PHRONEIN Comune a tutti è il pensare
Rivista filosofica semestrale
Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche Numero 32
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Trimestrale di poesia, critica e letteratura Supplemento del n. 94 (giugno 2019) Direttore: Giuliano Ladolfi (direttore responsabile) Direttore editoriale: Matteo Fantuzzi Direttrici Atelier online: Clery Celeste ed Eleonora Rimolo Direttore supplementi internazionali: Francesca Benocci Coordinatore redazionale: Chiara Bernini Direttore marketing: Giulio Greco Direttore Editoriale di Phronein: Mario Guarna
Redazione: Francesco Iannitti, Stefania Lombardi, Riccardo Roni, Giuseppe Scarciglia Comitato scientifico: Ubaldo Fadini, Riccardo Roni Copertina realizzata da Daniele Rizzuti Direzione e amministrazione C.so Roma, 168 - 28021 Borgomanero (NO) - tel. e fax 0322835681 Sito web: http://www.atelierpoesia.it indirizzo e-mail: redazione@atelierpoesia.it Autorizzazione del tribunale di Novara n. 8 del 23/03/1996.
Associazione Culturale “Atelier”
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INDICE
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Filosofollia Mario Guarna
15 L’educatore assoluto Fabio Fineschi
25 Dove abita il bello? Stefania Lombardi
33 Gli autori
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MARIO GUARNA FILOSOFOLLIA La comprensione del senso e del non senso
Premessa Ho coniato il termine “filosofollia”, perché sono convinto, che la follia possa riempire quella parte mancante, che la filosofia rifiuta attraverso la ragione calcolante ed esclusiva. Ragione e follia devono essere com-prese dalla filosofollia, come le differenti, ma inseparabili, facce di una stessa medaglia. Non esiste la possibilità ultima che uno dei due abbia la meglio sull’altro, per il fatto che essi sono assai più come due amanti abbracciati che non due contendenti in lotta. Ragione e follia sono intimamente interattivi, nel senso che ciascuno dei due elementi non può sussistere senza l’altro e che senza perennità, che li rende interdipendenti, non vi sarebbe un pensiero esauriente. La peculiare con-vivenza che scandisce lo scambio dei due illustra l’unità sostanziale del confilosofare, perché l’una non si somma all’altra, bensì è presente nell’altra, e, quando una delle due s’impone, l’altra resta comunque potenziale e necessaria.
Introduzione
“O caro Pan, e voi tutti che di questo luogo siete Iddii, concedetemi che sia bello io di dentro, e che tutto quel che ho fuori si con5
cordi con quel di dentro; e ch’io reputi ricco il savio; e ch’io abbia tant’oro, quanto ne può solo portar seco colui che è temperato” (Platone, Fedro, Milano, Mondatori, 1993). Questa è la preghiera che Socrate, alla fine del Fedro, pronunzia al dio Pan, affinché lo aiuti a conoscere se stesso e a porre fine al senso d’ignoranza circa la sua propria vera natura. Perché Socrate si rivolge proprio al dio Pan, al fine di ottenere la conoscenza di sé? Pan è sia il dio della natura dentro di noi sia della natura esterna. Come tale, è la configurazione che fa da ponte e impedisce alla ragione di scindersi in metà sconnesse, divenendo così il dilemma di una natura priva di follia e di ragione senza natura, l’esistenza irrazionale là fuori e le procedure della ragione dentro di noi. Pan e le ninfe comprendono allo stesso tempo ragione e follia. Essi dicono che i momenti irrazionali sono riflessi nella ragione: dicono che la ragione è follia. Ogni filosofia che non riconosca l’identità di ragione e follia quale è presentata da Pan, preferendo un versante all’altro, non può conoscere se stessa. La filosofia deve riconoscere che la “follia ingenua” di Pan e le sue “depravazioni comportamentali” appartengono anch’esse alla ragione. Questa nuova visione, che dà a Pan quanto gli è dovuto, può portare quella bellezza per la quale Socrate prega. E, comprendendo Pan nella sua congruenza, il dio capro può concedere la consacrazione che Socrate, e tutta la filosofia occidentale, cerca, dove ragione e follia sono una sola cosa.
1. I concetti di ordine e disordine nella filosofia occidentale Il conflitto più alto, che ha tormentato la filosofia occidentale, è stato il laceramento tra l’ordinato incidere della ragione che con6
sente di abitare in un mondo ordinato e definibile, e l’insorgenza dell’irrazionale che spezza quel mondo, disarticola l’esistenza e dissolve i limiti del paesaggio indistinto dello spaesamento. L’irrazionalità che abita il profondo della follia rimanda infatti a un’esperienza più enigmatica e misteriosa. La follia è parola senza linguaggio e senza una voce parlante, principio indicibile di ogni senso e di ogni non senso. Qui si scopre la debolezza della filosofia, la follia non si svela al raziocinio, ma la si avverte nel rapporto che il pensiero intrattiene con il senso dell’indefinibilità del suo essere. La follia perde il suo senso, quando è analizzata dal sapere che cerca di definire l’indefinibile, come il rapporto di esclusione da parte della ragione nei confronti della follia, per cui dove c’è ragione non c’è follia. La ragione s’impone, la sua capacità di dominio si trasforma così in rappresentazione di un ordine necessario e, siccome non si conosce altro riassetto delle cose e dei segni che non sia compiuto dalla ragione, l’ordine di questa diventa rappresentazione dell’ordine come tale. Non più in grado di compromettere il cammino della ragione, semplicemente perché non le appartiene, la follia rimane latente alla comprensione filosofica. Il pensiero filosofico appartiene alla ragione, dubbio, ironia, scetticismo e critica. Incominciano, infatti, solo dove c’è ragione, e precisamente da quella ragione astratta, che proprio in forza della sua astrazione, si rende immune alla follia. Nella profondità del filosofo, pertanto, non c’è opinione che non sia ambivalente, non c’è passione che non sia dissolvenza di un ordine. L’inconscio offre nel desiderio passionario la rappresentazione dell’ambivalenza e della dissolvenza, dove la follia si esprime non appena la ragione dimette il suo controllo. Ciò è conferma evidente che la ragione si risolve nel suo esercizio e non ha altra esistenza se non nella reiterazione della sua azione. 7
Ed è spassionata proprio perché nasce dal governo delle passioni dell’anima, dal divieto che essa pone al loro irrompere incontrollato. La ragione altro non è che “un certo rapporto degli impulsi fra loro”. Un “giustificato dominio” ha di un balzo oltrepassato le ingenue metafisiche che ancora alimentano le dottrine psicoanalitiche. La storia della ragione ha provveduto a liquidare quelle nozioni di anima e di “io”, su cui esse ancora costruiscono i loro edifici. Non c’è infatti follia se non nei vuoti di ragione, così come nei sistema di regole che consentono di ordinare la polivalenza dei segni di cui si alimenta la follia.
2. L’iscrizione della follia Se nelle pagine precedenti la follia è stata presentata come il contrario della ragione, ora essa viene inserita in un sistema composto da regole e deroghe in cui la ragione trova la sua conferma. Esiste una follia ingenua, che va al di là delle norme e delle deroghe, essa viene prima di quest’ultime; di essa non c’è filosofia che possa circoscriverla, perché questo sapere appartiene all’ordine della ragione che detiene quel teorema, che sa de-finire le cose riuscendo così a risolvere l’ambivalenza.
2.1 Il sacro come giurisdizione della follia Se la filosofia non riesce a conoscere e interpretare la follia, l’unica che può riuscirci è la religione attraverso il linguaggio simbolico. Quest’ultima circoscrive la follia nell’area del sacro e allo stesso tempo la distanzia dalla comunità degli uomini e la rende accessibile attraverso rituali disciplinati. Il sacro ha creato le condizioni perché gli uomini potessero istituire un spazio della s-ragione, il solo che 8
può essere frequentato, senza che il fondo del caos venga rimosso, e aprire uno spiraglio terribile verso la fonte enigmatica che chiama in causa il principio stesso della ragione, perché è da quel mondo che provengono le parole che poi la ragione ordina in modo non profetico e non enigmatico. La ragione racchiude queste locuzioni nel “principio d’identità” e nel “principio di contraddizione”, per cui “se questo è questo, non è altro”: principi disgiuntivi che vietano che una cosa sia “questo è al tempo stesso anche altro”, come prevede il linguaggio simbolico, di cui si alimentano i racconti sacri. La ragione è impossibilitata, a causa di questi principi, di esclamare che uno stesso soggetto è Dio e uomo, che è buono e cattivo, che è reale e al tempo stesso astratto, come il linguaggio simbolico non cessa mai di confermare. Il dio, che dimora nell’area del sacro, non ha e non mantiene una identità de-finita, perciò si concede alle metamorfosi più svariate senza fedeltà e senza memoria. Il dio è buono e cattivo, maschio e femmina, reale e astratto, incarna forme diverse ogni volta che l’esigenza lo reclama. Il sacro diviene così uno scenario indistinto, luogo dell’ambivalenza, che può essere abitato solo attraverso il simbolo (accomuna le differenze), dove non esiste l’esclusività e dove non viene riconosciuta la differenza. Per questo motivo le regole distanziano la ragione dal sacro.
2.2 L’ingenuità della follia nel mondo della vita Ammaestrati come siamo dalla ragione esclusiva, siamo abituati a percepire l’ingenuità come un concetto, che è rimasto nell’infanzia della filosofia occidentale. La religione, attraverso il suo linguaggio simbolico, non scarta l’ingenuità della follia, anzi la ospita e la svela attraverso il sacro. Questo perché la religione non ha smarrito l’in9
nocenza originaria, cosa che la classificazione della ragione ha fatto, catalogando la vita come una enciclopedia. Frugando nell’enciclopedie delle identità, a cui è giunto il progresso discriminante della filosofia occidentale, non ci è dato di incontrare la follia originaria come noi la viviamo, ma solo quella sfilza di termini sviliti che declamano gli epitaffi del formulario con cui di volta in volta la si è oggettivata. Come abisso da circoscrivere, come impulso da frenare, come inquietudine da rasserenare, come irrazionalità da amministrare, la follia è sempre disgiunta dalla potenza vitale e si trova a rispettare i confini tracciati dalla ragione che, istituendo le regole, ha de-finito la follia come non-senso. Per questo motivo nella ragione non riusciamo a intravedere la follia come noi la sentiamo e la esperiamo. Qui la dialettica della ragione è manchevole, perché la follia che speriamo, non può essere com-presa da una concezione che è tale solo per quello che riesce a catalogare e de-finire. A questo punto ci può illuminare solo la vita, dove la follia non è ancora tarchiata di iscrizioni, ma solo spontaneità, che ha nello scorrere vitale la sua congruenza e la sua adeguatezza.
2.3 La dissonanza della follia La ragione prova inquietudine verso ciò che non riesce a comprendere e giustificare. Ecco perché vede la follia distinta da se stessa e si difende tracciando confini e alzando barricate. La follia viene così internata nel luogo del sacro e si può solamente proclamare attraverso il linguaggio irrazionale dell’arte. Una volta neutralizzata attraverso la circoscrizione in ambiti lontani dalla ragione, viene ri-condotta alla dimensione dell’assurdo, della contraddizione e dell’irrazionale. Per mantenere la propria identità, la ragione ha bisogno di co10
struirsi una realtà è un simulacro della diversità. La ragione non riesce ad avere un’identità se non crea un procedimento di identificazione ed esclusione di tutto quello che non riesce a ri-conoscere, de-finire e dirimere. La ragione in questo processo eccentrico è come un essere ipocondriaco che costruisce e abita un rifugio, assillato da un’unica idea che qualcuno dall’esterno possa penetrarvi. Escogita ogni sorta di sistemi di sicurezza, lo trasforma in labirinto trascendentale che solo lui conosce e sa percorrere. In questo contesto l’altro (la follia), che resta fuori, non mette in sicurezza la ragione, ma la paralizza diventando il suo tormento: la limita perché la s-confina, la tiene reclusa, la scruta rivelando il suo stato fobico e maniacale, mettendo così in crisi la sua identità. Quale può essere la soluzione affinché la ragione non rimanga reclusa nel suo rifugio e possa aprire la porta per ospitare la follia?
3. Senza partito preso: filosofollia Non appena il pensiero è considerato separatamente e vengono a formarsi il razionale e l’irrazionale, ci sono “ragione” e “follia”. Dal momento in cui la filosofia si distingue dalla vita considerata nel suo insieme, il pensiero fa sorgere una dualità di punti di vista: vi è ciò che è visto dalla follia e ciò che è visto dalla ragione, ciò che è visto dal lato razionale e ciò che è visto dal lato dell’irrazionalità. Di qui derivano l’esclusività della conoscenza occidentale e, di conseguenza, la sua parzialità. La filosofia conosce secondo la prospettiva della ragione, essa conosce dal un lato selettivo; dal momento in cui è presa nel confronto diretto tra ragione e follia, la filosofia è indotta all’opposizione e la ragione afferma come “razionale” ciò che vede dal suo lato e respinge come irrazionale ciò che si vede solo dal lato della follia. 11
Come si esce dal confronto diretto dei punti di vista, dal faccia a faccia della ragione e della follia? La soluzione potrebbe e dovrebbe essere la “filosofollia”, che da una posizione indistinta sappia cor-rispondere alla richiesta della situazione, una posizione che ingloba tutte le posizioni possibili e l’attenzione posta alla congruenza come modo particolare di adeguamento. Ciò comporta co-incidere con ogni prospettiva che si presenta, tanto quella della ragione quanto quella della follia, poiché, invece di dissociarsi, le due prospettive si mettono in contatto in questa non differenziazione che è la filosofollia. Senza che la ragione o la follia abbiano l’esclusiva, la filosofollia è come l’asse di una ruota, che gira sempre dal lato opportuno; per essa tutti i versanti sono uguali e anzi non c’è propriamente un aspetto, dal momento che il giro si compie per intero. E ciò è possibile solo perché l’asse non ha posizione fissa, ma mutevole nella sua fissità, può costantemente dinamica, perché non vi è nulla che predetermini il movimento, né regole né calcoli, perché ciò che è propria dell’asse è quello di non implicare nulla come sua volontà, ma di corrispondere ogni volta solo all’istanza del momento: tutti caratteri che determinano la congruenza rispetto alla idea di verità della filosofia occidentale. Vi sono dei tranelli che minacciano le filosofie che vogliono liberarsi dei giudizi esclusivi: rinunciare alle disgiunzioni è ancora disgiuntivo. Dato che, rifiutando l’esclusività, si ripropone, per il solo fatto del rifiuto, l’operazione rifiutata, il gesto è contraddittorio. Per non ricadere nel tranello dell’esclusività proprio per il rifiuto dell’esclusività, non bisogna fissarsi al principio della non-esclusività, proprio come non ci si deve innestare a quello dell’esclusività: non arrestandosi su alcuna delle due posizioni, si resta ugualmente aperti a entrambe e la loro esclusione si annienta. Non si tratta di risolvere il contrasto dialettizzando la ragione e la follia per trovare un livello superiore ad essi nella quale ritrovare 12
la loro giustificazione; si tratta invece di non elevare nessuna delle due in modo di poterle comprenderle liberamente entrambi e di non trovarsi circoscritti da nessuna prospettiva. Ciò che è proprio della filosofollia è che, come l’asse della ruota non resta puntata su nessuno lato, dato che lascia subito tanto l’uno quanto l’altro, è sempre pronta a girarsi verso l’uno o verso l’altro. La filosofollia non deve essere ragione che de-finisce la follia o la follia che sfugge alla circoscrizione della ragione. Sicuramente, essa è composta da ragione e follia.
Conclusione La filosofollia non è un modo di pensare in modo unilaterale, ma pensare ogni volta dall’angolatura dalla quale si dispiega la realtà (in un modo che non è conoscitivo ma comprensivo, in rapporto all’esistenza: la filosofollia sta nel pensare sempre dal versante dal quale è giusto farlo). Il pensiero non deve essere avvenuto, tracciando giudizi sul vero e sul falso, sul bene e sul male, dissociare la vita ovvero contrapporla a se stessa. La filosofollia percepisce ogni volta da dove si manifesta la coerenza, la sua comprensione è euritmica. Invece di pensare in modo inflessibile, restando ancorata alla propria posizione, la sua comprensione volge per “cor-rispondere” a ogni situazione e non smette di “con-formarsi”. Ebbene, invece di arenarsi nelle esclusività, il pensiero può accedere all’“esser così” della vita, senza che ragione o follia vengano esclusi o smarriti a vicenda. Il pensiero “aperto” della filosofollia, il contrario del pensiero avvenuto, si con-forma all’ambivalenza del mondo. È dunque solo se si abolisce la distinzione tra ragione e follia, come visto nella metafora dell’asse della ruota e a partire da quella, che si può ri-scoprire l’immanenza della vita. Nella filosofollia il pensiero si fa “vuoto”: non è occupato dal alcun partito preso, non 13
si lascia circoscrivere da alcun categorico, dunque non subisce l’esclusività. Per completare possiamo annunciare che, se si vuole vedere esaudita la preghiera rivolta da Socrate al dio Pan per “conoscere se stesso”, bisogna abbandonare la via dell’esclusività e inoltrarsi verso l’apertura che conduce all’immanenza della coesistenza.
Bibliografia JAMES HILLMAN, Saggio su Pan, Milano, Adelphi, 2001 UMBERTO GALIBERTI, Il corpo, Milano, Feltrinelli, 1987 UMBERTO GALIBERTI, Orme del sacro, Milano, Feltrinelli, 2000 UMBERTO GALIBERTI, La casa di psiche, Milano, Feltrinelli, 2005 UMBERTO GALIBERTI, I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2009 FRANCOIS JULLIEN, Il saggio è senza idee, Torino, Einaudi, 1998 PLATONE, Fedro, Milano, Mondatori, 1993 PIER ALDO ROVATTI, La follia, in poche parole, Milano, Bompiani, 2000
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FABIO FINESCHI L’EDUCATORE ASSOLUTO
Se il concetto di “società liquida”, coniato dal Sociologo Zygmunt Bauman, con il quale si definisce la consistenza delle società occidentali, è realistico, dobbiamo andare oltre e tentare di comprenderlo al meglio. Sappiamo che tra le proprietà dei liquidi vi è quella di assumere la forma dei recipienti che li contengono. Volendo proseguire nella metafora, potremmo dire che le nostre società “liquide” si adeguano a un recipiente che equivale alla nostra forma mentis, che è sempre più instabile e sempre meno definibile. Quest’ultima si sta avviando sempre di più verso una percezione e una visione della realtà filtrate dalla tecnologia. La tecnologia, ormai, non è annoverabile tra le questioni sociali, ma essa si configura come “la” questione sociale intorno alla quale tutto ruota, economia compresa. La società deve organizzarsi secondo il livello tecnologico raggiunto e a quello futuro. Alla luce della rapida evoluzione degli apparati tecnologici e, in particolare, a quelli legati alla telefonia e all’informatica è opportuno interrogarsi sull’altrettanto rapida mutazione psicosociale alla quale siamo costretti come abitanti di queste società. Tali mutazioni, però, sembrano percepite sempre più come ordinari effetti collaterali di un percorso socio-tecnologico ed economico ineluttabile e inarrestabile. Il progredire tecnologico sta, piuttosto rapidamente, spostando l’asse delle percezioni sociali, a tutti i livelli, dal reale al virtuale: una socialità online. Lo svolgersi della dinamica sociale, in tutti i settori, si sta esportando nella rete, un altrove etereo ed elettronico, che tende al contenimento di tutto e di questo tutto cambia la prassi, i tempi, la misura e il significato. In ragione di 15
quanto detto, molte delle attuali categorie mentali che usiamo per spiegare e spiegarci i fenomeni sociali e individuali andranno riviste o, peggio, abbandonate. Alla luce della situazione sopra enunciata crediamo sia opportuno interrogarsi sulla lungimiranza e/o buona fede di tutti quei politici e tecnocrati che ritengono obsoleta e superata ogni questione di natura filosofica perché è proprio di filosofia che abbiamo bisogno, cioè di capacità di pensiero, autonomia di discernimento sul reale che non può essere ridotto a misero residuo del virtuale. L’incompatibilità tra la filosofia, intesa come atteggiamento mentale e modalità di rapportarsi al mondo, e l’evolversi della tecnologia sta nel fatto che, mentre la prima interroga l’esistente alla ricerca di nuove prospettive, la seconda si pone come prospettiva assoluta e risposta esaustiva a tutte le possibili domande. Il concetto stesso di rete sembra porsi come un enorme cosmico buco nero che ingloba e annulla ogni forma di energia filosofica coniata dal pensiero nel corso dei secoli: la rete come luogo non c’è, ma è ovunque, nel senso che si tratta di una realtà parallela. I principali quesiti dell’esistenzialismo filosofico sull’essere e sull’esistere appaiono, oggi, fatalmente risolti dall’essere e l’esistere online. A nostro avviso, è anche rischiosa questa percezione della rete quale luogo ideale per la realizzazione di una democrazia perfetta, forma di puerile populismo informatico, come panacea di ogni magagna politica. La tecnocrazia e la digitalizzazione totale somigliano sempre più al Leviatano di Hobbes. Oggi siamo pieni di contratti commerciali (telefonia, siti web ecc. ecc.) che acquisiscono la fisionomia di mini-contratti sociali con la loro richiesta di permessi per il trattamento dei dati personali (privacy), essi invece rappresentano solo l’illusione di una possibile opzione di scelta. Se lo spirito della storia di Hegel finisce in rete, quali saranno le sorti della storia futura? Noi, oggi e poi domani, saremo i cittadini o i sudditi di queste società tecnologiche? 16
La filosofia, oggi più che mai, è una materia della quale i percorsi scolastici non possono fare a meno; di più, essa è un atteggiamento mentale da acquisire e da mantenere. L’atteggiamento riflessivo-filosofico sarà l’unica distanza di sicurezza possibile tra l’uomo e la tecnologia. L’individuo sempre connesso è, in realtà, contemporaneamente disconnesso dal contesto reale, per lui secondario al virtuale, ma il suo essere in rete equivale all’essere in un luogo indefinibile. Tutto questo genera una situazione in divenire i cui effetti collaterali sono imprevedibili. Certo è che anche in ambito formativo si debba ricorrere a una nuova pedagogia ovvero ad una diversa filosofia pedagogica. Se con don Giussani potevamo dire che educazione significa “introduzione alla realtà totale”1, avendo chiaro che cosa intendere per “realtà”, oggi non è più così, la nostra realtà è continuamente contaminata dal virtuale. La storia ci insegna che il confine tra il religioso e il superstizioso può essere estremamente labile e ciò che impedisce al primo di scivolare nel secondo è il discernimento filosofico che, attraverso la disciplina teologica, àncora la fede alla ragione. Se la rete è destinata a costituire una nuova religione, essa deve essere soggetta, come è stato per il cristianesimo, a una esegesi critica seria e rigorosa e tale operazione ermeneutica non deve essere eseguita dal suo interno (rete), ma dall’esterno, da un luogo mentale, temporale e geografico reale. La rete, il digitale, intesa come veicolo e luogo della comunicazione mondiale e della sua presunta scientificità, si rappresenta come una Buona Novella priva di kèrigma2 nella quale ognuno cerca e stabilisce le proprie beatitudini.
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Una nuova filosofia pedagogica e della didattica I nati dall’anno 2000 in poi vengono definiti “nativi digitali”. Con questo termine si intende indicare individui nati in un’era già digitalizzata e quindi protagonisti di un percorso evolutivo che in buona parte avviene con l’ausilio delle nuove tecnologie informatiche e in rete. Si tratta di giovani che vivono già di tecnologia e per i quali lo stare connessi costituisce un’esperienza quotidiana. In ragione di questa loro confidenza con le nuove tecnologie c’è chi sostiene che anche il loro percorso formativo in ambito scolastico debba avvenire con l’uso didattico di queste e, possibilmente, secondo la prassi del gioco. In buona sostanza il rapporto tra i soggetti in formazione e le nuove tecnologie deve svolgersi senza soluzione di continuità. Alla scuola, in quanto ente preposto all’educazione e alla formazione delle nuove generazioni, non è richiesto di maturare una propria visione filosofico-pedagogica dell’educazione, ma le è richiesto di adattarsi ai tempi, indipendentemente da qualunque cosa ciò possa significare. A partire da tale assunto sembra che la questione dei mezzi di informazione ma più precisamente l’ICT3 (Information and Communication Technology, in italiano: tecnologie dell’informazione e della comunicazione), debba divenire una priorità pedagogica assoluta. Risale al 2012 uno studio Ericsson sulla rivoluzione dell’ICT nel mondo dell’educazione, denominato Learning and Education in the Networked Society4 con il quale si mette in risalto il fatto che l’introduzione dell’ICT nelle scuole incida su 6 aree principali: 3 riguardano lo spazio fisico e 3 riguardano i comportamenti degli utenti: 1. strumenti: cambiano i mezzi con cui si accede ai contenuti scolastici, poiché gli studenti sempre più spesso portano a lezione i propri smartphone, tablet e laptop; 18
2. soluzioni tecnologiche: la connettività di rete e le soluzioni per la gestione dei contenuti, la comunicazione e l’interattività sono diventate determinanti per le scuole; 3. spazio di lavoro: i telefoni cellulari, i computer portatili e i tablet stanno rendendo obsoleto il banco di scuola così come lo conosciamo. Le scuole più moderne stanno rinnovando le aule scolastiche per renderle multifunzionali; 4. metodo di lavoro: l’idea che gli studenti debbano svolgere un compito specifico in un momento preciso è una modalità di lavoro basata sui bisogni della società industriale. L’apprendimento basato su progetti diversi è più allineato con lo scenario attuale della società dell’informazione; 5. relazioni: gli insegnanti sono e rimarranno una parte essenziale dell’educazione, ma il loro ruolo sta cambiando; il docente, infatti, grazie alle nuove modalità di apprendimento, si sta trasformando da “saggio sul palco” a “guida che sta al fianco dello studente”. Grazie alla tecnologia, i genitori sono più coinvolti nel processo di apprendimento dei propri figli e hanno un contatto più diretto con insegnanti e dirigenti scolastici; 6. competenze e conoscenze: la scuola prepara i giovani al futuro. Leggere, scrivere e fare calcoli aritmetici saranno sempre importanti, ma in un mondo dove è possibile accedere a informazioni, testi e a contenuti audio e video ovunque e in qualsiasi momento, agli studenti sono richieste competenze sempre nuove. Sappiamo che educare, dal latino educere, significa tirare fuori, in parole povere vuol dire fare emergere, permette il manifestarsi della personalità di un individuo e questo avviene attraverso il suo continuo confronto critico con il contesto di riferimento. Il confronto, però, può essere critico solo se siamo in possesso dei presupposti che ci permettono di esercitare una critica. Tuttavia la principale prerogativa dell’ICT è quella di costituire un contesto a sé stante rispetto a quello reale. La rete è essa stessa 19
sempre più percepita come contesto anche se difficilmente definibile e individuabile nel significato ordinario del termine. A nostro avviso, si è in balia di una percezione inesatta di quello che è il rapporto oggi in essere con la tecnologia e la sua rapidissima evoluzione: siamo convinti che l’uso dei mezzi tecnologici e la sempre maggiore dimestichezza con essi equivale ad averne il controllo. La grande novità di questa tecnologia sta nel fatto che, mentre la usiamo, essa stessa ci usa. Il continuo sviluppo tecnologico è finalizzato a un controllo pressoché totale sulle nostre vite e siamo già soggetti a un perpetuo addestramento all’uso che mira alla costruzione, nel tempo, di una vera e propria forma mentis. L’idea di tecnologicizzare sempre più la prassi educativa-formativa coincide con la disponibilità a rivedere tutta la filosofia pedagogica odierna, pur con le sue lacune, non in nome o in cambio di una nuova filosofia pedagogica, ma, semplicemente, per “adattarla” ai nuovi strumenti. In sostanza, le questioni inerenti lo strumento e la ricerca di un metodo compatibile alla sua logica vanno a ridimensionare quelle della visione pedagogica e dei contenuti. I fautori dell’adeguamento, assoggettamento, tecnologico della didattica scolastica portano, nelle loro argomentazioni, il germe inconsapevole di un paradosso non da poco. Ci stanno dicendo, infatti, che dal momento in cui le nuove generazioni, per pratica e per gioco, vengono già quotidianamente educate non alla tecnologia ma “dalla” tecnologia, la scuola non deve fare altro che adeguarsi. Visto che il bambino gioca per svariate ore al giorno attraverso lo strumento tecnologico è giusto che studi anche attraverso di esso: tutta la sua vita e il suo contatto con la realtà devono essere filtrati dalla tecnologia. In pratica non deve essere posta nessuna distanza fisica e mentale tra il vivere quotidiano e lo strumento. In base a quanto sopra, la diade docente-discente viene scardinata da un terzo elemento che fa del maestro/professore una sorta di cavalier servente al servizio dello studente tecnologico. Tutto questo 20
riduce a zero qualunque prospettiva filosofico-pedagogica o, meglio, dà per scontato che questa si risolva tutta nel rapporto stretto studente-tecnologia. Le idee che stanno maturando nel settore educativo sono, a nostro parere, figlie della tendenza a comprimere l’atto formativo/educativo nell’attimo fuggente dell’informazione o nell’astrazione concettuale della comunicazione: processo che appare come uno dei tanti effetti collaterali della cosiddetta società liquida5 di Zygmunt Bauman. Se l’educazione e la formazione vengono affrancate dai concetti di contestualizzazione, relazione, prassi, tempi, metodi e, nel complesso, assimilazione ecco che abbiamo l’informazione nuda e cruda. I nativi digitali non sono e non saranno necessariamente più intelligenti di chi li ha preceduti, ma essenzialmente più rapidi nel rispondere e sostenere determinate quantità di stimoli sensoriali6. La rapidità non è da considerarsi una competenza in sé, ma, caso mai, un elemento di corredo a ciò che riteniamo “competenza” intesa come capacità di interpretazione, analisi e critica di una realtà intellettuale da apprendere7. Il trend verso la velocità cognitiva delle nostre società si allontana sempre più dai processi educativi e formativi come noi li conosciamo. L’apprendimento stesso non è più percepito come un percorso che, in quanto tale, richiede tempo e spazio, ma deve concentrarsi nell’istantaneità. Le società della formazione e dell’educere avevano bisogno di una filosofia e, in questa, di una pedagogia; in parole povere venivano poste le questioni relative ai significati, gli orientamenti, gli ideali, la misura e i metodi. Le società della comunicazione e dell’informazione hanno una diversa percezione di ciò che è importante, anzi, mettono in risalto solo ciò che ritengono utile. La compressione del formare nell’informare ha ridimensionato anche il respiro del pensiero e, quindi, della sua espressione in ambito filosofico, tanto che l’opinione rappresenta il surrogato prediletto del discernimento. Il rischio dei nativi digitali, 21
a nostro avviso, è quello di ritrovarsi a essere i gestori di una forma mentis di matrice istintuale. Se obblighiamo la pratica della riflessione a tempi troppo brevi questa diverrà solo un epifenomeno8 dell’istinto. La formazione, come l’abbiamo descritta, costituisce un processo complesso di assimilazione delle informazioni ed è proprio in esso che il dato e l’informazione maturano per diventare conoscenza; tutto questo produce “apprendimento”. Non solo la scuola deve insegnare filosofia, ma, soprattutto, deve possedere e attuare una sua filosofia e, in essa, trovare gli spunti e le ragioni di una rinnovata pedagogia. In questa sede non si vuole promuovere una crociata contro le nuove tecnologie, indubbiamente feconde di nuovi scenari e possibilità, ma si vuole riflettere sull’opportunità di non perdere mai di vista la loro natura di mezzo, senza mai trasformarle in un fine. Esse devono essere considerate e percepite come prodotti della realtà psicosociale del mondo e non produttrici di realtà parallele e di pari rango. Per quanto evoluti potranno divenire i computer e le nuove intelligenze artificiali, non dovranno mai avere il potere di condizionare i contenuti che saranno chiamati a veicolare in nome di una semplificazione/riduzione tecnologica. Se tutto il patrimonio filosofico della storia occidentale e le stesse potenzialità filosofiche future dovessero collassare nel pensiero tecnocratico, che a sua volta si riduce alla logica binaria, diverremo tutti sudditi di un nuovo e potentissimo Stato etico con sede nella Silicon Valley.
La rete di Knecht o Castalia del Web Nel bellissimo romanzo di Herman Hesse Il giuoco delle perle di vetro si narra di una piccola regione “Castalia”, terra popolata da soli uomini intellettuali, dediti allo studio, allo sviluppo della spiri22
tualità e al giuoco delle perle di vetro. Castalia costituisce un luogo di dotti, appartato dal mondo, una sorta di realtà virtuale, frutto di consapevole scelta, senza, però, pretesa che possa sostituirsi alla realtà o che la voglia rappresentare. Castalia esiste sapendo che anche il mondo reale esiste e che coloro che sono grandi per ingegno e abilità nella prima non sono necessariamente grandi ed abili anche nel mondo vero. Knecht, l’illustre e dotto protagonista, allontanatosi da quella regione virtuale nella quale era cresciuto, va incontro alla vita, quella vera nel mondo reale. Decide di continuare la sua attività, missione, di educatore e sarà, infatti, il precettore del giovane Tito. La vita nel mondo reale, però, costituirà per Knecht una trappola mortale. Egli, infatti, gettandosi all’inseguimento di Tito, per dovere e anche come sfida, si scontra con le migliaia di sfumature che il reale mette in campo e nell’euforia di una sfida di nuoto con il suo allievo muore annegando nel lago di Belpunt. Il protagonista del romanzo viene ucciso proprio dal confronto con il mondo reale. Se fosse rimasto chiuso nel suo amato mondo virtuale, Castalia, probabilmente non sarebbe morto. Per Kmecht il mondo virtuale era una la realtà normale, per lui la regione di Castalia non era semplicemente un luogo deputato allo studio e all’apprendimento, ma costituiva una vera e propria condizione esistenziale, una sovrastruttura completamente interiorizzata. A uccidere Kmecht non fu la grande confidenza con un mondo virtuale (Castalia), ma la sua inesperienza del mondo reale.
NOTE 1 DON LUIGI GIUSSANI, Il Rischio Educativo, Rizzoli, Milano, 2005 2 Il kèrigma (o chèrigma), è la parola usata nel Vangelo per indicare l’annuncio del messaggio cristiano (vedi MATTEO 3,1, Luca 4,18-19 e Romani 10,14). 3 Se da un lato è possibile identificare gli elementi che costituiscono la ICT, dall’altro non risulta facile fornirne una definizione univoca, poiché non esiste una generale e 23
condivisa definizione. Per sua natura il settore della ICT è un campo estremamente dinamico e in continua evoluzione in ambiti temporali relativamente ristretti. 4 Insieme al report, Ericsson ha realizzato un mini documentario The Future of Learning, in cui esperti di fama internazionale come Seth Godin, imprenditore e scrittore americano, Sugata Mitra, professore di Educational Technology alla School of Education, Communication and Language Sciences della Newcastle University, e Daphne Koller, professore di Informatica alla Stanford University, spiegano come l’ICT stia rivoluzionando l’istruzione e l’accesso alle informazioni. Si parla anche di come l’apprendimento e l’educazione si stiano spostando da un modello basato sulla memorizzazione e ripetizione, verso uno che si concentra sulle esigenze individuali e di autoespressione. 5 Definizione di ZYGMUNT BAUMAN (Poznań, 19 novembre 1925), sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche. 6 Uno studio per l’analisi delle pagine web, condotto nel 2008 dalla società israeliana Click Tale, evidenziò quanto fosse breve la durata media di una visita a una pagina, prima di passare a quella successiva. Nel mare di informazioni che il web offre, si opera un’attività di scrematura basata sulla focalizzazione di parole chiave che porta a escludere rapidamente intere pagine ritenute di scarso interesse. Nella nuova forma di fruizione dei contenuti stimolata dal web, alcune funzioni mentali di basso livello, quali la coordinazione occhio-mano o l’elaborazione degli stimoli visivi, vengono rafforzate, probabilmente con un potenziamento della memoria di lavoro. 7 Ciò che la rete allena è la nostra capacità di elaborare velocemente gli stimoli e prendere velocemente decisioni; quello che, invece, il multitasking inficia è la capacità di pensare in modo approfondito e creativo. In un articolo pubblicato su Science nel 2009, PATRICIA GREENFIELD evidenziò proprio questa evoluzione indotta dai nuovi media. 8 Epifenomeno in filosofia è un fenomeno secondario che si manifesta nell’ambito di un fenomeno primario quasi come effetto collaterale.
Bibliografia DON LUIGI GIUSSANI, Il Rischio Educativo, Milano, Rizzoli, 2005 ZYGMUNT BAUMAN, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2011 24
STEFANIA LOMBARDI LA DISTANZA DELLA VIOLENZA E IL “PERMANERE” DI GIOBBE (DESCRITTO DA GUIDO TRAVERSA)
Abstract Il lavoro parte da alcune definizioni utilizzate da Hannah Arendt sulla violenza per arrivare a indagare la “distanza” e la “relazione”. La violenza è definita da Arendt come opposta al potere perché appare quando esso è a repentaglio. La violenza è strumentale ed è fenomenologicamente vicina alla forza poiché si avvale di strumenti volti a moltiplicarla sino a sostituirsi a essa. Il potere è nella relazione e garantisce l’autonomia. La violenza è l’interruzione della relazione e nega l’autonomia. Dalle sperimentazioni dell’autonomia del bambino alla figura di Giobbe che “permane” nella relazione (con la divinità) ci possono essere possibili vie di opposizione alla violenza.
La violenza è “strumentale”. Questo termine non è mio, ma è usato da Hannah Arendt nel suo scritto Sulla violenza. Essa distingue fra potere, autorità, forza e violenza; sebbene utilizzi indifferentemente autorità e autorevolezza. Se il potere è un concetto “di gruppo” (qualcuno che è “al potere” agisce per conto di un gruppo che l’ha investito), l’autorità può essere personale e la forza ha due sensi: individuale e come sinonimo di violenza. 25
La violenza è strumentale ed è fenomenologicamente vicina alla forza, poiché si avvale di strumenti volti a moltiplicarla sino a sostituirsi a essa. Violenza e potere sono concetti opposti. La violenza appare quando il potere è a repentaglio secondo le deduzioni di Arendt del citato saggio. Se conveniamo che le religioni sono forme di potere (temporale o spirituale che sia), come si spiega la violenza? Per dirla con Foucault, uno “stato di potere” è realtà diversa da uno “stato di dominio”, ma entrambi esistono nella relazione (nello “stato di potere” permane l’autonomia). La violenza è l’interruzione della relazione; è distanza, in tutti i sensi, non solo spaziale (anche se certi “atti” violenti sono ad “alto contatto”). “Spazio, ultima frontiera”: in questa maniera inizia ogni episodio di una nota serie televisiva divenuta cult. La frontiera, senso del limite, è menzionata come “oltre-limite”. Il nesso in effetti ci sarebbe perché “spazio” e “limite” sono collegati. Ogni spazio è limitato o delimitato da una cornice, da un confine; a titolo di esempio, nello spazio del dibattito pubblico, la cornice, il confine, è il contesto in cui operiamo. Il confine tuttavia non va percepito solo come limite, ma anche come condivisione1. Altra cosa è “confinare”, nel senso di relegare ai margini, come spesso accade ai senza patria, senza spazio condiviso di dibattito pubblico. Hannah Arendt, molto attenta al tema del giudizio, ovvero della capacità di pensare avvalendosi della propria immaginazione, ha al centro della sua speculazione il tema dell’apolide, del paria, di chi è ai “margini”; il punto è lo “spazio” di dibattito pubblico attraverso “spazi” teoretici e pratici, e, magari anche secondo Kant, la distinzione tra barriera (Schranke) e confine (Grenze). Arendt ci invita a oltrepassare i confini, nella recente rivalutazione positiva dei limiti2. 26
Se ci mettiamo nell’ottica del limite, del confine che delimita uno “spazio pubblico”, ci ritroviamo “protetti” da leggi; nell’ottica, invece, delle barriere, ovvero, ostacoli escludenti, si è fuori da leggi e relative tutele e/o protezioni. Il capitolo rimasto incompiuto di The Life of the Mind3 è quello sul giudizio, attività che richiede l’alterità, che richiede uno spazio pubblico. Fuori dallo spazio protettivo4 delle leggi ci sono migranti, apolidi, paria. Con il “virtuale” assistiamo a confini annullati, a spazi non più delineati (e anche per questo un apolide, il “senza spazio”, potrebbe non essere portatore solo di un mero desiderio di riconoscimento, essendo il riconoscimento, la relazione, all’interno di confini). Se vengono meno i confini, si rischia di perdere quell’indispensabile riconoscimento nella relazione, che si cerca; si volgerà, allora, l’attenzione verso altro. Si rischia di restare bloccati in questo “altro” senza il ritorno in sé del procedimento dialettico hegeliano che ricorda l’atto di specchiarsi. A volte “l’altro” diventano le cose, si cade verso il bisogno di sicurezza (nelle cose) che si moltiplicano all’infinito perché non si vedono più altri modi di soddisfare e incanalare il desiderio di riconoscimento. Lo spazio del confronto politico, considerato da Arendt essenziale per garantire il riconoscimento e l’auto-realizzazione, è diventato sempre più virtuale, quindi senza confini. Lo spazio metaforico del “mito della caverna” di Platone era caratterizzato non solo da un’uscita, ma anche da un ritorno. Il percorso verso l’autonomia comincia con un’uscita; pochi però si soffermano sul rientrare nella caverna del prigioniero liberato. Si rientra non solo per bisogno di riconoscimento, ma anche per responsabilità, per quella “responsabilità per altri”, nella relazione, che rappresenta una delle più grandi conquiste dell’autonomia. E 27
lo si fa anche a costo di essere deriso (il prigioniero cade perché i suoi occhi devono ancora ri-abituarsi al buio). Chi lo farebbe in uno spazio virtuale che replica il reale come uno specchio deformante (ed esattamente come uno specchio favorisce la vanitas)? Bisogna eliminare il virtuale? No, come non c’è bisogno d’eliminare gli specchi. Gli strumenti sono solo strumenti. Si utilizzano e s’interpretano male gli strumenti (come l’anoressica che, specchiandosi, riceve un’immagine di sé deformata) quando a monte c’è altro. Winnicott descrive un bambino che gattona allontanandosi dalla madre e che resta comunque in un determinato raggio d’azione. Alfonso Maurizio Iacono, studiando Winnicott, è arrivato a riformulare questa evidenza empirica come “teoria della coda dell’occhio”: il bambino, con la coda dell’occhio appunto, muovendo i primi passi verso l’autonomia, si accerterebbe che la propria madre si mantenga comunque in una distanza visibile, accessibile e raggiungibile, che sia una base sicura, appunto. La madre, del resto, si comporta in modo simile: anch’essa, con la coda dell’occhio, ha chiaro il raggio d’azione di quei primi esperimenti d’autonomia. Come può una madre a cui è stata negata l’autonomia, incoraggiarla nel figlio che sperimenta i confini? Piccolo pro-memoria: un confine delineato non è una chiusura perché, come abbiamo già detto, un confine non è una barriera. Un confine chiede il proprio stesso superamento, a differenza di una barriera che suggella una chiusura. Un confine accoglie, non rigetta. Un confine è l’invito a misurarci con i nostri limiti, proprio come nel racconto biblico ha fatto la celebre figura di Giobbe descritta da Guido Traversa come interruzione della comunicazione (o, meglio, percezione di una comunicazione interrotta) con una natura divina, ovvero l’alterità estrema. La figura di Giobbe non dovrebbe essere pensata in termini di “pazienza” (una lettura più approfondita ci ri28
vela che “paziente” non è un aggettivo che possa descrivere questa figura), ma di relazione, di azione, di un persistere nell’azione5. Solo sperimentando i primi limiti grazie alle intuizioni di Winnicott si comprende che l’autonomia si costituisce nella relazione e non, come erroneamente si crede, interrompendo la relazione. Il bambino descritto dallo studioso si muove, infatti, in una relazione, non la sta interrompendo; la madre che, “con la coda dell’occhio”, registra il raggio d’azione del figlio, lo fa, appunto, dentro una relazione. La relazione non si è interrotta, anzi. La “distanza” non va imposta dall’esterno (interrompendo la relazione), ma dovrebbe essere un libero sperimentare scelto all’interno (ovvero nella relazione stessa). L’invito è quello di Giobbe: permanere nella relazione, anche quando sembra (sembra!) che la comunicazione si sia interrotta.
NOTE 1 Approfondimenti in GIACOMO MARRAMAO, La cifra della differenza-Confini e Limiti, Roma, «Aperture» (rivista e Casa editrice), n. 2, 1997. 2 Vedere a tal proposito l’editoriale di FRANCESCA BREZZI, L’eredità di Hannah Arendt, Roma, «RomaTrE-Press» (rivista B@bel n° 3), 2007. 3 HANNAH ARENDT, The Life of the Mind, New York, Harcourt, 1978. 4 A tal riguardo è molto suggestivo un passo tratto dal film biografico su Thomas More, Un uomo per tutte le stagioni, in cui si sostiene: “Ah! E se a questo punto il demonio si mettesse a rincorrere te, dove ti nasconderesti una volta abbattute tutte le leggi? Questa terra è rigogliosa di leggi, leggi fatte dagli uomini e non da Dio; se tu le tagli, e tu sei uomo capace di farlo, credi davvero che riusciresti a stare in piedi senza riparo dall’impeto dei venti? Sì! Io concedo anche al demonio la protezione della legge: per la mia salvezza!”. 5 Vedere la bella descrizione della figura di Giobbe effettuata da GUIDO TRAVERSA, in Identità in sé distinta-agere sequitur esse, Roma, Editori Riunti Univ. Press, 2012.
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Bibliografia
ARENDT HANNAH, Crises of the Republic – Lying in Politics/ Civil Didobedience/ On Violence/ Thoughts on Politics and Revolution, New York, Harcourt Inc, 1972 ARENDT HANNAH, The Life of the Mind, New York, Harcourt Inc, 1978 Bloom Harold, The western Canon, New York, Harcourt Brace & Company, 1994 BREZZI FRANCESCA, L’eredità di Hannah Arendt, Roma, «RomaTrE-Press» (rivista B@bel n° 3), 2007 FORTI SIMONA (a cur.), Hannah Arendt, Mondadori, Milano, 1999 FOUCAULT MICHEL, L’ermeneutica del soggetto, a cura di Frédéric Gros, tr. di Mauro Bertani, Milano, Feltrinelli, 2003 FOUCAULT MICHEL, Les Mots et les Choses, Gallimard, Paris, 1966 IACONO ALFONSO MAURIZIO, Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi. Milano, Feltrinelli, 2000 IACONO ALFONSO MAURIZIO, Il borghese e il selvaggio, Pisa, ETS, 2003 IACONO ALFONSO MAURIZIO, L’evento e l’osservatore – Ricerche sulla storicità della conoscenza, Bergamo, Pierluigi Lubrina, 1987 IACONO ALFONSO MAURIZIO, Paura e meraviglia, Catanzaro, Rubettino, 1998 IACONO ALFONSO MAURIZIO, Tra individui e cose, Roma, Manifesto Libri, 1995 MARRAMAO GIACOMO, La cifra della differenza-Confini e Limiti, Roma, «Aperture» (rivista e Casa editrice) n. 2, 1997 TRAVERSA GUIDO, Identità in sé distinta-agere sequitur esse, Roma, Editori Riuniti Univ. Press, 2012 30
WINNICOTT DONALD WOODS, Playing and Reality, New York, Tavistock Publications Ltd, 1982 WINNICOTT DONALD WOODS, Thinking about children, Massachusetts, A. Merloyd Lawrence Book, 1966
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BIOGRAFIA DEGLI AUTORI
Mario Guarna si è laureato in Filosofia nel 2004 all’Università di Firenze. Nello stesso anno la sua opera inedita “Mirò è altrove”, viene premiata con il Fiorino d’oro al Premio Internazionale Firenze. Nel 2006 alla sua tesi di laurea “ Filosofia del Lontano-La teoria dell’umorismo in Pirandello”, viene assegnato il primo premio al Premio Nazionale” Totus Tuus”. A gennaio del 2007 fonda L’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche, della quale diviene presidente, convertita, nell’agosto 2014, in Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche. Nell’aprile 2006, istituisce e presiede il Premio Nazionale di Filosofia “Le figure del Pensiero”, giunto quest’anno alla dodicesima edizione. Nel 2010 consegue l’attestato del corso di perfezionamento post laurea in Philosophy for children/Philosophy for community all’università di Firenze e l’attestato di teacher Philosophy for children/Philosophy for community al Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica di Roma. Dal 2010 organizza e presiede il convegno annuale di “Pratiche filosofiche”. Nell’ottobre 2014 viene nominato direttore scientifico della casa editrice “Sillabe di sale”, per la sezione filosofia. Dal 2017 direttore scientifico della collana filosofia nella casa editrice David and Matthaus. Dal 2018 Presidente dell’Associazione “Immagine”, dove organizza “Cinesofia”, incontri di cinema e filosofia. Dal 2018 Direttore editoriale della rivista filosofica Phronein.
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Fabio Fineschi, nato a Firenze il 28/06/1961, abita a Firenze, Laurea in Pedagogia a indirizzo psicologico, collabora con il settimanale «Toscana Oggi» nella rubrica pedagogica, con la rivista culturale internazionale «Prospettiva Persona» (Rubettino), con la rivista filosofica «Comunicazione Filosofica» e con il quotidiano nazionale «La Croce» di Adinolfi. Ha pubblicato il saggio Dalla Medicina alla Maieutica sul n. 10 della rivista italiana di Counseling Filosofico (Organo Ufficiale della Società Italiana di Counseling Filosofico) del 2014. Si è classificato secondo al Concorso letterario Nazionale Esordiamo, nel 2011, con il racconto Il Ritardato. Nel 2011, ha pubblicato in proprio la raccolta di racconti Vero uomo e Vero Airone Bianco. Nel 2016 ha pubblicato il saggio Le filosofie inconsapevoli (Ladolfi Editore). Si è classificato primo al Premio Nazionale Filosofia, X edizione 2016, nella sezione “Racconto filosofico” con Magister ludi, organizzato dall’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche con il Patrocinio del Comune di Certaldo, Philomates Association, Società Filosofica Italiana. Si è classificato primo al Premio Nazionale Filosofia, X edizione 2017, nella sezione “Racconto filosofico” con Il cielo riflesso, organizzato dall’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche con il Patrocinio del Comune di Certaldo, Philomates Association, Società Filosofica Italiana, testo pubblicato nel 2019 dalla casa editrice Giuliano Ladolfi. Si è classificato primo al Premio Nazionale Filosofia, X edizione 2018, nella sezione “Racconto filosofico” con La furia degli elementi, organizzato dall’Associazione Professionisti Pratiche Filosofiche 34
con il Patrocinio del Comune di Certaldo, Philomates Association, Società Filosofica Italiana. È stato segnalato primo al premio Letterario Internazionale “Giorgio La Pira 2017” con il racconto Il Viaggio e il Sogno. Ha pubblicato il libro L’impiegato Assoluto, Firenze, Polistampa, 2017.
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Stefania Lombardi è una bibliotecaria specializzata PMP® (Project Management Professional) dedita all’Open Access e PhD in Filosofia Morale. Nei suoi elaborati c’è sempre la sintesi delle sue due passioni: la filosofia e il project management; è volontaria al PMI-NIC (Project Management Institute - Northern Italy Chapter) e al PMI (Project Management Institute) Rome Italy Chapter - Comitato Toscana; è anche una docente accreditata da ISIPM (Istituto Italiano di Project Management) per l’insegnamento della disciplina del project management ed è tesserata ASSIREP (ASSociazione Italiana dei Responsabili ed Esperti di Gestione Progetto). Nel triennio 2011-2014 è stata una dei due componenti esterni del Nucleo Tecnico di Valutazione della Performance di un ente locale toscano. Il suo breve saggio con supporto audiovisivo La società del surrogato ha ricevuto una menzione speciale per l’edizione 2016 del premio internazionale Catalunya Literaria, classificandosi nella terna dei finalisti. Ha tradotto dallo spagnolo all’italiano un paper scientifico di natura sia filosofica sia di fisica quantistica ai fini della valutazione della Giuria per una edizione del Premio Nazionale di Filosofia. In passato ha inoltre curato le edizioni 2008 e 2009, sia in lingua inglese sia in lingua italiana, di libri inerenti la presentazione di progetti di ricerca del vecchio Dipartimento ICT (Information and Communications Technology) del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Studiosa di Hannah Arendt con un’antica e rinnovata passione per Shakespeare. 36