro Reale, Leto è cosciente della fine ma può solo a 89

pensare all’immagine dell’amata Hwi Noree. In effetti l’ambasciatrice di Ix, creata per essere la trappola vivente, si è realmente innamorata della vittima in una “riedizione” della Bella e la bestia. Del resto, il tallone d’Achille di Leto II è proprio l’amore. Il sentimentale Verme piomba nel fiume: distante fontana perlacea che segna il suo tuffo tra le nebbie e i sogni della fine. Gli ultimi pensieri, calmi e sereni, ondeggiano in tutti i ricordi e le aspirazioni di una vita plurimillenaria.

Le bollicine feroci lo racchiudono nella sofferenza. La corrente l’azzanna mentre cerca di emergere. Il suo corpo si sfalda a poco a poco in tormenti insopportabili, quei frammenti sono le Trote della Sabbia che nuotano via per cominciare una nuova vita. Leto è privo della pelle di trota, inerme all’attacco dell’acqua. Allo stremo, viene raggiunto sulle rive del fiume da Siona e Nayla, sconvolta e incredula nel vedere il suo dio moribondo. Duncan, furioso per la morte di Hwi, uccide l’Ittiointerprete. Ormai agonizzante, Leto confida che il Sentiero Dorato, sua eredità, non può essere conosciuto da nessuna prescienza. L’enorme corpo del Verme si scioglie e non resta che un osso rossastro e delle pozzanghere azzurre. Duncan e Siona se ne vanno mano nella mano. Il desiderio di Leto si è avverato: è l’unione prevista dai programmi genetici imperialdivini. Da loro nascerà la stirpe che condurrà l’umanità sul Sentiero Dorato.Lamorte di Leto risolve l’estinzione dei Vermi delle Sabbie, facendoli rinascere in una nuova progenie più intelligente e dotata di «perle di consapevolezza» del longevo tiranno, il quale accetta un tremendo destino discendente nella terra, opposto alla fine terrena del Cristo che è indirizzato all’ascensione celeste. Difatti, una perdurante goccia di sé resta persa in molteplici creature bestiali vaganti sotto le dune. Il tutto nel nome della libertà assoluta, già matrice dei nostri, antichi maestri greci: Leto come Anticristo o novello Lucifero cristiano, più ancora Prometeo, il Titano la cui azione 90

Questi sei romanzi evidenziano come il genere umano debba continuamente cambiare e debbano cambiare, sulla sua scia, le istituzioni che costruisce per poter prosperare. La consapevolezza ecologica è il segreto del successo, sia all’interno dell’opera letteraria sia all’esterno, ossia nella nostra realtà comune lì rappresen91

dei primordi origina la condizione esistenziale umana, in antitesi a Zeus.L’Imperatore-dio

Leto II Atreides, contro la stagnazione e nel nome del movimento ciclico, rimodifica Arrakis riportandolo a essere Dune, il pianeta desertico che era stato millenni prima, il luogo adatto per la vita dei Vermi delle Sabbie poiché da loro stessi creato. Inoltre, nell’elevazione a potenza tipico dell’autore, che fin dall’inizio accoppia l’evoluzione ecologica a quella civile, modifica di conseguenza la sociopolitica. Dalle Bene Gesserit al Bene Tleilax, dagli inventori Ixiani alle guerriere Ittiointerpreti, anche le altre forze in campo ricevono una ventata di freschezza, che le porterà a rientrare nel grande disegno. È la predisposizione alla venuta del Sentiero Dorato: l’ultima occasione di sopravvivenza della specie umana, dopo un illusorio periodo di tranquillità artificiale. Il Vermebambino pianifica il proprio assassinio, sapendo che causerà rivolte sanguinose ma anche un nuovo boom basato sulla colonizzazione dell’Universo Sconosciuto. Il caos, le carestie, le guerre sfrenate destinate a succedere alla millenaria pace imposta spingono i trilioni di uomini e donne a spargersi nella libertà dello spazio aperto. È l’incredibile fase storica della Diaspora, the Scattering. La trilogia originale di Dune è completata negli Anni Ottanta da altri tre libri richiesti a furor di popolo; anche per lo scalpore scatenato dal kolossal filmico che David Lynch trae, in quel periodo, dal primo romanzo. Il finale letterario dei sei tomi resta oscillante per l’addio fatale al nostro mondo verdeazzurro del demiurgo, in quel momento al lavoro su un settimo episodio. La serie è incompiuta ma abbondano gli appunti, le note, i progetti.

tata. L’analisi herbertiana è dedicata, fin nei minimi dettagli, alla relazione tra l’individuo con la Storia umana della quale è erede e con la società nella quale vive. L’uomo e la donna devono, alla base, confrontarsi in ogni istante con la collettività ma, allo stesso tempo, sapersi innalzare al livello di Dio per poter vedere il più possibile dall’alto e il più lontano possibile. Ciascun personaggio è una moltitudine e intere genti esistono in un singolo personaggio. Ogni cosa si ripete, si rafforza, si esplica in un cerchio la cui circonferenza cronologica copre migliaia di secoli.

Le Reverende Madri del Bene Gesserit trasmettono i propri ricordi plastici da una generazione all’altra. Alia, Leto II, Ghanima Atreides parlano a tu per tu con i loro antenati. Scytale si accompagna a una capsula con l’intera collezione dei geni del suo popolo estinto. Duncan Idaho continua a reincarnarsi nei millenni e, a seguito di un trauma psicofisico, ad accumulare strati su strati di vicende soggettive. Tutti testimoni diretti di eventi storici di portata cosmica.PaulAtreides, protagonista della prima parte del ciclo, rappresenta il tema della privazione dell’autonomia e dell’assenza dell’io. In lui è evidente come il mondo adulto della contrapposizione politica crei veri e propri mostri, minacciando l’integrità di un giovane che si è avventurato nella vita pubblica per due motivi: ribellarsi alla madre e vendicare il padre. Di là del muro psichico di Leto Atreides II, il dio imperiale protagonista della seconda parte, c’è ancora un bambino, il piccolo che è rimasto intrappolato nell’infanzia mai compiuta, a causa della rinuncia sacrificale alle esperienze affettive. Abbattere il muro significa mostrare la propria umanità più intima, le conseguenze più amare delle proprie scelte, i propri sentimenti a lungo nascosti. Entrambi, padre e figlio, si trasformano in tiranni rivoluzionari, cani furenti che per abbattere i maiali al potere non esitano a sobillare e usare le pecore sottomesse. Entrambi ne pagano il prezzo. 92

Gli eredi, dalle femmine al comando ai maschi duplicati, hanno il dovere di godere ciò che è stato acquisito con così tanta sofferenza.

Murbella e Sheeana, Miles Teg e Duncan Idaho portano il peso della responsabilità, come facciamo tutti noi.

ROSSI F ILIPPO, Dune – Tra le sabbie del mito, Salerno, Edizioni NPE, 2021

ROSSI FILIPPO, Tutte le Guerre Stellari – La metafisica della Forza nella saga di Star Wars, Padova, Runa Editrice, 2020

ROSSI FILIPPO, La Forza sia con voi – Storia, simboli e significati della saga di Star Wars, Milano, Áncora Editrice, 2017 (scritto con Paolo Gulisano)

ROSSI FILIPPO, Super – Ottant’anni del primo supereroe: da Nembo Kid a Superman, Padova, Runa Editrice, 2018

1NOTAPeralcuni

Bibliografia1

autori, nella bibliografia può essere stata aggiunta una piccola parte della produzione bibliografica. 93

94

BIOGRAFIE DEGLI AUTORI STEFANO BRACALI

Email: Facebook:stefanobracali9365@gmail.comStefanoBracali(Steven)

95

Ha seguito corsi di Filosofia presso Università La Sapienza in Roma.

Attualmente è Iscritto al corso di LM in “Religioni, Culture e Storia” presso Università Roma Tre in Roma. Oltre alla Storia delle Religioni, alla Filosofia, Teologia e Pedagogia, altri ambiti di interesse sono la Sociologia e la Psicologia Sociale.

Stefano Bracali nasce a Grosseto (GR) il 9 marzo del 1965. studioso e libero ricercatore (in passato libero professionista tecnico), ha conseguito LT e LM in Scienze Religiose ad indirizzo Pedagogico-Didattico presso ISSRT-Facoltà Teologica Pontificia dell’Italia Centrale in Firenze, con tesi magistrale dal titolo Fenomenologia dell’Intersoggettività in Edith Stein e Romano Guardini e la PedagogiaErmeneuticaEsistenziale.

Ha scritto il racconto Sothy, inserito nell’antologia Di Pari Passo, edito da Blitos Edizioni (2022), e con prefazione a cura di Stefania Lombardi.

GIULIA CALAMIDA

96

Nata a Cagliari, laureata in Lingue e Letterature Straniere, vive a Pescia in Toscana, e lavora nell’ambito dei mutui. Cittadina di un mondo in cui, apparentemente, il caso sembra aver guidato le sue scelte più importanti, è appassionata di persone, parole, spirito, esoterismo, astrologia, filosofia, psicologia, poesia, attraverso cui cerca di riunire il senso degli opposti delle cose di tutti i giorni.

DANILO CAMPANELLA

Danilo Campanella è un filosofo specializzato in studi politico-sociali. È stato vicedirettore del Master in Filosofia Interculturale all’Ateneo Svizzero Arssup. È socio dell’ANPS (Associazione Nazionale Polizia di Stato); della SIFP (Società Italiana di Filosofia Politica); e donatore dell’AVIS (Associazione Volontari Italiani del Sangue) di cui è medaglia di bronzo. Autore di libri e di articoli su riviste specializzate, il suo lavoro di ricerca si concentra sul postmodernismo: in particolare, la politica, il crimine e la sicurezza, l’intelligence, il controllo dall’alto. Tra i suoi successi editoriali: Aldo Moro e Nelson Mandela, due biografie pubblicate dalle Edizioni Paoline.ÈDirettore

della collana editoriale “Occultismo” per la Tau Edizioni. Nella sua trilogia storico-critica dal titolo Occultismo, Stregoneria, Spiritismo, analizza i nessi tra superstizione e società, evidenziando i meccanismi criminologici del fenomeno settario, della truffa e della coercizione, dall’antichità fino ai giorni nostri. Nei suoi articoli, pubblicati su giornali e riviste scientifiche, inoltre, analizza i messaggi subliminali nella politica e nell’economia di mercato, l’evoluzione dei processi sociali e politici, e i nuovi paradigmi della sicurezza sociale, del controllo e dell’autorità, dell’era dei media. Nel suo libro La fine del nostro tempo (Dissensi Editore), è tra i testi d’esame proposti nel corso di Psicologia Generale (56476) 97

nell’anno accademico 2016/2017 all’Università degli Studi di Genova.Collabora con la FUISS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori); con la rivista «Divenire: rassegna di studi interdisciplinari sulla tecnica e sul postumano»; con «Rivista di Scienze Sociali» – Sociologia Scienze Giuridiche Psicologia Antropologia Culturale; con «NonQuotidiano»; «Il Domani d’Italia»; «L’Opinione delle Libertà»; «Storia e Verità»; «Ratio Legis»; «La Civiltà Cattolica». Professionalmente, con la società Italservizi 2007 (coordinatore) e con la Fisascat Cisl (delegato dirigente).

•2016.speciale.Premio

Nazionale di Filosofia, Città di Certaldo, Terzo Classificato.•2019.Premio

Premio Nazionale di Filosofia, Città di Certaldo, Menzione

Letterario “Il Telescopio”, Roma. Primo Classificato 98

TITOLI ACCADEMICI: Laurea specialistica (Licenza) in Filosofia presso la “Pontificia Università Lateranense” (Città del Vaticano); Dottore magistrale, Laurea Magistrale in Filosofia presso l’“Università degli Studi di Roma Tor Vergata”; Master in Geopolitica presso la “Società Italiana per la Organizzazione Internazionale” (SIOI); Dottorato in Filosofia (P.hD) presso la “Pontificia Università Lateranense”. Il suo lavoro è citato su libri e riviste, tesi di laurea, bibliografie e articoli su Wikipedia.Traipremi che gli sono stati riconosciuti come scrittore vengono ricordati:•2015.

GIUSEPPE D’ACUNTO

Dopo aver insegnato nelle Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” e dell’Università Europea di Roma, ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale per la seconda fascia nella classe di concorso “Estetica e filosofia dei linguaggi”. È condirettore della rivista «Azioni Parallele» e membro del Comitato direttivo del “Centro per la Filosofia Italiana”. Il suo ultimo libro pubblicato è Respiro. Il ritmo della porosità del vivente (Trieste, Asterios, 2022). Un suo precedente libro, Semiotica dell’espressione. Il gesto che si fa ritmo, parola (Roma, Lithos, 2013), si è classificato primo nella sezione saggistica del Premio Nazionale di Filosofia “Figure del pensiero”, edizione 2015. 99

Sergio Daniele Donati (Milano, 1966). Avvocato milanese, scrittore e poeta. Autore per Mimesis edizioni (Collana dei Taccuini del Silenzio) del libro: E mi coprii i volti al soffio del Silenzio (2018). Il testo propone spunti sul valore del silenzio nel pensiero ebraico oltre a riflessioni autobiografiche.

Nel suo blog Le Parole di Fedro (leparoledifedro.com) si possono leggere alcuni dei suoi percorsi nel linguaggio poetico e narrativo. La sua poesia Dimore è apparsa sulla rivista online «Poetarum Silva» in data 17.05.2021 nella collana Il demone dell’analogia. Tre suoi inediti sono stati pubblicati in data 26.03.2021 sulla rivista online «Poetarum Silva» nella collana “Una domenica inedita”. La sua poesia Teshuvah è apparsa in Antologia Aletti editore 2020 relativa al Concorso “Dedicato a…Giornata Mondiale della Poesia”, XVII, tra le finaliste. La sua poesia Timidezze è stata indicata tra le finaliste al concorso Federiciano II (2020) Aletti Editore.

La sua poesia Itaca è stata pubblicata su «Repubblica (Napoli) - Inserto poesia -» del 19.12.2020 La sua poesia Canto, scritta a quattro mani con Silvia Tebaldi, è stata pubblicata sulla rivista online «Poetarum Silva». 100

SERGIO DANIELE DONATI

Studioso di meditazione ebraica ed estremo orientale. Insegna cultura e meditazione ebraica in associazioni e scuole di formazione. Tiene seminari sul valore simbolico dell’alfabeto ebraico. Collabora con varie riviste e pubblicazioni online. Recente pubblicazione: Il canto della Moabita, Ensemble ed. (2021), indicata anche in bibliografia. 101

Di recente è uscito il volume che ha scritto a 28 mani con altri autori dal titolo Project Management e progetti europei. Sinergie, buone pratiche, esperienze ed edito da FrancoAngeli. Ha svolto docenze all’interno del master universitario dal titolo “Master europeo in Imprenditorialità sociale e e-governance locale” ed è docente accreditata rogatonaleManagement).creditati?letter=l)(https://www.isipm.org/accreditamentiisipm/docenti-ac-pressoISIPM(IstitutoItalianodiProjectFaparte,dal2014,dellaGiuriadelPremioNazio-diFilosofia.Ilsuobrevesaggioconsupportoaudiovisivo,Lasocietàdelsur-,haricevutounamenzionespecialeperl’edizione2016delpremiointernazionale“CatalunyaLiteraria”,classificandosinella

STEFANIA LOMBARDI

102

Stefania Lombardi è PhD in Filosofia Morale; si è addottorata con una tesi che ha trattato temi che vertevano sull’apolidia e la filosofia di Arendt; è stata Assegnista di ricerca nella comunicazione progettuale presso CNR-IGG; attualmente, grazie a un incarico di bibliotecaria presso il CNR-ISTI, ha modo di potersi occupare di letteratura grigia, Open Science e Open Access legato alle pubblicazioni scientifiche. Inoltre, è PMP® (Project Management Professional) e master in Europrogettazione con esperienza nella gestione e nella comunicazione scientifica di numerosi progetti di ricerca a finanziamento europeo.

terna dei finalisti. Ha fatto parte, per un anno, della redazione della rivista «Il Project Manager», edita da FrancoAngeli. In passato ha inoltre curato le edizioni 2008 e 2009, sia in lingua inglese che in lingua italiana, di due libri sui progetti di ricerca del Dipartimento ICT (Information and Communications Technology) del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Studiosa di Hannah Arendt con un’antica e rinnovata passione per Shakespeare. Per quanto concerne il link ad attività didattico/divulgative si rimanda alla conferenza sulla letteratura grigia del 2020 (https://av.tib.eu/media/50110) e alla conferenza sulla letteratura grigia del 2021 (https://www.youtube.com/watch?v=JxCPxx L1RxA&t=64s).Quiillinkadaltra conferenza didattico/divulgativa (organizzatrice e relatrice) con video 1&size=20https://zenodo.org/communities/convegnoangoscia2021/?page=scaricabili:

103

Produzione bibliografica: A NTONIO M ARTONE , ECity. Antropologia della tecnica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2018

Antonio Martone insegna Filosofia Politica, Storia delle dottrine politiche e Filosofie del corpo presso l’Università di Salerno. Tanti suoi scritti sono presenti in testi collettanei e in riviste specializzate cartacee e online. Fa parte del comitato scientifico di collane editoriali e della redazione di varie riviste. L’indagine multidisciplinare sulla democrazia moderna e contemporanea, oltre che sulla condizione antropologico-politica della soggettività contemporanea, costituisce da tempo l’orizzonte fondamentale della sua ricerca.

ANTONIO MARTONE, NoCity. Paura e democrazia nell’età globale, Roma, Castelvecchi, 2021

ANTONIO MARTONE, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni, Milano-Udine, Mimesis, 2011

ANTONIO MARTONE

ANTONIO MARTONE, Storia, filosofia e politica Camus e MerleauPonty, Napoli, La città del sole, 2003 ANTONIO MARTONE, Un’etica del nulla. Libertà, esistenza, politica, Napoli, Liguori, 2001

ANTONIO MARTONE, Verità e comunità in Maurice Merleau-Ponty, Napoli, La città del sole, 1998 104

105

Massimo Moro è, inoltre, consigliere del Consiglio direttivo Yavin 4 (il fan club italiano di Star Wars, del Fantastico e della Fantascienza – www.yavinquattro. net), fondato e presieduto da Filippo Rossi, per il biennio 2022-2023.

Massimo Moro è nato il 26 ottobre 1971 a Treviso e vive a Villorba (TV) dal 2020. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Padova con una tesi di diritto pubblico su giustizia e referendum, è sposato, ha due figli ed è un funzionario pubblico. Si occupa di risorse umane, in particolare di assunzioni e incarichi di dipendenti pubblici. Le sue passioni sono la musica rock, il fumetto supereroistico (in particolare gli X-Men di Chris Claremont e di Grant Morrison), la fantascienza (in particolare il ciclo di Dune di Frank Herbert e Star Wars), la filosofia, la storia, l’informatica e la letteratura (in particolare le tragedie shakespeariane).

MASSIMO MORO

Antonina Nocera vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante nella scuola secondaria superiore.

Carver 2021 Etnabook festival 2021 106

Ha pubblicato saggi e monografie oltre a contributi critici e racconti su riviste come «Kaiak-A philosophical Journey», «Il Maradagàl», «Kainos», «Antinomie», «Limina».

ANTONINA NOCERA

Gestisce il blog letterario Bibliovorax (www.bibliovorax.it) ed è direttrice di collana per Augeo- quaderno di scienze umane- (Divergenze), scrive sulla pagina Cultura Italia- Russia, dedicata alla divulgazione della cultura e della letteratura russa.

Tra i riconoscimenti si segnala la presenza come finalista nei premi:Contropremio

di Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, fa parte della redazione della rivista tolkieniana «Éndore» e dell’Associazione Italiana Studi Tolkieniani.

Per Mondadori ha supervisionato la riedizione 2015 dei romanzi tratti dalla trilogia classica di Guerre Stellari ed è accreditato come consulente alla traduzione dei romanzi ufficiali di Star Wars (Lucasfilm), nella collana Oscar Fantastica. Dal 2017 collabora con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’università degli studi di Trieste. Conduce a Pordenone conferenze su comics e film al PAFF! Palazzo Arti Fumetto Friuli. Ha pubblicato quattro volumi di saggistica… 107

Filippo Rossi, detto “Jedifil”, è nato il 14 febbraio 1971 a Rovigo e vive a Trieste dal 2009. Si occupa di telecomunicazioni digitali, disegno, fumetto, grafica e scrittura. È esperto e appassionato di Star Wars, supereroi e fantascienza. Ideatore, co-fondatore e presidente di Yavin 4 (il fan club italiano di Star Wars, del Fantastico e della Fantascienza – www.yavinquattro.net), è creatore di «Living Force Magazine», vincitrice del Premio Italia 2013 e 2016 come Miglior Fanzine italiana di scienceAppassionatofiction.

FILIPPO ROSSI

Contatti E-mail - jedifil@hotmail.com / filippo.rossi71@yahoo.it Cellulare – +39 328 3377523 Sito: PaginaInstagramFacebookhttps://jedifil.wixsite.com/filipporossi–Filippo“Jedifil”Rossi/Filippo.Rossi.Lab–filippo_jedifilFacebookdellibroLaForzasiacon voi Paginawww.facebook.com/laForzasiaconvoiInstagramdellibroLaForza sia con voi – laforzasiaconvoi Pagina Facebook del libro Super – www.facebook.com/super80anni Pagina Facebook del libro Tutte le Guerre Stellari www.facebook.com/TutteLeGuerreStellariPaginaFacebookdellibroDune – Tra le sabbie del mito https://www.facebook.com/DuneTraLeSabbieDelMito 108

SGUERSO

. 109

FULVIO

Fulvio Sguerso è nato a Ceparana, Comune di Bolano (SP), il 28 marzo del 1943. Dopo essersi laureato a Torino in Pedagogia con una tesi sulla formazione del pensiero di Antonio Gramsci, ha insegnato per alcuni anni nelle Scuole Elementari, prima a Torino e poi in provincia di Savona, la sua città d'origine. È stato, poi, docente di Materie Letterarie presso vari Istituti professionali fino al 2009, quando è andato in pensione. In seguito, si è diplomato in Counseling a orientamento filosofico, con una tesi sul Fedro di Platone. Ha collaborato al mensile cattolico diocesano savonese «Il Letimbro».Collabora da anni alla rivista online «Trucioli savonesi». Come ricercatore volontario presso il Centro Studi Don Milani di Genova, si occupa della ideologia delle vecchie e delle nuove Destre

Risulta vincitore nella sezione “Pratiche filosofiche” del “Premio nazionale di filosofia” nella sua XI edizione, la cui premiazione si è tenuta a Certaldo nel giugno del 2017.

Ha partecipato a diversi convegni ed incontri a carattere istituzionale sulla consulenza filosofica. Costantemente aggiornato, studioso, divulgatore e formatore, è professionista nelle pratiche filosofiche da diversi anni”

https://www.linkedin.com/in/federico-virgilio-883585190/lazio/34-roma/86-federico-virgiliohttp://www.consulentifilosofici.com/index.php/consulenti-c/15-Riferimenti: 110

FEDERICO VIRGILIO

Consulente filosofico, facilitatore di pratica filosofica certificato attraverso percorsi universitari ed enti formativi riconosciuti a livello nazionale ed internazionale, pubblica la voce su Schopenhauer per il testo edito da Mimesis nel 2016, Storia della filosofia per i consulenti filosofici, a cura di Paolo Calandruccio, Alessio Tommasoli, Guido Traversa.

Federico Virgilio, consulente filosofico, esperto in filosofia e nelle pratiche filosofiche. Laureato in filosofia presso l’Università degli studi di Roma “Tor Vergata” con una tesi su Arthur Schopenhauer.

Susy Zanardo è Professore associato di Filosofia morale presso l’Università Europea di Roma. I suoi interessi di ricerca sono: intersoggettività e relazioni di dono, studi di genere e differenza sessuale. Tra le pubblicazioni si segnalano Il legame del dono (Vita e Pensiero, 2007) e Nelle trame del dono. Forme di vita e legami sociali (Dehoniane, 2013); tra le curatele La regola d’oro come etica universale (con C. Vigna, Vita e Pensiero, 2005); Etica di frontiera. Nuove forme del bene e del male (con C. Vigna, Vita e Pensiero, 2008); Donne, uomini. Il significare della differenza (con R. Fanciullacci, Vita e Pensiero, 2010).

SUSY

ZANARDO

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