Trimestrale di poesia, critica e letteratura
Supplemento del n. 108 (dicembre 2022)
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INDICE
5Il filo conduttore dell’Einfühlung tra àisthesis, estetica moderna e teoria della conoscenza Paolo Francesco Mineo
49La metafisica come fenomenologia Giancarlo Pillitu
59Il Compendium Musicae di Cartesio Davide Orlandi
91Bellezza e potenza Rosario D’Amico
127La tematica della sventura nella teologia filosofica di Simone Weil Paola Palmieri
135Immobilità della coscienza e “ritorno a sé” in Pascal Arcangela Miceli
145La sofferenza come senso della finitudine umana Emanuela Trotta
159Idee sull’origine della bellezza tra Oriente e Occidente: connessioni e comparazioni tra i due casi e critica alla contemporaneità sull’estinzione del concetto di bellezza Beatrice Ortombina
165Ridimensionare la qualità del tempo, attraverso la consapevolezza
Simone Magli
167Biografie degli autori
TRA ÀISTHESIS, ESTETICA MODERNA E TEORIA DELLA CONOSCENZA
Francesco Paolo MineoAbstract
Era dal Teeteto di Platone che, in filosofia, si poneva la questione della relazione conoscitiva e, di pari passo, una discussione sulla sensazione (aisthesis). La disamina sul rapporto conoscitivo tra soggetto e oggetto, nella filosofia greca, entra nello stesso discorso sull’aisthesis. Non è nella doppia dimensione, tra aisthesis e pathos, che abbiamo lo spazio concettuale da cui nasce l’Einfühlung. Invece, entrambe le dimensioni, possiamo ritrovarle nello svilupparsi dell’estetica, specialmente entro un rapporto tra aisthesis antica ed estetica moderna. L’Einfühlung si sviluppa da questo rapporto. È nel passaggio alla modernità che alla teoria della conoscenza estetica si aggiunge il significato di conoscenza in quanto conoscenza dell’oggetto artistico e naturale. Lipps, in seguito, parlerà dell’estetica come di una disciplina psicologica, ed è da qui che si registra uno spostamento di area semantica di Einfühlung nella direzione di una relazione conoscitiva che è non più solo tra soggetto e oggetto ma anche tra soggetto e soggetto. R. Vischer, che per primo teorizza l’Einfühlung, scriveva: «è come un torbido mosto che fermenta, un vino nuovo, quello che ci è servito».
Parole-chiave: empatheia, aisthesis, sensazione, relazione conoscitiva, oggetto naturale e artistico.
1.Considerazioni introduttive
A ben vedere la nascita del concetto di Einfühlung1, in ambienti culturali e d’arte, non è detto che quando si parli di empatia si stia per forza di cose parlando di una relazione tra soggetti, insomma di un modo dell’intersoggettività. Più volte, infatti, soprattutto in contesti artistici, ci si riferisce e si usa ancora il termine empatia per il balenare dell’emotività o per il risaltare di un certo stato emotivo di fronte a un oggetto, un’opera d’arte, o più raramente, nel trovarsi di fronte a fenomeni della natura. Bisogna riscoprire il “filo conduttore” dell’Einfühlung, ovvero del concetto di Einfühlung –parola quest’ultima tradotta dal tedesco in lingua italiana (da E. Filippini) prima come entropatia e poi come empatia2 (termine questo usato e preferito da F. Costa). L’uso della parola empatia ha prevalso sulla traduzione del primo curatore delle opere husserliane. Le basi dell’Einfühlung sono da ricercare nei modi del rapporto di conoscenza tra soggetto e oggetto – e oggettualità. In quanto al rapporto soggetto-oggettualità, questo è da inscriversi sia nell’arco di un’attività di conoscenza sia da vedere in generale come quella relazione dell’io con l’altro; in tal senso si è poi sviluppata una certa consonanza tra il conoscere e l’Einfühlung. Nell’introduzione al volume Estetica ed empatia curato da Pinotti (1997), scrive lo stesso:
«Gli elementi costitutivi che fondano l’esperienza empatica sono, a ben vedere, nient’altro (se così si può dire) che il soggetto e l’oggetto, e la relazione che si istituisce a partire dalla conoscenza sensibile che il soggetto ha dell’oggetto. Percependo il suo oggetto, il soggetto ha innanzitutto di fronte a sé un corpo. Se l’oggetto è un altro soggetto, se l’essere umano percepisce davanti a sé un altro essere umano, il corpo percepito gli apparirà espressivo di un’anima, di un carattere, di una personalità: il «fuori» gli apparirà espressivo di un «dentro». La domanda sarà allora: come faccio a comprendere il dentro dell’altro a partire dal fuori (che è tutto quello che ho)? Se l’oggetto è un mero oggetto, esso tuttavia appare al soggetto come
espressivo di un senso interno, di un carattere, di una vita propria. La domanda sarà allora: come fa un mero oggetto a presentarsi di fronte a me come se fosse un soggetto?». Quale trait d’union può esserci tra il concetto di Einfühlung, il cui termine è usato in contesti artistici dal Preromanticismo in poi, e la sua concettualizzazione, avvenuta soprattutto per opera del movimento fenomenologico, con una certa attività di confronto conoscitivo che ha inizio perlomeno da Platone? Il termine Einfühlung in sé nasce da, e ha a che fare con, la sensazione (Empfindung) e il sentimento (Gefühl); è stato Kant per primo a diversificare l’uso dei due termini per le diverse concezioni, rispettivamente conoscitiva la prima, e propriamente estetica, riguardante l’oggetto d’arte e il bello, la seconda. Einfühlung può vantare dunque una certa derivazione e oscillazione tra il sentire (conoscenza) e il sentire (estetico). L’area del sentire è fondamentale per l’Einfühlung. Il tema quindi di cui si occupa l’Einfühlung, guardata nel suo retroterra, non è raro nelle trattazioni dei filosofi. Già da Platone è chiaro un intreccio del rapporto soggetto-oggetto tra sentire (sensazioneesperienza), aisthesis e conoscenza.
2.Questione terminologica e storica
Per problematizzare: cosa garantisce l’uso della parola empatia nella cultura italiana come connessa alla teoria fenomenologica tedesca, sia come connessa all’idea di empatheia dal greco, di cui empatia è un calco italiano, per l’appunto? In realtà, la traduzione di Einfühlung in empatia è quella più riconosciuta e usata nell’italiano ma – già anche qui – alcuni studiosi di Husserl riportano delle traduzioni diverse, tra gli altri, E. Filippini quella di entropatia, Melchiorre quella di immedesimazione, E. Paci quella di introsentirsi (Quindi a loro volta tra gli studiosi permane una flessibilità nell’interpretazione e nel significato che dà all’Einfühlung ora più un
senso ora più un altro). È un incrocio terminologico, oltreché concettuale, problematico. Seguendo Pinotti (1997): empatheia rilevava più di ogni altra cosa l’aspetto – derivante da pathos – dell’imitazione o identificazione affettiva, nonché dell’immedesimarsi catartico, proveniente dalla teoria aristotelica, dello spettatore di fronte all’opera d’arte della tragedia. In quest’ottica una ricerca che voglia risponderne non potrebbe non muovere a partire dal doppio volto aisthesis-pathos. A ben vedere, tuttavia, per quanto riguarda il termine “empatia”, che riporta nella lingua italiana i temi dell’Einfühlung (per la quale inizialmente veniva usato il calco entro-patia), è solo dall’evoluzione dell’estetica, e dal cambiamento e dall’affinamento semantico nella e dalla modernità al Romanticismo, che ritorna indietro e si ri-riferisce al pathos, e da qui pure al senso greco di empatheia. Insomma, l’empatia così come nella terminologia si è determinata in Italia arriva dall’ambiente culturale tedesco, e solo passando dal Romanticismo ritorna retroattivamente all’empatheia greca. Gli studiosi sembra non problematizzino la questione, o perlomeno fanno derivare l’Einfühlung (e quindi la teoria dell’empatia) dall’empatheia greca, e dallo studio che mette in relazione aisthesis e pathos; ciò può essere fuorviante e, a mio avviso, l’inquadramento sullo studio storico sul tema dell’Einfühlung deve essere seguito più da vicino con un’analisi sull’aisthesis rispetto al pathos. È nel solco della storia che l’aspetto del pathos, patico, subentra in modo importante, ma entro uno studio conoscitivo prima sull’aisthesis e poi a partire dall’estetica moderna. In altre parole – e tra l’altro anche dal greco – “εµπαθεία”: em- (“entro”) richiama uno spazio interno e -patia (“sommovimento, scontro”). Anche riportando l’uso indifferenziato dei termini “Einfühlung” ed empatia bisogna fare le differenze del caso. Nell’Einfühlung è certamente predominante e centrale l’area sentimentale del fühlen, che, secondo molti – così mi pare di leggerne i testi –, può rimandare ed essere una ripresa diretta e concettuale della stessa area del greco pathos. Non è un caso
che si fa risalire l’Einfühlung – in una possibile storia del concetto di empatia – alle parole e alle tematiche della Poetica aristotelica, nella quale sono importanti i concetti di imitazione, il sommovimento interiore portato da questa stessa, e i concetti di rivolgimento e cambiamento, a partire tutto questo dal pathos, che è modo della relazione tra gli attori della tragedia e il pubblico spettatore. Però ciò può funzionare solo in una ideale storia dell’empatia, se si identifica l’empatia stessa come cardine e concetto esemplificativo di ogni termine che porta al confronto interiore ed emotivo tra agenti in uno spazio comune, o comunque, tra soggetti, oppure, nello specifico, nella relazione soggetto-oggetto. Insomma, già senza riferirsi ai diversi termini, a seconda della lingua europea di riferimento, è comunque quantomeno problematico il riferimento dell’Einfühlung al pathos greco, e in specifico alla Poetica. Per altro verso mi pare, invece, l’Einfühlung nasca nella risposta alle problematiche di un’epoca diversa da quella antica, di un’epoca cui casomai risulta possibile tracciare le basi e i passi. Specificamente l’Einfühlung prende lo spazio che le è proprio a partire dalla relazione estetico-conoscitiva tra soggetto e oggetto, dove l’oggetto di volta in volta risulta multiforme, in quanto oggetto artistico, oggetto che ha una propria espressione, oggetto come natura-soggetto, e infine, oggetto come altro soggetto. È a cominciare dal contesto dell’ aisthesis (come origine del discorso estetico) e, in particolare, soprattutto a cominciare dal vero e proprio uso coerente dell’area semantica del sentire nella storia del pensiero moderno che l’Einfühlung poi prenderà forma, dove l’area patica e del sentimento subentrano nel solco dell’estetica, e più in generale, nel solco conoscitivo di una estetica che mette a rapporto il soggetto e l’oggetto, nelle loro diverse forme storiche. Ciò è chiaro già con Herder, ma anche guardando in generale all’ambiente tedesco dalla modernità fino poi al Romanticismo.
filosofia antica
Tra i preplatonici la parola aisthesis, che sta per “percezione”, “sensazione”, “comprensione con i sensi” e che, in ultimo, può fare riferimento – molto raramente tra i greci – all’area sentimentale, non pare avesse un uso molto fortunato. Tra questi filosofi, tra coloro che più di altri hanno utilizzato un registro semantico che faceva capo ai sensi, all’esperienza sensibile, ci sono Anassagora e Democrito, ma il loro utilizzo non mirava certo alla valorizzazione di una tale area. Sono di Democrito le parole «secondo convenzione è il colore, secondo convenzione il dolce, secondo convenzione l’amaro, mentre veri sono solo gli atomi e il vuoto» (D-K, Democrito, B 125). Non è difficile quindi trarre la conseguenza teorica, seppur in modo veloce, che per Democrito la nostra esperienza sensibile sarebbe ingannevole. Consultando il sistema TLG non risulta nessuna corrispondenza esatta sul termine, almeno tra i cosiddetti filosofi preplatonici. I primi usi attestati sono quelli di Tucidide, da una parte, con le sue Historiae, che usa aisthesis per “avere la sensazione, il senso che sta succedendo…”, e di Euripide, dall’altra parte, che la usa per “percezione di…”. Ma, anche qui, sono usi sporadici della parola. La usano più volte invece Platone (25 attestazioni esatte, registrate soprattutto nel dialogo Teeteto) e Aristotele (conta 113 attestazioni esatte, tra il De anima, gli Analitici secondi e la Metafisica). Nel dialogo platonico del Fedone, inserito dagli studiosi tra gli scritti della giovinezza e della prima maturità, l’accademico ateniese pone un confronto e, in certo senso, una relazione di difficile comprensione tra il sensibile e la conoscenza delle Idee. A un certo punto dice: «pur prendendo le mosse dalle sensazioni (aistheseon), bisogna che in noi nasca il pensiero che tutte le cose uguali che percepiamo mediante le sensazioni (aisthesesin), tendono a essere come l’uguale in sé, ma rispetto a esso sono difettose». Da questo tratto del Fedone mi sembra che si possa dedurre che Platone ammette un tragitto conoscitivo che ha nell’aisthesis, se non
il centro, perlomeno un momento iniziale della conoscenza nel mondo. Il mondo sensibile, afferma Platone in diversi dialoghi, tra cui il Parmenide e la Repubblica, imita, ha somiglianza, o partecipa del mondo delle Idee in cui, secondo la lettura del Fedone, l’anima già da prima della nascita si trovava. Alla fine del VI libro della sua Repubblica Platone presenta la celebre teoria della linea, con cui vuole chiarire il suo modo d’intendere la conoscenza. Nell’ultima parte del VI libro – da 511 c a 511 d – Platone usa due volte una parola derivata da aisthesis. L’interlocutore (Glaucone) ammette che Socrate ha parlato di una intermedietà tra l’opinione (parte del sensibile) e l’intelligenza. Insomma, nel percorso conoscitivo platonico c’è un chiaro movimento ascendente, una continua ascesi, dalle cose sensibili (la cui ricorrenza al momento è una ricorrenza conoscitivamente limitante e negativa), alle figure geometrico-matematiche, per giungere, alla fine, alla realtà del mondo delle Idee. L’uso che Platone fa dunque qui di aisthesis è un uso al negativo. L’aisthesis connota una conoscenza che il filosofo definisce delle cose percepibili con i sensi, delle cose sensibili – infatti aisthesis è a sua volta dal tema di aisthanomai, che prende le mosse dall’area del “percepire”, “sentire con i sensi”. È evidente in un passo da 507 b 9 a 508 c 2. Platone più volte usa – insieme alla metafora del sole come termine-obiettivo, fine e riferimento di una vera conoscenza – il termine oratòn al posto di aisthesis. Il “visibile” nonché la vista come organo sensorio è il primo passo della conoscenza. Più volte Platone parla di aisthesis usando oratòn. Nel passo sopra indicato Platone confronta il mondo visibile dell’oratòn, parte costituente del mondo sensibile dell’aisthesis, con il noetòn. Ancora una volta ciò che ha a che fare con i soli sensi è in certo senso ingannevole. Insomma, deve esservi un’ascesa e un’elevazione dell’anima al mondo intelligibile per attingere alla vera conoscenza. In 511a –sempre alla fine del VI libro – infatti, presentando e facendo riferimento ancora all’inizio della teoria della linea, l’autore Platone fa
coincidere un termine che sta nell’area dell’aisthesis, per così dire nell’area “sensibile” – in questo caso “eikones” – con “gli oggetti” del primo segmento della via per la conoscenza. Questi oggetti non sono altro che ombre, riflessi nell’acqua e tutti quelli formati da “materia compatta, liscia e lucida” etc., come diceva in 510a. La parte cui fa riferimento Platone con elementi “eikones” è quella dell’eidos, dunque delle immagini in primo luogo, dell’eikasia e anche dei phantasmata, degli artefatti che sono lontani duplicemente dalla conoscenza delle Idee, e copie rispetto all’intelligibile, all’in sé geometrico (si noti che si sta discorrendo a questo punto di geometria nel dialogo) e per lo stesso mondo sensibile. Possiamo concludere la ricerca sulla Repubblica affermando che gli oggetti dell’aisthesis equivalgono a livello conoscitivo alle immagini apparenti viste dai prigionieri nella caverna. Il campo dell’aisthesis sta nel primo segmento della linea e però, seppur limitante, è a base del percorso conoscitivo trattato da Platone. Tra gli scritti di Platone c’è un altro dialogo che sembra essere posteriore alla Repubblica, che potrebbe essere però molto interessante trattare nel nostro studio. Questo dialogo, più volte compreso da vari studiosi tra gli scritti della maturità o della vecchiaia, è il Teeteto. Il Teeteto è il dialogo conosciuto negli ambienti di studio più comunemente come dialogo sulla definizione di che cosa sia effettivamente la conoscenza (episteme). Socrate chiede che cosa è la conoscenza e cosa significa conoscere. Nel dialogo gran parte del discorso è incentrato sul senso dell’aisthesis. Teeteto prova a rispondere definendo l’episteme come sensazione e percezione dei sensi (aisthesis). Socrate però rifiuta la definizione. Aisthesis non è dunque episteme. Da considerare il passo: 151 d 6 - 151 e.Importantissima a tal punto del dialogo è la critica di Socrate. È da qui che possiamo intercettare, anche solo per via negativa, nell’aisthesis, in quella che sarà la “scienza della conoscenza sensibile”, le fondamenta di un discorso sul sentire in generale, conoscitivo e non. Questa critica di Socrate
riguarda in soldoni l’essere soggettivo o l’essere oggettivo della sensazione. Ecco il passo 153d -154a:
α, τοιοῦτονκαὶκυνὶκαὶὁτῳοῦνζῴῳ; ΘΕΑΙ. ΜὰΔί’ οὐκἔγωγε. (5) ΣΩ. Τίδέ; ἄλλῳἀνθρώπῳἆρ’ ὅµοιονκαὶσοὶφαίνεται ὁτιοῦν; ἔχειςτοῦτοἰσχυρῶς, ἢπολὺ µᾶλλονὅτιοὐδὲσοὶ αὐτῷταὐτὸνδιὰτὸ µηδέποτεὁµοίωςαὐτὸνσεαυτῷἔχειν;3
Continuando, da 167a in poi, si evince come Socrate miri nella sua ferrata critica a definire le sensazioni come “phantasiai” (fantasie) più volte, a volte come opinioni, dacché sottostanno alla soggettività e al mutamento. Ciò comporta che per il filosofo esse non sono vera conoscenza. Ma, domanda lecita, in che rapporto stanno le sensazioni con la vera opinione? Socrate dice all’inizio del seguente passo: «Dunque in queste affezioni (le sensazioni) non c’è conoscenza, bensì nel ragionare che si fa intorno a esse: perché per questa via è possibile, come sembra, toccare l’essere e la verità, per quella è impossibile». Socrate vuol dare nome a queste due vie. La prima, per la quale è impossibile giungere alla conoscenza, è senz’altro quella del sentire, della sensazione. La seconda, per la quale è possibile, sarà quella della “vera opinione”. La vera opinione consisterà nella seconda risposta a che cosa è conoscenza, e tra l’altro, si avvicinerà
di molto all’ultima definizione del dialogo. Ecco però che possiamo ben capire come nonostante i sensi e le sensazioni non siano vera conoscenza stiano tuttavia in un certo senso alla base del ragionamento sulla episteme. La vera opinione, via e seconda definizione della conoscenza, consiste nel “sullogismò”, ovvero nel ragionare mettendo insieme ciò che sono le sensazioni. Sembra che in un certo qual senso anche se le sensazioni non sono vera conoscenza siano comunque all’incipit, il punto iniziale e la fonte da cui trarre per giungere a essa. La sensazione è quindi addirittura alla base del percorso ascendente. In Aristotele ci sono già più attestazioni esatte di aisthesis. Aristotele critica la teoria delle Idee di Platone e pone, invece di un percorso con una linearità divisa – anche se ascendente – della conoscenza, un percorso con una linearità contigua tra il mondo del sensibile, del particolare, e il mondo intelligibile, dell’universale. Mettiamo in chiaro subito ciò che dice Aristotele in Analitici Secondi, lo cito: «Chi sviluppa un’induzione, infatti, non prova cos’è un oggetto, ma mostra che esso è, oppure che non è. In realtà, non si proverà certo l’essenza con la sensazione (aisthései), né la si mostrerà con un dito»4. Questo passo aristotelico è molto controverso. Ciò che vuole dire Aristotele, si capisce, è che l’universale non è conoscibile per via di aisthesis, di sensi. Il filosofo di Stagira afferma che non si può cercare l’essenza (ousia) e la definizione con l’aisthesis, la sensazione. In verità, tuttavia, con la conoscenza in Aristotele l’aisthesis c’entra parecchio. La prima domanda, tuttavia, riguardo alla filosofia di Aristotele riguarda se l’area semantica di aisthesis sia la stessa che in Platone. In verità a questo proposito il filosofo usa aisthesis sia come “sensazione” che come “percezione”. In Aristotele l’aisthesis è la sensazione in quanto esperienza fisica e percettiva, è prettamente fisica. I termini sono ancora una volta soggetto, senso, oggettualità. Mentre Platone intende indagare il rapporto tra questi, in Aristotele la ricerca mira più a definire quale ruolo abbiano i sensi, dunque l’aisthesis, nel conoscere
della soggettività. I testi che più ci interessano sono da questo punto di vista la Metafisica, in cui in poche battute lo stagirita delinea un quadro conoscitivo generale, e il De Anima, che dispone il ruolo dei sensi, in quanto aisthesis. Nella Metafisica, nelle prime battute del testo, da 980a, subito il filosofo pone in relazione il sapere, il saper conoscere tramite la vista, con le sensazioni. C’è tuttavia, a ben vedere, una certa connessione e coerenza tra ciò che Aristotele dice nella Metafisica e nel De Anima. C’è una scala conoscitiva, che riguarda la disposizione della sensazione e dei sensi. Questo discorso è a base del testo del De Anima. Tutti gli animali hanno la sensazione, e tramite questa essi conoscono ed esperiscono. Gli uomini, invece, non vivono solo di aisthesis ma anche di techne e logismois (arte e ragionamenti). Seguiamo i passi di un cosiddetto percorso conoscitivo aristotelico. La memoria nasce, nel caso dell’uomo soprattutto, dalla sensazione. L’esperienza deriva dalla memoria, fino a formare una “esperienza unica”. Gli uomini acquistano conoscenza e arte attraverso l’empiria (l’esperienza). Dunque, c’è un ideale percorso, a livelli, dall’animale all’uomo, che comincia con i sensi e le sensazioni, che stanno a base della conoscenza, fino ad arrivare, con le stesse sensazioni, che formano esperienza, all’arte e ai giudizi universali. L’esperienza conosce il particolare e molte esperienze giungono all’arte che è conoscenza degli universali. Tutto ciò ha quindi a che fare con la conoscenza. Riporto il passo 981a 24 - 981b 9:
Le sensazioni e i sensi sono alla base della conoscenza. Lo studio su Platone e Aristotele ci ha mostrato come l’analisi dell’uso di aisthesis apre a tutta una tematica che mette in relazione lo stesso termine con la sensazione, e come questa sia strettamente connessa a una teoria della conoscenza, che si offre da base per la costruzione di un sistema di pensiero che sarà a fondamento dell’estetica filosofica antica. Quel che ci interessa è che ciò che sarà l’estetica che si costituirà come scienza ha i suoi inizi in questi passi antichi, la relazione tra soggetto e oggetto, e le loro interazioni nel contesto conoscitivo e artistico. La sensazione non ha a che fare con l’universale ma senz’altro il percorso delineato della conoscenza del particolare nasce dall’aisthesis, più esperienze di aisthesis formano la conoscenza artistica e universale.
4.L’Aesthetica di Baumgarten: la “scienza dell’esperienza sensibile”
C’è una connessione tra l’ aisthesis antica e l’estetica moderna? Normalmente gli studiosi sono portati a svalutare un rapporto tra questi due termini, tra l’aisthesis in senso antico e l’estetica in senso
moderno, seppure la parola moderna derivi in modo particolare dal termine antico. Ciò è evidente in Baumgarten. L’estetica filosofica ha il suo fulcro nell’area semantica del sentire, della sensazione. Sia l’aisthesis, come conoscenza sensibile, all’antica, sia l’estetica moderna, in quanto comprensiva tra l’altro delle “belle arti liberali”, hanno strettamente a che fare col senso; infatti, anche per quanto riguarda il bello, esso è conosciuto a cominciare dal nucleo “sensibile”. Se, come dice Baumgarten, è vero che «l’estetica riguarda ciò che va conosciuto in modo bello», quando tra l’aisthesis antica e l’estetica moderna subentra come tema il bello? Nella filosofia antica il bello non era un valore fruito o prodotto dall’uomo come soggetto bensì una proprietà dell’essere stesso. Dice Aristotele nella Poetica: «Inoltre, quel che è bello, sia un animale, sia ogni cosa che è composta da certe parti, deve non solo avere queste ordinate, ma anche essere dotato di una grandezza non qualsiasi: perché la bellezza consiste nella grandezza e in una disposizione ordinata sicché né un animale piccolissimo sarebbe bello, né uno grandissimo» (Cfr. Aristotele, Poetica, 1450 b - 1451 a). La bellezza, in questo senso, non tanto aveva a che fare con la conoscenza. Anche considerando l’arte, ars, techne antica, questa poco in verità aveva a che fare con il bello, fatto salvo alcuni passaggi – tuttavia molto controversi –della Poetica aristotelica. La techne era più un’arte nel senso di saper fare, una competenza produttiva e anche una forma di sapere. «A un certo punto il principale significato antico diventa secondario, mentre, per converso, le connotazioni secondarie diventano poi principali nel senso moderno», afferma Pinotti nella sua introduzione a Estetica ed empatia. Nel testo di Baumgarten delle Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus, come anche nell’Aesthetica, troviamo una riorganizzazione generale sul sensibile e della conoscenza sensibile. Nella trattazione del filosofo Baumgarten troviamo il punto medio e di giunzione, insomma, di sintesi tra i due sensi più importanti di estetica, quello antico e
quello moderno. Baumgarten, in quello che è stato definito il progetto dell’estetica, ovvero la sua dissertazione per la libera docenza, sembra riprendere un filo diretto sulle maggiori questioni dell’epoca – che vedeva l’applicazione del nuovo metodo cartesiano nel sapere – e sembra riprendere indirettamente le tematiche antiche, e tra queste, soprattutto gli scritti di Platone e Aristotele. Nel testo il filosofo del ‘700 definisce l’estetica come “scienza del conoscere qualcosa in maniera sensibile”. Riporto la fine del passo del par.115 e il par.116.:
§115 Non dubitiamo affatto possa darsi una scienza che diriga la facoltà conoscitiva inferiore, ovvero scienza del conoscere qualcosa in maniera sensibile.
§116 Esistendo la definizione, si può facilmente escogitare il termine definito; infatti già i filosofi greci e i padri della chiesa distinsero sempre con cura fra aisthetà e noetà, ed è ben evidente che gli aisthetà non equivalgono, per loro, alle sole sensazioni in atto, perché anche a dati sentiti non presenti (vale a dire a immagini) viene attribuito questo nome. Dunque, i noetà sono da conoscere con la facoltà superiore, oggetto della logica, gli aisthetà [sono da conoscere con la facoltà inferiore, oggetto] della episteme aisthetike ovvero estetica7.
Il testo in cui Baumgarten dalla episteme aesthetike passa all’estetica compiutamente, coniandone il senso filosofico e la scienza, è l’introduzione all’Aesthetica, definizione e apologia dell’estetica, pubblicata nel 1750-1758. L’estetica è «scientia cognitionis sensitivae». Come è chiaro dallo studio del par.3 l’estetica è posta come base della conoscenza, e anche in questo caso, come in quelli antichi, di un cosiddetto percorso conoscitivo. La sensazione è prima nel percorso di conoscenza ma è posteriore per importanza conoscitiva alla logica. L’estetica è una base estesa del conoscere. Riporto il par.6:
§ 6 Si potrebbe obiettare alla nostra scienza: 4) Cose sensibili, immagini, favole, perturbazioni degli affetti, etc. non sono degne dei filosofi, sono poste al di sotto del loro orizzonte. Risp.:a) il filosofo è uomo fra gli uomini e non fa bene a ritenere a sé estranea una parte tanto grande della conoscenza umana.
b) Si confonde la teoria generale di ciò che è pensato in modo bello con la prassi e l’esecuzione singola8
È a questo punto che le ultime definizioni di Baumgarten comprendono il bello e la poesia. L’estetica riguarda ciò che va conosciuto in modo bello (par.8). Ecco che abbiamo lo sviluppo della sintesi dei significati di estetica tra il conoscere e il bello. Da qui in poi tali sensi saranno intrecciati nel solco dell’estetica filosofica, e da questi dipenderà il modo della relazione tra soggetto e oggetto, soprattutto per quanto riguarda quell’area del sentire che poi costituirà il tratto specifico dell’Einfühlung, a partire dai termini che stanno per senso, sensazione e sentimento. Dunque, la radice per giungere all’Einfühlung è una radice comune tra l’estetica, in quanto teoria della conoscenza, ed estetica, in quanto sentire sensibile sul bello. Insomma, l’empatia ha a fondamento la sensazione (conoscitiva) ed è da questa che giunge alla conoscenza “inferiore” del bello, delle cose sensibili, delle immagini, fino alle perturbazioni degli affetti, al sentimento. Questa derivazione accomuna l’aisthesis dal suo senso antico al suo sviluppo dall’antico al moderno. Da ciò il conoscere artistico, il con-sentire come conoscenza del bello e la consonanza emotiva tra soggetto e oggetto. Nello stesso tempo in cui si veniva dispiegando il rapporto tra aisthesis ed estetica, ovvero, in definitiva, il senso moderno di estetica, cominciava a prendere le mosse e si andava delineando una teoria del sentire sensibile.
5.Modi del sentire
Possiamo far risalire l’origine di quell’area terminologica della sensazione che è il sentimento in specifiche teorie dell’arte, ma anche ravvisare in atto tale sentimento nella contemplazione dell’opera d’arte stessa, che, implicitamente, rivela ciò che poi si fa più esplicito concettualmente. Sensazione e sentimento hanno in co-
mune la radice lessicale che fa capo ai sensi, ed entrambi i termini invocano un movimento: di conoscenza il primo, emotivo il secondo. Questa ricerca ha nel sentire il suo centro, in particolare nel sentire secondo l’Einfühlung. Quest’ultima è una parola la cui “pianta semantica” è usata nelle prime battute, durante il Preromanticismo tedesco e il Romanticismo, tra Settecento e Ottocento, da Herder e Novalis. Rispettivamente, insigne filosofo e teologo il primo, poeta e pensatore il secondo. Herder abbozza una teoria del sentire. Cito Herder (1778): Quanto più pertanto consideriamo, osserviamo e cerchiamo di comprendere il grande spettacolo di forze operanti nella natura, tanto meno possiamo evitare di sentire [fühlen] ovunque affinità con noi, di animare tutto con la nostra sensazione [Empfindung]9
E ancora: L’uomo senziente si sente in tutto l’universo, sente tutto come proveniente da sé, e vi imprime la propria immagine, la propria impronta10.
Herder delinea nei suoi scritti fondamentali, tra cui L’origine del linguaggio, Sul conoscere e il sentire dell’anima umana e Plastica, un percorso di scoperta dell’uomo come essere senziente, a partire dalla stessa espressione interna della sua propria fisiologia, e a partire dal fatto che ha un corpo. Importanti sono qui i concetti di sensazione e di analogia, per cui l’uomo comprende, conosce le cose per analogia con sé stesso, mediante uno stimolo. A partire dai sensi, c’è tutta una declinazione di famiglia dei termini del sentire, come fühlen, Mitfühlen, Familiengefühl. A ben vedere, con l’uso di questi termini tra corpo e anima – che hanno il tramite proprio in Empfindung (sensazione)– Herder apre la strada al sentire proprio di uno che percepisce e che lo fa per sé stesso, per amor proprio, e insieme agli altri, insieme all’altro:
Meraviglioso organo dell’essere, nel quale ogni cosa vive e sente11.
In più, ci sono alcuni esempi centrali nella filosofia herderiana che indicano la fisicità – anche metaforica – di cui si serve Herder, come in estensione e contrazione:
L’umanità è la nobile misura, secondo la quale conosciamo e agiamo: l’amor proprio [Selbstgefu!hl] e il sentimento di simpatia verso gli altri [Mitgefu!hl] (di nuovo contrazione ed estensione) sono dunque le due espressioni dell’elasticità del nostro volere; amore è la conoscenza più pura, come la più nobile sensazione. Amare in se stessi il grande creatore, amarsi negli altri, e poi seguire questo sicuro impulso: questo è sentimento morale, questa è coscienza. Contrapposto solo alla vuota speculazione, non però al conoscere, poiché il vero conoscere è amare, è sentire umanamente. Guarda l’intera natura, osserva la grande analogia della creazione. Ogni cosa sente se stessa [fu!hlt sich] e ciò che gli è simile, vita muove verso vita. Ogni corda vibra al proprio suono, ogni fibra si intreccia con la sua compagna di giochi, l’animale sente [fu!hlt] assieme all’animale; perché l’uomo non dovrebbe sentire [fu!hlen] insieme agli altri uomini? Solo l’uomo è immagine di Dio, un compendio della creazione e suo amministratore 12
In un’altra parte del testo il filosofo scrive:
Nel grado di profondità del nostro amor proprio [Selbstgefu!hl] sta anche il grado della nostra simpatia [Mitgefu!hl] nei confronti degli altri, poiché in certo modo possiamo sentire [hinein fu!hlen] noi stessi solo negli altri 13
Da qui all’Einfühlung il passo è breve. È con Herder più di ogni altro che arrivano a specificazione i sensi fondativi che saranno importanti per l’empatia. Dalla rivoluzione scientifica in poi, passando per l’Illuminismo fino al Preromanticismo, il pensiero herderiano è un buon centro e un nucleo fondamentale per capire, captare, la direzione e la linea di evoluzione del concetto non ancora definito di Einfühlung. L’interesse per la natura e la naturalità umana, la centralità dell’uomo, dell’organismo, e gli studi di fisiologia sul corpo umano: è da qui che parte la ricerca herderiana. La soggettività e la vitalità naturale dell’uomo sono al centro del processo di scoperta e di pensiero del filosofo: natura e vita sono le basi da cui poi inda-
gare le loro specificazioni nel percorso di sviluppo delle capacità umane e di conoscenza. In ciò consiste il fine dell’estetica, più che nella bellezza come apice, nella perfezione come manifestazione dell’organico e del vivente. L’estetica è per lui, insieme a Baumgarten – e in dialogo e in continuazione con quest’ultimo –, scienza della conoscenza sensibile, ma che ha nel bello e nella bellezza qualcosa che ha a che fare con la sensibilità in quanto perfezione corporea, in quanto perfezione del senso, che è stimolo e fascio nervoso fisico, naturale e vitale. In Baumgarten il bello risultava essere il termine ultimo di riferimento della conoscenza sensibile. Conoscenza che seppure “inferiore” precede la conoscenza intellettuale e logica superiore. In Herder non è tanto questa bellezza il fine della conoscenza sensibile quanto più essa è la manifestazione sensibile della perfezione rispetto a un fine, cioè il modo in cui nel dominio della sensibilità si manifesta la potenzialità della vita come salute e vitalità umana. Herder scrive:
Le facoltà dell’anima vengono viste come differenti specificazioni di un’unica forza più originaria, secondo un sistema unitario delle facoltà che va dall’oscura stimolazione sensoriale delle fibre al costante e graduale processo di differenziazione e unificazione delle sensazioni compiuto dagli organi di senso, fino all’integrazione dei dati sensoriali per tramite dell’immaginazione (strettamente connessa al sistema nervoso) e infine, attraverso il linguaggio, all’elaborazione del pensiero14
È nel fühlen che Herder trova e fonda il centro della sua filosofia fisiologica; l’attività conoscitiva e logico-discorsiva, mostra, può essere intesa come graduale specificazione di una funzione astrattiva e organizzativa radicata nella stessa esperienza sensibile. Il fühlen e il Sinn sono le uniche chiavi per penetrare nell’interiorità delle cose. È dunque a questo punto che Herder comincia, sulle basi predette, a sviluppare un possibile percorso conoscitivo che ha nell’area del sentire il suo fulcro, nel fühlen il suo tramite, a partire dal più basso livello di sensazione che è lo stimolo, fino ai sensi, al fascio
nervoso, per arrivare poi al Sinnfühlen linguistico. C’è un innere fühlen, una simpatia interiore, interna, tra le cose. Ed è evidente indagando il modo di conoscenza del soggetto, fino al sentire insieme della comunità linguistica. Non c’è conoscenza senza prima la sensazione, che agisce e che patisce, si estende e si contrae, nel confronto con l’esterno; come non c’è poi pensiero senza l’immaginazione (proveniente anche questa dalla sensazione, sono chiari i rimandi alle teorie antiche), e poi non c’è verità senza il processo storico-linguistico di nominazione che conserva la sensazione, il sentire, e lo condivide, lo fa sentire insieme dall’interno all’altro da noi, intaccando così in modo importante e lasciando traccia anche nel processo di conoscenza tra l’io e l’altro, l’alterità. In sintesi, Herder affronta un percorso conoscitivo che ha nella sensazione (Empfindung) la sua matrice e il suo primo termine, e in fühle e in hinein fühlen il secondo termine, nonché il fine dell’orizzonte conoscitivo.
6.Kant: l’estetica come conoscenza sensibile e come teoria del sentimento
Se Baumgarten è stato il nuovo, primo portatore di un senso moderno e definitore dell’estetica come scienza, a partire senz’altro dallo studio della storia del pensiero e della filosofia antica – Baumgarten dimostra infatti di prendere dall’antico, da quella affermazione “aisthetà kai noetà” –, è con Kant che la ricerca sull’estetica si specifica in un contesto un po’ diverso, passato dallo studio, per esempio, di uno come Herder, che dall’Illuminismo al Preromanticismo ha sviluppato e affinato lo stesso campo estetico e, nell’estetica, i modi e le disposizioni di tutto il campo della sensazione e del sentire. Baumgarten ci riporta come primo al rapporto e al percorso estetico-conoscitivo tra il soggetto e l’oggetto entro la sensazione (conoscitiva). In Herder, che trae comunque da Baumgarten, invece, il tragitto di conoscenza in cui sta sempre la polarità soggetto-oggetto è delineato in vista della perfezione fisica, organica, sia verso
l’interno, con lo stimolo a base della sensazione, sia verso l’esterno, con la relazione tra la fisicità, gli organi di senso, e l’oggettualità. Insomma, in Baumgarten c’è l’idea di una estetica nella direzione di una conoscenza del bello. Ciò costituirà uno spunto importante per Kant il cui pensiero sul tema prende le mosse anche da Baumgarten in particolare, ma in generale anche da tutto l’ambiente di ricerche che va fino alla prima metà del Settecento. Kant ne trarrà molto nelle sue ulteriori specificazioni sulla scienza estetica. Egli ha ben presente sia la teoria baumgarteriana sia quelle antiche e ha visto come lo stesso Baumgarten abbia preso ampiamente dagli scritti di Platone e Aristotele. È da loro che viene quell’espressione “aesthetà kai noetà”. Nella prima versione dell’introduzione della terza critica, cioè la Critica del giudizio, Kant riabilita una critica sensibile del gusto chiamandola in modo controverso estetica, ovvero però aggettivandola in quanto estetica non dopo poche evoluzioni della sua teorizzazione sull’estetica stessa. Kant si riferisce più precisamente a dei giudizi estetici. In questo quadro il filosofo illuminista riferisce di giudizi estetici e di estetica non come del campo relativo alla sensazione ma a quello relativo al sentimento. Kant, infatti, ci tiene a rimarcare la differenza che intercorre tra estetica e critica della capacità di giudizio estetica, perché la prima è un’espressione di troppo ampio respiro, mentre la seconda riguarda il campo del sentire, del sentimento, del sublime e del genio. Tra l’altro, inizialmente lo stesso Kant aveva escluso che qualcosa che avesse a che fare con l’estetica poteva essere di connotazione per il bello, è portato tuttavia a ricredersi quando, dopo la prima critica, in cui usa l’estetica in senso trascendentale come matrice del tempo e dello spazio sensibile, nei quali l’uomo conosce, dice di aver scoperto un nuovo tipo di principi a priori relativi alla facoltà del gusto. Kant scrive a proposito dell’interpretazione della distinzione tra estetica e uso di estetica come aggettivo della critica della capacità di giudizio estetico:
Non chiameremo la critica di questa facoltà in riferimento ai giudizi del primo tipo (i giudizi “estetici”) “Estetica” (che vorrebbe dire: dottrina dei sensi), ma invece “Critica della capacità di giudizio estetica”, perché la prima espressione è di significato troppo ampio, in quanto essa potrebbe anche indicare il carattere sensibile dell’intuizione, che appartiene alla conoscenza teoretica e fornisce la materia a giudizi logici (oggettivi) – per cui, appunto, già destinammo il termine “estetica” esclusivamente a indicare ciò che, nei giudizi conoscitivi, appartiene all’intuizione. Ma chiamare “estetica” una capacità di giudizio per il fatto che essa riferisce la rappresentazione di un oggetto non a concetti e il giudizio, dunque, non alla conoscenza (per il fatto che tale capacità di giudizio non è affatto determinante, ma solo riflettente) è cosa che non fa temere equivoco alcuno; infatti, per la capacità di giudizio logica le intuizioni, per quanto esse siano sensibili (estetiche), devono però venire dapprima elevate a concetti, per servire alla conoscenza dell’oggetto, il che non ha luogo nel caso della capacità di giudizio estetica15
Anche in Kant, come in Baumgarten, l’estetica è una parte della dottrina della conoscenza, e anche per lui l’altra parte è la logica, che si occupa degli elementi razionali della conoscenza, mentre l’estetica si occupa di quelli sensibili. La Critica della ragion pura rivolta a delimitare i confini di ciò che è scienza e, dunque, conoscibile, è divisa dal filosofo in Estetica trascendentale e Analitica trascendentale. L’estetica trascendentale è la scienza di tutti i principi a priori della sensibilità, cioè dello spazio e del tempo, poiché è solo nello spazio e nel tempo che i fenomeni si danno alla nostra intuizione sensibile. Nel §1 della suddetta critica Kant sembra non ammettere – come farà invece in seguito – una critica del gusto, poiché il “gusto” non ha principi a priori e dunque non è passibile di una considerazione trascendentale. Ecco il testo in nota aggiunto da Kant a spiegazione della scelta del termine estetica per l’indagine dell’area a priori della sensibilità:
I tedeschi sono i soli, che si servano al presente della parola estetica per indicare cio! che gli altri chiamano critica del gusto. La ragione sta nella fallita speranza dell’eccellente analista Baumgarten, il quale credette di ridurre a princi!pi razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza.
Ma codesto sforzo e!vano. Imperocche!le dette regole e i criteri del gusto sono per le loro principali fonti, empirici, e pero! non possono mai servire a determinare leggi a priori, sulle quali dovrebbe appoggiarsi il nostro giudizio del bello: piuttosto questo forma la pietra di paragone della validita! di quelli. E! percio! ragionevole o abbandonare di nuovo questa denominazione, e mantenerla a quella dottrina che e! vera scienza (con che ci si avvicinerebbe anche alla lingua e al significato degli antichi, presso i quali famosa fu la divisione della conoscenza in aesthetà kai noetà) oppure assegnare la parola sia alla filosofia speculativa sia all’estetica, prendendola ora in senso trascendentale, ora in senso psicologico»16
Ancora in Kant il punto di partenza è quel dominio doppio di aesthetà e noetà che da Aristotele in poi in molti hanno cercato di sviscerare e armonizzare nel migliore dei modi. Kant, come dicevamo, sa bene che nel tracciare i limiti conoscitivi di ciò che è scienza, nonché le condizioni della conoscenza, deve ancora una volta sollevare il problema per così dire di aesthetà e noetà. Ora la domanda è: che posto ha l’estetica nella Critica della ragion pura? Il filosofo di Königsberg, dopo la parte introduttiva dell’opera, fa cominciare la trattazione proprio dall’estetica, dall’estetica in quanto estetica trascendentale. Riporto il passo iniziale del §1 dell’Estetica trascendentale, che costituisce la prima parte della critica kantiana:
In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca a oggetti, quel modo, tuttavia, per cui tale riferimento avviene immediatamente, e che ogni pensiero ha di mira come mezzo, e! l’intuizione. Ma questa ha luogo soltanto a condizione che l’oggetto ci sia dato; e questo, a sua volta, e!possibile, almeno per noi uomini, solo in quanto modifichi, in certo modo, lo spirito. La capacita!(recettivita!) di ricevere rappresentazioni pel modo in cui siamo modificati dagli oggetti, si chiama sensibilita! . Gli oggetti dunque ci son dati per mezzo della sensibilita! , ed essa sola ci fornisce intuizioni; ma queste vengono pensate dall’intelletto, e da esso derivano i concetti. Ma ogni pensiero deve, direttamente o indirettamente, mediante certe note, riferirsi infine a intuizioni, e percio! , in noi, alla sensibilita! , giacche! in altro modo non puo! esserci dato verun oggetto. L’azione di un oggetto sulla capacita!rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti, e! sensazione. Quella intuizione che si riferisce all’oggetto mediante la sensazione, dicesi empirica. L’oggetto indeterminato di una intui-
zione empirica si dice fenomeno. Nel fenomeno, io chiamo materia cio!che corrisponde alla sensazione»17
A partire da tale punto ciò a cui mira Kant sono le condizioni a priori della conoscenza sensibile, posta a base questa dell’intera costruzione kantiana sulla conoscenza, e importante per quella specificazione del modo in cui l’uomo conosce l’oggetto, del modo in cui, quindi, il soggetto apprende il fenomeno. Le condizioni a priori della sensibilità sono lo spazio e il tempo, e queste, insieme alle categorie dell’intelletto, sono altrettanti concetti puri entro cui l’uomo può esperire e organizzare la sua conoscenza. Le condizioni a priori della sensibilità con la spiegazione del rapporto soggetto-oggetto entro la stessa sensibilità costituiscono l’innesto dell’impianto, percorso, conoscitivo kantiano. Con la sensibilità formiamo le intuizioni, rappresentazioni, dell’oggetto e da qui giungiamo all’intuizione del fenomeno. Ciò non sarebbe possibile se l’estetica, dice Kant, non fosse un’estetica trascendentale, ovvero non avesse a fondamento e indagasse le condizioni della stessa conoscenza sensibile e di questa non ne scoprisse i principi puri dello spazio e del tempo. Kant distingue nettamente il significato dei termini Empfindung e Gefühl, riferendosi al primo per la ricerca sulla sensazione e al secondo per quella sul sentimento. Entrambe le parole, tuttavia, sono collegate nel senso all’estetica. Più all’estetica trascendentale il primo e più alla teoria della capacità di giudizio estetica il secondo, anche se Kant, cercando di districarsi in questa dicotomia, più volte collega sensazione e sentimento l’una all’altro. Egli tratta dell’estetica cosciente delle evoluzioni del concetto nell’epoca in cui vive. L’Erste Einleitung della Critica del giudizio in cui Kant scrive sulla questione dimostra tutto questo. Anche il filosofo di Königsberg, come già altri pensatori, teorizzando sull’estetica, ne discute come base di una teoria della conoscenza nel rapporto soggetto-oggetto. Nella Criticadelgiudizio in generale, come anche nel testo suddetto, Kant evita più volte di usare sia il sostantivo “estetica” sia il termine Em-
pfindung, nonostante nella prima critica era partito da quest’ultimo con la disamina sull’estetica trascendentale: egli evita costantemente di confondere le due disamine e sostituisce più volte Empfindung con Sinnlichkeit, sostantivazione di “senso”, o “avere o dare un senso” e, dunque, sensazione – e al limite anche sensibilità – intesa più con il senso di significato. Questo tema inscritto entro l’estetica segue il filo tra Empfindung e Gefühl che poi, mi pare, vedremo coagularsi come sensazione conoscitiva, e insieme sentimento, in Einfühlung. Kant scrive:
L’espressione “modo di rappresentazione estetico” è del tutto univoca se con essa s’intende il riferimento della rappresentazione a un oggetto, in quanto fenomeno, per la conoscenza del medesimo; in tal caso, infatti, il termine «estetico» significa che a una tale rappresentazione aderisce necessariamente la forma della sensibilità [Sinnlichkeit] (il modo in cui il soggetto viene affetto) e che questa viene perciò trasferita inevitabilmente all’oggetto (ma solo in quanto fenomeno). È per questo che si è potuta dare una estetica trascendentale come scienza relativa alla facoltà conoscitiva. Ma da parecchio tempo è invalso l’uso di chiamare estetico, cioè sensibile, un modo di rappresentazione non alla facoltà conoscitiva, ma al sentimento [Gefühl] del piacere e dispiacere. Ora, sebbene noi siamo soliti chiamare questo sentimento (nell’accezione suddetta) anche senso (modificazione del nostro stato) perché ci manca un’altra espressione, esso non è però un senso oggettivo, la cui determinazione verrebbe utilizzata per la conoscenza di un oggetto (infatti, intuire, o comunque conoscere, qualcosa con piacere non è un mero riferimento della rappresentazione all’oggetto, ma una ricettività del soggetto): esso, invece, è un senso che non apporta proprio niente alla conoscenza dell’oggetto. Appunto per il fatto che tutte le determinazioni del sentimento non hanno che un significato soggettivo non si può dare una estetica del sentimento come scienza in modo simile a come si dà una estetica della facoltà conoscitiva. Rimane dunque sempre un’inevitabile ambiguità nell’espressione modo di rappresentazione estetico, se con essa s’intende ora quel modo di rappresentazione che suscita il sentimento del piacere e dispiacere e ora quello che concerne solo la facoltà conoscitiva, in quanto in essa s’incontra l’intuizione sensibile, la quale ci fa conoscere gli oggetti solo in quanto fenomeni 18
Kant chiaramente delinea una differenza tra la conoscenza oggettiva e le sue modalità e un sentire soggettivo. Insomma, la ricerca
è squisitamente concettuale: mentre nella prima critica Kant cerca dall’interno (in senso conoscitivo) di demarcare i limiti e le possibilità del conoscere, e trova nella sensazione il primo passo dell’intuizione nell’estetica trascendentale, e dunque, un soggetto percipiente che riesce nella conoscenza dell’oggetto, nella critica cosiddetta del “gusto” trova un soggetto che dal di dentro (valorizzando l’opera dell’organo di senso e della sensibilità) sente soggettivamente. Ciò nonostante, sia nel primo caso che nel secondo nella capacità di giudizio ciò che conta è il rapporto tra intelletto e immaginazione (da intuizione, ovvero dalla sensazione), solo che nel primo caso, e in primo luogo, questo rapporto può venire considerato come relativo alla conoscenza oggettiva e nel secondo caso in senso soggettivo. Riporto un passo di Kant ancora dall’Erste Einleitug della Critica del giudizio:
Con la denominazione “giudizio estetico su un oggetto” viene dunque subito indicato che una rappresentazione data viene sì riferita a un oggetto, ma che nel giudizio viene intesa non la determinazione dell’oggetto, ma quella del soggetto e del suo sentimento. Infatti, nella capacità di giudizio vengono considerati intelletto e immaginazione in mutuo rapporto e questo rapporto può sì venir preso in considerazione, in primo luogo, in senso oggettivo, come relativo alla conoscenza (come è avvenuto nello schematismo trascendentale della capacità di giudizio); ma si può considerare tuttavia questo medesimo rapporto delle due facoltà conoscitive anche in senso meramente soggettivo, in quanto l’una favorisce o ostacola l’altra nella medesima rappresentazione, in modo che lo stato d’animo ne è affetto: insomma, come un rapporto che può essere sentito. Così, sebbene questa sensazione non sia una rappresentazione sensibile di un oggetto, tuttavia, essendo connessa soggettivamente con la resa sensibile dei concetti dell’intelletto per mezzo della capacità di giudizio, essa, in quanto rappresentazione sensibile, dello stato del soggetto, il quale viene affetto da un atto di quella facoltà, può venire attribuita alla sensibilità e un giudizio può venire detto estetico, cioè sensibile (secondo l’effetto soggettivo, non secondo il fondamento di determinazione), sebbene giudicare (oggettivamente, s’intende) sia un’operazione dell’intelletto (come facoltà conoscitiva superiore in generale) e non della sensibilità19.
ancora:
Per decidere se una cosa sia bella o no, noi non poniamo, mediante l’intelletto, la rappresentazione in rapporto con l’oggetto, in vista della conoscenza; la rapportiamo invece, tramite l’immaginazione (forse connessa con l’intelletto), al soggetto e al suo sentimento di piacere e di dispiacere. Il giudizio di gusto non è pertanto un giudizio di conoscenza; non è quindi logico, ma estetico: intendendo con questo termine ciò il cui principio di determinazione non può essere che soggettivo20
Kant è importante per l’affermazione dell’estetica come scienza. Ciò che ci interessa è come tale scienza sia a fondamento, con i suoi temi, della teoria dell’Einfühlung. In Kant possiamo rintracciare una certa polarità più o meno lineare e inclusiva tra conoscenza sensibile e sentimento, e nella sensazione, tra il tema soggettivo e la conoscenza oggettiva. È a partire da tutte queste premesse che dobbiamo considerare lo sviluppo convinto della teoria dell’Einfühlung tra estetica – nei sensi considerati – e teoria della conoscenza. A vederci bene la teoria della conoscenza non solo è un tema di paragone dell’estetica o un riferimento ulteriore in un percorso conoscitivo (come in Baumgarten) ma una indagine in certo qual modo entro l’estetica stessa poiché la ricerca sull’estetica esige la disambiguazione di cosa è conoscenza e di come essa funzioni. Il “tema” di medietà tra estetica e teoria della conoscenza è tutto nel rapporto tra soggetto e oggetto. Quando nell’Ottocento, e ancora nel Novecento, ci si riferisce alla teoria dell’Einfühlung – corroborata e nata, come stiamo per vedere, nel contesto dell’estetica e dell’arte –, si sta parlando di sensazione come espressione dello stato del soggetto di fronte a un oggetto, ma anche dell’impressione di una conformazione dell’oggetto, tramite le sue proprietà, sugli organi di senso; si sta parlando di sentimento e in ultimo di ogni relazione con un fenomeno, o con un altro soggetto, e da qui si definisce la modalità di conoscenza.
7. L’estetica dopo Kant
Mentre Baumgarten qualche anno prima, Herder e Kant, invece, vivono nel marasma degli stessi anni. Nella terza critica Kant aveva trattato del sentimento del sublime, della natura, del genio e della bellezza, avendo come sfondo lo stesso problema conoscitivo, quello della relazione tra soggetto e oggetto – e oggettualità, che poi nel movimento romantico sarà al centro dell’indagine. Sono anni, dal 1750 circa ai primi anni del 1800, in cui si affacciano, e coesistono, essendo continuativi, problemi che – storicamente nati in filosofia – si cerca di affrontare a partire prima dall’affermazione del senso umano a tutto tondo, con l’uomo che esce da uno stato di minorità che l’aveva interessato prima della modernità, e poi con la valorizzazione di studi naturalistici, oltreché umanistici. L’arte e la natura sono temi al centro delle ricerche dell’idealismo romantico in Schelling e Hegel. Questi pensatori cercano allo stesso tempo una mediazione e una sintesi tra un soggetto che conosce e un “mondo” sensibile – esterno, verso cui l’uomo impatta. Essi vedono nel tema estetico e dell’arte una possibile composizione della frattura formale kantiana della conoscenza. È nell’arte che il conoscere del soggetto – dell’io – può riconoscere sia l’oggetto sia sentire sé stesso nel riconoscere dell’oggetto, e dunque, giungere a una conoscenza piena che trova la giusta sintesi tra l’io e l’altro – l’alterità. In realtà Hegel non è convinto dell’uso dell’estetica e del suo senso per tracciare le ricerche sull’arte, di fatti nell’introduzione alle sue lezioni di estetica scrive che benché il termine estetica sia stato usato a cominciare dalla modernità, dalla scuola wolffiana, col suo significato proprio di relativo ai sensi, scienza del sensibile, passando per Kant, e in voga nei suoi anni, tale termine si è avvicinato sempre più al significato di sentimento e di bella arte. Riporto l’inizio dell’introduzione delle lezioni di estetica di Hegel:
Queste lezioni sono dedicate all’estetica. Il loro oggetto è il vasto regno del bello, e più esattamente il loro ambito è l’arte, vale a dire la bella arte. Per questo
oggetto di sicuro il nome estetica non è propriamente del tutto calzante, dal momento che estetica indica più precisamente la scienza del senso, del sentire, e, in questo significato di una nuova scienza o meglio di qualcosa, che avrebbe dovuto diventare innanzitutto una disciplina filosofica, ha trovato la propria origine nella scuola di Wolff durante il periodo in cui in Germania si esaminavano le opere d’arte tenendo conto dei sentimenti che esse dovevano suscitare, ad esempio i sentimenti del gradevole, della meraviglia, della paura, della compassione e così via. A motivo dell’inadeguatezza, o più precisamente a causa della superficialità di questo nome, si è poi tentato di elaborarne anche altri, ad esempio il nome Callistica. Anche questo, però, si rivela insufficiente, dal momento che la scienza cui ci si riferisce concerne non il bello in generale, bensì puramente il bello dell’arte. Noi pensiamo di accontentarci quindi del nome estetica, perché esso per noi, in quanto puro nome, è indifferente, e inoltre nel frattempo è passato nel linguaggio comune a tal punto che, come nome, può essere mantenuto. L’espressione vera e propria per la nostra scienza, nondimeno, è “Filosofia dell’arte” e più specificamente “Filosofia dell’arte bella”21.
Ciò che più di tutto dobbiamo appuntare è lo spostamento d’area semantica del significato d’uso dell’estetica. È con il Romanticismo che insieme alla tematica della conoscenza nel confronto tra soggetto e oggetto, viene affermandosi ancora di più rispetto a quest’ultima la tematica del sentimento d’arte, che vede soprattutto tracciare entro l’estetica lo studio della conformazione, dei caratteri, nonché delle proprietà dell’oggetto, in tal caso, artistico. D’altronde il seme di questo senso dell’estetica era già presente in Baumgarten. Ciò rappresentava il primo passo del percorso conoscitivo che avveniva nella relazione tra la soggettività e l’oggettività, anche se in quanto primo passo esso era per così dire, come dice Baumgarten, un passo “confuso” poiché, dice sempre tra le righe Baumgarten, la conoscenza comincia colla sensazione ma essa va migliorata […] e che l’estetica è un’arte e non una scienza e queste non sono contrarie.
8.L’atto di nascita dell’Einfühlung: F.T. Vischer e R. Vischer
L’empatia – come parola dall’originale tedesco Einfühlung – nasce propriamente in contesti artistici e letterari. Nello stesso periodo della fondazione e dello sviluppo della filosofia fenomenologica si registra la ripresa, nonché in seguito lo studio accurato di tutte le teorie dell’empatia, da Robert Vischer (ÜberdasoptischeFormgefühl, 1873) e da Wilhelm Worringer (Abstraktion und Einfühlung, 1908). Due tra coloro che furono impegnati nella comprensione dei motivi artistici, e che posero a base delle proprie ricerche l’empatia tra fine Ottocento e inizi Novecento. Secondo loro, l’arte è l’immedesimarsi del sentimento nelle forme naturali, a causa di una profonda consonanza o simpatia tra soggetto e oggetto. L’uomo attribuisce bellezza alle forme nelle quali riesce a trasferire o a proiettare il proprio senso vitale. Il godimento estetico è pertanto godimento oggettivato di noi stessi. Il termine declinato come Einfühlung è stato coniato dagli studiosi di estetica F.T. Vischer e R. Vischer. Quest’ultimo, insieme a Worringer, ha trattato dell’empatia e delle sue tematiche interne prima ancora di un suo sviluppo in una filosofia fenomenologica dell’empatia. R. Vischer, è stato chiamato e considerato da Croce – che tra l’altro mal vedeva alcune teorie dell’empatia – il «primo autore» da cui muoveva nell’estetica l’approfondimento di una teoria generale dell’Einfühlung. È stato prima ancora il padre – F.T. Vischer – a interessarsi di argomenti attinenti a una relazione conoscitiva che poi avrebbero portato R. Vischer a rielaborare la stessa relazione, approfondendone lo studio. C’è una vera e propria sinergia nella ricerca tra il padre e il figlio. F.T. Vischer vive in pieno Romanticismo, nel quale clima tiene a studiare l’estetica, a cui dedica diverse opere. Egli aveva indicato in quello di simbolo un concetto importantissimo per una definizione dell’esperienza conoscitiva. Da “sumballein” (dal greco), mettere insieme, dice Vischer, se l’empatia è venire in uno di due, congiungersi e identificarsi di due diversi elementi, riunificazione di una
tensione polare, il simbolo è appunto l’esito di questo processo. Il simbolo si connette, continua Vischer, con l’immagine di senso (Sinn-Bild). In piena epoca romantica F.T. Vischer afferma: «il bello è unione di armonia e mimica nel senso in cui tale unione esprime un’unità reale, vivente, […], tutte queste forme finiscono per animare il mondo corporeo e per rendere corporeo ciò che è spirituale; nella molteplicità delle loro pieghe scaturiscono tutte dall’impulso a intuire in unità lo spirito e la natura». È emblematica l’opera di R. Vischer: “Sul sentimento ottico della forma”. L’analisi vischeriana muove proprio nella spiegazione della relazione tra l’espressività del soggetto o dell’oggetto. Tra l’altro, sempre in R. Vischer, possiamo individuare la prima genesi dall’empatia estetica a un’empatia, se non intersoggettiva, ma che comunque vede nell’arte e nell’opera d’arte un alter soggetto che si esprime in oggettualità e che sta di fronte al soggetto conoscente. La prefazione al testo sul sentimento ottico della forma in tutto questo è illuminante, esso costituisce l’atto di nascita della domanda su, e della modalità di studiare, l’empatia, scrive Vischer:
Il presente scritto mi è stato suggerito dalla discussione intorno alla forma pura, che mio padre, per primo, definì in un certo senso quale punto focale dell’interrogazione estetica […]. Se, come egli sostiene in opposizione alla scuola herbartiana, non vi può essere forma senza contenuto, allora quelle forme che non raffigurano alcuna vita psichica propria – forme alle quali fa riferimento, con qualche parvenza di plausibilità, questa scuola – devono essere dimostrate in quanto forme alle quali noi osservatori, in virtù di un atto involontario di trasposizione del nostro proprio sentimento, attribuiamo un contenuto psichico. Mio padre ha fatto riferimento a questo concetto di forma […]. Egli spiega l’effetto estetico di ogni fenomeno inorganico – perfino dello stadio più basso del mondo organico, del vegetale, quindi di tutto l’ambito del paesaggio – a partire da un conferimento presago, un’inconscia attribuzione di stati d’animo. Successivamente egli ha dato rilievo a questo concetto, sviluppandolo sotto il nome di simbolica della forma. Egli la definisce un “intimo sentire in uno l’immagine e il contenuto”, che storicamente è nelle religioni naturali un completo “scambio”. Come giungiamo a questo sentire in uno, a questo consentire profondo, oscuro, sicuro, intimo e tuttavia anche libero?
Continuando Vischer cita, da F.T. Vischer:
Dovremo ammettere che ogni atto spirituale si compie e al contempo si riflette in determinate vibrazioni e in – chissà quali – modificazioni neurologiche, in modo tale che queste rappresentano la sua immagine, e che dunque ha luogo una illustrazione simbolica già interna dell’organismo. I fenomeni esterni, che hanno un effetto così particolare su di noi da indurci ad attribuire loro involontariamente i nostri stati d’animo, devono rapportarsi a questa illustrazione interiore come fossero la sua raffigurazione ed esposizione obiettive. Il fenomeno naturale corrispondente viene incontro alla presupposta tendenza del nervo alle relative vibrazioni, la provoca all’azione, la rafforza e la ratifica, e con essa il moto dell’anima che si rispecchia in essa. Le diverse dimensioni della linea e della superficie, le differenze del loro movimento agiscono simbolicamente. La linea verticale eleva; quella orizzontale amplia; quella spezzata agita più vivacemente di quella retta, ricordando il modo di piegarsi e cambiare direzione della vita interiore in relazione a dati punti e leggi23.
Riprende R. Vischer:
Più approfondivo questo concetto della pura simbolica formale, più mi sembrava possibile anche operare una bipartizione del concetto stesso, distinguendo tra quelle che sono le associazioni di idee e quella che è invece una diretta fusione della rappresentazione con la forma dell’oggetto. Da ciò ho derivato il concetto che ho nominato “empatia” (Einfühlung)24.
È a questo punto e in questo contesto che, è da sottolineare, nasce il concetto di Einfühlung. Da questo punto si sarebbe formato il concetto di Einfühlung, cioè di empatia. L’Einfühlung in quanto sentire in uno di due, “sentire interno o dentro”, di difficile traduzione (che trova nell’italiano la traduzione prima di entropatia e poi di empatia) nasce propriamente nel contesto per così dire della filosofia estetica o della estetologia e come concetto viene riferito inizialmente al nodo della relazione tra soggetto e oggetto d’arte o di natura. A partire dal conio del termine Einfühlung l’estetica trasferisce i suoi due sensi in una sintesi intrecciandoli nella stessa Einfühlung. Questo nuovo concetto vede alle sue fondamenta come
momenti importanti di una sua storia sia il significato antico di aisthesis sia quello moderno, collegati. Porta con sé pure, anzi, soprattutto, la basilarità del modo conoscitivo. Tutti i testi sull’empatia, e a ben vedere, quei testi sull’empatia, sull’Einfühlung, che ne ricercano la genesi, non possono fare a meno di metterla in stretta connessione con l’estetica e addirittura delinearne una storia che più volte sembra essere una estetica gnoseologica, giacché ha come genesi il processo di conoscenza di un soggetto che si trova di fronte a un oggetto, l’io e l’altro, la relazione con l’alterità e la sua identità. Quindi, ricapitolando, l’Einfühlung prende le mosse dal campo estetico e in questo trova significazione e riporta con sé i problemi relazionali del senso della scienza estetica – in quanto ne fa parte –, ovvero il processo di senso tra la soggettività e l’oggettività o oggettualità. Nel parlare di empatia estetica è indispensabile di volta in volta definire l’esprimersi e l’espressione delle forme conoscitive soggettive e delle forme oggettive, dove il punto di medietà è sempre la sensazione e il sentire, ma sviluppato nell’ineludibile percorso di conoscenza nell’incontro, o meglio nel fronteggiarsi, del soggetto con l’oggetto.
9.L’«empatia estetica» e il circolo monacense per una estetica fenomenologica
Dalla nascita della teoria dell’empatia si sviluppano contemporaneamente diversi studi su di essa. Alcuni studiosi, fuori dai circoli di fenomenologia, come Worringer e Volkelt, scrivono allo stesso tempo dei fenomenologi, e tuttavia, il modo di approfondire lo studio sull’Einfühlung è diverso. Questi pensatori sono più legati all’empatia secondo il contesto in cui propriamente è nata: quello estetico. Ovviamente anche i fenomenologi hanno modo di muoversi nel campo estetico; in realtà è il metodo di indagine a essere radicalmente diverso e a costituire le differenze negli approcci.
Quella dei fenomenologi è un’estetica gnoseologica. Ovvero, essi non sono interessati alla sola arte ma aprono e sviluppano il concetto dell’empatia anche fuori dalla sfera artistica di conoscenza dell’oggetto ed espressione delle proprietà “belle” dello stesso. Insomma, insieme abbiamo un’empatia estetica, che ha come fine –sempre a partire dalle tematiche conoscitive di confronto tra soggetto e oggetto – l’arte e l’oggetto artistico o naturale, prima di tutto, e un’empatia – concettualizzata – fenomenologicamente intesa come facoltà di conoscenza. Per quanto riguarda invece Worringer e Volkelt essi sono sì legati alla teorizzazione vischeriana ma leggono l’empatia soprattutto nel senso di una teoria esplicativa dell’atto di contemplazione estetica in chiave più psicologica. In ciò sono più vicini a Lipps, il quale apre nell’introduzione della sua estetica con la frase: «l’estetica è una disciplina psicologica». Sono studiosi che nei loro testi di estetica approfondiscono il senso dell’Einfühlung e lo portano alle sue conseguenze. È importante l’articolo di Worringer del 1910 Trascendenza e immanenza nell’arte, in cui Worringer studia le tematiche che sottostanno all’empatia. Soprattutto egli tratta del confronto tra uomo e mondo esterno e afferma che questo confronto si compie naturalmente soltanto nell’uomo. Worringer cerca nelle diverse concezioni artistiche classiche e moderne – non dell’arte in senso concettuale – o quasi, si può dire, nella diversità delle produzioni artistiche nelle differenti epoche, cerca di ricomporre il confronto tra uomo e oggettualità (artistica). Ci sono epoche in cui l’uomo e l’arte si fondono in unum, dice Worringer. Ciò dipende, per l’appunto, dalla possibilità dell’Einfühlung di comprendere da parte del soggetto l’oggetto artistico. È una disposizione psicologica di identificarsi con gli oggetti del mondo, di scoprire, in quegli oggetti, le qualità formali che rispondono al sentimento di piacere. In ciò consiste l’estetica, che si differenzia da una certa arte che cerca di riprodurre le immagini “eidetiche”. Con Volkelt ci si avvicina di molto a quelli che saranno
i modi di Lipps e della fenomenologia di trattare sull’empatia. Per la prima volta è in Volkelt che vediamo concettualizzato il binomio “empatia estetica”; le sue ricerche risultano essere un ponte tra Worringer e Lipps. Al filosofo tedesco è caro lo studio di una teoria della conoscenza. Egli cerca di superare il dualismo cartesiano nonché le distinzioni teoriche kantiane con un “sistema” romantico; prova a farlo con la costruzione di una giustificazione gnoseologica della metafisica. Nel suo sistema di estetica scrive a favore di una teoria generale dell’empatia. Lo cito:
Se i tratti di un volto mi sembrano malinconici, allora a partire dalla mia esperienza vissuta interiore io devo conoscere un qualcosa di simile alla malinconia. […] L’intero processo dell’empatia dipende dall’impressione sensoriale che il soggetto contemplante riceve dall’opera d’arte. Nel caso ideale l’empatia si indirizza persino in modo inequivocabile verso questa impressione sensoriale. Conformemente a questa impressione vengono risvegliate e chiamate in causa queste e non altre disposizioni sentimentali. E conformemente a questa impressione vengono intraprese proprio queste e non altre trasformazioni e nuove formazioni riguardo alle disposizioni sentimentali chiamate in causa. Così sono anche le impressioni sensoriali, o meglio le percezioni di forme, colori e suoni, con cui entrano in un rapporto strettissimo le disposizioni sentimentali trasformate. […] Vengo dunque al risultato: si deve riconoscere che nel dato di fatto della figura espressiva è presente uno stato di cose che non è comprensibile a partire solo da un collegamento esteriore, per quanto stretto esso possa essere («associazione»), fra disposizione sentimentale e percezione e dal reciproco influsso esistente fra queste due. Ciò che qui abbiamo è un rapporto del tutto diverso: un rapporto che consiste nell’essere l’una nell’altra. Il contenuto della disposizione sentimentale si fonde nel contenuto della percezione – nonostante la disposizione sentimentale continui a sussistere. Abbiamo qui un processo di fusione, o meglio di assimilazione. Questa espressione suona più intensa e più interiore. Poiché in effetti qui si tratta di una interiorizzazione. Il contenuto della disposizione sentimentale viene reso addirittura immanente al contenuto della percezione mediante un’attività psichica inconscia. Il contenuto di sentimento sembra venir fuori da ciò che è percepito. Mentre ciò che è percepito è presente, è presente immediatamente con esso e in esso anche il contenuto di sentimento. E con ciò siamo arrivati alla funzione “causale” creativa dell’empatia25
Il concetto di empatia è usato inizialmente nel campo della riflessione estetica, dove muove i primi passi, e assume progressivamente caratteri vitalistici e soggettivistici. Nella seconda metà dell’Ottocento e, continuando, soprattutto nel Novecento, è adoperato come un concetto dall’intimo senso psicologico-intersoggettivo. Quando avviene questo slittamento di referenza del significato? Il filosofo e psicologo tedesco T. Lipps è il primo a fare una ricognizione dell’uso del concetto, nella versione estetica e psicologica. Il termine Einfühlung ricorreva come una chiave per la fruizione dell’opera d’arte, per l’esperienza estetica e naturale. Questo era allora il senso più importante e più noto negli ambienti culturali tedeschi. Husserl continuava a criticare la psicologia descrittiva lippsiana, mentre a Monaco leggevano le sue Ricerche. Qualche anno dopo alcuni allievi di Lipps seguono Husserl a Gottinga, dove lo incontrano, cominciando così discussioni e ricerche importanti. Il cosiddetto circolo fenomenologico di Monaco e Gottinga nasce in questo modo. Gli alunni di Lipps conoscevano bene la filosofia psicologica e l’estetica lippsiana. Quando essi, tra cui Daubert, Conrad, Pfänder, e Geiger, vengono a contatto con Husserl lo spingono ad approfondire l’estetica in senso fenomenologico vedendo delle connessioni molto interessanti tra l’estetica e la fenomenologia (non sappiamo se Husserl ebbe proprio in questo modo il primo contatto con l’Einfühlung, ma senz’altro aveva letto Lipps). All’incrocio tra estetica, psicologismo descrittivo, fenomenologia ed empatia, non mancano spunti e tracce molto rilevanti che hanno costituito una vera e propria koinè culturale tedesca. Husserl, tra l’altro, spinto dall’incontro con gli scritti di Lipps da un lato, e dai suoi allievi dall’altro, si trova di fronte la sfida di allargare il campo applicativo della fenomenologia, e pure di fondarla come metodo filosofico generale. È così che tra il 1906 e il 1907, dopo aver presentato il concetto di “riduzione fenomenologica” e aver tenuto lezioni sulla “cosa”, in cui Husserl affronta problemi relativi a una fenomenologia dell’esperienza e
della percezione, si dedica in toto a quella che doveva essere non solo una teoria della conoscenza ma una filosofia della conoscenza in generale. È di questo periodo un manoscritto fatto di appunti su estetica e fenomenologia (AVI 1, 1906). Questo manoscritto rappresenta il punto di partenza della riflessione di Husserl sul bello e sull’arte, sul valore dell’opera d’arte, ma anche soprattutto sull’oggetto estetico, sul suo statuto conoscitivo e sulla relazione con il soggetto. A ben vedere, ciò che preme di fatti Husserl è l’inscrivere l’estetica al di qua di una gnoseologia fenomenologica che si apre alla costituzione e all’indagine base del rapporto tra soggetti. Proprio per quest’ultimo caso Husserl usa il termine Einfühlung nelle Meditazioni Cartesiane, e lo usa per superare finalmente e ricomporre la frattura tra soggetto e oggetto. Tale termine apre dapprima però, nel suo uso husserliano, la relazione trascendentale tra corpiespressivi o soggetti; pur venendo da un campo estetico in cui era usato per il sentimento (che controllava la modificazione del senso del piacere) ma anche per indicare un più intimo coincidere conoscitivo espressivo dell’organo di senso, della sensazione, con l’oggetto che imprimeva la sua forma. È proprio così dunque che si arriva a quel significato di Einfühlung, già etimologicamente interno al termine, come con-sentire, o sentire dentro e insieme. Ritornando al manoscritto husserliano si può considerare come nel parlare di valore, di forma, e di simbolo dell’oggetto estetico, Husserl avesse già in nuce rintracciato una indagine molto più ampia. Egli però usa la parola estetica soltanto come teoria dell’arte, dell’oggetto artistico, e del sentimento valoriale del bello – e d’altra parte questo significato di estetica gli era giunto dal Romanticismo. È grazie allo psicologismo estetico – che pure critica – che Husserl prima usa Einfühlung in riferimento alla relazione tra soggetti come relazione tra l’io e l’altro – l’alter ego che si esprime nel confronto con l’io – e dopo che permetterà agli allievi che erano stati di Lipps – ora sotto la sua guida – di fondare una estetica fenome-
nologica dell’empatia. Per questi motivi, non solo nel Romanticismo, ma anche nella prima estetica di Husserl, anche se in modo implicito, – e nella prima estetica fenomenologica dei circoli di Monaco e Gottinga –, il discorso sull’Einfu!hlung ha inizio dal conoscere e nel confronto del soggetto con l’oggetto artistico, in quanto conoscenza simbolica, godimento e fruizione dell’oggetto da parte dell’artista. Del resto, una teoria dell’Einfühlung era già stata avanzata da Lipps, nella cui opera di estetica non mancano questi spunti.
10.Dall’empatia estetica all’Einfühlungslehre di Lipps
L’idea implicita propria di empatia come uso della parola Einfühlung è emersa dalle speculazioni estetico-metafisiche del Romanticismo. La parola Einfühlung viene usata tra i primi da Robert Vischer nell’arco della storia del pensiero, come termine problematico su cui riflettere non poco. Vischer la usa nella sua opera Über dasoptischeFormgefühl (1873), ponendola come base della sua teoria estetica. Secondo il filosofo tedesco, l’arte è l’immedesimarsi del sentimento nelle forme naturali, a causa di una profonda consonanza o simpatia tra soggetto e oggetto. L’uomo attribuisce bellezza alle forme nelle quali riesce a trasferire o a proiettare il proprio senso naturale. Una posizione simile a questa era quella di Worringer e di Lipps. Il percorso semantico – del termine Einfühlung –, in particolare, cambia a causa di piccoli spostamenti ed evoluzioni del concetto. Rispetto a Vischer e a Worringer, Lipps è a un passo decisamente diverso. Anche lui fonda la sua teoria estetica sul termine Einfühlung, tuttavia in Lipps si riscontrano delle differenze: non si parla più di relazione uomo-natura, uomo-oggetto espressivo ma a partire dalla relazione uomo-natura/arte, Lipps passa alla relazione uomo-uomo o opera d’arte. In breve, per Lipps, l’Einfühlung è l’atto di comprensione simpatetica che è alla base della funzione come fruizione dell’altro, dell’alterità (estetica). Lipps, insomma, ac-
corda più ricorrenze di Einfühlung, o perlomeno, sembra spostare di poco l’asse del significato del termine in questione. Tatarkiewicz in Storia di sei idee, per tale motivo, chiama l’empatia «il motivo di Lipps». Quella dello psicologo e filosofo tedesco è una vera e propria Einfühlungslehre, e come tale oggi viene studiata.
Il filosofo tedesco afferma, ad esempio, che l’empatia consiste nel dare vita, ovvero nell’animare le cose. L’empatia è la condizione di possibilità di conoscere le cose, e di riconoscersi nelle cose e negli altri. A differenza di Vischer, che fa dell’empatia un punto base, tra gli altri, della sua teoria, Lipps fa dell’empatia il termine centrale della teoria estetica. Sempre più, il concetto di Einfühlung– declinato anche letteralmente in modo diverso, ma con al centro sempre il “sentire” (Gefülh) – prende spazio nella scena del pensiero estetico e non solo.
NOTE 1
Nel termine Einfühlung, seguendo ciò che ne dice Pinotti, «si ritrovano la dimensione del pathos, dell’affezione emotiva; quella del processo di proiezione o introduzione; infine quella della comunione o immedesimazione o identificazione: il termine è composto da Ein- prefisso che indica “dentro”, l’interno e un movimento dal fuori al dentro (hinein), di penetrazione, immissione o introduzione; ma anche l’unità, il co-venire in uno di due – e Fühlung, da Fühlen, sentire, nel senso non tanto di sentire una sensazione (Empfindung), ma un sentimento (Gefühl). L’ambiguità del prefisso Ein- (introduzione in un’interiorità, ma anche unità) ha permesso ai teorici di esplicitare le due valenze fondamentali dell’Einfühlung: a. il movimento che parte dal soggetto per dirigersi all’interno dell’Altro (dell’altro soggetto, dell’essere umano estraneo; o dell’oggetto, vivente o non vivente), secondo una struttura polare, duale; b. il processo di annullamento di tale alterità, del dualismo, della polarità: il farsi uno dei due, proprio in virtù di quel movimento che diviene immedesimazione» (ANDREA PINOTTI, Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Bari-Roma, Laterza, 1997, p. 12). N.B.: Nelle pagine a seguire tradurrò indifferentemente Einfühlung usando “empatia”.
2 La traduzione “empatia” non fa altro che mettere l’accento sul “sentire interiore” o sul “con-sentire”, sul risuonare che si muove tra l’espressione della soggettività e l’impressione che l’oggetto può ora avere nei confronti della soggettività. Il soggetto può conformarsi come un io mentre l’oggetto come un altro soggetto, un’opera d’arte, un oggetto di natura o un’oggettualità qualunque.
3 Cfr. Il testo in greco riportato per i passi concernenti il Teeteto di Platone è tratto dall’edizione curata da Burnet per la «Scriptorum classicorum Bibliotheca Oxoniensis» (in Platonis Opera, I, Oxonii, 1900). Per quanto riguarda la codifica del testo, i numeri e le lettere suddividenti il testo rimandano alla classica edizione del testo greco di Henricus Stephanus. Riporto la traduzione in italiano del passo del Teeteto 153 d – 154 a: Socrate: Ebbene, ottimo giovane, supponi questo: innanzi tutto, per quanto riguarda gli occhi, ciò che tu chiami colore bianco, non è, in sè, un qualcosa d’altro al di fuori dei tuoi occhi, e poi non devi assegnargli una determinata collocazione, perchè in tal caso si troverebbe certamente in un determinato luogo, sarebbe stabile, e non nascerebbe in un processo di generazione. Teeteto: ma come? Socrate: Seguiamo il discorso appena fatto, e poniamo
che nessuna cosa sia in sè e per sè una. E così nero, bianco, e qualunque altro colore ci apparirà nascere dall’incontro degli occhi con il movimento diretto verso di loro, e ciò che noi diciamo essere questo o quel colore non sarà nè ciò che incontra nè ciò che è incontrato, bensì qualcosa di intermedio, generatosi in maniera propria a ciascuno. O vorresti insistere che ciascun colore appare a un cane o a qualsiasi animale quale appare a te? Teeteto: Io no, per Zeus! Socrate: E allora? Una qualsiasi cosa appare forse uguale, a un altro uomo e a te? Mantieni con forza questa opinione, oppure, con molto maggiore sicurezza, che neppure a te stesso una cosa appare la stessa, per il fatto che neppure tu sei mai uguale a te stesso? (trad. it. di Claudio Mazzarelli in Platone, tutti gli scritti, Milano, Bompiani, 2000).
4 Cfr. ARISTOTELE, Analitici secondi II, 7, 92a-92b. Il testo in italiano è ripreso dalla traduzione di G. Colli, Organon, edito da Adelphi.
5 Cfr. Il testo in greco riportato per i passi concernenti la Metafisica di ARISTOTELE è tratto dall’edizione di riferimento curata da William David Ross, Aristotle’s Metaphysics, 2 voll. (Oxford, Clarendon Press, 1924). Riporto la traduzione in italiano del passo della Metafisica 981 a 24 - 981 b 9: E, tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri piú all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono l’arte piú sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza, in ciascuno degli uomini, corrisponda al loro grado di conoscere. E, questo, perché i primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la causa. Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle singole arti siano piú degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e siano piú sapienti dei manovali, in quanto conoscono le cause delle cose che vengon fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere ciò che fanno, cosí come agiscono alcuni degli esseri inanimati, per esempio, cosí come il fuoco brucia: ciascuno di questi esseri inanimati agisce per un certo impulso naturale, mentre i manovali agiscono per abitudine. Perciò consideriamo i primi come piú sapienti, non perché capaci di fare, ma perché in possesso di un sapere concettuale e perché conoscono le cause. In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia soprattutto la scienza e non l’esperienza; infatti coloro che posseggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre gli empirici non ne sono capaci (trad. it. di Giovanni Reale, Metafisica, Milano, Bompiani, 2000).
6 Cfr. Riporto la traduzione in italiano del passo della Metafisica 981b 10-13: Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza: infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumenti di conoscenza dei particolari, non ci dicono, però, il perché di nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente segnalano il fatto che esso è caldo (trad. it. di Giovanni Reale, Metafisica, Milano, Bompiani, 2000).
7 Cfr. Per il testo mi sono basato sulla traduzione di Leonardo Amoroso in Il battesimo dell’estetica, Pisa, Edizioni ETS, 1993. L’edizione di riferimento è ALEXANDER GOTTLIEB BAUMGARTEN, Reflexions on Poetry. Alexander Baumgarten’s Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus, a cura di Karl Aschenbrenner e William B. Holther, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1954, in cui è riprodotta l’edizione originale.
8 Cfr. Per il testo mi sono basato sulla traduzione di Leonardo. Amoroso in Il battesimo dell’estetica, Pisa, Edizioni ETS, 1993. L’edizione di riferimento è la ristampa anastatica (Hildescheim-New York, Olms, 1970) dell’edizione originale.
9 Cfr. Vom Erkennen und Empfinden der menschlichen Seele, tr. it. di Francesco Marelli, “Sul conoscere e il sentire dell’anima umana”, «Aisthesis», 2009/1: 99-129 (prima sezione).
10 Cfr. Ibidem.
11 Cfr. Ibidem.
12 Cfr. Ibidem.
13 Cfr. Ibidem.
14 Cfr. Vom Erkennen und Empfinden der menschlichen Seele, tr. it.di Francesco Marelli, “Sul conoscere e il sentire dell’anima umana”, «Aisthesis»,2009/1: 99-129 (prima sezione).
15 Cfr. È il paragrafo 11 della Prima Introduzione (Erste Einleitung) alla Critica del Giudizio. Per il testo mi sono basato sulla traduzione di Leonardo Amoroso in Il battesimo dell’estetica, op. cit. La
traduzione è stata condotta sull’edizione Weischedel (Vol. X) Kant, Erste Einleitung in die Kritik der Urteilskraft. Faksimile und Transkription, a cura di Norbert Hinske, Wolfgang Müller-Lauter, Michael Theunissen, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann, 1965.
16 Cfr. È il testo della prima nota del primo paragrafo della Critica della Ragion Pura, pubblicata in prima edizione nel 1781. Per il testo mi sono basato sulla traduzione in italiano di Leonardo Amoroso in Il battesimo dell’estetica, op. cit. Il testo originale è stato ripreso dall’edizione Weischedel (Vol. III) che non presenta alcuna variante rispetto alla classica Akademie-Ausgabe.
17 Cfr. Per il testo mi sono avvalso della traduzione in italiano di Costantino Esposito, Critica della Ragion Pura, Milano, Bompiani, 2004.
18 Cfr. È un passo del paragrafo 11 della Prima Introduzione (Erste Einleitung) alla Critica del Giudizio. Per il testo mi sono basato sulla traduzione di Leonardo Amoroso in Il battesimo dell’estetica, op. cit. La traduzione è stata condotta sull’edizione Weischedel (Vol. X) Kant, Erste Einleitung in die Kritik der Urteilskraft. Faksimile und Transkription, op. cit
19 Ibidem.
20 Cfr. È un passo del paragrafo 11 della Prima Introduzione (Erste Einleitung) alla Critica del Giudizio. Per il testo mi sono avvalso della traduzione in italiano di Massimo Marassi, Critica del Giudizio, Milano, Bompiani, 2004.
21 Cfr. Per il testo mi sono avvalso della traduzione in italiano di Francesco Valagussa in Estetica di Hegel, Milano, Bompiani, 2012-13.
22 Cfr. Il testo riportato presenta la traduzione in italiano di Italo Amaduzzi presentata nel testo antologico Estetica ed empatia a cura di Andrea Pinotti, Milano, Guerini Studio, 1997. Il testo riporta in traduzione la prefazione del testo di Robert Vischer “Sul sentimento ottico della forma, un contributo all’estetica”. L’edizione originale di riferimento è quella della dissertazione dottorale del 1872 di Robert Vischer pubblicata prima singolarmente nel 1873 e poi raccolta in “Drei Schriften zum ästhetischen Formproblem”, Halle a.d. Saale, Max Niemeyer Verlag, 1927, pp.1-44.
23 Cfr. Ibidem.
24 Cfr. Ibidem.
25 Cfr. Il testo riportato presenta la traduzione in italiano di Pietro Galimberti presentata nel testo antologico Estetica ed empatia a cura di Andrea Pinotti, Guerini Studio, Milano, 1997. Il testo riporta in traduzione la prima parte del testo di Johan Volkelt “Teoria dell’empatia estetica”. L’edizione originale di riferimento è “Theorie der ästhetischen Einfühlung”, in System der Ästhetik, München, C.H. Beck, 1927, vol. I, cap. II, § 7, pp. 168-201.
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Giancarlo Pillitu
I presupposti del percorso
Il punto di partenza del presente percorso è triplice, e implica un principio e due problemi.
In primo luogo, la necessità di verificare, fenomenologicamente, il principio kantiano dell’impossibilità di una rappresentazione, di un’esperienza anonima, impersonale: “L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato un qualcosa, che non potrebbe affatto venir pensato; o con espressione equivalente: poiché altrimenti o la rappresentazione risulterebbe impossibile, oppure, almeno per me, essa non sarebbe niente”1.
In secondo luogo, il problema dell’accesso al “silenzio delle cose”, posto dal filosofo del linguaggio Felice Cimatti2, ovvero dell’accesso alla dimensione anonima e impersonale dell’essere.
In terzo luogo, il problema lévinassiano dell’uscita dall’il y a3 , ossia dell’evasione dalla dimensione anonima e impersonale dell’essere, dal “c’è”.
Il principio kantiano, dunque, sembra spiegare il primo problema, ma appare confutato dal secondo, di segno opposto.
A tali presupposti si accompagnano tre domande accessorie:
1. Possiamo considerare valida l’equazione noumeno/cosa in sé = il y a = cose?
2. Le cose coincidono con il mondo oppure con l’essere/il y a?
3.La soppressione dell’io – ovvero il porsi al di qua dell’io, regredendo al grado zero della coscienza – consentirebbe l’accesso, ritenuto impossibile da Kant, alla conoscenza della cosa in sé?
Il passaggio
dalla metafisica alla fenomenologia
Lévinas riflette sulla differenza ontologica, di matrice heideggeriana, tra l’esistente e l’esistenza, per cercare di capire il momento sorgivo del primo in seno alla seconda. In primo luogo, l’esistente è un sostantivo, mentre l’esistenza, ovvero l’esistere, è un evento, un atto, un verbo.
La filosofia accoglie e cela, al tempo stesso, tale distinzione, perché anziché cercare di cogliere il senso della verbalità dell’essere, si orienta verso l’individuazione della causa dell’esistenza, che trova in un ente supremo, Dio. Perde, in tal modo, di vista l’evento d’essere, “l’opera d’essere”4, che riduce all’essente, misconoscendo la differenza ontologica.
Lévinas sembra non aver dubbi sull’accessibilità dell’esistenza anonima e impersonale. Essa è testimoniata da un’emozione più radicale dell’angoscia heideggeriana per la morte o della nausea sartriana per l’esistenza, entrambi sentimenti che fanno capo a un soggetto. Tale emozione più autentica in quanto più radicale è l’orrore d’essere: “L’orrore è, in qualche modo, un movimento che spoglia la coscienza della sua stessa <<soggettività>>. Ma non placandola nell’inconscio, bensì facendola precipitare in una vigilanza impersonale, in una partecipazione, nel senso che Lévy-Bruhl dà a questo termine”5. L’il y a di Lévinas e il sacro di Lévy-Bruhl comportano entrambi esperienze spersonalizzanti.
Il vero problema, dal punto di vista di Lévinas, è piuttosto ricostruire fenomenologicamente quando e come cominci l’esistente, a partire da quale momento e in che modo nell’essere in generale –indifferenziato, anonimo, impersonale – si ponga, si costituisca l’essente, ovvero quando e come l’essente si impadronisca dell’essere, divenendone il soggetto, decretando il passaggio dal verbo al soggetto.
Lévinas pensa che tale momento sia l’istante. Nel continuum temporale, l’istante coincide con la nascita dell’esistente in seno all’esi-
stenza, con l’assunzione dell’essere da parte dell’ente, con l’origine del soggetto nel cuore del “c’è”. Ciò significa che l’istante, il singolo istante, non esiste nel flusso temporale, sinché un soggetto non scaturisce dall’essere. Il soggetto sta all’essere come l’istante sta al tempo.
La riflessione lévinassiana si concentra su temi metafisici: l’essere, l’essente, il tempo, l’istante, l’ipostasi. Quest’ultima va intesa come una sorta di solidificazione del flusso temporale, come un’onda che si concentra in un corpuscolo, l’istante. L’istante diviene soggetto. L’esistente non è che una condensazione temporale, un’ipostasi, appunto.
L’approccio descrittivo di Lévinas, dall’esistenza all’esistente, attraverso l’ipostasi, delinea il passaggio dalla metafisica alla fenomenologia.
Per spiegare l’esistente non è sufficiente il riferimento a una causa (metafisica). Occorre spiegare/descrivere in che modo l’esistente si impossessa dell’esistenza (fenomenologia).
La nascita del mondo
La posizione kantiana riguardo all’io penso costituisce il punto di partenza del percorso intrapreso. Ogni mia rappresentazione deve poter essere accompagnata da un io penso. Ma l’il y a lévinassiano può essere considerato una rappresentazione senza io, anonima, impersonale. Il “c’è” può esprimere il “silenzio delle cose” 6, proprio perché è il silenzio del soggetto. La differenza tra il silenzio delle cose e il silenzio del soggetto consiste nel fatto che il primo è da considerarsi un linguaggio, mentre il secondo è l’assenza di linguaggio. Oppure, più opportunamente, entrambe le forme di silenzio costituiscono l’accesso alla cosa in sé, al di qua del fenomeno, considerando che il fenomeno, per sua natura, è inseparabile dal linguaggio.
La lettura di Lévinas induce a chiedersi quale sia la ragione della forza attrattiva esercitata dalla metafisica e dalla fenomenologia. Il passaggio dall’esistenza all’esistente, dall’essere in generale alla coscienza, sembra sia la chiave per poter capire ciò che più conta, ovvero il mondo, la sua nascita. Che cosa c’è prima del mondo? Come nasce e da che cosa nasce la coscienza, la cui esistenza tendiamo a dare per scontata? Perché la fenomenologia può aiutarci a chiarire la nostra dimensione metafisica? E perché mai dovrebbe interessarci la nostra dimensione metafisica? Che cosa c’è prima del mondo e della coscienza? Possiamo avanzare un’ipotesi metafisica. Metafisica perché il suo contenuto riguarda una realtà a priori rispetto al mondo e alla coscienza, ovvero rispetto all’oggetto dell’esperienza, il mondo, e al soggetto dell’esperienza, la coscienza. Ma come indagare tale oggetto, l’esistenza anonima e impersonale, di cui non abbiamo esperienza? La fenomenologia potrebbe essere il metodo di cui abbiamo bisogno per tale indagine. Si tratta di provare a descrivere un essere senza mondo e senza coscienza e di provare a rispondere alla domanda sul rapporto tra coscienza e mondo e su quale dei due elementi o ipostasi debba considerarsi il punto di partenza per una ricostruzione ontologica. Come procedere? La fenomenologia consiste nel descrivere manifestazioni emotive e ontologiche che trovano nella coscienza il loro punto d’arrivo. In questo senso, la coscienza risulta essere un’ipostasi.
Dalla metafisica alla fenomenologia
Lévinas individua attraverso il metodo fenomenologico un livello ontologico intermedio tra le cose e gli individui umani, tra l’oggetto e il soggetto. Si tratta dell’il y a, ovvero dell’essere in generale, dell’esistenza anonima e impersonale. La fenomenologia si configura in tal modo come un metodo molto fecondo per una ricerca metafisica.
Siamo così in presenza di una tripartizione ontologica: le cose (che a un’analisi più accurata andrebbero differenziate dagli oggetti), l’il y a (esistenza anonima e impersonale), la soggettività (inseparabile dal linguaggio e dalla metafisica).
Kant, partendo dal concetto di rappresentazione, postula l’esistenza di un io penso, senza il quale la rappresentazione sarebbe inconcepibile, perché risulterebbe anonima e impersonale.
Lévinas parte dalla situazione opposta, ossia immagina una rappresentazione anonima, quella di un essere in generale, che chiama il y a, il “c’è” anonimo e impersonale, per ricostruire fenomenologicamente il sorgere della coscienza, il passaggio dall’esistenza all’esistente.
L’analisi fenomenologica dello sforzo e della fatica consente a Lévinas di cogliere la differenza tra la vita delle cose (l’esistenza) e la nostra vita (l’esistente). Si possono seguire i suoi passaggi.
Come nasce la coscienza? Lévinas analizza gli atti dello sforzo e della fatica, per dimostrare come la durata bergsoniana si interrompa per dar vita all’istante, nel quale si costituisce l’esistente. L’esistente assume l’esistenza nell’istante. E l’istante è un prodotto dello sforzo, in cui avviene lo sdoppiamento tra lo slancio e la fatica intesa come ricaduta nell’istante che non viene superato, ma ipostatizzato. Un’increspatura nel tempo-durata e nell’essere anonimo e indifferenziato: “Lo sforzo è il compimento stesso dell’istante [… ]Agire, significa assumere un presente. Il che non equivale a ripetere che il presente è l’attuale, ma che, nel brusio anonimo dell’esistenza, il presente è l’apparizione di un soggetto alle prese con questa esistenza, che è in relazione con essa e che l’assume. L’atto è questa assunzione”7.
Istante, presente, soggetto denotano il medesimo fenomeno: il passaggio da un’esistenza anonima a un esistente che prende posizione in questa esistenza anonima e l’assume come la propria esistenza. Lo sforzo e la fatica rappresentano quell’indugiare nell’istante che
favorisce la nascita della coscienza, che è una presa di coscienza intesa come presa dell’esistenza da parte di una sua porzione, ovvero come presa della durata da parte di un suo istante. Nello sforzo e nella fatica, l’esistenza ritorna su se stessa e si costituisce come istante, diversamente dallo slancio, che proietta l’esistenza nel futuro, la durata nell’istante successivo, come accade nella melodia, il cui flusso supera la distinzione tra singoli istanti. Lévinas precisa: “Infatti il ritardo della fatica nel presente dà luogo a una distanza in cui si articola una relazione: il presente è costituito dalla presa in carico del presente”8. Ma è lecito chiedersi: la “presa in carico” da parte di chi? Chi è il soggetto di tale atto? Il lavoro asservisce all’istante. In ciò sta il suo nesso con la schiavitù. Ecco perché anche il lavoro libero è pur sempre servile. Perché àncora, come la servitù della gleba, all’istante. Il lavoro è schiavitù poiché coincide con “La pena dello sforzo in cui la fatica è interamente costituita da questa condanna al presente”9. La spensieratezza si esprime nel silenzio, atto di rottura del rumore, del flusso degli obblighi quotidiani, per ri-trovare/ri-creare/ri-costruire una soggettività alienata, ri-precipitata nella dimensione anonima dell’esistenza. La fatica, conseguente allo sforzo, si configura come “condanna al presente”10.
Noi mortali ci troviamo a vivere, per un periodo limitato di tempo, nell’eternità. Siamo un frammento dell’eternità. Il finito che, hegelianamente, si risolve nell’infinito. Viaggiano con noi, nel mare dell’eternità, una miriade di altre creature finite, mortali, come noi. Si può provare a esplorare il senso di tale paradosso che lega l’essere all’ente.
L’esperienza della fatica ci consente di descrivere la nascita dell’esistente dall’esistenza. Perché? Perché la fatica comporta uno scarto tra l’essere e l’allontanamento dall’essere. Tale distanza istituisce una relazione, l’assunzione dell’istante, un atto, che istituisce il presente: “La domanda d’essere è proprio l’esperienza dell’essere
nella sua stranezza. Ed è quindi un modo di assumerlo. [...] Subiamo la sua [dell’essere] morsa soffocante come la notte, ma lui non risponde. È il mal d’essere”11.
Tuttavia, Cimatti ci ricorda le parole con le quali Freud, in Al di là del principio di piacere (1920), indica il percorso proprio dell’individuo in quanto organismo: la “prima pulsione, la pulsione a ritornare allo stato inanimato”12. Lo stesso Cimatti commenta: “Se l’organismo non è che una piega temporanea di qualcosa di più elementare, lo stato inanimato è quello della cosa, non della morte”13. Risulta evidente il fatto che il percorso individuato da Freud sia inverso rispetto a quello descritto da Lévinas. Infatti, Freud delinea il passaggio dall’esistente all’esistenza, nel quale la “piega” (nozione che Cimatti riprende da Deleuze) corrisponde all’ipostasi e l’organismo sostituisce il soggetto, secondo un linguaggio non più metafisico, ma biologico.
La metafisica come fenomenologia
Si potrebbe pensare a un’altra genealogia. La coscienza sorta dal flusso di coscienza, o dal flusso del preconscio.
In questo caso, quale sarebbe la differenza tra l’insonnia e il flusso di coscienza? L’insonnia è una resistenza della coscienza, mentre il flusso di coscienza è un allentamento della coscienza. Nel flusso di coscienza il mondo si polarizza e si decostruisce; l’io sembra scomporsi in più centri, rimbalzanti l’uno sull’altro. Nell’insonnia, invece, si sperimenta la fine del mondo e lo spegnimento dell’io.
Lévinas ci ricorda che: “Vivere è una sincerità” [...] Essere nel mondo [...] È la possibilità stessa del desiderio e della sincerità”. [Il mondo] è la possibilità di staccarsi dall’essere anonimo”14. Ma dal mondo si può passare all’insonnia, alla perdita del mondo.
La perdita del mondo corrisponde all’i y a, che Lévinas descrive come insonnia. La sola presenza. Senza oggetto né soggetto, senza
cose né coscienza. Occorre distinguere tra vigilanza (insonnia) e attenzione (coscienza). L’insonnia non è l’esperienza del nulla, ma dell’essere anonimo e impersonale, del “nudo fatto della presenza” che “opprime”15: “la vigilanza dell’insonnia che tiene aperti i nostri occhi non ha soggetto”16.
L’insonnia dell’essere riemerge nel momento in cui viene meno la coscienza e la cosa, avvolte nella notte dell’il y a, che si rivela come “ritorno della presenza nell’assenza” 17 . Al contrario, la coscienza si costituisce come “rottura dell’insonnia dell’essere anonimo” e “rifugio dove potersi ritirare dall’essere”18.
Lévinas precisa: “La coscienza sorge a partire dal riposo, dalla posizione, a partire da questa relazione esclusiva con il luogo”19.
Qual è la posta in gioco del percorso seguito? Dopo aver proceduto per giustapposizione di brandelli di testo, nella speranza di veder scoccare la scintilla del senso, emerge il fatto che l’esigenza del senso ha scatenato la ricerca – lenta, faticosa e inconcludente –che non può non cercare la propria giustificazione in se stessa, condannata com’è all’autoreferenzialità.
Tale è il lavoro della coscienza: trovare in se stessa la propria origine, prigioniera dei fenomeni che ospita, analizza e interpreta. In fondo, la fenomenologia, metodo e contenuto al tempo stesso, è la vita stessa della coscienza. Una vita metafisica, che coincide con la fenomenologia.
NOTE
1
IMMANUEL KANT, Critica della ragion pura (1781-1787), tr. it. di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 1976, § 16, pp. 155-156.
2 FELICE CIMATTI, Cose. Per una filosofia del reale, Torino, Bollati Boringhieri, 2018.
3
EMMANUEL LÉVINAS, Dall’esistenza all’esistente (1947), Casale Monferrato, Marietti, 1986.
4 Ibidem, p. 11.
5 Ibidem, pp. 52-53.
6 FELICE CIMATTI, Cose. Per una filosofia del reale,op. cit., p. 114.
7
EMMANUEL LÉVINAS, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., p. 27.
8 Ivi.
9 Ibidem, p. 28.
10 Ivi.
11 Ibidem, pp. 16-17.
12 Cit. in FELICE CIMATTI, Cose. Per una filosofia del reale,op. cit., p. 107.
13 Ivi.
14 EMMANUEL LÉVINAS, Dall’esistenza all’esistente, op. cit., pp. 37-38.
15 Ibidem, p. 59.
16 Ivi.
17 Ibidem, p. 60.
18 Ibidem, p. 59.
19 IIbidem, p. 64.
BIBLIOGRAFIA
CIMATTI FELICE, Cose. Per una filosofia del reale, Torino, Bollati Boringhieri, 2018 KANT IMMANUEL, Critica della ragion pura (1781-1887), tr. it. di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 1976
L ÉVINAS E MMANUEL , Dall’esistenza all’esistente (1947), Casale Monferrato, Marietti, 1986
Davide Orlandi
La prima opera di Descartes e il metodo1
Il “Compendium Musicae” è composto tra il 10 novembre 1618 e il 31 dicembre del medesimo anno. In occasione della prima data, Descartes incontrò a Breda2 Isaac Beeckman, a cui è dedicata l’opera, consegnatagli come manoscritto il primo giorno di gennaio del 1619.
Il Journal, redatto da Beeckman stesso, risulta essere un documento alquanto significativo, poiché riporta la lettera in cui si racconta della collaborazione tra i due. In particolare, quest’ultimo è un teorico della musica, il cui interesse è rivolto alle questioni fondamentali di definizione fisica delle consonanze, spiegazione del piacere uditivo, teoria delle modalità sonore. Tuttavia è noto sia stato un musicista solo mediocre, tanto che non partecipò mai pienamente alla vita musicale effettiva del suo tempo. Dal canto suo invece, Cartesio procedette con un’attività essenzialmente sperimentale. È probabile che disponesse di un liuto e di un flauto e che inoltre conoscesse i principi necessari per misurare, da un lato le proprietà lineari, dall’altro gli aumenti degli intervalli all’ottava. Grazie a quanto attesta il Giornale, Descartes era giunto alla consapevolezza che le corde gravi fanno risuonare quelle acute, generando un’armonia piacevole, e non viceversa. Ora, Beeckman nominerà psicomatematici gli scienziati che, al pari di lui medesimo e Cartesio, esplorano la natura della Musica. Tale espressione sarà destinata a grande fortuna.
All’interno della stessa fonte, ma di qualche giorno posteriore, vennero riportate le esperienze condotte sul flauto: dando sufficiente aria, il suono è reso più alto di un’ottava. Questa e altre prove,
determinanti per la teoria cartesiana della consonanza – fenomeno acustico per cui, risuonando assieme due o più melodie, si produce effetto gradevole –, pongono in evidenza il fatto che nell’effetto della risonanza la quarta non ha le proprietà della terza e della quinta.
Non si dovrebbe tuttavia sopravvalutare l’apporto del Journal nella comprensione del Compendium. Infatti Beeckman non dà mai una lettura puramente cartesiana alle esperienze descritte, vedendo in queste un supplementare sostegno alle proprie teorie, su cui insiste costantemente. Più precisamente, la musicologia beeckmaniana è fondamentalmente una fisica del suono, che vanta in primo luogo la dimostrazione geometrica della proporzionalità della frequenza delle vibrazioni delle corde, nella loro durata totale. Per spiegare il piacere uditivo, sono considerati invece sufficienti gli aspetti materiali della percezione sonora. È evidente il continuo richiamo all’atomismo antico, tanto per ciò che concerne la teoria discontinuista della materia con l’ardua ripresa del rapporto tra armonia e aspetto ondulatorio dei fenomeni sonori, quanto per la dottrina del piacere.
Dall’altra parte invece, il pensiero musicale sostenuto da Cartesio prima del 1618 ci è ignoto. Nell’opera poi figurano riferimenti costanti alle teorie di Gioseffo Zarlino3 (in realtà però il suo nome compare solamente una volta). Questi fu compositore e teorico musicale di fine Cinquecento. A lui è attribuita l’invenzione della moderna armonia tonale, basata sui soli modi del maggiore e del minore, in più diede un notevole contributo alla teoria del contrappunto. Sembrerebbe più probabile che il Filosofo abbia guardato all’opera “Istituzioni armoniche” del 1558, considerandolo un catalogo delle frequenze. Tuttavia non accetta le sue teorie sulla sostanza. Inoltre è errato considerare che quest’opera sia utilizzata come un vero e proprio modello, a cui Descartes si affida totalmente. Infatti sono evidenti le differenze a livello strutturale: da un lato, l’opera del veneziano conta un cospicuo numero di pagine, che cul-
minano nelle parti III e IV con una moltitudine di esempi di tipo musicale, dall’altro lato invece, il Compendium è composto da 58 pagine, da una struttura alleggerita e dal riferimento a un solo esempio.
Di fatto, il paesaggio armonico di Descartes è il medesimo di quello di Zarlino e di altri autori minori. Costoro giudicano come consonanti gli intervalli dei Greci, vale a dire le ottave, le quinte e le quarte, insieme con le produzioni moderne delle terze e delle seste maggiori e minori. Ora, Zarlino fonda nelle sue teorie elementi aristotelici, come l’opposizione della forma e della materia, della teoria e della pratica, con aspetti neoplatonici, quali quelli relativi alle proprietà del numero sei. Ciò nonostante, la teoria non è costruita su esperienze sperimentali: è qui che Cartesio apporta importanti e significative novità. Comunque, agli occhi della storia della musica, il Filosofo è zarliniano, pur essendo esteti totalmente diversi.
Paragonando poi il Compendio agli studi scientifici, filosofici e ai trattati di musica anteriori – di cui inoltre Cartesio non disponeva –, si possono rilevare molte differenze, in primo luogo relative all’omissione progressiva dei riferimenti storici, nonché la volontà di lasciare al lettore l’onere e al tempo stesso l’onore di trarre le conclusioni, a partire dalle premesse. “Iln’yalàquel’essentiel”4. Inoltre l’autore procede costantemente dal semplice al complesso, limitandosi a studiare i parametri misurabili e rifiutando le qualità, come i timbri, le sfumature (forte-piano), compito dei fisici. L’indagine cartesiana allora si basa su ciò che è calcolabile e osservabile direttamente; ne sono un esempio i calcoli condotti sulla corda, ridotta alla sola dimensione della lunghezza, o sul tempo, la cui divisione e ritmicità corrisponde alle passioni corporee. Infine riduce a una teoria dell’arte la consonanza della natura reale del suono e la sua percezione uditiva. In breve, si assiste così all’unione dell’applicazione matematica e della realtà fisica con la fisiologia e la teoria delle pas-
sioni. Infatti se l’arte ha lo scopo di far trionfare le passioni, è compito della filosofia conoscere queste: è su tale doppio registro che si gioca la questione.
Struttura del trattato
Come suggerisce il titolo stesso, il Compendium Musicae non tratta dell’armonia – termine che inoltre non comparirà mai in questa accezione –, bensì della teoria della musica. È interessante notare i continui riferimenti ai “Praenotanda”5, parola arcaica che indica premesse generali, attraverso le quali sono definiti i limiti dell’oggetto musicale e più generalmente dell’oggetto estetico, dando in questo modo conto dell’estetica cartesiana. Tali otto preposizioni svolgono un ruolo costitutivo nella teoria, pur tuttavia non parlando mai direttamente di musica. Nell’insieme si può osservare un passaggio progressivo dalle esigenze dei piaceri sensoriali alla struttura dell’oggetto che influenzano. Quindi si giunge al compimento di un’estetica, legata sia ai principi della bellezza o del piacere, sia a quelli della sensazione. Contemporaneamente, questa rappresenta il punto d’inizio generale, affermando Cartesio che ogni senso ha la capacità di provare piacere, la qual cosa è presupposto per ogni teoria dell’arte. Ben presto poi il Filosofo comprende l’impossibilità di trattare direttamente del piacere uditivo, senza compararlo con il benessere visivo. Ne consegue che la bellezza presupponga il rapporto esterno con l’oggetto dei sensi e, a sua volta, tale proporzione pretenda la distinzione delle parti. In ultima analisi, Cartesio trasforma l’esigenza generale della proporzionalità in identificazione con la natura. Ora, è luogo comune nella storia della teoria della musica far iniziare l’analisi dell’armonia dalle proporzioni. Il primo autore noto che rifiuterà tale consuetudine sarà d’Alambert molti anni più tardi. In particolare gli autori classici distinguevano tre tipi di proporzionalità: aritmetica,
geometrica e armonica. Nella prima le differenze sono costanti e le ragioni incostanti; nella seconda, viceversa, le differenze risultano incostanti e le ragioni costanti; infine nella terza si hanno sia differenze che ragioni incostanti. In Descartes invece si assiste a un’estrema originalità, riuscendo a ottenere la classificazione delle consonanze, facendo unicamente riferimento al più semplice modo di calcolare i rapporti proporzionali: vale a dire quello aritmetico. Così si possono considerare i “Praenotanda” come la ricostruzione della psicologia della sensazione, sviluppata nel “Trattato sull’anima” di Aristotele, in cui si legge: se l’armonia (συνφωνία) è una sorta di voce, se la voce e l’udito sono, in un senso, una cosa sola, e se, nell’altro senso, questi non sono una cosa sola, se infine l’armonia è il λόγος (la proporzione), è necessario che l’udito sia una sorta di proporzione6.
In breve, il Filosofo antico definisce una teoria della piacevolezza che procede dall’oggetto ai sensi e descrive l’armonia musicale come la proporzione dei sensi stessi. Al contrario, il teorico moderno parte dai sensi e arriva alle capacità dell’oggetto, permettendo in tal modo all’intelletto di non compiere sforzi onerosi per poter comprendere7.
Ora, analizzando nello specifico l’opera, il primo capitolo osserva i due disturbi del suono: ritmo e altezza, escludendo allora la questione del timbro e della qualità. Il secondo capitolo invece espone otto preposizioni preliminari, applicate al ritmo nel terzo. Infine dal quarto all’undicesimo viene esaminata la questione dell’altezza, partendo anch’essi dai “Praenotanda”. Gli ultimi due, infine, passano dalla trattazione della teoria a quella della pratica.
Lo studio condotto è poi divisibile in tre momenti, che rispettivamente sono relativi alle consonanze, approfondite sia con un’analisi più generale, sia con una più particolare, ai gradi del suono, includendo il sistema della gamma, e ad alcune dissonanze ammesse
in musica. Questo insieme, che rappresenta la parte maggiore del trattato, è definibile come “l’esplicazione di tutte le proprietà del suono”8.
Ancora una volta si può volgere lo sguardo “all’opera di contrapposizione” di Zarlino, in particolare al primo trattato della forma, vale a dire delle proposizioni musicali, e al secondo della materia, dunque delle consonanze. Simile alla terza parte è invece la questione del ritmo e delle osservazioni più pratiche. Medesimamente si può affermare un parallelismo nelle parti conclusive: mentre il penultimo capitolo espone le regole di composizione, l’ultimo evoca il problema dei modi. Nello specifico, le norme si articolano in due serie, riguardanti le regole minime per comporre “senza gravi errori, né solecismi”9 e per ottenere “un’eleganza e un equilibrio maggiori”10. Queste parti risultano poco approfondite, probabilmente perché temi già conosciuti da Beeckman, il quale lesse il Δωδεκαχορδον11 di Glareano12, pubblicato nel 1547. In questo è tracciata la storia della musica, partendo da Boezio13, filosofo e senatore romano, e ponendo l’attenzione sul modo musicale dal gregoriano alla polifonia. Le innovazioni più importanti che l’opera porta con sé sono la definizione del sistema musicale, non più basato su otto toni, bensì su dodici, e l’introduzione di quelli maggiore e minore.
È evidente come il Compendium sia innovativo rispetto al passato, infatti differenzia molto rispetto ai trattati antichi. Ne è un esempio il fatto che la dicotomia musica speculativa e musica practica assume una significazione ben differente. Infatti la teoria non è concepita come avente unicamente finalità artistiche, volta a determinare quelle affectiones del suono, produttrici di varie affectus. Tuttavia, se da una parte Cartesio ritorna a più riprese sul rapporto proprietà-passioni, comparando il ritmo alla “Passione dell’Anima”, dall’altra parte sembra voler rinunciare al troppo oneroso problema delle consonanze, concludendo: “Un volume entier ne suffrait pas à épuiser la question”14. Ora, l’unica melodia reputata in grado di su-
scitare emozioni risulta essere la musica instrumentalis. Cartesio in effetti pensa alla musica come un’arte, il cui compito è produrre e generare effetti sull’anima, attraverso la mediazione dei sensi e non come se fosse determinato da un presunto ordine cosmico o da un gioco formale. Inoltre, prosegue, sono le proprietà uditive a determinare l’insieme delle proprietà del suono, sfruttabili dal musicista. Ne consegue che non siano determinabili per il piacere del suono solo quelle affectiones misurabili; se così fosse, l’esempio mitico della simpatia, abilmente introdotto già dalle prime pagine, attesterebbe come i “poteri della musica” rimangano qualcosa di impensabile, tanto che nulla spiega il perché del fatto che la voce dell’amico sia percepita come più piacevole di quella del nemico. Il ritmo, la consonanza, la dissonanza e l’intensità15
Cartesio – singolarmente – tratta prima del ritmo che dell’armonia e ciò esprime come le affezioni del tempo siano considerate come elemento più indispensabile per l’emozione, generata dalla musica, che per la consonanza. Infatti, “le temps a une si grande force dans la musique qu’il peut à lui seul apporter quelque plaisir”16. Il tutto è simboleggiato dal suono vigoroso del tamburo, che dimostra come vi possano essere melodie senza variazioni di altezze, ma non ne esistano senza variazione del tempo. Così Descartes stabilisce una connessione salda tra un ritmo rapido e una passione altrettanto “rapida”, come la gioia, e all’opposto a un ritmo più lento corrisponderebbe una passione più lenta.
È oltremodo interessante notare un’ulteriore originalità in queste teorie. Infatti è topico – nel senso greco del termine, da τ’ ος, costante – che gli autori, quali Zarlino, diano sostegno alle loro opinioni attraverso la prosodia, dottrina antica-classica che riguarda la ritmicità poetica. Nello specifico lo sguardo è volto alla lingua latina e al verso misurato. Dunque è noto come in Francia tutti i ten-
tativi di costruire un ritmo musicale ruotino attorno alla teoria del verso misurato. Dal canto suo invece, Cartesio non si rifà mai all’arte poetica nel Compendium, eccezion fatta al repentino ricordo del fatto che i poeti e i musicisti si orientino verso lo stesso obiettivo.
Ora, la ritmicità si esprime appieno attraverso la danza e, più in generale, il movimento del corpo, nonché con l’intreccio di memoria e immaginazione, che trova sbocco nell’opera, unità composta da una molteplicità di parti uguali.
Molti musicisti ravvedono poi nelle teorie cartesiane i principi della prefigurazione dei periodi di misura, descritti da Riepel17. Questi fu un compositore e violinista del XVIII secolo ed è noto soprattutto per le teorie innovative della melodia e della forma. Tuttavia il passaggio è da interpretare come definito da un modello percettivo e non attraverso il principio di costruzione della frase. In realtà le interpretazioni non si escludono a vicenda, tanto che dal modello percettivo si deduce il principio di composizione.
L’essenza del Compendium Musicae è data dalla teoria della consonanza, la quale implica la distinzione di tre elementi. Ciò conferisce ancora una volta originalità rispetto agli autori precedenti. La riflessione attorno al fenomeno acustico, che produce suono gradevole, capovolge parzialmente l’ordine di perfezione dei rapporti armonici. Infatti la quarta consonanza, reputata dagli antichi come quella perfetta, è soppiantata dal ditono, vale a dire dall’intervallo tra due toni, o dalla terza maggiore.
Tradizionalmente, il metodo, usato per stabilire e fissare il valore degli intervalli musicali, consiste nel dividere le corde sonore in parti; così, analizzando l’altezza relativa ai suoni, si giunge a determinare anche il rapporto delle lunghezze dei segmenti. Per i suoi studi, Cartesio non esclude totalmente le teorie a lui precedenti, tuttavia rifiuta di porre come base l’intuizione beeckmaniana circa la proporzionalità delle vibrazioni. Quindi definisce le teorie della consonanza di Beeckman, al cui centro emergono le analisi attorno
alle cause e ai rapporti tra opposti, come “ipotesi accessorie”, pur tuttavia attingendo a queste per la stesura del “Trattato sull’Uomo”. Inoltre espone un assioma, secondo cui “il suono sta al suono, come la corda sta alla corda”. Non si tratta di un’invenzione dell’autore, poiché infatti risulta essere un principio cardine anche per altri intellettuali, quali ad esempio il già citato Zarlino. Addirittura, quest’ultimo sostiene che non sia possibile determinare alcunché in musica, se si esclude l’utilizzo di tale postulato, il quale però, analizzato nello specifico, risulta non del tutto accettabile: non viene che caratterizzato un caso particolare, cioè quello in cui le due corde comparate sono uguali per tutti i rapporti, fuorché nella durata. Il fatto che la musica, in questo modo, appaia come una disciplina del tutto matematica e matematizzante, è aggravato anche dall’analisi che privilegia solo le quantità immediatamente misurabili, escludendo dunque le qualità del suono. Segue una domanda spontanea: perché Cartesio fa uso dell’esperienza fisica? Perché associa i dati fisico-matematici ai criteri psico-fisiologici? È da considerare che l’assioma ripreso dal Filosofo non sia assunto in modo pienamente zarliniano: in effetti, ne approva semplicemente l’intuizione quanto al suono acuto, limitato da quello grave. Quest’ultimo risulta allora fondamento musicale, in quanto tale proprietà è sostenuta dall’analisi della risonanza, coniugando in ultima istanza matematica, fisica ed estetica. È interessante notare come lo studio dei rapporti delle vibrazioni avrebbe condotto in una direzione opposta: il grave contenuto nell’acuto.
La divisione delle corde conduce l’autore moderno a descrivere una tabella delle consonanze pressoché identica a quella di Zarlino, tuttavia il metodo è assai differente. Precisamente, inizia, dividendo la corda, presa come unità, in due parti uguali, poi in tre e così procedendo fino alla sesta. Sia gli intellettuali del XVI secolo, sia Cartesio interrompono la divisione alla corda sei, ma mentre i primi spiegavano ciò, alludendo a una qualche proprietà magica e misteriosa, il secondo dichiara:
perché, a causa della debolezza, l’orecchio non potrà distinguere senza sforzi le più grandi differenze del suono18.
Da questo punto dunque emergono in primo luogo gli intervalli più armoniosi, come l’ottava e la quinta, dopodiché l’applicazione della proporzione aritmetica genera consonanze imperfette, quali la terza e la sesta. Si può facilmente comprendere la preoccupazione di Descartes di giustificare i risultati di un tale calcolo astratto, ma risulta essere l’esperienza la conferma più attendibile, relativamente alla quarta, alla terza e al primato dell’ottava.
Dal punto di vista psico-fisiologico, l’anima pretende la varietà. È a partire da questa esigenza che emerge un’altra obiezione contro la quarta: se la consonanza più melodiosa è la quinta, in particolar modo la sua seconda specie (la dodicesima), le altre armonie non sono che varietà della quinta. Soprattutto la quarta non è che “l’ombra” di quest’ultima, poiché rappresenta nello stesso tempo sia la mancanza di questa, sia la sua presenza soggiacente. In breve, “elle ne sert donc à peu près à rien”19.
Dunque, si può ammettere che Descartes sia stato dapprima zarliniano, ma poi si sia convertito al meccanicismo, per opera dell’influenza del suo dedicatario20. Inoltre è chiaramente visibile come l’originalità del metodo cartesiano appaia soprattutto nelle teorie della consonanza, la quale è misura degli intervalli, delle intensità e delle dissonanze. Infatti, l’intensità è concepita unicamente come transizione assai più complessa nelle armonie. Mentre la presenza della dissonanza è descritta come un male necessario, derivante dall’intreccio delle linee canore. Di fatto, qualsiasi non-armonia inevitabile è tollerabile, poiché fa risaltare a sua volta l’armonia.
Le fonti manoscritte
Come già descritto sopra, il Compendium è composto alla fine del 1618 ed è consegnato a Beeckman, dedicatario del medesimo, il primo gennaio dell’anno seguente. Tuttavia non si dispone di alcun documento ufficiale, relativo alla presentazione fisica dell’opera e tutto ciò che è noto, è dato da testimonianze più tardive. Oltremodo centrale è, da una parte, il contenuto dell’opera di A. Baillet, intitolata “Vie de Monsieur Descartes” e pubblicata nel 1691, dall’altra le testimonianze dirette e indirette, nonché le numerose informazioni, grazie alle quali si può ricostruire l’itinerario del manoscritto. Adrien Baillet fu teologo, letterato e soprattutto biografo di Cartesio21. In virtù di quanto sostenne, sembrerebbe che dopo qualche anno dall’incontro a Breda, Beeckman avrebbe voluto essere riconosciuto come autore del trattato. Ciò è avvalorato inoltre dalla lettera inviata da Descartes a Mersenne il 18 dicembre 1629, in cui dichiara di aver ritirato dopo solo un mese la copia originale del piccolo trattato22 e che l’opera rimase nelle mani del destinatario per undici anni23. A favore dell’editore del Journal si può citare la lettera che –a sua volta –destinò al medesimo Mersenne il primo ottobre dello stesso anno, in cui si evidenzia come non faccia mai riferimento al Compendium, senza “ajouter le nom de son ami”24. Quindi nel 1691 ne divulgò il brano finale, di cui citò esattamente i passi autografi.
Il manoscritto originale è però andato perduto, a causa di numerosi passaggi in mani di intellettuali differenti. È documentato che nel febbraio 1650, appena tre giorni prima dalla morte dell’autore, si trovasse a Stoccolma, per poi giungere all’amico ed editore Clerselier25, fino a Poisson26, ma la data dell’ultimo trasferimento risulta ignota. Circa Poisson si sa specialmente che volle scrivere una nuova versione in latino, decisione intrapresa attorno al 1664, tut-
tavia è evidente che fosse stato in possesso dell’opera già alcuni anni prima. In più nello stesso periodo pubblicò per la prima volta in francese il “Traité de la Mécanique” e redasse le “Remarques…” cartesiane, disponendo delle “Regulae” in forma manoscritta.
Di questo prezioso documento non si saprà più alcunché, se non che, dopo la morte dell’abate Legrand, a cui Clerselier lasciò l’onere della pubblicazione, passò nella biblioteca di Marmion, professore di filosofia presso il collegio di Grassins, fino al suo decesso, sopraggiunto nel 1705. Così ritornò alla madre dell’abate.
Infine a questo dubbio si legano altre due questioni: dimensione esatta del manoscritto, che non combacia con il testo finale, e livello di deterioramento del documento, allorché fu analizzano da Poisson27.
È interessante mettere ora a confronto alcune copie manoscritte a cui fa riferimento la grande edizione di Adam-Tannery, assolutamente centrale in questo studio. Infatti Frédéric de Buzon28, autore della nuova edizione dell’Abrégédemusique, delle sue introduzione, traduzione e note, volge lo sguardo a una copia di Adam, conservata alla British Library di Londra, e ai commenti dell’edizione originale di Utrecht, risalente al 165029. Più precisamente si procede nell’analizzare la copia di Middelburg30, di Leida31 e di Groninga32.
La prima (Ms. M) è stata trascritta con uno stile, che si può correttamente definire come gotico. Il matematico tedesco C. de Waard33 sostiene che sia corretto datarla verso il 1627, considerazione verosimile, sapendo che la rilegatura fu fatta l’anno seguente.
Dopotutto la scrittura è comprensibile e contiene poche abbreviazioni, le figure sono confuse, ma sovente esatte. Oggigiorno il manoscritto è conservato alla biblioteca provinciale di Middelburg34.
La seconda invece (Ms. L) era conservata nella biblioteca personale di C. Huygens35, uno dei massimi esponenti durante la rivoluzione scientifica, astronomo, fisico e matematico. Nella prima pagina di copertina appare una data: “mart. 1635”, ma non è chiaro se in-
dichi il periodo della confezione o dell’acquisizione del manoscritto. È probabile però che la copia sia stata consegnata a Huygens nel 1637. Questa appare come un quaderno cucito di poco più di venti fogli, numerati solamente a destra. Anche in questo caso la scrittura è gotica e presenta rare abbreviazioni, non sistematiche, quali: il suffisso -que spesso leggibile come qz, oppure atque abbreviato in atq. Ed emerge una sola lacuna, colmata con una congettura, che sembrerebbe posteriore alla confezione del manoscritto stesso36. Infine la terza fa parte di un quaderno di note, appartenente a Frans van Schooten Jr.37, anch’egli matematico del Seicento. In realtà lo storico della scienza Bierens de Haan38 aveva datato la copia attorno alla fine degli anni settanta dell’Ottocento, commettendo un errore: aveva confuso il padre, omonimo, con il figlio copista. In questa, sono rilegate solo le prime pagine, mentre alcune rinviano alla “Gèométrie” e alle “Météores” del 1637 – che, ammette Schooten, ha studiato alla biblioteca di La Flèche –, testimoniando allora che la copia è posteriore. È documentato che l’autore si trovasse in Francia nella prima metà del secolo e pertanto C. de Waard proporrà come data della copia, senza ulteriori giustificazioni, il 1640. Inoltre qui non si legge né il nome dell’autore, né quello del destinatario. Tuttavia è in tale studio che si osservano gli interventi qualitativamente più significativi: infatti tenta di colmare ogni lacuna e di alleggerire le difficoltà39.
Un’analisi più sistematica è da riservare al manoscritto di Londra (Ms. B), anteriore all’editio princeps, conservato nel dipartimento di Manoscritti della British Library. Questa copia in realtà si trovava all’interno di un libretto separato, poi unito solo nel XIX secolo in un insieme di documenti musicali in possesso di John Birchensha40, teorico reputato ciarlatano dallo storico inglese della musica Burney41. Questa copia presenta però molte parti oscure, complice probabilmente il fatto che i fogli siano stati assemblati in un unicuum organico solo diversi anni dopo; ciò fa inoltre presu-
mere che alcune parti siano andate perse. In più non si conosce la data precisa, né il suo redattore. Interessante è la nota alla fine del testo, scritta con inchiostro rosso dalla stessa mano, in cui si legge: N.B. Hic libellus fuit, paulo post hanc exscriptionem, typis impressus / praepositio hoc titulo, Renati Des cartes Musicae Com pendium / Trajecti ad Rhenum, Typis Gisberti à Zijl et Theodori ad Ackers- / dijk42; Anno 1650. in Quarto43
Grazie a questa nota, si è giunti a datare la copia attorno al 16491650, risultando perciò la più recente tra quelle prese in considerazione. Inoltre è l’unica in cui compare esplicitamente il nome di “Renati Des cartes”, accompagnato dal titolo di autore dell’opera. Ne consegue allora che, se da una parte Schooten avesse reale conoscenza di chi fosse Cartesio e dei suoi scritti, dall’altra non si può concludere con certezza sia così anche per l’ignoto copista londinese.
La presa in considerazione di questa permette poi di ragionare più correttamente in relazione ai problemi che riguardano due copie a stampa dell’edizione originale. Infatti esistono (forse) due esemplari, che presentano identiche notazioni a margine. Questi sono conservati rispettivamente nella British Library di Londra e nella Bibliothèque royale, Riserve preziose, di Bruxelles. Pur non avendo alcuna indicazione precisa circa l’origine dei volumi, tuttavia, comparandoli, si può osservare che è stata data la priorità delle correzioni al primo dei due. Ammette Buzon:
Ainsi, les notes de l’exemplaire londonien doivent-elles avoir été recopiées par celui qui corrigea l’exemplaire de Bruxelles44.
Le correzioni non sono alquanto numerose e sono effettuate tutte alla medesima maniera: la parola scritta di primo impatto viene cancellata, qualunque fosse stata, poi riscritta sul margine o sulla linea. È certo infine che siano state compiute dalla stessa mano che ha anche scritto l’intera opera.
Così ora risulterà semplice definire una cronologia: in primo luogo è stato composto il manoscritto, poi la copia londinese e infine quella di Bruxelles.
Come già anticipato, un altro importante riferimento per poter approcciarsi allo studio del Compendio è dato dal manoscritto a stampa di Utrecht. In un passaggio dell’editore all’avviso alla lettura si informa, seppur sommariamente, sulle condizioni materiali della trasmissione, evidenziando:
Scripsit (sc. Descartes) hoc dum Bredae in Brabantia ageret, ejusque exemplar, à discipulo nitide descriptum, cum ad nos pervenisset…45.
In questo modo emergono due interrogativi: non solo chi sia tale discipulo, ma anche come si sia procurato una copia dell’opera. Sotto la penna di Baillet, il discepolo diviene un “nemico”, che pubblica post mortem il trattato, per “vendicarsi” di Cartesio. Ma né il biografo, né i posteri identificheranno mai tale avversario. Si può allora supporre che l’edizione del 1650 sia un “colpo” rapidamente concluso e quasi sicuramente realizzato senza il riferimento all’originale, che a quel tempo si trovava a Stoccolma.
Per concludere, è bene menzionare anche dell’esistenza di altri manoscritti, non tenuti però in considerazione da Buzon. Tra questi ve n’è uno46 conservato al Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna, anticamente conosciuto come Liceo Musicale, un secondo proveniente dalla collezione personale di Etienne Loulié47 e un ultimo appartenente alla prima raccolta di Sébastien de Brossard48.
Le fonti a stampa
Una prima edizione (edizione U) a stampa del Compendium è pubblicata nel 1650 a Utrecht, presso Gisbertus à Zijll e Theodorus ab Ackersdijk. Rispetto ai manoscritti, questa presenta alcune dif-
ferenze significative, vale a dire: eliminazione delle due ultime linee del testo, in cui si fa menzione tanto della data, quanto del luogo di redazione; aggiunta di un’avvertenza da parte dell’editore, dedicata al lettore; infine, una seconda aggiunta, ma minore, di tabelle numeriche nei capitoli relativi alle dissonanze. È probabile che nello spirito dell’editore l’avvertimento iniziale avesse lo scopo di rimpiazzare la parte finale del testo manoscritto. Tuttavia non si hanno dati precisi delle condizioni né di redazione, né dell’edizione. Il “Répertoire international des sources musicales”49 conta circa sessanta esemplari di copie nelle collezioni pubbliche di tutto il mondo, ma è verosimile ve ne siano molte di più, se si considerano anche quelle private. Per il suo lavoro, Buzon – dichiara – consulterà una trentina di esemplari, alloccati in Germania50, Belgio51, Francia52, Gran Bretagna53, Paesi Bassi54, Svezia55, Svizzera56 e Italia57.
Talvolta la copia si trova raccolta con altre opere di contenuto vario, altre volte con testi cartesiani; spesso però è relegata a parte, la qual cosa non deve risultare fuori dall’ordinario, infatti sembrerebbe che l’autore avesse il desiderio di pubblicare altro materiale presso gli editori Zijll e Ackersdijk, come si legge nell’avvertenza stessa. Comunque tale volontà non sarà soddisfatta, poiché pare che questi interrompano la loro attività sul finire degli anni sessanta del Seicento, senza più pubblicare, dopo questa data, alcun testo di Descartes.
La fonte a stampa non ha subìto che leggere modifiche durante il corso del suo sviluppo e in realtà tali errori tipografici sono visibili in ogni copia consultata. Si potrebbe dunque obiettare circa la qualità di tale editio princeps, come d’altronde faranno Baillet e più tardi Lipstorp, criticando il modo in cui gli esemplari sono stati ritrovati. Addirittura sosterranno che sia difettosa o quantomeno non curata, risparmiando alla correzione davvero pochissime pagine. All’opposto però molti intellettuali rispondono a ciò, facendo notare quanto la pubblicazione dell’opera sia stata un’operazione frettolosa,
a causa della morte prematura del Filosofo, nonché del divieto imposto a Beeckman di diffonderla lui stesso58.
Ora, è necessario volgere lo sguardo anche verso altre fonti, più precisamente quelle del 1656 dell’editore Janssonius59 (A1), seguito nel 1683 da Blaeu 60 (A2), per l’edizione di Amsterdam, nonché quella del 1695 prodotta da Knoch a Francoforte (F). Tutte riproducono fedelmente la stampa di Utrecht, ma è interessante notare come sia riproposta senza cambiamenti l’avvertenza al lettore, ancora così attuale, nonostante fosse stata pensata circa quarantacinque anni prima. Si possono poi osservare alcune varianti, che tuttavia non si presentano tanto come mutamenti, piuttosto come rielaborazioni in favore di una comprensione alternativa. Infatti nella prima delle tre vi sono alcune correzioni, che non appaiono invece nella seconda, le varianti della quale infine si ripropongono nell’ultima61.
Le traduzioni antiche
Esistono nondimeno traduzioni precedenti, a testimonianza di come il pubblico fosse interessato all’opera, nonostante non conoscesse la lingua scientifica ufficiale, vale a dire il latino. Vi sono in particolare tre versioni: in inglese, in fiammingo e in francese62.
La stesura in lingua inglese è pubblicata a Londra da Thomas Harper per Humphrey Moseley63, sottoforma di un piccolo volume, intitolato “Renatus DES-CARTES Excellent Compendium of Musick: With Necessary and Judicious Animadversions thereupon, by a Person of Honour”. Fino a pochi anni fa si attribuiva la traduzione, senza alcuna esitazione, a Lord W. Brouncker64, presidente dalla Royal Society of London. Ma in realtà, compiendo uno studio più accurato circa le traduzioni inglesi di Cartesio, si giunge a porre in dubbio la tradizionale certezza. A tal proposito Pacchi osserva che nella “Transcript of the Register of the Workshipful Company
of Stationers; from 1640-1708” si sottolinea “inglese da Dr. Charleton”65. È da notare però una sfumatura interessante.
Pacchi non denuncia un’attribuzione erronea della traduzione a Brouncker, bensì si tratta di un problema assai complesso, che necessita di un’analisi approfondita.
Il documento più antico ritrovato in merito è il catalogo di vendita dei libri di Constantijn Huygens, diretto a La Haye l’8 marzo 1688. Qui emerge: “Brouncker upon Descartes, Musick, Lond. 1653”. Sorgono allora numerose problematiche, infatti da un lato upon significa sia “su”, che “a proposito di”, dall’altro la qualità di “Persona d’Onore”66 è evocata solamente come titolo da conferire all’autore dell’ Animadversions, trascurando quindi il traduttore. Tuttavia nella prefazione vengono distinte le due personalità: il commentatore e il traduttore, appunto. Buzon scrive: si tratta delle osservazioni importanti, ma coincise, di un autore profondo, che espone la sua scoperta di una nuova ipotesi dimostrativamentesufficienteperspiegaresufficientementeefacilmente tutti i fenomeni musicali67.
In questo modo risulterà facile notare come i biografi antichi abbiano errato nell’unire le figure di colui che commenta e di colui che traduce; infatti spicca chiaramente come il presidente della Royal Society esponga in qualità di chiosatore le sue teorie, mentre Charleton sia da considerare a tutti gli effetti il traduttore. Non è però da escludere qualche tipo di collaborazione stretta nei due ruoli. Infine Pacchi fa emergere come abbiano giustapposto sistematicamente l’interpretazione numerica a fianco dei segmenti, sfruttati da Cartesio con fine di dimostrazione. Quindi risulta evidente sia per il contenuto della prefazione, sia per il basso numero di correzioni, che l’editore non avesse a disposizione alcun’altra fonte, che non fosse l’editio princeps, di cui tenta di correggere gli errori reali o supposti dalla critica interna. In conclusione, si deve ammettere che questa copia del 1653 non apporta elementi originali68.
La traduzione in fiammingo è a opera di J. H. Glazemaker, il quale però non disponeva di alcuna fonte, se non della stampa degli anni cinquanta. Infatti non beneficiava della versione di sei anni dopo, pubblicata ad Amsterdam dell’editore Janssonius. Questa allora, pubblicata da Jan Rieuwertsz69, è fissabile cronologicamente verso il 166170.
La traduzione più rilevante per lo studio del Compendio è senza dubbio quella francese. Ne è l’autore Poisson, già incontrato, allorché sono stati analizzati i manoscritti cartesiani. Questi elabora però una versione piuttosto libera, di cui si potrebbe obiettare la qualità e la fedeltà all’originale. Tuttavia non lo si può accusare di incompetenza, infatti è noto che volesse commentare l’insieme delle opere di Descartes, impresa di cui non rimane che qualche frammento, come ad esempio il “Commentaire au Remarques sur la Methode de René Descartes”, pubblicato a Vendôm nel 1770, preceduto due anni prima dal “Discours de la Méthode, plus la Dioptrique. Les Météores, la Mécanique et la Musique, qui sont des essais de cette méthode”, questa volta reso pubblico da Ch. Angot a Parigi. Nello specifico, il fascicolo della traduzione del Compendium si costituisce di cinque parti:
1. l’epistola dedicatoria a Monsieur l’Abbé de Roucy de Sainte Preuve (da pagina 3 a pagina 6);
2. la traduzione propriamente detta: Abbrege de la Musique composé en Latin par René Descartes (da p. 53 a p. 98);
3. un avviso volto a spiegare il motivo per cui le “Elucidationes” restano in latino: “il mio primo progetto consisteva nel lasciare il “Trattato della Musica” in lingua latina, con la quale è stato composto,iohoscrittonellamialinguaqualchechiarimento,chelodeve accompagnare. Ma, poiché sono stato invitato più di una volta a tradurlo, non ho potuto risolvermi, in mancanza di tempo libero, anche nel fare la stessa cosa per quelli […]”71 (p. 99);
4. le “Elucidationes Physicae in Cartesii Musicam” (da p. 101 a p. 127);
5. una lista di errori da correggere (p. 128).
Innanzitutto può sorprendere che venga dato un commento in latino a una versione in francese, ma - come preciserà l’Avis – ciò risponde al fatto che le Elucidationes avrebbero dovuto accompagnare l’edizione latina del testo. In più non erano più disponibili le edizioni olandesi, come denota l’Epître dédicatoire. Poisson presenta il suo prodotto nel modo seguente:
Le Traité de Musique est encore en estat de meriter cette approbationd’autantquejen’aypaseuleloisird’ytoucherquepourcorriger les fautes des impressions precedentes, en retrancher ce que l’Original m’enseignoit y estre inutil & superflu, & en faire la Traduction72
Diviene quindi palese che il suo intento sia di redigere una traduzione critica, che si fonda sul testo latino stesso, risultante dal confronto tra il manoscritto originale e una delle edizioni a stampa. Tutto ciò è palesato al lettore francese, a cui sembra contrapporsi invece l’esperto della lingua classica, nei confronti del quale l’autore scrive:
Monitum dumtaxtat lectorem velim, in hac editione castiganda nonnihil insudatum; Cartesianum enim exemplar M.S. informe adeo erat, ut non nisi oculatioribus serie sulla videretur; in quo, quantùm meritus fuerit nulli non notus Clarissimus noster Clerselierus in edendis Cartesij postumis operibus, vix poterit fingere qui non expertus est. Iuxta hoc M.S. traductionis opus direximus, in quo si quis error irrepserit bonâ veniâ concedatur, ut pote qui nolim de ¶ναµαρτησίαgloriari,quamnecocultatioressibipossunt vindicare73.
In breve, con questa dichiarazione Poisson insiste su quanto il lavoro sia stato faticoso, giustificando allora in un certo qual modo eventuali errori74.
L’edizione di Adam-Tannery
Si tratta della più importante edizione critica dell’opera cartesiana e risulta essere uno degli strumenti di lavoro indispensabili per la ricchezza delle informazioni. Attraverso le Avvertenze, si può comprendere la linea cronologica lungo la quale si articola l’elaborazione dell’edizione stessa, iniziata a partire dal 1894, allorché Adam entrò in contatto con gli esemplari latini a stampa, conservati nella biblioteca nazionale di Parigi. Ben presto inoltre si impegnò nello studio della traduzione poissoniana, del manoscritto di Leyde e delle testimonianze di Baillet. Qualche anno dopo C. de Waard non solo gli segnalò l’esistenza del Journal di Beeckman, ma si dimostrò parte determinante nel completare l’edizione, riproducendo le immagini e la copia integrale del testo. Riassumendo, per il suo esemplare, Adam gettò lo sguardo sulla stampa latina con le varianti tratte dal manoscritto di Leyde o dedotte dalla traduzione di Poisson, a cui si aggiunsero gli insegnamenti, raccolti tardivamente, della copia di Middelburg.
Si può concludere con certezza che il lavoro venne archiviato nel dicembre 1905, data dell’avvertimento.
Non è invece chiaro da dove l’autore estrasse le figure che riproduce. Tuttavia dichiara che quelle di Poisson sono senza dubbio le più conformi a quelle presenti nel testo di Cartesio, nonché appaiono come le più accurate tra le immagini riportate nei documenti da lui consultati. In realtà, Adam ravvede anche dei limiti: innanzitutto gli intervalli delle linee non sono perfettamente rispettati, tanto che l’edizione latina presenta disegni più precisi. Inoltre, da un lato non si ha una similitudine grafica tra le due tipologie di figure – quelle cioè che compaiono nell’edizione di Poisson e in quella di Adam-Tannery, mentre dall’altro le une sono in francese, le altre in latino.
La traduzione del testo
Sebbene – come è emerso – sia oneroso distinguere e datare con precisione ogni fonte a nostra disposizione, che costituisce il corpus delle copie del Compendium, tuttavia si può concludere che esse siano indipendenti le une dalle altre, come ad esempio dimostrano le differenti lacune presenti in ciascuna. Ma inoltre molti ancora sono i dubbi. È interessante osservare che, se si leggesse l’espressione discipulus, che esprime i frequenti contatti con Cartesio, facilmente si potrebbe pensare che tale fonte sia diretta; in realtà Schooten, che trascrive tale parola, non ebbe mai accesso all’originale.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE E RIASSUNTIVE
Il tema della musica è spesso ritenuto secondario, se confrontato con altri, definiti più propriamente “filosofici”. Soprattutto in Cartesio, padre del pensiero – e in generale – della filosofia moderna, l’ambito della teoria musicale è a tutti gli effetti considerato marginale, relativo. In realtà questo sarà trattato in più opere, come ad esempio nelle Regulae ad directionem ingenii (1671), nel Le Monde ou traité de la Lumière (1630-1632), nelle lettere di corrispondenza a Mersenne (anni ‘30 del ‘600), o ancora nelle Principia philosophiae (1644, in particolare nella quarta parte). Tuttavia il primo tentativo di dare dignità filosofica alla musica, da parte di Descartes, si ha con il Compendium Musicae, concluso nel 1618, “il giorno prima dei calendari di gennaio”75. Quest’ultimo non è propriamente definibile come “opera cartesiana”, in quanto il pensiero è eccessivamente immaturo, in più tale termine era solitamente impiegato per quei testi destinati agli studenti. All’opposto invece, Cartesio desiderava ardentemente che rimanesse all’ombra dei tuoi [di Beeckman] archivi o della Biblioteca, [che] non sia esposto al giudizio degli altri. Questi non saranno come te
e non distoglieranno i loro occhi benevoli dalle parti difettose per concentrarsi su quelle in cui non nego di aver espresso alcune caratteristiche della mia mente; né saprebbero che questo lavoro è stato composto solo per te, da un uomo desideroso e libero, nel mezzo dell’ignoranza militare, e per qualcuno che agisce e pensa in modo abbastanza diverso76
Idealmente si può suddividere il compendio in due parti: la prima che va dall’inizio fino al capitolo intitolato “Delle dissonanze” (XI cap.), e la seconda che invece comprende le due parti finali, “Del modo di comporre e della modalità” (XII cap.) e “Dei modi” (XIII cap.). Rispettivamente Descartes tratta della teoria e poi della pratica musicale, senza uscire dai limiti di una forma abbreviata e riconoscendo che molti temi devono essere studiati dai fisici più esperti. In più, si osserva chiaramente il grande genio cartesiano: infatti sono virtuosamente intrecciate l’influenza di Aristotele77, gli echi del Rinascimento78 e la moderna attitudine alla chiarezza e all’ordine empirico, continuamente alimentata dai contatti con Beeckman, destinatario dello stesso.
La stesura del Compendium Musice avviene in un ambiente ostile, caratterizzato dall’ignorantia militaris, simboleggiato concretamente dal campo di battaglia di Breda nel Brabante, nominato nella parte conclusiva dell’opera. Infatti in quel periodo Descartes è arruolato come soldato, in verità durante una tregua, quindi non sarà mai impegnato in scontri cruenti. Tuttavia il contesto bellico, anche se non vissuto nelle sue estreme conseguenze, segnerà profondamente Cartesio tanto nella vita privata, quanto in quella intellettuale, e ciò è facilmente percepibile a partire dalle teorie della musica, che si confronteranno sempre con tematiche ed esperienze tipicamente militari.
Il Filosofo aveva solo ventidue anni quando iniziò tale progetto, ma vantava solida istruzione e capacità intellettuali, che evidentemente il periodo di guerre teneva incatenate. Centrale fu poi l’incon-
tro con il medico Beeckman nel 1618, che indirizzò gli interessi del giovane Cartesio verso le discipline matematiche, di cui la musica ne è la forma più antica e nobile. In particolare è bene notare che la matematica discussa da costoro non è mero oggetto intuitivo e scientifico, ma è l’elemento che darà fondamento a un tipo di conoscenza nuova e distinta dalla Metafisica passata. Più precisamente, l’autore tenta di modellare la musica con il suo oggetto, vale a dire il suono, in fenomeno matematico e poi anche fisico-materiale. Si può quindi concludere che la musica non è qui tecnica artistica e compositiva, ma piuttosto scienza del suono o, meglio, di ogni suono:
Quando scopre la musica nel corso dei suoi colloqui e dei suoi scambi con Isaac Beeckman, Descartes vi intravede delle straordinarie possibilità euristiche. La musica appare, anzi, quasi un pretesto: dietro ai suoni intonati e agli intervalli c’è lo spazio per cimentarsi con il ragionamento geometrico; dietro alla scansione ritmica, l’orizzonte del numero discreto79.
Inoltre emerge come non sia silenziosa, né possa individuare un equilibrio armonioso tra anima e mondo celeste – come invece sostenevano i metafisici e religiosi del passato –, bensì tutta per intero risuona nello spazio, provoca allegria o tristezza in relazione alla sua ritmicità, fa danzare e scuote anche gli animali80:
[…] anche le bestie possono ballare a tempo, se vengono addestrate e abituate, perché richiede solo un impulso naturale81.
L’indagine cartesiana parte dall’esperienza diretta, come se fosse un’autopsia della musica, nel senso greco e classico del termine, vale a dire αὐτός e ὄψις, “vedere con i propri occhi”. Inoltre l’importanza di ciò è avvalorata dall’impossibilità di assumere un razionalismo intellettuale e dogmatico, in virtù del suo stretto legame con la sensibilità e la spontaneità corporea. Ne segue che innumerevoli
siano le prove di osservazione e sperimentazione, a partire dalle quali Descartes giunge alla costruzione conclusiva delle sue teorie; in primo luogo emerge l’esperienza, ancora una volta, militare, sfruttata con il fine di definire gli “oggetti della musica”: il tympanum e lo strepitus scloporum (rispettivamente il tamburo e il baccano dei moschetti) sono dunque i suoni per eccellenza. Inoltre, il Filosofo si esercita sul liuto e sul flauto e nota con quest’ultimo che, soffiando più forte, si produce un suono più acuto, che, se non venisse controllato, risulterebbe fastidioso all’orecchio.
Il terreno fertile, che svolge la funzione di condurre verso giudizi giusti e retti in ambito musicale, è il principio tolemaico, secondo cui: il suono sta al suono, come la corda sta alla corda82. Lo studio del nervus, della corda, condotto empiricamente sul liuto, diviene così l’elemento base, da cui muoversi, poiché è ignota la natura del suono, mentre al contrario sono conosciute in questo modo le proporzionalità tra le corde. In particolare, il nervus del Compendium ha solo una dimensione: quella della lunghezza. Su tale segmento, privo di materialità, tensione e spessore, il Filosofo effettua divisioni consecutive e proporzionate, da cui ricava le consonanze, tipiche e note al suo tempo. Queste, ordinate dalla più perfetta alla meno perfetta (è da notare che lo stesso Cartesio, con grande rigore, tratta secondo tale gerarchia i capitoli del compendio, determinando l’ordine delle consonanze già da un primo sguardo), sono: l’ottava o diapason, la quinta, la quarta, la terza o ditono maggiore e minore, la sesta maggiore e minore. L’unisono non è considerato essere una consonanza, in quanto non vi è varietà. Inoltre, la proporzione è la causa determinante la ritmicità, poiché definisce il grado di piacere, in relazione alla percezione dei suoni da parte dei sensi. Piacevole potrebbe infatti essere anche quel ritmo che manca di elementi melodici, come è il caso della cadenza del tamburo; nello stesso modo, la velocità del ritmo rispecchia una certa “velocità” delle passioni, tanto che
PerquantoriguardalavarietàdipassionichelaMusicapuòesercitare [attraverso la varietà delle misure], dico che in generale una misura lenta eccita anche in noi passioni lente, come lo sono il languore, la tristezza, la paura, l’orgoglio, eccetera; e invece quella rapida provoca anche passioni rapide, come è la gioia, eccetera83.
Tuttavia, mentre da una parte il tempo dell’io è fluido e informe, dall’altra parte quello musicale deve essere scandito e ritmicamente ordinato, pena il fastidio dei sensi e il disgusto. Invece, il fine ultimo deve essere quello di provocare il piacere dei sensi. Affinché si possa movere affectus, è necessario che si intreccino duratio, vale a dire la differenza in rapporto a durata e tempo musicali, e intentio, cioè la disuguaglianza che riguarda invece la relazione tra i toni acuti e gravi. Una maggior ricchezza melodica –“[…] canzoni molto ornate e figurate, come dicono, […]”84 – richiede dunque una discreta semplicità ritmica, e viceversa. Tuttavia sarebbe errato giungere alla conclusione che ciò voglia significare che sia necessario comporre canti senza varietà, tanto che Descartes nota che: “[…] in ogni caso la varietà in tutte le cose è molto piacevole”85. Ora, la facoltà necessaria per la percezione ritmica è l’immaginazione, ma deve essere aiutata dalla battuta o dalla percussione, così da poter comprendere tutti i membri di una melodia. L’imaginatio svolge una duplice funzione: da un lato intende la durata come unità, dall’altra è in grado di anticipare spontaneamente l’ordine delle successive suddivisioni temporali, avendo fatto esperienza delle precedenti. In breve allora, scandisce e percepisce la scansione ritmicatemporale, ricordandola e tenendola in mente, grazie alla memoria esperienziale. In realtà però, la memoria ritmica agisce solamente con la proportio dupla, tipica delle melodie composte da 8, 16, 32 o 64, eccetera, parti86. In conclusione, si potrebbe identificare la comprensione come un’unificazione, secondo una linea iperbolica, di parti che si succedono:
Quindi,infatti,dopoaversentitoleprimedueparti,consideriamo quella grandezza come uno; dopo aver sentito la terza, la uniamo
alle prime, in modo che così ci sia una proporzione tripla; poi, quando sentiamo la quarta, la uniamo alla terza, così che siano concepite come uno; poi coniughiamo di nuovo i primi due agli ultimi due, così da concepire quelle quattro come una sola grandezza. E così la nostra immaginazione procede fino alla fine, in cui in conclusione concepisce l’intero canto come un’unità composta da più parti uguali87
La musica è quindi un terreno privilegiato per l’indagine gnoseologica: la conoscenza si svolge nel tempo, e il tempo (duratio) costituisce l’essenza stessa della musica in quanto fornisce la struttura su cui sono costruite le linee melodiche88.
Sfruttando poi il senso della vista, Cartesio dà conto dell’immediatezza della proporzionalità aritmetica, rispetto a quella geometrica, molto meno riconoscibile “a prima vista”: ancora una volta, le teorie trovano base solida a partire dall’esperienza.
È doveroso infine citare il contenuto del capitolo intitolato Praenotanda, in cui sono enumerati i principi basilari, che costituiscono le mattonelle, da cui è necessario iniziare, per erigere la teoria della musica. L’intento di Cartesio è offrire delle premesse, da cui dedurre logicamente delle conseguenze e su cui modella tutto il suo ragionamento e, di fatto, le pagine stesse del Compendium:
“1° Tutti i sensi sono capaci di ottenere qualche piacere.
2° Per [creare] tale piacere è necessaria una certa proporzione dell’oggetto con il senso stesso. Ne segue, ad esempio, che il baccano dei moschetti o dei tuoni non sembra conforme alla musica, perché ovviamente ferirebbe l’orecchio, come la troppa luce del sole farebbe soffrire gli occhi.
3° L’oggetto deve essere tale da cadere sotto il senso né troppo difficilmente né troppo confusamente […].
4° L’oggetto è percepito più facilmente dal senso, quando la differenza delle parti è inferiore.
5° Diciamo che le parti di un intero oggetto sono meno diverse tra loro, tra le quali la proporzione è maggiore.
6° Tale proporzione deve essere aritmetica e non geometrica […].
NOTE
1
7° Tra gli oggetti percepiti, quest’ultimo non è il più gradito all’anima, poiché, né è più facilmente percepito dal senso, ma nemmeno quello che lo è più difficilmente. Però quello non è così facile da percepire, affinché il desiderio naturale, che porta i sensi verso gli oggetti, non sia completamente colmato, né tanto difficile da indebolire il senso.
8° Infine, va notato che in ogni caso la varietà in tutte le cose è molto piacevole. […]”89.
Quest’ultimo riferito al capitolo VI della Présentation dell’Abrégé de Musique.
2 Breda è una città olandese che conta circa 174.544 abitanti. È situata nella provincia del Brabante Settentrionale. La città sembra non esistere almeno fino al 1125 e, dopo numerose battaglie e assedi, rifiorì dopo la pace di Vestfalia nel 1648, essendo stata assegnata ai principi della dinastia degli Orange.
3 Gioseffo Zarlino (Chioggia, 31 gennaio 1517 – Venezia, 4 febbraio 1590). Le sue tesi lo eleggono il più importante teorico di musica del Cinquecento, tanto che influenzò gli studiosi a lui contemporanei, ma anche posteriori. In particolare, il contributo principale è fornito alla sistemazione dell’armonia.
4 “Non si ha che l’essenziale”, citazione a pagina 17.
5 Questo termine è tuttora utilizzato nei documenti ufficiali della Santa Sede. I “Praenotanda” illustrano lo svolgimento e il significato dei Riti, sia sotto l’aspetto liturgico che pastorale. In altre parole, sono un insieme di premesse, volte a educare i fedeli alle cerimonie, nonché la descrizione di quest’ultime.
6 ARISTOTELE, Trattato sull’anima, trad., Paris, Tricot, 1977. (426 a 27-30).
7 Dal paragrafo “Les “Praenotanda”” a pagina 10.
8 “Explication de toutes les propriétés du son”, citazione a pagina 8.
9 “Sans grave erreur ni solécisme”, citazione a pagina 8.
10 “Une élégance et un équilibre plus grands”, citazione a pagina 8.
11 Dodekachordon, Basilea, assai diffusa e influente durante il Rinascimento.
12 Heinrich Loriti (anche conosciuto come Glareanus o Glareano) (Mollis, giugno 1488 – Friburgo in Brisgovia, 27 o 28 marzo 1563) fu umanista, poeta e teorico musicale svizzero, attivo anche come musicista, filologo, storico, matematico e geografo.
13 Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (Roma, 475/477 – Pavia, 524/526) fu filosofo, letterario latino e logico-matematico. È considerato fonte principale fino al XII sec. per la conoscenza di Platone e Aristotele, grazie ai suoi commenti e alle sue traduzioni.
14 “Un volume intero non è sufficiente per esaurire la questione”, citazione a pagina 9.
15 Queste ultime tre si riferiscono al capitolo V della Présentation dell’Abrégé de Musique.
16
“Il tempo ha una così grande forza nella musica, che può lui solo dare un qualche piacere”, citazione a pagina 12.
17 Joseph Riepel (Rainbach im Mühlkreis 22 gennaio 1709; Regensburg, 23 ottobre 1782).
18 “Parce que, du fait de sa faiblesse, l’oreille ne pourrait distinguer sans effort de plus grandes différencdes de sons”, citazione a pagina 15.
19
“Non serve quindi a nulla”, citazione a pagina 16.
20 Passaggio descritto da H. F. Cohen.
21
Adrien Baillet (La Neuville-en-Hez, 13 giugno 1649; Parigi, 21 gennaio 1706). Fu prete e bibliotecario. Una delle sue opere più importanti e significative è Vie de Descartes (1691).
22 “Retiré depuis un mois l’original du petit traité”, citazione a pagina 21.
23 “Resté onze ans entre les mains du Sr Beeckman”, citazione a pagina 21.
24
25
26
27
28
“Aggiungere il nome del suo amico”, citazione a pagina 21.
Claude Clerselier (Parigi, 1614 – Parigi, 1684). Fu amico di Descartes e pubblicò varie opere del Filosofo, tra cui Traité de l’homme (1664) e tre volumi di lettere (1657,1666, 1667).
P. Nicolas Poisson (1637-1710).
Riferimento al paragrafo Le manuscrit original.
Professore di filosofia, membro del Centro di ricerca in filosofia tedesca e contemporanea, nonché componente del laboratorio GREAM (Groupe de recherches expérimentales sur l’acte musical).
29 Riferimento al paragrafo Avant-propos.
30 Comune situato nella provincia della Zelanda, nei Paesi Bassi.
31 Situata nella provincia dell’Olanda meridionale, sorge sul Reno.
32 Posta a nord dell’Olanda, è il capoluogo dell’omonima provincia.
33 Cornelis de Waard (Bergen op Zoom, 19 Agosto 1879; Vlissingen, 6 Maggio 1963).
34 Riferimento al paragrafo La copie de Middelburg (Ms. M).
35 L’Aia, 14 aprile 1629 – L’Aia, 8 luglio 1695. È uno dei fondatori della meccanica e dell’ottica fisica. Il suo maestro fu Frans van Schooten, primo commentatore di Cartesio.
36 Riferimento al paragrafo La copie de Leyde (Ms. L).
37 Leiden, 1615; Leiden, 29 mei 1660. Fu uno dei primi commentatori di Descartes, in particolare tradusse in latino la Géométrie.
38 Amsterdam, 3 maggio 1822 – Leiden, 12 agosto 1895.
39 Riferimento al paragrafo La copie de Groningue (Ms. G).
40 1605–1681.
41 Condover, 1726; Londra 1814.
42 Costoro sono editori, in realtà poco conosciuti.
43 Citazione a pagina 27.
44 “Pertanto, le note della copia di Londra devono essere state copiate da chi ha corretto la copia di Bruxelles”. Citazione a pagina 28.
45 Citazione a pagina 30.
46 Risalente al XVIII secolo.
47 Etienne Loulié (Parigi, 1654 – Parigi, 16 luglio 1702). Fu musicista, pedagogo e teorico della musica, nonché sacerdote.
48 Sébastien de Brossard (Dompierre, 12 settembre 1655 – Meaux, 10 aprile 1730). Fu compositore, teorico musicale e musicologo.
49 Repertorio internazionale delle fonti musicali, pagina 32.
50 Cologna, Bibl. Univ. – Darmstadt, Landesb. – Hanovre, Landesb. – Heidelberg, Bibl. Univ. –Wolfenb ttel, H-A b.
51 Bruxelles, Bibl. Royale – Bruxelles, Bibl. Cons.
52 Niort, Bibl. Mun. – Parigi, Bibl. Mazarine – Parigi, Bibl. Nationale – ibid. –ibid. (fds Conserv.) –Strasburgo, BNU.
53 Londra, Birt. Libr. – ibid. – ibid. – Oxford, Bodleian Libr. – ibid. – ibid. – ibid.
54 Amsterdam, Bibl. Univ. – La Haye, Bibl. Royale – Leyde, Bibl. Univ.
55 Uppsala, Bibl. Univ.
56 Ginevra, Bibl. Publ. Et univ.
57 Padova, Bibl. Univ. – ibid. – Roma, Bibl. De l’Acad. Sta Cecilia.
58 Riferimento al capitolo Lédition de 1650 (édition U).
59 Johannes Jansonnius (Arnhem, 1588 – Amsterdam, 1664).
60 Willem Blaeu (1571 – Amsterdam, 1638). Fu cartografo, costruttore di strumenti scientifici, atlanti e globi.
61
Riferimento al capitolo Les éditions d’Amsterdam et de Francfort-sur-le-Main (éditions A1, A2, et F).
62 Riferimento al capitolo Les traductions anciennes.
63 È nota solo la data di decesso: 31 gennaio 1661.
64 Lord W. Brouncker (Castlelyons, Irlanda, 1620 – Oxford, 5 aprile 1684).
65 Traduzione da “englished by Dr. Charleton”, pagina 38.
66
Traduzione da “Person of Honour”, pagina 38.
67 Citazione a pagina 38.
68
Riferimento al capitolo La traduction anglaise.
69 Jan Rieuwertsz (1617; 22 dicembre 1687).
70 Riferimento al capitolo La traduction flamande.
71 Citazione da pagina 42: “Comme mon premier dessin était de laisser de Traité de Musique en Langue Latine, en laquelle il avoit été composé, I’avois écrit en mesme langue quelques éclaircissemens qui le devoient accompagner Mais ayant esté convié plus d’une fois à traduire celuy-là n’ay pû me résoudre, faute de loisir, à en faire autant de ceux-cy (…)”.
72 Citazione da pagina 42: “Il Trattato di Musica è ancora in grado di meritare questa approvazione, tanto più che io non vedo l’ora di prenderne contatto solo per correggere gli errori delle impressioni precedenti, tralasciare quello che l’Originale mi insegna essere inutile e superfluo e farne la traduzione.”
73 Citazione a pagina 43.
74 Riferimento al capitolo La traduction française.
75 “[…] pridie Calendas Ianuarias / Anno MDCXVIII completo”. Citazione a pagina 139.
76 “[…] ut perpetuoin scri- /niorum vel Musaeitui vmbraculis delitescens, aliorum / iudicia non perferat.Quisicuttefacturummihipol-/liceor,abhujustruncispartibusbenevolosoculos/non evertenrent ad illas, in quibus nonnulla certe / ingenij mei lineamenta ad vivum expressa non infi- / cior; nec scirent hic inter ignorantiam militarem ab / homine desidioso & libero, pentisque diversacogi-/tanti&agenti,tumultuosetuisoliusgratiaessecom-/positum”, citazione a pagina 139.
77 Di Aristotele, Cartesio ne cita il De Anima già alle prime battute di apertura del Compendium. Inoltre nella Politica (VIII) scrive che “la musica è un delizioso piacere, addolcisce le pene della vita”. Le filosofie antiche (prima pitagorica, poi platonica e neoplatonica) concepivano il fondamento musicale come basato su un ordire razionale, istituito da Dio, volto a unire e connettere il cosmo e i fenomeni naturali.
78 Tra i tanti riferimenti al Rinascimento, un esempio è la leggenda magica della pelle di pecora e di lupo, tese su tamburi: “la pelle di una pecora tesa su un tamburo ammutolisce, se è percossa mentre una pelle di lupo risuona su un altro tamburo”. In questo periodo storico, la musica è considerata una disciplina matematica propedeutica, facente parte del Quadrivium, per poi essere elevata, sul finire del Cinquecento, a un livello superiore, tanto da essere insegnata al secondo o terzo anno di filosofia, accanto ad altre materie come fisica e metafisica.
79 Citazione da L’harmonie des orgues. Suoni, corpi e sensazioni nel pensiero musicale di Descartes, dissertazione di S. Ghidoni, Dottorato di ricerca in filosofia, Università degli studi di Milano.
80 Emerge qui il tema della risonanza, analizzato ampiamente dagli autori cinquecenteschi e considerata come fosse una proprietà magica, spiegabile con il ricorso a principi occulti e inaccessibili da chiunque. Cartesio, dal canto suo, non prende totalmente le distanze da queste idee, almeno nel Compendium.
81 “Unde sequitur etiam feras / posse saltare ad numerum / si doceantur & assuescant / quia ad id naturali tantum impetu opus est”, citazione a pagina 63.
82
“Sonus se habet ad sonum, ut nervus ad nervum”, citazione a pagina 4.
83 “Quod autem attinet ad varios affectus, quos varia / mensura Musica potest excitare, generaliter dico, / tardiorem lentiores etiam in nobis motus excitare, / quales sunt languor, tristitia, metus,
84
superbia, &c.; / celeriorem vero, etiam celeriores affectus, qualis est / laetitia, &c.”, citazione a pagina 63.
“In cantilenis autem valde diminutis & figuratis, ut ajunt […]”, citazione a pagina 129.
85 “Denique notandum est varietatem omnibus in/ rebus esse graditissimam”.
86 Cfr. Del numero o del tempo da osservare nei suoni, citazione a pagina 59.
87
“Tunc / enim, dum duo prima membra audivimus, illa instar / unius concipimus; dum tertium membrum, adhuc / illud cum primis coniungimus, ita ut sit proportio tri. /pla; postea, dum audimusquartum,illudcumtertio/iungimus,itautinstaruniusconcipiamus;deindeduo/prima cum duobus ultimis iterum coniungimus, ita ut / instar unius illa quatuor concipiamus simul” ctazione a pagina 61.
88 Citazione da L’harmonie des orgues. Suoni, corpi e sensazioni nel pensiero musicale di Descartes, dissertazione di S. Ghidoni, Dottorato di ricerca in filosofia, Università degli studi di Milano.
89 “1° Sensus omnes aliquius delectationis sunt / capaces. / 2° Ad hanc delectationem requiritur proportio quae- /dam obiecti cum ipso sensu. Unde fit ut, v.g., strepi- /tus scloporum vel tonitruum non videatur aptus ad / Musicam: quia scilicet aures laederet, ut oculos solis / adversi nimius splendor. / 3° Tale obiectum esse debet, ut non nimis difficulter / & confuse cadat in sensum.[…]/4°Illudobiectumfaciliussensupercepitur,inque/minorestdifferentiapartium. / 5° Partes totius obiecti minus inter se differentes / esse dicimus, inter quas est maior proportio. / 6° Illa proportio Arithmetica esse debet, non Geo- /metrica. […] / 7° Inter obiecta sensus, illudnonanimogratissimum/est,quodfacillimesensupercipitur,nequeetiamquod/difficillime; sed quod non tam facilem, ut naturale desi- / derium, quo sensus feruntur in obiecta, plane non / impleat, neque etiam tam difficulter, ut sensum fatiget. / 8° Denique notandum est varietatem ombnibus in / rebus esse gratissimam. […]”, citazione a pagina 55.
MORI GIANLUCA, Cartesio, Roma, Carocci, 2010, capitolo 1 REALE GIOVANNI, ANTISERI DARIO, Cartesio: la vita e le opere. Storia della filosofia. Dall’umanesimo a Hegel, Brescia, La Scuola, 2012
Da La prima opera di Descartes e seguenti:
DE BUZON FRÉDÉRIC, Descartes. Abrégé de musique. Compendium Musicae, Nuova edizione, traduzione, presentazione e note di De Buzon Frédéric, Paris, Presses universitaires de France, 2014 (in Francese)
GHIDONI SONIA, Suoni, corpi e sensazioni nel pensiero musicale di Descartes” dissertazione per Dottorato di ricerca in filosofia, Università degli studi di Milano
IANDOLO PAOLA, Compendium musicae, Bari, Stilo, 2008
Rosario D’Amico
Abstracts
In questo articolo, mi propongo principalmente di analizzare quello che ritengo essere il requisito necessario e sufficiente per l’esperienza estetica del bello, ossia il naturale desiderio dell’uomo di vincere i propri limiti e le inevadibili costrizioni che la vita quotidiana gli impone, il suo voler essere incoercibile, il suo inappagabile anelito di potenza. Si tratta di un elemento considerevole perché fornisce alcune importanti indicazioni sulla natura di ciò che è giudicato bello e, conseguentemente, sul perché gli uomini siano innamorati della bellezza, considerandola, al suo massimo grado, una proprietà dell’Assoluto, di Dio, legata indissolubilmente alla Sua Onnipotenza e incontrastabile capacità di creare.
In secondo luogo, cercherò di mostrare perché e in che misura ciò che il singolo considera brutto o bello è influenzato in maniera significativa dal contesto socioculturale in cui egli vive e dal credo estetico della comunità cui appartiene.
In this paper, my mainly aim is to analyze what I consider the necessary and sufficient requirement for the aesthetic experience of beauty. Beauty answers man’s natural desire to overcome his own limits and the unavoidable constraints that daily life imposes on him, his wanting to be incoercible, his insatiable yearning for power. This is a considerable element because it provides some important indications about the nature of what is judged beautiful and, consequently, why men are in love with beauty, considering it, to its maximum degree, a property of the Absolute, of God,
inextricably linked to His Omnipotence and irresistible ability to create.
Secondly, I will try to show why and to what extent what the individual considers ugly or beautiful is significantly influenced by the socio-cultural context in which he lives and by the aesthetic beliefs of the community to which he belongs to.
Keywords
Bello – Brutto – Male – Onnipotenza – Uomo Anomico BELLEZZA E POTENZA
Ogni arte, ogni filosofia, può essere vista come un mezzo di cura e di aiuto al servizio della vita che cresce e che lotta: esse presuppongono sempre sofferenza e sofferenti. Ma ci sono due tipi di sofferenti: da un lato quelli che soffrono per sovrabbondanza di vita, che vogliono un’arte dionisiaca e così una visione e una conoscenza tragica della vita – e dall’altro quelli che soffrono per impoverimento di vita, che cercano pace, silenzio, mare liscio, liberazione da sé stessi attraverso l’arte e la conoscenza, o invece ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la follia.
F. NIETZSCHE, La Gaia ScienzaIntroduzione
Quali sono le cause del sentimento estetico? Ogni trattazione analitica dell’estetica vuole e cerca una possibile risposta a questa domanda e conseguentemente al perché le varie società producano e ammirino certe opere d’arte invece di altre, al perché il gusto e i canoni di bellezza mutano nel tempo, come di fatto mutano, entro una data società, e così via. Il problema dell’estetica consiste allora essenzialmente nella riflessione sulle condizioni a partire dalle quali o secondo le quali si giudica brutta, non-brutta e non-bella o bella una determinata cosa 1 . Si tratta di fare in modo da un lato che i
canoni estetici non possano porsi come norme o regole fisse, dando così il giusto spazio al gusto, che è un aspetto necessario e irriducibilmente soggettivo della facoltà del sentimento del giudicante, e dall’altro che non valga incondizionatamente la sensibilità di ciascuno, che non passi cioè l’idea che il concetto estetico sia totalmente relativo – come si suole dire: non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace –, eliminando di fatto ogni possibilità di obiettività, e facendo primeggiare la presunta casualità dei dati statistico-esperienziali. L’estetica non può perciò fermarsi allo studio del bello naturale o delle singole espressioni artistiche ma deve anche superare il conflitto interiore tra gli aspetti soggettivo e oggettivo che le sono propri, avendo come scopo quello di una concezione e costruzione del mondo fondata su qualcosa che ha nell’opera d’arte la sua possibile e più degna manifestazione. La domanda filosofica fondamentale è pertanto la seguente: è possibile cercare una spiegazione formalistica dell’estetica che tenga conto, ma senza rassegnarsi completamente, del trionfo di atteggiamenti che soprattutto oggi mirano a ridurre il ruolo della bellezza e dell’artisticità a quello di far provare solo o prevalentemente emozioni?
La strada da percorrere è duplice: da una parte occorre trovare una interpretazione filosofica della bellezza, fare del bello un oggetto-estetico che sia non solo suscettibile di trattamento teoretico e di cui questa teoria si occupi e possa applicarsi, ma anche detentore di un senso morale – i.e., lo si possa rendere anche con “buono” – e di un senso di utilità pratica – i.e., possa avere anche il senso di “adatto”, “conveniente” –, dall’altra parte mostrare come le caratteristiche distintive di una società, i suoi valori, il suo “sentire comune” abbiano ricadute importanti sui criteri che permettono ai suoi membri di identificare il bello e le opere d’arte. Per affrontare al meglio questo tortuoso cammino, faremo leva su un problema che è legato alla possibilità che una data cosa venga
o no giudicata bella e che nasce dalla semplice constatazione che, sebbene un qualcosa di possibile non sia esperibile, la sua concreta possibilità di esserci o di divenire reale gioca un ruolo di primo piano nella nostra vita. Basti pensare soltanto alla rilevanza che ha la possibilità nello spiegare i nostri stati d’animo, nell’influenzare qualsiasi nostro giudizio sulle cose: non serve vedere i devastanti effetti di un terremoto per averne paura, per desiderare che non si realizzi; non occorre assistere a un reato per accusare qualcuno di averlo commesso. Il problema è perciò questo: chi è colui che esprime valutazioni estetiche sulle cose e in che misura gli importa formulare questi giudizi? Quali modalità del percepire e del pensare, quali valori sociali e stili di vita predispongono e influiscono sui suoi pronunciamenti estetici e in che modo? Il nostro intento centrale sarà allora quello di indagare l’origine e lo sviluppo di quelle idee o di quegli impulsi che ci permettono di cogliere il brutto o il bello nella loro insorgenza eventica, nel loro apparire nel mondo e che, in ultima istanza, danno colore alla nostra esperienza.
Precisamente, sosterremo la tesi secondo la quale la propensione estetica trae origine e dipende dalla sete di potenza dell’uomo, ossia dal suo bisogno di andare oltre i propri limiti, di trascendere le costrizioni che gli sono imposte dal mondo fisico e che sono radicate nella sua stessa natura. Tale sete può appagarsi soltanto nella contemplazione dell’arte, la quale non può essere altro che un meccanismo provvisorio di sospensione della fatica del vivere, di ribellione alle coercizioni di una realtà che l’uomo avverte come caduca, caotica, contraddittoria, finita e riduttiva.
La difesa di questa posizione costituisce l’obiettivo che ci prefiggiamo di raggiungere nelle tre sezioni che compongono questo scritto. Nella prima, presenteremo in modo sintetico e intuitivamente chiaro ciò che intendiamo per difetti nel mondo, concetto che rappresenta imprescindibilmente il punto di partenza della presente e forse di ogni dissertazione sull’estetica. In altri
termini, fisseremo alcuni punti fermi che caratterizzano in senso oggettivo ciò che chiamiamo male e dunque brutto, mostrando come l’uomo, a causa della sua connaturata “impotenza”, non possa impedire, nonostante lo voglia fortemente, che vi sia il male nel mondo, ma sia obbligato a ravvisarlo, subirlo e registrarlo già in atto. Nella seconda sezione, vedremo, da un punto di vista quantitativo, come il manifestarsi del brutto sia logicamente collegato all’esserci e alla gravità dei difetti nel mondo e, quindi, come la bellezza diventi sempre più quella forza irrefrenabile e impetuosa, quel motore propulsore in grado di spingerci verso l’ideale superamento dei nostri confini strutturali, verso l’Assoluto e la Sua perfezione. Nella terza e ultima, in stretta connessione con quanto esposto nei due paragrafi precedenti, introdurremo la figura dell’uomo anomico – i.e., di chi non dispone di alcun canone estetico proprio –, un personaggio che ci consentirà di spiegare perché e in che percentuale ciò che il singolo considera brutto o bello dipende in maniera significativa dal contesto socioculturale in cui egli vive e dal credo estetico della comunità cui appartiene.
1. Il male e i difetti nel mondo
Come anticipato nell’introduzione, questa parte si propone di fornire una spiegazione razionale di come sia possibile conciliare la presenza del male nel mondo con l’esistenza dei viventi2, cioè con l’esserci di individui istintivamente votati a garantirsi ciascuno il proprio benessere, cioè a fare fondamentalmente le due cose seguenti:
a) mantenere un qualcosa che si ha e non si vuole perdere; b) riuscire a realizzare una volontà, qualcosa di preciso cui si punta. Prima di affrontare questa sfida teorica, è indispensabile premettere un breve excursus ragionato sulla motivazione che rende concreta un’intricata relazione tra il male e l’esistenza dei
mortali, di cui facciamo comune esperienza, e che si rivela necessaria, perché così è la Natura tale che l’alternativa sia l’inesistente, la definitiva scomparsa di ogni specie vivente dalla faccia della Terra, dall’apparire, da ciò che è.
Partendo dall’ovvia constatazione che ogni vivente voglia che il mondo sia per lui un armonioso sistema in cui non vi sia traccia di male, tenteremo di provare che ogni apparenza del contrario è dovuta alla sua intrinseca impotenza, alla sua caratterizzante imperfezione, ossia alla sua incapacità cosciente di ottenere qualcosa che gli manca o che appetisce.
La piena attuazione di quanto il singolo esistente vuole che avvenga nel mondo e nella storia è infatti subordinata alla sua stessa potenza, ossia alla sua attitudine a realizzare fedelmente la propria volontà.
Ciò significa che, se tutti i viventi giungessero a una potenza totale, se fossero tutti Onnipotenti, cioè se ognuno di essi potesse fare tutto ciò che vuole 3 , nessun male sarebbe nel mondo. Ma l’Onnipotenza, come vedremo tra poco, non può essere una facoltà del mortale, nel senso che è impossibile l’esistenza di almeno un vivente che sia Onnipotente. Ne consegue che il nostro sistema mondo presenta necessariamente degli ostacoli sistematici – i.e., quelli appunto dovuti all’insita debolezza e inadeguatezza dei viventi –, i quali impediscono che venga integralmente attuato (nel mondo) tutto ciò che ciascun esistente desidera o si prefigge di fare.
Iniziamo dunque la nostra argomentazione con l’enunciazione delle fasi principali in maniera generale, in modo che chi legge possa abbracciare con una rapida occhiata la sequenza dei ragionamenti.
Per semplicità espositiva ma senza ledere la generalità dei casi, considereremo unicamente la prospettiva del vivente a noi più familiare, di quello che ci riguarda più da vicino, ossia dell’uomo, il quale tra l’altro è l’unico mortale ad avere sufficiente consapevolezza di sé stesso da interrogarsi, turbato, sul perché vi sia il male nell’immanente. Procederemo nel modo seguente.
i) Risponderemo subito al quesito: in che termini ciò che chiamiamo male può caratterizzarsi in maniera oggettiva? In altre parole, il male ha una sua natura intrinseca e continua a esserci indipendentemente da noi, oppure è solo un prodotto della nostra mente, un’illusione, qualcosa che è presente non come fatto oggettivo, ma come una concezione soggettiva?
ii) Faremo vedere che il verificarsi del male (naturale o morale) o, come meglio avremo precisato, dei difetti nel mondo è inevitabile e va ricercato nella condizione esistenziale dell’uomo; esso è infatti essenzialmente dovuto alla congenita inettitudine degli esseri umani ad attuare ciascuno il proprio volere. Esaminiamo ora, in maggior dettaglio, i singoli elementi di questa sequenza.
i) Si può dare una definizione oggettiva di male? Oppure si deve identificare con un qualcosa di soggettivo, che dipende da chi lo giudica? Il filosofo francese Jacques Maritain, riflettendo sulla legge naturale – i.e., su quell’insieme di regole che ogni uomo dovrebbe trovare dentro di sé, interpellando la propria ragione – osservava che l’unica conoscenza che è certa di essa in ogni uomo di ogni tempo è il principio secondo il quale bisogna evitare il male e fare il bene 4 . Ne segue che il male ha, per sua natura, due indubbie caratteristiche di base:
1. esso è un qualcosa di dannoso o di spiacevole da cui difendersi o da cui fuggire;
2. esso non può apparire autonomamente, in relazione a sé stesso; per potersi manifestare, il male ha bisogno di qualcuno non solo che sia in grado di concepirlo e ravvisarlo, ma anche e soprattutto che sia costretto a subirlo o, il che è lo stesso, che vi sia qualcosa che arrivi a compierlo. Se così non fosse, se il male cioè non riguardasse affatto ciò che esiste, che vive, non avrebbe alcun senso il volerlo respingere e, quindi, venendo
meno la precedente condizione 1, esso non potrebbe configurarsi come male.
Se intendiamo il male come oggettivo, dobbiamo allora ammettere, se non altro, che ogni vivente sia posto nella condizione di dover subire, propriamente o impropriamente, qualcosa che vorrebbe non fosse o che tema possa avvenire. Ciò significa supporre l’esistenza di almeno un essere IMPOTENTE,cioè di un esistente che sia incapace di imporre il proprio esserci o un proprio volere su qualunque altra cosa, viva o inanimata che sia, che non possa scalfire la corazza di qualche oggetto refrattario a una sua precisa volontà.
Solo l’esserci di questo “garante finale” potrebbe assicurarci una linea di confine chiara e immutabile tra ciò che è male e ciò che non lo è; solo in questo caso potremmo disporre di una definizione precisa di male, evitando così che esso diventi una convenzione, una nozione suscettibile di interpretazioni o di varie opinioni soggettive, che si tramuti in un concetto privo di senso. Solo la presenza dell’IMPOTENTE e dei suoi eventuali e confutabili progetti possono fungere da criterio di misura nel determinare oggettivamente ciò che è male da ciò che non lo è. Solo questi possono farci scorgere la via da percorrere per andare in direzione opposta al male, verso il suo complementare, verso la possibilità di un bene supremo, di una giustizia perfetta, della beatitudine. Infatti, se qualcuno ci dicesse che una data azione è un «male», la sua affermazione avrebbe senso soltanto se egli ci avesse illustrato quali sono le proprietà di quello che chiama «male» e come si fa a riconoscerlo in modo da rendere concettualmente possibile dire se un tale fatto o una tale azione è o no un male. Se non ci fosse un punto di riferimento stabile che determini obiettivamente ciò che è male, si potrebbe, per esempio, asserire che uccidere qualcuno non è male senza timore di essere smentiti – in certi Stati addirittura la pena di morte è stata ampiamente utilizzata ed è tuttora legalmente in vigore – perché, per principio, sarebbe impossibile controllare la verità di tale
asserzione; non vi sarebbe allora alcun male, giacché, non avendo alcun criterio di male per questa affermazione, non potremmo attribuirle alcun significato effettivo.
Per evitare che, a causa dell’ambiguità del termine «male», questa esposizione diventi un terreno pericolante, ricorreremo, d’ora in avanti, a un termine che abbia un significato ben preciso, che contenga l’idea di male nel mondo e che faccia evidentemente riferimento alla possibilità che vi sia un IMPOTENTE con le sue controvertibili intenzioni.
A tal fine, chiameremo difetti le cose o azioni che l’uomo soggettivamente ritiene siano limitative, dannose o offensive per sé stesso e che dunque sono oggettivamente contrarie alla sua volontà; di solito il compiersi o il potersi compiere degli omicidi, delle guerre, dei terremoti, della corruzione, della pedofilia, delle malattie e così viav.
ii) Passiamo ora al secondo punto nel quale sosterremo la tesi che la presenza di difetti nel mondo non possa essere impedita, pena l’eliminazione in toto dell’umanità dall’esistente. A tal proposito, basterà mostrare che l’Onnipotenza, se proprietà comune a tutti gli uomini, è condizione necessaria e sufficiente perché i difetti non sussistano nella realtà e che nessun vivente può dirsi Onnipotente.
La prova è la seguente: se ci sono difetti nel mondo, deve necessariamente esistere almeno un uomo la cui potenza non sia totale, non-Onnipotente, cioè un uomo che non possa fare tutto ciò che vuole. Infatti, se ogni uomo fosse Onnipotente, ossia se fosse in grado di realizzare fedelmente la propria volontà e quindi di garantirsi il proprio benessere, nessuno uomo subirebbe ciò che non vuole; sicché, se così fosse, nessun difetto, nel senso che abbiamo sopra indicato, potrebbe mai verificarsi o essersi verificato nel mondo.
Viceversa, se ci fosse almeno un uomo non-Onnipotente, tale persona verrebbe chiaramente esposta alla concreta possibilità di
subire qualcosa che non voglia che sia; questa stessa possibilità rappresenterebbe oggettivamente un suo evidente limite, costituendosi così come difetto nel mondo6.
Vi è pertanto equivalenza logica tra la presenza di difetti nel mondo e l’impotenza umana.
D’altra parte, è assurdo che coesistano due esseri reali che siano entrambi Onnipotenti. Difatti, se non si identificano, uno di loro non avrebbe alcun potere sull’altro, essendo limitato dall’Onnipotenza di quest’ultimo. Ma se un tale essere si contraddicesse, se fosse Onnipotente e non-Onnipotente allo stesso tempo, negherebbe sé stesso, poiché ogni essere reale è obbligatoriamente non contraddittorio. Quindi, se l’Onnipotenza facesse parte degli attributi di uno solo dei possibili n>1 viventi (del mondo), sarebbe una sua caratteristica non essenziale e dunque una proprietà bilateralmente trasferibile tra due soggetti reali diversi.
Per cui supporre l’esistenza di almeno un vivente che sia Onnipotente porta a una lampante antinomia7.
I difetti hanno pervaso e pervadono tutto l’esistente – erano già nel Paradiso Terrestre dove il serpente tentò i nostri progenitori (Gen 3,1-5) – e si trovano ovunque anche nelle opere più sante8, proprio perché, per forza di cose, nessun uomo è in grado di tramutare puntualmente la propria volontà in realtà.
Essi, poiché conseguenze logiche dell’esistente in quanto tale e delle leggi che lo governano, non possono essere prevenuti o neutralizzati senza che questo provochi il completo annientamento e la definitiva scomparsa della razza umana dal mondo, né possono essere indirizzati sfavorevolmente solo verso alcuni disgraziati uomini, perché riguardano unicamente l’ente-uomo9, e sono soltanto le forme accidentali (altezza, peso, età etc.), che consentono di distinguere, nell’ambito della specie umana, un uomo da un altro uomo.
La crudeltà, la terribilità, le sciagure sono perciò caratteri dell’esistenza quale essa è in sé, e non possono esserle sottratte
senza cancellare totalmente con ciò l’intera umanità. Non vi è nessuna liberazione, nessun rifugio, nessuna possibilità di evitare l’assedio di una vita che può assestare colpi talvolta duri. Diversamente dalla chimera suggerita da un certo pensiero più o meno diffuso, è impossibile abolire la croce dal mondo, poiché ogni essere umano è imprescindibilmente soggetto ai difetti, soffre. Soltanto nelle produzioni cinematografiche e in altre fantasie del genere, caratterizzate spesso dall’happy end, vi sono irreali personaggi che hanno successo in ogni loro iniziativa personale, che non incontrano alcuna difficoltà nei rapporti con gli altri, che sono immuni da qualsivoglia fastidio e delusione della quotidianità. Per quanto si fondino ospedali, si aprano asili, si costruiscano ospizi, si facciano leggi giuste, il dolore, la sofferenza e in generale i difetti sono nostri compagni di vita e smetteranno di esserci se e solo se l’essere più intelligente del Pianeta cesserà per sempre di esistere, se uscirà definitivamente dal novero dell’apparire.
In questo tempo di pandemia e di grande incertezza, un simile ragionamento, forse, contribuisce a distruggere il sogno irrealizzabile di poter raggiungere una perpetua felicità terrena e smentisce in qualche modo l’ipotesi che il progresso della scienza e della tecnica possa risolvere tutti i problemi dell’umanità.
Ma cosa ci dicono i difetti nel mondo a proposito dell’estetica? Cosa mai possono dirci di più o di diverso, che uno studio diretto o altri punti di approccio non dicono? Il male così come lo abbiamo inteso usando il termine “difetti” sottintende un generale “che non vogliamo né che sia né che possa essere”, “che cerchiamo in tutti i modi di evitare o di respingere”; esso è qualcosa per noi spiacevole, che perciò valutiamo decisamente come “brutto”.
La sensazione del brutto è allora ciò che ciascuno di noi sperimenta quando si sente smarrito, disorientato di fronte al negativo, alle difficoltà del mondo, ostacolato nella propria vitalità, e vuole rialzarsi, riappropriarsi di quella parte di esistenza che gli
è preclusa. Questa espropriazione non è una circostanza fortuita che riguarda soltanto alcuni di noi, i più sfortunati, ma è il segno tangibile che caratterizza l’intera umanità. Le cose brutte, i difetti che fanno parte del mondo in cui siamo irrimediabilmente implicati sono l’esperienza nella quale l’umanità riconosce sé stessa e la sua risorsa di senso; in altre parole, l’uomo trova nell’insensatezza e nelle offese che subisce dalla vita la ragione del suo necessario e bramato riscatto.
In quest’ottica, può darsi che l’arte come veicolo di bellezza sia l’unica prassi che possa salvarci da noi stessi senza farci uscire materialmente dalla realtà in cui siamo inseriti, magari proiettandoci verso un orizzonte utopistico o verso un sogno folle. Ora, se riuscissimo a studiare e approfondire il legame – che, come abbiamo appena visto, si dimostra plausibile e interessante non solo sul piano intuitivo – tra il concetto di difetti, essenziale e rigoroso, e l’idea del brutto, l’argomentazione estetica potrebbe diventare una terra sempre meno incognita per tutti coloro che, come gli analitici, richiedono che i termini siano definiti con precisione e i ragionamenti siano messi e condotti per quanto possibile in forma logica. Il confrontarsi con quest’ultima tematica sarà l’oggetto della prossima sezione.
2. Magnificenza e sete di potenza
Grazie a quanto esposto alla fine del paragrafo precedente, ci è più chiara la correlazione che intercorre tra la realtà estetica del brutto e l’esserci di difetti nel mondo. Il brutto, come visto, non è una semplice veste esteriore ma una condizione necessaria e sufficiente perché vi siano difetti nel mondo. L’essere giunti a questa conclusione avrà forse una scarsa valenza dalla prospettiva della scienza ma non da quella dello studio razionale del problema dell’estetica (i.e., dell’esame di ciò che ci mette nella situazione di
poter stabilire se un qualcosa possa o no dirsi bello), essendo quest’ultimo un affare che ci riguarda tutti in modo diretto, che concerne il nostro appartenere all’esistente, la nostra personalità, la nostra mente.
Consapevoli di questo limite, ci accontenteremo di vedere come i difetti riescano a dire qualcosa sulla bellezza, tralasciando ovviamente sia la caratterizzazione che del bello è stata fatta nel corso dei secoli da tanti autori sacri tramite le loro opere “ispirate” sia l’atteggiamento appassionato di chi si sofferma incantato e conquistato davanti alle meraviglie della Natura o alla perfezione delle forme.
Proporremo una nuova o più autentica interpretazione del bello, iniziando dall’osservare con il cardinale Gianfranco Ravasi un significativo fenomeno che avviene nella Bibbia in ambito lessicale: Il principale termine estetico ebraico è tôb: esso ricorre 741 volte e ha significati molto fluidi che vanno dal “buono” al “bello”, all’”utile” e al “vero”, al punto tale che la stessa antica traduzione greca della Bibbia detta “dei Settanta” è ricorsa ad almeno tre aggettivi greci diversi per rendere questo vocabolo (agathós, “buono”, kalós “bello” e chrestós, “utile10.
Un aspetto importante della teologia della creazione e dell’uso che del vocabolo tôb viene fatto è l’accento che il testo del primo capitolo di Genesi pone sulla bontà/bellezza della creazione mediante l’espressione ricorrente “e Dio vide che kî tôb”, ossia sul fatto che il creato era buono, bello e utile secondo i diversi significati intrinseci della suddetta parola ebraica. Si vuole così comunicare al lettore del racconto biblico delle origini l’assoluta positività di ciò che Dio crea, vede e sperimenta. L’idea di bellezza è quindi collegata, almeno originariamente, all’idea di creazione; ma è bella non tanto l’opera creativa consistente nella raffigurazione di ciò che appare nella realtà, facendo un semplice processo di mimesi, quanto la creatività intesa come possibilità dell’uomo di andare oltre sé
stesso oltre i confini delle leggi fisiche, oltre la frontiera tra soggettivo e oggettivo, ovvero come possibilità di produrre cose che prima non c’erano e poi ci sono, imitando Dio, il quale, se non avesse avuto questa spinta creatrice, non sarebbe andato oltre la rappresentazione di ciò che già era, cioè oltre Sé stesso.
Notiamo poi che tra i termini contrapposti di ”bello” e “brutto” vi è una relazione di contrarietà e non di contraddittorietà logica, vale a dire che, mentre una cosa non può essere contemporaneamente (giudicata) bella e brutta senza cadere nell’insensato, è chiaramente possibile che essa sia non-brutta e non-bella allo stesso tempo. Per dirla con il famoso personaggio platonico di Diotima: Chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo11.
Fra l’estremo del bello e quello del brutto vi è dunque una gradazione: ciò che è brutto non è bello e viceversa, ma il non essere bello di una cosa non implica necessariamente il suo essere brutto; tale cosa potrebbe infatti essere collocata, nella scala della gradevolezza estetica, in uno stato intermedio, compreso ma diverso da quelli, estremi, della bruttezza e della bellezza. Ne segue che, a prescindere dai criteri definitori dei canoni di bellezza, ogni cosa è sempre soggetta a giudizi estetici sia propri che altrui, tanto esplicitati quanto sottaciuti.
Queste due brevi constatazioni ci portano a disputare la seguente questione: Cosa ha di tanto entusiasmante la bellezza da attrarci e sconcertarci?
Per ovviare a questo problema offriamo un’ipotesi di soluzione che formuliamo subito nel modo più secco, passando poi a illustrarla razionalmente.
La bellezza ha una ragion d’essere molto semplice: essa rende percepibile o meglio falsamente accessibile il luogo in cui abita l’Onnipotenza, l’invisibile, l’umanamente impossibile. La bellezza
ci rende liberi e felici, in quanto ci consente di compiacere la nostra sete di potenza, illudendoci di poter pervenire a nuove e desiderate mete che ci sono precluse nel mondo sensibile. Essa è il grande mezzo di cui l’uomo si serve per porsi nella scia della suprema potenza, per convincersi di poter raggiungere la soglia estrema di potenza consentita nell’alveo del non-contraddittorio, del logico.
Difenderemo questa posizione muovendo da uno studio di tipo quantitativo del fenomeno estetico, concentrandoci cioè sull’assegnazione dei gradi di bellezza a un dato oggetto. Poiché una cosa qualunque non può essere al contempo giudicata bella e non-bella da uno stesso soggetto S, la misura del grado di bellezza di una cosa così e così, rispetto a S, non è altro che la probabilità, chiamiamola estetica, che si verifichi l’evento A: «la cosa così e così è etichettata come “bella” dal giudicante S»12.
Se siamo in grado di prevedere il verificarsi (non verificarsi) dell’evento A, diremo che A è certo (impossibile) e che la cosa così e così, componente l’evento A, è per S magnifica (orribile); in tal caso, rispettivamente, si ha anche che P(A) = 1 e P(A) = 0. Il magnifico e l’orribile sono pertanto una sorta di punto eccelso, di vertice rispettivamente della bellezza e della bruttezza. Osserviamo inoltre che, se una cosa è magnifica, allora, in quanto tale, essa non può certamente recare l’etichetta “brutta” e, quindi, non può costituire in alcun modo un difetto nel mondo almeno per quel soggetto S che ne giudica il lato estetico. Ciò significa che S non è costretto a subire passivamente nessun aspetto di tale cosa, niente di questa che non voglia, neanche la stessa possibilità che essa sia o che non sia, che appaia o meno. Pertanto, se una cosa è magnifica, la sua presenza nel mondo non può essere stata una circostanza più o meno contingente che si è imposta al percipiente S, ma deve essere qualcosa di cui S è necessariamente la raison d’être, l’artefice; in altre parole, S deve aver attivamente voluto che tale cosa fosse e perciò deve averla creata.
L’atto di creare in senso stretto è opera esclusiva dell’Assoluto, di Dio, ma non a caso si usa spesso dire, in senso figurato, che l’uomo crea un’opera d’arte, un’invenzione o un capolavoro musicale. Ciò perché la bellezza è squisitamente una questione di potenza, di forza. La dimensione energetica non è solo preponderante, ma è la condizione indispensabile per valutare se qualcosa possa dirsi bella o non-bella.
Più è alto il grado di bellezza che attribuiamo a una cosa, più lo è in quanto ci permette il raggiungimento di una vana promessa di potenza, di dominio nei suoi riguardi, e tale inganno vale per sé e non come mezzo utile a raggiungere un altro scopo ulteriore. Nella magnificenza, cioè nel massimo grado possibile di bellezza, non viene separato e distinto, in relazione al giudicato, ciò che si è come uomo, essere imperfetto, da ciò che si diventa, essere Onnipotente e creatore, come Dio. L’uomo infatti non dispone della potenza infinita, egli la avverte e la vede realizzata al di là di sé e al di sopra di sé; e la chiama “magnificenza”, “somma bellezza”. Sicché è impossibile giudicare bella una certa cosa senza riferirsi al desiderio di egemonizzarla e quindi senza avere cognizione di quella cosa, senza che una qualche forma di esperienza, più o meno sensibile, ce ne solleciti la valutazione estetica.
Cos’è dunque l’espressione artistica se non un tentativo di appagare inconsciamente la nostra vocazione o sete di potenza. Sotto quegli atteggiamenti e quelle emozioni che ci vengono stimolati dall’opera d’arte, la quale è frutto di estro creativo, di genialità e di imprevedibilità, si nascondono sentimenti di ribellione al conformismo e ai limiti dell’esistenza, si cela il bisogno di dare concreta forma, pur sapendo che è finzione, alle nostre ambizioni e fantasie che spesso sono soffocate o mutilate dalla realtà. L’arte si pone quindi al livello più alto, quale sintesi di una bellezza che, attraverso le parole, le immagini, la musica e tutto ciò che l’intelletto dell’uomo crea, riesce a mostrare l’invisibile, l’illimitato, l’impareggiabile potenza divina.
Rimettendoci nelle mani dell’arte, non rinunciamo alla nostra potenza, ma troviamo la maniera di averla e di incrementarla fino e oltre il livello massimo che ci è concesso. Pur nella consapevolezza di trovarci di fronte alla parvenza o al sogno, soffriamo e gioiamo davanti alla vera opera d’arte; l’irruzione del bello ci dona la sensazione di poterci emancipare dai pericoli e dai terrori dell’esistenza, ci offre il piacere di una più ricca pluridimensionalità; non dobbiamo più sottostare alla ripetitiva quotidianità della vita ma andiamo incontro da protagonisti a un orizzonte “altro”, positivo, diverso da quello propinatoci dal presente, dagli attuali dettami dell’economia, della tradizione e della tecnica. Per dirla con E. Ionesco:
Attendo che la bellezza venga a illuminare un giorno i muri sordidi della mia quotidiana prigione13.
La prova del nove del ragionamento che abbiamo fin qui svolto ci è fornita da un interessante studio sperimentale che di seguito riportiamo e che bene illustra come la bellezza sia una faccenda di potenza.
Nel 2014 una catena di supermercati francese mise in commercio una serie di prodotti ortofrutticoli deformi etichettandoli come ”brutti”. Ciò, incredibilmente, si dimostrò un buon espediente per il successo nelle vendite di tali prodotti tanto da convincere alcuni ricercatori a condurre delle indagini volte a testare l’efficacia dell’etichetta “brutto” sugli acquirenti finali di beni di consumo. Queste ricerche giunsero principalmente a due risultati sorprendenti. Il primo è che i prodotti etichettati come “brutti” avevano molte più probabilità di essere acquistati rispetto ai prodotti etichettati più vagamente come “imperfetti”. Il secondo risultato è che, quando i prodotti “brutti” venivano fortemente scontati, era meno probabile che fossero comprati rispetto a quelli che presentavano uno sconto più moderato, nonostante sia risaputo
che il prezzo svolge un ruolo di moderazione fondamentale, nel senso che la sua diminuzione è un buon incentivo all’acquisto. Questi studi hanno complessivamente mostrato che, quando sul prodotto compare l’etichetta “brutto”, l’esitazione dei consumatori scompare, e non tanto per l’ironia o per l’originalità della trovata quanto per il fatto che essi sono resi consapevoli dei loro pregiudizi – i.e., dall’aspettarsi che i prodotti difettosi siano meno validi rispetto agli analoghi standard –, e quindi, non temendoli, sono più disponibili a comprare prodotti convenzionalmente meno invitanti. Usare invece un linguaggio più gentile e generoso per descrivere i prodotti brutti o scontarli fortemente, sarebbe controindicato perché scatenerebbe una singolare e controintuitiva risposta psicologica nel consumatore: egli adotterebbe un comportamento più cauto, sospettando che il tale prodotto abbia altri difetti, a lui celati, che determinano perché ha quell’aspetto o perché risulti più economico di altri14.
Se ne deduce che il bello non è declinato solo nella finezza, nell’eleganza o nella dolcezza, ma è anche espresso nel problematico quando questo placa il nostro inesaudito desiderio di completezza nei suoi confronti, ossia quando possiamo eluderlo o superarlo; in realtà il brutto non è brutto in sé, ma è brutto se è sinonimo del nostro essere obbligati a sopportarlo o della nostra invidia verso colui o coloro che hanno qualità o beni di cui vorremmo godere ma che ci sono vietati.
L’esperimento delle “etichette brutte” ci insegna, infatti, che non sono solo le immagini gradevoli o familiari ad attrarci, ma che possiamo trarre piacere anche dalle immagini negative, cosiddette “brutte”, cioè dall’esporci a ciò che è triste, cupo, angosciante e tragico. Il motivo per cui ci dilettiamo a guardare drammi, in cui vengono rappresentate situazioni spiacevoli nelle quali non vorremmo mai trovarci nella nostra vita reale, sta proprio nell’effetto catartico indotto da quella distanza di sicurezza che la
finzione frappone tra lo spettatore e la rappresentazione stessa. Maggiore è questa distanza, maggiore è il fascino che il brutto esercita sull’astante, proprio perché quest’ultimo viene in contatto con qualcosa che avverte sempre più governabile o depotenziata dalla sua pericolosità. L’uomo difatti aspira ad avere potenza sulle cose e a poterla accrescere. Egli cerca potenza. Ma non può essere potente chi non è salvo dalle cose o dalle forze che gli sono ostili e non può essere salvo chi non ha la potenza bastante per ricacciare tali cose o per vincere tali forze. Quindi la conditio sine qua non per poter fruire in modo gradevole dell’aberrante, del brutto e dell’orribile è quella di avere l’assoluta percezione di essere a debita distanza da loro, in una posizione di tranquillità e sicurezza tale da non sentirne più il peso o i negativi effetti15.
La sensazione di impotenza che ci coglie davanti a una forza devastatrice, per esempio, si tramuta presto, se siamo del tutto al sicuro rispetto a essa, nella sensazione opposta di una bellezza tale da restarne affascinati, meravigliati, proprio perché l’assenza di rischio e di timore per tale situazione di pericolo è ciò che ci conferisce una potenza commisurata all’imponenza della suddetta forza distruttrice e perciò sufficiente a inibirne i possibili effetti nocivi su di noi, consentendoci di superare quella fragilità che ci fa sentire inferiori rispetto a essa.
Per cui il bello è anche espresso dalla predilezione per il difficile, l’avverso, dal gusto verso la cosa terribile. L’attrattività verso l’orribile, verso la catastrofe sono alla base di una peculiare scoperta del tragico.
La tragedia è infatti una forma suprema d’arte che veicola una somma bellezza perché mostra straordinariamente le passioni dell’animo umano, la sua sofferenza, le sue frustrazioni e le sue mire ancora insoddisfatte, così come l’invincibile fato che sovrasta i suoi personaggi. I suoi protagonisti in cui ci immedesimiamo ci affliggono perché sono chiamati non solo a espiare le proprie colpe
o a confrontarsi con dure prove, ma perché espiano e si confrontano con le colpe e le prove dell’intero esistere umano.
La bellezza della tragedia si contraddistingue allora per una duplice caratteristica: da un lato essa consta nella possibilità di mimetizzarsi rassegnatamente con il malessere degli altri, evitando la fatica del cercare di trovare una via d’uscita, nel fatto che le sofferenze sembrano meno gravi e più sopportabili quando sono condivise con gli altri – la filosofia del mal comune mezzo gaudio –; dall’altro nel contagio emotivo positivo che deriva sia dalla distanza tra simulazione e realtà sia dal senso di protezione dell’essere immersi nella massa della platea, dove quello che è vicino a noi, che si preme contro di noi è identico a noi e quindi svanisce la naturale paura dell’uno verso l’altro sconosciuto. L’assistere alla tragedia dà sollievo all’anima dello spettatore, ne esorcizza la paura, ne sazia in questo modo la sete di potenza. Affinché i giudizi estetici possano ritenersi oggettivamente affidabili e di conseguenza proficui dal punto di vista operazionistico, è necessario però che chiunque li formuli non sia incoerente, non sia cioè deviato da passioni; in altre parole, bisogna che i gradi di bellezza siano depurati, quanto più possibile, da qualsivoglia elemento soggettivo che caratterizza l’atteggiamento e la personalità di chi li attribuisce. Ma è sensato andare in cerca di proprietà oggettive che giustifichino i giudizi estetici, sottraendoli così al sospetto dell’arbitrio di chi li formula? Sì, almeno in certe situazioni. Ed è esattamente ciò che cercheremo di provare nel prossimo paragrafo.
3. L’uomo anomico
L’attuale mondo globalizzato e tecnologico ha come peculiarità quella di spingere l’umanità verso l’omogeneità, verso la costituzione di individui senza passato, senza originalità e senza personalità, le
cui singole volontà fluttuano senza meta alcuna e senza perché nella pesante foschia del nichilismo; vanno dove tira il vento in ogni contingente congiuntura sociale e politica, lasciandosi influenzare e trascinare prepotentemente dalle mode effimere che la società del loro tempo, sequestrandoli culturalmente, gli comanda. Sempre più nativi del digitale e dei social network, i singoli si fanno condizionare dall’imprescindibile uso dei mezzi informatici che modificano radicalmente non solo il loro modo di essere, ma anche e soprattutto il loro modo di pensare, trasformandolo da strutturato e singolo a vago e collettivo.
Ebbene, è proprio questo che l’uomo moderno sta facendo e subendo: sta divenendo una macchina dipendente da influssi esterni, planetari e sociali che gli impediscono di essere quello che realmente è, sta limitando sempre di più la propria peculiare visione del mondo tirando delle conclusioni sempre più impersonali e di carattere generale. Gli uomini si stanno trasformando in semplici utenti che ascoltano e basta ciò che la società degli influencer gli propone, prendendolo come una verità assoluta e senza alcuna possibilità di replica. Sono mutati i gusti di miliardi di loro diventati sempre più consumatori onnivori di scempiaggini varie. Nessuna empatia, nessun contatto, nessun dialogo o confronto. Ci si dirotta solo sul vendibile, trascurando la ricerca, l’innovazione e l’immaginazione.
La banalità si consuma rapidamente e determina la necessità di una produzione costante e continua, ipertrofica, divenendo fenomeno economico e non più culturale. La persona è completamente passiva, i suoi giudizi sono spesso abbandonati alla scorciatoia e al vuoto; essa è una vittima sorda, cieca e impotente delle dinamiche del gruppo in cui vive e, tollerandole, le esperisce all’interno della sua contemporaneità.
Tutto diviene omologato quest’uomo quest’altro io stesso. Anche sul piano delle scelte artistiche ognuno sembra volere la medesima cosa, ognuno è uguale all’altro, oggetto tra gli altri oggetti in
questa normalizzazione travestita da differenziazione. Questo capita inconsciamente e tutto si appiattisce, livellandosi verso la mercificazione dell’arte ridotta a intrattenimento e strategia di marketing: ecco l’uomo anomico, l’uomo che, in campo estetico, delega ogni autorità teorica a un manipolo di critici, di gallerie, di influencer e di snob, non avendo nessuna regola propria, nessuna autonomia intellettuale, nessuna garanzia specifica di fronte al potere sociale. L’uomo anomico coltiva la superfice, abita una realtà sempre più fittizia, ha un’identità sempre meno marcata, vive un tempo di alienazione senza confini di cui è spesso un oppresso.
Si è ridotto a essere una semplice prova, una cartina al tornasole dell’impatto di una cultura estetica di massa tendente oggi verso un modello di società conformata in cui i popoli non hanno più un volto e tutto ciò che li accomuna non è altro che la merce come feticcio, lo strumento della religione del libero mercato che caratterizza la civiltà tecnicistica e capitalistica moderna. Si sta infatti assistendo a una sorta di anomicismus sive natura,vale a dire che il fenomeno “anomicistico” ha massificato a tal punto la coscienza estetica degli individui da essere vissuto come naturale, come natura già da sempre data.
Quale ruolo riveste allora un tale labile e manipolabile sistema valoriale per la definizione della personalità estetica di ogni singolo individuo? E quali, quantitativamente, le dirette conseguenze di questa mancanza strutturale di norme proprie sullo spazio del vissuto? In definitiva, cosa dobbiamo intendere praticamente con l’espressione “uomo anomico”? Sappiamo infatti che vi è un quid soggettivo dominante che contribuisce a stabilire ciò che è bello, qualcosa che non è né calcolabile né misurabile, qualcosa che fa intimamente parte del soggetto giudicante, ossia quello che si chiama appunto “gusto”; meno il gusto è educato verso canoni estetici fissati e più l’assegnazione dei gradi di bellezza è legata all’arbitrio individuale. Ma nel caso dell’uomo anomico questa
prospettiva è completamente ribaltata; tutte le qualità soggettive saltano, perché non c’è alcun criterio personale di bellezza a cui appellarsi. È l’ordinamento meccanizzato di questa società sempre più globalizzata, di cui noi esseri anomici siamo semplici ingranaggi, a fornirci i parametri (proporzioni, forma fisica che bisogna avere per esprimere un certo stato di salute etc.) che direzionano il giudizio. Sicché il problema fondamentale diventa come la società educa il gusto.
I musei, le gallerie, le accademie d’arte, i critici e alcune figure di rilievo nel panorama socioculturale di questo tempo di anomia estetica stabiliscono gli standard del gusto, promuovendo certe opere, dichiarandole degne di essere esposte, o respingendole. Le librerie sono ormai una estensione dell’entertainment televisivo e dei mezzi comunicativi del web, dove si trovano i titoli del ristretto club di coloro che in quella stagione hanno affollato gli schermi. La bellezza tende a essere sempre meno una percezione personale e sempre più il risultato dell’applicazione dei principi estetici della collettività a cui l’anomico uomo appartiene. In termini matematici questa tendenza si può tradurre dicendo che la probabilità che un oggetto così e così sia giudicato bello oppure non-bello da un arbitrario soggetto percipiente S è uguale alla probabilità che esso sia giudicato esattamente nello stesso modo dalla società, intesa nella sua interezza, di cui S fa parte.
Dal punto di vista estetico, quindi, ogni membro di una ben definita comunità Ĉ di uomini anomici, pur conservando la propria unicità e individualità, può considerarsi come un test, come una prova, cioè soltanto come una singola e indifferenziata realizzazione dell’insieme dei canoni di bellezza che caratterizzano Ĉ.
Le varie prove di Ĉ non possono che essere tutte identiche e mutuamente indipendenti, nel senso che l’esito di ognuna di esse –etichetta “bello” o “non-bello”– non influenza e non è influenzato in alcun modo da quello di un’altra o delle altre.
A questo punto ci si chiede: relativamente alla popolazione Ĉ, ha un significato oggettivo dire che un dato oggetto è bello? Se sì, è vero che la possibilità di realizzarsi di un tale evento è misurabile numericamente da una probabilità, e quale è il senso concreto di questa affermazione? In sintesi: con che frequenza l’oggetto così e così viene etichettato come “bello” nelle prove di Ĉ?
Lo scopo della presente sezione è quello di tentare di trovare una risposta a questi interrogativi e ciò provando le seguenti due proposizioni:
Lemma 3.1 Sia Ĉ una popolazione formata da n individui anomici m dei quali giudicano bello un certo oggetto Ω. Supponiamo che Ĉ, intesa nel suo complesso, etichetti come “brutto” l’oggetto Ω se e solo se il rapporto m/n risulti uguale o minore di un prefissato valore numerico positivo v. Allora, il rapporto m/n ammette un unico valore possibile: l.
Dimostrazione:
Se le relazioni (m/n) ≤ v e (m/n) > v fossero ambedue possibili, allora, allo stesso tempo, sarebbero altrettanto possibili – i.e., non certi – i seguenti due eventi complementari: T: « Ω viene etichettato da Ĉ come ”brutto”» e -T: « Ω viene etichettato da Ĉ come “non-brutto”».
Se così fosse, la cosa Ĉ (T): «la possibilità che sia vero T» recherebbe insieme le due etichette, “brutta” e “non-brutta”, escludentesi a vicenda, essendo, in tale congettura, Ĉ(T) e Ĉ(-T): «la possibilità che sia vero -T» due cose co-essenti e logicamente interscambiabili. Al riguardo, va notato che ciascuna delle due cose T e Ĉ(T) è valutata da Ĉ come “non-brutta” (“brutta”) se e solo se, per Ĉ , è “non-brutto” (“brutto”) l’oggetto Ω e viceversa, giacché etichettiamo come “non-brutto” (“brutto”) sia l’essere che il poter essere interessati da un qualcosa verso cui nutriamo una certa
propensione (avversione) 16 . Pertanto, se il rapporto m/n ammettesse due possibili valori numerici, l1 e l2, distinti, si avrebbe una chiara antinomia. Deve quindi essere: l1 = l2 = l.Il lemma è così provato.
Teorema 3.1 Sia Ĉ una popolazione costituita da n uomini anomici, chiamati ciascuno ad apporre la propria firma estetica, “bello” o “non-bello”, su un determinato oggetto Ω. Sia inoltre A: «l’oggetto Ω viene etichettato come “bello”» un evento inerente a ognuno degli n individui che compongono Ĉ . Supponiamo che la frequenza relativa dell’evento A, m/n, sia uguale a un certo valore numerico l. Supponiamo infine che l’evento A abbia una probabilità costante p di verificarsi a ogni singola prova di Ĉ , ossia che p sia la probabilità che un membro di Ĉ, arbitrariamente scelto, valuti come “bello” l’oggetto Ω. Allora, si ha: l=p.
Dimostrazione: Supponiamo, senza perdita di generalità, che la società Ĉ , considerata nella sua interezza, applichi l’etichetta “brutto” all’oggetto Ω se e solo se il rapporto m/n risulti un numero uguale o minore del valore l. Indicando con P(A) la probabilità che l’evento A si presenti in una data prova di Ĉ, si ha:
P(A) = p.
Si noti inoltre che la frequenza relativa, m/n, dell’evento A ammette, per il lemma 3.1, un unico valore numerico possibile: l. Sia allora E l’evento certo: «A si è presentato m = n*l volte nelle n prove di Ĉ», dove n, come abbiamo ipotizzato, è il numero totale delle prove di Ĉ, i.e. il numero degli individui anomici che formano l’aggregato Ĉ.
Per cui, se si denota con P(A/E) la probabilità dell’evento A supposto verificato l’evento E, si può scrivere: P(A/E) = P(A) = p.(3)
D’altra parte, poiché la probabilità p dell’evento A rimane costante per tutte le n prove indipendenti di Ĉ, si ha anche, applicando un teorema noto come distribuzione binomiale17, che
P(A/E) =, da cui semplificando si ottiene: P(A/E) = (m/n) = l18. Mettendo insieme la (3) e la (4), abbiamo che: l= p. Vale quindi il teorema. Il teorema 3.1 fornisce un significato oggettivo delle attribuzioni di probabilità estetica che vengono effettuate all’interno di una comunità Ĉ fatta da uomini anomici, permettendoci così di applicare il calcolo delle probabilità a casi pratici.
Precisamente: in ogni possibile sequenza formata da tutte le prove di Ĉ, in ciascuna delle quali la probabilità dell’evento A è costante e pari a p, la frequenza relativa di A risulta uguale alla sua probabilità p.
Il fatto che tale probabilità, per definizione, dipenda dall’epoca, dalla situazione economica e sociale e dai dettami estetici della comunità di uomini anomici a cui il giudicante appartiene – e.g., la percentuale di chi etichetta come “bella” una donna dalle tipiche forme femminili piuttosto evidenziate è oggi, che facilmente si associano la parole “bella” e “magra”, molto ridotta rispetto a quella che si sarebbe riscontrata qualche secolo fa quando si valorizzava particolarmente la funzione materna della donna – sembrerebbe spiegare perché il credo estetico che l’uomo accetta è oggi, con rare eccezioni, lo stesso professato dalla società in cui vive.
La società di anomici fa allora sì che alcuni suoi atteggiamenti abitualmente affermati –in questo caso i canoni estetici –trovino luogo di manifestazione nella persona comune, che non riflette più sul contenuto delle regole ma le applica meccanicisticamente e senza riserve. L’assenza di scrupoli di coscienza, di esitazioni, la mancanza di un proprio pensiero rende l’anomico un uomo mediocre e superficiale inserito all’interno di una cultura esteticamente egemone che tende a escludere le diversità e a favorire l’intercambiabilità delle scelte e degli individui19.
Queste brevi considerazioni ci inducono ad azzardare la seguente ipotesi.
La lontananza dalla vera realtà e la carenza di idee estetiche proprie potrebbero divenire i presupposti fondamentali di una visione e tentazione totalitaria della bellezza, la quale, essendo anelito di potenza, potrebbe per questo essere abilmente utilizzata come strumento di trasmissione di una pedagogia della violenza, del dominio, della più disumana barbarie.
L’irriflessività dell’uomo anomico potrebbe cioè costruire un mondo nel quale vengano privilegiate tutte quelle prevedibili forme d’arte che possano porsi al servizio del consolidamento del potere ideologico di turno a discapito di quell’arte che invece crea armonia, consapevolezza, crescita interiore, dandoci quel quantum di energia spirituale che dona pace, serenità, entusiasmo e trasparenza.
Questa curiosa prospettiva, tanto pericolosa quanto plausibile, sembra trovare riscontro nelle parole del filosofo H. Marcuse, il quale, indirizzando un messaggio alle nuove generazioni li ammoniva a soffocare la deriva malata della bellezza come bisogno di potenza, esprimendosi così in una intervista uscita postuma:
Non si devono rifiutare, in nome della violenza astratta e feroce, l’amore e la visione poetica, lirica del mondo, qualificando l’arte, la cultura, lo spirito come cose reazionarie. È una vera e propria aberrazione. Se si è arrivati a questo punto è perché da un secolo ci si è
dimenticati della dimensione estetica, la sola che possa assicurare la rivoluzione del XX secolo, la sola che sia in grado di galvanizzare un mondo avido di pensare, amare, contemplare20
Conclusioni
Abbiamo raggiunto l’obiettivo che ci eravamo prefissati, ossia il sostenere la tesi secondo cui l’esperienza estetica si fonda su una tipica relazione che intercorre tra i viventi e i difetti nel mondo e che consiste nel netto rifiuto che i primi oppongono ai secondi, nella assoluta voglia dei mortali di respingere tutto ciò che ritengono sia per loro sgradevole, un difetto appunto, cercando di annullarlo, di allontanarlo o di riorientarlo verso il piacere. L’attribuzione delle etichette “bella”, “non-bella”, “brutta” e “non-brutta” si spiega perciò in riferimento a un senso che travalica l’apparenza esteriore alla quale esse si applicano.
La bellezza è infatti sinonimo di potenza, di perfezione, di poter fare tutto ciò che di possibile si vuole, attributi questi che però competono in generale e in concreto solo al magnifico, all’utopico, al divino. Essa è davvero, come si fa dire a Platone, «una incarnazione di Dio» 21 , giacché, pur essendo umanamente percepibile, si configura come una proprietà dell’Assoluto, legata inestricabilmente alla Sua Onnipotenza e alla Sua somma e insuperabile capacità di creare. Nell’illimitata potenza di Dio l’uomo non vede qualcosa di avulso da lui, ma, pur estraniandosi da sé stesso, trova in essa la propria vocazione originaria, il soddisfacimento della sua più profonda aspirazione. Per cui possiamo pensare il bello come qualcosa di finto, perché in contrasto con la realtà che ci circonda e ci confisca, e attribuire al suo contrario, il brutto, la capacità di cogliere la parte spiacevole del reale senza bisogno di false mediazioni 22 . La dimensione della bellezza, che è presente in ogni lavoro artistico, non è dunque mai del tutto fine a sé stessa ma costituisce sempre, più o meno
palesemente, una specie di via pulchritudinis, una sorta di ascesa dall’umano al divino, un percorso glorioso che ci fa approdare a una chimerica e ineguagliabile potenza, al suo perfetto disegno e alla sua opera. Più l’uomo avverte il carico e le difficoltà dell’esistere, più è sensibile al seducente fascino della bellezza che l’arte gli pone dinnanzi, immergendolo in un mondo di sogno nel quale gli è resa credibile l’illusione di poter uscire dalla sofferenza terrena o da una vita non voluta o progettata come tale.
L’arte, rappresentando il mezzo creativo per eccellenza, diviene così lo strumento più idoneo e ambìto per portare all’espressione la nostra avidità di potenza, l’irrefrenabile desiderio di poter compiere quello che vogliamo, il nostro bisogno-diritto di essere liberi, indipendenti da qualunque circostanza o considerazione e da ogni ragionamento. L’opera d’arte è allora ciò in cui si rende manifesto l’inganno di una comune o privata occasione di insospettata potenza verso questa o quella restrizione, verso questa o quella aporia, nel senso che esprimendola si riesce in qualche modo a possederla, a disporne, a saziarcene; l’uomo riceve così compiacimento dall’impressione di una conferma o di nuova conquista che gli arride.
L’incarico dell’arte è pertanto quello di trasmettere un messaggio e il messaggio è che l’oggetto artistico è una specie di finestra che, sebbene sia posta nel sensibile, ci spalanca la percezione di qualcosa di abissale, di noumenico che non possiamo né conoscere né raggiungere interamente. Ogni forma d’arte è una porta schiusa dal fisico al metafisico, ma a un metafisico che non viene esplicitato. Quindi, non c’è passaggio dalla bellezza sensibile alla bellezza intelligibile; si resta nell’intelligibile, ma, per così dire, con una specie di collasso del sensibile. Ciò che chiamiamo “arte” non ha nulla a che fare con il sensibile.
Detta in altri termini, la vera funzione dell’arte è quella di essere un accumulatore e diffusore di forza ad alto contenuto energetico, lo
stupefacente in grado di placare per qualche minuto la nostra brama di potere, emancipandoci fittiziamente dalle proibizioni che ci sono imposte dall’impotenza umana, affrancandoci dall’impossibilità di soddisfare pienamente i nostri bisogni e desideri, e tutto ciò facendo passare per concreto, attraverso la verosimiglianza o la finzione ciò che in effetti non è fisico ma ultrasensibile; l’opera d’arte è la nebbia oppiacea nella quale possiamo rifugiarci e rinfrancarci prima di tornare con i piedi per terra, all’aperto, prima di ritrovarci in quello che il Pascoli, «nel suo celebre componimento X Agosto non esitò a chiamare “atomo opaco del male”»e cioè nel nostro mondo reale. Ora, se si ammette che la bellezza abbia nell’Eterno la sua autentica dimora e che l’arte sia quindi una fonte di comprensione capace di «mostrarci Dio dentro ogni cosa» 23 , un mezzo atto a esprimere la nostra tensione verso l’appetita pienezza, verso l’Onnipotenza,sorge subito il seguente e interessante interrogativo: È ragionevole credere nel Dio dei cristiani, il quale è a un tempo Onnipotente e creatore? Sì, lo è.
L’uomo, infatti, nel suo vivere quotidiano, capta e sperimenta una realtà immediatamente ostile: i difetti nel mondo. Guardando l’ambiente che lo circonda, egli lo trova dominato dall’ingiustizia e dall’incongruenza, pieno di cose incomprensibili; la vita è difatti qualcosa di duro da conquistarsi faticosamente, in cui non sembra esserci neanche un nesso chiaro tra capacità e riuscita, impegno e risultati.
Il fatto che il mondo comporti queste illogicità, come si è tentato di mostrare nella prima sezione di questo scritto, ha una spiegazione che va oltre la volontà umana, che è metafisica, e che l’unica possibilità di eliminarle risolutivamente comporta la cancellazione dall’apparire dell’esistente-uomo, dell’unico essere vivente che sa di dover morire; questo sapersi mortale insieme con la constatazione del carattere insignificante e assurdo della realtà sensibile, che ha l’ineluttabile sofferenza dell’innocente come caso emblematico, lo
sprona a cercare un senso della propria esistenza che oltrepassi il semplice stare al mondo, che gli consenta di vincere contro le oppressioni che gli impone la vita e verso le quali nutre una contrarietà congenita. La consapevolezza di non poter risolvere in modo esaustivo questo enigma ci orienta verso il mistero: se c’è un Dio Onnipotente, sommo creatore e dunque unico, come si è posto e come si pone nei confronti dell’uomo, l’unico tra gli esseri viventi che palesa l’esigenza di una risposta ai suoi quesiti esistenziali?
Non ci sembra plausibile pensare che l’eventuale Dio Onnipotente sia rimasto impassibile davanti ai difetti nel mondo, contemplando le cose fuori dalla mischia, e neanche poteva annientare l’intera umanità perché avrebbe distrutto tutto ciò che di importante aveva creato nell’esistente. Ci sembra invece ragionevole supporre che questo Dio non abbia voluto lasciare l’uomo smarrito di fronte ai difetti nel mondo. Egli certo non poteva compiacersi del Suo stato di beatitudine assoluta, mentre l’uomo restava perduto nella sua condizione terrena segnata dal dolore e dalla morte. La domanda è obbligata: ma in che modo?
La risposta che proviamo a dare è paradossale. Pur avvertendo che l’umanità sarebbe stata soggetta inevitabilmente ai difetti nel mondo, Dio ha voluto crearla lo stesso, non risparmiando così gli uomini dalla certa sofferenza. I motivi di questa scelta vanno forse ricercati nel fatto che i difetti sono solo un aspetto marginale rispetto alla magnificenza dell’opera della creazione (che a oggi comprende anche l’uomo), ma non potremo mai conoscerli nei dettagli per l’ovvia ragione che ciò che è finito e impotente, l’essere umano, non potrebbe mai capire totalmente l’infinita potenza, cioè Dio.
Poiché i difetti sono inscritti nella stessa struttura della realtà creata, nella natura delle cose, Dio, se è l’autore dell’esistente, non può non sentirsi responsabile verso gli uomini, nel senso che vuole il loro benessere, li vuole sereni e gioiosi. Egli ha di sicuro avvertito la necessità di dover fare qualcosa per loro, per non abbandonarli
in balìa dei difetti del mondo, e di doverlo fare subito a partire dall’atto stesso di creazione e a causa dello stesso atto di creazione. Non rimaneva che la via del “sacrificio d’amore”, dell’«Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo (Ap 13,8)», cioè di un dono fatto in risposta al bisogno dell’uomo di felicità, di dare un significato agli eventi negativi che caratterizzano la sua vita. Infatti, il creare implica il bello e dunque l’amare e il prendersi cura, e quando si ama c’è l’esigenza di condividere il dolore dell’amato, anche il più atroce, nella speranza di renderglielo più sopportabile.
Ed è allora, proprio qui che scatta la grande avventura di Dio, che in Gesù Cristo non s’accosta solo all’uomo ma diventa uomo e quindi si avvia a percorrere la lunga galleria oscura della passione e della morte, trasformandosi così in autentico compagno del nostro viaggio esistenziale24. Con la “incarnazione” mediante il Figlio Gesù Cristo, divenuto vero uomo, Dio è entrato nella nostra storia e ha attraversato il male, il dolore, la morte assumendone l’essenza e indossandone la pesante livrea, vivendoli e sperimentandoli autenticamente in sx25.
Similmente a una madre che, pur sapendo che il figlio che le sta per nascere sarà portatore di handicap grave, non lo sopprime ma decide consapevolmente e lealmente (i.e., non per fini egoistici ma per ciò che ritiene sia il meglio) di farlo nascere. La madre, se ama il figlio, si sentirà responsabile per averlo dato alla luce in quelle sciagurate condizioni, si sacrificherà per lui e spenderà il proprio tempo per assisterlo. Vorrebbe far sua la sofferenza del figlio, abbracciandola, vivendola sulla propria pelle, per essere di massimo conforto al figlio mostrandogli un amore più grande. Ma non può. Lei, al contrario di Dio, non è Onnipotente ma solo un semplice essere umano, fragile e limitato.
Con l’introduzione del concetto di uomo anomico, abbiamo infine spostato il peso dell’argomentazione sull’intersoggettività, sul sentire comune, rendendo così il gusto estetico di ciascuno un
qualcosa di soggettivamente universale, una caratteristica adattabile ed estendibile a una intera sfera di giudicanti. Il potere della civiltà dei consumi sta in effetti superando ogni ideologia del passato nella sua capacità di distruzione degli uomini come individui e delle realtà particolari. Ne consegue che la bellezza smette di oscillare tra i due estremi dell’oggettività ideale e del piacere individuale, divenendo una proprietà che si riferisce solamente a quell’ardente desiderio di potenza, a quel gusto e a quello scopo che deve soddisfare e cioè a quei canoni estetici stabiliti dalla collettività in cui noi, sempre più uomini anomici, siamo inseriti. Grazie a questa forma di oggettivazione del gusto, i giudizi estetici formulati dalle singole persone sono così soggetti a significativi cambiamenti e virano seguendo quasi esclusivamente le dinamiche valoriali delle società a cui appartengono. Alcune personalità di spicco della critica d’arte hanno approfondito lungo la storia i principali temi dell’estetica, nel tentativo non tanto di dare conoscenze quanto di trasmetterci le proprie emozioni, di prospettarci il loro punto di vista nei confronti dell’insieme. Non è ciò che si è cercato di fare in queste pagine. L’intenzione di scrivere quest’articolo non nasce infatti dall’esigenza di affermare alcune idee, né tantomeno di esibire una determinata interpretazione dell’opera d’arte, ma è quella di riflettere e meditare su un fatto saliente della necessità espressiva dell’uomo guardandolo da una prospettiva razionale. D’altronde il compito degli analitici è proprio quello di indurre a occuparsi di problemi dettagliati e circoscritti, raccomandando uno sforzo di chiarezza e di rigore argomentativo che forse il nostro moderno pensare ha smarrito.
NOTE
1
Per cosa o oggetto intendiamo qui semplicemente ciò che è, che appare nel mondo.
2 Per vivente intendiamo qui ciò che esiste, il mortale, cioè colui per il quale il poter morire non è solo un modo di essere che caratterizza strutturalmente la sua condizione di esistente, ma costituisce anche e soprattutto il fondamento ontologico del suo esserci, del suo esistere.
3 Va precisato che, necessariamente, si può avere o agognare la potenza sufficiente per realizzare (fare) ciò che si vuole solo se tale volere non coinvolge una contraddizione logica; sarebbe impensabile il contrario, visto che tutto ciò che è contraddittorio non può essere reale.
4 Cfr. JACQUES MARITAIN, Man and State, Chicago, University Chicago Press, 1951.
5 Cfr. ROSARIO D’AMICO, IlDioParadossaleelaCongetturadiGoldbach, Messina, Di Nicolò Edizioni, 2018, 6–44, ma anche ERIC FROMM, Dalla parte dell’uomo. Una indagine sulla psicologia della morale, Roma, Astrolabio-Ubaldini, 1971 tr. it. Man for himself. An inquiry into the psychology of ethics, New York, Rinehart, 1947, 20.
6 La comparsa della cosiddetta medicina preventiva è un esempio emblematico del fatto che la possibilità che si abbiano difetti nel mondo sia essa stessa un difetto nel mondo. Nessun individuo infatti intraprenderebbe delle azioni o delle attività precauzionali, come i controlli sanitari, se non volesse contrastare la possibilità di ammalarsi, se non temesse il rischio di contrarre alcune gravi patologie e quindi cercasse di eliminarlo o ridurlo il più possibile.
7 Tale vivente infatti, in quanto Onnipotente, potrebbe decidere di destinare definitivamente la sua accidentale Onnipotenza a un altro essere reale senza quindi che con ciò venga compromessa l’identità di questi due attori; tuttavia il soggetto ricevente, divenendo Onnipotente, si porrebbe nella condizione di poter respingere a sua volta la somma potenza conferitagli, inficiando così il volere Onnipotente del conferente.
8 Questa precisazione vuole soltanto ricordarci che la Bibbia non possiede una risposta esaustiva al perché dei difetti (del male) pur riconoscendone l’effettiva presenza nel mondo. Il libro della Genesi, avvalendosi opportunamente del serpente – essere per sua natura insidioso, improvviso e imprevedibile – come simbolo del male, ci dà la certezza che i difetti non possono mai venire da Dio, dall’Onnipotente, ossia che ciò che Dio crea non può che essere buono, bello e utile e ciò che è deprecabile, negativo non viene da Lui. Quanto appena affermato è così in accordo con la tesi qui sostenuta secondo la quale Onnipotente è l’essere che non può subire ciò che è contro il Suo volere – e quindi contro il benessere/volere di ciò che Egli crea – ed è perciò l’essere la cui sostanza è logicamente incompatibile con quella dei difetti nel mondo.
9 Un ente è, per noi, quella sottoclasse dell’apparire che è identificata dalle proprietà sostanziali comuni a ogni singola cosa in essa contenuta. Ad esempio, l’uomo è un ente, perché il termine «uomo» individua una classe non vuota di cose concrete accomunate da una certa proprietà essenziale, ossia da una proprietà (e.g., «essere un animale razionale») che ci consente di sapere cosa significa essere un uomo senza dover ricorrere ad esempi reali di uomo, senza dunque dover essere in grado di enumerare quali elementi dell’esistente sono uomini e quali no.
10 GIANFRANCO RAVASI, L’armonia è l’altro volto del bene, «L’Osservatore Romano», 24 ottobre 2009.
11 PLATONE, Simposio, a cura della redazione del Giardino dei Pensieri, Il Giardino dei Pensieri, 2012, 96.
12 Si ricordi che la teoria delle probabilità si serve di affermazioni del tipo P(E) = ɛ, dove E rappresenta un qualsiasi evento e ɛ un numerale. Per evento intendiamo qui una circostanza di cui si può sapere se si è o no verificata, cioè un qualcosa che è descrivibile da una proposizione della quale si può dire se è vera o falsa. L’espressione «P(E) = ɛ» va letta come: «la probabilità di E è ɛ». Introduciamo ora un altro evento indicandolo con la lettera T. Ciò permette due nuovi accostamenti di simboli: EνT e E&T ciascuno dei quali rappresenta un altro evento. L’evento EνT corrisponde al verificarsi di tre distinti casi: E, o T, o E e T, mentre l’evento E&T corrisponde al verificarsi dell’unico caso: E e T. Questa presentazione delle probabilità è completata con le seguenti quattro regole di base:
1. P(E) ≥ 0;
2. P(-E) = 1-P(E), dove -E è l’evento che corrisponde alla mancata realizzazione dell’evento E;
3. Se E e T sono eventi incompatibili, si ha: P(EÚT) = P(E) + P(T);
4. P(E&T) = P(T)*P(E/T) = P(E)*P(T/E), dove P(E/T) [P(T/E)] è «la probabilità dell’evento E (T) supposto che si sia verificato l’evento T (E)».
Tutte le altre regole del calcolo delle probabilità possono essere derivate da queste attraverso un ragionamento esclusivamente logico-matematico.
Cfr. DAVID RUELLE, Hasard et chaos, Paris, Edition Odile Jacob, 1991, tr.it. Caso e caos, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2003, 22–27.
13 AGOSTINO BAGORDO, Ionesco o l’inquieto cercatore di luce, «La scuola e l’uomo», 31 (1974), 19–21.
14 Cfr. SIDDHANTH MOOKERJEE, YANN CORNIL, JOANNA HOEGG, From Waste to Taste: How “Ugly” Labels Can Increase Purchase of Unattractive Produce, in Journal of Marketing Vol. 85(3), 2021, 62–77.
15 Cfr. NOEL CARROLL, The Philosophy of Horror or Paradoxes of the Heart, New York, Routledge, Chapman and Hall, Inc., 1990.
16 Infatti, per quanto detto al paragrafo 1, una cosa è valutata come “brutta” se e solo se costituisce o implica un difetto nel mondo, cioè se e solo se essa è qualcosa la cui presenza e possibilità di essere (nel mondo) sono in netto contrasto con il volere e dunque con l’interesse del giudicante. Ma, se sia l’esserci che quindi il poterci essere di un certo oggetto fossero o meno difetti nel mondo, allora, per ciò stesso, entrambi non potrebbero che essere etichettati rispettivamente come “brutto” o come “non-brutto”.
17 Cfr. MURRAY SPIEGEL, ALU SRINIVASAN, JOHN SCHILLER, Schaum’sOutlineof TheoryandProblems of Probability and Statistics, New York, The Mc Graw-Hill Companies Inc., 2000.
18 Ricordiamo che con n! si indica il fattoriale del numero naturale n, cioè il prodotto dei numeri interi positivi uguali o minori di n, dove n è un elemento dell’insieme ℕ* = {1, 2, 3, …, ν, …}.
19 Cfr. H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Einaudi editore, 2009, tr. it. The Origins of Totalitarianism, Schocken Books, 1951.
20 L’intervista può essere letta sul quotidiano «la Repubblica» del 5–6 Agosto 1979. Vedere anche HERBERT MARCUSE, La dimensione estetica, Milano, Mondadori, 1979.
21 SIMONE WEIL, Quaderni, volume quarto, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1993, 371.
22 Cfr. THEODOR LUDWIG ADORNO, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975.
23 HERMANN HESSE, Klein und Wagner, 1920, tr. it Klein e Wagner, in Romanzi, Milano, Mondadori, 1977, 549–552.
24 GIANFRANCO RAVASI, Guida ai naviganti. Le risposte della fede, Milano, Arnoldo Mondadori, 2012, 75.
25 Ibidem, 80.
BIBLIOGRAFIA
ADORNO THEODOR LUDWIG, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975
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