MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Vittorio Fantoni
MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Vittorio Fantoni
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Ai miei tanti e pazienti studenti
SOMMARIO INTRODUZIONE ........................................................................ 1 MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ .......................................... 7 Le categorie di modernità e postmodernità............................ 8 L’inizio della postmodernità.................................................. 17 I caratteri specifici della postmodernità................................ 18 Postmodernità e scienza...................................................... 39 Postmodernità e teologia ..................................................... 40 Pensiero debole e debolezza del Dio cristiano .................... 49 Le problematiche della postmodernità ................................. 51 Un mutamento dell’idea di verità.......................................... 53 Postmodernità e sensibilità culturali..................................... 59 Postmodernità e politica....................................................... 62 Il consumismo ...................................................................... 64 Alcune osservazioni riassuntive........................................... 66 LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ .................................................................. 69 L’apporto di Max Weber....................................................... 71 Indicativo e imperativo nel Nuovo Testamento .................... 75 Le basi etiche della modernità ............................................. 78 Le basi etiche della postmodernità ...................................... 81 Responsabilità morale e regole etiche................................. 84 La morale modulata di Cristo ............................................... 87 L’eredità di Nietzsche........................................................... 89 Alcuni paradigmi dell’etica contemporanea ......................... 90 Le etiche dell’immanenza .................................................... 95 L’etica di Lévinas ................................................................. 97 L’etica nell’età della scienza ................................................ 99 Morale ed etica in Habermas ............................................... 99 Le etiche della civiltà tecnologica: Hans Jonas.................. 100 L’etica come estetica dell’esistenza: Michel Foucault........ 105 L’etica e la politica in John Rawls ...................................... 106 L’etica e la politica in Hannah Arendt................................. 110
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L’etica e la religione in Martin Buber.................................. 113 Etica ed ecologia................................................................ 115 L’etica e il tempo: tra memoria e oblio ............................... 116 L’etica della provenienza ................................................... 123 L’etica come realtà biologica.............................................. 124 L’universalità etica ............................................................. 125 La globalizzazione ............................................................. 127 Crisi dello Stato.................................................................. 129 Il soggetto morale .............................................................. 130 Etica ed ontologia .............................................................. 133 L’etica a due: l’amore......................................................... 135 Il collettivo morale .............................................................. 140 Gli spazi sociali .................................................................. 142 Gli stranieri......................................................................... 143 Tecnologia ed etica............................................................ 146 L’idea di progresso morale................................................. 149 Tra libertà ed integralismo settario..................................... 151 Metafore postmoderne di Bauman..................................... 152 Etica universalista e particolarista...................................... 157 L’ETICA DOPO AUSCHWITZ ................................................ 159 Martin Buber ...................................................................... 161 La sofferenza degli innocenti ............................................. 161 La posizione di Richard L. Rubenstein .............................. 163 L’esperienza di Hans Jonas............................................... 164 L’ortodossia giudaica: Il Dio nascosto................................ 167 Auschwitz: Una cesura nella storia del popolo ebraico...... 168 Auschwitz: Simbolo della fragilità del Patto ....................... 168 Auschwitz: Manifestazione dell’ira divina........................... 169 La tradizione chassidica..................................................... 169 Il silenzio come unico linguaggio possibile ........................ 171 ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA.......................................................... 175 Fede cristiana ed etica: generalità ..................................... 175
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Il ruolo della Legge nell'etica di Lutero............................... 176 Il ruolo della Legge nell'etica di Calvino ............................. 179 Confronto riassuntivo tra le posizioni di Lutero e Calvino ............................................................................ 180 L’etica del primo evangelismo nord-americano ................. 181 L’etica protestante del lavoro ............................................. 186 L'etica in Karl Barth ............................................................ 188 L’etica interinale di Emil Brunner ....................................... 191 L’etica di Dietrich Bonhoeffer ............................................. 193 Etica ed escatologia in Helmut Thielicke ........................... 195 Secolarizzazione, pluralismo ed etica protestante contemporanea .................................................................. 195 Etica protestante e rapporto uomo/donna.......................... 199 La morale cattolica tradizionale ......................................... 203 Il cattolicesimo e la secolarizzazione ................................. 204 Tendenze attuali dell’etica cattolica ................................... 206 L’etica fondamentalista ...................................................... 211 Alcune conclusioni per una moderna etica protestante ..... 212 ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO ........ 217 Definizioni e problema ....................................................... 217 L’etica laica ........................................................................ 217 L’etica religiosa .................................................................. 219 Il confronto tra etica laica ed etica cristiana ....................... 222 Il conflitto attuale tra Stato e Chiesa in Italia...................... 223 Il diritto naturale ................................................................. 226 ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI ............................................................................. 233 L'etica nell'avventismo: generalità ..................................... 233 L'avventismo come chiesa del rimanente .......................... 234 Le basi storiche delle norme avventiste: processi ............. 239 Le basi storiche delle norme avventiste: alcuni esempi..... 240 La spinta attuale al rinnovamento delle norme della Chiesa................................................................................ 245 L'esigenza dell'unità della chiesa....................................... 248
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La famiglia: la preoccupazione fondamentale della morale avventista ...................................................... 250 Il ruolo dello Spirito di Profezia .......................................... 251 L'ereditĂ culturale vittoriana e americana .......................... 253 Selezione dei testi citati ......................................................... 257
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INTRODUZIONE L’etica,1 nella definizione aristotelica di filosofia pratica, si occupa dell’agire umano, della prassi necessaria per una buona vita del cittadino che vive nella comunità sociale della polis. L’etica si riferisce, quindi, all’agire dell’individuo2 all’interno di una struttura sociale che lo comprende.3 Il concetto di ethos deriva dai termini greci ethos (abitudine) ed éthos (luogo di vita abituale, consuetudine, costume, uso, carattere); esso è analogo al latino mores, da cui deriva il concetto di morale (cioè i costumi, il carattere). L’ethos e/o la morale4 costituiscono, quindi, la struttura dei modi di comportamento abituali in una determinata comunità sociale.5 1
Riportiamo la definizione di etica del Vocabolario della Lingua Italiana Treccani: «Ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto in quanto intenda indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso se stesso e verso gli altri, e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane». 2 Afferma Bauman che «è ragionevole supporre che gli esseri umani siano morali “per natura” e che essere morali sia forse il loro attributo costitutivo, una caratteristica che rende unica tale condizione e la distingue da tutti gli altri modi di esserenel-mondo». (BAUMAN, Z.; TESTER, K. Società, etica, politica. Milano: Ed. Cortina, 2002, p. 46). Essere morali non significa necessariamente essere buoni, ma essere consapevoli che le azioni umane possono essere buone e cattive e che è possibile, pure in certi limiti, scegliere e cambiare le proprie scelte e situazioni di vita. 3 Afferma ancora Bauman: «…troverei arduo, per non dire impossibile, pensare all’essere umano al di fuori della società, o alla società indipendentemente dagli individui che la compongono. Se gli esseri umani sono qualcosa intrinsecamente, allora sono sociali.» (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 46). 4 Significativa, tra le altre, la distinzione di Hegel tra eticità e moralità: la prima è la realtà oggettiva del bene morale, la seconda il mondo dell'intenzione, ancora sog-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Per Hans Küng, «etica denota una dottrina del comportamento morale, quindi un sistema etico… Con éthos viene inteso qualcosa d’altro: non in prima linea una dottrina o un sistema, bensì l’atteggiamento morale di fondo di un uomo, che si orienta secondo determinate norme e criteri».6 Non si tratta, dunque, soltanto del comportamento personale di un singolo individuo, ma anche del modo con cui si comportano le istituzioni sociali in cui egli vive. Attraverso l’etica si costituisce l’unità di un gruppo sociale, perciò a tali strutture corrisponde una funzione di integrazione e stabilizzazione. Nelle culture arcaiche, la morale di una determinata comunità sociale è sempre fondata su una teologia basata sul mito e sulla presunta rivelazione. Il motivo che porta dall’etica sancita dalla divinità alla costituzione dell’etica come disciplina filosofica è che l’individuo non considera più tale autorità come un fondamento sufficiente, ma esige una legittimazione del comportamento sociale e dell’agire pratico che sia razionale ed universalmente evidente. Occorre, di conseguenza, ridefinire i concetti etici tradizionali per rispondere in modo universalmente comprensibile alla domanda: in
gettiva, del bene. 5 Sostiene Bauman: «Questo sforzo è ciò che chiamo ‘etica’: un progetto volto a conferire a determinati avvenimenti un maggior grado di probabilità rispetto a quello che avrebbero altrimenti, a ridurre al minimo il ventaglio delle alternative, o a eliminarne del tutto la possibilità. Ecco che cosa è la ‘società’, uno sforzo in atto verso la struttura, e la struttura non è altro che una verosimiglianza di “ordine”… Chiamiamo ‘cultura’ l’analogo sforzo di ridurre la casualità della condotta umana, di obbligare tale condotta ad attenersi a uno schema. La cultura consiste essenzialmente nel mettere alcune scelte al di sopra a tutte le altre.» (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 46-47. 6 KÜNG, H. Perché un’etica mondiale? Brescia: Queriniana, 2004, p. 25.
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INTRODUZIONE cosa consistono la vita buona ed il sommo bene che l’uomo può realizzare tramite la sua azione? La risposta dell’etica greca consistette nell’identificare il sommo bene con la felicità, anche se la definizione di felicità era varia nei contenuti.7 7
Per i Sofisti, la virtù può essere insegnata e si esplica in regole che permettono di vivere in società; essa non è legata al diritto di nascita ma coincide con comportamenti funzionali ai bisogni sociali; c’è una coincidenza tra virtù e osservanza della legge. Per Socrate, la virtù è unica e s’identifica con la conoscenza, l’azione malvagia è il frutto dell’ignoranza; questa posizione non lascia spazio alla volontà dell’azione etica; la conoscenza si esemplifica in una cura costante della propria anima che deve dominare il corpo, in ciò consiste il fine della vita. Per i Cinici, la virtù è vivere secondo i bisogni primari di natura; essa è un esercizio che deve portare a non avere bisogno di nulla e al soddisfacimento dei bisogni elementari. Per Epicuro, la natura è il fondamento della morale, ma la natura non è un ordine necessario; l’agire è legato alle passioni e all’arbitrio e non ai comandi degli dèi o all’ordine cosmico; il movente della condotta morale è la virtù che è privazione di dolore fisico e morale. Per gli Scettici, poiché la realtà non ha un significato assoluto, la felicità è data soltanto dall’apatia e dalla imperturbabilità della condotta; la ragione non va guidata dogmaticamente: i principi non comandano, ma orientano, suggeriscono ciò che è utile e opportuno. Per Platone, le virtù e la giustizia sono funzioni delle parti dell’anima; il bene è «vita mista di piacere e pensiero»; l’etica è la scienza che ha per oggetto il bene, l’idea suprema, raggiungibile con un processo d’elevazione al mondo intelligibile; guardando alle idee si possono individuare dei criteri per distinguere il giusto dall’ingiusto. Per Platone, la fondazione della polis presuppone un’operazione etica: un’intesa linguistica. E’ questo il motivo per cui occorre escludere dalla polis i retori, che muovono la gente tramite gli affetti; i sacerdoti, che parlano ex-autoritate; i poeti, che mentono troppo e lasciano oscillare i significati; sono ammessi invece i filosofi che parlano dopo avere definito cose e regole. Per Aristotele, la legittimazione della morale dipende dalla natura dell’uomo, dalle forze dell’anima; la felicità è il fine della condotta e si conforma alla natura razionale dell’uomo, la sapienza. Per gli Stoici, le regole di condotta vanno dedotte dalla struttura razionale della natura e dalla natura propria dell’uomo; occorre vivere secondo ragione; la loro è una morale che vale per tutta l’umanità e prescinde dagli usi e costumi di una singola polis; questo ideale cosmopolita si traduce nella con-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Inizialmente, la vita buona si vedeva realizzata essenzialmente nella polis ma, con l’ascesa degli stati monarchici, si ha la decadenza della polis come istituzione democratica e, quindi, anche la rinuncia all’unità fra etica, economia e politica. Da questo passaggio si configura da un lato la realizzazione di un ethos più cosmopolita e di un diritto più universale, dall’altro un piegarsi dell’esigenza morale sull’individuo singolo e la comunità privata costituita da individui affini. L’etica dell’antichità pagana presuppone che l’uomo sia in grado di raggiungere il fine dell’assimilazione a Dio grazie soltanto alle proprie forze istintive e razionali; per contro, l’etica cristiana insisterà sull’abisso tra Dio e l’uomo, tanto grande che questi ha bisogno dell’aiuto divino per raggiungere il medesimo fine.8 Inoltre, il cristianesimo tende a separare il suo fine dalla polis ed a spostarlo sull’al di là; ciò porta alla relativizzazione di ciò che è terreno e pone a modello superiore la rinuncia al mondo, anche se tale
formità al dovere; la perfezione della ragione si esplica nella virtù, nell’attenersi al dovere. Per lo stoico imperatore Marco Aurelio, l’uomo è diretto nel suo agire dal divino presente in lui, cioè l’intelletto; egli deve sentirsi partecipe delle sorti dell’intera umanità. Per Plotino: la virtù è purificazione e liberazione dall’esteriorità e progressiva conversione nell’Uno. 8 Anticipiamo brevemente la posizione di Lutero sull’etica; egli, attaccando la prospettiva della salvezza per opere e l’enfatizzazione della ragione, pone le basi per un mutamento etico radicale. L’etica è squalificata come via di salvezza, è denunciata come occasione d’idolatria per l’uomo ed è privata di un quadro sistematico e autoritario, tipicamente cattolico, dove è il risultato di dogmi e magistero ecclesiastico. In Lutero, l’etica non ha spazio nella salvezza, ma ritrova una sua importanza significativa per quel che concerne l’organizzazione della vita sociale. La caratteristica fondamentale della posizione luterana è «di aver liberato l’etica dal peso del dovere impossibile della perfezione e dalle sue ineluttabili conseguenze che sono la colpevolezza, l’angoscia, l’ipocrisia… Egli rinuncia a chiedere all’etica di realizzare un vasto programma di trasformazione dell’uomo e della società in nome dell’ideale cristiano». (FUCHS, E. L'etica protestante. Bologna: EDB, 1994, p. 18).
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INTRODUZIONE ideale non è vincolante per tutti i credenti che possono considerare il proprio ethos come realizzabile in questo mondo a differenza del clero, tenuto ad una condotta morale più severa. La frammentazione confessionale della chiesa (cui corrisponde una diversificazione del carattere delle nazioni non più cementate dal comune sentire religioso), però, conduce ad una dissoluzione dell’unico ethos cristiano. Una conseguenza di questa perdita della coesione religiosa ed etica è che lo Stato è costretto a sviluppare un suo ethos per consentire la sua autoconservazione e quella dei suoi membri.9 Nella modernità, la Chiesa, ormai disgregata, è subordinata allo Stato che si configura, almeno ad un livello astratto, come la risultante di un contratto stabilitosi tra i cittadini. L’ethos dello Stato deriva dall’autolegislazione dei suoi membri, che può derivare da tre diverse attitudini fondamentali: 1. I cittadini cedono ogni diritto al sovrano: le norme etiche risultano dal diritto positivo, cioè dalle leggi.10 2. I cittadini conservano alcuni diritti inalienabili: alcune delle norme etiche precedono il diritto positivo.11
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Scrive W. Huber: «Le basi dell’ordine politico vennero ora ricercate e trovate nel diritto naturale riconosciuto soltanto per mezzo della ragione umana… L’autorità dello stato non fu più ricondotta ad una investitura divina, ma venne derivata dall’idea di uno stato di natura in cui gli uomini, sulla base di una libera risoluzione, fondarono una società politica mediante un contratto sociale.» (MOLTMANN, J. Religione della libertà. Brescia: Morcelliana, 1992, p. 49). 10 Essenziale, dal XVI al XVIII secolo, fu la figura del monarca assoluto ma illuminato, visto come modello attorno al quale si struttura la Nazione; l’esempio più noto è stato Federico II di Prussia; significativo è il detto che descrive tale attitudine di governo, «Niente col popolo, tutto per il popolo». 11 Queste norme irrinunciabili, legate alla stessa natura dell’esistenza umana, vengono sancite nelle costituzioni e, segnatamente, in seguito alla rivoluzione americana ed a quella francese.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE 3. Lo Stato non diviene altro che l’espressione della sovranità inalienabile dei cittadini: il diritto positivo discende dalla volontà etica generale. Con l’idealismo tedesco, la volontà del soggetto è pensata come libera di fronte alla sensibilità, determinata solo dalla ragione. Viene distinta la sfera interiore della moralità da quella esteriore della legalità. Si ha una spaccatura dell’etica in una dottrina della virtù, la moralità, ed in una dottrina del diritto, la legalità. Il concetto di base comune è quello di libertà: nel primo caso è quella interiore dell’autonomia del singolo, nel secondo quella esteriore intesa come libertà di tutti gli individui posti sotto una legge che ne limita l’arbitrio. Nel XX secolo, l’etica è influenzata dalla crisi della ragione e dal rifiuto di considerare la comprensione razionale come unico fondamento dei valori; ne risulta una visione etica e morale complessa, relativizzata, individualista, aperta su cui ci soffermeremo in modo specifico.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Stiamo vivendo in un’epoca che passerà certamente alla storia come un ponte di passaggio tra climi culturali diversi: una transizione che sta avvenendo, in Occidente, notevolmente in fretta. La trasformazione del mondo in villaggio globale colloca a contatto realtà socio-culturali sensibilmente differenti è ciò provoca ulteriori conflitti. La Chiesa avventista, a cui rivolgiamo queste nostre riflessioni, é sorta per svolgere la sua missione a cavallo tra due epoche: la modernità e ciò che ad essa segue e seguirà, definita, per ora, soltanto come superamento della precedente, postmodernità. Scrive Johannes Gerhardt: «L’avventismo si è sviluppato in un’epoca chiamata modernismo, che metteva l’accento sulla ragione, sull’argomentazione, sulla scienza, sul controllo e sulla conquista»;12 conferma S. Selmanovic: «Noi abbiamo formato la nostra apologetica, strutturato la nostra teologia ed inventato le nostre specifiche tecniche di crescita della Chiesa basandoci sul paradigma dell’esperienza moderna.»13 12
GERHARDT, J. «Les jeunes et la crédibilité des doctrines chrétiennes», su Les jeunes et l’Evangile: entre cathédrale et fast-food. Actes du colloque de la Faculté adventiste de théologie. Collonges-sous-Salève: Faculté Adventiste de Théologie, 3-4 marzo 2001, p. 74. 13 SELMANOVIC, S. «Pastoring on the postmodern frontline», part 1. Ministry, 7 (Iuglio), 2001, p. 7. (<http://www.ministrymagazine.org/archive/2001/July/pastoringon-the-postmodern-frontline-part-1.html> [2 novembre 2009]). Johannes Gerhardt aggiunge: «Nonostante ciò, la nostra gioventù vive secondo un differente paradigma. La visione moderna del mondo, compresa quella del cristianesimo, non è più capace di dare sufficienti risposte credibili e pertinenti. L’avventismo deve arrendersi all’evidenza che il modernismo non era migliore della postmodernità odierna. Sono soltanto differenti. Il Vangelo non appartiene né all’uno, né all’altro. Esso può soltanto essere comunicato mediante i mezzi che ogni epoca offre.» (Citato da
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Questo comporta un’esigenza di adeguamento al ritmo del cambiamento che, per una comunità religiosa, è molto difficile essendo essa, per sua specifica natura, incline alla conservazione. Il problema non è soltanto istituzionale, non concerne cioè le Chiese esclusivamente nella loro componente strutturale e nei loro paradigmi normativi, ma si colloca anche significativamente a livello della sensibilità religiosa personale dei cristiani, coinvolge il loro credere, il loro sperare, il loro sentire, il loro agire… Per questa ragione consideriamo oggi prioritario per dei credenti porre grande importanza al tema del rapporto tra modernità e postmodernità. Prima cercheremo di definire le due categorie nei loro caratteri generali, poi di osservarle nel campo della sensibilità morale.
Le categorie di modernità e postmodernità Quelle di modernità e postmodernità sono due categorie riassuntive ed interpretative della cultura e della prassi occidentali, essenziali per inoltrarsi nel cammino della problematica etica del nostro tempo. Per modernità s'intende la civiltà occidentale come si è imposta dal Rinascimento in avanti, culminata nell’Illuminismo del XVIII secolo; i suoi caratteri principali sono stati il capitalismo, il razionalismo, l’individualismo, l’urbanesimo, il progresso scientifico e tecnologico, la secolarizzazione. Essa, col suo progetto di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi unitari ed onnicomprensivi, si proponeva l’emancipazione dell’umanità. Secondo Jürgen Moltmann, «il mondo moderno vanta almeno due significative origini precedenti l’età dei Lumi: la prima è quella della scoperta e conquista dell’America a partire dal 1492; la seconGERHARDT, J. «Les jeunes et la crédibilité des doctrines chrétiennes», p. 74).
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ da è quella dell’asservimento della natura ad opera dell’uomo mediante la scienza e la tecnica».14 Sono molte le teorie esplicative della modernità; essa è stata considerata il frutto della transizione dalla società militare a quella industriale, dallo stadio religioso a quello scientifico-positivo, dalla tradizione alla razionalità, dalla visione ciclica del mondo a quella storica. La modernità è, di conseguenza, più una categoria qualitativa che cronologica: essa è la visione del mondo che ha contraddistinto l’occidente moderno nella sua percezione della realtà, nella costruzione dei suoi ideali, nel suo sviluppo teorico, etico, sociale, politico, ecc... Ricordiamo che: L’Umanesimo del XV secolo promuove la presa di coscienza della storia come di una missione tipicamente umana che si esprime attraverso le lettere.15
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MOLTMANN, J. su GIBELLINI, R. e altri. Prospettive teologiche per il XXI secolo. Brescia: Queriniana, 2003, p. 29. L’autore ricorda che, per Hegel, fu proprio la conquista dell’America l’atto di nascita del mondo moderno. Diversi storici, soprattutto spagnoli e portoghesi, legano la nascita della modernità al periodo delle scoperte geografiche. Küng, però, afferma che «le scoperte extraeuropee sono rimaste a lungo un evento marginale per le grandi masse della popolazione europea… Colombo era, anche nella pietà e nell’ethos, un uomo da cima a fondo medievale.» (KÜNG, H. Cristianesimo. Milano: Rizzoli, 1997, p. 646-647). 15 Scrive Montanelli: «Umanisti furono detti appunto quei diligenti topi di biblioteca, quegli impavidi sommozzatori di archivi, che si dedicarono alla scoperta dei testi classici scampati alle distruzioni e alle dispersioni del Medio Evo… questa resurrezione della cultura classica fu uno degli elementi del Rinascimento, forse il primo, certamente uno dei maggiori… questi prosatori, poeti, architetti eccetera non si limitarono alla semplice imitazione dei modelli classici. Fu quello che vi aggiunsero a fare del Rinascimento la più grande esplosione del genio umano che la Storia abbia registrato dopo il secolo d’oro ateniese.» (MONTANELLI, Storia d’Italia, p. 12).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Il Rinascimento del XVI secolo conosce un rinnovamento dello spirito dell’uomo anche per merito della scoperta delle opere degli antichi.16 La Riforma del XVI secolo ridefinisce il principio dell’autorità,17 «benché i riformatori, per lo più anticopernicani e poco democratici, restassero ancora per molti aspetti legati a concezioni e modi di comportarsi medievali».18 La rivoluzione scientifica dei secoli XVI e XVII muta la visione del mondo: la scienza diviene l’unico sapere oggettivo e l’avvento della tecnica trasforma il modo di vita. L’Illuminismo del XVIII secolo può considerarsi la realizzazione intellettuale della modernità; la ragione illuminata assurge a criterio assoluto di verità, bellezza, bontà e ordine.19 Con le rivoluzioni in America (1776) ed in Francia (1789) l’individuo diviene un reale soggetto politico.20 16
Però, nonostante il suo carattere progressista, il Rinascimento si orienta sull’antichità e non sulla ragione umana. 17 La Confessio Augustana afferma che «noi saremo giustificati davanti a Dio ad opera della grazia, per amore di Cristo e soltanto mediante la fede», questa relazione personale e diretta con Dio taglia fuori una serie di mediazioni d’autorità che il sistema sacramentale della Chiesa aveva strutturato ed alimentato. 18 KÜNG, Cristianesimo, p. 645. 19 Scrive Scalfari: «...l’illuminismo ha infatti messo in questione l’esistenza dell’assoluto: non soltanto come trascendenza, ma anche come verità». (SCALFARI. E; GALIMBERTI, U. «I lumi, la ragione, i dittatori», sul Corriere della sera, 26 novembre 2003, p. 41). U. Galimberti, nello stesso articolo, afferma che «la ragione è un grande strumento che non dice la verità, ma dice le regole di convivenza… L’illuminismo desume la nozione di individuo dal cristianesimo, ma la libera dalla categoria della salvezza e ne sposta l’obiettivo: un individuo è tale in quanto è in relazione di fratellanza e di uguaglianza con gli altri, in quanto è parte di una città, e non in quanto si salva l’anima.» Nell’illuminismo si colgono due diversi ambiti: il razionalismo (che considera possibile pervenire alla conoscenza del reale solo attraverso puri principi razionali ed in modo deduttivo) e l’empirismo (che individua il fondamento della conoscenza nell’esperienza).
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ La modernità ha cercato di inserire il proprio tempo entro un percorso storico definitivo; la rivalutazione della storia come scienza dei fatti e come luogo in cui viene conservata la memoria risale all’Illuminismo e si afferma nel periodo moderno. Solo avendo presente il percorso globale della storia l’uomo moderno poteva dedurre la legge di sviluppo che riteneva fosse il destino dell’umanità. Questa attenzione per il passato non è più presente nella cultura postmoderna o, almeno, lo è in misura molto minore rispetto al pensiero moderno. Inoltre, la modernità possiede anche una connotazione di carattere socioeconomico data da un intrecciarsi di fenomeni quali: il capitalismo, l’industrializzazione, la velocizzazione delle comunicazioni, l’urbanizzazione, la globalizzazione, la forte tendenza alla pianificazione,21 eccetera, fattori che hanno mutato considerevolmente la stessa percezione che l’uomo occidentale ha di se stesso in relazione alla realtà in cui è immerso. Per quel che concerne i suoi inizi, occorre premettere che la modernità ha subito un significativo periodo di gestazione e di maturazione. Per Jacob Burckhardt, l’umanesimo aveva sancito il riconoscimento della centralità della persona umana nell’universo; su tale scia la modernità ha decretato la definizione dell’uomo quale sogget-
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Le due rivoluzioni, americana e francese, non sono state di popolo, ma volute anzitutto dalla borghesia, la componente più colta ed aperta della società. Notiamo che, in Francia, la popolazione rurale è stata schierata per la monarchia ed il passato regime ancora per diversi anni dopo la rivoluzione. 21 Afferma Bauman: «…credo che a distinguere l’era moderna da altre epoche fosse l’ossessione per la pianificazione e la realizzazione di progetti, la tendenza a subordinare il presente ad un progetto ancora irrealizzato» (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 77).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE to razionale in un mondo di oggetti da comprendere per mezzo della ragione. Essenziale, in questa visione, è la dichiarata autonomia dell’uomo rispetto a Dio. Il pensiero di Cartesio22 è fondamentale in questo processo: per lui tutto inizia dal soggetto razionale (la res cogitans, la sostanza pensante), tutto il resto deve essere affrontato con un’attitudine sistematica di dubbio: ogni cosa è sottoposta al dubbio, tranne le facoltà razionali di colui che dubita. La coscienza razionale diviene il banco di prova del sapere.23 In Immanuel Kant, è presupposta l’autonomia del soggetto; in una sua celebre definizione, l’illuminismo è «l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità», dove per minorità si deve intendere «l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro». Il momento speculativo più alto del trionfo della ragione si ha col sistema hegeliano; per Georg W. F. Hegel: «...il divenire della storia, lo spirito alienato nel tempo si è fatto così trasparente alla ragione al punto che non c’è da aspettarsi più nulla di nuovo, non c’è più spazio per l’ulteriorità. Il processo storico è definitivamente chiuso nel sapere assoluto e così il pensiero non conoscerà più stupore, né meraviglia... Negativo e positivo si rive-
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Cartesio o René Descartes (1596-1650) espose le caratteristiche principali del suo pensiero nel celeberrimo Discorso sul metodo in cui sostiene che: è valido solo ciò che si può conoscere in modo chiaro e distinto; un problema deve essere impostato scomponendolo fino negli ultimi elementi costitutivi; è necessario procedere per gradi, dal più semplice al più complesso; bisogna garantire la correttezza del procedimento. Questo metodo matematico deve essere utilizzato nell’indagine di qualsiasi oggetto o problema. 23 In tale ottica, dimostrare diviene l’equivalente di calcolare, finendo con lo svalutare la sfera qualitativa a favore di quella quantitativa.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ lano come momenti della storia dello spirito, superati entrambi nella riconciliazione finale.»24
Con l’avvento della modernità si assiste, dunque, alla proclamazione dell’avvenuta liberazione dell’uomo dalle molteplici forme di asservimento che caratterizzavano le epoche precedenti: «l’essenza stessa della modernità è la rivendicazione dell’autonomia e della libertà umane».25 Ciò avviene parallelamente al ridimensionamento di Dio e della trascendenza; per la modernità, Dio e l’uomo stanno in un rapporto inversamente proporzionale: Dio trova il suo posto, quando lo trova, soltanto in funzione dell’uomo, che è divenuto il nuovo soggetto. Scrive Vittoria Franco che «il venir meno della mediazione dei comandamenti divini nel rapporto fra l’individuo e le sue scelte carica il soggetto etico di responsabilità anche rispetto al mondo».26 All’interno dell’idea di modernità si deduce che, se l’uomo è autonomo, l’autorità dello Stato non sarà più ricondotta ad un’investitura divina, ma alla libera risoluzione di soggetti che stipulano un contratto sociale; si deduce anche che l’etica potrà e dovrà essere autonoma. Comunque, il fatto che l’autonomia sancita dalla modernità significhi indipendenza dell’uomo dall’autorità di Dio, della tradizione e delle istituzioni, non implica certamente l’assenza di leggi o l’assoluta licenza di agire; si afferma, semmai, il rifiuto delle leggi di riconoscere altra autorità che non sia la ragione;27 questa, infatti, è lo
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JACOPOZZI, A. «Immortalità e/o risurrezione? Una riflessione sul compimento oltre la crisi del senso» da Adventus, n. 7/1, 1994, Quaderno del Seminario Avventista. 25 QUINZIO, S. Il silenzio di Dio. Milano: Mondatori, 1993, p. 50. 26 FRANCO, V. Etiche possibili. Roma: Donzelli, 1996, p. 8. 27 Gli ambienti religiosi hanno utilizzato molto spesso nei confronti della modernità proprio l’accusa superficiale di negare leggi, criteri e norme morali.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE strumento critico per distruggere o ridimensionare tutto ciò che si fonda su altre fonti d’autorità.28 La modernità è fortemente intrisa di fiducia nella ragione umana e nelle prospettive di felicità di un mondo caratterizzato dal primato della ragione;29 la modernità è, dunque, una visione del mondo impregnata di ottimismo umanista, è l’impianto dei valori della borghesia in ascesa che s’impegna e lavora per migliorare le proprie condizioni e quelle della società.30 Scrive Anthony Giddens: «Non sorprende che la difesa della ragione liberata abbia solo dato nuova forma alle idee della divina provvidenza, piuttosto che spazzarla via. Un tipo di certezza (legge divina) è stata sostituita da un’altra (la certezza dei nostri sensi e dell’osservazione empirica), mentre la divina provvidenza è stata sostituita dal progresso provvidenziale.»31
La fede nella divina provvidenza si tramuta in fede nel progresso, questa fede secolarizzata caratterizza l’ethos della condotta di vita della modernità.32 28
Notiamo che, per la Riforma protestante, la ragione aveva un ruolo ministeriale, cioè al servizio della rivelazione, mentre per la modernità un ruolo magisteriale. 29 Osserva acutamente Bauman che «la ragione della modernità è strumentale; può dire molto su come devono essere fatte le cose, ma quasi nulla su quali cose devono essere fatte». (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 60). 30 Scrive Moltmann che «non è più il passato a dominare il futuro, come nelle società tradizionali, ma è il futuro ad avere la priorità nell’esperienza che si fa del tempo. E’ così che è nata la società moderna». (MOLTMANN su GIBELLINI e altri, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p. 32. 31 GIDDENS, A. Le conseguenze della modernità. Bologna: Il Mulino, 1994, p. 55. 32 W. Huber afferma che «… il carattere specifico della modernità sarebbe proprio la sua transitorietà, il continuo passaggio dal vecchio al nuovo, dal peggio al meglio…». (Citato da MOLTMANN su GIBELLINI e altri, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p. 55). Scrive Niebuhr: «L’analisi cristiana della vita porta a conclusioni che sembreranno morbosamente pessimistiche ai moderni, ancora immersi come
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Afferma Massimo Salvadori: «Il nucleo che sta a fondamento della moderna idea di progresso è l’aspirazione a creare un ordine civile capace –grazie all’etica e alla ragione– di sottoporre a controllo il potere politico, impedire la sopraffazione degli uni sugli altri, diffondere educazione e cultura, promuovere una più giusta distribuzione delle risorse materiali e culturali, porre le scienze e le tecniche al servizio dello sviluppo umano.»33
Voltaire affermò al riguardo: «Un giorno tutto andrà meglio, ecco la nostra speranza.» Ha scritto Thomas Eagleton: «Visto generalmente come positivistico, tecnocentrico e razionalistico, il modernismo universale è stato identificato con la fede nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione razionale di ordini sociali ideali e nella standardizzazione della conoscenza e della produzione.»34
Scrive Moltmann: «A connotare questa età sono stati, dunque, il progresso, la crescita e l’espansione, le utopie e le rivoluzioni nel segno della speranza.»35 L’idea di progresso comporta una pianificazione razionale e la necessità pratica di predisporre un sistema di norme universali, pen-
sono nel loro ottimismo evoluzionistico. La conclusione più aborrita dalla temperie moderna è quella secondo cui le possibilità del male crescano insieme con le possibilità del bene, e che perciò la storia umana non sia tanto una cronaca della vittoria progressiva del bene sul male, del kosmos sul caos, quanto la storia di un kosmos sempre in crescita che crea sempre nuove possibilità di caos.» (NIEBUHR, R. Il destino e la storia. Milano: Rizzoli, 1999, p. 14). 33 SALVADORI, M. «Progresso», sul Corriere della sera, 31 dicembre 2006, p. 39. 34 Citato da NACCI, M. «Postmoderno», su La Filosofia. Vol. IV. ROSSI, P. (a cura di). Milano: Garzanti, 1996, p. 373. 35 MOLTMANN su GIBELLINI, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p. 35.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE sate come applicabili a tutti I popoli, in nome di un’antropologia arbitrariamente rigida. La modernità si fece anche, in tal modo, paladina del processo d’omologazione del mondo ai paradigmi culturali dell’occidente; essa ha infatti coinciso con l’ascesa del dominio dell’Europa sul resto del mondo; questo ha prodotto un colonialismo spesso giustificato da dubbie motivazioni etiche, e dalla pretesa di una civiltà superiore di guidare verso la modernità le culture inferiori o corrotte dal tempo. La modernità ha anche molto inciso sulla teologia permeandola di strutture immanentistiche, antropocentriche ed eticizzanti; l’ha dunque trascinata sulla terra, rinunciando, molto spesso, alle speranze celesti. Il razionalismo si pone alla base del cosiddetto liberalismo teologico, la cui strategia di fondo è quella dell’accomodamento alla sensibilità culturale moderna; secondo tale impostazione, l’immutabile nocciolo etico della fede deve essere distinto dall’involucro dogmatico imposto dalle Chiese. Per il liberalismo, l’evangelo è essenzialmente forza morale, modo di vivere, insieme di valori, compimento della naturale religiosità dell’uomo. Ma il concreto cammino della storia ha prodotto un forte disincanto; annota il teologo cattolico Bruno Forte che, «...la moderna “società senza padri” non genera figli più liberi e più uguali, ma produce dipendenze drammatiche da quelli che di volta in volta si offrono come i surrogati del padre: il “capo”, il “partito”, la “causa” diventano i nuovi padroni, e la libertà promessa e sognata si risolve in una massificazione dolorosa e grigia, sostenuta dalla violenza e dalla paura».36
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FORTE, B. L’essenza del cristianesimo. Milano: Mondatori, 2002, p. 17.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ
L’inizio della postmodernità Per quel che concerne il momento preciso del passaggio dalla modernità alla postmodernità, molte sono le ipotesi che si differenziano anche a causa delle diverse definizioni dei periodi. Scrive Paolo Rossi: «I teorici o i simpatizzanti del postmoderno fanno in genere cominciare la modernità con Bacone e Cartesio e fanno terminare il moderno con Nietzsche, Weber, Heidegger. Ma c’è chi lo amplia fino agli anni settanta del Novecento... Franco Rella afferma che è difficile dire dove finisce il moderno e dove inizia la postmodernità, dichiara poco dopo che il moderno data “dalla metà dell’Ottocento: dalla crisi del Romanticismo dell’Idealismo”, ma dice poi che il sapere moderno ‘è stato inaugurato dal gesto implacabile di Cartesio. Per Vattimo, il secolo XIX è l’inizio della tarda modernità.»37
Quello di postmodernità è un termine usato forse per la prima volta nel 1917 dal filosofo tedesco Rudolf Pannwitz, esso è oggi larga38 mente usato anche nel linguaggio divulgativo. Per quel che concerne la data dell’inizio del fenomeno, ci colleghiamo alle osservazioni precedenti aggiungendo alcune altre ipotesi interessanti: 1. J. B. Heller sostiene che la generazione dei postmoderni è la terza fra quelle che si sono succedute nel dopoguerra, quella esistenzialista e quella dell’alienazione che si è esaurita nella sua disillusione nel 1968.
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ROSSI, P. Paragone degli ingegni moderni e postmoderni. Bologna: Il Mulino, 1989, p. 61. 38 Per quanto concerne la localizzazione geografica del fenomeno ricordiamo la tesi di Tomàs Maldonado per cui, dalla Germania, sede del nucleo primitivo, il postmoderno si è spostato in Francia (dove è divenuto filosofico), poi è tornato in Germania, quindi negli USA, dove ha invaso ogni campo e da lì si è sparso nel mondo.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
2. Jean F. Lyotard fa iniziare la postmodernità negli anni ’50, che in Europa segnano la fine della ricostruzione. In seguito, però, lo stesso autore fa coincidere la nascita del postmoderno con 39 l’evento di Auschwitz. 3. Gianni Vattimo indica il momento simbolico del passaggio epocale con la distruzione nichilistica che compie Nietzsche in Umano, troppo umano, Jürgen Habermas è su una posizione analoga.
I caratteri specifici della postmodernità Il concetto di postmodernità ha trovato, comunque, origine non tanto sul terreno filosofico, ma dalla riflessione di architetti sulla forma e gli usi delle città contemporanee.40 Esso è individuabile anche nella sociologia, nell’estetica, negli studi sui mass media e di comunicazione, nella letteratura e nella critica letteraria, nella produzione artistica, nella fotografia, nel cinema, eccetera. Il postmoderno si può, dunque, intendere come un clima culturale, uno spirito del tempo caratterizzato dall’avversità al dogmatismo
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Scrive: «Ad Auschwitz, si è distrutto fisicamente un sovrano moderno: tutto un popolo. Si è tentato di distruggerlo. E’ questo il crimine che inaugura la postmodernità, un crimine di lesa sovranità: non più regicidio (come nel 1792) ma popolicidio.» (LYOTARD, J.-F. Il postmoderno spiegato ai bambini. Milano: Feltrinelli, 1987, p. 29). 40 Il postmodernismo in architettura critica radicalmente quella progettazione urbana che crea enormi piani architettonici, uguali in ogni città del mondo, che non tiene conto delle effettive esigenze e dei gusti delle persone; esso propone l’eclettismo, cioè una sorta di collage organico volto alle disparate esigenze. In questa prospettiva la città postmoderna ideale è costituita da una serie di micro-città funzionali e vivibili, invece di un gigantesco insieme di macroentità fra le quali è difficile anche spostarsi. Esiste già un'ampia architettura postmoderna realizzata, soprattutto, in USA, Gran Bretagna e Francia.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ e dalla considerazione che gli ultimi decenni costituiscono un periodo a parte della storia. La caduta delle pretese moderne si è accompagnato, conseguentemente, allo sfaldamento delle certezze stabili che possono indicare all’uomo un qualsiasi sentiero significante e definitivo. Lyotard lo definisce come «lo stato della cultura dopo le trasformazioni subite dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del 19° secolo».41 La sensibilità popolare postmoderna si esprime con affermazioni come: «non c’è la verità, ma molte verità»; «ognuno ha la sua idea e non deve essere imposta agli altri»; «ognuno può fare ciò che vuole»; «è il potere a muovere tutto»; «è giusto ciò che piace»; «giovane è bello». Scrive Michela Nacci: «Più che in posizioni teoriche impegnative e in positive professioni di fede, il postmoderno consiste nella condivisione di atteggiamenti comuni: il lasciarsi andare al flusso dei continui cambiamenti di superficie che la nostra civiltà propone; il non credere all’esistenza di uno stile proprio di un tempo che guidi la creazione nei vari campi del sapere, anche se poi, per un paradosso, il movimento in questione può essere letto proprio come stile di un’epoca; la considerazione del passato come un baule pieno di possibilità tutte ugualmente valide, e il pescare pezzi, frammenti, spezzoni, di queste varie possibilità senza offrire più un intero, un corpo di convinzioni coerenti; un’attenzione marcata per tutto ciò che è immagine e cambiamento, dunque per la moda, la pubblicità, il mondo della comunicazione, lo spettacolo, in una parola quello che si chiama l’effimero... Il postmoderno è l’enfatizzazione della parte volatile, caduca, mobile, effimera, insita nella modernità: quello che si è perduto è la parte di eterno, il nucleo fisso, che pure era contenuto
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LYOTARD, J.-F. La condizione postmoderna. Milano: Feltrinelli, 1981, p. 6.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE nella famosa definizione di Baudelaire secondo la quale il moderno è la presenza dell’eterno nell’istante.»42, 43
Scrive Leonardo De Chirico: «La sensibilità postmoderna testimonia in primo luogo il profondo disagio che l’uomo contemporaneo avverte di fronte alle conseguenze storiche del progetto della modernità.»44 Afferma Niebuhr: «Confuso e sgomento di fronte alle catastrofi della storia contemporanea, l’uomo moderno affronta la disintegrazione della sua civiltà con alterni sentimenti di paura e speranza, fede e disperazione.»45 Secondo la tesi della Scuola di Francoforte,46 la modernità, con la sua razionalità illuminata, ha essenzialmente prodotto degli effetti nefasti: la violenza contro la natura, quella contro l’umanità, le catastrofi della civiltà tecnico-scientifica, la sete di dominio estesa su
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Questo comporta la naturale conseguenza che, nel postmoderno, l’eterno scompare lasciando sulla scena soltanto il presente: cioè la storia coincide con l’istante. 43 NACCI, Postmoderno, p. 362, 365. 44 DE CHIRICO, L. «L’evangelismo tra crisi della modernità e sfida della postmodernità», su «Modernità e postmodernità», Studi di Teologia, Anno VIII, 1997/1, p. 18. <http://www.riforma.net/apologetica/liberalismo/postmodernismo.htm> [1 febbraio 2009]. 45 NIEBUHR, R. Il destino e la storia. Milano: Rizzoli, 1999, p. 209. 46 Per Scuola di Francoforte s’indica un gruppo di filosofi e sociologi tedeschi che elaborarono un indirizzo di studio critico della società presso l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte sorto nel 1924. Con l’avvento del nazismo, gli studiosi di Francoforte emigrarono per lo più negli USA; dopo la fine della guerra, rinasce, nel 1950, l’Istituto per la Ricerca Sociale, da cui uscirà, tra gli altri, Jürgen Habermas. Le idee lì elaborate si sono rivelate importanti per i movimenti della seconda metà del ‘900, in particolare per quello studentesco del ’68. Tra i più noti rappresentanti o collaboratori ricordiamo Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Herbert Marcuse, Franz Neumann e Erich Froom.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ scala mondiale, i totalitarismi, primo dei quali il nazismo,47 la mancata emancipazione dei poveri, ecc... Tra gli esponenti della Scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer hanno espresso la tesi che «la terra, irrimediabilmente illuminata, risplende di inesorabile sventura»,48 denunciando così il volto ambiguo della modernità; Benjamin, in un celebre frammento, ha descritto il cammino della Storia come una corsa verso il futuro che lascia dietro di sé cumuli di rovine, seppellendo le vittime cadute durante l’avanzata del progresso. 49 47
Sostiene Bauman, a proposito del rapporto tra razionalità moderna ed Olocausto, che «una volta accettata l’idea per cui la società felice è una società delle razze pulite, la decisione di deportare o mettere nelle camere a gas gli ebrei e gli zingari costituisce un modo razionale di procedere, e la cosa importante diventa pensare a come portare a termine questo compito… L’Olocausto fu pertanto un prodotto legittimo della modernità.» (BAUMAN; TESTER, op. cit., p. 61). Scrive Wiesel: «Avevamo ritenuto che il mondo non sapesse. Il mondo sapeva. Inoltre comprendemmo anche –ma soltanto molto più avanti– che gli assassini avevano messo in piedi un vero e proprio apparato. Non fu semplicemente questione di uccidere, come in un pogrom. L’ebreo è sempre stato abituato ai pogrom. Per molti secoli ha dovuto conviverci, qualche volta sopravvivendo, altre volte perendo in essi. Questa volta, invece, era stata messa in moto una vera e propria macchina e… il sistema funzionava! Più tardi ancora scoprimmo anche che gli assassini non rappresentavano la feccia della società, bensì si trattava di gente che aveva studiato, molti dei quali laureati…» (WIESEL, E. «Memoria d’un sopravvissuto», su La Repubblica, 27 gennaio 2004, p. 13. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/01/27/memoria-unsopravvissuto.031memoria.html> [23 febbraio 2009]). Un’altra interpretazione del fenomeno del nazionalsocialismo, che sentiamo più nostra, lo definisce come una sorta di neopaganesimo. 48 ADORNO, T. W. Dialettica dell’illuminismo. 1947, p. 11. 49 Benjamin non disconosceva la liberazione che il progresso ha significato per milioni di persone, ma sapeva che il progresso, lungi dall’essere una marcia inarrestabile verso un mondo sempre più felice, crea nuovi problemi ed infligge nuove ferite. Occorre, dunque, sanare tali piaghe proprio per restare fedeli al fine del progresso. Famosa è l’immagine dell’angelo di Benjamin sulla tragicità del mondo
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Questa tragica presa d’atto comporta anche la messa in discussione radicale della base ideologica della modernità: in tale linea si collocano le riflessioni sull’indebolimento della categoria del soggetto, sull’assolutismo della ragione razionalista, sulla necessaria contingenza di ogni sapere e valore, sulla pericolosa superficialità della fede nel progresso ineluttabile, sull’intrinseca imprevedibilità della tecnoscienza e sui rischi incalcolabili dello sviluppo industriale. Scrive criticamente il cattolico Enrico Corradi: «La subordinazione del pensiero al potere della tecnologia degrada il sapere ad essere strumentale alle leggi particolari del profitto, che sostituiscono i diritti universali della verità. Ne deriva che il fondamento su cui si istituisce il sapere non è il potere della ragione, ma la ragione del potere. La cultura illuministica non si basa sul potere-della-verità, ma sulla verità-del-potere, cioè sull’ideologia che scambia gli interessi (di parte) con i valori (di tutti).»50
La postmodernità si configura come una registrazione della crisi teorico-pratica della modernità; affermare però «che la postmodernità soppianta la modernità è come appellarsi proprio a ciò che si di-
moderno: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.» (Cit. da MOLTMANN su GIBELLINI e altri, Prospettive teologiche per il XXI secolo. p. 36). Moltmann alle p. 40 ss. della stessa opera interpreta ulteriormente la visione legandola al testo biblico di Ez 37. 50 CORRADI, E. Le ragioni dell’etica. Oltre la cultura del frammento. Milano: ITL, 1998, p. 38.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ chiara ora impossibile: attribuire una qualche coerenza alla storia e individuare il posto che noi vi occupiamo».51 Emblematica è rimasta l’affermazione di Heidegger, «ormai solo un Dio ci può salvare», quando il grande filosofo del novecento dovette prendere atto delle innumerevoli smentite all’ideologia del progresso infinito, dell’incombere del disastro ecologico, dei gravi dilemmi posti dall’ingegneria genetica. La benefica caduta delle utopie totalitarie che pretendevano di imporre infallibilmente un senso alla storia pare aver trascinato con sé ogni possibilità di trovare un significato nell’esistenza e di migliorare il mondo in vista di un futuro più umano.52 Quinzio afferma: «La modernità ha vinto, ma la sua vittoria è tragica».53 Tale crisi è sentita in modo quasi unanime, ma diverse sono le spiegazioni, le definizioni54 e le soluzioni. Una via d’uscita dalla crisi della modernità è intravista, da alcuni, in una sorta di fondamentalismo: un’attitudine, che attraversa diverse categorie (religione, politica, società…), caratterizzata dal desiderio di certezze al di là di ogni problematicità, dall’assunzione di mo51
GIDDENS, Le conseguenze della modernità, p. 55. Un cabarettista tedesco, Karl Valentin (amico di Brecht) ha scritto che «una volta la realtà era brutta, ma il futuro era migliore…», oggi appare dubbio il fatto di avere un futuro. 53 QUINZIO, S. La croce e il nulla. Milano: Adelphi, 1984, p. 221. 54 Il ventaglio delle possibili risposte può essere ricondotto a due termini tedeschi, Aufhebung e Verwindung: Verwindung evidenzia un superamento, un oltrepassamento, una successione: esso indica che la postmodernità trascende la modernità, se la lascia alle spalle senza per questo eliminarla, rimuoverla, prescinderne ma, anzi, assumendosi il compito di riformularne criticamente le istanze; sarebbe, dunque, un cambiamento profondo, un ripensamento complessivo della modernità, ma nel segno della continuità. Aufhebung ha, invece, una valenza nichilista che rinvia alla negazione definitiva della metafisica e di ogni valore assoluto, alla dissoluzione del senso, alla delegittimazione di ogni visione totalizzante. 52
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE delli e orientamenti semplici, dall’accettazione d’esempi e simboli chiari. L’istanza fondamentalista è autoritaria, essa tende a tornare ad un mondo sacralizzato suddiviso in amici e nemici e categorie analoghe.55 Se la modernità è stata un pensiero forte, caratterizzato da forti soggetti,56 la postmodernità costituisce invece un pensiero debole nell’indicazione del filosofo italiano Gianni Vattimo.57 Il pensiero debole, secondo Giuseppe Savagnone, concepisce: «...una conoscenza che non pretende più di risalire al fondamento ultimo delle cose, né di stabilire la verità assoluta, ma che si limita alla ricognizione del mondo dei fenomeni, accettandone la verosimiglianza come l’orizzonte più adeguato alle effettive possibilità conoscitive degli uomini».58
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Questa attitudine si manifesta anche nelle nostre chiese nelle quali individui molto identificati con determinati aspetti della tradizione avventista, reagiscono al cambiamento radicalizzando i toni e negando, di fatto, ogni problematicità dogmatica. 56 Esempi di soggetti forti tipici della modernità sono: la patria, lo Stato, la politica, le ideologie, il progresso, la scienza, la tecnica, l’impresa, il profitto, la libertà, la giustizia, la democrazia, ecc… 57 Gianni Vattimo (n. 1936), allievo di Gadamer e Loewith, cattolico liberale, oggi molto impegnato anche in politica, è noto per le sue teorie sul pensiero debole. Il pensiero debole è una filosofia che pensa la storia dell’emancipazione umana come una progressiva riduzione della violenza e dei dogmatismi e che favorisce il superamento delle stratificazioni sociali che da questi derivano. Per Vattimo, l’essere non può che essere debole in quanto appare nel frammento, è in perenne mobilità ed esige interpretazione; ciò che conta per lui non è la verità, ma la carità che è l’unico valore che resiste al vaglio del nichilismo. Vattimo s’inserisce nella corrente ermeneutica per la sua concezione della verità come trasmissione di un patrimonio linguistico e storico che rende possibile la comprensione del mondo. 58 SAVAGNONE, G. Evangelizzare nella postmodernità. Roma: Ed. Elle Di Ci, 1996, p. 25.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Lo stesso autore afferma anche che «se il pensiero può permettersi di essere debole, senza disperazione, è dunque perché l’essere delle cose è considerato ormai debole anch’esso, evanescente, inafferrabile, come un tempo lo erano le apparenze, come lo sono le favole».59 Per Corradi, «il pensiero debole richiama l’esistenzialismo della prima metà del nostro secolo, non solo per la ricchezza di analisi della vita condotta alla luce dello spaesamento, che ruota attorno alla realtà del frammento. Ma anche perché considera oggettivamente insuperabile la situazione dello spaesamento, dell’assenza dei punti di riferimento, della dispersione dell’esistenza in frammenti.»60
Per Vattimo, l’espressione pensiero debole61 «significa non tanto, o non principalmente, un’idea del pensiero più consapevole dei suoi limiti, che abbandona le pretese delle grandi visioni metafisiche globali… ma soprattutto una teoria dell’indebolimento come carattere costitutivo dell’essere nell’epoca della fine della metafisica».62
Per Forte, «tutto diventa debole: “l’ontologia del declino” è il canto flebile di un mondo senza fondamento e senza patria».63
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SAVAGNONE, Evangelizzare nella postmodernità, p. 25. E’ stata coniata la malinconica espressione “favola triste”, un ossimoro efficace per definire la visione postmoderna della storia. 60 CORRADI, Le ragioni dell’etica, p. 42. 61 Altri hanno coniato l’analoga espressione di “impotenza del pensiero”. Un’altra immagine che descrive questo pensiero debole è quella del rizoma (di Gilles Deleuze), un sapere senza radici. 62 VATTIMO, G. Credere di credere. Milano: Garzanti, 1996, p. 25-26. 63 FORTE, B. La sfida di Dio. Milao: Mondatori, 2002, p. 15.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Ancora secondo Vattimo il postmoderno si può differenziare radicalmente dal moderno soltanto se ci si appropria dell’idea di fine della storia, egli scrive al riguardo: «La storia contemporanea... è, in termini più rigorosi, la storia di quell’epoca in cui tutto, mediante l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione, la televisione soprattutto, tende ad appiattirsi sul piano della contemporaneità e della simultaneità, producendo anche così una destoricizzazione dell’esperienza.»64
Lyotard, invece, dichiara che «sicuramente il postmoderno fa parte del moderno»,65 nel senso che ne costituisce lo sviluppo ultimo.66 Quinzio67 segue la stessa linea, anche se animato da una profonda sensibilità religiosa; a proposito del decadimento della storia, 64
VATTIMO, G. La fine della modernità. Milano: Garzanti, 1985, p. 18. Scrive ancora tale autore: «Ciò che intendo sostenere è: che nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; che essi caratterizzano questa società non come una società più trasparente, più consapevole di sé, più illuminata, ma come una società più complessa, persino caotica; ed infine che proprio in questo relativo caos risiedono le nostre speranze di emancipazione». (VATTIMO, G. La società trasparente. Milano: Garzanti, 1989, p. 11). Conferma Bauman: «Con l’implosione del tempo necessario a comunicare, un tempo che si va restringendo alla “misura zero” dell’istante, lo spazio e i fattori spaziali non contano più, almeno per coloro che possono agire con la velocità dei messaggi elettronici». (BAUMAN, Z. Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone. Bari: Ed. Laterza, 1998, p. 16). 65 LYOTARD, La condizione postmoderna, p. 21. 66 Il postmoderno, ribadiamo, ha bisogno del moderno per definirsi. Esso proviene dal moderno, non ne può fare a meno, in quanto ne conserva il corredo genetico. 67 Sergio Quinzio (1927-2001), cattolico, scrittore fecondo, passionale, ha manifestato grande simpatia per la cultura e la religiosità ebraica, ma anche per i valori della Riforma: si considera una sorta di giudeo-protestante. Nelle sue posizioni teologiche concilia una forte tensione escatologica con l’attaccamento alla vita concreta. La sua idea fondamentale è quella del fallimento storico della redenzione. Per lui «la signoria del Cristo non si è attuata, la speranza messianica è andata delusa»; la fede cristiana è, nel contempo, impossibile ed irrinunciabile: la speranza cristiana è
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ scrive: «La storia, così come la racconta la Bibbia, è la storia di una continua caduta, nei confronti della quale gli eventi che testimoniano Dio sono momenti puntiformi, eccezioni che consentono di misurare il decadimento»,68 ed ancora: «La divina scelta di rinunciare all’onnipotenza per assumere la pietà è infinitamente perfetta perché è infinitamente rischiosa, perché in essa Dio si priva per sempre di qualunque possibilità di annientare le conseguenze della scelta iniziale. Dio si è legato per sempre con noi alla catena della povertà.»69
Significativa è stata l’opera di Simone Weil:70 «L’illimitatezza, la forza, la distruzione della tradizione, lo sradicamento, temi decisivi dunque disperata. E’, infatti, affascinato dalla theologia crucis luterana e dall’aut-aut protestante. S. Quinzio offre il meglio di sé nel paradosso, nell’intuizione, nelle sintesi veloci e frammentarie. Tra le sue opere ricordiamo: Cristianesimo dell’inizio e della fine (1968); Un commento alla Bibbia (1976); La fede sepolta (1978); Dalla gola del leone (1980); Silenzio di Dio (1982); La croce e il nulla (1984); Radici ebraiche del moderno (1990); La sconfitta di Dio (1992); Incertezze e provocazioni (1993); Mysterium iniquitatis (1995). 68 QUINZIO, S. La sconfitta di Dio. Milano: Adelphi, 1992, p. 50. 69 QUINZIO, S. Un commento alla Bibbia. Milano: Adelphi, 1976, p. 725. Ancora: «Del resto l’onnipotenza non è un attributo biblico di Dio: i cabbalisti pensavano che Dio, all’inizio, si fosse ‘ristretto’ per far posto al creato, e da quel momento non fosse perciò né infinito né onnipotente... Proprio perché Dio non è onnipotente, la giustizia non è possibile neanche a Dio.» (QUINZIO, S. Radici ebraiche del moderno. Milano: Adelphi, 1990, p. 132). 70 Simone Weil (1909-1943) nasce da genitori ebrei non praticanti. A 16 anni vive una forte crisi depressiva, il cui frutto più significativo è la scoperta di una personale vocazione alla verità che non l’abbandonerà più. Insegna filosofia in vari licei, con l'interruzione di due anni in cui lavora in fabbrica. Nel ’37, vive un’esperienza mistica di incontro col Cristo particolarmente intensa che indirizzerà il suo pensiero in termini decisamente spirituali. Da allora preferirà alla cultura platonico-ellenica lo studio dei principali testi sacri esistenti, dal Libro dei Morti Egiziano al Corano, dalla Bibbia alla Bhagavad-Gita. Nel ’40, abbandona Parigi a causa dell’invasione e si rifugia negli USA, da qui passa in Inghilterra dove lavora per l’organizzazione Fran-
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ce libre e muore nel 1943. La Weil subisce dapprima il fascino del marxismo di cui tuttavia rifiuta l’autoritarismo. Si occupa di politica fin dagli anni del liceo, ma non si iscrive mai ad alcun partito. La sua militanza politica iniziale, più anarchica che marxista, trova le sue ragioni in un’ispirazione etica che la guiderà sempre a fianco degli oppressi. Aderisce inizialmente allo spiritualismo francese d’inizio secolo, permeato di una forte carica anti-sistematica. Successivamente la Weil svilupperà il suo pensiero che sarà sempre più caratterizzato dalle esperienze interiori. Gli anni della fabbrica danno l’avvio ad una profonda e sofferta riflessione sul senso della propria esistenza, mentre vive l’esperienza operaia come occasione d’esperienza interiore. L’idea della morte attraverserà tutta la sua vita costituendone il vettore di ricerca della verità. Scrive in una lettera: «Ho sempre pensato che l’istante della morte sia la norma, lo scopo della vita. Pensavo che, per coloro che vivono come si conviene, sia l’istante in cui per una frazione infinitesimale di tempo penetra nell’anima la verità pura, nuda, certa, eterna. Posso dire di non aver desiderato per me altro bene.» Abbandona gradualmente l’interesse politico e spinge la sua riflessione in direzione del senso dell’esistere, colto nei suoi risvolti religiosi e mistici, senza rinunciare al tentativo di tradurre il tutto in pensiero, compito che non delegò mai ad alcuna istituzione. E’ un personaggio estremamente significativo per la radicalità con cui ha vissuto la sua visione del mondo attraverso le sue trasformazioni. Come filosofa certamente non fu capita: ci fu sempre un maggior interesse per il suo vissuto. Una caratteristica della sua esistenza fu proprio quel particolare contatto col malheur, la sofferenza come realtà universale, nonché l’accettazione di esserne posseduti senza che ciò porti alla rassegnazione: «Non si tratta di cercare un rimedio contro la sofferenza, ma di farne un uso soprannaturale». Il centro del pensiero di Weil è imperniato sul concetto di decreazione, quale conseguenza diretta della creazione stessa: in merito la Weil rivela una tendenza gnostica: «La creazione è abbandono. Creando ciò che è altro da Lui, Dio l’ha necessariamente abbandonato. La creazione è abdicazione.» E ancora: «Dio si è svuotato della sua divinità e ci ha riempito di una falsa divinità. Svuotiamoci di essa. Questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati. In questo stesso momento Dio con la sua volontà creatrice mi mantiene nell’esistenza perchè io vi rinunci. Dio attende con pazienza che io voglia infine acconsentire ad amarlo.» Decreazione, quindi, come atto di spoliazione totale e come unica via per portare a realtà quella scintilla divina presente in noi. Attraverso la Weil si stabilisce un rapporto tra la facoltà naturale dell’intelligenza e quella soprannaturale dell’amore: la prima infatti può cogliere «l’esistenza nell’anima di una facoltà superiore a se stessa, che conduce il pensiero al di sopra
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ per l’analisi del nichilismo insieme alla metamorfosi moderna della potenza, costituiscono infatti il nucleo della sua riflessione.»71 Per tale autrice, ebrea convertita al cattolicesimo,72 alla debolezza dell’uomo si affianca quella di Dio,73 un Dio colto come asintoto e luogo immaginario ed impensabile.74
di essa». E’ in virtù di tale scoperta e non di alcuna costrizione esterna, che l’intelligenza umana trova in se stessa «un motivo sufficiente che la costringa a subordinarsi all’amore soprannaturale». 71 DAL LAGO, A. «L’etica della debolezza». VATTIMO, G.; ROVATTI, P. A. (a cura di). Il pensiero debole. Milano: Feltrinelli, 1997, p. 91. 72 Afferma Quinzio a riguardo della Weil: «In una delle sue più nobili coscienze Israele prova per se stesso una violenta repulsione e ripugnanza… Ignorando la tradizione ebraica, è dominata dal luogo comune che nel Dio della Bibbia non vede altro che violenta crudeltà vendicatrice.» (QUINZIO, La croce e il nulla, p. 47). 73 Per tale autrice, «Dio è presente quaggiù soltanto sotto la forma dell’assenza». Ancora S. Weil coglie nell’agire di Dio la «parentela del male con la forza, con l’essere, e del bene con la debolezza, il nulla». (WEIL, S. cit. da QUINZIO, La sconfitta di Dio, p. 53). 74 Per la Weil la conoscenza di Dio non appartiene alle possibilità umane. Dio chiama debolmente e l’uomo ascolta altrettanto debolmente. Occorre, per lei, scoprire la «parentela del male con la forza, con l’essere, e del bene con la debolezza, il nulla». Ha scritto: «So bene che non mi ama. Come potrebbe amarmi? E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare, tremando di paura che, forse, malgrado tutto, mi ama» ed ancora: «Dio è impotente, se non per la ripartizione equa e misericordiosa del bene. Egli non può altro. Ma ciò è sufficiente... L’impossibilità è l’unica porta verso Dio. Volere l’impossibile. Amare il male.» (WEIL, S. Quaderni. Vol. I. Milano: Adelphi, 1982, p. 105). Ancora: «Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto… Allora viene il giorno in cui Dio in persona si mostra a lei e le rivela la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe.» (Cit. da PIFANO, P. Tra teologia e letteratura. Cinisello Balsamo [Milano]: Ed. Paoline, 1990, p. 156). Ancora: «Dio attende come un mendicante che resta in piedi, immobile e silenzioso, davanti a qualcuno che forse gli darà un tozzo di pane. Il tempo è questa attesa… Gli astri, le montagne, il mare, tutto ciò che ci parla del tempo ci porta la supplica di Dio.» (Citato da QUINZIO, La croce e il nulla, p. 52).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE La Weil contrappone questa debolezza divina alla forza mondana delle grandi Chiese. In lei è presente il concetto di malheur: la lontananza dal luogo della misura, dell’equilibrio e della riconciliazione, l’infelicità moderna per cui l’essere si allontana sempre senza possibilità di ritorno, ma sempre memore della patria lasciata: «in questo rotolare via, Simone Weil vede la condizione tipica della modernità».75 Anche il filosofo Norberto Bobbio (1909-2004) non si è sottratto dall’esprimersi sul rapporto tra modernità, postmodernità e religione (pur «da non credente, che continua nonostante tutto a restare sulla soglia»): «Sembra dunque che il fallimento di Dio per il credente sia andato di pari passo con il fallimento, per il non credente, della ragione, e l’uno e l’altro concorrano a non lasciarci più molte illusioni sull’approssimarsi dell'età del nichilismo... Non abbiamo mai avuto difficoltà ad ammettere che la ragione non è, ma diviene. Ora apprendiamo che non è, ma diviene, anche Dio, proiettato nella Storia... Non si sta affacciando all’orizzonte di una società in angustie una sorta di teologia debole, che si viene stranamente affiancando al cosiddetto “debolismo” filosofico?» 76 75
DAL LAGO, A. «L’etica della debolezza», p. 95. BOBBIO, N. Elogio della mitezza. Milano: Linea d’Ombra, 1994, p. 197-198. Bobbio scriveva nel suo ultimo scritto: «Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla chiesa sì… Non mi considero né ateo, né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo…» (Citato da «Sono lontano dalla Chiesa ma non dalla religione dei padri», su La Repubblica, 11 gennaio 2004, p. 12). <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/01/11/sono-lontanodalla-chiesa-ma-non-dalla.html> [3 febbraio 2009]. A commento, il cardinale Carlo M. Martini ha scritto: «Rileggendo queste pagine non mi sento intellettualmente molto lontano da lui. Anch'io sento di vivere profondamente il senso del mistero e ritengo che “la ragione dell'uomo è un piccolo lumicino, che illumina uno spazio infimo rispetto alla grandiosità, all'immensità dell'universo”. Resta dunque “fondamen76
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Scrive Paolo Pifano: «...nell’esperienza umana l’angoscia è stata sempre in agguato; ma le sue manifestazioni erano controllate con tecniche di salvaguardia ben precise: il mito, la religione, la filosofia, le ideologie, la scienza. La nostra era ha visto, invece, indebolirsi questi sostegni; si vive un clima di solitudine metafisica, dove la creatura si ritrova nuda e avverte tutto il freddo della sua fragilità.»77
Per Giddens: «Non sorprende che la difesa della ragione liberata abbia solo dato nuova forma alle idee della divina provvidenza, piuttosto che spazzarle via. Un tipo di certezza (legge divina) è stata sostituita da un’altra (la certezza dei nostri sensi e dell’osservazione empirica), mentre la divina provvidenza è stata sostituita dal progresso provvidenziale.»78
Tra i precursori di questa visione ricordiamo Nietzsche; il suo «Dio è morto» indica la fine di ogni valore, di ogni verità, di ogni fondamento, di ogni obiettivo della storia; restano solo frammenti, interpretazioni, il nulla; il suo nichilismo significa che tutti i riferimenti e le norme morali si disgregano e che i valori superiori si svalutano.79 tale questo profondo senso del mistero, che ci circonda, e che è ciò che io chiamo senso di religiosità”. La differenza sta nel fatto che io a questo mistero mi affido, mi abbandono con fiducia perché sono convinto che è un mistero buono, che ha cura di noi e che ha in sé le chiavi di tutti quei problemi che umanamente non riesco a comprendere… egli rimane un modello di ricerca umile e sofferta, di sincerità e di autenticità che può mostrare a molti quanto sia importante non accontentarsi di risposte facili e porsi con serietà e impegno quelle domande che toccano il significato dell'esistenza.» (AAVV, Micromega, 1/2004, Ed. L’Espresso, p. 18). 77 PIFANO, Tra teologia e letteratura, p. 142. 78 GIDDENS, Le conseguenze della modernità, p. 55. 79 Acutamente Quinzio afferma che «il nichilismo l’abbiamo già alle spalle, di fronte abbiamo il nulla». (QUINZIO, La croce e il nulla, p. 222). Un grande poeta italiano dell’800, Giacomo Leopardi, è classificabile come un annunciatore del fallimento
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE A partire dagli anni ’70, la riflessione sulla crisi della modernità può definirsi propriamente postmoderna: questo periodo è definito da diversi studiosi come quello dell’inizio dell’età del post.80 Entra dunque in crisi l’idea medesima di storia; la rivalutazione della storia come scienza e come luogo in cui viene conservata la memoria risaliva all’Illuminismo e si è poi pienamente affermata nella modernità: solo avendo presente il percorso globale della sua storia l’uomo moderno poteva dedurre la legge di sviluppo del destino umano. Nella dissoluzione dell’idea di progresso si situa il senso dell’espressione fine della storia. Francis Fukuyama ipotizza una sorta di fine della storia, ma intesa non in modo apocalittico; per lui il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda avrebbero inaugurata un’era senza più ideologie in conflitto, ma in cui il mondo intero avrebbe accettato progressivamente la democrazia liberale; la storia perderebbe, dunque, il suo carattere di lotta tra ideologie e classi sociali.81 della modernità, scrive Casoli: «Leopardi scopre il nulla di tutte le cose, anche del dolore e dell’infelicità… denuncia… il crollo apocalittico dei valori dell’Occidente… Leopardi individua così, profeta e precursore, lasciandosene attraversare egli stesso, la traiettoria nichilistica dell’Occidente.» (CASOLI, G. Presenza e assenza di Dio nella letteratura contemporanea. Roma: Città Nuova, 1995, p. 22-23). 80 Da cui: post-industriale, post-capitalistica, post-borghese, post-cristiana, posthistoire, post-ideologica, post-economica, post-liberale, post-tradizionale, ecc... 81 Ci pare che Fukuyama (autore di The End of History and the Last Man. New York: Free Press, 1992) abbia trascurato dei fenomeni, come quello degli attuali fondamentalismi religiosi, in deciso contrasto con la sua visione di un pianeta unideologico. Egli interpreta la storia umana come un unico processo evolutivo che termina alla fine del XX secolo. Un ulteriore sviluppo che vada oltre allo stato liberale e democratico è da escludere. I motivi di questa stagnazione sarebbero principalmente: la scienza naturale, l'economia moderna e l'emancipazione. Per Fukuyama le malvagità dei regimi totalitari dello scorso secolo hanno influenzato il pensiero di molti intellettuali in maniera da rendere le loro previsioni pessimiste. Nel
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Erich Froom parla del venire meno della grande promessa. Già Benjamin aveva detto che la modernità era nata sotto il segno del suicidio e Freud che il cocchio della modernità era guidato da Thanatos. Bauman definisce il postmoderno come la modernità liquida per indicare la compresenza di continuità e discontinuità ed il trionfo della mobilità rispetto alla stabilità. Nicola Abbagnano afferma che «non si crede più al progresso ineluttabile della storia»;82 Solzgenitzin definisce quello nostro attuale contempo dimenticano che la caduta dell'impero sovietico rappresenta un’ottima premessa per raggiungere il traguardo comune delle società occidentali: lo Stato fondato sui principi fondamentali dei diritti dell'uomo. Anche il fascismo non si può considerare un'alternativa, perché la sua ideologia è stata sradicata già con la seconda guerra mondiale. Inoltre, con la caduta del muro di Berlino, non si può considerare nessun sistema totalitario un'alternativa allo stato liberale, se si accettano i diritti fondamentali dell'umanità. Questo è il risultato empirico dovuto ai cambiamenti della politica internazionale. Le cause principali che hanno portato alla fine delle ideologie totalitarie vengono analizzate nella maniera che segue. Per quanto riguarda il fascismo, Fukuyama sostiene, che questa ideologia politica abbia avuto al suo interno un problema strutturale dovuto al militarismo. Il militarismo e le dottrine riguardanti la razza pura hanno creato conflitti con altre nazioni e minoranze etniche, che hanno scaturito una violenza sociale inevitabile. Secondo lui il comunismo ha incontrato le maggiori difficoltà nella gestione dell'economia popolare. Mantenere lo standard di vita che aveva raggiunto la popolazione sovietica negli anni '70 era diventato impossibile. Grazie alla perestroika anche i maggiori esponenti della politica sovietica avevano compreso che il comunismo aveva perso legittimità politica. Il liberalismo di Fukuyama è costituito principalmente dal dogma dello stato legale e dai diritti fondamentali dell'uomo. Per garantire un benessere sociale però è opportuno stabilizzare l'economia popolare consentendo ai singoli attori di agire secondo le leggi del mercato. La democrazia gioca un ruolo altrettanto fondamentale, perché responsabilizza il popolo, permettendogli di agire a livello politico per contrastare le decisioni illiberali dello Stato. Fukuyama sostiene che l'evoluzione é contrassegnata e spinta dalla forza della razionalità e che qualsiasi sistema totalitario è condannato al fallimento. 82 ABBAGNANO, N. L’uomo progetto 2000. Roma: Dino ed., 1980, p. 231.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE come «un mondo in frantumi»; Heidegger parla di «notte del mondo». Per Lyotard83 la modernità ha prodotto delle grandi narrazioni84 (cioè concezioni globali ed ideologiche della storia con forte senso della trama e dell’organizzazione gerarchica)85 per orientare in modo unitario il corso della storia dell’occidente e per legittimare istituzioni,86 pratiche sociali e modi di pensare; spiega Robert Schreiter: 83
Jean-Francois Lyotard (1924-1999) è tra gli ideatori del termine postmoderno: secondo lui il compito del filosofo in questa epoca è di individuare criteri di giudizio che abbiano un valore locale, circoscritto e non globale e totalizzante. 84 Un’immediata applicazione di quanto detto si ha nella letteratura: Lyotard sottolinea la sempre crescente improponibilità, nella narrativa, di creare romanzi aventi una struttura modellata su quella del grande romanzo ottocentesco e, in particolare, ardue sono divenute espressioni come l’eroe o il protagonista unico. La letteratura pare destinata a divenire un collage di citazioni, di storie diverse, in cui passato e presente si mescolino: questo assemblaggio di parti differenti dotate di senso che però non costituiscono nell’insieme una storia coerente è un carattere tipico del narrare postmoderno. 85 Scrive Forte: «La modernità, tempo del sogno emancipatorio, è anche il tempo delle visioni totali del mondo, proprie delle ideologie… proprio a causa della sua ambizione totale l’ideologia diventa violenta… Il sogno di totalità si fa inesorabilmente totalitario» (FORTE, L’essenza del cristianesimo, p. 16). Ancora il medesimo autore: «Le ideologie, infatti, sono questi grandi racconti nei quali si narra la storia dell’emancipazione dell’uomo e del mondo… l’ideologia è questa visione totale del mondo e della vita, è questa ebbrezza di luce che vuole portarti a realizzare il sogno di un tempo in cui sarai tu il padrone del tuo presente e del tuo domani.» (FORTE, B. «Parola e silenzio nella riflessione teologica», tratto da <http://www.nostreradici.it/parola_silenzio.htm>, p. 2). 86 Particolarmente rilevante appare la crisi dello Stato-nazione; scrive Bauman al riguardo: «Prima del crollo del blocco comunista… Le divisioni del mondo erano ricomposte assegnando a ogni cantuccio e a ogni buco del globo il suo significato “nell’ordine globale delle cose”, ossia nel conflitto che opponeva eppure manteneva le due sfere in un meticoloso equilibrio controllato, anche se sempre precario. Il mondo era una totalità in quanto non conteneva nulla che potesse sfuggire a questa condizione significativa, e quindi nulla poteva sfuggire all’equilibrio tra le poten-
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ «...egli rileva in particolar modo la mancanza di credibilità di ogni grande narrazione, cioè di ogni spiegazione complessiva che nomini e collochi le parti costitutive della realtà. Le relazioni non sono soltanto frammentarie, ma anche arbitrarie. Ciò ha un effetto profondo sulla formazione e il mantenimento dell’identità.»87
La modernità, per il pensatore francese, cercava la legittimità non nel mito delle origini, in un atto fondativo, ma nel futuro che diviene il luogo di un inarrestabile progresso: è evidente la conseguenza etica di questa valorizazzione assoluta del progresso e del futuro: ciò che sta davanti è buono, ciò che si colloca nel passato sarebbe invece eticamente superato. Tra le grandi narrazioni della modernità un particolare significato ha avuto il comunismo: esso ha indotto i suoi fedeli a credere di essere in grado di realizzare in maniera definitiva il progresso; si è sentito legittimato (mostrando come l’idealismo possa degenerare in potere assoluto) ad usare ogni mezzo anche violento per raggiungere vi propri fini.88 Scrive Massimo Salvadori: «...mentre gli illuministi credevano in un progresso possibile, sempre suscettibile di essere messo in forse, positivisti e socialisti… si erano convinti che il progresso fosse inevitabile, necessario, inarrestabile. Per questa via, il Progresso ha perduto il suo carattere problematico, è divenuto un’ideologia arrogante, culminata col co-
ze, che coprivano una parte considerevole del mondo e gettavano nel cuneo della loro ombra la parte rimanente. Tutto al mondo aveva un significato…» (BAUMAN, Dentro la globalizzazione, p. 66). 87 SCHREITER, R. su GIBELLINI, R. Prospettive teologiche per il XXI secolo. Brescia: Queriniana, 2003, p. 381. 88 E’ significativo che, nell’Unione Sovietica di Breznev, gli oppositori venivano considerati come malati di mente.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE munismo in un senso di onnipotenza, che ha costituito la premessa del potere totalitario.»89
Ma tutta la storia contemporanea ha mostrato la falsità, il fallimento e l’inadeguatezza di questo progetto che ha dato origine a barbarie inenarrabili;90 scrive: «Non è l’assenza di progresso, ma lo sviluppo tecno-scientifico, artistico, economico e politico che ha reso possibili le guerre totali, i totalitarismi, la disoccupazione, la deculturazione generale».91 Ci sembra illuminante un’interpretazione dell’ambiguità della modernità di Forte: «… quando si pretende, come pretese la modernità, di illuminare tutto e comprendere tutto, allora inesorabilmente la “luce” diviene sorgente di inaudita violenza. Ecco il doppio, ambiguo volto della modernità: il volto ammaliante della luce e dell’emancipazione, il volto tragico della violenza… quando tu vuoi spiegare ogni cosa, lasciando l’uomo solo con se stesso, autonomo finalmente davanti alla vita, alla morte, al dolore, tutto questo diviene violenza… il tempo della modernità è un tempo violento, perché è il tempo del trionfo dell’identità, del soggetto esclusivo, del soggetto che vuole fare da solo.»92
Sempre secondo Lyotard, la postmodernità si caratterizza come un’attitudine d’incredulità verso tutti i tentativi di collocarsi nella storia mediante l’impiego di un sistema totalizzante: «Ognuno è rinviato a sé. E ognuno sa che questo sé è ben poco.»93
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SALVADORI, «Progresso», p. 39. Bauman addebita addirittura il dramma specifico dell’Olocausto alla logica della modernità di cui sarebbe una conseguenza naturale. 91 LYOTARD, La condizione postmoderna, p. 95-96. 92 FORTE, «Parola e silenzio nella riflessione teologica», p. 2. 93 LYOTARD, La condizione postmoderna, p. 31. 90
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Per i postmoderni, alla metafisica religiosa medievale la modernità ha sostituito un’altra metafisica: quella della ragione; alla luce di questa nuova sensibilità, ogni visione metafisica è ritenuta obsoleta e sottoposta a critica radicale. Si chiede Giovanni Filoramo: «Come si orienterà questo tipo d’individuo, privato di quella bussola particolare che gli fornivano le grandi storie e i miti collettivi di riferimento di cui si nutriva ancora la generazione precedente, privato anche della sicurezza di comunità stabili che offrano a ciascuno l'evidenza di codici chiari, solidi e socialmente condivisi? A differenza di chi l'ha preceduto, egli non si trova più di fronte un mondo da costruire secondo grandi progetti.»94
Hans Jonas si dilunga, in particolare, sul vuoto etico che ci circonda e sull’assenza di ogni fondamento come caratteri propri dell’età attuale dove, per la prima volta nella storia, le azioni dell’uomo appaiono irreversibili: «Ora tremiamo nella nudità del nichilismo, nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto»;95 un potere che si esercita senza dei paradigmi di riferimento e di significato che lo orientino e lo limitino.
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FILORAMO, G. Le vie del sacro. Torino: Einaudi, 1994, p. 48. L'autore, di seguito, offre anche un’iniziale risposta al quesito che pone: «Il sé sarà d'ora in poi il centro intorno cui far ruotare questi frammenti, che altrimenti vagherebbero impazziti nello spazio gelido ed etereo della nostra società». Un altro termine utilizzato, soprattutto da Vattimo, per indicare questa perdita di un principio unificante è quello di spaesamento. Più negativo ancora è la valutazione con cui Guardini anticipava il giudizio sulla crisi della modernità, più di 50 anni fa: «Tutti i mostri della solitudine, tutti i terrori delle tenebre sono ricomparsi. L’uomo sta nuovamente di fronte al caos; e la cosa è tanto più terribile perché la maggior parte degli uomini sembrano non vedere, mentre la gente che ha avuto una istruzione scientifica fa i suoi discorsi, e le sue macchine funzionano e le autorità impartiscono disposizioni». (GUARDINI, R. La fine dell’epoca moderna. Brescia: Morcelliana, 1954, p. 94). 95 JONAS, H. Il principio responsabilità. Torino: Einaudi, 1990, p. 31.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Dunque, la benefica caduta delle utopie totalitarie che pretendevano di imporre infallibilmente un senso alla storia sembra aver trascinato con sé ogni possibilità di trovare un significato nell’esistenza e di disegnare un mondo più umano. Paul Valéry scrive: «Interruzione, incoerenza, sorpresa sono le normali condizioni della nostra vita. Sono diventate finanche dei bisogni reali per tante persone le cui menti non sono più nutrite… da nient’altro che mutamenti repentini e sempre nuovi stimoli… Non riusciamo più a sopportare nulla che duri. Non sappiamo più come mettere a frutto la noia… »L’intera questione si riduce dunque a questo: può la mente umana dominare ciò che ha creato?»96
In contrasto con l’attitudine moderna, la postmodernità esalta la differenza,97 la pluralità, la discontinuità, la frammentazione,98 la molteplicità, l’eterogeneità, l’indeterminatezza, la relatività, l’intimità.99 96
Citato da BAUMAN, Z. Modernità liquida. Roma: Ed. Laterza, 2004, p. V. Scrive Chiurazzi: «La differenza è una delle parole d’ordine della cultura postmoderna, soprattutto in campo filosofico e politico. Se esiti del moderno sono l’omologazione dell’esperienza, la comprensione unitaria della realtà in base a un principio fondativi, e, in ambito politico, l’idea di uguaglianza, il postmoderno insiste invece sulla diversificazione, sulla molteplicità, facendone i baluardi contro i rischi della pianificazione e dell’omologazione sociale.» (CHIURAZZI, G. Il postmoderno. Milano: Mondatori, 2002, p. 12. 98 Scrive Corradi che «la complessità assume la forma della frammentarietà, che è la molteplicità senza centro». (CORRADI, Le ragioni dell’etica, p. 27). 99 Scrive Tester: «La vita pubblica è stata sostituita dal desiderio di intimità; esigiamo una conoscenza intima, la sensazione di “conoscere davvero” la persona in questione». (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 3). Il movimento verso l’intimità tende a porre al centro della percezione morale le componenti affettive ed emotive dell’esistenza umana che la modernità, ed anche la religione, avevano notevolmente trascurato e addirittura tenuto. 97
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ
Postmodernità e scienza La cultura scientifica è oggi interessata da un relativismo conoscitivo in cui la complessità mette in crisi la tradizionale impostazione. Significativo fu, in tale prospettiva, il saggio di Thomas Kuhn (1922-1996), La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962), che denunciava come insostenibili: 1. l’idea di un metodo unico (quello ipotetico-deduttivo) per l’analisi delle teorie; 2. l’idea che la scienza fosse avalutativa, cioè non influenzata dai valori. Inoltre, analizzando la storia delle scoperte scientifiche, affermava che: 1. ogni teoria è relativa ad un certo paradigma e vale solo all’interno di quel paradigma; 2. i paradigmi e le teorie conseguenti non sono neutrali, ma coinvolte in motivi psicologico-sociali. Di conseguenza, il passaggio da un paradigma ad un altro non avviene razionalmente, ma per salti fideistici.100 Ne consegue che le diverse teorie scientifiche non sono confrontabili tra loro, in quanto mancano dei criteri oggettivi. Le teorie, sempre più, sono giudicate come interpretazioni:101 infatti, se le procedure cognitive della scienza non obbediscono ad alcun criterio riconoscibile come oggettivo, allora anche nell’ambito scientifico non ci sono più fatti, ma solo interpretazioni, si ha dunque
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Secondo Paul Feyerabend (1924-1994), la storia della scienza dimostrerebbe qualcosa di ancora più radicale: la ricerca scientifica sarebbe dominata da «miti e suggestioni emozionali». 101 Lo sviluppo di scienze come la microfisica sembra portare alla fine del canone tradizionale del fatto sperimentale; quando, infatti, si va nell’infinitamente piccolo della microfisica i canoni dell’oggettività dell’osservazione subiscono necessariamente una trasformazione.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE un’ermeneuticizzazione della teoria della scienza, cioè una sua soggettivizzazione.
Postmodernità e teologia Occorre premettere che il protestantesimo è stata una forza significativa per l’affermazione della modernità e che, a sua volta, ne ha assorbito gli sviluppi. Per alcuni studiosi saremmo entrati in una sorta di postsecolarismo: durante la secolarizzazione102 la religione non è sparita, ma si è eclissata dalla sfera pubblica in occidente divenendo un fatto privato, oggi la religiosità sta tornando nella sfera pubblica.103 Il pensiero postmoderno sta permeando tutte le discipline, dunque anche la teologia. Ci troviamo, oggi, in una condizione paradossale; da un lato i fini ultimi appaiono scomparsi dai discorsi degli uomini ed «i nuovi simboli della realtà celeste non sono stati ancora riconosciuti come ta-
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Al termine vengono assegnate differenti origini; pare però che sia stato inizialmente utilizzato nel XVI secolo per definire l’esproprio, da parte del potere secolare, di beni fondiari e immobiliari appartenenti alla Chiesa; scrive Rémond: «Nel XVI secolo… allora per la prima volta fu impiegato il termine di secolarizzazione per designare queste espropriazioni, molto prima che fosse applicato per indicare i processi di separazione fra la religione e la società». (RÉMOND, R. La secolarizzazione. Roma: Laterza, 2003, p. 89). 103 Le manifestazioni essenziali della secolarizzazione sono: il declino dell’influenza della religione sulla vita, il pensiero e il comportamento delle persone; la dissacrazione della vita; la perdita della fede; un modo di vivere orientato meno verso la comunità e più verso un sistema di società; lo sviluppo di un modo di pensare più funzionale e meno metafisico; il conformarsi al mondo; il trasferimento di valori, pratiche e credenze religiose sotto il dominio dello Stato o della società; il processo di differenziazione strutturale; il distacco della vita e della società dalla religione.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ li»;104 dall’altro l’evidenza di un’ancora diffusa e nostalgica credenza nella trascendenza; scrive il filosofo Remo Bodei: «...oggi, l’abbassarsi dell’orizzonte delle attese in campo storico, la delegittimazione delle rinunce necessarie a un allargamento della solidarietà orizzontale coi propri contemporanei e di quella verticale con le generazioni future, pare attualmente compensato dal rinnovato innalzarsi dello sguardo di immense masse verso il cielo e l’eterno, verso una realtà più vera e totalmente altra rispetto a quella vissuta».105
La nuova percezione del tempo che provoca un prevalere dell’immediato, una perdita di memoria ed un abbassarsi della speranza, crea un ambiente inospitale per la fede; per David Lyon «se la religione opera all’interno di “comunità di memoria”, allora lo sconvolgimento della memoria, attraverso un’amnesia collettiva e parimenti un’amnesia selettiva solleva una questione piuttosto rilevante».106 Quinzio conferma che ci troviamo davanti ad una «rottura della continuità storica. Le generazioni si rinnovano senza quasi più serbare il ricordo del passato, e senza più la forza di una speranza nel futuro». 107 Forte osserva che la tendenza attuale è di «non pensare più, a fuggire la fatica e la passione del vero, per abbandonarsi
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SALVARANI, B. «La ricerca dell’al di là nel tempo del post-moderno», su AAVV/SAE, Urgenze della storia e profezia ecumenica. Roma: Ed. Dehoniane, 1996, p. 335. 105 BODEI, R. Libro della speranza e della memoria. Bologna: Il Mulino, 1995, p. 12. 106 LYON, D. Gesù a Disneyland. Roma: Ed. Riuniti, p. 184. La perdita della capacità di memoria ha una ricaduta etica immediata e significativa nella precarietà dei patti, tra cui anche quello matrimoniale. 107 QUINZIO, A. «La sapienza della croce e la coscienza contemporane», su Micromega, L’Espresso, 1/2004, p. 260.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE all’immediatamente fruibile, calcolabile col solo interesse della consumazione immediata»108 e ciò anche nel campo spirituale. Occorre cogliere il legame, anche per contrasto, con l'idea di secolarizzazione che non ha seguito il percorso di superamento della fede religiosa che i suoi più significativi sostenitori alcuni decenni fa avevano previsto.109 Tra essi si conta anche uno spirito profetico come Dietrich Bonhoeffer che, come riporta Paolo Ricca, «…affermava la necessità e l’urgenza di una trasposizione laica o secolare dei concetti biblici e teologici, per rendere ancora possibile, in un mondo diventato adulto, cioè emancipato dalla tutela ecclesiastica e dall’ipoteca religiosa sulla vita, la comunicazione del discorso di fede».110
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FORTE, L’essenza del cristianesimo, p. 18. Come illustra Zoccatelli, «il celebre teologo battista Harvey Gallagher Cox divenne famoso con un'opera, La città secolare, in cui sosteneva che il processo di secolarizzazione e la progressiva diminuzione d’interesse per la religione da parte degli uomini contemporanei erano ormai un dato evidente; a trent'anni di distanza, fra i sostenitori della tesi secondo cui La città secolare è un volume superato –forse per la miopia delle lenti con cui, in una prospettiva rigidamente illuminista, si è guardato e si continua a guardare al fenomeno religioso–, si è schierato il suo stesso autore. Nel suo studio del 1995, Fire from Heaven, il teologo di Harvard ritorna su La città secolare, un libro, afferma, in cui “cercavo di elaborare una teologia per l'epoca post-religiosa che molti sociologi ci avevano prospettato con fiducia come prossima”. Al contrario, scrive Cox, “oggi è la secolarità non la spiritualità, che può essere vicina all'estinzione… Ma ci troviamo certamente in un periodo di rinnovata vitalità religiosa, un altro grande risveglio se vogliamo chiamarlo così, con tutte le promesse e i pericoli che i risvegli religiosi portano sempre con sé, questa volta tuttavia su scala mondiale”.» (ZOCCATELLI, P. Il New Age. Torino: Elle Di Ci, 1998, p. 10-11). 110 RICCA, P. «Le chiese protestanti», su AAVV Storia del cristianesimo. Vol. IV, L’età contemporanea. Roma: Laterza, 1997, p. 19-20. 109
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Secondo Giovanni Morra, la postmodernità ha fatto evolvere, non superare, l’ateismo della modernità: «Nella religione, si è passati da un ateismo dell’assimilazione – dal rinascimento al romanticismo: Dio e l’uomo sono identici– ad un ateismo della sostituzione –il secolo XIX: l’uomo prende il posto di un Dio defunto, da Saint-Simon a Nietzsche– e ad un ateismo della dissoluzione –l’epoca postmoderna: che non risponde più “sì” o “no” alla domanda di Dio, ma dissolve Dio come problema, con la consapevolezza che credere in Dio o non crederci sono due variabili soggettive egualmente valide, perché egualmente indimostrabili e indifferenti– più che il vuoto di Dio, la postmodernità sperimenta Dio come vuoto. Distrutti i valori dei primi tre uomini, il quarto uomo postmoderno realizza un “dopo” solo come fine della ‘prima’, non come un ‘nuovo’ dopo il “prima”. La postmodernità non è una nuova epoca dopo la modernità, non è il “dopo-la-modernità”, ma solo la “modernità-del-dopo”, ossia la modernità nella sua fase dissolutiva e nichilistica.»111
All’interno delle chiese cristiane,112 si manifesta un diffuso fenomeno di «destrutturazione dei sistemi di credenze».113 111
MORRA, G. Il quarto uomo. Postmodernità o crisi della modernità? Roma: Armando, 1996, p. 29. 112 Scrive Lyon: «Le Chiese, che una volta erano il centro di numerose attività – istruzione, lavoro, salute, benessere e tempo libero– si sono ritrovate con un ruolo ridotto ad alcune partecipazioni alquanto striminzite riguardanti il culto, la parrocchia, l’impegno pastorale e così via». (LYON, Gesù a Disneyland, p. 49). Lo stesso autore aggiunge che «la religione o, piuttosto, la spiritualità, è diventata senza dubbio un bene di consumo. La gente è alla ricerca di nuove fonti di significato che includano la figura o almeno il nome di Gesù… La gente desidera un Dio più facile più rapido, che non fa storie, un Dio da mettere al microonde…Gesù è popolare perché è pluralista, accoglie gli emarginati, accetta le donne, è contro la religione organizzata, è per la giustizia economica. Gesù arriva vestito con gli abiti della nostra cultura». (LYON, Gesù a Disneyland, p. 188). 113 BERZANO, L.; INTROVIGNE, M. La sfida infinita. La nuova religiosità nella Sici-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Ha scritto ancora Quinzio: «...tra credere e non credere quasi non c’è più una vera differenza, di molti si può dire che credono e non credono insieme, tanto sono vaghe e imprecise, e conciliabili con tutto il resto, le cose in cui credono di credere. Si può applaudire commossi il papa, e per tutto il resto non avere il minimo sospetto di ciò che veramente implica la fede cristiana.»114
Viene anche contestata la tendenza della tradizione religiosa ad offrire risposte forti ed onnicomprensive a domande in realtà non poste ed a porre dunque bisogni e soluzioni su piani paralleli e diversi; e «un’evangelizzazione che non riesce a partire dal senso delle domande è condannata all’insignificanza».115 La categoria della rivelazione divina è sostituita da quella di tradizione narrativa; ogni racconto può trovare posto nell’antologia della teologia postmoderna a patto di non trasformarsi in un grande racconto con pretese universalizzanti: il messaggio cristiano è, dunque, una storia tra le tante e la teologia è soltanto uno degli esercizi linguistici in cui gli uomini sono impegnati. In tale quadro, il teologo ha il compito primario di smascherare i sedimenti ideologici, la volontà di potenza e le visioni metafisiche lia centrale. Caltanissetta, Roma: Sciascia, p. 106). Osserva Politi: «Non passa giorno che dallo stesso pulpito vaticano non giungano notizie disorientanti. Il limbo non esiste più. Gesù non è nato a Natale. La storia della mela e del serpente… è solo una favola simbolica. Smitizzazioni ineccepibili, storicamente fondate. Eppure, mentre si smonta il vecchio teatro dell’immaginario, la platea non afferra ciò che viene proposto in sostituzione. Regna su tutto un’incertezza diffusa, mentre avanza rapido il processo di secolarizzazione… Armando Nesti, studioso di sociologia della religione, usa una bella immagine: “Le religioni sono state privatizzate. E’ tramontata la loro funzione pubblica”.» (POLITI, M. Il ritorno di Dio. Milano: Mondatori, 2004, p. 15). 114 QUINZIO, Il silenzio di Dio, p. 41. 115 SAVAGNONE, Evangelizzare nella postmodernità, p. 18.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ che, nella tradizione ebraico-cristiana, hanno legittimato il dominio patriarcale, la difesa dello status quo, lo sfruttamento della natura, dei poveri e dei diversi: in ciò starebbe la sua funzione profetica. Il comune denominatore di gran parte della teologia postmoderna è costituito dal forte afflato pluralistico, dalla rivalutazione delle singole tradizioni religiose, dalla condanna dell’esclusivismo, dallo sforzo dialogico, dall’intento ecumenico, dall’interesse ecologico, dalla tutela della diversità:116 si tratta di uno spostamento chiaro dalla teologia verso un’etica della responsabilità. Massimo Introvigne, noto studioso dei nuovi fenomeni religiosi, riferendosi più specificamente al fenomeno della New Age, elenca così i caratteri principali della religiosità postmoderna: «Il privilegio dell'esperienzale: non si tratta di credere ma di sperimentare. »Il tentativo di autotrasformarsi grazie a tecniche psicocorporali o psicoesoteriche. »Un carattere progressista della concezione monista del mondo con il rifiuto del postulato dualista della separazione fra l'umano e il divino (concezione olistica del sacro; coscienza planetaria). 116
All’inizio di questo secolo, il fondamentalismo ed il neofondamentalismo si sono confrontati col liberalismo. Col termine fondamentalismo ci si può riferire a cose anche molto diverse tra loro. Primariamente, esso si riferisce ad un vasto movimento sorto all’interno della tradizione revivalista americana per contrapporsi alle tesi liberali; prese questo nome da una serie di 12 volumi intitolati appunto The Fundamentals pubblicati tra il ‘10 e il ’15; esso si concentra su alcune verità essenziali e irrinunciabili (l’ispirazione e l’inerranza biblica, la divinità e la nascita verginale di Cristo, la sua resurrezione fisica e il suo ritorno personale). Tale fenomeno è stato correttamente definito come «l’ortodossia a confronto con la modernità». Dalla fine degli anni ’20 in poi, il fondamentalismo assume connotati teologici e culturali diversi da quelli originali, in questo neofondamentalismo, accanto alle fondamenta, assume sempre maggior peso la matrice dispensazionalista: la battaglia contro il liberalismo si cristallizza in pregiudizio anti-intellettuale, la volontà di fedeltà all’evangelo provoca un’attitudine isolazionista.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE »Ottimismo, anche se si tratta di un ottimismo moderato. »Primato dell'amore: un comportamento è eticamente giusto quando è ispirato dall'amore. »Esperienza di realtà non ordinarie (con un ritorno dell'interesse per esperienze occulte, psichiche, esoteriche); ricerca di una felicità privata, qui e ora».117 Vattimo ha proposto un’interessante lettura del fenomeno della secolarizzazione come segno e compimento della fine della metafisica, per lui: «...l’incarnazione, e cioè l’abbassamento di Dio a livello dell’uomo... andrà interpretata come segno che il Dio non violento e non assoluto dell’epoca post-metafisica ha come suo tratto distintivo quella stessa vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione heideggeriana;118 –ancora parla di– una concezione della secolarizzazione caratteristica della storia dell’Occidente moderno come fatto interno al cristianesimo, legato positivamente al senso del messaggio di Gesù; e una concezione della storia della modernità come indebolimento e dissoluzione dell’essere.»119
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INTROVIGNE, M.; ZOCCATELLI, P. New Age - Next Age. Firenze: Giunti, 1999, p. 14-15. La New Age è fondamentalmente gnostica, essa ritiene che sia la conoscenza mistica della realtà a salvare; è panteistica, il mondo è infatti Dio ed in Dio. Scrive Terrin: «La nuova religiosità è ingenua, narcisistica e... non avrò mai l’occasione di parlare di amore, donazione, apertura agli altri. La nuova religiosità esprime la cultura del nostro tempo, la cultura del postmoderno, dello yoga e dello yogurt, della mountain bike e della macrobiotica, portandosi dentro anche le angosce e i bisogni del nostro tempo... L’uomo di oggi ha bisogno di esorcizzare le sue paure interne.» (TERRIN, A. D. New Age, la religiosità del postmoderno. Bologna: Ed. Dehoniane, 1993, p. 41). Introvigne classifica i nuovi movimenti religiosi in tre grandi contenitori: quelli di origine cristiana; quelli che affondano le radici nel patrimonio filosofico-religioso di origine orientale; movimenti e culti non inquadrabili nelle precedenti aree storico-geografiche, la New Age si può inserire tra questi ultimi. 118 VATTIMO, G. La fine della modernità. Milano: Garzanti, 1985, p. 31. 119 VATTIMO, La fine della modernità, p. 33.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Filippo Gentiloni sottolinea lo spostamento, anche in campo cattolico, dalla teologia verso la psicologia: «...dalla verità alla felicità… In altri termini: dalla teologia alla psicologia… La novità consiste nel ruolo, nell'importanza che la psicologia ha acquistato nel linguaggio cristiano. La promessa di soddisfazione e di pace interiore è balzata in primo piano… E' vero ciò che mi fa sentire bene: preghiera, meditazione, rapporto con un Altro… dal dogma, dunque, alla ricerca della felicità.»120
Scrive Lyon che «la Chiesa diventa sempre meno distinguibile dal resto del mondo, e la vera dinamica è l’intrattenimento piuttosto che l’obbedienza».121 Per Introvigne, «...la secolarizzazione è un processo qualitativo nel corso del quale la religione si marginalizza e determina in misura sempre minore le grandi scelte culturali, morali e politiche. A questo processo di marginalizzazione… corrisponde un successo di forme religiose nuove che o non pretendono di orientare la cultura o non sono attrezzate per svolgere questo compito.»122
La secolarizzazione significa, dunque, privatizzazione del sacro. Comunque, osserva Küng che «nel paradigma postmoderno, pur con tutto il secolarismo attuale, la religione potrebbe piuttosto essere
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GENTILONI, F. La chiesa post-moderna. Roma: Donzelli, 1998, p. 55-56, 58. Allo scrivente pare che anche nell’avventismo occidentale, soprattutto, nelle sue generazioni giovanili, ci si stia volgendo a larghi passi verso questa spiritualità del benessere, disimpegnata, fatta di emozioni immediate e fragili, correllate di canti e dibattiti poco informati e poco motivati, privi di vera passione civile ed in cui l’elemento volontaristico è sempre più banalizzato. 121 LYON, Gesù a Disneyland, p. 25. 122 INTROVIGNE; ZOCCATELLI, New Age - Next Age, p.10.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE presa nuovamente sul serio: come la dimensione più profonda dell’essere umano e della società…».123 Oltre alla teologia propriamente detta, è interessante annotare le modalità di rappresentazione della cosiddetta ricerca del Grande Forse124 da parte della letteratura e delle arti. Scrive Brunetto Salvarani: «La caduta delle utopie terrestri, in particolare, ha dato la stura ad una variopinta costellazione di inferni e paradisi; ad un immaginario denso di altrove e di varchi tra l’aldiquà e l’aldilà; ad un sorprendente risorgere dell’angelogia a tanti livelli; ad una domanda escatologica frantumata in mille schegge, alla quale rispondono, ciascuno col proprio linguaggio, i nuovi culti e la parapsicologia, il cinema e la poesia, la musica, la filosofia e la creatività giovanile, l’esplosione delle leggende metropolitane e persino un ambito tradizionalmente sottovalutato quale quello del fumetto contemporaneo… Personalmente, trovo di eccezionale rilevanza il largo successo del genere apocalittico nel discorso letterario contemporaneo.»125
Il mutamento di sensibilità religiosa nelle chiese cristiane comporta delle ricadute notevoli nella funzione e nel ruolo dei ministri di culto. La religione è stata, per millenni, una formidabile centrale di controllo dell’etica e del costume popolare e lo ha fatto attraverso le dottrine (che agiscono sulla ragione), le norme (sulla volontà) e il rito (sull’affettività); i ministri (sciamani, sacerdoti, pastori, maestri o altri…) hanno costituito il braccio operativo di tale controllo.
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KÜNG, H. Ebraismo, Milano: Mondadori, 1991, p. 495. Tale denominazione è fatta risalire a Rabelais, che avrebbe affermato, morendo: «Je m’en vais chercher un grand Peut-être». 125 SALVARANI, B. «La ricerca dell’aldilà nel tempo postmoderno», su AAVV/SAE, Urgenze della storia e profezia ecumenica. Roma: Ed. Dehoniane, 1996, p. 343. 124
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Nel momento in cui la religione perde forza orientante ed i suoi strumenti s’indeboliscono, i ministri vedono la loro identità e la loro autorità posta in crisi; non basta più loro (per guidare, ammonire, denunciare…) rifarsi a valori e codici eteronomi o a riti pregni di mistero sacrale, ma hanno la necessità di ascoltare e mediare, percepire e comunicare, adattarsi e trovare la propria identità a contatto coi fedeli, compiti questi estremamente impegnativi per i quali risultano per lo più impreparati.
Pensiero debole e debolezza del Dio cristiano Intenso e significativo è il sottolineare, da parte di Quinzio, come il nichilismo postmoderno, che ha portato alla dissoluzione dell’assoluto ed alla consapevolezza della totale precarietà, e la vicenda attuale della fede costituiscano un unico processo di svuotamento: «Il nichilismo postmoderno di un pensiero che perde sempre di più di assolutezza ed è sempre più consapevole della sua relatività, va ricondotto secondo la mia lettura, all’originaria matrice cristiana, come esito di quella storia che inizia con l’incarnazione e la morte di Dio... Lo sgretolarsi delle ontologie forti comincia dalla rivelazione biblica... Se il Dio onnisciente, onnipotente, creatore e signore di tutte le cose è stato per duemila anni il modello di ogni pensiero forte, il Dio-uomo crocifisso è stato il modello di ogni pensiero moderno, che è precipitato nella solitudine, nello smarrimento e nella morte e che non può fare altro che ripetere, così, il modello cristiano del Dio che si abbassa fino a consumarsi nella morte... la storia del moderno è, per molti versi, la storia di questa scoperta, di questa emersione dell’inconsistenza del mondo, della profanità del mondo che, pur scontando l’assenza e l’imprevedibilità di Dio, è un mondo progettabile, in balia delle mani dell’uomo. Però è un mondo tragico, non sostenuto da alcunché, i cui rischi sono esplosi in quello che chiamiamo il postmoderno... il postmoderno è in realtà l’esito del moderno, è la scoperta del fallimento delle speranze ide-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE ologiche moderne, che altro non erano se non surrogati della speranza di redenzione iniziale.»126
Questo concetto dell’indebolimento di Dio è biblico, anche se può essere colto da prospettive teologiche e da sensibilità differenti. Il testo di Filippesi 2: 5-11, il famoso inno cristologico, è significativo al riguardo per la nella terminologia usata. «... annichilì se stesso, prendendo forma di servo... abbassò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte della croce...» Ricordiamo il prologo del Vangelo di Giovanni, in cui Cristo viene, uomo tra gli uomini, e non viene riconosciuto neppure a casa sua; ed anche le immagini del servo sofferente di Isaia ed alla realtà complessiva della vita e della morte di Gesù. Si pensi alla teologia della croce di Lutero così profondamente radicata nella Scrittura. E’ fondante, nella teologia cristiana, il fatto che Dio rinuncia solo per un tempo, in Cristo, alla sua onnipotenza per un obiettivo di incontro salvifico con gli uomini.127 Ricordiamo anche il testo paolino di 2 Corinti: «Infatti Egli fu crocifisso per la sua debolezza; ma vive per la potenza di Dio; anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui mediante la potenza di Dio…» ( 2 Cor 13: 4). Il recupero di un’idea positiva di debolezza risulta particolarmente significativo nell’esperienza etica in cui, per lungo tempo, la potenza (e la gloria, la forza, la vittoria) erano equivalenti al bene.
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QUINZIO, S.; LESTINGI, L. La tenerezza di Dio: L’ultima intervista sulla vita e sulla fede. Roma: Fondazione Amici di Liberal, 1997, p. 56-57, 67. 127 Da segnalare, come apporto avventista a questa tematica, il saggio di STÉVENY, G. «La fragilité de Dieu», su AAVV. De l’antropologie à la christologie, Faculté adventiste de théologie, Collonges-sous-Salève, 1998, p. 21-53.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ
Le problematiche della postmodernità Il terzo millennio si è, dunque, aperto all’insegna della postmodernità, di cui osserveremo alcune altre importanti caratteristiche. La modernità aveva consolidato l’abitudine a pensare in modo dualista, cioè ad immaginare la realtà all’interno di una cornice di riferimento caratterizzata dalla presenza di due elementi costitutivamente distinti fra loro. La forma più tipica stava nel rapporto tra soggetto e oggetto, in cui il soggetto è pensato come se fosse di fronte agli altri ed al mondo: nell’antropologia, il dualismo separava la sostanza pensante da quella fisica; nell’epistemologia, si distingue tra fatto oggettivo ed interpretazione soggettiva (cioè tra dato e teoria); nella morale, l’alterità tra bene e male; bene e male, dunque, erano chiaramente distinti e non sovrapponibili o confondibili; nella visione del mondo, tra ragione e fede. La postmodernità si pone invece con molta diffidenza rispetto a questa linea di pensiero preferendole una visione olistica in cui ogni elemento si compenetra nell’altro, iniziando dalla diagnosi: la nostra visione del mondo non è, infatti, separabile dal significato che diamo al mondo. Un altro bersaglio del postmoderno è l’individualismo borghese in cui tutto ruota attorno del protagonismo dell’individuo ed è funzione di lui: qui si pone una significativa problematica etica. Mentre la modernità si configurava come una visione del mondo tipicamente occidentale, la postmodernità combatte l’equazione tra civiltà e cultura occidentale e relativizza ogni visione del mondo, affermando, tra l’altro, che ciò che può essere un bene in un luogo o in una cultura, può non esserlo altrove.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Tra gli effetti più evidenti dell’influenza del postmoderno sul cristianesimo contemporaneo si può registrare un crescente indifferentismo dottrinale motivato dalla critica postmoderna rivolta a tutte le cosiddette grandi narrazioni. Da sottolineare anche il notevole l’interesse attuale verso la dimensione mistica delle religioni, soprattutto quelle orientali; d’altronde la tendenza irrazionalista dell’etica postmoderna deriva in larga misura dal bisogno di esperienze forti per accedere alle quali occorre un atteggiamento di totale abbandono alle sollecitazioni provenienti da dinamiche di gruppo o da personalità carismatiche; da qui la facilità con cui si impongono, spesso per brevi periodi, maestri di vita provenienti da culture diverse da quella occidentale, apportatrici di esperienze esotiche. Il sospetto, l’incredulità e l’intento demolitivo nei confronti di tutte le grandi narrazioni sono, dunque, degli elementi qualificanti della condizione postmoderna. Tutte le metafisiche sono ritenute oppressive; gli assoluti sono rifiutati in nome dell’intrinseca relatività d’ogni interpretazione; la verità viene svuotata di contenuti unitari ed assoluti e fatta rientrare nel pluralismo dei giochi retorici. La postmodernità scredita, infatti, tutto ciò che si erge a discorso totalizzante, ma valorizza l’eterogeneità, la differenza, la frammentazione, l’indeterminatezza, la sfiducia nei linguaggi universali; essa «disegna, in definitiva, una condizione d’incertezza, in cui la filosofia appare senza fondamenti metafisici, la scienza senza certezza, l’etica senza verità e la politica senza più giustificazione».128 Si può però obiettare che anche la postmodernità è una sorta di grande narrazione, una particolare visione metafisica: ad esempio il suo relativismo è una nuova forma di assolutismo, il suo scetticismo un’altra certezza, l’enfasi sulla soggettività si configura come una 128
PERA, M. Il mondo incerto. Roma-Bari: Laterza, 1994, p. 83.
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ nuova oggettività, il pensiero debole richiama altri assunti forti, eccetera.
Un mutamento dell’idea di verità L’idea di verità è fondamentale nella prospettiva cristiana e nella vita ecclesiale: «la verità è una dimensione che non si vede, perché sta dentro i fatti; ma è imprescindibile, perché senza di essa i fatti appaiono incomprensibili».129 Il problema della conoscenza della verità, della sua possibile assolutezza, dei paradigmi in cui inserirla è stato oggetto d’enormi cambiamenti di prospettiva nella storia del pensiero e del costume. Questo mutamento di percezione ha accelerato il suo cammino nel periodo storico che stiamo vivendo. Nell’ultimo secolo abbiamo assistito, infatti, ad una svolta nella metodologia della percezione della verità, perciò la ragione non è più l’unico o il maggiore criterio, ma è stata valorizzata fortemente l’esperienza individuale e sociale. A riguardo della concezione della verità in una società secolarizzata, Eduard Lohse scrive: «In una società laica deve essere posta la questione della verità, senza dubbio non sotto forma di affermazione categorica che non lascerebbe alcuno spazio alla libertà altrui, ma sotto forma di affermazione che impegna radicalmente colui che la enuncia e che, per questo, richiede il dialogo con gli altri… la verità non ci appartiene, dal momento che ci precede».130
Osserviamo più da vicino il problema.
129 130
CORRADI, Le ragioni dell’etica. p. 19. LOHSE, E. Etica teologica del Nuovo Testamento. Brescia: Paideia, 1991, p. 82-
83.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE I cristiani sono chiamati, infatti, a seguire la «verità del Vangelo» (Gal 2: 5, 14; 1 Gv 1: 6; 2 Cor 13: 8; 1 Cor 7: 17-24);131 ma la verità evangelica non giunge a noi allo stato puro, ma in traduzioni e contesti culturali diversi, essa non s’identifica con nessuna cultura specifica. I cristiani, dunque, possiedono frammenti di verità e devono protendersi verso l’infinita verità di Dio; interessante ci pare l’immagine della verità come orizzonte; essa non equivale alla somma dei frammenti di verità presenti nelle diverse esperienze,132 ma è una sorta di asintoto che valorizza tali frammenti senza rendersi organica a qualcuno di essi.133 L’idea occidentale di possedere la verità mette i fondamenti di un atteggiamento violento, un dominio esercitato in nome della verità posseduta;134 portando ad esempio l’antisemitismo, Parker ne attri131
Nell’AT, la verità (Emeth) si riferisce ad elementi verbali (affermazioni, promesse, comandi); quando Emeth si dice di Dio o di persone, connota affidabilità, fedeltà (Gn 24: 47, 49). Nel profetismo classico l’appuntamento definitivo con la verità si trovava nella storia visibile in cui Dio operava in modo trasparente; già con Geremia ed Ezechiele tale punto è collocato al di là della storia presente, nell’avvenire, e diviene una realtà escatologica. Nel mondo greco/mediterraneo, dove sarà predicato il Vangelo, la verità è la Alêtheia, un termine che deriva da lantano (che significa nascondo, ma con l’a privativa davanti che toglie il nascondimento), essa è ciò che si vede, si possiede, non si dimentica. Scrive Quinzio: «‘Emet’ invece vuol dire anzitutto “fermezza”, “stabilimità”, in riferimento a persona o a cosa… La verità di Dio è la sua fedeltà a ciò che misericordiosamente promette, sicché il significato di ‘emet’ riferito a Dio è quello di “costante clemenza”… A verità non si contrappone insomma l’errore, ma la falsità nel senso di infedeltà, menzogna…» (QUINZIO, La croce e il nulla, p. 23-24). 132 Ciò equivarrebbe ad una sorta di sincretismo selettivo. 133 Scrive Moltmann, a proposito del concetto di verità: «Credo che per noi uomini la verità sia dialogica. Solo dialogando fra noi possiamo scoprire la verità, perché solo in relazione con gli altri costruiamo la nostra identità». (MOLTMANN, J. Chi è Cristo per noi oggi? Brescia: Queriniana, 1995, p. 115). 134 Non si può negare che anche nella visione ebraica di verità si sia esercitata vio-
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ buisce le colpe alla «rivendicazione da parte della chiesa cristiana del possesso esclusivo della verità».135 Nella tradizione cristiana, la Verità è Dio stesso o Cristo in carne; occorre vigilare sul linguaggio: spesso i credenti affermano di conoscere (o possedere) la verità, in realtà se la verità è Dio non la si può possedere o conoscere, ma si è da lei conosciuti e/o posseduti.136 lenza, ma che essa tiene in maggior conto, almeno astrattamente, dell’esperienza dell’altro. Nell’occidente il concetto di verità ha una storia complessa, «la concezione più vicina al senso comune suppone una corrispondenza tra fatti sensibili e ciò che a loro riguardo si pensa o si dice; così la verità suppone una distinzione tra soggetto conoscente ed oggetto conosciuto». DI GIORNI, S. in SAE, «Io sono la via, la verità, la vita», p. 364. Sulla scia di Aristotele, Avicenna, Tommaso e degli scolastici in genere, la verità è intesa come una conformità tra la parola o l’intelligenza e le cose, le realtà esterne ed indipendenti dal soggetto che le coglie. Per Aristotele, l’essere vero appartiene alle cose, alle stesse realtà; l’essere falso è ciò che è in contraddizione con le cose. Si arriva a concepire la verità come una luce naturale proveniente da un essere supremo, come il Dio cristiano o l’Idea del bene di Platone, che la diffonde come il sole diffonde la sua luce. 135 Cit. da GIULIANI, M. «Auschwitz nel pensiero ebraico», su Frammenti dalle teologie dell’Olocausto. Brescia: Morcelliana, 1998, p. 31. 136 Scrive Forte: «la verità non è qualcosa che si possiede, un oggetto di cui si possa disporre… La verità è qualcuno da cui lasciarti possedere… un mistero più grande a cui consegnarti. E allora io non dispongo della verità, io osservo la verità. E servire la verità è, mi sembra, l’atto più onesto che la nostra intelligenza possa compiere, perché significa corrispondervi, non dominarla, e significa restare in un atteggiamento di stupore e di umiltà davanti agli altri, davanti alla vita… Se io pensassi di possedere la verità, allora considererei gli altri, tutto sommato, come superflui rispetto alla mia ricerca; se io so che la verità mi supera sempre e che io ne sono un servo, allora chiunque mi viene incontro è in qualche modo un messaggero della verità e la mia fatica è di ascoltarlo e di ascoltare la voce del profondo che, attraverso di lei o di lui, mi raggiunge.» (FORTE, B. «La fede e il problema della verità», p. 1). Sempre tale autore scrive: «L’uomo che si ferma, sentendosi padrone della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno da cui essere sempre più profondamente posseduti, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha cancellato
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Erich Fuchs sottolinea che, spesso, nel NT viene usata l’espressione «fare la verità»,137 un’espressione che significa «che la verità è da costruire, come un’opera rimessa alla nostra volontà e che ci è rivelata dalla Parola di Dio… Fare la verità, è lasciarsi costantemente dirigere, spiazzare dalla verità che nessuno può mai possedere».138 Una riflessione sul concetto di verità che sta oggi emergendo deve tenere conto dei seguenti elementi: Le varie teologie sono la manifestazione di processi di inculturazione in corso. I credenti, soprattutto oggi, vivono in mezzo ad una pluralità di concezioni razionali del mondo non facilmente sintetizzabili e con una forte coscienza di finitezza. Nel relativismo contemporaneo, di cui occorre comunque tenere conto, la verità di una tradizione è interpretata come puramente immanente e legata al tempo.139 L’idea di verità come orizzonte, che concepisce l’eternità come unico luogo della verità, significa che nessun approccio e nessun cammino può presumere di identificarsi con la verità come orizzonte. Questa contesta l’incompatibilità necessaria tra tradizioni in se stesso non solo Dio, ma la propria dignità di essere umano. La condizione umana è una condizione esodale: l’uomo è in esodo, chiamato permanentemente a uscire da sé, a interrogarsi, in cerca di una patria intravista, ma non posseduta.» (FORTE, L’essenza del cristianesimo, p. 102). 137 Vedere: Gv 3: 21, 1 Gv 1: 6. 138 FUCHS, E. L’éthique chrétienne. Genève : Labor et Fides, 2003, p. 131. 139 Descrivendo il pluralismo attuale, amaramente Quinzio osserva: «… non c’è dubbio che, se di superiorità si tratta, si tratta di una tragica superiorità, che consiste nella consapevolezza dell’impossibilità di pervenire a ciò di cui la vita dell’uomo ha tuttavia un invincibile desiderio, un insaziato bisogno: e cioè a una qualche specie di verità assoluta… L’esperienza contemporanea della vita, della realtà, è anzitutto l’esperienza drammatica e al limite disperata dell’impossibilità di raccoglierla in unità, in u orizzonte significativo.» (QUINZIO, Il silenzio di Dio, p. 76).
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diverse; non svuota l’idea di una fede definitiva, ma la concepisce in senso escatologico (al termine di un verso dove…) e la connette con altre verità parziali senza pretese egemoniche. Afferma Küng: «… noi qui ora ed oggi non possiamo stabilire dove, in ultima analisi, stia la verità. Noi ci troviamo tutti in cammino… Noi camminiamo soltanto verso il compimento e la verità, qual è realmente, e quella si rivelerà soltanto alla fine.»140 La verità è infinita e non è mai posseduta da ciò che è finito. Quando Cristo afferma di essere la verità, in realtà si definisce come rivelazione della verità e non cerca di limitarla entro gli ambiti dell’esperienza del suo insegnamento. Scrive Ricca: «Ecco perché è così difficile raggiungere la verità: non solo perché bisogna andare al fondo delle cose, ma perché bisogna andare al fondo di noi stessi. E questo non è solo difficile, è doloroso.»141 Occorre riconoscere che c’è sempre una distanza tra la Verità e la nostra particolare verità: «Nel momento in cui la coscienza di questa distanza non è più mantenuta, divento arrogante: sappiamo bene quanti delitti sono stati commessi in nome della verità e per affermare la verità.»142 La verità in senso assoluto è più grande di ogni percezione della verità. La verità si fa strada da sé, non s’impone. I comportamenti s’impongono, non così la fede che è un’esperienza di libertà. Per Tommaso, «le immagini, mediante le quali la fede percepisce qualcosa, non costituiscono l’oggetto della fede, ma ciò mediante cui la fede tende al suo oggetto».143
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KÜNG, Perché un’etica mondiale?, p. 22. RICCA, P., in SAE, Io sono la via, la verità, la vita, p. 89. 142 RICCA, P., in SAE, Io sono la via, la verità, la vita, p. 111. 143 Tommaso D’AQUINO, De Veritate, q. 14, a. 8 a 11m. 141
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nei confronti delle altre religioni, i cristiani non sempre hanno tenuto conto del fatto che la rivelazione è un atto d’amore di Dio e hanno mancato di rispetto per la ricerca dello spirito umano. Ha scritto Kierkegaard che «chi vuole annunziare veramente qualche verità deve guardarsi dalla bramosia… di guadagnare il consenso degli uomini, come se fosse il consenso degli uomini a stabilire ciò che è vero e ciò che è falso».144 Occorre anche evitare la confusione tra verità e significato: «il bisogno della ragione non è ispirato dalla ricerca della verità, ma dalla ricerca di significato. E verità e significato non sono la stessa cosa».145 Il concetto di verità come asintoto od orizzonte escatologico può aiutare il percorso ecumenico: tale verità è generosa, comunitaria, accogliente, senza l’angoscia del sincretismo (che resta un pericolo), critica con se stessa.146 L’integralismo implica un ripiegamento su se stessi, un rifiuto della storia e dei diritti umani fondamentali. Occorre tenere viva la tensione tra verità e libertà. Da un lato, la libertà mette in discussione la verità della rivelazione cristiana; dall’altro, la verità rivelata mette in discussione critica la libertà storica degli uomini.
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KIERKEGAARD, S. Gli atti dell’amore. Milano: Rusconi, 1983, p. 571. ARENDT, H. La vita della mente. Citato su SAE, Io sono la vita, la verità, la vita, p. 368. 146 Ha scritto Agostino: «Comune a tutti è la verità; non mia, né tua, non di questo, né di quello… non privata, ma pubblica. Tutti quelli che comprendono che la verità è comune a tutti, e non se ne appropriano quasi fosse loro, montando in superbia a motivo di essa, sono essi che offrono a Dio i doni, perché hanno umiltà… sono umili, infatti, proprio quelli che riconoscono che la verità è comune a tutti.» (AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, 75: 17 e 20-46). 145
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Occorre ricordare anche che l’etica è la verità tradotta in prassi, e quindi le attitudini morali dipendono dal modo di intendere la verità. Sul piano delle convinzioni o verità dottrinali, l’approccio con l’altro dipende molto dall’esistenza o meno di una gerarchia di verità che definisce principi irrinunciabili ed attitudini o convinzioni negoziabili.147 Non condividiamo, però, il tentativo di togliere all’idea medesima di verità ogni valore oggettivo per il timore che essa divida e polarizzi, in un mondo che ha il legittimo bisogno di unità, pluralismo e tolleranza. Ci pare, infine, che il problema non sia quello di disquisire astrattamente sulla verità, ma di caratterizzarla eticamente e di relazionarla ad altri valori.
Postmodernità e sensibilità culturali Interessante è anche il radicale mutamento della prospettiva da cui si guarda il fenomeno dell’acculturazione. Nella modernità, ad esempio, una notevole rilevanza era data all’uso della memoria come mezzo di comunicazione e d’apprendimento scolastico, oggi l’impegno mnemonico, che di per sé è rigoroso e fedele all’originale, è assolutamente trascurato. Scaricati sul mercato della divulgazione, i prodotti della cultura classica vi arrivano frammentati, alterati e diluiti.
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Questo ci sembra un problema vitale anche per la teologia e la pietà avventiste in cui, tradizionalmente, dottrine e principi sono elencati con una propedeuticità non gerarchica che pare, ad esempio, porre sullo stesso piano le regole igieniche con la dottrina salvifica. In tale quadro nulla o poco appare come negoziabile, perché tutto si pone come vitale alla propria identità e sopravvivenza. In questo la posizione avventista non è poi tanto lontana dalla tendenza cattolica.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nella modernità, la parola era oggetto di una sconfinata fiducia, in quanto essa è il tipico prodotto della ragione: «La modernità è stato il tempo dell’ebbrezza della parola.» Ora siamo in un tempo di crisi della parola; essa viene a perdere la sua centralità comunicativa148 e diventa sempre più mera didascalia dell’immagine.149 L’immagine pare divenire sempre più più vera del vero. Ha scritto Umberto Eco: «Ogni epoca ha i suoi miti. L’epoca in cui sono nato aveva come mito l’Uomo di Stato, quella in cui si nasce oggi ha come mito l’Uomo di Televisione.»150 Un posto particolare hanno la musica, ed il mutamento del gusto musicale, in questo passaggio epocale; la possibilità di ascoltare sempre ed ovunque ogni tipo di musica da un lato offre una familiarità senza precedenti con tale espressione, dall’altro la svaluta:
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Il fenomeno è facilmente osservabile anche nella tendenza a modificare la struttura del culto delle chiese evangeliche, tradizionalmente centrato sulla pura Parola, prima con una liturgia più varia, poi con l’introduzione di svariati prodotti audiovisivi. 149 Scrive Steiner: «Sempre più spesso la parola è didascalia dell’immagine. Aree sempre più ampie di realtà e di sensibilità, specialmente nelle scienze esatte e nelle arti non figurative, sono escluse dal campo del resoconto verbale e della parafrasi... Si assiste effettivamente a un declino complessivo dell’ideale tradizionale di linguaggio colto... Una parte sempre maggiore del carico informativo richiesto dalla società dei consumi di massa viene trasmessa per immagini.» (STEINER, G. Nel castello di Barbablù. Milano: SEI, 1990, p. 103). 150 ECO, U. «Le regole del potere nel regime mediatico», su La Repubblica, 9 gennaio 2004, p. 1. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/01/09/le-regole-delpotere-nel-regime-mediatico.018le.html> [3 febbraio 2009]. Eco aggiunge nello stesso articolo: «Con la consueta cecità della cultura di sinistra, si è intesa l’affermazione di Berlusconi (che i giornali non li legge nessuno, mentre tutti vedono la televisione) come l’ultima delle sue gaffes insultanti. Non lo era, era un atto di arroganza, ma non una stupidaggine; –ed ancora– … nel nostro tempo, se dittatura ha da esserci, deve essere mediatica e non politica.»
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ l’ascolto della musica ha ormai sostituito la lettura del libro,151 c’è chi ha definito questa epoca come post-narrativa. Ciò che più di tutto offre un’immediata idea del postmoderno è il fenomeno delle mode, che si succedono a ritmi frenetici; il risultato è che, contemporaneamente, le generazioni che convivono152 si trovano a vivere in mode diverse, questo sovrapporsi di epoche differenti e stili disomogenei produce un effetto che viene detto di derealizzazione, ovvero di perdita della realtà. Scrive Vattimo: «...modernità e moda non hanno solo un legame terminologico e nominale: modernità è anche, e anzitutto, l’epoca in cui l’accresciuta circolazione delle merci e delle idee, e l’accresciuta mobilità sociale focalizzano il valore del nuovo, predispongono le condizioni per l’identificazione del valore con la verità».153
La massiva tecnologicizzazione della società contemporanea è vista come gravida di pericoli; le nuove tecnologie causano una crescita smisurata dei poteri dell’uomo, che al contempo è soggetto e oggetto delle sue tecniche; la tecnica è un modo d’essere, un’organizzazione generale del mondo: «esprimendo il vuoto onto-
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Ancora Steiner: «La violenta tesaurizazzione di emozioni nel chiuso silenzio della lettura è cosa ormai superata. La musica registrata risponde perfettamente ai nuovi ideali: stando seduti gli uni vicini agli altri, in concentrazione intermittente, partecipiamo al flusso sonoro sia individualmente che collettivamente... si conosce un buon numero di esistenze individuali e familiari in cui l’esecuzione o il godimento della musica ha funzioni altrettanto sottilmente indispensabili, altrettanto esaltanti e consolatorie, di quelle che potrebbe avere, o può aver avuto in passato, la pratica religiosa.» (STEINER, Nel castello di Barbablù, p. 110-111). 152 La contiguità di diverse generazioni è sempre più accentuata a causa anche dell’aumento rilevante che la vita media ha avuto nell’ultimo secolo. 153 VATTIMO, La fine della modernità, p. 108.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE logico, la tecnica dei nostri tempi ci interroga»154 e tale interrogativo stringente richiede innanzi tutto una riformulazione dell’etica.
Postmodernità e politica Altrettanto rilevante appare il mutamento che si manifesta nel campo della politica che, avendo rinunciare a solidi fondamenti ideologici, deve farsi sempre più leggera, mediatica e, in un certo senso, virtuale: è la politica che insegue gli indici d’ascolto, che teme i sondaggi e che diventa sempre più videopolitica.155 Scrive il sociologo Ilvio Diamanti: «… in presenza della debolezza crescente delle mediazioni politiche e sociali, i leader politici e di governo tendono a usare i media per rivolgersi direttamente alla società, descritta e ridotta in termini di opinione pubblica dai sondaggi».156 Nel passato i candidati a ruoli di rilevanza politica ed istituzionale si proponevano ai potenziali elettori sulla base delle proprie piattaforme ideologiche moderatamente mediate sulla sensibilità generale, oggi la tendenza è quella di individuare dai sondaggi le percezioni e gli umori dell’elettorato e di adeguare massicciamente gli enunciati dei programmi ad essi.
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RUSS, j. L’etica contemporanea. Bologna: Il Mulino, 1997, p. 15. Come già detto, l’immagine tende a sostituire la realtà, per cui si assiste alla spettacolarizzazione della politica: la seduzione dell’immagine del candidato diviene preponderante sulla discussione dei contenuti. Il confronto dialettico di viene urlato ed offensivo, pregno di emotività. 156 DIAMANTI, I. «La solitudine dei leader», su La Repubblica, 16 marzo 2003, p. 1. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/03/16/la-solitudinedei-leader.html> [3 febbraio 2009]. Tale autore scrive ancora: «Da un lato si assiste alla progressiva, assoluta concentrazione e personalizzazione della rappresentanza… Per contro, assistiamo ad un significativo ridimensionamento delle assemblee elettive… Inoltre i partiti hanno perduto capacità di mediazione sociale… Da ciò il confronto, sempre più immediato e diretto, fra governo personalizzato e società.» 155
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ L’assunzione del presente come unico orizzonte operativo tende quindi ad escludere politiche di emancipazione e grandi progetti; la politica si riduce a gestione del presente e nel presente. Le grandi ideologie, che erano poste alla base delle scelte politiche e motivavano e richiudevano in rigidi ambiti l’attività politica,157 sono ormai logore e così le speranze di lieto fine, in chiave cosmica o storica, da esse generate; ad esempio, ormai è impossibile spiegare la politica contemporanea con categorie tipicamente moderne come quelle delle classi e dei conflitti tra loro. Questo ed altro tendono a caratterizzare le attuali democrazie di una forte apatia popolare, scossa ormai soltanto da forti personalismi o da estemporanee sensazioni che una parte politica tuteli fortemente i propri specifici interessi. Le categorie di destra e sinistra si rimescolano e non offrono più la capacità orientativa del recente passato; la politica, di conseguenza, diviene sempre più irrazionale, legata a personalismi, emotività ed interessi minimi ed immediati (la situazione italiana è, a tal riguardo, particolarmente significativa). Osserva acutamente Bauman che tale cambiamento s’inserisce nel diverso collocamento funzionale degli intellettuali che decadono dal ruolo di legislatori a quello di interpreti.158 157
Scrive Touraine: «Il dissolversi di una concezione religiosa del mondo ha determinato la ricerca di un principio unitario dell’esperienza individuale e collettiva, e l’inizio stesso della modernità è contrassegnato dall’affermazione secondo cui questo principio di unità e di integrazione della vita sociale è la politica, considerata come la creazione stessa della società». (TOURAINE, A. «Il trionfo dell’individuo», su Repubblica, 17 gennaio 2004, p. 42. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/01/17/il-trionfo-dellindividuo.html> [3 febbraio 2009]). 158 Vedere BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 76 ss. Da notare che anche lo status e la funzione dei ministri di culto, pastori o sacerdoti, hanno subito un mutamento analogo: fino a pochi decenni fa essi erano i custodi e gli esecutori delle norme ecclesiali (ed anche i soggetti sanzionatori quando queste erano violate),
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Il consumismo Alcuni autori, tra cui ancora Bauman,159 sottolineano l’accentuazione della cultura dei consumi tipica della postmodernità, dove il consumo diviene regola di vita.160 Tale inclinazione al consumismo individuale (coi suoi tipici valori: spendere, tempo libero ed ozio), è una caratteristica postmoderna incoraggiata fortemente dal ruolo dei media;161 notiamo che la società moderna, almeno nei suoi inizi, era una società della produzione. oggi tendono ad essere ascoltatori ed interpreti delle problematiche etiche e spirituali dei fedeli. Questa è la ragione che spinge i ministri di culto verso gli studi psicologici che offrono strumenti per tali nuove funzioni; questa attitudine, però, pone nuovi e diversi problemi. 159 Zygmunt Bauman (n. 1925) è un autore che citeremo moltissimo. Ebreo, nacque in Polonia e fuggì in URSS nel 1939, al tempo dell’invasione nazista. Si arruolò nell’esercito polacco e combatté sul fronte russo. Insegnò a Varsavia fino al 1968, quando, a causa di una campagna antisemita, fu esiliato; si trasferì in Inghilterra dove insegnò. Un gran peso per la sua esperienza ha avuto la moglie Janina autrice di un libro famoso, Inverno nel mattino in cui descrisse l’esperienza dell’Olocausto di cui era stata vittima. Bauman è una delle figure più rappresentative della sociologia contemporanea; scrive di lui Tester: «Due delle caratteristiche più significative e convincenti del pensiero baumaniano sono la serietà e il rigore morale… Bauman crede che la moralità sia la questione umana fondamentale perché nella vita abbiamo sempre e inevitabilmente a che fare con altre persone in generale e con qualche persona significativa in particolare». BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 11-12). 160 Bauman parla di capitalismo consumistico. Nella cultura contemporanea pare dunque realizzarsi la famosa definizione di Oscar Wilde che parlava di una società «che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna». 161 Scrive l’avventista Kerbs: «Questa crisi si manifesta in diverse maniere: una società che adula la gioventù e coccola i suoi capricci e le sue fantasie, una cultura dove la ricchezza fornisce il modello del successo e della felicità, un’economia del consumismo in cui “essere” significa acquistare, consumare, utilizzare e mettere nella spazzatura, un’identità determinata dai comportamenti del mercato e non dalle ideologie. In altri termini, l’immagine domina la realtà. Per essere qualcun, occorre
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ Scrive ancora Bauman: «La società attuale forma i suoi membri al fine primario che essi svolgano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone una norma: saper e voler consumare… In una società dei consumi che funzioni correttamente, i consumatori si danno da fare per essere sedotti.»162
Secondo tale autore: «...lo spirito movens dell’attività del consumatore non è più la gamma misurabile di bisogni articolati, bensì il desiderio, un’entità molto più volatile ed effimera, evasiva e capricciosa, ed avulsa dai bisogni, una forza autoprodotta e autoalimentata che non abbisogna di altra giustificazione o causa.»163
Conferma Corradi che «nella società dei simulacri “l’individuo viene definito dai suoi oggetti” (Baudrillard), che valgono non per ciò che servono, ma per ciò che rappresentano, cioè per il loro ruolo di status-symbol».164
essere in televisione o su di un sito web… l’immagine presentata al pubblico è diventata oggetto di culto». (KERBS, R. L’èthique à l’èpoque postmoderne», su Dialogue, vol. 14, n. 2, 2002, p. 15. <http://dialogue.adventist.org/articles/14_2_kerbs_f.htm> [Consulta : 3 julio 2009]). 162 BAUMAN, Dentro la globalizzazione, p. 90. Aggiunge che «lo scopo del gioco del consumo non è tanto la voglia di acquisire e possedere, né di accumulare ricchezze in senso materiale, tangibile, quanto l’eccitazione per sensazioni nuove, mai sperimentate prima. I consumatori sono prima di tutto raccoglitori di sensazioni: sono collezionisti di cose solo in un senso secondario e derivato.» (BAUMAN, Dentro la globalizzazione, p. 93-94). 163 BAUMAN, Modernità liquida, p. 77. 164 CORRADI, Le ragioni dell’etica, p. 34.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Alcune osservazioni riassuntive Riassumendo, la postmodernità si caratterizza per quattro grandi tematiche:165 1. Un modo diverso di intendere la razionalità; da qui la cosiddetta crisi della ragione. 2. La crisi del soggetto; venendo meno la coscienza dell’unità dell’io, tutti i diversi atti che erano considerati espressione del soggetto acquistano un’autonomia che li rende indipendenti gli uni dagli altri disgregando il soggetto stesso. 3. Una ridefinizione della storia e della storicità; c’è una crisi dell’idea di progresso, un galleggiare nel tempo e, talvolta, un ritorno al tempo ciclico. Scrive Vattimo: «Credo che la filosofia non debba né possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte.»166 Nella po165
Rossi ha confrontato moderno e postmoderno in un'interessante sintesi; il moderno, nell’interpretazione postmoderna, appare «1) come l’età di una ragione forte... dominata dall’idea di uno sviluppo storico del pensiero come incessante e progressiva illuminazione; 2) come l’età dell’ordine nomologico della ragione...; 3) come l’età... del pensiero inteso come accesso al fondamento; 4) come l’età dell’autolegittimazione del sapere scientifico e della piena e totale coincidenza fra verità ed emancipazione; 5) come l’età del tempo lineare...; 6) come l’età dominata dalla persuasione della positività dello sviluppo e della crescita tecnologica», per contro, il postmoderno si presenta: «1) come l’età di un indebolimento delle pretese della ragione...; 2) come l’età della plurivocità o della polimorfia o dell’emergere di una pluralità di modelli e paradigmi di razionalità non omogenei... vincolati solo alla specificità del loro rispettivo campo d’applicazione; 3) come l’età di un pensiero senza fondamenti o della decostruzione o di una critica della ragione strumentale che revoca il senso della storia e ne riconosce il carattere enigmatico; 4) come l’età in cui la scienza riconosce il carattere discontinuo e paradossale della sua propria crescita; 5) come l’età della dissoluzione della categoria del nuovo e dell’esperienza della fine della storia; 6) infine come l’età in cui scienza e tecnica appaiono rischiose.» (ROSSI, P. «Postmoderno», p. 39-40. 166 VATTIMO, G. Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica. Mila-
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MODERNITÀ E POSTMODERNITÀ stmodernità, all’uomo non resta che portare la sua frammentarietà temporale, che è la sua storia, al di là di ogni progetto o illusione di progresso. 4. L’esistenza di una molteplicità di punti di vista ha dato origine ad un diffuso pluralismo etico per il quale la differenza dei punti di vista è un fatto molto apprezzabile e la tolleranza è un valore essenziale.
no: Feltrinelli, 1984, p. 12.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ E’ convinzione ormai diffusa che le teorie etiche della modernità si siano incuneate in un vicolo cieco e si stia, oggi, affacciando una comprensione radicalmente nuova dei fenomeni morali. Questo ha un’influenza notevolissima in rapporto alla morale cristiana ed anche alle istanze etiche di un gruppo religioso come la Chiesa avventista che dipana la sua storia proprio nel passaggio, in occidente, dalla modernità alla postmodernità; chi conosce da tempo lo stile avventista è consapevole di come esso sia pervaso da un forte senso del dovere che è sfociato talvolta nel legalismo; inoltre, la teologia avventista è improntata ad una forte razionalità, nel senso che la realtà dottrinale e spirituale è fortemente organizzata su base logica. La situazione è ancora più complicata dal fatto che l’avventismo è un fenomeno mondiale, dove di conseguenza devono convivere culture e percezioni morali differenti potenzialmente in conflitto. Il costume occidentale tipico del nostro tempo è quello del superamento dell’etica del dovere e della legge,167 mentre si è aperto uno 167
Scrive Bauman: «… il nostro è un tipo di modernità individualizzato, privatizzato, in cui l’onere di tesserne l’ordito e la responsabilità del fallimento ricadono principalmente sulle spalle dell’individuo». (Bauman, Modernità liquida, p. XIII). Ha scritto Scalfari, con particolare riferimento all’etica politica: «I contemporanei diffidano delle istituzioni, i moderni invece vogliono rinnovarle per rafforzarle; i primi rivendicano diritti e sono insofferenti dei doveri, i secondi sono consapevoli delle interdipendenze e delle regole; i primi privilegiano la ricerca della felicità immediata anche se effimera, i secondi si danno carico anche dei tempi che verranno; i primi delegano volentieri al carisma di un Capo la cura degli affari pubblici purché gli sia lasciata ampia inventiva per la realizzazione dei loro affari privati, i secondi cercano di esprimere una classe dirigente efficiente in una ragionevole divisione dei poteri. Per
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE spazio all’individualismo, alla ricerca del benessere, all’inclinazione verso una tolleranza che si associa però ad un diffuso sentimento d’indifferenza. Le società democratiche, che si sono imposte nell’Occidente, di per sé non producono la trasformazione della tolleranza in solidarietà, ossia il considerare le sofferenze e di problemi degli altri come oggetto della nostra responsabilità, e il mitigare o abolire tali sofferenze come un nostro compito. Appare, oggi, irraggiungibile trovare un fondamento certo alla morale, perché non si ritiene possibile legarla ad una qualsiasi legge fondante; ciò impedisce di trovare un senso stabile ed assoluto che invece fu la pretesa e il progetto delle filosofie del passato. Scrive Kerbs che «il postmodernismo è un’epoca postmorale, poiché rigetta ogni valore incondizionato superiore, come il servizio verso il prossimo e l’abnegazione»;168 questo autore è avventista e mostra l’avversione che la sua cultura ecclesiale prova ancora nei confronti degli attuali fenomeni.169 La modernità si era posta obiettivi irraggiungibili,170 questo ha certi aspetti i contemporanei sono più innovativi, i moderni più riformisti e ripongono maggior fiducia nei piccoli passi e nell’esercizio del camminare anziché in quello di correre…» (SCALFARI, E. «Il futuro della sinistra e i conti con il passato», su Repubblica, 21 gennaio 2001, p. 1. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/01/21/il-futuro-dellasinistra-conti-con-il.html> [3 febbraio 2009]). 168 KERBS, L’èthique à l’èpoque postmoderne, p. 16. 169 Questa attitudine, che lo scrivente trova diffusa tra gli avventisti, appare inquietante perché pregiudiziale e legata da una concezione mitologica del passato inteso ancora come luogo del bene che via via si è corrotto. Questa tesi (una grande narrazione nell’accezione di J. F. Lyotard) costituisce molto spesso la base su cui ogni verifica si fonda ed ostacola una più chiara valutazione dei fenomeni. 170 Per Flores D’Arcais i caratteri tipici della modernità sono il concetto di scarto tra ragione critica e conformismo e la forte accentuazione dell’ipocrisia. Scrive: «... la modernità è dunque scarto in quanto attraversata e percorsa dal conflitto fra
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ portato ad una sorta di grande disincanto, la prospettiva postmoderna smaschera tali illusioni e rifiuta le modalità tipicamente moderne di affrontare i problemi morali: quello che era considerato il modo giusto, unitario ed assoluto, si frantuma, nella postmodernità, in economicamente ragionevole, esteticamente gradevole, moralmente appropriato, ecc... Le azioni possono, in questo tempo, essere considerate giuste in un senso e sbagliate in un altro.
L’apporto di Max Weber Nota è l’antitesi di Max Weber171 tra etica della convinzione ed etica della responsabilità. l’esistenza progettata all’insegna della volontà di critica... e l’esistenza dissipata nel luna park della volontà di conformismo, tra il consolatorio frastuono del tempo libero e l’anestetizzante sabba dei miracoli tecnologici.» (FLORES D’ARCAIS, P. Etica senza fede, p. 8). Ancora: «... la più profonda frattura che da sempre attraversa la modernità, l’opposizione reale fra due irriducibili soggetti, il falso e il vero individuo: l’individuo immaginario dell’ideologia individualista... e l’individuo concreto dell’esistenza libertaria, della finitezza consapevole.» (p. 10). Sull’ipocrisia: «... quel peccato originale di genere inaudito che caratterizza la modernità: il peccato dell’ipocrisia. Solo la modernità non è quello che dichiara e promette di essere, infatti. Ogni altra epoca i suoi orrori li ha perfino esibiti con orgoglio... Non la modernità. Che della sua ipocrisia non sa però darsi pace... la modernità, infatti, non è in grado di promettere e poi rinviare. Nel suo fondaco di finitezza non c’è spazio per il deus ex machina di un aldilà. Di più. La promessa secolarizzata non regge il rinvio nemmeno nella forma atea del millenarismo rivoluzionario... Dentro il cerchio del disincanto l’alternativa è secca: o realizzazione, o regresso in una superstizione che occulti e consoli.» (p. 14). 171 Per Max Weber (1864-1920) è stato fondamentale l’apporto che il protestantesimo ha dato alla nascita ed allo sviluppo della modernità: i riformatori erano i suoi pionieri nella convinzione che la vita, nella sua interezza, fosse carica d’importanza morale; essi produssero un’etica che abbracciava tutti gli aspetti dell’esistenza umana. Per Weber, l’incessante ricerca del profitto che caratterizza l’imprenditore
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Weber rifiuta l’assolutismo etico e si muove all’interno di una filosofia dei valori i cui presupposti sono la distinzione tra essere e dover essere e il riconoscimento di una pluralità di sfere dei valori (quel politeismo dei valori in forza del quale nell’etica il valore è il buono, nell’estetica il bello, ecc). Proprio perché i valori sono tanti e inconciliabili, nel chinare il capo a certi valori se ne escludono altri: in ciò consiste quella che Weber chiama collisione dei valori. Ma tale rapporto conflittuale sussiste anche all’interno di uno stesso ambito di valori.
privato non è un tratto negativo, ma deve ricevere un riconoscimento etico. La Riforma protestante aveva cambiato la concezione del lavoro risalente al medioevo: il ritiro monastico dal mondo lascia il passo alla professione secolare. Il lavoro del protestante però non è, o non deve essere, finalizzato al godimento del profitto; la sua non è una vita dedicata al consumo e al godimento dei beni, ma all’ascesi intramondana. Da qui consegue il carattere del protestantesimo ascetico di origine puritana, il cui obbligo al lavoro e al risparmio forzato conduce necessariamente alla formazione del capitale. All’autocontrollo dell’individuo religioso subentra quello della personalità scientifica, moderna, e tale ideale diviene il principio etico supremo; questo processo di razionalizzazione dell’etica, per Weber trova, appunto, il suo apice nel protestantesimo ascetico, caratterizzato dalla repressione degli istinti individuali e dalla interiorizzazione del rapporto con Dio. Fu in primo luogo sempre Weber, iniziatore della sociologia moderna e teso alla soluzione del problema legato al rapporto tra razionalità e società occidentale, a rispondere alla domanda: la scienza può guidare l’azione dell’uomo? Egli sostenne che soltanto attraverso una sublimazione delle autentiche convinzioni personali si sarebbe resa possibile una vera scelta scientifica. E’, questo, il tema della avalutatività: i valori dello scienziato sociale restano un presupposto della sua indagine; lo scienziato dunque si deve astenere da giudizi di valore e distinguere tra conoscere e valutare. Lo spazio dell’impegno etico era per lui la politica, e questo lo portò ad una scissione delle sue due attività. La sua posizione, che ha forti suggestioni, rimane ancora oggi esemplare. Secondo Weber, dunque, «una scienza empirica non può mai insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto ciò che egli può.» (Weber, M. Il metodo delle scienze storico-sociali. Milano: Mondatori, 1980, p. 61).
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Il politeismo dei valori si declina nell’etica sotto forma del dualismo tra l’etica dei principi, anche detta etica delle intenzioni o delle convinzioni, e l’etica della responsabilità. Spiega Galimberti che «secondo Weber chi agisce non può ritenersi responsabile solo delle sue intenzioni, ma anche delle conseguenze delle sue azioni».172 L’etica della convinzione dà la priorità al valore dell’esempio e all’ideale che deve restare incorrotto e scevro da compromessi; tale etica dei principi è, in definitiva, un’etica apolitica, come è testimoniato dal cristiano che agisce seguendo i suoi principi senza chiedersi se il suo agire possa trasformare il mondo. Secondo la Franco, «che segue l’etica della convinzione dà la priorità al valore dell’esempio e si preoccupa di tenere alta la fiamma della convinzione pura, nonostante le diversità e le peculiarità delle varie situazioni»,173 in questa posizione, anche quando è vissuta in ambito secolarizzato, si riscontra un evidente residuo di religiosità. L’etica della responsabilità, invece, assume come insuperabile l’esistenza di paradossi etici ed è condizionata dalle situazioni e dal calcolo delle conseguenze; chi la segue tiene conto delle imperfezioni del mondo e sa che è necessario ricorrere a mediazioni che portano a compiere scelte non coerenti coi propri valori di partenza. La politica (che «opera con un mezzo tanto specifico com’è la potenza, dietro la quale si nasconde la violenza»)174 è il luogo dell’etica delle responsabilità, proprio perché non perde mai di vista (e anzi le assume come guida) le conseguenze dell’agire. Il politico vero deve preoccuparsi delle conseguenze dell’agire politico ed adattare le sue convinzioni ideali alle situazioni che affronta che sono, tra l’altro, in continuo divenire. 172
GALIMBERTI, U. Orme del sacro. Milano: Feltrinelli, p. 28. FRANCO, Etiche possibili, p. 92. 174 Citato da FRANCO, Etiche possibili, p. 90. 173
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE L'etica che la politica può fare propria, cioè l'atteggiamento etico che l'uomo politico può assorbire, non è l'etica tout court, è una forma specifica di etica: l'uomo politico non può e non deve fare proprio solo una forma specifica di etica. Con realismo Weber limita questa responsabilità ai casi in cui le conseguenze sono prevedibili; ha scritto: «Ogni agire in senso etico può oscillare tra due massime radicalmente diverse e inconciliabilmente opposte, può essere cioè orientato secondo l’etica dell’intenzione oppure secondo l’etica della responsabilità. Non che l’etica dell’intenzione coincida con la mancanza di responsabilità, e l’etica della responsabilità coincida con la mancanza di buone intenzioni. Non si vuol certo dire questo. Ma c’è una differenza incolmabile tra l’agire secondo la massima dell’etica dell’intenzione, la quale – in termini religiosi – suona: “Il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio” e agire secondo la massima dell'etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni».175
In sintesi si può anche definire l’etica della convinzione come valida nella sfera privata, quella della responsabilità inerente alle conseguenze sociali e pubbliche dei propri atti. Sottolineiamo il fatto che l'etica della responsabilità, l'unica etica che l'uomo politico può fare propria, non seguendo principi assoluti ma tendendo sempre a fini determinati, è costretta, spesso, per ottenere quei dati fini positivi buoni, a servirsi di mezzi e di strumenti che a volte non sono altrettanto buoni. Mentre per l'etica assoluta della convinzione il bene scaturisce solo dal bene, per l'etica relativa della responsabilità a volte il bene può derivare anche dal male, anche da un metodo cattivo.
175
WEBER, M. La politica come professione. Torino: Einaudi, 1971, p. 109.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Questo è il grande problema del rapporto tra etica e politica, che non si può nascondere e che i grandi pensatori non nascondono, non semplificano dicendo semplicemente: la politica deve diventare morale e la politica deve diventare etica. Ciò non significa che l'uomo politico non debba tendere sempre a costituire condizioni sempre migliori per il maggior numero di individui, che non debba sempre cercare di fare compromessi sempre più alti con la realtà; ma deve essere presente la consapevolezza di usare un materiale (la politica), che di per sé non coincide e non può totalmente coincidere con l'etica. Nella percezione postmoderna, l’etica della responsabilità è sempre più prevalente rispetto a quella della convinzione, proprio perché questa ultima si rifà ad un quadro metafisico di ideali certi, stabili e fondanti.
Indicativo e imperativo nel Nuovo Testamento Ci pare necessario, come credenti, inserire in questo esame della sensibilità etica contemporanea un richiamo ad un aspetto del messaggio neotestamentario che ci pare in parallelo con la tensione tra etica della convinzione ed etica della responsabilità che abbiamo appena segnalato. Gli studiosi hanno definito questo aspetto come il rapporto tra indicativo e imperativo, dove il primo parte dalla realtà come essa è, mentre il secondo come dovrebbe essere. Quindi entrambe le tensioni si basano su un movimento costante tra ideali da raggiungere e situazioni concrete di cui tenere conto. Soprattutto, ma non soltanto, nell’epistolario paolino si affiancano e susseguono, infatti, affermazioni etiche all’indicativo ed esortazioni all’imperativo: «Siete liberi dal peccato» e «che il peccato non regni su di voi» (Rm 6: 2, 12).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE «Liberatevi dal vecchio lievito,... giacché siete già senza lievito» (1 Cor 5: 7). «Se viviamo nello Spirito, allora camminiamo anche nello Spirito» (Gal 5: 25). L’affermazione di vivere una nuova vita in Cristo ed esortazioni a «non rubare più». Il chiamare i credenti, santi e poi fare liste di attitudini morali elementari da conseguire (quindi non ancora vissute coerentemente). Occorre chiarire come si rapportano tra loro l’indicativo della promessa della salvezza e l’imperativo dell’esortazione morale, in altre parole l’ideale e la realtà. In particolare, si tratta di incongruenze quando Paolo esprime, sullo stesso tema, il suo pensiero ora in un modo, ora in un altro? Scrive Wolfgang Schrage: «...in passato si amava neutralizzare la doppia polarità delle affermazioni come un compromesso tra ideale e realtà o tra teoria e prassi; oppure si parlava di una visione religiosa ed entusiastica da un lato e di una prospettiva empirico-realista dall’altra. L’indicativo rappresenta quindi l’ideale e l’imperativo rappresenta invece il correttivo all’idealismo o all’ottimismo di Paolo», altri invece «considerano un’incoerenza non l’indicativo, bensì l’imperativo» che segnalerebbe «una ricaduta nel legalismo giudaico», queste diverse attitudini sono accomunate dalla convinzione «che il rapporto tra indicativo e imperativo altro non sia che una contraddizione da risolvere e ciò viene fatto seguendo una di queste due vie: o si cerca di spiegarla con argomenti storici o psicologici, oppure si considera, secondo i casi, l’indicativo o l’imperativo un’incongruenza.»176 Scrive Eduard Lohse:
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SCHRAGE, W. Etica del Nuovo Testamento. Brescia: Paideia, 1989, p. 199.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ «...per determinare la reciproca relazione fra indicativo e imperativo in Paolo bisogna notare che in entrambe le espressioni sono impiegati gli stessi concetti. Perciò non si può accentuare l’una più dell’altra… non si nega che le potenze, il peccato, la legge e la morte, che Cristo ha sconfitto, siano ancora presenti. Perciò il cristiano deve risolvere dentro di sé, con l’azione di Dio, la lotta tra carne e spirito, tra l’arbitrarietà dell’uomo e la risolutezza della nuova vita. La forza oppressiva delle potenze, alle quali l’uomo un tempo doveva servire come schiavo, è infranta. Perciò si può opporre loro resistenza con successo, e l’imperativo è diretto al cristiano che vive la sua esistenza umano-terrena non più “secondo la carne” a “nella carne”.»177
L’alternarsi di imperativo (il Dio della Legge che richiede) ed indicativo (il Dio della grazia che dona) manifesta mirabilmente il carattere di Dio. Iddio non cessa di mostrare l’ideale, il suo progetto iniziale che occorre non dimenticare, e porre escatologicamente come obiettivo da ripristinare. E’ bene che un ideale resti tale nella sua essenza e non sia trasformato in precetto.178 Il Dio biblico, che si è incarnato e s’incarna continuamente nelle fragilità umane, guarda con indulgenza alla debolezza degli uomini, prende atto dei problemi e ci fa vivere nella sua grazia. Un esempio ci pare particolarmente emblematico é quello del matrimonio: esso è concepito come indissolubile, il suo testo fondativo è Gn 2: 24, ma la durezza della vita porta a dovere talvolta scegliere il minore tra i mali; quando la vita assieme è impossibile, o pericolosa, o umiliante, allora il divorzio è concesso, e concessa è la possibilità di farsi una nuova famiglia. 177
LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento, p. 118. Particolarmente nella Lettera ai Galati è presente la tensione tra Legge e Promessa, tra indicativo ed imperativo.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Dunque, questo mutare nel rivolgersi di Dio verso gli uomini va compreso come segno del suo amore concreto che fa grazia: il Dio biblico non ama gli ideali, ma gli uomini. Riteniamo che anche nell’attuale catechesi ecclesiale occorra presentare sia l’indicativo che l’imperativo: non diminuire gli standard ideali che riflettono il progetto divino, ma mostrare comprensione ed indulgenza per le debolezze umane quando si manifestano come tali e non pretendano di divenire norma o prassi abituale.
Le basi etiche della modernità Riprendendo il nostro esame, ricordiamo che sono stati gli sviluppi della modernità ad imporre all’uomo occidentale la condizione di individuo, portandolo a scoprire la frammentarietà della propria vita.179 I legislatori ed i pensatori moderni avvertivano che la morale non è un tratto naturale dell’esistenza umana, ma qualcosa che deve essere elaborato ed introdotto dall’esterno: per questo tentarono di creare ed imporre un’etica onnicomprensiva, unitaria, attraverso un codice completo di norme morali imposto da un ente, lo Stato, teoricamente rappresentativo degli interessi comuni.180
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E’ un’opinione diffusa in ambienti ecclesiali che gli uomini abbiano sviluppato una mentalità individualistica ed egoistica perché, con l’avvento della modernità, hanno perso la fede nei dogmi religiosi; ne conseguirebbe che il superamento della secolarizzazione mediante il recupero di un credo religioso o di un’idea di carattere universale potrebbe portare al superamento di tale egocentrismo. Tale convinzione è avversata da chi valuta la secolarizzazione un fenomeno positivo e liberatorio. 180 Afferma Bauman che «la società moderna aveva un’insaziabile sete di legiferare, di definire norme, di introdurre standard; di bellezza, bontà, verità, decoro, utilità e felicità». (BAUMAN; TESTER, Società, etica e politica, p. 78). Tornando all’analogia con lo stile avventista, notiamo che l’ansia di legiferare su tutto o quasi, per sovvenire alla debolezza morale dei fedeli, è stato un carattere tipico dell’avventismo.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ I pensatori moderni ritenevano che il vuoto lasciato dalla Chiesa dovesse essere colmato da regole razionali: la ragione doveva fare quello che la fede non stava facendo più.181 L’antica convinzione secondo cui la libera volontà esprime soltanto o soprattutto scelte sbagliate e che la libertà, se non guidata, porta lontano dal bene, continuava a dominare la mente dei filosofi e dei legislatori dell’epoca moderna. Occorreva, di conseguenza, impedire un uso sbagliato della libertà attraverso un’ampia e precisa legiferazione dello Stato;182 nasceva così la difficile convivenza tra una nuova e forte idea di libertà ed un congruo corpo normativo: l’autonomia degli individui e l’eteronomia della gestione razionale non potevano fare a meno l’una dell’altra, ma neppure confrontarsi senza conflitti. Infatti, l’avvento del pluralismo, frutto dell’allentamento del monopolio ecclesiastico dell’etica, era stato salutato con entusiasmo dai pensatori del Rinascimento: ma essi, in realtà, celebravano la libertà di pochi. Le masse restavano destinate ad una sudditanza politica da parte della gerarchia che aveva il compito di rivelare i fondamenti su cui doveva essere costruita la morale. Il codice etico doveva basarsi sulla natura potenziale dell’uomo, realizzabile con l’aiuto della ragione e delle guide istituzionali. 181
Scrive la Franco: «Una caratteristica del moderno è fare della morale una religione laica. E ciò è possibile in quanto entrambe riposano sul sacro e postulano un essere supremo. Il religioso in senso stretto e l’uomo morale sono entrambi prigionieri della fede, sono credenti.» (FRANCO, Etiche possibili, p. 32). 182 Scrive Stirner: «La borghesia è caratterizzata precisamente dall’idea che lo Stato è tutto in tutto, è il vero uomo e che il valore umano del singolo consiste nell’essere un cittadino dello Stato. Essere un buon cittadino: in questo egli ricerca il suo massimo onore e niente conosce di superiore a questo massimo, se non al più l’antiquato “essere un buon cristiano”.» (STIRNER, M. L’unico e la sua proprietà. Milano: Adelphi, 1986, p. 107).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Si poneva la domanda sul perché gli uomini avrebbero dovuto conformarsi ai principi, visto che non c’erano più le sanzioni divine, retaggio del mondo antico? Occorreva individuare e proporre qualche altro imperativo o motivazione. Come già osservato, il desiderio di moralità poteva radicarsi soltanto sulla convinzione che fare del bene andava a vantaggio di chi lo compiva; tale comportamento doveva giustificarsi pienamente su una base razionale. Inoltre, agli uomini, spesso inadeguati a comprendere la realtà, bisogna dire quali sono i loro veri interessi e, addirittura, devono essere costretti a comportarsi conformemente a tali interessi, anche contro la loro volontà. Il primo e fondamentale principio etico della modernità, infatti, consiste nel fatto che gli individui non devono nuocersi l’un l’altro perché questo non s’accorda col loro interesse personale. La funzione coercitiva che accorda l’interesse personale e quello sociale è svolta dalle leggi dello Stato;183 è chiaro che le istituzioni sociali si fondano, esplicitamente o no, sul presupposto che l’individuo non sia degno di piena fiducia: occorre dunque sostituire la morale individuale con un codice legale e forgiare l’etica sul modello della Legge. Scrive Bauman: «Lo Stato moderno… si sforzò di conquistare un rigido controllo di tutti quegli aspetti della vita umana che i poteri del passato avevano lasciato alla discrezione delle comunità locali. Reclamò il diritto di interferire – e studiò i mezzi per farlo – in aree dalle quali i po-
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In Italia, la funzione coercitiva dello Stato si è unita con una mentalità cattolica, concretamente pessimista sull’uomo: il frutto è stato un rapporto di mutua sfiducia. Ad esempio, fino a pochissimi anni fa l’apparato fiscale dello stato partiva dal presupposto della slealtà del cittadino.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ teri passati, per quanto oppressivi e sfruttatori, si tenevano alla larga. In particolare si adoperò per smantellare les pouvoirs intermédiaires, vale a dire tutte le forme di autonomia locale, autoaffermazione comunitaria e autogoverno.»184
Il tentativo della modernità di rendere gli uomini morali attribuendo le loro responsabilità ai legislatori appare oggi a molti come sostanzialmente fallito; la postmodernità ha la convinzione di dover affrontare per sempre dei dilemmi morali privi di soluzioni in equivocabilmente buone.
Le basi etiche della postmodernità Postmoderno significa mancanza di fiducia nel progetto umanistico; post quindi va inteso non in senso cronologico, ma in quanto indicante che il sogno della modernità è considerato, se non fallito, superato. Nella prospettiva postmoderna, i fondamentali contrassegni della condizione morale sono:
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BAUMAN, Z. Amore liquido. Milano: Mondolibri, 2004, p. 100. Ancora Bauman così riassume le basi dell’etica moderna: «Possiamo dire con un minimo di certezza di che cosa si occupava l’etica moderna (la ricerca di un codice di comportamento che ogni persona dotata di buon senso avrebbe dovuto seguire), di che cosa si occupava la pratica etica della modernità (la regolamentazione di un ambiente sociale che non avrebbe lasciato all’individuo altra scelta se non obbedire al codice), quali erano i vantaggi di quella pratica (la diminuzione del volume di violenza, ossia della coercizione illegittima e non autorizzata, nella vita quotidiana), a quale prezzo furono ottenuti quei vantaggi (la trasformazione in abitudine di gran parte della violenza, legittima e autorizzata dietro la maschera della coercizione funzionale, una trasformazione che arrivò a rendere quella violenza invisibile) e quali furono le sue conseguenze potenzialmente malsane per la moralità (l’introduzione della conformità alla regola al posto della responsabilità per l’Altro).» (BAUMAN; TESTER, Società, etica e politica, p. 99).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
1. L’affermazione dell’ambivalenza morale degli uomini. Non sono corrette né l’idea della bontà intrinseca dell’uomo, né quella della sua insuperabile malvagità. Ne consegue che la condotta morale non può essere garantita né da una migliore progettazione dei contesti per l’agire umano, né da una migliore formulazione dei suoi motivi; occorre imparare a vivere in un quadro di frammentazione, flessibilità e precarietà. 2. L’idea che i fenomeni morali siano intrinsecamente non razionali. La postmodernità concepisce i fenomeni morali come non prevedibili e non esauribili in un codice etico. L’etica moderna aveva seguito essenzialmente il modello della legge: si prefiggeva di offrire definizioni esaurienti, senza zone grigie di molteplice interpretazione; essa agiva in base al presupposto che in ogni situazione di vita esiste una sola scelta positiva che si separa nettamente dalle opzioni cattive. Per la postmodernità, invece, questo quadro ignora ciò che è propriamente morale: sposta i fenomeni morali dalla sfera dell’autonomia personale all’eteronomia, sostituisce la conoscenza delle regole all’io morale, costituito dalla responsabilità. La morale, per la sensibilità postmoderna è destinata a restare irrazionale.185 L’autonomia dell’io morale è vista, dalla tradizione moderna, come un pericolo dal punto di vita del controllo sociale; gli impulsi morali sono certamente colti anche nei loro aspetti positivi ma devono essere controllati, anche se non banditi. La gestione sociale della morale è un’operazione complessa che produce spesso più ambivalenza di quanta non riesca ad eliminare. La realtà umana è, dunque,
185
Un esempio della critica cattolica a tale impostazione morale la troviamo in Corradi: «Se la cultura d’oggi demanda il compito di fondare i valori morali ala libertà piuttosto che alla ragione, perché questa non è disponibile, ne deriva che la decisione della libertà che stabilisce i “criteri del bene del male” è in linea di principio una scelta-senza-ragione, cioè un arbitrio». (CORRADI, Le ragioni dell’etica, p. 45).
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ ambigua e le decisioni morali sarebbero, diversamente dai principi etici astratti, ambigue, scrive Bauman: «Sapere che questa è la verità significa essere postmoderni. Il postmoderno, si potrebbe affermare, è la modernità senza illusioni... La verità è che il caos rimarrà nonostante tutto ciò che potremo fare o sapere, e che i modesti ordini e sistemi che foggiamo nel mondo sono fragili, effimeri, e altrettanto arbitrari, e alla fine casuali, delle loro alternative.»186
3. L’idea che la morale è essenzialmente aporetica.187 La maggior parte delle scelte morali è compiuta tra impulsi contraddittori; l’io morale si muove, sente e agisce nel contesto dell’ambivalenza ed è lacerato dall’incertezza, una situazione morale priva di ambiguità esiste unicamente come utopia, come stimolo. 4. L’idea che la morale non è universalizzabile, cioè che l’etica non possa esprimere principi e norme valide per ogni luogo, o cultura, o popolo, o situazione. 5. L’idea che i fenomeni morali, nella prospettiva postmoderna, non comportano necessariamente un relativismo morale a causa della possibile implicazione piena dell’umanità dell’uomo nel fatto morale. In altre parole, il serio coinvolgimento del singolo nella situazione morale costituisce una garanzia, anche se parziale, del186
BAUMAN, Z. Le sfide dell’etica. Milano: Feltrinelli, p. 38-39. Un’aporia costituisce imbarazzo, dubbio, incertezza di fronte ad un ragionamento che propone diverse soluzioni possibili incompatibili tra loro. L'aporia é la contraddizione strutturale di un discorso rispetto alle premesse poste, rispetto alla coerenza sistemica che si vuole e si crede raggiungere. Le aporie, quindi, evidenziano l'impossibilità di un pensiero unico, organico, strutturale. Esse spingono il pensiero a procedere, a svilupparsi, a mutare, a destrutturarsi su piani continuamente diversi. In altre parole, l’aporia è un problema le cui possibilità di soluzione risultano annullate in partenza dalla contraddizione. Un esempio classico è quello dell’aborto: l’aporia consiste nel contrasto difficilmente superabile tra il diritto della madre e quello del feto. 187
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE la serietà della soluzione che non è più assicurata da un codice eteronomo che la precede.
Responsabilità morale e regole etiche Una dimensione pratica della crisi deriva dall’estensione delle capacità umane; oggi, la maggior parte delle iniziative tendono a coinvolgere molte persone, in tal modo nessuno può pretendere di essere l’artefice o il responsabile del risultato finale: tutto ciò determina una forte deresponsabilizzazione; esiste, cioè, quasi sempre un altro ente o potere a cui fare ricorso per la soluzione di un problema o a cui imputare responsabilità e colpe. Anche la stessa vita individuale è frammentata e niente pare atto a cogliere questi tanti io nella loro interezza.188 Si tende ad attribuire la responsabilità al ruolo più che alla persona; nella vita pubblica una rete di regole sociali difende l’individuo, ma quando questi esce dal suo ruolo entra in un campo di responsabilità personale non abituale e difficile da gestire; ci si rende conto che seguire, anche scrupolosamente, le regole dell’etica pubblica non salva dal peso morale delle responsabilità. Col pluralismo delle regole, le scelte morali appaiono irreparabilmente ambivalenti; questo tempo offre una libertà di scelta mai goduta prima che, però, ci pone in uno stato d’incertezza angosciosa, questo è forse l’aspetto più importante della cosiddetta crisi morale postmoderna. La sfiducia nei confronti della spontaneità umana è rimpiazzata dalla sfiducia nei confronti della razionalità. Nell’attuale sensibilità, sostiene Bauman, 188
A riguardo della frammentarietà che si esprime anche nella tendenza alla specializzazione in ogni campo, La Palombara ha previsto che «nel duemila prevarrà il modello americano con tantissimi specialisti dei vari alberi, ma nessuno della foresta». Citato da CORRADI, Le ragioni dell’etica, p. 26.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ «...essere morali significa sapere che le cose possono essere buone o cattive. Ma non significa sapere, né tanto meno sapere per certo, quali cose siano buone e quali cattive. Essere morali significa essere destinati a fare delle scelte in condizioni di profonda e dolorosa incertezza.»189
Mai come oggi il fenomeno morale190 risulta centrale e di difficile soluzione; come ha scritto Jonas, «mai tanto potere è stato accompagnato da una così scarsa capacità di indicarne l’uso migliore...».191 Il postmoderno non propone il caos morale, ma riorienta le preoccupazioni etiche in un quadro vago, effimero ed indolore, in modo da interferire il meno possibile con la libertà individuale;192 appare un 189
BAUMAN; TESTER, Società, etica e politica, p. 48. Citiamo un’intensa definizione di azione morale: «... un’azione, per essere detta “morale”, non deve ridursi a un atto o ad una serie di atti conformi a una regola, a una legge, o a un valore. Ogni azione morale –è vero– implica un rapporto con la realtà nella quale si effettua, e un rapporto con il codice cui si riferisce; ma implica un certo rapporto con se stesso: il che non significa soltanto “coscienza di sé”, ma costituzione di sé come “soggetto morale”, in cui l’individuo circoscrive la parte di se stesso che costituisce l’oggetto di quella pratica morale, definisce la sua posizione in rapporto al precetto che segue, si prefigge un certo modo di essere che gli servirà come compimento morale di se stesso; e, per far questo, agisce su se stesso, comincia a conoscersi, si controlla, si mette alla prova, si perfeziona, si trasforma. Non c’è azione morale specifica che non si riferisca all’unità di una condotta morale; non c’è condotta morale che non chiami in causa la costituzione di se stesso come soggetto morale.» (FOUCAULT, M. Histoire de la sexualité. Paris: Gallimard, 1976, p. 59). 191 JONAS, H. Technological Man. Englewood Cliffs (New Jersey): Prentice Hall, 1974, p. 176. Ricordiamo un’affermazione analoga di Robert Kennedy: «La gioventù americana, come la nazione americana conosce già un benessere che oltrepassa di gran lunga i sogni più audaci degli altri paesi. Ciò che le manca è di sapere a che cosa serve questo benessere» Citato in VELTRONI, W. Il sogno spezzato. Milano: Baldini-Castoldi, 1993, p. 104. 192 Afferma criticamente l’avventista Kerbs: «E’ una morale indolore, light, dove tutto 190
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE notevole buonismo tollerante che può sconfinare nella deresponsabilizzazione. Il clima postmoderno restituisce dignità alle emozioni ed a ciò che non si esprime in termini di utilità e funzionalità; il mondo è divenuto una realtà in cui il mistero non è più un estraneo in attesa di svelamento, vi possono accadere cose che nulla ha reso necessarie, occorre imparare a rispettare l’ambiguità e la gratuità. Ad una mentalità ancora radicata nella modernità tale attitudine appare come un pericolo mortale, essa è atterrita dalla prospettiva di una deregolamentazione della condotta, privata di un codice etico rigido ed onnicomprensivo; in particolare appare pericolosa la difficoltà a contrarre impegni a lungo termine e questo timore ci pare oggettivo. Afferma Bauman: «Da dietro il codice non si riusciva a vedere abbastanza chiaramente la faccia dell’Altro, e l’impulso morale veniva consumato troppo spesso nel tentativo di conformarsi al codice evitando di affrontare la questione della responsabilità incondizionata e inalienabile dell’io»;193 per le realtà religiose strutturatesi nella modernità, come l’avventismo, tale attitudine è ancora più accentuata perché il codice di riferimento è sentito come proveniente da Dio stesso. La postmodernità, dunque, si propone di personalizzare la morale.
è accettabile, ma da cui sono scomparsi il dovere ed il sacrificio incondizionali. Il postmodernismo ha lasciato ben indietro sia il moralismo che l’antimoralismo». (KERBS, L’éthique à l’époque postmoderne, p. 16). Questo elemento d’arbitrarietà della morale postmoderna ha originato l'efficace definizione di Gilles Lipovetsky di etica post-deontica. 193 BAUMAN; TESTER, Società, etica e politica, p. 100.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ
La morale modulata di Cristo Pure non entrando nella complessa ed ampia tematica della morale biblica e cristiana ci sembra appropriato un cenno alla cosiddetta morale modulata del Cristo per alcune sue analogie con l’attuale sensibilità etica, che è, invece, così malvista e mal percepita dalla tradizione e dalle istituzioni ecclesiastiche. L’azione umana e le sue implicazioni morali non sono viste dal Cristo soltanto nella loro prospettiva sociale, «ma sullo sfondo dell’eterno… Sullo sfondo dell’agire umano non c’è più la società, ma il regno di Dio».194 La società richiede dei comportamenti oggettivi in funzione delle sue proprie necessità: quando essa è il soggetto, l’individuo deve adeguarsi anche con un notevole depotenziamento ideale. 194
SACCHI, P. Gesù e la sua gente. Milano: Ed. San Paolo, 2003, p. 172. Nell’attesa giudaica, per regno di Dio s’intendeva il governo regale dell’Eterno che diverrà visibile alla fine del tempo, ma che già è presente. Gesù riprende tale concetto, ma non fa parola di guerre vittoriose contro popoli pagani, indica invece che il rinnovamento legato al regno divino non è offerto dall’azione umana, ma è opera di Dio stesso. Il regno di Dio è imminente e verrà improvvisamente; a tale annuncio si lega il richiamo alla conversione resa necessaria dalla prospettiva imminente della fine. Paolo esplicita tale legame: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Deponiamo perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.» (Rm 13: 12). Gesù colloca i problemi quotidiani, anche quelli che rendono la vita insopportabile, nella prospettiva del Regno di Dio (Mt 6: 26 ss); le sue affermazioni su come gestire le preoccupazioni non contengono un programma per la soluzione dei problemi sociali, ma enfatizzano la dimensione della speranza. La speranza cristiana, infatti, definisce idealmente le priorità e le rende concretamente visibili. Paolo, che affronta nel suo epistolario molti e svariati problemi di morale ecclesiale, si trova alle prese con una difficoltà, «come articolare la coscienza della novità radicale e l’attenzione di non tradurre questa novità in termini anarchici o immorali? Tutto è nuovo in Cristo e niente deve cambiare!» (FUCHS, L’éthique chrétienne, p. 30); si deve accettare una parziale divisione tra uomo interiore, libero dal peccato e dai suoi lacci culturali, e l’uomo esteriore, ancora sottoposto al condizionamento del tempo presente.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Il riferimento al Regno di Dio è, invece, rivolto ai suoi potenziali cittadini; Dio si cala nella storia umana per incontrare personalmente i singoli individui misurando i singoli progetti sui talenti e le situazioni di ognuno. Scrive Paolo Sacchi: «Fare la volontà di Dio, inserirsi nel suo piano sulla storia significa che ciascuno si trova in un punto diverso della grande tessitura, significa che a ciascuno Dio può chiedere cose diverse. La morale insegnata da Gesù appare come modulata. A ciascuno sarà chiesto secondo le sue capacità; capacità non solo morali, ma umane in senso generale.»195
A questa attitudine di comprensione e di adattamento di Gesù alla situazione umana, fa riscontro una radicalità estrema: non si tratta, infatti, semplicemente di osservare delle norme, ma di vivere nel Regno di Dio, di esserne coinvolti in ogni aspetto dell’esistenza. Scrive ancora Sacchi: «Secondo lo schema farisaico, l’uomo ha l’obbligo di osservare le regole della Legge, ma osservate queste, è libero di muoversi nella vita come meglio gli sembra. Il discorso di Gesù è diverso: l’uomo deve seguire la vocazione che viene da Dio, in qualunque modo gli si presenti… bisogna scegliere la via che meglio corrisponde ai piani di Dio.»196
Il rapporto con Dio da contratto diviene, così, una relazione tra persone, dove diritti e doveri si collocano nel fluire dei sentimenti e dei valori. Questa personalizzazione della morale pone in analogia, appunto, la postmodernità e l’insegnamento di Cristo e può costituire un utile ponte per la testimonianza cristiana nella contemporaneità. 195 196
SACCHI, Gesù e la sua gente, p. 172. SACCHI, Gesù e la sua gente, p. 174.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ
L’eredità di Nietzsche L’etica contemporanea esplora strade nuove, ma attinge da alcuni pensatori tra cui certamente Nietzsche. Nietzsche (1844-1900) ha proposto le tematiche di distruzione del senso e nichilismo; per lui la malattia mortale della nostra epoca era il nichilismo, il regno dell’assurdo e del nulla. Quando svanisce l’universo trascendente, quando muore Dio, i vecchi valori crollano e si apre un misterioso nuovo spazio davanti all’umano. Scrive Galimberti: «Nietzsche, infatti, concepisce l’uomo moderno e il suo tempo come una fine, la fine del movimento morale e spirituale di più di duemila anni, la fine della metafisica e del cristianesimo, la fine di ogni giudizio di valore… Per Nietzsche l’epoca finisce perché non crede più in ciò che l’aveva promossa e per secoli animata.»197
Scrive Vattimo, a riguardo del ruolo di Nietzsche nella genesi del pensiero contemporaneo: «Poiché la nozione di verità non sussiste più, e il fondamento non funziona più, dato che non è alcun fondamento per credere al fondamento, e cioè al fatto che il pensiero debba “fondare”, dalla modernità non si uscirà mediante un superamento critico, che sarebbe un passo ancora tutto interno alla modernità stessa... E’ questo il momento che si può chiamare la nascita della postmodernità in filosofia.»198
197
GALIMBERTI, U. «All’ombra del nichilismo», su Repubblica, 15 novembre 2004, p. 31. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/11/15/allombra-del-nichilism.html> [3 febbraio 2009]. 198 VATTIMO, La fine della modernità, p. 175.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Alcuni paradigmi dell’etica contemporanea Per paradigma o principio s’intende l’elemento primordiale posto all’inizio di un processo; nessuna etica è possibile senza delle proposte di base, senza ipotesi che ne determinano il campo di riflessione. Il pensiero etico contemporaneo porta verso un mondo da cui il soggetto è come confinato in un sogno o in un margine, in tale quadro mutano i principi classici di riferimento, che vanno rivisitati, a volte radicalmente, per offrire fondamento a quella che abbiamo chiamato etica postmoderna; elenchiamo i principi principali della tradizione etica moderna e contemporanea secondo Jacqueline Russ: Il principio religioso. Difficilmente il principio religioso può essere considerato atto a fondare un’etica; questa, infatti, nella sua essenza, non è religiosa perché si ordina secondo ragione. Il fondamento dell’etica non dovrebbe dunque essere religioso.199 Nonostante questo sfalsamento fondamentale tra religione ed etica, possono crearsi dei rapporti, dei ponti, delle mediazioni. Nel pensiero contemporaneo, Lévinas200 (celebre la sua affermazione sul 199
Se si sapesse (attraverso un atto cognitivo/razionale) che Dio esiste, il dovere si dissolverebbe a vantaggio della fede e della speranza: questa è la posizione kantiana. 200 Emanuel Lévinas (1905- 1995), lituano di famiglia ebraica, studiò in Francia dove poi insegnò lungamente, ma anche a Friburgo dove conobbe Husserl e M. Heidegger. La tragica esperienza dei campi di concentramento non ha intaccato la sua visione essenzialmente ottimista del destino dell’Occidente. Per lui la cultura occidentale ha due radici: l’universalismo scientifico, etico e politico della filosofia greca, e l’amore biblico che può impedire una perversione della politica. Lévinas sostenne che il pensiero della totalità ha dominato la filosofia occidentale fino a portare alle tragiche dittature del ‘900 e alla guerra. Caratteristica del pensiero della totalità è ritenere di poter ricondurre ogni cosa entro un orizzonte ultimo. A ciò contrappose la tesi della rottura della totalità su basi etiche, una rottura che avviene in virtù
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Dio biblico che «nasconde il suo volto»201) fa della religione una sorgente d’ispirazione etica pur non fondando l’etica su di un principio religioso, ma sull’esperienza dell’Altro, sulla fenomenologia del volto che rifiuta ogni violenza: «Dal momento in cui un altro mi guarda, io ne sono responsabile».202 La misericordia cui si appella Lévinas è la concreta esperienza del volto dell’altro uomo, del “faccia a faccia”; nel volto dell’altro si manifestano un interrogativo, un’aspettativa, un’implorazione che ci rendono responsabili del suo destino: «Per “volto” Lévinas non intese le fattezze esteriori di altri, come tali riportabili nell’ambito delle mie possibilità conoscitive, bensì il suo rivolgersi a me con una richiesta impellente di aiuto per il fatto stesso della sua miseria e indigenza.»203 Il legame con l’altro si presenta come responsabilità; la parola di Dio si iscrive nel prossimo perché Dio parla nell’uomo.204 dell’appello etico proveniente dall’alterità radicale del volto altrui. Per Lévinas, Dio si propone tramite l’atteggiamento etico del soggetto disponibile senza riserve verso il prossimo. 201 LÉVINAS, E. «Amare la Torah più di Dio», su KOLITZ, Z. Yossl Rakover si rivolge a Dio. Milano: Adelphi, 1997, p. 87; scrive anche alle p. 88, 90: «Sulla strada che porta al Dio unico c’è una stazione senza Dio... Un Dio per adulti si manifesta per l’appunto attraverso il vuoto del cielo infantile... lo spirituale non si concede come una sostanza sensibile, ma attraverso l’assenza; Dio si concreta non mediante l’incarnazione, ma mediante la Legge.» 202 LÉVINAS, E. Etica e infinito. Roma: Città Nuova, 1984, p. 92. 203 FERRETTI, G. Enciclopedia della Filosofia e delle Scienze umane. Novara: De Agostini, 1996, p. 524. 204 Lévinas vede nella Bibbia ebraica una forte spinta etica: «Che il rapporto col divino attraversi il rapporto con gli uomini e coincida con la giustizia sociale, ecco tutto lo spirito della Bibbia ebraica. Mosè e i profeti non si curano nell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano e dello straniero... Il male non è un principio mistico che si possa cancellare con un rito, è un’offesa che l’uomo fa all’uomo. Nessuno, neppure Dio, può sostituirsi alla vittima. Il mondo dove il perdono è onnipotente è inumano.» (LÉVINAS, E. Difficile liberté. Paris: Albin Michel, p.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Il principio della forza affermativa. Tale principio designa una fonte di potenza, una facoltà attiva, dinamica, creatrice, un’affermazione della vita. Abbiamo qui la sensibilità etica di Spinoza. La forza vitale ed il desiderio producono la gioia, un sentimento sostanziale e attivo. Nietzsche parla della volontà di potenza come di una facoltà creatrice capace di riempire l’anima e di colmarne il vuoto. Gilles Deleuze (1925-1995) e Robert Misrahi (n. 1926) definiranno più compiutamente una dottrina della potenza, della gioia e dell’azione: «Ad ogni riflessione, come ad ogni azione, occorre un punto di partenza. Non soltanto come esigenza metodologica ma come realtà affettiva... Questa partenza o inizio, lungi dall’essere più che altro metodologica o riflessiva, è anzitutto esistenziale. E, come possiamo costatare, dell’ordine del desiderio: nella nostra esperienza, è basilare il desiderio della gioia, si tratti di godimento o di soddisfazione, o anche di entrambe le esperienze, simultaneamente o alternativamente... Se il desiderio della gioia è ... fondamento originario dell’esistenza come del pensiero, la “vera vita” sarà dunque definita da una certa modalità della gioia.»205
Il principio di realtà. La coscienza che il desiderio e la gioia sono sempre in pericolo e contigui al dolore ed alla precarietà tende a estirpare ogni ingenua credenza nella felicità. Qui interviene quello che chiameremo il principio di realtà, fondato su ciò che esiste effettivamente, sulle condizioni stesse della vita e dell’esistenza. Occorre capire il reale ed accettarlo. Arthur Schopenhauer (17881860) è stato il maestro di questo realismo,206 ma la maggior par-
36-37). 205 MIRSRAHI, R. Cit. da RUSS, J. L’etica contemporanea, p. 27. 206 L’etica schopenhaueriana valorizza la compassione, cioè la convinzione che tutti gli esseri umani traggono origine da un’unica volontà e sono intimamente identici: nell’altro vediamo noi stessi, nel loro dolore si rispecchia il nostro.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ te dei filosofi ha invece avuto la tendenza di rifiutare il confronto con la realtà. Oggi, invece, il principio di realtà è reintrodotto con decisione nell’assiologia contemporanea. Il principio di responsabilità. Sentire responsabilità significa rispondere dei propri atti. E’ un principio che governa l’etica classica e che si ritrova oggi trasformato, esso, infatti, non riguarda più soltanto il presente o il futuro immediato ma, soprattutto con Jonas,207 si estende e si radica in un futuro lontano.208 L’umanità futura è rimessa integralmente alla nostra custodia; occorre agire affinché le conseguenze delle nostre azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra. Scrive la Russ: «A questa idea di un’umanità che deve compiersi, Jonas sostituisce quella di un’umanità fragile e deperibile, perennemente minacciata dai poteri dell’uomo. La responsabilità dell’età contemporanea non ha alcun equivalente nella storia delle idee: essa si svuota di ogni idea di finalità razionale, di ogni nozione di progres207
Hans Jonas (1903-1993) ha studiato e lavorato con Husserl, Heidegger e Bultmann e fu amico della Arendt. La sua attività si è mossa lungo due direzioni distinte: l’approfondimento storico della Gnosi ed un ripensamento radicale dei grandi temi etici della libertà e della responsabilità umane nel mondo contemporaneo. 208 Scrive Nepi: «L’etica della responsabilità è detta anche etica del futuro, nel senso che si preoccupa non solo delle conseguenze immediate, ma anche degli effetti a lungo termine delle scelte e delle azioni che si compiono nel presente. Tutto questo chiama in causa non solo le responsabilità individuali, ma anche responsabilità collettive, alle quali dovrebbe rispondere la politica.» (NEPI, P. «Hans Jonas: l’etica come responsabilità per il futuro dell’uomo», su DI MARCO; C. (a cura di). Percorsi dell’etica contemporanea, Milano: Mimesis, 1999, p. 91. <http://books.google.cat/books?id=msMFUJxpjC4C&pg=PA73&lpg=PA73&dq=NEP I,+P.+Hans+Jonas:+l%E2%80%99etica+come+responsabilit%C3%A0+per+il+futur o+dell%E2%80%99uomo&source=bl&ots=FkjxQQRw3q&sig=qiuCjOOrfPrQ3MEel RdFjp4pws0&hl=ca&sa=X&oi=book_result&resnum=1&ct=result#PPA91,M1> [3 febbraio 2009]).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE so storico automatico, e prende atto del fatto che l’uomo è diventato pericoloso per se stesso, che è in un certo senso rischio assoluto e caducità.»209
Questa nuova visione della responsabilità corrisponderebbe allora, secondo diverse definizioni, all’età del post-dovere, alla società postmoralista, al minimalismo etico, al crepuscolo del dovere, alla vittoria del pragmatismo. Il principio di libertà. Nella sensibilità contemporanea non si enfatizza la libertà metafisica, ma quella del poter agire, di esprimersi liberamente, di godere dei propri beni sotto la protezione delle leggi e senza subire costrizioni altrui. Il principio di differenza. Consiste nell’idea secondo cui è necessario accettare le disuguaglianze sociali ed economiche a condizione che esse siano regolate a beneficio dei più svantaggiati e che assicurino a questi una condizione di vita soddisfacente; le disuguaglianze saranno distribuite nell’interesse di ognuno.210 Il principio della coltivazione estetica del sé. E’ un’eredità dell'antica civiltà ellenica che ispirava la morale greca, che faceva coincidere etica ed estetica. In questo quadro la bella forma è promessa di moralità, il bello annuncia il buono. L’idea di applicare i valori estetici alla vita, pressoché assente nel Medio Evo, si ritrova nel Rinascimento da cui parte una linea che si protrae, espandendosi, fino a oggi. Foucault (1926-1984) pone il principio della coltivazione estetica di sé come uno dei fondamenti dell’etica postmoderna. 209
RUSS, L’etica contemporanea, p. 30. Scrive Russ: «Quando si coniugano principio d’uguaglianza e principio di differenza, possiamo dire che vi è una preoccupazione d’equità, un farsi carico delle disuguaglianze, un esame comprensivo e umano dello spettacolo delle ingiustizie della vita. Il pensiero etico-politico fornisce in questo caso alla modernità un principio di giustizia in cui l’equità viene a correggere l’astrazione della legge.» (RUSS, L’etica contemporanea, p. 33). 210
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ I principi dell’autodeterminazione e del rispetto per la vita. Sono i fondamenti della moderna bioetica che devono forzatamente trovare nuove formulazioni linguistiche e di merito di fronte alle acquisizioni della scienza applicata alla vita umana. Il principio dell’attività comunicativa. Grazie soprattutto a Habermas,211 troviamo un principio, basato sul concetto di comunicazione. Secondo diversi studiosi, tra cui Herbert M. MacLuhan,212 la stessa parabola storica dell’umanità può essere suddivisa in fasi corrispondenti ai principali mezzi comunicativi.213 E’ proprio nel principio della comunicazione, nel linguaggio e nella comprensione reciproca, che l’etica contemporanea trova il suo fondamento: la comunicazione fornisce il paradigma di una moralità preoccupata di vivere nella reciprocità e nell’assenza di violenza.
Le etiche dell’immanenza Le etiche dell’immanenza preoccupate di non uscire dai confini del mondo concreto. Con Deleuze (1925-1995), come già riferito, il desiderio ed il flusso vitale si rivelano delle potenze creatrici di valori e di saggezza; 211
Jürgen Habermas (n. 1929), della seconda generazione della Scuola di Francoforte, focalizza la propria analisi sulla forma del discorso, individuando i vincoli, i pregiudizi, le strumentalizzazioni, le distorsioni che condizionano il processo comunicativo. Significative anche le sue denunce del carattere fittizio della partecipazione politica dei cittadini nelle società capitalistiche moderne. 212 Herbert Marshall MacLuhan (1911-1980) cercò di dimostrare che il ruolo dei media è quello di prolungamento dei sensi umani e che ogni mezzo comunicativo privilegia alcuni atteggiamenti e forme d’esperienza rispetto ad altri. 213 Alle decentrate società tribali sarebbe succeduta, con l’alfabeto, un’epoca di specializzazione e poi, dopo la parentesi medievale, un’ulteriore tappa di frammentazione sociale ed accentramento istituzionale nell’epoca della stampa; coi media elettronici, soprattutto la televisione, l’umanità starebbe tornando, per MacLuhan, ad un’unità e un decentramento di tipo tribale su scala planetaria.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE per dare vita all’etica, occorre dapprima concepire il desiderio senza l’assenza e cogliervi una pienezza. Platone espresse per primo l’idea del desiderio come incompletezza, è possibile ricercare soltanto ciò che fa difetto: l’amore è una ricerca dell’unità perduta e testimonia del vuoto dell’essere in seno alla realtà umana rivelando insoddisfazione e angoscia.214 Questa idea è ripresa da Deleuze per cui il desiderio, invece di designare un’assenza, esprime la vita ed i valori creando saggezza. Il desiderio ed il corpo che lo sente sono forze positive, potenze che permettono di accedere alla gioia; in tale contesto il desiderio non è sinonimo di mero piacere; desiderare vuol dire fare venire a galla dei flussi profondi e dei valori inediti. Liberare la teoria del desiderio da ogni idea di assenza, vuol dire accedere all’etica della gioia, che significa una vita in continua crescita; quando il desiderio è, invece, mancanza, porta alla tristezza. In Misrahi, è la felicità che si pone al centro della riflessione etica; la felicità significa, qui, l’unificazione definitiva dell’uomo che ritrova la pace e l’unità; essa non è una soddisfazione episodica, ma il fine ultimo dell’etica; in lui la felicità è diversa dalla gioia di Deleuze: la gioia è un movimento che si realizza nell’istante, la felicità è la totalità che regola l’esistenza. André Comte-Sponville fa della felicità lo scopo della filosofia e il contenuto dell’etica mediante l’unità della disperazione della beatitudine. L’etica è, dunque, un esercizio di disincanto che sradica le speranze, una pratica liberata da ogni speranza, da ogni timore, da ogni tristezza ed ogni rimorso.215 214
Al contrario, già in Spinoza il desiderio indica una produzione ed una creazione, non una mancanza. 215 In tale visione etica c’è un chiaro riflesso orientale, recita la Samkhya Sutra indiana: «E’ felice soltanto chi ha perso ogni speranza; la speranza è la più grande tortura che vi sia, e la disperazione la più grande felicità».
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ
L’etica di Lévinas Già abbiamo citato Lévinas il cui pensiero etico, critico dell’ontologia, coglie nel religioso un vitale elemento originario; per lui l’etica si compie nel faccia a faccia con gli esseri umani; è, quindi, di fronte all’Altro, attraverso la relazione tra persone, che nasce l’esigenza etica come responsabilità totale; di fronte all’Altro, l’individuo morale si fa carico dell’altrui destino senza aspettarsi nulla in cambio: così si configura il concetto di volto: «il “volto” si impone a me senza che io possa essere sordo al suo appello, né dimenticarlo, cioè senza che io possa cessare di considerarmi responsabile della sua miseria».216 Scrive ancora Lévinas: «Il povero, lo straniero si presenta come eguale… La sua uguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo. Così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito da Altri… Egli si unisce a me… Ogni relazione sociale, al pari di una derivata, risale alla presentazione dell’Altro al Medesimo, senza nessuna mediazione di immagini o di segni… Il fatto che gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, né da una causa comune di cui sarebbero l’effetto come succede per le medaglie che rinviano allo stesso conio che le ha battute… La paternità non si riconduce ad una causalità cui gli individui parteciperebbero misteriosamente e che determinerebbe, in base ad un effetto non meno misterioso, un fenomeno di solidarietà… Il fatto originario della fraternità è costituito dalla mia responsabilità di fronte ad un volto che mi guarda come assolutamente estraneo. E l’epifania del volto coincide con questi due momenti. O l’uguaglianza si produce laddove l’Altro comanda il Medesimo e gli si rivela nella responsabilità, o l’uguaglianza non è che un’idea astratta e una parola.»217
216
LÉVINAS, E. La traccia dell’altro. Napoli: Pironti, 1979, p. 35. LÉVINAS, E. Totalità e infinito. Milano: Jaca Book, 1980, p. 217-219. Olivier Clément ha ripreso questo tema del volto e «ha stabilito un parallelo tra la morte di
217
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nel volto si coglie e si ascolta la parola di Dio e la sua presenza: «Non dico che l’altro è Dio, ma che nel suo Volto ascolto la parola di Dio».218 L’etica di Lévinas si richiama alla trascendenza biblica e si pone come valore primo219 che impone l’interdizione assoluta della violenza: «Il “tu non ucciderai” è la prima parola del volto. E’ un ordine. C’è nell’apparizione del volto un comandamento, come se un maestro mi parlasse…».220
Dio e questo attentato contro il volto dell'uomo». (Pronzato, A. Via crucis oggi. Torino: Gribaudi, 1984, p. 31). Ancora Pronzato: «una società senza il culto del volto è una società che rende schiavi. Non per nulla nell'antichità greca, lo schiavo veniva chiamato aprôsopos. Letteralmente: colui che è privo del volto… Sono convinto che un terrorista può uccidere un uomo soltanto se non lo guarda in faccia… Urge sostituire alla maschera –a tutte le maschere, anche quelle religiose, anche quelle carnevalesche– il volto…» (PRONZATO, Via crucis oggi, p. 31-32). Vedere di WIESEL, E. L’alba. Parma: Guanda, 1996. 218 LÉVINAS, E: Entre nous, Paris: Grasset, 1991, p. 128. 219 Scrive Kolitz, manifestando questo aspetto della spiritualità ebraica: «Io lo amo, ma amo di più la sua Legge, e continuerei ad osservarla anche se perdessi la mia fiducia in lui. Dio significa religione, ma la sua Legge rappresenta un modello di vita...» (KOLITZ, Yossl Rakover si rivolge a Dio, p. 23). Nella stessa opera, Lévinas afferma: «...il rapporto tra Dio e l’uomo non è comunanza di sentimenti d’amore per un Dio incarnato, ma relazione tra spiriti: intermediario un insegnamento, la Torah. E proprio una parola, non incarnata da Dio, che garantisce la presenza di un Dio vivente in mezzo a noi... Amare la Torah ancor più che Dio è, per l’appunto, accedere ad un Dio personale contro il quale ci si può rivoltare, per il quale, cioè, si può morire.» (KOLITZ, Yossl Rakover si rivolge a Dio, p. 89, 91). 220 LÉVINAS, E. Éthique et infini. Le Livre de poche, Biblio-essais. Paris: LGF, 1988, p. 83.
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L’etica nell’età della scienza E’ stato Karl O. Apel ad aprire il dibattito attuale sulla relazione tra scienza e etica: mai, per lui, si è posto impellente come oggi il bisogno di un’etica universale. Dal momento che scienza e tecnica operano in un campo universale, è inevitabile una nuova fondazione dell’etica; la scienza e la tecnica, infatti, non offrono risposta al bisogno di fondamento e neppure possono dirsi assiologicamente neutre. L’oggettività della scienza può essere tale solo se, a monte, si presuppone una comunità di argomentazione; nessuno, infatti, può usare un linguaggio e fare esperienza comunicativa senza sottostare alle regole sociali della comunicazione. Scrive la Russ: «...ogni scienziato, pur nella sua ricerca solitaria, sottomette potenzialmente le proprie tesi o dimostrazioni a una collettività a cui, almeno in potenza, fa riferimento. Il suo linguaggio privato non gli consente di edificare una scienza: egli deve servirsi di un’argomentazione razionale comune a tutti.»221
La scienza, secondo Apel, risponde ad un dovere che ne predetermina l’orizzonte d’indagine e quindi presuppongono un quadro etico/normativo.
Morale ed etica in Habermas Secondo questo studioso, l’agire comunicativo può essere considerato come terreno unificante di tutti i livelli dell’agire sociale definendo un obiettivo morale: la fondazione di una comunità comunicativa pienamente paritaria atta a superare l’idea borghese d'opinione pubblica. 221
RUSS, L’etica contemporanea, p. 68.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Egli individua l’importanza del pensiero post-metafisico perché i concetti fondamentali della metafisica tradizionale sono ormai inutilizzabili: siamo i «senza tetto della metafisica» perché essa non fornisce più concetti, né punti di riferimento, né fondamenti. Per Habermas l’etica religiosa tradizionale si è ormai dissolta e ciò ha prodotto una «differenziazione dei mondi di vita», facendo venire meno la possibilità di una morale universale. Egli concepisce due tipi di ragione: come strumento di dominio, la ragione strumentale; come strumento di emancipazione, la ragione pratica. Occorre fare riferimento alla cosiddetta svolta linguistica, cioè quel cambiamento di paradigma che porta da una filosofia della coscienza ad una teoria incentrata sul linguaggio ed i segni linguistici; è dunque alla comunicazione e all’interpretazione dei segni che il pensatore deve oggi rivolgere la propria attenzione visto che né la ragione né Dio possono servire da guida. Ma il linguaggio, l’unica realtà, rimanda in quanto convenzione, per la sua formulazione e interpretazione, al consenso, all’accordo, alla comunicazione trasparente, alla scelta razionali degli individui dialoganti. Il consenso determina, di conseguenza, la ricerca etica. La comunicazione vive di presupposti etici; gli interlocutori procedono argomentando, riconoscendo quindi la plausibilità delle ragioni altrui; la comunicazione presuppone che l’Altro sia una persona e non un oggetto e quindi annuncia il regno etico, cioè il riconoscimento delle persone entro un orizzonte condiviso, quello dell’universalizzazione.
Le etiche della civiltà tecnologica: Hans Jonas Jonas riafferma l’insostituibilità del pensare metafisico anche nella società tecnologica: «il perno attorno al quale ruota nel suo insieme
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ la sua riflessione è costituito dal rapporto tra la scienza-tecnica e l’orizzonte ultimo di senso per l’uomo nel mondo».222 Scrive Nepi che «Jonas non è né moderno, né antimoderno, né postmoderno. La sua filosofia vuole essere un pensiero critico della modernità, al fine di ricostruire per l’uomo un senso della sua responsabilità storica oltre rigide contrapposizioni epocali.»223 Egli ha dedicato molta parte del suo impegno al rapporto tra le possibilità della morale e la modernità;224 nel fare questo riflette sulla responsabilità e la prolunga sull’avvenire, al futuro lontano. Scrive John T. Pawlikowski che, secondo Jonas, «la comunità umana si trova a dover fronteggiare una situazione in cui il potenziale distruttivo equivaleva alle possibilità di raggiungere nuovi livelli di creatività e di dignità umana. La strada da seguire sarebbe stata decisa dalle generazioni a venire. In ultima analisi, la scelta non sarebbe stata determinata né dall’intervento divino, né dalle forze arbitrarie della natura. E quella decisione avrebbe avuto un effetto duraturo, ben al di là dell’arco di vita di coloro che erano destinati ad assumerla. In effetti avrebbe determinato quali forme di vita avrebbero continuato a sopravvivere.»225 222
NEPI, Hans Jonas: l’etica come responsabilità per il futuro dell’uomo, p. 75. NEPI, Hans Jonas: l’etica come responsabilità per il futuro dell’uomo, p. 85. 224 La modernità è, per Jonas, caratterizzata dall’incontro tra la scienza e la tecnica. «Il sapere si poteva considerare allora un bene privato di chi sapeva, che posseduto interiormente non poteva arrecare alcun danno al bene degli altri… Tutta questa eredità della tradizione classico-contemplativa sprofondò nel desueto con l’avvento delle scienze naturali all’inizio dell’epoca moderna.» (JONAS, H. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità. Torino: Einaudi, 1997, p. 26. Cit. da DI MARCO, Percorsi dell’etica contemporanea, p. 83). 225 PAWLIKOWSKI, J. T. «Dio, la questione etica fondamentale dopo l’Olocausto», su BACCARINI, E.; THORSON, l. Il bene e il male dopo Auschwitz. Milano: Ed. Paoline, 1998, p. 93. <http://books.google.cat/books?id=KrsIehe51w0C&pg=PA93&lpg=PA93&dq=%22ar co+di+vita+di+coloro%22&source=bl&ots=PaAUzELZlF&sig=QWnu_g1n2JdsfSee 223
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Jonas sostiene che occorre abbassare le nostre pretese nei confronti del futuro e contrappone il principio di responsabilità226 a quello della speranza;227 il progresso tende, infatti, a mutare la vita umana ad una velocità sempre più intensa,228 ciò rende necessario un ripensamento dell’etica: «Prima sia il sapere, sia il potere erano troppo limitati perché si includesse nelle previsioni anche il futuro più lontano e nella coWS_U1CbTtAU&hl=ca&ei=aE6ySoamDYyZ4gbPpo2zDg&sa=X&oi=book_result&ct =result&resnum=1#v=onepage&q=%22arco%20di%20vita%20di%20coloro%22&f=f alse> [Consulta: 17 septiembre 2009] 226 Scrive la Franco: «Il principio di responsabilità trasforma il rapporto individuonorma, perché dà all’individuo che decide la facoltà di giudicare a partire dalle situazioni, dalel condizioni determinate nella quali deve produrre la decisione morale». (FRANCO, Etiche possibili, p. 10). 227 Il principio speranza di Ernst Bloch (1885-1977) è una grande mappa di tutti i territori della speranza; secondo Bloch, non bisogna prendere il mondo così com'è; la speranza ci mostra il mondo in movimento, in evoluzione. Quindi la sua idea è che la speranza non è semplicemente un premio di consolazione per le disgrazie necessarie della vita degli individui e della storia; la speranza è piuttosto uno sforzo per vedere come le cose si evolvono. La speranza in Bloch sostiene la ragione, senza la speranza la ragione non potrebbe crere e senza la ragione la speranza sarebbe cieca. Bloch non cerca una soluzione sentimentale ai problemi, la speranza per lui ha un carattere conoscitivo, un carattere veggente, essa permette al pensiero di articolarsi al di là dell'immediatezza del vissuto. Paradossalmente la speranza di Bloch non riguarda tanto il futuro quanto il presente, nel senso che ogni istante può diventare significativo, occorre imparare a vivere ogni momento come se fosse eterno, «cogli l'eternità nell'istante» è un suo principio fondamentale. Per eternità intende la pienezza dell'esistere, l'eternità riguarda quei momenti d'essere in cui sembra di scoprire il senso delle cose andando al di là dell'attimo vissuto. 228 Scrive Moltmann che «il progresso è caduto nella trappola dell’accelerazione: “chi cavalca la tigre non può più scendere”». (MOLTMANN, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p. 45). Ancora Jonas afferma: «non dimentichiamo che il progresso è una scelta, non un imperativo incondizionato, e che il suo ritmo, in particolare, per quanto possa diventare coercitivo, non ha nulla di sacro». (JONAS, H. Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Bologna: Il Mulino, 1974, p. 207).
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ scienza della propria causalità tutta la terra. Solo la tecnica moderna con la ricchezza senza confronti delle sue imprese apre questi orizzonti nello spazio e nel tempo.»229
Oggi, gli effetti globali delle azioni locali assegnano alle responsabilità morali un rilievo senza precedenti; la morale ereditata dalla modernità è, invece, una morale della prossimità,230 quindi terribilmente inadeguata in una società in cui ogni azione importante è un’azione a distanza. Il prolungamento della vita individuale fa sorgere un problema assiologico urgente: in quale misura esso è auspicabile? Chi deve beneficiarne? E’ utile per la specie?231 Se l’appuntamento con la morte è un momento importante per la riflessione dell’uomo il suo spostarsi in avanti per interventi esterni non costituisce un esproprio? Jonas sviluppa un rinnovato imperativo atto a preservare l’integrità dell’uomo e della vita: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra... Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di tale vita... Non mettere in pericolo
229
JONAS, Tecnica, medicina ed etica, 1997, p. 32. Secondo Jonas, l’etica tradizionale presenta i seguenti caratteri essenziali: il rapporto col mondo non umano è di tipo meramente tecnico; essa è un’etica antropocentrica; l’orizzonte temporale e spaziale dell’uomo è limitato; il saggio è colui che si rassegna all’ignoto; l’individuo non ha a che fare che con i contemporanei, la sua sfera d’azione è dunque quella della prossimità. 231 In relazione al diritto del malato incurabile, in fase terminale, di avere una morte degna, Jonas scrive: «Ragione ed umanità spingono decisamente verso la seconda alternativa, che si tratti di diritto o di dovere; si lasci morire come il corpo richiede la povera ombra di chi fu una persona e si ponga fine alla degradazione della sua sopravvivenza coatta». (JONAS, H. Il diritto di morire. Genova: Il Nuovo Melangolo, 1991, p. 36-37). 230
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE le condizioni della sopravvivenza indefinita dell’umanità sulla terra... Includi nella tua scelta attuale l’integrità futura dell’uomo come oggetto della tua volontà.»232
Il superamento della prossimità porta a ripensare il dovere morale nel quadro della religione, una religione però che non ricorre più alla paura, ma al principio della responsabilità. L’umanità globale diviene la norma essenziale di riferimento; occorre addossarsi la responsabilità dell’umanità futura: questa è una dimensione di gratuità perché nulla potrà venirne in cambio. Questa non reciprocità costituisce un elemento centrale del pensiero di Jonas.233 La posizione di Jonas è significativa per l’etica politica: l’uomo politico capace, anche se mosso dalla passione per il potere, ha degli obiettivi generali collocati, in buona parte, nel futuro.234 Scrive Bodei: «...Jonas offre tuttavia un’interpretazione troppo cauta del ruolo e della funzione della responsabilità. Per lui ogni intervento di qualche magnitudine sulla società e sulla natura è pericoloso e destabilizzante... Facendo prevalere la paura e minimizzando i rischi, Jonas invita al contrario a inibire la propensione al possibile, in quanto fondata, a suo avviso, su pretese esorbitanti e su desideri immodesti.»235 232
JONAS, H. Il principio di responsabilità. Torino: Einaudi; 1990, p. 16. Nella morale tradizionale l’esempio più significativo che ricorda questa non reciprocità è offerto dagli obblighi parentali in favore dei figli, strutturati in un rapporto asimmetrico. 234 Si pensi, ad esempio, al problema delle pensioni di vecchiaia, così centrale nell’attuale confronto politico in occidente. Si discute su come evitare problemi collocati in là nel tempo di 20/30 anni. La politica si deve oggi fare carico di problemi che non saranno gestiti dagli attuali dirigenti; il politico cosciente del proprio ruolo sa che deve sacrificare il consenso presente per evitare rischi futuri. 235 BODEI, Libro della memoria e della speranza, p. 23-24. 233
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Dal punto di vista teologico, è significativa la sua idea di creazione, collocata costantemente sullo sfondo della sua ricerca e che è tradizionalmente collegata all’onnipotenza divina, che Jonas vede in modo meno antropomorfico:236 «l’etica mantiene così la sua dimensione umanistica, in un quadro di valori non più antropocentrico e utilitaristico ma fondato sul bene oggettivo come patrimonio di tutto l’essere e non disponibile all’uso arbitrario dell’uomo».237
L’etica come estetica dell’esistenza: Michel Foucault Foucault (1926-1984) riprende dall’antichità greco-romana il principio estetico e della cura di sé come fondamento dell’etica, egli coglie, infatti, un’affinità tra l’esperienza dei greci e quella delle culture contemporanee; afferma che «occuparsi di sé non è, dunque, una semplice preparazione momentanea alla vita; è una forma di vita».238 Questa valorizzazione dell’arte di vivere dove si fondono etica ed estetica si contrappone alla sensibilità cristiana a cui sono cari i temi della caduta e del peccato. Per lui, occorre prendersi cura di sé (vegliare di continuo) con un filtraggio sistematico delle idee che si affacciano allo spirito e non accettare ciò che non è degno di noi; attraverso questa selezione si crea un sé capace di autocontrollo e di accedere ai piaceri. 236
Alcuni vedono in Jonas una concezione della natura di tipo quasi animistico. Scrive il nostro autore: «Il diritto esclusivo dell’uomo alla considerazione umana e al rispetto morale è stato spezzato proprio con la conquista di un potere quasi monopolistico su ogni altra forma di vita». (JONAS, Tecnica, medicina ed etica, p. 31). 237 DI MARCO, Percorsi dell’etica contemporanea, p. 84. 238 FOUCAULT, M. Citato da DAVIDSON, A.. L’etica dell’inquietudine, su La Repubblica, 2 aprile 2004, p. 45. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/04/02/etica-dellinquietudine.html> [3 febbraio 2009].
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nella visione di Foucault, che si collega a Nietzsche, «l’uomo è allora un insieme di strutture, che egli è, certo, in grado di pensare e di descrivere, ma di cui non è il soggetto sovrano. Di conseguenza, anche la morale viene svincolata dall’uomo e ridotta alla politica, che a sua volta riesce a determinare il funzionamento ottimale della società senza avere bisogno di richiamarsi all’uomo, essendole sufficiente il riferirsi a determinati rapporti che legano fra loro l’aumento della popolazione, il consumo, la libertà individuale e la possibilità della felicità per tutti.»239
L’etica e la politica in John Rawls Il famoso testo di Rawls, Una teoria della giustizia (1971), costituisce una delle opere contemporanee principali nel campo dell’etica politica. Il legame tra morale e politica è fortemente presente nella tradizione americana e presenta forme di difficile comprensione per gli europei. Rawls (1921-2002), statunitense, non offre una soluzione definitiva al problema della giustizia ma, con la crisi delle grandi narrazioni e particolarmente dell’ideologia marxista, sente che si è aperta una “era del vuoto” e che la modernità va ripensata. Egli si contrappone all’utilitarismo240 per il quale il governo deve fondarsi sul principio della più grande felicità per il maggior numero possibile di individui. 239
ROHLS, J. Storia dell’etica. Bologna: Il Mulino, 1995, p. 537. Per John Stuart Mill, un agente posto di fronte ad una scelta tra diverse alternative, sarà portato a scegliere quella che ne massimizza la felicità (o utilità). L'analisi si può estendere a livello complessivo, infatti, l'utilità è una misura della felicità; essa è perciò aggregabile mediante l'operazione di somma. È quindi possibile misurare il benessere sociale, definendolo come somma delle singole utilità degli individui appartenenti alla società. L'utilità diventa perciò il perno del ragionamento etico e la 240
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ L’utilitarismo estende alla società le norme ed i ragionamenti abituali agli individui: «il benessere sociale dipende direttamente ed esclusivamente dal livello di soddisfazione o mancanza di soddisfazione degli individui».241 La dottrina utilitarista non si preoccupa della felicità di ogni singolo individuo, mentre Rawls cerca una giustizia più attenta alle esigenze delle persone; egli formula un contratto sociale in cui gli uomini trovino il fondamento ideale all’organizzazione sociale. In una nota immagine Rawls concepisce un’assemblea di persone libere riunite per stabilire le regole atte a governare la società e la
sua diretta applicazione è che diversi stati sociali risultano comparabili a seconda del livello di utilità globale da essi generati, intesi come aggregazione del grado di utilità raggiunto dai singoli. Finalità della giustizia è la massimizzazione del benessere sociale, quindi la massimizzazione della somma delle utilità dei singoli, secondo il motto benthamiano: «Il massimo della felicità per il massimo numero di persone». L'utilitarismo è una teoria della giustizia secondo cui è giusto compiere l'atto che, tra le alternative, massimizza la felicità complessiva, misurata tramite l'utilità. Non vi è, invece, alcun giudizio morale aprioristico. Si prenda ad esempio l'omicidio: questo atto può essere considerato giusto allorquando comporti come conseguenza uno stato sociale con maggiore utilità totale. Difatti potrebbe succedere che un solo individuo perda utilità dalla propria morte, allorché gli altri membri della comunità guadagnino in utilità dalla sua scomparsa. L'unico presupposto aprioristico dell'utilitarismo è l'imparzialità: le varie utilità di ciascun individuo sono sommate, per formare l'utilità dello stato sociale, senza pesi di ponderazione; in altri termini ogni situazione contingente, ogni punto di vista ha eguale valore nella funzione di aggregazione del benessere sociale. Di per sé, dunque, ogni decisione sarebbe buona o comunque indifferente in sé. Quello che conta sono le conseguenze delle decisioni che io prendo. Mill sostiene che l’interesse può essere un sentimento altruista: «Il credo che accetta come fondamento della morale l’utilità o il principio della massima felicità sostiene che le azioni sono giuste nella misura in cui tendono a promuovere la felicità, ingiuste in quanto tendono a produrre il contrario della felicità. Per felicità si intende piacere o assenza di pena...» Cit. in MASSOBRIO, A. Storia della filosofia contemporanea. Genova: Ed. Giglio, 1996, p. 157. 241 RAWLS, J. Una teoria della giustizia. Milano: Feltrinelli, 1982, p. 42.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE ripartizione dei beni essenziali; essi, mentre decidono, sono però ignoranti riguardo al posto che occuperanno nell’associazione futura, questo impedisce loro di entrare in un conflitto di interessi che sarebbe d’ostacolo a deliberazioni eque.242 Questa situazione di inconsapevolezza è definita da Rawls velo d’ignoranza. Scrive la Franco: «La teoria della posizione originaria elaborata da Rawls per garantire un’uguale posizione di partenza ai soggetti contraenti, si fonda sull’assunto, tipico delle teorie contrattualistiche, che i soggetti godano di libertà e autonomia e siano coscienti dei loro interessi privati… La procedura che si basa sul “velo d’ignoranza” (cioè sulla non conoscenza del proprio status futuro) deve garantire che nella socialità imposta nessuno prevarichi sugli altri. Ciò che spinge alla ricerca della giustizia e alla limitazione dei propri interessi particolari non è l’interesse reciproco, bensì l’egoismo razionale.»243
Secondo tale pensatore, due sono i principi di giustizia cui attenersi: 1. il primo esige una pari attribuzione dei diritti e dei doveri di base; ogni persona ha lo stesso diritto di godere delle libertà fondamentali;244
242
Per assicurare l’equità tra le generazioni, le parti contraenti non conoscono a quale generazione appartengono; sono anche vietate loro le informazioni intorno alle risorse naturali, al livello delle tecniche produttive e simili. 243 FRANCO, Etiche possibili, p. 172. 244 La libertà è da Rawls considerata come il primo e fondamentale principio di giustizia: essa deve essere goduta in modo eguale da tutti. Spingendo più nei particolari l'analisi, Rawls articola varie tipologie di libertà fondamentali: la libertà politica; diritto di voto, attivo e passivo; la libertà di parola e di riunione; la libertà di pensiero; la libertà personale e quella di possedere la proprietà privata; la libertà dall'arresto e dalla detenzione arbitrari.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ 2. il secondo riconosce che le disuguaglianze socio-economiche sono giuste se producono dei vantaggi per ciascuno e, in particolare, se favoriscono gli individui meno fortunati. Tra tali principi esiste un ordine gerarchico, il primo prevale sul secondo: non si può barattare la libertà con miglioramenti materiali. Rawls assume una posizione equilibrata tra l’egualitarismo radicale ed il puro mercato, volgendosi verso la cooperazione: pone le basi per la socialdemocrazia moderna.245 Per lui il doveroso ed il giusto hanno la priorità rispetto al bene fruibile: sviluppa una deontologia, cioè una dottrina secondo cui la moralità consiste nell’agire correttamente senza considerare il proprio utile o un bene supremo. In tale ottica, un atto non è giusto né morale perché é buono, ma in quanto è retto; viene così escluso alcun riferimento ad un bene supremo o ad un fine ultimo.246
245
La posizione socialdemocratica di Rawls è un’eredità del New Deal, il programma socio-economico attuato dal presidente democratico F. D. Roosevelt per superare la grande depressione iniziata nel 1929. 246 Rawls risponde anche alla questione della legittimità, o meno, della resistenza ad un governo democratico, dando una risposta affermativa quando il sistema politico viola i principi fondamentali della giustizia. Una società, infatti, può dirsi giusta soltanto quando: la sua costituzione è conforme a tali principi; le leggi vengono emanate secondo tale costituzione; i cittadini si comportano secondo le leggi. Il problema della disubbidienza civile in una società democratica ha rivestito grande importanza per la legittimazione del movimento americano per i diritti civili; tutto il secondo dopoguerra americano è stato fortemente coinvolto dalle iniziative del movimento per i diritti umani e civili che si sono coagulate attorno ad alcuni eventi significativi della storia degli USA e del mondo: il confronto col comunismo, i conflitti razziali, la guerra del Vietnam, la parità sessuale, ecc...
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
L’etica e la politica in Hannah Arendt Hannah Arendt247 è un’intellettuale ebrea tedesca salvatasi prima di essere internata in un campo di sterminio nazista, non senza però avere vissuta una breve esperienza come internata; ciò è stato decisivo per lo sviluppo del suo pensiero successivo. Il pensiero etico della Arendt non si può incasellare entro schemi tradizionali perché è, nello stesso tempo, realista e fiducioso nel futuro.
247
Hannah Arendt (1906-1975) a causa delle sue origini ebraiche nel 1933 è obbligata a emigrare in Francia e poi negli USA. I suoi principali interessi si sono orientati sull'agire politico, inteso come dimensione pubblica dell'esistenza umana. Nel suo Le origini del totalitarismo (1955) analizza le specificità e la dinamica dei sistemi totalitari, ricostruendo il processo storico che ha condotto alle dittature europee e alla seconda guerra mondiale. I momenti decisivi di tale processo (antisemitismo, imperialismo e trasformazione plebiscitaria delle democrazie) sono interpretati come effetti di una complessiva spoliticizzazione della cultura moderna. In Vita activa (1958) contrappone l'ideale greco della comunità alla decadenza che l'agire politico subisce in Occidente. Questo discorso viene proseguito in opere come Sulla rivoluzione (1963), dove vengono analizzati soprattutto le conseguenze negative della rivoluzione americana e francese, e in Tra passato e futuro (1961), dove la critica della modernità viene estesa anche ai problemi della storia, dell'autorità e della tradizione. All'ebraismo moderno la Arendt dedica Ebraismo e modernità [<http://books.google.cat/books?id=UFmwuJoXDGIC&dq=Arendt+Ebraismo+e+mo dernit%C3%A0&printsec=frontcover&source=bl&ots=2BnHG0DYDE&sig= 4ciE0T7q14QQWo8gn1d5UZpZJh0&hl=ca&ei=YGS7SqWGBNPajQer4O3ICw&sa= X&oi=book_result&ct=result&resnum=1#v=onepage&q=&f=false>] e «Rahel Varnhangen. Testimone del processo ad Eichmann», la Arendt ne diede un controverso reportage in La banalità del male (1963). Negli ultimi anni, la Arendt ha rivalutato la vita contemplativa, soprattutto in La vita della mente, dove viene espresso un certo scetticismo nei confronti della possibilità di un'esperienza politica autenticamente libertaria nella società di massa.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Essa fonda la sua speranza nell’agire umano e nel suo collocarsi nello spazio politico, il solo atto a realizzare i grandi progetti etici, ma anche la fonte di enormi tragedie.248 L’autrice introduce i concetti di natalità e mortalità come essenziali per comprendere il nobile ruolo della politica: «…la politica, liberata dalla tirannia della filosofia e della teoria, non sarebbe più una necessità di ordine negativo, ma la risposta umana più elevata al fatto che “non l’Uomo, ma gli uomini” al plurale nascono, vivono, abitano il mondo e muoiono. Natalità e mortalità costituirebbero, allora, la duplice fonte dell’azione politica»,249
e ancora: «Il fatto decisivo che determina l’uomo come essere consapevolmente rammemorante è la nascita o natalità, il fatto che siamo entrati nel mondo attraverso la nascita; mentre il fatto decisivo che determina l’uomo come essere deliberante è la morte o mortalità, il fatto che abbandoneremo il mondo con la morte…»250
Per la Arendt, «l’azione libera, innovativa, discorsiva, che riscatta l’essere umano dalla mancanza di significato propria della semplice vita biologica, è dunque l’azione politica… Si può vivere senza lavorare e senza operare e non per questo si perde l’umanità, ma se si vive senza
248
Scrive: «La nostra domanda odierna nasce da esperienze politiche molto reali: essa è suscitata dalle sciagure che la politica ha già provocato nel nostro secolo, e da quelle ancora più grandi che rischiano di scaturirne. La nostra domanda è dunque molto più radicale, molto più aggressiva, e anche molto più disperata: la politica ha ancora un senso?» (ARENDT, H. Che cos’è la politica? Milano: Comunità, 1995, p. 21). 249 PARISE, E. La politica dopo Auschwitz. Napoli: Liguori, 2000, p. 10. 250 Hannah ARENDT, cit. da PARISE, La politica dopo Auschwitz, p. 13.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE azione e senza discorso si rinuncia ad apparire, ad identificarsi, ad esistere al di là della mera sopravvivenza.»251
Il modello per eccellenza è quello della polis greca, in cui lo spazio pubblico è occupato dalla parola, che rappresenta lo stare insieme; per i greci, la famiglia costituiva lo spazio privato, dominato dalla necessità, mentre la polis costituiva quello pubblico, dominio della libertà. Nella modernità l’uomo laborans ha soppiantato l’homo faber, facendo dell’attività lavorativa continua e ripetuta l’espressione massima del suo essere. Ciò determina un accumulo di prodotto ed un’accelerazione dei consumi: produrre e consumare sono quindi le espressioni tipiche dell’agire umano attuale.252 Secondo la Arendt, è pensabile che «l’età moderna –cominciata con un così eccezionale e promettente rigoglio di attività umana– termini nella più mortale e nella più sterile passività che la storia abbia mai conosciuto».253 Tale passività è il luogo in cui può trovare spazio la banalità del male che ha prodotto individui come il criminale nazista Eichmann;254 con tale espressione esprime un’accusa di ottusità: Eichmann era cattivo perché non pensava.255 251
PASSERA, M. T. su Percorsi di etica contemporanea. Roma: Mimesis, 1999, p. 264. 252 L’ideale dell’homo faber, che consisteva nella durata e nella permanenza dei manufatti, è stato scalzato dalla necessità di consumare vorticosamente della cultura di massa, alimentata dalla pubblicità. 253 ARENDT, H. Vita activa. La condizione umana. Milano: Bompiani, 1964, p. 242. 254 Vedere ARENDT, H. La banalità del male. Milano: Feltrinelli, 1964. 255 Bauman contesta la tesi di Arendt relativa all’ottusità di Eichmann: «Sarebbe tuttavia arduo dimostrare l’ottusità di Eichmann a meno che la Arendt non usi il termine il senso diverso da quello comunemente accettato e sancito dalla società in cui tutti viviamo. Eichmann era un affermatissimo burocrate di alto livello, coperto di
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Pensare e fare politica in un quadro etico implica un’indipendenza nei confronti delle regole sociali: «ci fu l’osservazione di Hannah Arendt secondo cui chi riusciva a fuggire dall’orgia genocida doveva opporsi agli standard dominanti della propria società e non poteva contare su alcun aiuto da parte di norme imposte socialmente o di precetti etici ufficiali. Pertanto, la capacità di andare contro la propria società poteva essere il prerequisito di un atto morale».256
La libertà politica è dunque un valore primario ed il totalitarismo un male da combattere, pena l’estinzione dell’umanità dell’uomo; la politica è un luogo di valori specifici che «opera con un mezzo tanto specifico com’è la potenza, dietro la quale si nasconde la violenza».257
L’etica e la religione in Martin Buber Buber (1878-1965) pensatore ebreo austriaco, ha riscoperto la sensibilità chassidica258 e con essa l’immanenza di Dio negli eventi
medaglie e premi per i suoi meriti. Era un maestro nell’applicare qualsiasi cosa la burocrazia ritenesse logica e razionale. Se Hitler fosse uscito vittorioso dalla guerra, le università avrebbero fatto a gara per avere Eichmann tra i loro docenti di scienze manageriali… Dalla storia di Eichmann possiamo tuttavia imparare qualcos’altro: la razionalità del male…» (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 59). 256 BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 56 257 ARENDT, H. Politica e menzogna. Milano: SugarCo, 1985, p. 56. 258 Per Buber, il chassidismo «non è una dottrina ma uno stile di vita, seguendo questo stile di vita si costruisce la comunità, uno stile di vita che nella sua essenza è l’unico possibile per la vita in comunità». (BUBER, M. cit. da BANSE, H. «Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber». AEC, Firenze, gennaio-giugno 2003, p. 14. <http://www.nostreradici.it/Buber_Holger-Banse.htm#II> [3 febbraio 2009].
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE mondani: «Dio non si confonde con il mondo, non si disperde in esso, perché lui è nel mondo, ma insieme è il trascendente».259 La mistica chassidica non è, infatti, distacco dal mondo, ma un rivolgersi ad esso attraverso l’azione morale che concretamente interessa un insieme di persone, ed è quindi comunitaria. Per Buber, la vita è dialogo, «chi dice TU conosce il suo IO. Chi dice TU entra in un colloquio, in un dialogo»260 e il dialogo è il fondamento dell’etica buberiana: «L’essere-uomo significa l’essere quello che sta di fronte»;261 nella psicologia contemporanea l’approccio buberiano viene definito Psicoterapia del dialogo o Psicologia dell’ascolto. Fondamentale per il nostro autore è la differenza tra le due categorie morali corrispondenti alle relazioni IO-TU e IO-ESSO. I nostri comportamenti dipendono da quale, tra le due relazioni, il nostro IO si colloca. Da IO-TU procede una relazione personale, in IO-ESSO l’altro è un oggetto verso cui ci comportiamo come soggetti, ma non come persone. Scrive Holger Banse: «IO-TU si pronuncia con tutto il proprio essere: quando pronuncio questa parola fondamentale, ci sono con tutto il mio essere. Un ESSO, invece, lo contemplo, lo assumo obiettivamente, in modo neutrale, da spettatore: non mi rivolgo direttamente a lui…»262 Il mondo dell’ESSO è quello dell’esperienza, funzionale, di minima partecipazione; quello dell’IO-TU è il mondo della relazione, che include la vita della natura, degli uomini e dello spirito: «Divento io nel tu; diventando io, dico tu.»263 259
BANSE, «Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber», p. 13. BANSE, «Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber», p. 16. 261 BUBER, M. I racconti dei chassidim. Milano: Garzanti, p. 256. 262 BANSE, «Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber», p. 17. 263 BUBER, M. cit. da BANSE, «Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber», 260
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Scrive Joseph Levi che «l’uno, IO-ESSO, serve per potersi occupare del mondo tecnologico intorno a noi, l’altro, IO-TU, per privilegiare il rapporto con gli altri e far arricchire la propria esperienza umana attraverso l’esperienza sacra della realtà…».264 Dio è il TU per eccellenza, il TU eterno, colui nel cui confronto dialogico l’uomo trova l’identità e la vita. Buber è un deciso sostenitore del dialogo anche nel confronto politico: «Io credo, nonostante tutto, che i popoli in queste ore possano giungere al dialogo reciproco. Un vero dialogo è quello in cui ciascuno dei partner è salvaguardato dall’altro, pur nella contraddizione, come partner essenziale, affermato e confermato. Se così non si toglie dal mondo la contraddizione, certamente però la si può umanamente condividere e superare.»265
Etica ed ecologia Oggi, la riflessione etica è posta, spesso drammaticamente, anche sul piano della tutela dell’ambiente. Le tematiche sono ampie, ci limitiamo qui a presentare un cenno al pensiero di Moltmann fondato sulla premessa che: «...se Il fine del progresso e della globalizzazione del potere umano non consiste nel dominare e possedere la terra bensì nell’abitarla, dovremo abbandonare il “complesso di Dio” tipico dell’uomo moderno, occidentale, convinto… di essere padrone e possessore della natura, La terra può vivere senza il genere umano, come del p. 18. 264 LEVI, J. su GUIDI A. (a cura di). Psicoanalisi e religione. Firenze: Ed. Clinamen, 2006, p. 32. 265 Discorso in occasione del ricevimento del Premio della Pace da parte degli editori tedeschi, nel 1953; BUBER, M. cit. da BANSE, «Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber», p. 24.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE resto è vissuta per milioni di anni. L’umanità, invece, non può esistere senza la terra, da cui essa proviene.»266
Gli uomini dipendono dalla terra e non viceversa e devono trovare le vie per integrarsi ed adattarsi col sistema terra, tentare ad esercitare un mero dominio sul pianeta significa il suicidio. Ancora tale autore scrive: «Soltanto gli stranieri saccheggiano la natura, disboscano le foreste, svuotano i mari e poi, come nomadi, trasmigrano altrove. Chi invece abita sul posto, dove intende continuare a starci, è interessato a conservare le stesse condizioni di vita e a non compromettere la vitalità della natura che lo circonda. Egli risponderà ad ogni attacco sferrato contro la natura e farà di tutto per ristabilire gli equilibri compromessi… Il potenziale scientifico e tecnologico di cui l’umanità dispone e che attende di essere sviluppato non va impiegato nella lotta distruttiva per l’acquisizione di potere, ma per rendere sempre più abitabile questo nostro pianeta.»267
L’etica e il tempo: tra memoria e oblio La postmodernità colloca l’uomo in un diverso rapporto col tempo; essa intende liberarsi da una metafisica idealistica che congiunge passato, presente e futuro mediante un’unica linea: i fili risultano invece molteplici. Gli storiografi stanno, infatti, abbandonando l’idea di un unico tempo storico, lineare e progressivo, e hanno adottato una nozione plurale di tempo, come se esistesse una molteplicità di tempi, corrispondenti alle diverse epoche e culture, che si intrecciano tra loro e si stratificano. 266
MOLTMANN, su GIBELLINO e altri, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p.
47. 267
MOLTMANN, su GIBELLINO e altri, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p.
47.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Scrive Lyon: «… il ritmo della vita sembra accelerato. Contemporaneamente, chi è lontano sembra più vicino, dal momento che può essere raggiunto istantaneamente al telefono o per e-mail, o con un volo intercontinentale. I nostri mondi temporali e spaziali sono stati rapidamente compressi, in modi che talvolta sembrano sconvolgenti... Anche il tempo implode in un presente perenne, che possiede la pericolosa capacità di attenuare la memoria e precludere la speranza. Il mondo dell’istante e dell’immediato è allo stesso tempo un mondo di ritmi assai disordinati. Già l’alternanza delle stagioni e del giorno con la notte hanno perduto gran parte della loro importanza per la socialità.»268
Questa epoca pone per la nostra cultura delle prospettive drammatiche: non ci si riferisce qui al buco dell’ozono, o ai rischi mai superati del cataclisma nucleare, ma alla profonda eradicazione dell’identità umana che è un carattere proprio della civiltà contemporanea. Lo smarrimento delle radici e del senso della storia rende confusi all’interno delle coordinate del tempo che hanno perduto la tradizionale capacità di orientare: il presente diviene evanescente e inospitale, perché non è più fondato sulla tradizione, né più polarizzato verso il futuro. Castells ha parlato di «tempo senza tempo», ma questo tempo senza tempo, creando un presente esteso, fa scomparire il futuro, cioè la dimensione della speranza.269 268
LYON, Gesù a Disneyland, p. 171. Aggiunge: «Tutta la vita assume caratteristiche di volatilità e brevità, poiché non soltanto le mode, ma anche le modalità della vita lavorativa, delle attività di svago, delle forme di intrattenimento, e addirittura di pensiero politico e filosofico, mutano con straordinaria rapidità… Passato, presente e futuro non compaiono in successione lineare, ma danno vita ad un collage.» (LYON, Gesù a Disneyland, p. 173-174, 191). 269 Scrive ancora Lyon che «il tempo accelerato della postmodernità produce una
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Di conseguenza, mai come oggi si muore soli, perché mai come oggi si vive soli. Alla rinuncia del presente come realtà da gustare, fa da parallelo sovente un’attitudine predatoria da parte dell'uomo nel soggiorno nel tempo: un carpe diem che non significa il viverlo con intensa partecipazione, ma assorbirne ogni bene immediato con l’effetto di svuotarlo di valori per chi seguirà, deprezzando ogni trascendenza. Sono, queste, delle attitudini solo all’apparenza contraddittorie che trovano ragione nel vuoto di senso che ci circonda e pervade. Occorre sottolineare che la frammentarietà fa sentire i suoi effetti non solo sulla storia grande, ma anche su quella individuale di ognuno, con la quotidianità, con la percezione della propria identità personale. Nelle storie personali si manifesta l’interruzione della continuità e dell’orientamento dei tempi, in funzione di un progetto/missione da compiere. Galimberti, prendendo occasione da alcuni suicidi riportati dalle cronache, ha scritto: «quando si raggiunge la gelida certezza che il nostro dolore o il nostro amore non può essere più comunicato, allora o lo si sotterra... o ci si sotterra con lui... soprattutto per dire che una società che non sa più trattare l’amore e il dolore, se non in modo televisivo... deve cominciare a chiedersi se è ancora una comunità di uomini, o non invece di semplici spettatori che guardano la vita come si guarda uno schermo... Dove i confini si fanno incerti bisogna aguzzare la vista, non bisogna chiudere gli occhi. Ogni volta che li chiu-
simultaneità e una riduzione del futuro… Sovvertire il tempo significa provocare incertezze, perdere ancoraggi, dissolvere significati». (LYON, Gesù a Disneyland, p. 178-179).
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ diamo per non vedere quel che capita al nostro prossimo, qualcuno del nostro prossimo li chiude per non vedere più.»270
Scrive Remo Bodei: «Il restringersi dello spazio dell’esperienza e l’abbassarsi dell’orizzonte delle attese vengono riconosciuti quali tratti caratteristici della modernità... con la progressiva accelerazione del tempo storico... il futuro... diventa non solo difficile da prevedere ma persino da immaginare. Ciò produce talvolta una sorta di implosione nell’arco dell’esistenza individuale, sottratta alla speranza ma non alla paura, tal’altra quel che i moralisti chiamano un acclimatarsi del cinismo.»271
Scrive Johann Baptist Metz, riflettendo in modo specifico sull’Olocausto: «Stiamo vivendo sempre di più in un’epoca di amnesia culturale. Non stiamo forse scivolando sempre di più in un mondo che, sotto la definizione di ‘postmoderno’, coltiva l’oblio? L’uomo è sempre meno la sua stessa memoria, mentre diventa sempre più il proprio esperimento senza limiti.»272
270
GALIMBERTI, U. «Pubblica indifferenza», su La Repubblica, 3 novembre 1996. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1996/11/03/pubblicaindifferenza.html> [3 febbraio 2009]. 271 BODEI, Libro della memoria e della speranza, p. 11. 272 BACCARINI, THORSON, Il bene e il male dopo Auschwitz, p. 53. Sempre Metz aggiunge che «questa società corre il rischio di diventare una macchina dell’oblio, perché in realtà la conservazione delle informazioni non significa ricordare…» e parlando dell’Olocausto aggiunge che «amnesia culturale significa: sopprimere il dolore del ricordo nella memoria culturale degli uomini». (BACCARINI, THORSON, Il bene e il male dopo Auschwitz, p. 55).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE La minore solidarietà col passato e con le decisioni del passato ha portato ad un forte indebolimento morale, non sufficientemente compensato dalle acquisizioni sociali.273 Non c’è da stupirsi del fatto che, se è il tempo il grande imputato dell’infelicità dell’uomo moderno che non riesce a fermarlo, ma anzi coglie con sgomento il suo accelerare senza un dove, sia proprio un nuovo senso del tempo ad offrirsi, dall’oriente e dal passato, agli eredi del pensiero ebraico-cristiano come consolazione per il loro dramma. Scrive ancora Metz: «Essere memori delle sofferenze di altri resta una categoria fragile in un’epoca nella quale gli uomini sono dell’opinione che in conclusione è solo con la spada dell’oblio e con lo scudo dell’amnesia che possono armarsi contro le onde ricorrenti delle sofferenze e delle malvagità…»274
Le religioni tradizionali o cosmiche sono proprio caratterizzate dall’annullamento del tempo, attraverso il suo ciclico ripetersi sempre uguale, il suo riproporre vita e morte in un carosello in cui nulla si perde, nel suo rivisitare continuo coi miti il tempo che fu, illo tempore. Con cadenza sempre uguale le civiltà tradizionali rivivono, non come semplice memoria, ma come vera ripetizione, gli atti di fondazione dell’universo e della vita: i millenni passati si annullano, con le sofferenze in essi contenute, riportando la speranza nei cuori.
273
Scrive Lyon: «… con i tassi di divorzio attualmente in aumento nelle società più avanzate, può essere in dubbio anche la speranza di un legame durevole. Il contratto revocabile, che dura soltanto fino a notifica successiva, è all’ordine del giorno. L’episodico, il fugace, l’incerto giungono a contraddistinguere la vita sociale e culturale in sfere sempre più ampie.» (LYON, Gesù a Disneyland, p. 177). 274 BACCARINI, THORSON, Il bene e il male dopo Auschwitz, p. 59.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Possiamo sostanzialmente dividere in due campi opposti i tentativi di comprendere l’universo, la vita e il tempo: quello offerto dalla tradizione ebraico-cristiana (ed islamica) e l’altro delle culture tradizionali e del panteismo orientale. Tutto può collocarsi da una parte o dall’altra di questo confine. L’Occidente, erede più di quanto talvolta non sappia dei valori cristiani, sente il valore dell’individuo e della sua memoria, l’irripetibilità del tempo e delle azioni che lo riempiono, la grandezza della morte. L’Oriente e l’Antico collocano l’uomo in un ciclo eterno, in un universo che tutto accoglie ed annulla; cancellando tempo, storia e memoria nella consolazione di essere parte di un divino che tutto pervade e identifica. La concezione ciclica nega la storia, l’altra ne fa il luogo dove la vita si dibatte e prende forma, dove Dio scende per incontrare l’uomo. L’idea lineare del tempo non può non basarsi, almeno nella sua origine, sull’idea di redenzione, di salvezza ultima.275 Scrive Quinzio: «Nell’orizzonte biblico invece, che è storico e non cosmico, e quindi lineare e non ciclico, la catastrofe finale non si ripete periodicamente come punto critico ad ogni fine-reinizio di ciclo, ma è evento assolutamente unico, come unico è l‘assoluto inizio al quale dà luogo, come unico è Dio contro il molteplice divino pagano.»276
Conferma Pierre Chaunu: «...il tempo della filosofia greca è un tempo senza inizio né fine, un tempo infinito... Il tempo vettoriale è un dono della rivelazione ebraico-cristiana al pensiero degli uomini.
275
In realtà, il tempo biblico non è una linea, ma un vettore, ha cioè un verso cui tendere. 276 QUINZIO, La croce e il nulla, p. 67.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nessun sistema di civilizzazione, né la Cina, né l’India, hanno potuto concepire un tempo vettoriale.»277 Nel pensiero ebraico-cristiano, si spezza la ciclicità del tempo, una parola che nello spazio significa lontano e nel tempo significa ultimo: è l’eschaton, il tempo dove solo alla fine si chiarisce il fine di tutto e dove la storia ha senso; finché l’occidente cristiano, pur nella parziale corruzione dell’idea originale, ha mantenuto questo orizzonte, la speranza ha nutrito di consolazione la nostra civiltà. Ma, da quando la storia ha smarrito il motivo del suo percorso, cioè l’incontro con un Dio personale, garante della giustizia e signore del tempo, resta solo l’incedere veloce e irrefrenabile del tempo che pare non portare a nulla; tolto Dio, coi suoi surrogati, all’orizzonte dell’uomo occidentale restano la solitudine ed il non ritorno. L’uomo occidentale, oggi, si trova in uno spazio di nessuno: il presente non è più solidale col passato e polarizzato al futuro, come nella tradizione ebraico-cristiana, e non ancora parte di un tutto divino e immortale in cui affogare dolcemente individualità e dolore, è divenuto uno spazio evanescente ed inospitale. Notiamo, comunque che la postmodernità non tende a tornare al tempo circolare, quanto a scompaginarne la linearità, orientandosi verso un eterno presente, atemporale e vacuo, ansioso di novità non essenziali. Ovvi sono i riflessi di questo cambiamento nel campo della riflessione dell’azione etica.
277
Citato da QUINZIO, La croce e il nulla, p. 49.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ
L’etica della provenienza Per Vattimo, la crisi dell’etica consiste nel discredito in cui è caduto il ragionamento di principio che si legittima in relazione a fondamenti universali. E’ la dissoluzione dei principi a costituire il principio fondante dell’etica postmoderna: «La metafisica non ci lascia completamente orfani: la sua dissoluzione (se si vuole, la morte di Dio di cui parlava Nietzsche) si mostra come un processo dotato di una propria logica a cui si possono attingere anche elementi per una ricostruzione. (Sto parlando di ciò che Nietzsche chiamava nichilismo: che non è solo il nichilismo della dissoluzione di tutti i principi e valori, ma è anche, come nichilismo “attivo”, la chance di iniziare una storia diversa).»278
Heidegger ha definito la nostra epoca come quella della fine della metafisica «che tuttavia non vuole davvero finire», Nietzsche l’ha definita come quella della morte di Dio, di cui però molti non sanno nulla e che richiederà secoli per realizzarsi pienamente. Resta quindi una traccia di metafisica, una sottile vena d’universalità. Occorre che la provenienza da ambiti specifici (razziali, familiari, di classe, culturali) su cui basare il proprio agire etico, non chiuda ogni spazio alla problematicità di tale provenienza. Occorre costruire l’etica attorno alla finitezza: un’etica della finitezza cerca di restare fedele alla provenienza senza dimenticare però le implicazioni pluralistiche di questa scoperta. L’ascolto dell’eredità/provenienza non conduce dunque soltanto alla svalutazione dei valori, ma anche alla ripresa e prosecuzione di determinati contenuti ereditari.
278
VATTIMO, G. Etica della provenienza. Micromega - Almanacco di Filosofia, 1997, p. 75.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Ad esempio, il rispetto dell’altro non deriva più dal riconoscimento della grandezza e della fondatezza della vita umana, ma dal riconoscimento della finitezza che lo caratterizza. Per Vattimo, la violenza è proprio legittimata da fondamenti ultimi, dalle ideologie forti, dall’appellarsi a verità assolute.
L’etica come realtà biologica Eugenio Scalfari,279 di fronte alla sterilità del dialogo tra credenti e non credenti sui fondamenti dell’etica, si è espresso originalmente affermando la sua diffidenza verso tutti gli assoluti. La sua tesi è che la morale ha un fondamento biologico.280 Esso consisterebbe nell’istinto radicato nell’individuo per garantire la sopravvivenza della specie, simmetrico a quello di conservazione volto a garantire la sopravvivenza dell’individuo. Religione e ragione interverrebbero soltanto dopo a delimitare, ciascuno coi propri argomenti, lo spazio dell’autodistruttività individuale e della distruzione della specie. Scrive Scalfari: «Il sentimento morale non ha la sua sede nella ragione, non ci arriva dal cielo inviato da chissà chi, non c’è bisogno di riferirlo ad un Dio come non è necessario un diavolo per spiegare l’amore di sé. Si tratta in entrambi i casi di un istinto, istinto potentissimo che è quello di sopravvivere.»281
279
Eugenio Scalfari, giornalista e scrittore di lunga esperienza, è uno degli intellettuali laici di maggior peso in Italia. Partecipa con passione anche alla vita politica dalle posizioni della sinistra liberale. 280 Questa tesi trova una rigorosa argomentazione in SCALFARI, E. Alla ricerca della morale perduta. Milano: Rizzoli, 1995. 281 SCALFARI, Alla ricerca della morale perduta, p. 90.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Questa natura biologica dell’etica non deve suggerire una sua svalutazione; Scalfari è molto eloquente quando parla dell’Altro, indicando la dimensione sociale e fraterna dell’umanità. Commentando la posizione di Scalfari, Vattimo osserva che se la morale è un istinto non dovrebbe necessitare di essere comandata; Galimberti afferma che tale giustificata obiezione può sciogliersi con una precisazione terminologica, «Scalfari parla di istinti, ma farebbe meglio a parlare di pulsioni».282 Anche Alberoni sostiene sostanzialmente la stessa tesi: «Gli uomini credono di seguire i propri principi morali, mentre ubbidiscono soltanto alle esigenze dei propri geni».283
L’universalità etica Il fatto oggettivo che le nozioni di bene e male siano diverse da un luogo ad un altro e da un’epoca ad un’altra, è stato sentito nella modernità come un pericolo ed un’assurdità. In un quadro razionale, infatti, la verità è una per definizione,284 sono le credenze errate ad essere innumerevoli; lo stesso dovrebbe valere per i precetti ed i comportamenti morali. 282
GALIMBERTI, Orme del sacro, p. 266. Per Freud l’istinto è da riservare all’animale, perché presiede un comportamento determinato, mentre la pulsione è una generica spinta che rende il comportamento non meccanicamente determinato. 283 ALBERONI, F. Valori. Milano: Rizzoli, 1993, p. 9. 284 A riguardo della concezione della verità in una società secolarizzata, Lohse scrive: «In una società laica deve essere posta la questione della verità, senza dubbio non sotto forma d’affermazione categorica che non lascerebbe alcuno spazio alla libertà altrui, ma sotto forma d’affermazione che impegna radicalmente colui che la enuncia e che, per questo, richiede il dialogo con gli altri… la verità non ci appartiene, dal momento che ci precede.» (LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento, p. 82-83). Come abbiamo già indicato, secondo noi, i cristiani possiedono frammenti di verità e devono protendersi verso l’infinita verità di Dio; interessante ci pare l’immagine della verità come orizzonte; essa non equivale alla somma dei frammen-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nell’idea positivista di progresso il tempo assunse il significato di una gerarchia, nel senso che successivo equivaleva a migliore, ed ingiusto a sorpassato. Questa attitudine evoluzionista permeò il periodo del recente colonialismo europeo originando un rapporto conflittuale tra le varie culture: ciò che era disapprovato era legato al passato, veniva percepito come non evoluto; quello che non si adeguava ai canoni culturali dell’occidente era considerato come una reliquia di un mondo arcaico, destinato all’estinzione. Diderot (1713-1784) definiva l’uomo moderno postèromane, innamorato della posterità; perché egli sarebbe sempre in costante cammino verso la posterità. Scrive l’etnologo Jean Servier: «Il progresso è concepito come un’immensa marea il cui flusso ineluttabile lascia indietro vestigia commoventi... Tutto in questa ipotesi viene a confermare l’ingenua speranza dell’uomo bianco. Il negro è un “grande bambino”, ricordo dei balbettii dell’umanità; il rosso è anch’egli un bimbo avido di ‘acqua di fuoco’, di cianfrusaglie e di lunghe carabine; il giallo è un vecchio addormentato dall’oppio, perduto nei sogni del passato.»285
Il fatto che fossero riconosciute come morali soltanto le regole che parevano rispondere a qualche principio universale, maggioritario, atemporale, aterritoriale, comportava il ripudio di una visione comunitaria, attenta alle specificità e garante della diversità. La promozione di criteri universali è parsa, a posteriori, come un soffocamento della natura umana, una manifestazione d’intolleranza.
ti di verità presenti nelle diverse esperienze, ma è una sorta di asintoto che valorizza tali frammenti senza rendersi organica a qualcuno di essi. 285 SERVIER, J. L’uomo e l’invisibile. Milano: Rusconi Ed., 1973, p. 82-83.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ A sostituire la prospettiva dell’universalità sono intervenute, nella contemporaneità, quelle di globalizzazione e di comunità.
La globalizzazione Nell’epoca in cui la frammentarietà sembra essere imprescindibile, il mondo diventa sempre più unito e interdipendente: quindi occorre far convivere molteplicità ed interconnessione. L’idea di globalizzazione deriva proprio dalla constatazione che i problemi, soprattutto economici, si estendono sinergicamente su scala mondiale e richiedono delle risposte globali.286 In modo più specifico, il termine globalizzazione è usato per indicare l’espansione su scala mondiale dei meccanismi di libero scambio tipici delle società capitaliste; è stata resa possibile dalla fine del mondo bipolare e dalla caduta del comunismo.287 286
Scrive Moltmann che «la globalizzazione, presa alla lettera, non è che un concetto di quantità: ciò che si considera particolare deve diventare universale, il locale deve farsi globale». (MOLTMANN, su GIBELLINI e altri, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p. 46. 287 Più in particolare, col termine globalizzazione si intende la standardizzazione di tutti i mercati mondiali rispetto ad un modello unico dominante, in cui è possibile la libera circolazione di capitali finanziari, commerciali e produttivi che si rendono in un certo modo indipendenti dai singoli governi politici. La globalizzazione, imprimendo un dinamismo senza precedenti al sistema economico, non ha però fatto diminuire le differenze fra le varie parti del mondo, ma ha accentuato la funzione di predominio di un modello standard, quello capitalistico occidentale. I dibattiti riguardo il suo effetto sui paesi in via di sviluppo sono infatti molto accesi: secondo i fautori della globalizzazione, questa rappresenterebbe la soluzione alla povertà del terzo mondo. Secondo gli attivisti del movimento no-global invece essa non farebbe altro che impoverire maggiormente i paesi poveri, in favore delle multinazionali. I dati forniti dalle scienze sociali indicano però che la globalizzazione non ha reso nel complesso i paesi più poveri, ma nemmeno ha grande influenza nella riduzione della povertà. Hanno, a questo titolo, effetto decisamente maggiore le riforme e migliorie strutturali interne, quali sviluppo della rete infrastrutturale, il perseguimento della
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Per i suoi sostenitori essa è portatrice di maggiore ricchezza alle nazioni industrializzate e di sviluppo a quelle arretrate. Per i detrattori, al contrario, la globalizzazione porta eccessivi profitti per le grandi aziende e sfruttamento per i poveri.288 Scrive Schreiter: «...lo scopo della globalizzazione, economicamente e culturalmente, è la replicazione di se stessa… L’antropologia implicita era che l’essere umano era al servizio della globalizzazione come produttore e consumatore; gli esseri umani dovevano alimentare il motore della mostruosa macchina della globalizzazione.»289
stabilità politica, le riforme del sistema agrario e miglioramento dell'assistenza sociale. Infine il termine globalizzazione è utilizzato anche in ambito culturale ed indica genericamente il fatto che nell'epoca contemporanea ci si trova spesso a rapportarsi con le altre culture, sia a livello individuale a causa di migrazioni stabili, sia nazionale nei rapporti tra gli stati. Spesso ci si riferisce anche all'elevata e crescente mobilità delle persone con una permanenza limitata temporalmente (turisti, uomini di affari, ecc...). Tra i maggiori teorici della globalizzazione furono, negli anni ’80, gli economisti della Scuola di Chicago, seguaci di M. Friedman; la loro ricetta economica consiste in tagli alle tasse ed alla spesa pubblica e nella liberalizzazione dei commerci. Consigliamo gli allievi la lettura dei seguenti testi: GIDDENS, A. Il mondo che cambia. Bologna: Il Mulino, 2000, e BAUMAN, Z. Dentro la globalizzazione, Le conseguenze sulle persone. Bari: Laterza, 1999. 288 In occasione della prima conferenza ministeriale della Wto (Organizzazione mondiale del commercio), nel 1999, migliaia di manifestanti invasero Seattle, da lì nasce il cosiddetto popolo di Seattle, un movimento variegato, composto da ambientalisti, anarchici, autonomi, movimenti di estrema sinistra, uniti contro la globalizzazione. Il popolo di Seattle combatte anche: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, i vertici dei grandi, le multinazionali, i colossi bancari. I principali obiettivi dei contestatori sono: la remissione del debito per i paesi poveri, la tassazione delle operazioni finanziarie, lo sviluppo sostenibile e la salvaguardia ambientale. 289 SCHREITER, su GIBELLINI, Prospettive teologiche per il XXI secolo, p. 374.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Küng sottolinea che «una globalizzazione dell’economia senza una globalizzazione dell’éthos è un affare pericoloso»,290 nel senso che se i fatti economici hanno effetti molto lontani rispetto a dove avvengono o paiono avvenire, allora occorre che anche l’etica consideri nuove dimensioni ed approcci tali da sensibilizzare le persone un quadro più ampio rispetto alla prossimità tradizionale.291
Crisi dello Stato L’attuale ritiro dello Stato dalla legislazione morale (più precisamente, l’abbandono della tendenza verso una legislazione onnipresente ed onnicomprensiva)292 lascia spazio alla gestione comunitaria; gli Stati riconoscono sempre più i diritti di categorie più piccole della nazione alla specificità morale ed all’autodeterminazione, lasciando che a queste si giunga indipendentemente dal loro intervento. 290
KÜNG, Perché un’etica mondiale?, p. 38. Questa è anche la posizione, almeno ufficiale, di Giovanni Paolo II che ha dichiarato: «L’umanità nell’intraprendere il processo di globalizzazione non può più fare a meno di un codice etico comune. Con ciò non s’intende un unico sistema socio-economico dominante o un’unica cultura che imporrebbe i propri valori e criteri all’etica. E’ nell’uomo in sé, nell’umanità universale… che bisogna cercare le norme di vita sociale.» Da L’Osservatore romano, 28 aprile 2001, p. 5. 291 Facciamo un esempio semplice e pratico. Gli USA hanno interessi economici in ogni parte del mondo, e molte economie, e con esse la vita di milioni di persone, dipendono dalle decisioni della classe dirigente statunitense. Ecco che una legge che può avere una giustificazione etica negli USA, potrebbe avere ricadute distruttive nelle nazioni economicamente dipendenti da essi. 292 Scrive Bauman: «Si notano, da una parte, un diminuito interesse delle autorità statali a propagare un unico, esclusivo e onnicomprensivo modello di ordine, nonché una crescente indifferenza verso la presenza contemporanea di modelli tra loro contrastanti e insofferenti di compromessi; dall’altra parte, appare sempre più chiaro che “la spinta alle soluzioni definitive”, una volta così caratteristica dello spirito moderno, sfiorisce e si spegne…» (BAUMAN, Z. Il disagio della postmodernità, Milano: Mondatori, 2002, p. 13).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Si ha quindi un fenomeno di delegiferazione, ma anche di valorizzazione di comunità, enti, istituzioni più particolari e limitate ma che si ritiene possano meglio perseguire fini specifici. Occorre però considerare che tracciare i confini delle comunità in modo non ambiguo è più difficile che tracciare quelli degli Stati: nelle comunità, ad esempio, non esiste un’autorità giudiziaria analoga a quelle statali. L’ampliamento della tutela dei diritti umani è, da un lato, l’effetto della rinuncia dello Stato alle sue antiche ambizioni di regolamentazione estesa e capillare della vita individuale, dall’altro sono divenuti un’arma di ricatto nelle mani di leader comunitari desiderosi di assumere i poteri cui lo Stato ha rinunciato. Comunque, la morale statale e quella comunitaria hanno in comune la negazione, almeno parziale, della discrezione morale individuale. Entrambe cercano di sostituire il dovere etico eteronomo alla responsabilità morale autonoma sulla base del principio che «l’interesse di tutti deve prevalere su quello di ognuno». Inoltre, si può affermare che l’ostilità nei confronti di una morale spontanea, autonoma ed individuale è, nelle comunità, molto più intensa e combattiva di quanto lo sia in uno Stato ben protetto, sicuro, radicato; la comunità vive sempre, magari inconsciamente, un sentimento di precarietà endemica e tale insicurezza è sovente fonte d’intolleranza. Questo avviene anche nei gruppi religiosi, soprattutto quelli minoritaria e privi di tradizione e radicamento sociale, quindi meno secolarizzati.
Il soggetto morale Secondo una radicalizzazione dell’etica postmoderna, in una relazione morale tutti i doveri e le regole concepibili hanno soltanto me
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ come destinatario e vincolano soltanto me; soltanto quando io ne sono il destinatario, allora la responsabilità è veramente morale. Scrive Bauman: «“Sono pronto a morire per l’Altro” è un’affermazione morale. “Lui dovrebbe essere pronto a morire per me” palesemente non lo è... La disponibilità al sacrificio per il bene dell’altro mi investe di una responsabilità che è morale precisamente perché accetto che il comando di compiere un sacrificio sia diretto a me e a me soltanto... Essere una persona morale significa che io sono il custode di mio fratello… sia che mio fratello abbia o no la consapevolezza dei suoi doveri fraterni così come l’ho io.»293
Ne consegue che, in una cultura in cui la morale supera l’universalità tipica della modernità, il singolo soggetto morale rimane solo di fronte alla sua coscienza; la responsabilità morale esiste solo in quanto richiesta ed assunta dall’individuo singolo. In una concezione postmoderna la morale è dunque ciò che resiste alla codificazione, alla formalizzazione, alla socializzazione ed all’universalizzazione. Scrive Bauman che «la morale è quello che resta quando il compito dell’etica è stato svolto».294 Nella modernità, invece, l’etica doveva avere uno scopo ad esempio: una sorta d’assicurazione contro i rischi futuri; agire bene per assicurarsi amici, reciprocità, vantaggi; la sopravvivenza di qualcosa di più grande: il gruppo, la patria, la chiesa, la famiglia... Il rendere questo immortale rende tali anche noi stessi. In questa prospettiva la morale è sacrificio per altro che è parte di me.
293 294
BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 57. BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 60.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE In tali casi, la morale avrebbe una posizione razionale: la preservazione di sé, individuale e/o collettiva. Gli atti morali sarebbero, dunque, dei mezzi per raggiungere un fine,295 ma la sensibilità attuale tende a mettere in dubbio che una vera morale si debba aspettare doverose contropartite stabilite da un quadro normativo o deontologico: si contesta, cioè, che l’agire per avere un vantaggio sia etico. La sensibilità postmoderna sostiene invece che la morale sia intrinsecamente non ligia a regole impersonali ma fa appello alla responsabilità ed alla sensibilità individuali.296 La morale inizierebbe invece dove le regole finiscono lasciando la persona morale essenzialmente sola, pure se inserita pienamente nella socialità. Sostiene Bauman che «noi non siamo morali grazie alla società (siamo solo etici o rispettosi della legge grazie ad essa); viviamo in società, siamo la società, in virtù del proprio essere morali. Al cuore della socialità c’è la solitudine della persona morale».297 Durante l’età moderna, i filosofi, i religiosi ed i governanti hanno mostrato una profonda diffidenza nei confronti dell’io morale, esso pare troppo sfuggente alle regole e ai quadri metafisici; gli esseri umani sono stati considerati troppo egoisti e bisognosi quindi di coercizione per perseguire gli interessi della maggioranza e della società.298 295
Ha affermato il filosofo utilitarista Mill: «Considero l’utilità come l’ultimo appello in tutte le questioni morali: ma deve essere, l’utilità, intesa nel senso più ampio, fondata su interessi permanenti dell’uomo come essere progressivo». 296 Bauman afferma, relativamente all’etica del dovere: «C’è un abisso incolmabile tra il dovere verso il più forte –qualcuno abbastanza intraprendente da comandare, premiare e punire– e il dovere verso il più debole, che non è capace di nessuna di queste cose». (BAUMAN; TESTER, op. cit., p. 59). 297 BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 67. 298 Per la scuola di Bentham, uno dei principali ideatori dell’etica moderna, le inten-
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ La Legge era il fondamento essenziale dell’etica moderna in quanto il soggetto morale autonomo era considerato inaffidabile: i fondamenti erano concepiti sulla base di un’autorità giuridica strutturata sulla ragione. Le argomentazioni etiche s’ispiravano sul disconoscimento kantiano del carattere morale delle emozioni e dei sentimenti: solo la ragione e le decisioni da essa conseguenti identificano la persona morale.299 Nella modernità si era strutturata una concezione deontologica della morale, secondo cui, per sapere se un atto sia o no morale, non occorre preoccuparsi di scoprire se le conseguenze di quell’atto fossero state buone, ma sarebbe stato sufficiente controllare se esso fosse stato compiuto in accordo alle regole prescritte. L’accento era posto dunque più sulle procedure che sull’argomento morale. Oggi, tale quadro non regge più.
Etica ed ontologia Commentando il dialogo biblico tra Dio e Caino, Lévinas scrive: «Non bisogna prendere la risposta di Caino come se deridesse Dio o rispondesse infantilmente: “non sono io, è l’altro”. La risposta di Caino è sincera. In essa manca solo l’etica, vi è solamente ontologia: io sono io e lui è lui. Noi siamo esseri ontologicamente separati.»300 zioni e gli atti morali potevano essere soltanto il frutto di un’ingegneria sociale guidata da filosofi e governanti che doveva convincere il popolo che la sua ricerca della felicità avrebbe trovato risposta solo nell’adeguarsi alle leggi. 299 La stessa virtù era, per Kant, la capacità di controllare le proprie inclinazioni emotive in nome della ragione. Questa doveva essere priva di emotività e la morale era collocata interamente nell’ambito razionale. 300 LÉVINAS, E. «Le moi et la totalité». Revue de Métaphysique et de Morale, 59,
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Caino afferma una verità, lui non è suo fratello, sono due realtà ontologicamente differenti, ma gli manca l’etica, la coscienza del dovere di «essere il guardiano del fratello». Sul piano ontologico ciascuno è separato da tutti gli altri; ontologicamente, al massimo, si è con l’altro, assieme ma separati: l’altro è il luogo in cui abita colui che non sono io. Occorre allora che sia la Legge a regolare la relazione: questa è la funzione tradizionale dell’etica; ma, osserva Lévinas, l’ontologia è un territorio senza morale: i fatti da essa affermati, infatti, non sono né buoni né cattivi, costituiscono soltanto la realtà. Chiunque prenda ispirazione dall’ontologia non agirebbe in base ad una morale fondante. Un esempio concreto riguarda l’approccio verso gli stranieri: essi sono estranei, altri, diversi e non entrano oggettivamente, ontologicamente nella nostra prossimità etica; vivano dunque come vogliono, dove vogliono, ma senza incontrare il nostro cammino; questo è un approccio ontologico, ma non morale. Guardando l’Altro in una prospettiva morale sentiamo, prima di coglierne la diversità ontologica, un impegno misterioso e pressante ad esserne responsabili; se l’Altro soffre e m’interpella, se sono morale, prima l’aiuto, poi redigo le regole della nostra relazione. Nella presente sensibilità, il fondamento della morale sta in un’incertezza insuperabile; si riconosce la morale proprio dal suo senso tormentoso d’incompiutezza, dal suo costante essere scontenta di sé: l’io morale è tormentato dal sospetto di non essere abbastanza morale.301 1954, p. 353-373, citato da BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 70. 301 Il confronto con una etica eteronoma, fondata sulle norme, permette alla ragione che può quantificare lo scarto e programmare un rimedio, di sollevare l’individuo dall’angoscia della propria finitezza e dal senso di colpa che questa provoca. Il passaggio dall’autonomia all’eteronomia è portatore di consolazione emotiva, il processo contrario appesantisce il soggetto e lo colloca nella solitudine, privandolo del
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Nessuna legge, per quanto generosa ed umana, può esaurire il dovere morale; le convenzioni sociali, espresse in norme o abitudini forniscono direttive relativamente precise rispetto a ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare; generalmente ci si conforma a tali direttive senza curarsi troppo dell’altro e della sua complessità. Molto spesso la coscienza è tranquillizzata dal ricordare che lo fanno tutti o dal si fa così. Le richieste dell’Altro, invece, sono sovente inespresse, tacite, forse vaghe, ma non, per questo, meno forti o esprimono bisogni meno forti.
L’etica a due: l’amore L’etica presente nell’amore tra un uomo e una donna presenta peculiarità specifiche e una complessità ulteriore dovute al carattere particolare di tale relazione che si radica nel mistero dell’attrazione sessuale. L’amore si fonda, oltre che sulla solidarietà, anche sull’alterità; l’amore non annulla tale alterità, attraverso una fusione tra i due (che provocherebbe l’annullamento di un partner…), ma semmai l’esalta: «… l’alterità e la dualità non spariscono in una relazione amorosa. L’idea di un amore che sarebbe una confusione tra due esseri è una falsa idea romantica. Il patetico della relazione erotica è costituito dal fatto di essere due e che l’altro vi è assolutamente altro.»302 In termini più psicologici si può dire che l’amore vive nella tensione tra il riconoscimento dell’alterità dell’altro e la volontà di solidarietà: il primo distanzia, la seconda rende intimi.
conforto di una struttura organica di prescrizioni. 302 LÉVINAS, Éthique et infini, p. 58.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE La passione dell’amore erotico consiste proprio nel fatto che si fonda in una dualità insormontabile dei due: l’altro di conseguenza non è un oggetto che diviene nostro o noi, ma una persona che va e viene dal suo mistero unico in una relazione dinamica e mai garantita.303 In particolare, è il femminile che esiste nel nascondersi e nel pudore. Secondo Buber, lo spazio dell’amore si apre nell’incontro immediato tra l’IO e il TU e si distingue dal puro sentimento:304 «I sentimenti sono posseduti, l’amore fluisce. I sentimenti dimorano nell’uomo; ma l’uomo dimora nel suo amore… L’amore è responsabilità di un io per un tu.»305 Scrive Franca Long: «La prima parola che si intreccia con sessualità è relazione. Relazione con se stessi, con il proprio corpo…; ma soprattutto relazione con l’altro, con l’altra… L’amore autentico non è solo un buon sentimento: è un cammino di avvicinamento…»306 La sensibilità postmoderna ha coniato espressioni lessicalmente evocative di forti realtà emozionali; ci piace ricordare l’utilizzo del termine storia come descrittivo di una relazione sentimentale: non si
303
Scrive Bauman: «Il desiderio sessuale… si protende verso un altro essere umano; esige la presenza di un altro essere umano e si sforza di riforgiare tale presenza in un’unione». (BAUMAN, Amore liquido, p. 53). 304 Quando, in ambiente cristiano ed avventista in particolare, si afferma che l’amore «non è un sentimento, ma un principio», si esprime un enunciato realista e vero che, però, va colto nella sua complessità. Complessità che ritroviamo nell’affermazione di Buber, che non trasforma l’amore erotico in una sorta di dovere/contratto, ma lo inserisce in una storia che rende i due mutuamente responsabili. 305 BUBER, citato da BANSE, Una vita in dialogo: a colloquio con Martin Buber, p. 17-18. 306 LONG, F. Protestanti e sessualità. Torino: Claudiana, 1998, p. 9.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ dice, infatti, più siamo fidanzati, ma abbiamo una storia o stiamo vivendo una storia. Lévinas ha parlato dell’amore come di una particolare etica della prossimità definendola come l’attitudine «che dimentica la reciprocità, come un amore che non si aspetta la parità». Il rabbino francese Marc-Alain Ouaknin sostiene che l’etica postmoderna «è un’etica della carezza», termine già usato da Lévinas; il riferimento è alla mano che accarezza con la caratteristica di rimanere aperta, di non stringere, di non afferrare mai; essa sfiora senza premere, si sposta seguendo la forma del corpo accarezzato, adattandosi ad esso. In tale etica, l’amore erotico, cui l’idea della carezza fa riferimento, fornisce la cornice in cui si colloca questo essere per qualcuno, cioè la sua specifica condizione morale.307 Scrive ancora Lévinas: «Ciò che è accarezzato non è semplicemente toccato. La carezza non ricerca la vellutatezza o la tiepidezza nel contatto con una certa mano. E’ questa ricerca della carezza che ne costituisce l’essenza, per il fatto che la carezza non sa quello che cerca. Questo non sapere, questo disordine fondamentale ne è l’essenziale… La carezza è l’attesa di questo avvenire puro senza contenuto.»308
La carezza appare come un gioco con qualcosa che si sottrae, non rivela un progetto, ma piuttosto un continuo accostarsi a qual-
307
Blanchot ha indicato come, in una relazione morale, l’Altro sia attenzione e l’attenzione a sua volta sia attesa: «L’attenzione è l’attesa: non lo sforzo, la tensione o la mobilitazione del sapere attorno a qualcosa di cui ci si preoccupi. L’attenzione aspetta. Aspetta senza fretta, lasciando vuoto ciò che è vuoto ed evitando che la nostra fretta, il nostro desiderio impaziente, e ancora di più il nostro orrore del vuoto, lo colmino anzi tempo.» (BLANCHOT, M. L’infinito intrattenimento. Torino: Einaudi, 1977, p. 162). 308 LÉVINAS, Éthique et infini, p. 61.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE cosa che non potrà mai essere pienamente nostro, un qualcosa d’altro, sempre inaccessibile, sempre da venire. Significa, dunque, un avvicinarsi continuamente e gratuitamente all’avvenire, ad un contenuto sfuggente: questo è il «carattere patetico dell’amore» che si nutre di un mistero che spera di penetrare.309 Concetto analogo è quello di tenerezza: «La tenerezza rifiuta sia il narcisismo (che riduce a sé l’alterità) sia la violenza (che distrugge il sé dell’alterità); essa dà senso umano al desiderio e orienta all’incontro con l’altro/a, come dono, distanza, trascendenza… La sessualità appartiene infatti all’essere relazionale della persona; come tale, essa manifesta un’insopprimibile richiamo all’altro da sé e, in ultima analisi, all’Infinito».310
L’amore, però, presenta dell’ambivalenza: esso vive nel tentativo di superarla, sapendo che il successo di tale operazione porterebbe al suo fallimento. L’amore, per la sua ambivalenza, è l’incarnazione dell’insicurezza; per far fronte a questa precarietà si mettono in atto due atteggiamenti differenti: la stabilizzazione e la fluttuazione. La stabilizzazione mira a sostituire una struttura di regole e abitudini all’amore considerato troppo inaffidabile ed emotivamente costoso per fondare una relazione sicura e duratura. Hanno scritto Francesco Alberoni e Salvatore Veca: «Noi non possiamo obbligarci ad amare qualcuno... La nostra ragione, invece, è capace di concepire, come necessario, il dovere. Se manca la spontaneità dello slancio d’amore, la morale resta an309
Altro termine analogo è tenerezza: «è il modo della vicinanza, l’interesse sottinteso per il corpo, l’intelligenza, la vita del proprio compagno, della compagna con cui condividi le ore o i mesi o gli anni. C’è seduzione nella tenerezza, c’è ricordo, c’è complicità. La tenerezza è leggera: non soffoca, non è invasiva. Non annoia, perché non è costante…» (LONG, Protestanti e sessualità, p. 12). 310 ROCCHETTA, C. Teologia della tenerezza. Bologna: EDB, 2000, p. 51-52.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ cora possibile, perché c’è il dovere. Il dovere subentra, per così dire, al vuoto lasciato dall’amore... Poiché non posso contare sull’amore, che è un sentimento spontaneo, prenderò il suo equivalente volontario, ciò che ha le stesse conseguenze pratiche. La morale ci impone di agire come se amassimo. Il dovere è un “come se” dell’amore.»311
Il dovere così sostituisce l’amore, l’abitudine prende il posto dell’avventura. L’amore vero è tensione, il dovere tende a diminuire lo sforzo o, comunque, a rendere sopportabile la spiacevolezza inserendola nella routine; in tale prospettiva il dovere significa la morte dell’amore. Senza stabilizzazione, l’amore rimane insicuro, inappagato, inquieto, ed è proprio questo a renderlo amore vero; per essere amore ha dovuto identificare nella stabilizzazione il suo fine ideale, e quindi considerare il desiderio e l’eccitazione come segni di imperfezione. Ma più l’amore si avvicina all’ideale e meno sopravvive nella sua tensione e bellezza iniziale: l’ideale dunque dell’amore è la sua morte e ciò costituisce la sua ambivalenza.312 Scrive Bauman: «L’amore punta sempre all’irrevocabilità, ma nel momento del trionfo subisce la sua sconfitta definitiva. L’amore si sforza costantemente di eliminare la proprie fonti di precarietà e apprensione, ma qualora ci riesca inizia rapidamente ad avvizzire, e svanisce… Fusione o sopraffazione appaiono le uniche cure per il tormento che ne consegue. E non c’è che un tenue confine, fin troppo facile 311
ALBERONI, F.; VECA, S. L’altruismo e la morale. Milano: Garzanti, 1992, p. 63. Ci pare che l’ambivalenza tipica dell’amore, esista anche nel dominio della fede religiosa: il suo fine ideale la porta a possedere la persona o i valori che la giustificano, ma nel momento in cui avverrà l’incontro tra individuo che attende e l’oggetto dell’attesa non ci sarà più bisogno della fede e della speranza. Quando alla tensione precaria, ma creativa, della fede si sostituisce un mondo di segni visibili o i meccanismi della ragione, la fede tende a divienire superflua.
312
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE da dimenticare, tra una morbida e gentile carezza e una morsa d’acciaio inesorabile. Eros non può essere fedele a se stesso senza dispensare l’una, ma non può farlo senza rischiare di infliggere l’altra. Eros tende una mano verso l’altra, ma la stessa mano che accarezza può anche stringere e stritolare… Finché dura, l’amore è in bilico sull’orlo della sconfitta.»313
La fluttuazione consiste nel mutare l’oggetto del sentimento amoroso, quando la relazione diviene dolorosa. L’esperienza postmoderna dell’intimità amorosa deriva la propria identità dall’eliminazione di quasi ogni riferimento ai doveri etici. Particolarmente significativa appare l’attuale tendenza alla convivenza delle coppie senza un patto matrimoniale: Bauman la ritiene un esempio tipico di quello che definisce amore liquido, da cui il titolo di un suo libro già citato. Tale autore scrive, riguardo alla convivenza: «I suoi intenti sono modesti… Chiedi di meno, ti accontenti di meno, e quindi l’ipoteca da pagare è minore e anche la sua durata atterrisce di meno… La convivenza è a causa di, non al fine di… Convivere può significare condividere la barca, il desco e le cuccette. Può significare navigare insieme e condividere le gioie e le fatiche del viaggio. Ma non comporta il passaggio da una sponda all’altra.»314
Il collettivo morale Il tema morale cambia la sua prospettiva quando si pone il problema del Terzo, cioè della società, che è una realtà regolata dalla giustizia e dalla legge; l’Altro è prossimo, il Terzo è distante.
313 314
BAUMAN, Amore liquido, p. 12-13. BAUMAN, Amore liquido, p. 42-43.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Quando l’obiettivo sociale diviene prioritario,315 i tentativi di compiere scelte individuali o di eliminare le identità assegnate sono percepiti come pericolosi e, quindi, marginalizzati o criminalizzati: la buona condotta è definita come una categoria imposta o indotta dall’esterno. L’eteronomia è considerata, infatti, il principio supremo del controllo sociale; l’intera organizzazione sociale, nella modernità, era vista come il tentativo di neutralizzare gli effetti di disgregazione e deregolamentazione causati dagli impulsi morali individuali. La prospettiva postmoderna è diversa: essa sostiene che l’organizzazione rende l’azione sociale moralmente indifferente, misurabile soltanto in base a criteri tecnici. L’organizzazione sarebbe, infatti, un meccanismo atto a sospendere e minimizzare la responsabilità; il risultato è che tale responsabilità non appare di nessuno in quanto il contributo dei singoli al risultato finale è troppo esiguo per essere significativo.316 Bauman pone in contrapposizione la socializzazione con «la socialità istantanea della folla» caratterizzata da fragilità e fugacità;317 secondo tale autore, «né la ragione… né la passione che ribolle in quell’essere-insieme che è la folla, aiutano l’io a essere morale: l’una e l’altra, nel bene e nel male, aiutano soltanto l’io a sopravvivere nel vasto, strano mondo in cui la morale non ha dimora».318 Una contrapposizione per certi versi analoga alla precedente, è quella, tipica di Durkheim, tra sacro e profano, dove il primo è struttura, il secondo è antistruttura. 315
La socializzazione è un processo che consiste nell’assegnare un’identità a ciascuno dei membri di una collettività. 316 E’ questa una situazione che la Arendt ha definito come «governo di Nessuno». 317 Scrive Bauman: «Mentre la socializzazione sostituisce la responsabilità morale con l’obbligo di obbedire a norme procedurali, nella folla la questione della responsabilità non si pone mai...». (BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 136). 318 BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 137.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE L’età moderna si distingueva per l’attacco del profano al sacro, come una rivincita della ragione sulla passione, della norma sulla spontaneità, della laicità sulla religione, ma, in realtà, si trattava di sostituire ad un sacro religioso un sacro sociale: nasceva la religione dello Stato, della Legge, della Politica, della Società.319 Al contrario, uno dei presupposti dell’epoca postmoderna è che lo Stato non ha più né la capacità, né il bisogno, né la volontà di esercitare una leadership spirituale e morale. Lo Stato è sempre più debole ideologicamente e concretamente: esso non si interessa più ai sentimenti dei cittadini, almeno finché questi non interferiscono con un livello minimo di ordine.
Gli spazi sociali La categoria di spazio sociale è mutata nel tempo; scrive Bauman: «...non deve meravigliare se la leggibilità dello spazio, la sua trasparenza, è diventata uno degli aspetti centrali nella battaglia dello Stato moderno per la conquista della propria sovranità… L’obiettivo… era di subordinare lo spazio sociale a una, ed una sola, mappa ufficialmente approvata e patrocinata dallo Stato.»320
Occorre distinguere tra il concetto di spazio fisico e quello di spazio sociale, ricercandone la relazione. 319
Scrive l’autore citato: «... la volontà generale divenne una religione laica... I miti avevano come obiettivo quello di unificare nuovamente il mondo e di restaurare, nella nazione ridotta in frantumi, un nuovo senso di comunione... Il nazionalismo, che all’inizio coincise con il romanticismo, fece dei simboli l’essenza del suo stile politico.» MOSSE, G. L. La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania. Bologna: Il Mulino, 1975, p. 26. Questo autore mette in rilievo il carattere di religioni sostitutive tipiche del comunismo, del fascismo, del nazismo e di altre ideologie assolute, carattere ben evidente nelle liturgie che tanta parte avevano nella gestione delle masse in quei regimi. 320 BAUMAN, Dentro la globalizzazione, p. 36-37.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ E’ necessario, inoltre, definire il concetto di altro e le relazioni con lui. Riferirsi agli altri significa parlare di ciò che sappiamo di loro; ognuno si costruisce il mondo degli altri attingendo alla memoria consolidata, selezionata ed elaborata di passati incontri, scambi, sodalizi, conflitti. In una modalità istintiva, gli altri non costituiscono una materia di riflessione, né di preoccupazione: sono esattamente dove noi sappiamo che sono e ciò che sappiamo che sono, non veniamo da essi mai sorpresi, né turbati; soltanto quando si comportano stranamente fanno riflettere e passano in una diversa modalità, fuori portata. La conoscenza scaturisce, di conseguenza, da un punto di rottura, da un’interruzione del consueto, da un’incomprensione; gli oggetti allora divengono realmente visibili grazie alla distanza tra essi e chi guarda e conosce: la conoscenza è, dunque, la gestione di tale distanza.
Gli stranieri Più si allontanano dall’intimità, più gli altri esseri umani divengono stranieri carichi di ambiguità.321 321
Così Bauman descrive la situazione storica degli ebrei: «… esseri ambigui, che inviano segnali ambigui, sono gruppi esigui destinati a essere tenuti separati, che hanno bisogno di tale separazione per conservare la chiarezza delle regole comportamentali. Gli esseri ambigui sono mostri… non possono essere trattati nel modo in cui sono trattati gli altri esseri, quelli normali… all’interno della cristianità, gli ebrei erano mostri di questo tipo: varcarono il sacrosanto confine tra cattolici e pagani, implicandone così l’arbitrarietà. Gli ebrei riuscirono a essere contemporaneamente entrambe le cose: fratelli maggiori del Cristianesimo che divennero pagani per scelta, ripudiando la missione divina di Cristo… Come tutti gli altri mostri, suscitarono reazioni tanto ambivalenti quanto loro stessi erano ambigui. Erano le creature più abiette e detestabili, ma allo stesso tempo erano i detentori di poteri straordinari anche se oscuri.» (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 86). Osserva
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Scrive Bauman: «L’estraneità degli stranieri significa esattamente la nostra sensazione di smarrimento, il non sapere che cosa fare e che cosa aspettarci, e la conseguente non disponibilità ad impegnarci. Evitare il contatto è la sola salvezza, ma anche evitarlo completamente, se ciò fosse possibile, non ci salverebbe da un certo grado di ansia e di disagio provocati da una situazione che presenta sempre il pericolo di passi falsi ed errori gravidi di conseguenze.»322
Per gran parte della storia umana, la prossimità fisica e quella sociale sono, in larga misura, coincise: il mondo si divideva in due parti, quella del prossimo e quella degli estranei. Un estraneo poteva entrare nella prossimità fisica soltanto in una delle seguenti tre vesti: come nemico, da combattere ed espellere;323 come ospite, da confinare nei ghetti; come possibile prossimo,
acutamente la Parise: «L’antisemitismo moderno… irrompe quando gli ebrei… cominciano a entrare in società, scegliendo la strada dell’assimilazione. In risposta a questa scelta si sviluppa un nuovo antisemitismo per il quale gli ebrei sono non assimilabili in virtù di particolari caratteristiche naturali. E’ l’essere ebreo in quanto tale a destare sospetti. E’ un elemento estraneo che, introdotto nel corpo sociale, non può che disgregarlo. La pericolosità dell’ebreo coincide con il fatto criminale della sua esistenza non prevista. L’antisemitismo moderno si sviluppa come paradossale sintesi negativa di assimilazione e sradicamento: si è colpevoli quando la propria esistenza è incompatibile con l’ordine che altri vogliono edificare. La prova della propria colpevolezza è nell’essere superflui, inassimilabili, destinati, pertanto, ad essere sradicati.» (PARISE, La politica dopo Auschwitz, p. 23-24). 322 BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 154. 323 Lévi-Strauss ha sostenuto che le società primitive affrontano gli stranieri pericolosi con una strategia diversa da quella che oggi consideriamo normale e civile: la loro è una strategia antropofagica, essi consumano avidamente ed assimilano biologicamente certi stranieri potenti nella speranza di assorbire la loro forza; la nostra sarebbe invece una strategia antropoemetica: noi li allontaniamo o li segreghiamo. Vedere LÉVI-STRAUSS, C. Tristi tropici. Milano: Il saggiatore, 1960, p. 38.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ in tal caso egli doveva comportarsi da prossimo per poter sperare di divenirlo poi. Per millenni lo spazio sociale si fermava al confine, dall’altra parte si estendeva un deserto incolto, un vuoto semantico, una regione selvaggia abitata da corpi senza una sensibilità empaticamente avvicinabile: gli stranieri non erano percepiti come uomini, ma come creature demoniche. In rapporto all’attitudine odierna nei confronti degli stranieri, Buber ha coniato l’espressione non-incontro (o «vedere senza guardare»); per vivere con gli stranieri occorre imparare l’arte del nonincontrarsi, essa relega l’altro sullo sfondo, al margine.324 Questo è ciò che si fa nella folla: essa non appare normalmente come insieme di individui, ma come un aggregato eterogeneo, informe, in cui l’individualità si dissolve. La grande città è in realtà un luogo di non-incontro; lo stesso suo spazio fisico è organizzato in modo tale che gli incontri non attivamente cercati possano essere facilmente evitati. L’organizzazione dello spazio urbano, infatti, tende spesso ad isolare classi, gruppi etnici, generazioni, sulla base di una sorta di implicito accordo generale. Nell’edificazione dello spazio sociale come processo essenzialmente cognitivo, i sentimenti sono soppressi o strumentalizzati. Gli oggetti della costruzione dello spazio cognitivo sono gli altri con i quali viviamo; quelli relativi allo spazio morale sono gli altri per i quali viviamo che restano sempre unici ed insostituibili. Autore di una significativa riflessione etica sulla condizione di straniero è Lévinas: «Lo Straniero è proprio quello lì, che ci si para davanti col suo volto di un altro colore, con i suoi odori, con le sue 324
Lévinas ha scritto che l’Occidente «è affetto da un orrore verso l’Altro che rimane Altro, da un’inguaribile allergia…». Cit. da DI SANTE, C., su RONCHI, E. (ed.). Lo straniero: nemico, ospite, profeta? Milano: Ed. Paoline, 2006, p. 74.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE patacche, con i suoi costumi e la sua lingua strani, che ci suonano a volte sgradevoli, e che ci chiede di essere amato nella sua irriducibile differenza».325
Tecnologia ed etica La tecnologia, portatrice fino a pochi decenni fa di grandi speranze, pare essere divenuta un sistema chiuso, senza via d’uscita. Già secondo Jacques Ellul (1912-1994), essa si autogiustificava al di là dei risultati che si ottengono o si otterranno dal suo uso: «La tecnologia non avanza mai in direzione di qualcosa se non perché viene spinta da dietro. I tecnici non conoscono il motivo per cui lavorano, e generalmente non se ne preoccupano. Essi lavorano perché dispongono degli strumenti che consentono loro di eseguire un certo compito, di condurre a termine con successo una nuova operazione... Non c’è alcuna aspirazione a uno scopo; c’è la spinta di un motore collocato alle proprie spalle e che non ammette alcuna sosta delle macchine... Dato che possiamo sbarcare sulla luna, che cosa potremo fare lì e a quale scopo?... Quando i tecnici hanno raggiunto un certo livello di competenza nel settore delle comunicazioni, dell’energia, dei materiali, dell’elettronica, della cibernetica, ecc., tutti questi elementi si sono combinati e hanno mostrato che avremmo potuto esplorare il cosmo ecc. Ciò è stato fatto perché poteva essere fatto. E questo è tutto.»326
Auguste Comte, capostipite del positivismo, definì tale progresso: «Sapere per prevedere, prevedere per potere»; il potere è dunque
325
Citato da art. «Cortesie europee…colloquio con Emmanuel Lévinas», su L’Unità, 3 maggio 1989. 326 ELLUL, J. «The Power of Technique and the Ethics of Non-Power», su The Myths of Information: Technology and Postindustrial Culture. London: Routledge, 1980, p. 272-273, 280; cit. da BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 192.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ l’obiettivo ultimo, definitivo, che non ha bisogno di giustificarsi facendo riferimento a qualcosa d’altro. La mèta della modernità era quella di accrescere la propria capacità di fare qualsiasi cosa l’uomo poteva desiderare di fare, una sorta di sovranità dei mezzi sui fini. Scrive George Bernanos: «Le macchine non si sono moltiplicate secondo i bisogni dell’uomo ma secondo i bisogni delle speculazioni: questo è il punto essenziale. Non si può confondere una onesta agenzia matrimoniale con un’organizzazione di prostituzione. La scienza ha fornito le macchine, la speculazione le ha prostituite, e ne chiede sempre di più alla scienza per i bisogni di un appalto che vuole estendere a tutta la terra… Se la macchina fosse restata un mezzo e non un fine non avrebbe sconvolto la vita umana, non avrebbe confiscato quasi tutta l’energia umana, e avrebbe facilitato e resa più bella la vita, senza usurpare nulla alle altre arti, perché sarebbe diventata essa stessa un’arte. Ma, ripeto, la speculazione universale ha subito visto nelle macchine lo strumento della propria potenza… La civiltà delle macchine, nei suoi inizi fa pensare piuttosto a una specie di gang. Essa si è organizzata per sfruttare sistematicamente tutto il mondo e poi lo ha organizzato a poco a poco a propria immagine.»327
Scrive Bauman: «“Ecco la macchina, viaggiate”. La meta non è importante; importante è avere la macchina. Ciò che conta è trovarsi in una posizione tale da considerare tutti i luoghi come possibili mete, nient’altro.»328 I mezzi devono dunque eccedere i fini; è tale eccedenza ad infondere alla modernità quel suo senso di libertà senza precedenti; in tali condizioni, il diritto di stabilire gli obiettivi può essere liberamente 327
BERNANOS, G. Lo spirito europeo e il mondo delle macchine. Milano: Rusconi, 1972, p. 54-55. 328 BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 193.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE ceduto alla capacità del momento di far succedere le cose: se qualcosa può essere fatto, non deve esistere niente e nessuno che abbia il diritto di proibire che ciò avvenga. Come ogni altra cosa, gli uomini moderni sono oggetti tecnologici; essi sono stati analizzati e scomposti in frammenti e poi rimessi insieme in modi nuovi; questa continua operazione scompagina l’interezza dell’uomo, che non è colto nella sua integralità. Ellul parla di un totalitarismo operativo che agisce sull’uomo sottraendogli spazi di libertà; la tecnologia significa frammentazione della vita in un susseguirsi di problemi, dell’io in una serie di aspetti, ciascuno dei quali richiede tecniche ed ambiti diversi. Una volta compiuta l’opera di frammentazione, restano solo svariati bisogni, ciascuno dei quali verrà tenuto sotto controllo mediante la richiesta di beni e servizi specifici. L’io morale è la vittima più evidente ed importante della tecnologia: esso non può sopravvivere alla frammentazione; esso, con il suo non curarsi del calcolo razionale, il suo disdegnare gli usi pratici e la sua indifferenza al piacere diviene un estraneo. Buber afferma: «...la nostra epoca ha visto così l’anima umana rimanere come paralizzata, e mancarle le forze successivamente in tre campi. Il primo è stato quello della tecnica. Inventata per servire all’uomo che lavora, è finita per asservirlo. Le macchine non sono più, come l’utensile, un prolungamento del braccio umano: l’uomo è diventato un prolungamento di quelle, un’articolazione meccanica periferica che apporta e porta via.»329
L’etica postmoderna è fortemente critica sul ruolo della tecnica nella società attuale e sui rischi dell’asservimento delle persone ai mezzi che essa pone loro a disposizione. 329
BUBER, M. Il problema dell’uomo. Torino-Leumann: Edizioni Elledici, 1983, p.
72.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ
L’idea di progresso morale La razionalità moderna permette di capire il senso di una sequenza di eventi, presentando la successione temporale come uno sviluppo da stati inferiori a superiori, come una catena in cui ogni legame è un mezzo necessario per quello che segue ed in cui le situazioni più recenti rivelano retrospettivamente il significato di quelle che le hanno precedute. Il rapporto spazio/tempo, evocato dalla memoria moderna, è lineare e verticale: in esso, prima significa più basso ed inferiore, inferiore significa antiquato. In tale processo esiste una variabile fondamentale: il potere, infatti la superiorità viene verificata nella vittoria. La storia del progresso è raccontata dai vincitori, la sconfitta è condannata e le ragioni dei vinti sovente cancellate anche formalmente; si deve venire sconfitti per poter essere accusati di immoralità e perché tale accusa permanga. Certamente occorre riconoscere che spesso le vittime non sono eticamente superiori a coloro che le sacrificano; ciò che le fa sembrare migliori è che hanno minori possibilità di commettere atrocità. Emil Cioran (1911-1995) ha affermato che «i grandi persecutori sono reclutati fra i martiri non completamente decapitati» e che «la società è un inferno popolato di salvatori».330 L’età moderna è anche storia di genocidi e pare proprio che la consapevolezza dei drammi di ieri non siano sufficienti ad evitare quelli futuri. Le crisi di coscienza seguite ai conflitti moderni hanno dato grande impulso alla guerra tecnologica col risultato che ora le persone possono essere uccise prima di avere la possibilità di reagire e ad 330
La guerra del Vietnam è molto significativa al riguardo: c’è da chiedersi se, a risultato inverso sul campo, la guerra sporca avrebbe sconvolto allo stesso modo la coscienza del popolo americano.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE una distanza da cui chi uccide non vede le vittime: le macchine, gli schermi, i sofisticati calcoli balistici rendono sempre più la guerra un mestiere ed una forma di ingegneria preservando le coscienze, che si trovano separate dal dramma mediante una zona tecnologica di nessuno. Autori come Bauman stabiliscono un collegamento stretto fra l’Olocausto e la modernità;331 altri, come Serge Latouche,332 interpretano addirittura ogni progetto occidentale verso l’esterno come genocida.
331
Afferma Bauman: «La modernità richiede anche di rendere il mondo pulito, trasparente, prevedibile e dunque ordinato. Ordinare significa rendere la realtà diversa da quella che è, sbarazzarsi delle componenti responsabili delle impurità, dell’opacità e della contingenza della condizione umana… Una volta accettata l’idea per cui la società felice è una società delle razze pulite, la decisione di deportare o mettere nelle camere a gas gli ebrei e gli zingari costituisce un modo razionale di procedere… L’Olocausto fu pertanto un prodotto legittimo della modernità. Dopotutto, comportò l’uso della migliore tecnologia possibile per ripulire il mondo dagli elementi che ostacolavano la perfezione… La grandiosità della visione e il potere degli strumenti che a essa si associano sono totalmente moderni e sono impensabili senza la modernità.» (BAUMAN; TESTER, Società, etica, politica, p. 108). Scrive Stefani ricordando il pensiero di Dossetti: «… Auschwitz non va considerato un semplice episodio isolato, sia pure tremendo, ma un vero e proprio punto di svolta, un’era nuova “in cui il progresso tecnologico, la pianificazione politica, gli odierni sistemi burocratici e l’assoluta scomparsa di vincoli morali tradizionali, si sono combinati per rendere la distruzione umana di massa una possibilità sempre presente”.» (STEFANI, P. L’antigiudaismo. Storia di un’idea. Bari: Laterza, 2004, p. 225). 332 Serge Latouche (n. 1940), economista e filosofo francese, è tra gli avversari più noti dell'occidentalizzazione del pianeta ed un sostenitore della decrescita conviviale e del localismo. Conosciuto per i suoi lavori di antropologia economica, Latouche ha sviluppato una teoria critica nei confronti dell'ortodossia economica. Critica, attraverso argomentazioni teoriche solide e con un approccio empirico, il concetto di sviluppo e le nozioni di razionalità ed efficacia economica. Nemico del consumismo e della razionalità strumentale, Latouche è un intellettuale paradossalmente apprezzato, in Italia, sia dalla destra radicale, sia dalla sinistra antagonista.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Da diverse parti, dunque, il fenomeno nazista è visto come lo sfocio di tutta una cultura, di tutta una civiltà; non un’assurda esplosione isolata, ma l’epilogo di un processo di disgregamento.
Tra libertà ed integralismo settario Il postmoderno, definito come il «dissolversi dell’obbligatorio nel facoltativo», presenta due aspetti essenziali e contrapposti: 1. da un lato, il rischio dell’esplosione della furia settaria dell’autoaffermazione neotribale, il ritorno della violenza come strumento principale del ristabilimento dell’ordine, la ricerca febbrile di verità circoscritte, il riaffacciarsi di nuovi integralismi; 2. dall’altro, la possibilità di scegliere fra alternative diverse: ogni scelta va bene, purché sia una scelta, ogni ordine è buono, purché non escluda gli altri. Scrive Bauman: «La tolleranza dei retori si nutre dell’intolleranza delle tribù. L’intolleranza delle tribù trae vigore dalla tolleranza dei retori.»333 Alla base di tale attitudine esistono delle comprensibili ragioni: un tempo le guide della collettività erano ansiose di giudicare, di limitare l’espressione dei sentimenti, di circoscrivere gli stati d’animo delle folle; in nome della ragione, di un miglior ordine e di una felicità futuri si sono perpetrati enormi crimini. L’avventura della modernità è significativamente, e parzialmente, fallita, creando un diffuso disincanto, ma la benvenuta tolleranza postmoderna ha generato una diversa forma d’intolleranza. La statalizzazione moderna dello spazio sociale ha prodotto una massiccia oppressione, ma la sua privatizzazione postmoderna produce un’oppressione diversa e su scala ridotta, ma onnipresente e 333
BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 242. Vedere anche: BAUMAN, Z. La società dell’incertezza. Bologna: Il Mulino, 1999.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE multiforme: la coercizione cioè non è più monopolio statale, ma non significa che sia minore. Le grandi certezze si sono dissolte, scomponendosi in una molteplicità di piccole e deboli certezze cui si resta tenacemente aggrappati.
Metafore postmoderne di Bauman Bauman presenta delle immagini molto coinvolgenti sulla condizione dell’uomo contemporaneo che riassumeremo di seguito.334 L’odierna situazione umana è spesso paragonata a quella dei nomadi, ma tale metafora però non regge ad un esame più approfondito. Diversamente dagli stanziali, i nomadi si spostano, ma ciò avviene all’interno di un territorio ben strutturato, in cui ogni luogo riveste un significato stabile nel tempo. Diversamente dai pellegrini, essi non hanno una mèta finale che determini in anticipo il loro itinerario, né un luogo privilegiato rispetto a cui tutte le altre località attraversate sono solo tappe. Tuttavia, i nomadi si spostano da un posto all’altro secondo un piano preciso; seguono l’ordine delle cose, vi si adattano, non creano quell’ordine quando vi entrano e non lo distruggono quando ne escono. I vagabondi o girovaghi costituiscono un’immagine più appropriata alla situazione degli uomini della postmodernità; scrive Lyon: «Se la modernità ha prodotto quelli che Peter Berger chiama menti senza fossa dimora, allora la postmodernità può produrre dei cuori senza fissa dimora»335
334 335
Cfr. BAUMAN, Le sfide dell’etica, p. 244 ss. LYON, Gesù a Disneyland, p. 77.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Il vagabondo non sa quanto tempo rimarrà dov’è e, spesso, non sarà lui a decidere quando dovrà andarsene. Una volta nuovamente in cammino, egli stabilisce la sua mèta strada facendo, leggendo i cartelli stradali, ma neppure allora può sapere con certezza se si fermerà, e per quanto, nel luogo in cui è diretto; quello che sa è che, probabilmente, la sosta sarà temporanea. Ciò che lo spinge a spostarsi è la disillusione subita nell’ultima sosta e la speranza che il prossimo luogo, o quello che ancora seguirà, possano essere privi dei difetti che lo hanno respinto dai luoghi già visitati; egli è attratto da una speranza dubbia e respinto da una speranza frustrata. Il vagabondo è un pellegrino senza mèta, un nomade senza itinerario; egli attraversa uno spazio non strutturato, come colui che viaggia nel deserto e conosce solo le piste segnate dalle sue stesse impronte, spazzate via dal vento nell’attimo stesso in cui passa; il vagabondo struttura lo spazio che gli capita di occupare nel momento in cui lo occupa, solo per distruggere di nuovo quella struttura nel momento in cui se ne va. In questa costruzione dello spazio, ogni processo è locale, temporaneo ed episodico. C’è un’altra metafora adatta alla vita postmoderna: quella del turista: «Chiedete ai vagabondi che vita vorrebbero vivere, se potessero scegliere liberamente, e otterrete una descrizione piuttosto accurata della felicità del turista come “lo si vede in televisione”… I vagabondi non hanno altra immagine della buona vita.»336 Come il vagabondo, anche il turista sa che non rimarrà a lungo dove è arrivato e sa che dispone soltanto del tempo della sua vita per seguire un percorso, nient’altro può ordinare le sue mete in una successione temporale; per lui lo spazio però è flessibile, può deci336
BAUMAN, Dentro la globalizzazione, p. 104.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE dere a propria discrezione le sue mète, le sue soste, le sue partenze. E’ la sensibilità estetica del turista a possedere una libertà quasi totale di costruire lo spazio del suo mondo. Il genere di libertà del vagabondo è ben diverso, egli fugge dal disagio e dall’estraneità e può solo sognare; i turisti invece pagano per la loro libertà: il diritto di ignorare i sentimenti ed i diritti dei nativi lo pagano con una transazione commerciale. Come il vagabondo, anche il turista è extraterritoriale, ma vive tale extraterritorialità come un privilegio, come indipendenza, come diritto di essere libero di scegliere, come autorizzazione a ristrutturare il mondo. Quella che per i nativi è routine quotidiana, per lui può divenire un insieme di emozioni esotiche; tutta una tradizione attende docilmente che il turista ne sia attratto, vi presti attenzione, ne tragga piacere. Un’altra caratteristica unisce le vite del vagabondo e del turista: entrambi attraversano spazi in cui vivono altre persone, investite della responsabilità di costruirli, ma i risultati delle loro fatiche non influiscono su di loro. Tra le due parti abbiamo soltanto dei non-incontri: la formula valida per le vite del vagabondo e del turista in relazione alla realtà è «fisicamente vicini, spiritualmente remoti». Sta proprio qui il fascino di tali situazioni: dalla garanzia, che per il turista è assoluta, che la vicinanza fisica non si trasformerà in prossimità morale; le vite del vagabondo e del turista sono dispensate dal comportare l’ingombrante, paralizzante, angosciante fardello della responsabilità morale: per loro non esiste colpa per ciò che avviene in prossimità perché nulla possono.
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ Nessun altro come il turista si dissolve nel numero in modo così palese e totale, nessuno è a tal punto interscambiabile e spersonalizzato.337 Nel mondo postmoderno,338 il vagabondo e il turista non sono più persone o situazioni marginali: essi sono divenuti stampi su cui foggiare la quotidianità e la totalità della vita e modelli in base ai quali valutare ogni pratica. Essi sono glorificati dagli operatori economici339 e dai media, valgono come criteri di felicità e di successo: la vita felice è immaginata 337
La responsabilità morale svanisce, infatti, quando tutti lo fanno, il che significa che tutti possono farlo. 338 Ricordiamo anche l’immagine del pellegrino, una metafora antica e un po’ logora, appartenente ad un mondo in cui la fede religiosa aveva un peso prioritario. Dipinge l’uomo che viaggia verso la mèta ultima dove Dio l’attende; deve restare sulla via, non distrarsi, si ferma solo per nutrirsi affinché il viaggio possa essere ripreso con maggiore impegno. Ciò che accade di lato, al di là del fossato che separa la strada dal mondo circostante, non lo interessa, anzi è motivo per scappare ancora più in fretta da una realtà inospitale, che non è la sua. Il senso dell’andare del pellegrino sta soltanto nella mèta ultima, che certamente è là in fondo. Forte parla di homo viator la cui condizione è la solitudine del pellegrino: «Non esiterei a definire la condizione umana come condizione esodale… che cos’è l’ex-sistere se non lo stare fuori, l’uscire dall’appartenenza e dunque l’essere gettati nella solitudine dell’avventura?... L’intervallo tra questo duplice grido. Il grido della nascita e il grido dell’agonia, il grido dell’inizio e il grido che precede l’ultimo silenzio, questo intervallo è la vita.» (FORTE, B.; QUINZIO, S. Solitudine dell’uomo, solitudine di Dio. Brescia: Morcelliana, 2003, p. 24-25). 339 Gli operatori economici, i reali modelli nella contemporaneità, vivono sempre più anch’essi tale situazione di extraterritorialità; Bauman riporta il ricordo emblematico che Agnes Heller ha di una donna di mezza età, impiegata in un’impresa commerciale internazionale che parlava cinque lingue ed era proprietaria di tre appartamenti in luoghi diversi del mondo: «Viaggia sempre, si muove tra luoghi diversi, avanti e indietro. Lo fa da sola, non come appartenente a una comunità, anche se molti altri lo fanno come lei… Il tipo di cultura cui partecipa non è la cultura di un luogo dato; è la cultura di un tempo. E’ la cultura dell’assoluto presente… Abita negli stessi Hilton, mangia lo stesso sandwich al tonno a colazione o, se vuole, cibo cinese a Pa-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE come una vacanza continua, idealmente si dovrebbe essere turisti ovunque e sempre. Il cittadino ideale è un acquirente appagato; la società esiste perché gli individui cerchino e trovino soddisfazione ai loro bisogni individuali. Lo spazio sociale è principalmente un terreno da saccheggiare, lo spazio estetico è il luogo del gioco; la vita diviene sempre più il luogo del turismo. Jacques Attali ha dedicato al rapporto tra nomadismo e sedentarietà un interessante saggio;340 egli utilizza il termine nomade in diversamente, in modo originale; afferma tra l’altro: «… la vera novità è che un numero sempre crescente di persone, per un motivo o per l’altro, vive una vita nomade. Ci sono, ad esempio, i nuovi nomadi ricchi… che, per piacere o per lavoro, viaggiano dappertutto sul pianeta bardati di cellulari, carte di credito e computer portatili. All’estremo opposto, due o tre miliardi di persone si muovono di continuo per sopravvivere… Tra questi due estremi, c’è poi una vasta categoria di persone che, sebbene siano ancora sedentarie, vivono tutte le forme del nomadismo virtuale attraverso la televisione, i videogiochi, le nuove tecnologie. Senza dimenticare, inoltre, che la mondializzazione spinge verso nuove forme di nomadismo economico: tutto si muove, il lavoro come il capitale…»341
rigi e francese a Hong Kong. Usa lo stesso tipo di fax, telefono, computer, guarda gli stessi film, discute gli stessi tipi di problemi con lo stesso genere di persone.» (BAUMAN, Dentro la globalizzazione, p. 101). 340 ATTALI, J. L’homme nomade. Paris: Ed. Fayard, 2004. 341 Intervista a Jacques ATTALI, FABIO, P. «Il futuro è dei nomadi», su La Repubblica, 13 febbraio 2004, p. 41. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/02/13/il-futuro-deinomadi.html> [4 febbraio 2009].
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LA MORALE NELLA MODERNITÀ E NELLA POSTMODERNITÀ
Etica universalista e particolarista Il dibattito etico contemporaneo è caratterizzato dunque da due tendenze opposte: quella universalista e quella particolarista. La prima è generata dal fatto che i problemi si estendono ormai su scala planetaria e richiedono soluzioni globali. La seconda dal diffuso venir meno della pretesa all’universalità di norme e valori; scrive Rohls: «Dall’affermazione del carattere particolare dei sistemi di valori alla rinuncia all’idea dell’unità del mondo, dell’umanità e della storia il passo è breve. Si arriva così a sostenere la tesi secondo cui il mondo è diviso in culture, l’umanità in popoli e la storia in storie, e che perciò non esistono norme e valori universali. Basandosi sul presupposto della pluralità delle norme, ogni tentativo di dichiarare universali determinate norme o determinati valori è etichettato come etnocentrico... Tuttavia, dietro il congedo giocoso dai valori universali si nasconde un valore che a sua volta è presentato come universale, cioè quello dell’individualità. Gli altri sistemi di valori e le altre forme sociali devono essere riconosciuti in base al valore superiore dell’autorealizzazione individuale... Considerando la libertà dell’individuo il bene supremo e universale, si pone tuttavia un problema: è pensabile una convivenza fra individui liberi che non degeneri in concorrenza e in conflitto?»342
La prospettiva postmoderna pare offrire, forse, una maggiore saggezza, ma la concreta realtà postmoderna rende più difficile agire in base a tale saggezza. Questo è il motivo per cui l’epoca postmoderna è vissuta come un tempo di crisi. La coscienza postmoderna vive nella consapevolezza del fatto che vi sono problemi privi di buone soluzioni, percorsi tortuosi che non sono raddrizzabili, ambivalenze che non sono semplici errori 342
ROHLS, Storia dell’etica, p. 543.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE linguistici correggibili, dubbi che non possono essere risolti astrattamente, angosce morali che nessuna ricetta dettata dalla ragione può lenire o eliminare. La sensibilità postmoderna è anche cosciente che ogni soluzione reca, accanto ai vantaggi, anche un danno; essa accetta l’idea che il caos della condizione umana sia inevitabile. I problemi paiono gestibili soltanto localmente e separatamente tra loro. In questa fase della storia, dunque, le questioni morali appaiono sostanzialmente non risolvibili, né la vita morale dell’umanità può essere garantita dalla ragione; la ragione non può aiutare l’io morale senza privare l’io di ciò che lo rende veramente morale: l’impulso non razionale, non spiegabile, non giustificato, a protendersi verso l’Altro e ad assumersi la responsabilità per Lui. La sensibilità postmoderna ha questo carattere, e con essa il credente deve fare i conti anche per la ragione che, malgrado convinzioni diverse, nessuna ideologia, anche religiosa, può impedire che il clima del tempo influisca sul proprio stile di vita e sulle proprie percezioni morali.343 Tanto più come credenti, occorre essere consapevoli della unicità di questo tempo e dell’influenza che i suoi caratteri esercitano sul cammino della fede, siamo d’accordo con Forte quando afferma: «Non esiterei a definire la condizione umana come condizione esodale».344
343
Proprio per questo riteniamo errato, e talvolta irresponsabile, che il gruppo dirigente della Chiesa avventista sottostimi il fenomeno che abbiamo osservato, cercando di gestire questo delicato passaggio nell’Occidente con un approccio ancora universalistico e con continui richiami ad aspetti identitari spesso anacronistici, e che, rinforzando lo specifico a spese dei valori cristiani generali ed utilizzando il letteralismo biblico, spinge verso un rischioso integralismo. 344 FORTE; QUINZIO, Solitudine dell’uomo, solitudine di Dio, p. 23.
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ345 Abbiamo già fatto cenno più volte allo sconvolgimento di valori che l’Olocausto e la riflessione che tale evento ha apportato in campo etico-religioso.346 Scrive Eugenio Lecaldano: «Credere che l’universo in cui abitiamo è creato da Dio, che lo guida provvidenzialmente, porta a considerare come inestricabile il problema concernente l’origine del male… Dal punto di vista che considera prioritarie le esigenze dell’etica, infatti, non è comprensibile né degno di approvazione un Dio che, avendone il potere, permette tutto questo.»347
Ovviamente una determinata percezione di un’etica divina condiziona i rapporti morali tra gli uomini; è, infatti, difficile, che dei credenti sinceri raggiungano standard morali superiori a quelli che attribuiscono alla divinità che li ispira.
345
Per questo tema consigliamo la lettura della chiara esposizione di LIMENTANI, E. «Quale etica dopo Auschwitz?», su Chiara DI MARCO, Percorsi dell’etica contemporanea. Ad essa abbiamo ampiamente attinto. 346 Ha scritto, nella sua autobiografia, Wiesel: «Un giorno, a Brooklyn, ho chiesto al celebre Rabbi Menahem-Mendel Schneerson di Lubavitc: “come si può credere in Dio dopo Auschwitz?”. E lui di rimando: “Dopo Auschwitz, come si può non credere in Dio?” Di primo acchito, l’osservazione mi è parsa fondata; poiché tutto il resto è venuto meno: civiltà, cultura, educazione, amore per l’uomo, come non rivolgersi al cielo? E poi mi sono ripreso: “Se le sue parole costituiscono una domanda, l’accetto di buon grado; se pretendono di essere una risposta, la rifiuto…” Auschwitz non è concepibile né con Dio né senza Dio.» (WIESEL, E. Tutti i fiumi vanno al mare. Milano: Bompiani, 1996, p. 102). Secondo Lévinas, appare addirittura folle, dopo Auschwitz, attribuire a Dio la pienezza dell’essere. 347 LECALDANO, E. Un’etica senza Dio. Roma-Bari: Laterza, 2006, p. 19.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Riteniamo utile offrire un breve quadro riassuntivo di tale problematica. Premettiamo che una riflessione ampia sulla tragedia è iniziata solo dagli anni ’60, e con notevoli ritrosie e difficoltà: infatti, i colpevoli negavano, mentre le vittime temevano di non essere credute ed erano spesso animate dal senso di colpa per essere sopravissute; inoltre i tanti che avevano voluto ignorare tale dramma non avevano interesse che si svelasse la loro colpevole indifferenza. Rompere tale muro si silenzio fu un’impresa notevole della morale e del pensiero umano; scrive Massimo Giuliani che «una escursione nelle interpretazioni ebraiche della Shoà non è un viaggio intellettuale in un iperuranio di idee, ma il tentativo di rendere ragione della identità ebraica sopravvissuta al più tragico evento della storia di questo popolo, e quindi interpretare Auschwitz porta, a ben vedere, ad interpretare l’identità e il ruolo storico del popolo ebraico dopo Auschwitz –nonostante Auschwitz e contro Auschwitz–.»348
Secondo Elio Limerani, «Auschwitz diviene, infatti, anche un paradigma permanente con cui tutti devono necessariamente confrontarsi… perché nessuna minoranza abbia mai a soffrire quello che hanno sofferto gli ebrei nei campi di concentramento o di sterminio, e la storia divenga realmente maestra di vita.»349
Purtroppo però «i pensatori cristiani non hanno approfondito, come invece meritava, questo tipo di esperienza, non attingendo di fatto a lei per quella necessaria e naturale trasformazione che nella teologia si attendeva».350
348
GIULIANI, «Auschwitz nel pensiero ebraico», p. 45. LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 288. 350 LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 289. 349
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ
Martin Buber Già abbiamo citato il grande pensatore ebreo, secondo cui Dio non va inteso come un ESSO o come un CIO’, ma come un TU, per cui l’incontro con Lui costituisce una continua partecipazione ed interpretazione. Se Dio si è eclissato dall’orizzonte dell’uomo moderno è proprio perché lo si è concepito come un oggetto: tra Lui e noi si è inserito il nostro ego ad impedire una relazione autentica. Buber pare ignorare il dramma di Auschwitz e le sue conseguenze etiche, proprio perché egli concepisce la relazione con Dio in quadro psicologico sereno e pacificante, mentre la tradizione ebraica la colloca in un patto, con precisi doveri etici. Senza lo scandalo morale di Auschwitz, «gli ebrei continuano la loro storia, ed i loro punti di riferimento non perdono di significato… nonostante Egli tardi a venire, l’eclissi non può durare per sempre»,351 aggiunge Buber che «L’eclissi della luce di Dio non è l’estinguersi, già domani infatti quello che si è frapposto potrebbe ritirarsi».352
La sofferenza degli innocenti Il tema definito come sofferenza degli innocenti considera che ciò che sconvolge un’etica religiosa retributiva non è tanto la sofferenza in genere, considerata in certa misura come fisiologica, ma quella dei giusti e degli innocenti. La teologia ebraica non considera Dio come motore immobile, ma come il Dio passionale che viene ed agisce: ogni volta che Lui si manifesta, l’alleanza si rinnova e la fede diviene un motivo di rifugio e protezione dalle minacce della storia; 351 352
LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 291. BUBER, M. L’eclissi di Dio, Milano: Passigli, 2001, p. 56.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE «Auschwitz ha significato per l’ebreo proprio quel tragico, ed ennesimo, momento di frattura della storia, attraverso il quale rimettere in discussione la posizione di Dio, nonché la fedeltà in Dio stesso. La Shoah ha rappresentato, infatti, per alcuni, la rottura totale con Dio; mentre per altri una sorta di nuova alleanza.»353
Alcuni pensatori ebrei hanno, comunque, tentato di applicare l’idea della giustizia retributiva anche all’Olocausto: con esso, Israele non soltanto avrebbe scontato i suoi peccati, ma avrebbe costituito anche una sorta di agnello sacrificale per i peccati del mondo intero. Ricordiamo, come principale sostenitore di questa posizione del sacrificio vicario,354 il rabbino austriaco Ignaz Maybaum col suo scritto Il volto di Dio dopo Auschwitz (1965).355
353
LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 289. A commento di tale posizione, scrive Giuliani che «condotto come agnello al macello, il popolo ebraico massacrato nelle camere a gas fu ad un tempo l’agnello sacrificale e il sommo sacerdote che compì il sacrificio, a vantaggio dell’umanità». (GIULIANI, «Auschwitz nel pensiero ebraico», p. 64). 355 Ignaz Maybaum (1897-1976), fuggito a Londra nel 1938 dopo l’invasione nazista dell’Austria, delineò le sue teorie nel volume The Face of God after Auschwitz (1965). Questa e simili letture sacrificali dello sterminio furono aspramente criticate. Per quanto riguarda Maybaum, gli aspetti che trovarono maggiore avversione furono, da un lato, il suo ingenuo ed ottimistico progressismo e, dall'altro, la presunta ispirazione cristiana dell'idea di un sacrificio vicario ed espiatorio, che quel rabbino definiva il Golgota dell'età moderna. Sull'attribuzione di un carattere sacrificale alla Shoah il dibattito ferve ormai da qualche decennio e segna un punto essenziale della recente riflessione sul martirio e sulle sue prospettive religiose. Scrive di lui Limentani: «l’autore ha cercato qui di conciliare due tendenze: il salvataggio dell’identità della fede, attraverso l’inserimento di questa prospettiva nella categoria della continuità storica, e quello della sofferenza del suo popolo, cui egli ha assistito e cui ha partecipato con profonda commozione». (LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 293). 354
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ
La posizione di Richard L. Rubenstein Rubenstein356 incarna la corrente di pensiero con un approccio ermeneutico meno tradizionale e letterale alla Bibbia; egli introduce il pensiero giudaico nella problematica aperta dalla teologia protestante americana detta della morte di Dio. Rubenstein si focalizza sul tema dell’assenza di Dio e sul ruolo della religione nel mondo contemporaneo: «… come possono gli ebrei credere in un Dio onnipotente e benevolo dopo Auschwitz? La tradizione teologica ebraica ritiene che Dio sia il supremo protagonista della storia. Essa ha interpretato tutte le grandi catastrofi della storia di Israele come punizione divina per il peccato del suo popolo. Ma io non vedo come una tale posizione possa essere mantenuta… l’agonia del giudaismo non può essere paragonata alla prova di Giobbe… tutto questo non può essere un progetto di Dio. L’idea è semplicemente troppo oscena perché io possa darle il mio assenso.»357
Per Rubenstein, Auschwitz assurge a momento di rottura con la tradizione ebraica che considera Dio come supremo protagonista della storia: «dopo Auschwitz l’ebreo non diventa ateo, ma è solo uno dei tanti che rimane impossibilitato a credere, e che non vede più nell’intervento divino nella storia quel ruolo che in precedenza gli aveva attribuito: la questione di fondo sta, necessariamente, nel
356
Rubenstein è uno dei maggiori scrittori della comunità giudaica americana. Importante il suo apporto, appunto, alla teologia dell’Olocausto: a lui si deve il termine genocidio. Il suo primo libro, After Auschwitz, offrì un contributo notevolissimo al pensiero giudaico sul tema: egli affrontò il tema della morte di Dio e divenne un interlocutore privilegiato di teologi protestanti come Van Buren, Hamilton e Altizer. 357 RUBENSTEIN, R. L. Alleanza e fede, p. 46.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE fatto che egli, memore del passato, vorrebbe continuare a credere, ma, di fatto, non può».358
Alla teologia della morte di Dio, si contrappone il concetto dell’assenza divina, del Dio che è al di là della storia, tanto da essere definito come il Santo Nulla. Questa lacuna di presenza divina colloca l’uomo in un mondo assurdo e privo di fondamento.
L’esperienza di Hans Jonas Afferma Jonas: «Per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia e quindi “Auschwitz”, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato. Auschwitz rappresenta quindi per l’esperienza ebraica della storia una realtà assolutamente nuova e inedita, che non può essere compresa e pensata con le categorie teologiche tradizionali. Quindi che non intende rinunciare sic et simpliciter al concetto di Dio deve pensare questo concetto in modo del tutto nuovo e cercare una nuova risposta all’antico interrogativo di Giobbe. Ove decidesse di farlo, dovrebbe anche lasciar cadere l’antica concezione di Dio signore della storia: perciò, quale Dio ha permesso che ciò accadesse?»359
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LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 294. JONAS, H. Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Genova: Il Melangolo, 1993, prefazione. Scrive Arens che anche «la teologia politica si concepisce e si sviluppa adesso decisamente al cospetto di Auschwitz. Essa riconosce in questa catastrofe la fine di ogni discorso asoggettivo di Dio e di ogni riconciliazione idealistica… Dopo Auschwitz la teologia deve cominciare… dalla questione della teodicea come questione della salvezza degli ingiustamente sofferenti e contenere nello stesso tempo, di fronte all’orrore incomparabile di Auschwitz, una sofferenza a motivo di Dio.» 359
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ L'attualità de Il concetto di Dio dopo Auschwitz di Jonas non risiede tanto nell'analisi di ciò che è stato, quanto di ciò che si intende per male assoluto: un male portato alle estreme conseguenze da risultare quasi al di sopra di ciò che umanamente possa concepire. Auschwitz rappresenta l'incarnazione perfetta di quello che Giobbe subisce e il fallimento di quello che Giobbe ostenta fieramente e senza nessun momento di cedimento: la fede verso Dio, nonostante tutto: «Se da Dio si accetta il bene, il male non si deve accettare?» (Gb 2: 10). Dio guarda ad Auschwitz attraverso gli stessi occhi di chi, in quel luogo, ha incontrato la morte, impotente e addolorato, forse pentito dell'assoluta libertà concessa all'uomo. Jonas pensa ad un Dio sofferente che ha in sé l'onnipotenza, ma anche il dolore; la vita è nelle mani dell'uomo: Dio è nel mondo, ma il mondo è nelle mani dell'uomo. Dio, pur essendoci, non interviene, mostrando quanto l'uomo possa fare del male, un male spietato e privo di motivazioni valide, un male che ha come unico obiettivo quello di mettere alla prova l'umanità. Le parole di Satana rivolte a Dio affinché metta alla prova la fede di Giobbe trovano la giusta collocazione nella vicenda ebraica del nazismo. Jonas sottolinea un fatto importante: l’idea di un Dio totalmente nascosto è inammissibile per la fede ebraica. Secondo lui, dopo Auschwitz, possiamo e dobbiamo affermare con estrema decisione che una divinità onnipotente o è priva di bontà o è totalmente incomprensibile. Potenza e onnipotenza sono due diversi concetti, per Jonas il primo è attribuibile a Dio e non il secondo, in quanto il male c'è solo (ARENS, E., su GIBELLINI, R. Prospettive teologiche per il XXI secolo. Brescia: Queriniana, 2003, p. 78).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE in quanto Dio non è onnipotente; solo a questa condizione possiamo affermare che Dio è comprensibile e buono malgrado la presenza del male. Per Jonas la bontà divina non esclude l'esistenza del male; è come se Dio si fosse privato della sua assoluta onnipotenza, per permettere all'uomo di agire nella più completa libertà; questo, nonostante tutto, può essere considerato un atto d'amore. Scrive Limentani che «dal momento della creazione Egli non può più intervenire nel dinamismo evolutivo del mondo, avendo scelto la strada dell’autolimitazione, anziché quella del dominio e della sovranità».360 Il non intervento non dà la misura di un limite divino, casomai di una dolorosa incapacità nel ristabilire l'ordine del mondo attraverso l'esercizio di un miracolo. Dio è imperscrutabile, il mistero che lo caratterizza riduce, secondo Jonas, ogni teoria ad un misero balbettio dove solo la responsabilità umana può dare a Dio ciò che gli viene tolto attraverso il male da noi compiuto. Il silenzio del dolore è tutto ciò che ha risuonato ad Auschwitz. Dunque, Dio non intervenne, non perché non volle, ma perché non fu in condizione di farlo,361 siamo al superamento della teodicea classica. 360
LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 296. Scrive il nostro autore: «Tuttavia accanto a queste obiezioni di carattere logico e ontologico al concetto di una onnipotenza divina, assoluta e illimitata, vi è anche un'obiezione di carattere teologico e genuinamente religioso. La onnipotenza divina può coesistere con la bontà assoluta di Dio solo al prezzo di una totale noncomprensibilità di Dio, cioè dell'accezione di Dio come mistero assoluto... Concedendo all'uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza… infatti la presenza del male implica una libertà con autonomo potere di decisione anche nei confronti del proprio creatore; e oggi i termini con cui deve misurarsi la teologia ebraica sono l'esistenza e il successo del male quale oggetto della volontà umana e non più le di-
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ L'uomo, secondo Jonas, non è in condizione di comprendere Dio ed anche il popolo ebraico, abituato alla visione di Dio ed al suo costante contatto, perde questo privilegio e non riesce più ad afferrare la presenza del divino. Il male assoluto di Auschwitz getta le fondamenta di una perpetua non presenza di Dio.
L’ortodossia giudaica: Il Dio nascosto L’ebraismo ortodosso è stato accusato di avere sottovalutato il dramma dell’Olocausto, ma anche in esso, in realtà, si sono poste delle riflessioni nuove che hanno portato alla teoria del Dio nascosto, va ricordato soprattutto Eliezer Berkovits (1908-1992). Berkovits elabora una sua forma di coinvolgimento divino, definita come nascondimento del volto, che richiama ad una presenza di Dio, ma nascosta, «è per questo che molte delle vittime videro quello che gli altri non riuscirono a vedere; ed è per questo anche che il silenzio di Dio non va interpretato come un vuoto, quanto piuttosto come una regola particolare della sua stessa presenza»;362 Dio, dunque, nasconde il suo volto per rispettare la libertà umana. Norman Lamm prosegue il percorso neo-ortodosso sviluppando l’idea del sollevamento del volto, cioè il ritorno dello sguardo tra Dio e il suo popolo che porterà alla piena rivelazione del progetto divino sul mondo.
sgrazie e le tribolazioni che provengono dalla cieca causalità naturale... Solo con la creazione dal Nulla possiamo avere l'unicità del principio divino in uno con la sua autolimitazione, che dà spazio all'esistenza e all'autonomia di un mondo.» (JONAS, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, p. 33 ss). 362 LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 297. Vedere: Is 45: 15 e Dt 31: 16-19.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Auschwitz: Una cesura nella storia del popolo ebraico Questa posizione si lega al concetto più ampio del tremendum applicato al divino dal rabbino americano Arthur A. Coen; Dio viene concepito come un mistero tremendo, una sorta di presenza affascinante ed inconoscibile, che incute terrore, e resta appunto lontana, quasi assente. Cohen si chiede: «Come mai Dio, che ha parlato tante volte in antico, da duemila anni tace?» Auschwitz sarebbe un’espressione di questo mancato interesse da parte di Dio per le sorti umane;363 le dimensioni ed il significato di tale tragedia sono però così enormi che si crea una discontinuità nella reazione del popolo ebraico che non può accettare alcuna responsabilità per l’accaduto.
Auschwitz: Simbolo della fragilità del Patto Irving Greenberg,364 che rifugge le teorie autovittimistiche, «ha visto in Auschwitz una nuova esperienza di deserto nella quale è avvenuto qualcosa di diverso; una nuova alleanza che ha soppiantato in maniera quasi tragica la prima».365 Ma questo nuovo patto esce dalle categorie consuete e definisce un quadro in cui i confini tra bene e male, tra fede e incredulità sono molto relativi: «nessuna affermazione, teologica o di qualsiasi altra natura, dovrebbe essere fatta se non può essere credibile alla presenza di bambini bruciati vivi nei forni crematori».366
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Dio si sarebbe come allontanato dalla scena del delitto secondo il principio dello zimzum. 364 Rabbino ortodosso, conferenziere, scrittore, presidente del National Jewish Center for Learning and Leadership, molto apprezzato negli ambienti cristiani. 365 LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 299. 366 GIULIANI, M. cit. da LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 299.
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ La sua tesi è che se Dio è venuto meno al patto, per ragioni sconosciute ed inconoscibili, l’ebreo deve concepire una nuova alleanza e divenirne il perno, portarne il peso: la creazione dello Stato d’Israele è, appunto, il segno di questo nuovo patto. Il futuro del popolo ebraico non è più nelle mani di Dio, ma in quelle degli ebrei che divengono responsabili del loro destino.
Auschwitz: Manifestazione dell’ira divina Questo tema è ripreso dal rabbino Bernard Maza: «egli è convinto che la Shoah non sia stata una punizione divina, ma il compimento di una serie di profezie; Auschwitz fu infatti la manifestazione più palese dell’ira e del furore di Dio stesso, un’ira ed un furore necessari affinché si rivelasse la redenzione».367 La profezia cui fa riferimento è quella di Ecclesiaste «il sole sorge e il sole tramonta» (Sir 1: 5), dove il sole è la Torah; essa è stata trascurata dalla secolarizzazione che ha invaso le comunità ebraiche, di conseguenza Dio avrebbe scatenato la sua ira per preparare la redenzione. Auschwitz non come punizione, dunque, ma come condizione di redenzione.
La tradizione chassidica Il chassidismo368 riconduce tutto a Dio ed 367
LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 300. Il Chassidismo nasce alla fine della prima metà del diciottesimo secolo. Il fondatore, Rabbi Israel Baal Shem Tov (1698-1760), nacque in una zona dell’Ucraina, allora terra polacca. In breve il movimento si estese fino alla Galizia, per poi propagarsi al resto della Polonia e più tardi a Bielorussia, Lituania, Romania e Ungheria. Il mondo ebraico fu segnato dall’apparizione del chassidismo; fenomeno che si rafforzò con le tragedie del periodo successivo. La notevole emigrazione ebraica portò 368
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE «è portato a guardare il male come una via nascosta del bene, la cui bontà l’uomo –per la sua limitatezza– non sa vedere. Se la Shoà è male, essa è una via segreta, un modo nascosto di rivelarsi di Dio: all’uomo resta incomprensibile… Se ogni uomo è una scintilla divina, Dio partecipa a tutta la sofferenza umana.»369 il chassidismo in Europa occidentale ed in America da dove, dopo la distruzione dell’ebraismo europeo, si diffuse in Israele. Il movimento chassidico, nel primo periodo, deve la sua prodigiosa diffusione a fattori sociali, culturali ed economici e a certe idee di Baal Shem Tov, atte a sedurre le masse ebraiche. Va sottolineato però che le medesime idee sono state la causa dell’opposizione, talvolta molto violenta, incontrata dal chassidismo. La storia del chassidismo è soprattutto quella di un meticoloso lavoro di gruppo dei discepoli che si strinsero prima attorno a Shem Tov e poi al suo successore, Rabbi Dov Ber di Mézéritch. In un primo periodo, il chassidismo restò un movimento unitario in cui ogni discepolo apportava la ricchezza della propria personalità all’opera comune. A quel tempo confluivano nel mondo chassidico sia persone spinte dall’entusiasmo e dal sentimento che dalla ragione e ognuno vi trovava il suo spazio. La maggioranza dalla popolazione ebraica viveva in quel periodo in Polonia e in Russia ed è quindi verso questi due mondi che si diressero gli sforzi degli chassidim. La Russia in particolare era vista come la roccaforte dell’opposizione, infatti lì erano le più grandi scuole talmudiche. La funzione di guida spirituale divenne quasi ereditaria e si crearono delle vere dinastie; nondimeno l’idea originaria fu mantenuta. Col passar del tempo gli oppositori cominciarono a comprendere che la loro ostilità era ingiustificata. Stava arrivando il momento della rappacificazione. Dal 1808, cominciarono le prime iniziative comuni, intraprese concordemente dai dirigenti degli chassidim con quelli dei mitnagdim, come per esempio un’edizione del Talmud approvata a Kopoust da entrambi. Finalmente si venne alla riconciliazione; gli chassidim erano di nuovo accettati come parte integrante della comunità ebraica e della tradizione. Dalla fine del XVIII secolo e soprattutto durante il XIX, gli chassidim si trovarono a sostenere i violenti attacchi dell’Haskalah, la corrente illuminista ebraica, che nel suo desiderio di apertura al mondo non esitò a ricorrere all’aiuto dello Zar per costringere gli ebrei ad uniformarsi alle loro idee. Il chassidismo paradossalmente divenne il difensore della tradizione. La storia del movimento chassidico e la sua posizione nel mondo ebraico cambiarono radicalmente nello spazio di poche generazioni. Da una posizione di supposta eresia assunse il ruolo di difensore della tradizione. 369 GIULIANI, «Auschwitz nel pensiero ebraico», p. 151-152.
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ
Il silenzio come unico linguaggio possibile I principali rappresentanti di tale posizione sono Elie Wiesel370 e Andrè Neher.371
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Elie Wiesel è nato in Transilvania, nel 1928. Venne educato religiosamente nel quadro della mistica ebraica. Nel 1944, l'intero villaggio viene deportato dai nazisti ed Wiesel passa prima ad Auschwitz (dove muoiono sua madre e la sorella minore), poi a Buchenwald, dove muore il padre. Le due sorelle maggiori sono invece sopravissute. Nel 1945, viene liberato dalle truppe americane e nel 1948 va a studiare a Parigi alla Sorbona. Lavora dapprima per il giornale francese l'Arche, e per lo Yediot Ahronot di Tel Aviv, poi va come corrispondente a New York e nel 1963 riceverà la cittadinanza americana. A Parigi ha avuto contatti con François Mauriac che lo ha esortato a rendere testimonianza delle sue esperienze. Così nel 1956 (quando è divenuto cittadino americano) scrive And the world remained silent che diventerà poi The Night nel 1958. Nel 1960, scrive L'aube e, nel 1961 Le jour. La sua opera spazia della narrativa alla filosofia, alla meditazione religiosa. Attraverso le sue varie opere, egli si è qualificato come uno dei principali interpreti della più grande tragedia del nostro secolo. In tal senso partecipa a molte organizzazioni internazionali come la Commission for the Holocaust e nel 1986 riceve il Nobel per la Pace. Col premio stabilisce la Elie Wiesel Foundation for the Humanity e si dedica sia a mantenere viva la memoria dell'Olocausto che a varie iniziative di difesa delle minoranze oppresse ed emarginate, compiendo vari viaggi e missioni ufficiali in vari punti del mondo. Sostenitore convinto dello Stato di Israele, Wiesel ha difeso la causa degli ebrei sovietici, degli indiani Miskito del Nicaragua, dei desaparecidos argentini, dei rifugiati cambogiani, dei curdi, delle vittime dell'apartheid in Sudafrica e della fame in Africa e delle vittime e dei prigionieri nella ex Iugoslavia. I suoi sforzi gli sono valsi oltre 75 lauree honoris causa e moltissimi altri riconoscimenti. Dal 1992, presiede la Académie Universelle des Cultures. E. Wiesel ora insegna all'Università di Boston. 371 André Neher, nato in Alsazia nel 1914, biblista, filosofo, professore di lingua e letteratura ebraica all'Università di Strasburgo, ha contribuito notevolmente al rinnovamento del pensiero ebraico postbellico in Francia ed è considerato uno dei più importanti pensatori ebrei del Novecento. Dal 1967 visse a Gerusalemme, dove morì nel 1988.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Questi pensatori non hanno cercato risposte certe, e neppure hanno voluto fare delle speculazioni, ma si sono sforzati di attivare la memoria per ritrovare i volti delle vittime. Wiesel ha rappresentato in maniera mirabile le voci della protesta morale ebraica contro Dio,372 colpevole di non essere intervenuto a salvare gli ebrei dalla furia nazista e di aver mancato di parola; egli non s’identifica però con una teologia della negazione di Dio. Scrive Limentani: «Wiesel ha raccolto e sviluppato la linea della discussione con Dio, e dell’accusa contro Dio che ha mancato alla sua parola: il giudaismo è infatti una religione fondata su un patto tra due, che come tali hanno gli stessi diritti e doveri; ebbene, secondo Wiesel, Dio ha mancato ad uno di questi doveri… La Shoah… risulta così proprio come una questione privata tra Dio ed il suo popolo, e di conseguenza è tra loro che si deve risolvere.»373
Al centro dell’opera di Wiesel c’è dunque l’uomo che chiama Dio in giudizio per le sue inadempienze; ma questo non significa rinnegare Dio, perché il luogo di questo drammatico incontro è quello della fede che resta relazione e scambio affettivo. 372
Per cogliere i termini drammatici di questa protesta e coglierne plasticamente i paradigmi etici, vedere WIESEL, E. Il processo di Shamgorod. Firenze: La Giuntina, 1988. Il racconto (una pièce teatrale) è ambientato a Shamgorod, villaggio sperduto dell'Europa orientale, nella metà del XVII secolo. In un giorno di Purim –la festa dei folli, dei bambini e dei mendicanti, in cui tutti si divertono, si inebriano e sognano un mondo migliore– tre attori girovaghi arrivano alla locanda per rallegrare la comunità ebraica. Ma a Shamgorod non c'è più comunità ebraica: un pogrom l'ha sterminata. Niente più spettatori, dunque, per la recita di Purim, se non il locandiere e la sua cameriera. Eppure la farsa comincia. Ma a poco a poco, in questo clima di violenza, di odio e di morte, alle risate subentrano l'angoscia, il dubbio e l'ira contro un Dio incapace di difendere i suoi figli. La recita di Purim diventa processo. Chi è dunque il colpevole? Chi sono gli accusatori? Chi si presenterà per difendere Dio? La parte finale svela e cela nel contempo le risposte. 373 LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 302.
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L’ETICA DOPO AUSCHWITZ Anche Neher «è stato uno dei primi, e più coraggiosi, a guardare dentro l’abisso della Shoah, e ad interrogare l’evento dello sterminio nazista dentro la cornice dell’intera tradizione ebraica».374 Egli sostiene che non si può capire Auschwitz partendo dalla Bibbia, ma occorre leggere la Bibbia partendo da Auschwitz.375 Lo studio del silenzio nella Bibbia porta Neher a capire che nella Bibbia ci sono almeno due concezioni di Dio; Forte le indica come segue: «Il Dio dei ponti sospesi: il Dio che sull'abisso che ci separa da Lui, lancia il ponte della sua parola (dabar). La parola è il grande ponte che unisce l'uomo a Dio. È il Dio che rassicura, che promette, che dà una certezza... La Bibbia è il libro della Parola, la sua parola è luce, è calore, è forza che trasforma il deserto in giardino. Accanto al Dio dei ponti sospesi c'è il Dio delle arcate spezzate: il Dio che sull'abisso che ci separa da lui lascia che noi ci sforziamo di gettare un arco che, tuttavia, resta sempre interrotto perché non riusciamo ad afferrare Dio. Tutti i nostri tentativi di dire Dio naufragano sull'abissale distanza che ci separa da lui. Questo è il Dio del silenzio, il Dio che non riesci a dire, non riesci a capire. Per Neher questo Dio è il che si ritrova in tutti i grandi momenti della fede. È il Dio a cui grida l'ebreo credente entrando nelle camere a gas dicendo… “Io credo”. La fede nasce in Gen 22: l'akkedà di Isacco, quando Abramo è chiamato a offrire Isacco del suo cuore. E Abramo si fida di Dio, nonostante il suo silenzio. Credere significa affidarsi perdutamente all'invisibile che ti chiama. Ma perché Dio fa questo? Perché Dio tace? Ecco la straordinaria risposta di Neher…: “Perché se Dio fosse solo il Dio della Parola ci accecherebbe con la sua luce. Dio è il Dio del silenzio, perché solo il silenzio di 374
LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 302. Scrive Limentani: «Neher considera questo: quando la Bibbia fu scritta, Auschwitz non esisteva ancora: di conseguenza è vano cercare nella Bibbia stessa categorie adatte a spiegare e comprendere tale evento». (LIMENTANI, Quale etica dopo Auschwitz?, p. 303). 375
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Dio è la condizione del rischio e della libertà”. Se credere in Dio fosse solo rassicurazione, certezza, se Dio fosse solo il Dio dei ponti sospesi, allora noi crederemmo in Dio come in una ideologia che ci tranquillizza. Ma solo se Dio è… il Dio che tace quando vorresti udire la sua voce, allora la tua difficile libertà può credere il Lui. In altre parole il silenzio di Dio è lo spazio della nostra libertà. Neher dice che ciò che conta nell'Ebraismo non è il risultato. Il compimento è nell'opera del piantare, non nel Messia. Ciò che importa al Giudaismo è l'incompiuto, incessante ritorno dell'uomo e di Dio a compiti oggi tanto più assillanti, in quanto ieri erano imprevedibili e domani saranno superati. In primavera si semina e in autunno si raccoglie, ma nessun autunno assomiglia all'altro, nessuna primavera ad un'altra primavera. Forse la primavera prossima il pane uscirà da questo solco, forse verranno la siccità e la grandine e non ci saranno che putredine e morte. L'essenziale non è nel raccolto, l'essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel riso e nella pienezza, ma nelle lacrime, nel rischio e nel loro silenzio.»376
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FORTE, «Parola e Silenzio nella riflessione teologica».
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA Fede cristiana ed etica: generalità Oggi appare chiaro che non esiste, per un credente, alcuna decisione etica che non implichi una precomprensione teologica anche inconsapevole; ma è altrettanto evidente che non c’è alcuna formulazione dogmatica indipendente dal contesto storico e dalla prassi esperienziale di chi la elabora. Scrive Josè M. Bonino: «Il problema diviene quello di trovare un modo corretto per capire come si eserciti la sovranità di Cristo in questi ambiti relativamente autonomi e come il cristiano mantenga un margine di libertà nell’obbedienza».377 Secondo Duff378 le visioni cattolica e protestante si caratterizzano come segue: L’etica cattolica dei fini si fonda su un’antropologia più ottimista e sull’affermazione di una legge di natura che la ragione può conoscere. L’etica protestante dell’ispirazione si fonda invece su un’antropologia più pessimista e su un senso di discontinuità tra ragione e rivelazione.
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BONINO, J. M. «Etica», su AAVV. Dizionario del movimento ecumenico. Bologna: EDB, 1994, p. 496. 378 Vedere AAVV, Dizionario del movimento ecumenico, p. 496.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Il ruolo della Legge nell'etica di Lutero Lutero, attaccando la prospettiva della salvezza per opere e l’enfatizzazione della ragione, pose le basi per un mutamento etico radicale, «luteranamente, il compito dell’etica cristiana deve consistere nell’annullare di fronte alla concretezza della vita l’astratta conoscenza dei doveri e delle norme».379 Per il riformatore tedesco, l’etica: è squalificata come via di salvezza;380 è denunciata come un’occasione d’idolatria per l’uomo; è privata di un quadro sistematico ed autoritario, tipicamente cattolico, dove è il risultato dei dogmi e del magistero ecclesiastico. Lutero si contrappone dunque a Tommaso che postula un rapporto di analogia fra Dio e l’uomo.381 379
QUINZIO, Radici ebraiche del moderno, p. 141. In un sermone dell’ottobre 1522, ad Erfurt, Lutero afferma: «Sono preoccupato, perché ai nostri giorni vi sono molti falsi santi che fanno affidamento sulle loro opere e ingannano se stessi e gli altri con le buone opere... Dicono, è vero: “le nostre opere non sono nulla”; e tuttavia mettono in azione il libero arbitrio; ma cosa sia la grazia e cosa sia la fede, lo sanno meno di quanto un’oca conosca il salterio. Guardatevi dunque dalla fede fabbricata e inventata.» (LUTERO, M. Œuvres. Tomo IX. Genève: Labor et Fides, p. 109). 381 «La grazia, compresa nelle categorie della psicologia e dell’etica di Aristotele, interviene nel senso di corredare l’uomo di un potenziale di virtù che egli deve far fruttificare concretamente attraverso il compimento di opere buone in grado di contrastare le opere cattive, rappresentate in lui dai peccati…». (Voce «Luther», su Encyclopaedia Universalis, citato da FUCHS, L’etica protestante, p. 12-13). Nella Confessione di Augusta si legge: «A proposito del libero arbitrio s’insegna che l’uomo possiede, in una certa misura, un libero arbitrio che gli consente di condurre una vita esteriormente onesta e di scegliere fra le cose che la ragione conosce, ma, senza la grazia, senza l’assistenza efficace dello Spirito Santo, l’uomo è incapace di rendersi gradito a Dio, di temerlo dal profondo del cuore o di credere in lui o di rigettare dal proprio cuore i cattivi desideri innati. Per contro, queste cose si compiono grazie allo Spirito Santo, che è dato attraverso la Parola di Dio. Paolo afferma 380
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA In Lutero, l’etica non ha spazio nel conseguimento della salvezza, ma trova il suo nuovo fondamento nella giustificazione che ne è presupposto e fonte. La morale manifesta la sua importanza significativa nell’organizzazione della vita sociale; da qui consegue la dottrina dei due regni di cui abbiamo già fatto cenno.382 La caratteristica fondamentale della posizione luterana è «...di aver liberato l’etica dal peso del dovere impossibile della perfezione e dalle sue ineluttabili conseguenze che sono la colpevolezza, l’angoscia, l’ipocrisia… Egli rinuncia a chiedere all’etica di realizzare un vasto programma di trasformazione dell’uomo e della società in nome dell’ideale cristiano.»383
Lutero valorizza la funzione politica della Legge, che opera in modo decisivo nell'ambito temporale con lo scopo di mantenere un minimo e necessario livello di ordine nel mondo, proteggendo i deboli e limitando il campo d'azione dei malvagi, in modo che il male non prenda un assoluto sopravvento tra gli uomini impedendo la vita. Scrive Jacques Rollet, riguardo alla concezione luterana della politica, che «...si può ormai concludere che essa approda ad una separazione totale fra un’etica della persona e dell’intenzione morale da un lato,
infatti in 1 Corinti 2: “L’uomo naturale non comprende nulla dello Spirito di Dio”.» («Del libero arbitrio», articolo XVIII, Confessione di Augusta). 382 Ripetiamo che il regno di Cristo, che si occupa del Vangelo e del governo dello Spirito Santo, si prefigge di liberare l'uomo dalla potenza del peccato e della morte; in questo regno si vive per fede e le azioni devono essere determinate dal comandamento dell'amore. Il regno del mondo comprende invece lo Stato, il lavoro, la società; esso deve essere governato dalla legge e caratterizzato dall'ordine; le azioni che vi si compiono devono essere determinate dalla giustizia. 383 FUCHS, L'etica protestante, p. 18.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE etica cristiana, e dall’altro un’etica della funzione politica che non dipende dal Vangelo, ma s’iscrive nei piani di Dio, essendo necessaria la forza in un mondo macchiato dal peccato originale».384
La Legge legittima le strutture e le istituzioni politico-sociali esistenti affinché la predicazione del Vangelo non sia impedita dal disordine; ma questa funzione nulla ha a che fare con la salvezza in Cristo, ma semmai con la carne debole e sottoposta all'azione del peccato. Ancora più importante, per Lutero, è la funzione di denuncia della Legge (si tratta dell'uso teologico o spirituale, volto ad aumentare le trasgressioni). Occorre che il peccato cresca nella coscienza del credente in modo da vanificare ogni tentazione alla pretesa di autogiustificazione. Lutero considera la Legge contraria al Vangelo, ma, proprio per questa sua natura, essa conserva la sua funzione di denuncia anche per il cristiano giustificato in Cristo. Legge e Vangelo devono, quindi, coesistere, perché l'uomo è nel contempo giusto e peccatore; il credente però è liberato dalla maledizione della Legge che si sviluppa quando si pretende, sulla base delle norme, un'impossibile opera salvifica. Lutero non accetta, o semplicemente non ricorda, il terzo uso della Legge (quello didattico) cui invece Calvino dà notevole importanza nella formazione del carattere cristiano. Per il riformatore tedesco, occorre enfatizzare fortemente l'antiteticità tra Legge e Vangelo; la prima è uno specchio che mostra all'uomo quale destino gli sia riservato se non si affida esclusivamente alla grazia: la Legge ha un valore soltanto se è colta nel suo aspetto negativo, ciò che la Legge viene ad acquistare sul piano della considerazione positiva lo perde la grazia; più la Legge, invece, rende 384
ROLLET, J. Religione e politica. Troina: Città Aperta, 2003, p. 72.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA drammatica la situazione umana, più il Vangelo si configura come l'unica vera soluzione.
Il ruolo della Legge nell'etica di Calvino Calvino presenta un'idea della Legge divina decisamente più positiva rispetto a Lutero: infatti, per il riformatore francese, le opere che adempiono la Legge sono la testimonianza del fatto che Dio regna nella vita del credente. L'uomo decaduto, ma che s’interroga sul bene e sul male, non ha, di per sé, la possibilità di accedere alla conoscenza ultima del bene; ragione e volontà sono indebolite ed insufficienti. E' dunque necessario che Dio riveli la sua volontà, cosa che fa in Cristo, ma anche esprimendo le sue esigenze assolute nella Legge. La legge, per Calvino, presenta tre funzioni: provoca una crisi della coscienza morale che spinge l'uomo verso Dio;385 permette la tutela di un ordine politico nel mondo, altrimenti la vita sarebbe praticamente impedita; di conseguenza Calvino si sforza di individuare dei legami concreti e fecondi tra responsabilità cristiana e impegno politico: la sfera politica dipende dalla provvidenza di Dio e deve avere una propria autonomia anche se non va lasciata a se stessa;386 a differenza di Lutero, che non accetta questo terzo uso della legge, Calvino ritiene che essa abbia anche la funzione di educa385
Scrive Calvino che «poiché la nostra lentezza ha bisogno di molti pungoli e aiuti, sarà utile cogliere, da vari passi della Scrittura, il modo per regolare bene la nostra vita, affinché coloro che desiderano convertirsi a Dio non si smarriscano in pensieri erronei.» CALVINO, G. Istituzione della religione cristiana. Torino: UTET, 1971, III, 6, 1. 386 Scrive, infatti, che «tutte le leggi del mondo, di qualsiasi natura siano, sono pertanto da ricondursi ad un unico concetto di giustizia».
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE re i credenti, di ricordare loro gli aspetti concreti dell'esigenza morale; la legge promuove l'obbedienza stimolando la coscienza. Scrive Roger Mehl che le reticenze di Lutero nel parlare del terzo uso della legge derivano dal «timore di distruggere la spontaneità etica, di respingere di nuovo l’uomo sotto la costrizione della legge, e la sua volontà di considerare questa soltanto come una guida benevola».387
Confronto riassuntivo tra le posizioni di Lutero e Calvino Fuchs sottolinea anche che «non si devono certamente esagerare le differenze fra Lutero e Calvino. Essi hanno in comune la liberazione dell'etica dal compito di realizzare il bene.»388 Il bene, quello vero e assoluto, si realizza nella relazione con la grazia divina che ne pone le basi, lo attua e lo conduce al compimento. La parte dell'uomo è nella risposta riconoscente che egli sa e può dare; la responsabilità etica personale consiste nel mantenersi all'ascolto attento e fattivo della Parola di Dio. Le differenti sottolineature che Calvino e Lutero hanno compiuto in campo etico hanno provocato e strutturato delle diversità significative tra i loro eredi spirituali. I luterani insistono sulla fede da cui deriva l'azione, i calvinisti sull'azione che deriva dalla fede. L'etica luterana è stata sottoposta al rischio di una certa apatia e di rinchiudersi in un intimismo spirituale scarsamente attento ai problemi sociali, di fatto conservatore; per l'etica calvinista, molto attenta agli atti che testimoniano dell'avvenuta salvezza, c'è il pericolo del moralismo. 387 388
MEHL, R. Morale cattolica e morale protestante. Torino: Claudiana, 1973, p. 15. FUCHS, L'etica protestante, p. 38.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA Sul piano della responsabilità politica dei credenti, Lutero e Calvino, hanno differenti basi: Lutero, partendo dall'idea dei due regni, la minimizza, considerando la politica come un male necessario a causa della debolezza umana; Calvino coglie invece nell'attenzione alla società, al lavoro secolare, alla politica un'obbligata occasione di testimonianza cristiana, un aspetto dell'opera di Dio.389
L’etica del primo evangelismo nord-americano I cosiddetti padri pellegrini provengono dal non conformismo puritano,390 avversano la Chiesa di stato e la monarchia assoluta ed organizzano le loro comunità in modo autonomo. Scrive Jan Rohls: «E’ la coscienza religiosa della propria missione a determinare la partenza dei congregazionalisti puritani e la fondazione di una comunità politica sul suolo americano. Deve essere 391 costruita una nuova società, basata sulla legge divina.»
389
Ricordiamo che il governo civile, per Calvino, comporta tre protagonisti: il magistrato/governante, incaricato di mantenere ed applicare la legge; la legge stessa, nel cui nome il magistrato esercita il potere; il popolo che deve essere governato dalle leggi ed ubbidire al magistrato. 390 Scrive Terino: «Il puritanesimo rappresenta tra il popolo anglosassone la forza più dinamica di applicazione del protestantesimo alla sfera etica, sociale, religiosa e culturale tra il XVI e XVII secolo». (TERINO, J. «La famiglia puritana», su Studi di teologia, Etica per la famiglia, n. 13, gennaio 1984, p. 49). Secondo Fuchs, «il puritanesimo riprende da Calvino alcuni elementi essenziali, fra cui l’importanza della salvezza personale, la messa in discussione delle gerarchie religiose e degli intermediari fra Dio e il credente, il rigore biblico e soprattutto la preoccupazione, tipicamente calvinista, della santificazione del credente». (FUCHS, L'etica protestante, p. 46). Per il medesimo autore, però, sul piano delle strutture ecclesiali il puritanesimo mostra una sua originalità. 391 ROHLS, Storia dell’etica, p. 305.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE La loro impresa si fonda su una sorta di libero contratto cui chiamano Dio a testimone, occorrono leggi giuste ed uguali per tutti ed un’attitudine dell’autorità atta a favorire il benessere comune. Il primo covenant del New England recita: «Facciamo un patto con il Signore e fra di noi e ci impegniamo davanti al Signore a camminare insieme in tutte le sue vie nel modo in cui Egli vorrà rivelarsi a noi nella sua santa parola di verità». L’ordine sociale è di tipo teocratico:392 le norme, cioè, devono iscriversi in un quadro teologico preciso di riferimento.393 Quella che oggi sarebbe definita come sfera privata, è regolata e verificata dalla comunità ecclesiale. La Chiesa è sentita e definita come la comunità dei santi visibili, caratterizzati dalla consapevolezza del loro comportamento eticoreligioso; la Chiesa coincide con lo Stato, poiché solo ai membri di chiesa spetta il diritto di voto. L’assemblea generale del Massachussets, del 1631, adottò la seguente norma: «Per conservare all’insieme dei cittadini il carattere di un raggruppamento di uomini onesti e buoni, si decide che in futuro nessuno sarà ammesso a godere dei diritti di cittadino in questo Stato se non è membro di una Chiesa dello stesso».394
392
Il New England equivale al nuovo Israele, Salem e Boston alla nuova Gerusalemme, il mondo (e soprattutto il west) sono una terra da riscattare e convertire. Da notare che la politica estera americana risente ancora oggi di tali categorie: spesso il mondo esterno é presentato dai governanti statunitensi, attraverso un linguaggio pseudo-religioso, come una terra da convertire ai valori della libertà e della democrazia. 393 Scrive Rohls: «L’ispirazione veterotestamentaria della fondazione della comunità in base a un patto federale teologico risulta ovvia, paragonando il passaggio dal vecchio al nuovo mondo all’uscita d’Israele dall’Egitto». (ROHLS, Storia dell’etica, p. 305). 394 Tale norma, adottata anche da New Haven, rimase in vigore fino al 1692.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA La giustizia é esercitata in nome di Dio e per tutelare, innanzitutto, le prerogative divine: ad esempio, il giudice punisce con sanzioni secolari la bestemmia, l’eresia395 e la violazione del riposo domenicale. Questa realtà teocratica396 è però fragile perché, se venisse meno la conversione personale, si minerebbe alla base l’unità della comunità civile. Il puritanesimo americano concepirà, allora, una via intermedia (la Half-Way Covenant) che indica nel solo battesimo la condizione necessaria per divenire membro di Chiesa e, quindi, della società civile, di cui è così assicurata la stabilità politica a scapito del fondamento ideale originario. I puritani della costa atlantica assumono il principio presbiteriano dell’uniformità religiosa, escludendo il dissenso; tale unità confessionale può essere stabilita anche con la forza. Solo dopo la prima fase dell’insediamento, sorgono delle comunità indipendenti che limitano, in nome della libertà di coscienza, la funzione dello Stato all’imposizione della sola seconda metà del decalogo, separando gli interessi etici e politici da quelli religiosi.397 395
Ricordiamo che furono emesse alcune condanne a morte nei confronti di Quaccheri nel 1650 a Boston; a Salem (1692), le presunte streghe venivano perseguitate, condannate ed impiccate sulla base di alcuni criteri, come il non essere capaci di recitare senza errori il Padre nostro in tribunale. 396 A New Haven fu realizzata una forma di governo teocratico; una norma affermava che «la forma teocratica che consiste a fare del Signore Dio il nostro governatore è la miglior forma di governo in uno stato cristiano». 397 Ricordiamo Roger Williams come sostenitore della visione di una democrazia la cui premessa è costituita dalla libertà di religione e di coscienza. Williams fu bandito dal Massachusetts nel 1635, ma entro pochi anni, egli, ed altre persone che avevano idee simili, riuscirono ad ottenere uno statuto per l'istituzione della colonia di Rhode Island, che consentiva la tolleranza verso tutte le fedi. Ricordiamo anche Anne Hutchinson, emigrata nel Massachusetts nel 1634, che era in disaccordo coi dirigenti locali su alcune questioni teologiche. A causa di ciò, la Hutchinson fu ban-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Nello sviluppo dell’idea americana dei diritti umani, la tesi della libertà di coscienza del secondo puritanesimo ebbe un ruolo rilevante. Secondo la Dichiarazione americana dei diritti dell’uomo, il diritto di proprietà in senso lato è inalienabile, esso si realizza nel diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà personale. Sul piano pratico, i caratteri essenziali dell’etica puritana sono: L’uguaglianza. Il puritanesimo è anti-gerarchico. Nessuno può pretendere una propria innata superiorità; essa può essere soltanto funzionale e frutto del consenso comunitario. Per Fuchs: «...questa volontà di uguaglianza si esprime simbolicamente nel modo di vestire dei puritani, che indossano abiti scuri, senza ornamenti, senza contrassegni visibili in grado di sottolineare le distinzioni sociali… Dato che la qualità è anzitutto interiore, l’abbigliamento deve essere privo di qualsiasi attrazione.»398
La libertà. Essa deriva dall’uguaglianza e costituisce il primo e fondamentale diritto di ogni persona. Il potere politico deve rispettare la libertà di ciascuno, questo è il suo compito fondamentale.
dita dal Massachusetts e trovò rifugio a Rhode Island nel 1638. Oltre al Rhode Island, anche in Pennsylvania, in seguito all’azione del quacchero William Penn, Chiesa e Stato sono separati, senza che la società perda il suo orientamento eticoreligioso di fondo. La tolleranza religiosa si affermò nell’intero New England soltanto un secolo e mezzo dopo. Nel frattempo, molti gruppi di varia ispirazione religiosa fondarono degli insediamenti nel resto delle colonie. Ognuno alla sua maniera contribuì a creare l'ambiente religioso che caratterizzerà il nord-America. I cattolici, che si stabilirono nel Maryland, emanarono il primo atto di tolleranza della storia americana. Anche i quaccheri della Pennsylvania promossero la tolleranza religiosa e la separazione tra Chiesa e Stato. I coloni appartenevano a molte religioni diverse, il che rendeva impossibile che una di esse acquistasse il predominio. Questo pluralismo religioso fu uno dei motivi principali del conseguimento delle libertà religiose, che diventarono un tratto caratteristico degli USA. 398 FUCHS, L'etica protestante, p. 51.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA
La disciplina. La società deve essere educata sul piano morale, visto che il peccato ha distrutto l’armonia naturale e l’istinto porta alla perdizione. Occorre, quindi, rinforzare la propria volontà e formare le persone ad una vita di dovere. Il modello di cittadino è quello del padre di famiglia e del lavoratore attivo e responsabile. L’individualismo. Ognuno, nella pari dignità, è diverso per via dei talenti ricevuti da Dio; ogni persona è posta in un certo luogo ed in una determinata situazione per fare fruttare i suoi doni. La valorizzazione del lavoro. La pigrizia è un grave peccato religioso e sociale; una vita attiva, tesa ad investire e non a dissipare, è un segno della propria predestinazione alla salvezza. Nella maggior parte delle colonie inglesi del Sud, era invece la Chiesa d’Inghilterra la confessione ufficiale. Nel 1784, un gruppo di ministri evangelici spinse, forte di un diffuso consenso, per ottenere fondi di Stato per l’istruzione religiosa, ma furono contrastati da chi temeva che ciò riportasse la restaurazione della Chiesa anglicana; in tale occasione Thomas Jefferson espresse il principio della libertà religiosa. Nel 1787, viene emanata la Costituzione americana, in essa non si menziona la religione se non nell’art. 6, in cui si afferma che «nessun test religioso potrà essere richiesto per stabilire l’idoneità a qualsiasi pubblico ufficio degli Stati Uniti». Scrive Ricca: «In nome di una concezione radicale del primato della coscienza e della sua libertà, i puritani detti ‘indipendenti’ prevalsero sui presbiteriani che tendevano ad imporre per legge alla nazione il loro ordinamento ecclesiastico. La rivoluzione americana fu anch’essa in larga misura figlia dello spirito puritano.»399
399
RICCA, P. «Le chiese protestanti», su CERETI, G. e altri, Storia del cristianesimo. L’età contemporanea. Roma: Laterza, 1997, p. 6.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE La Dichiarazione d’Indipendenza è essenziale per comprendere la concezione americana dei diritti dell’uomo, fondamento della loro etica individuale e sociale. L’indipendenza è in essa giustificata da due fattori: la legge naturale e il fatto che Dio è all’origine di tale legge.400 Poi è citata la dottrina classica della creazione cristiana: «Consideriamo certe per se stesse le verità seguenti: tutti gli uomini sono creati uguali; sono dotati dal Creatore di alcuni diritti inalienabili; fra questi diritti ci sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità». L’affermazione che segue relega i governi in una posizione subordinata rispetto ai diritti dei cittadini: «I governi vengono costituiti fra gli uomini per garantire questi diritti, e il loro giusto potere emana dal consenso dei governati. Tutte le volte che una forma di governo tende a distruggere tale scopo, il popolo ha diritto di cambiarla o di abolirla, e di costituire un nuovo governo, fondandolo sulle norme e organizzandolo nella forma che gli parrà più adatta a dargli la sicurezza e la felicità.»
Il cristianesimo, in una visione deista, è la religione di riferimento per gli americani, ma i diritti degli uomini sono il centro vitale della nuova società.
L’etica protestante del lavoro E’ opinione di molti che la specifica visione riformata del lavoro abbia contribuito fortemente al sorgere delle istituzioni civili ed al concetto di moralità pubblica tipico delle nazioni protestanti. Scrive Quinzio: «Alla valorizzazione del lavoro in epoca cristiana contribuisce il fatto che il cristianesimo si diffonde specialmente nelle classi più umili… Il lavoro manuale disprezzato dai pagani appare 400
Recita: «… il posto separato e uguale a cui le leggi della natura e del Dio della natura gli danno diritto».
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA qui come un titolo d’onore»,401 ma quando il cristianesimo diventa religione di Stato e le classi più agiate vi aderiscono, ed inoltre con l’influsso nella mentalità ozioso/guerriera dei barbari, l’ideale biblico si perde. Ancora all’inizio della modernità, umanesimo rinascimentale, la valutazione del lavoro resta negativa. Esso viene recuperato dal protestantesimo in genere e dal calvinismo in particolare. Fuchs enumera quattro elementi essenziali della dottrina calvinista del lavoro,402 che riassumiamo: Il lavoro umano si fonda su quello di Dio che è il lavoratore per eccellenza. Dio si serve dell’opera umana per compiere la Sua. La santificazione della domenica non celebra la pigrizia, ma il fatto che tutto viene da Dio ed i risultati del lavoro non devono essere fonte d’esaltazione per l’uomo. Il lavoro umano è, quindi, della massima dignità, esso caratterizza lo stare dell’uomo sulla terra e nella storia. Il peccato ha reso il lavoro più arduo, ma non gli tolto la benedizione divina. Il lavoro è oggetto di una vocazione a servire Dio e la società nella propria specifica professione. La vita professionale profana è, dunque, la realizzazione di una vocazione divina. Non c’è posto per l’ozio, la disoccupazione, la mendicità. La figura del mendicante, che nel medioevo cristiano aveva un suo prestigio,403 perde ogni dignità. La società protestante si propone di aiutarlo non con l’elemosina, ma procurandogli un lavoro, se non lo accetterà sarà emarginato e cacciato. 401
QUINZIO, Radici ebraiche del moderno, p. 85. Vedere FUCHS, L'etica protestante, p. 55-57. 403 Il povero, nel medioevo, era tale per nobile scelta mistica, come i monaci imitatori di Cristo, o per sfortuna, in quest’ultimo caso aveva la funzione di offrire ai ricchi la possibilità di compiere buone opere con l’elemosina, era dunque strumento di penitenza e salvezza. 402
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE In campo cattolico, l’idea del lavoro come vocazione santificante è stata messa a fuoco dall’Opus Dei, nel ‘900; Giovanni Paolo II, in occasione della messa di beatificazione di Escrivà, ha detto: «Cristo convoca tutti a santificarsi nella realtà della vita quotidiana; pertanto, il lavoro è anche mezzo di santificazione personale e di apostolato quando è vissuto in unione con Cristo».404
L'etica in Karl Barth Occorre distinguere, in Barth, due periodi determinati da una maturazione del suo pensiero in funzione dell'etica. Il primo periodo è quello della cosiddetta concezione escatologico-trascendentale che trae spunto dalla corrente del socialismo religioso.405 Per il primo Barth, nella vita pratica, tra la volontà di Dio e quell’umana, non esiste alcuna corrispondenza, ma un'assoluta alterità; di conseguenza parlare di etica significa coglierne i limiti insuperabili, definirla come un’opera umana di nessun valore. L'alterità tra Dio e l’uomo si riflette nella radicale differenza qualitativa tra eternità e tempo, assoluto e relativo, storia di Dio e storia degli uomini e determina una condanna del temporale, del relativo e della storia umana alla nullità; nel migliore dei casi la giustizia umana potrà essere cosa fragile e precaria, una vanità nel senso utilizzato dal libro dell'Ecclesiaste.
404
Cit. in ZANOTTO, P. Cattolicesimo, protestantesimo e capitalismo. Catanzaro: Ed. Rubbettino, 2005, p. 49. 405 Primariamente interpretato da Kutter che concepisce il regno di Dio come una realtà escatologica totalmente nuova e proveniente da Dio che sconvolge l'esistente. Per il socialismo religioso e Kutter, vedere RICH, A. Etica economica. Brescia: Queriniana, 1993, p. 139 ss.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA Le drammatiche vicende del nazismo portarono poi Barth a riconoscere l'importanza dello Stato di diritto per la vita concreta dell'uomo e lo spinsero a modificare la sua precedente visione.406 Nella concezione cristologica, quella del secondo periodo, Barth cerca di trovare il modo di valorizzare la realtà umana, pure mantenendosi fedele all'escatologico e lo fa utilizzando il concetto della analogia relazionale.
406
Nel 1939, Barth scrive: «Il popolo tedesco subisce l’eredità di un paganesimo di spirito particolarmente profondo, e appunto per questo motivo particolarmente selvaggio, irragionevole e ignaro della vita. E subisce l’eredità del più grande cristiano tedesco: dell’errore di Martin Lutero a proposito del rapporto fra legge e Vangelo, ordine e potere temporale e spirituale, per cui il suo paganesimo naturale non fu limitato e arginato, ma piuttosto ideologicamente trasfigurato, confermato e rafforzato… L’hitlerismo è l’attuale brutto sogno del pagano tedesco, cristianizzato solamente sotto la forma luterana». (BARTH, K. Lettera del dicembre 1939, citato da ROLLET, Religione e politica, p. 73). Barth acquisì notorietà presso il grande pubblico in particolare grazie ai suoi interventi nella questione politico-religiosa tedesca. Il suo cristocentrismo, espresso nella Dichiarazione teologica di Barmen (1934), divenne un'arma efficace contro i cristiani tedeschi secondo cui Dio si sarebbe rivelato anche nel Führer, nella storia e nella razza ariana. Per il suo rifiuto di prestare, in qualità di funzionario, giuramento di fedeltà al Führer, nel 1935 fu privato della cattedra e fuggì in Svizzera; da Basilea appoggiò la resistenza contro Hitler, spesso con disappunto degli amici e del governo svizzero. Fu così che il suo scritto Im Namen Gottes des Allmächtigen in cui si schierò contro la neutralità d'opinione e la censura, venne vietato dalla stessa censura elvetica (1941). I suoi scritti degli anni 1938-45 sono importanti testimonianze di religiosità politica. Dopo la guerra Barth contribuì alla riconciliazione con il popolo tedesco, viaggiò attraverso l'Ungheria e dal 1948 sostenne il movimento ecumenico. Sospettato di criptocomunismo in quanto critico dell'anticomunismo, fu considerato in maniera generale un perturbatore, fra l'altro in temi quali la remilitarizzazione della Germania, l'armamento nucleare svizzero e la crisi ungherese, intervenendo nei dibattiti teologici ed etici con importanti contributi.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE L'analogia relazionale significa che tra i rapporti divini e quelli umani sussistono delle corrispondenze, cioè delle relazioni accessibili solo alla fede. Quindi, nell'esperienza della fede, focalizzandosi sull'esperienza umana di Cristo, l'uomo può cogliere il senso dell'amore divino e vivere eticamente, l'uomo ama in quanto ha colto l'amore giustificante di Dio per lui. Essenziale, per cogliere l’idea di etica bartiana, è il concetto di umanità di Dio; scrive Fulvio Ferrario che «l’affermazione paradossale della fede è che non sappiamo che cosa sia l’essere umano finché non ci viene manifestato in Cristo. Solo Dio sa che cos’è l’umanità… L’etica cristiana trova qui il proprio vincolo e la propria libertà.»407 Barth non ha affrontato in modo esauriente dei problemi specificamente socio-etici per cui non è facile capire come la sua concezione ideale si possa inserire nel quadro della vita e della storia umane, unica eccezione è il problema dello Stato che diviene così esemplificativo. Per lui, anche la realtà dello Stato è fondata sulla sovranità di Cristo, quindi esiste un’analogia tra i due; lo Stato svolge la sua funzione quando pratica il diritto e tutela i deboli ed i perseguitati. Può dunque esistere, grazie all'analogia, un ponte tra la volontà di Dio e quella umana. Il mondo, con la sua dimensione relativa, non è più allora condannato alla nullità, come avveniva nella concezione escatologicotrascendentale.
407
FERRARIO, F. Libertà di credere. Torino: Claudiana, 2000, p. 114.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA
L’etica interinale di Emil Brunner Brunner s’inserisce nel quadro della teologia della creazione, dopo aver riconosciuto le debolezze della visione escatologico-trascendentale e la sua incapacità a proporre stabili fondamenti etici. Per lui esiste un'etica interinale collocata tra creazione e redenzione: essa è un'etica della riconciliazione che occupa il centro della storia.408 Per Brunner, occorre cogliere la dualità tra comandamento e legge: i comandamenti possono essere percepiti, all'interno di un quadro di fede, come norme divine; al di fuori della fede sono colti soltanto come una legge, espressioni di una giustizia accessibile all'uomo come tale. La legge è, dunque, il comandamento separato dalla grazia di Dio, riconoscibile universalmente. Su tale base Brunner sostiene che non esistono soltanto la comunione e la comunità offerte dal Dio creatore e redentore e regolate dal suo comandamento, ma anche gli ordinamenti comunitari stabiliti ed imposti al di fuori della fede, nell'ambito della società e dello Stato. Essi sono detti ordinamenti della creazione e si concretizzano nelle cosiddette comunità naturali: quella sessuale del matrimonio e della famiglia, quella etnica e giuridica, lo Stato. Lo Stato ha senso soltanto tenendo conto della presenza del peccato, che giustifica la costrizione legale; nella misura in cui lo Stato assolve alla funzione di mantenere le comunità naturali in questo mondo decaduto, ha lo stesso senso degli ordinamenti della creazione.
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La sua etica è dunque sottoposta ad un doppio comandamento: quello del creatore (il “da dove”) e quello del redentore (il “verso dove”). Per Brunner, la volontà divina può essere riconosciuta solo in questa sua dualità.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Questi ordinamenti non sono perfetti, ma hanno anch'essi bisogno di redenzione. La differenza essenziale tra Brunner e Barth consiste nel diverso apprezzamento della dialettica tra società umana esistente e ciò che essa sarà grazie a Dio. Barth, soprattutto nel primo periodo, si colloca presso il livello escatologico; Brunner invece valorizza l'inserimento nella società, in cui, nonostante il peccato, restano gli ordinamenti della creazione. La visione di Barth è, dunque, seppur in modo astratto, rivoluzionaria, mentre quella di Brunner è più conservatrice in quanto attribuisce un più alto valore alla realtà esistente. Per quel che concerne lo Stato, per Brunner la sua essenza originaria è il potere e la sua gestione (lo Stato è tale anche se ingiusto, non lo è più se impotente); la sua funzione è quella d’imporre un sufficiente ordine politico per permettere l'esistenza sociale dell'uomo. Per Barth, l'essenza dello Stato deve essere la giustizia, deve essere uno Stato di diritto, deve, seppur imperfettamente, riflettere la giustificazione avvenuta in Cristo. Rich osserva: «…mentre in Brunner l'assoluto del regno di Dio viene abbassato al livello degli ordinamenti della creazione per poterlo conciliare col relativo, in Barth il relativo viene ora elevato al livello del paragonabile all'assoluto della sovranità di Cristo, per renderne possibile la conciliazione con esso.»409
409
RICH, Etica economica, p. 164.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA
L’etica di Dietrich Bonhoeffer Scrive Quinzio che «Bonhoeffer… è non solo un testimone ma un anticipatore e un teorizzatore della difficoltà, o addirittura impossibilità dell’etica».410 Famoso è il suo rifiuto del Dio tappabuchi e la proclamazione dell’uomo divenuto adulto che «con Dio e al cospetto di Dio vive senza Dio». Il noto detto di Gesù riportato in Mt «Ma quando fai elemosine non sappia la tua sinistra quel che fa la destra, affinché la tua elemosina si faccia in segreto» (Mt 6: 3-4), è atto ad esprimere, con semplicità ed efficacia, la concezione di Bonhoeffer;411 l'autore non attribuisce a tale affermazione evangelica l'idea di evitare il vanto che la buona opera compiuta presenta come tentazione, ma, piuttosto, si rifà al divieto genesiaco di conoscere il bene e il male, una conoscenza che farebbe dell'uomo un giudice, come Dio. Scrive Bonhoeffer: «L'uomo sa ormai che cosa sia bene e male: ciò non vuol dire che egli abbia aggiunto una nuova conoscenza alle sue precedenti, ma significa un completo rovesciamento del suo sapere che fino a quel momento era consistito nel conoscere Dio come propria unica origine».412 Per Bonhoeffer, il fine dell'etica cristiana è costituito, paradossalmente, dall'annullamento della conoscenza del bene e del male; l'uomo deve conoscere, sostanzialmente, una cosa soltanto: Dio; attraverso il suo Creatore egli deve strutturare un'epistemologia salvifica e rispettosa dei suoi limiti di creatura; scrive: «Siamo così con410
QUINZIO, Radici ebraiche del moderno, p. 141 Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), pastore protestante, teologo e docente all’università di Berlino, fu tra i protagonisti della cosiddetta Chiesa confessante contraria al nazismo. Partecipò alle attività di resistenza; arrestato nel 1943, due anni dopo entrò a Buchenwald e poi a Flossenburg dove fu impiccato. 412 BONHOEFFER, D. Etica. Milano: Bompiani, 1969, p. 14. 411
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE dotti a quella realtà che trascende il “fatto etico” e che è l’unico possibile oggetto di una “etica cristiana”: il “comandamento di Dio”».413 Il bene va compiuto perché è la volontà di Dio e perché in ciò si trova significato e riconciliazione. L'azione morale diviene così talmente pregnante, che cessa di essere una tra le molte possibilità e opzioni (il cui dominio richiederebbe riflessione, scelta, conoscenza valutativa...), ma consiste nell'unica scelta possibile, voluta da Dio. La parabola del giudizio finale (Mt 25: 31 ss) è altrettanto indicativa al riguardo: di fronte al giudizio di Cristo, i redenti si vedranno accreditare azioni morali che non sapranno di avere compiuto, sarà Gesù a rivelargliele. Soltanto Lui sarà in grado di valutare il bene ed il male, all'uomo resterà la meraviglia nel riconoscimento del bene fatto nell'incoscienza. L’etica di Bonhoeffer è situazionale poiché riattribuisce al naturale, cioè all’uomo, una valenza più ampia, in tale linea, occorre superare il conflitto tra ultimo (Parola di Dio) e penultimo (il reale); scrive: «Un’etica cristiana costruita esclusivamente sull’incarnazione condurrebbe facilmente alla soluzione di compromesso. Un’etica costruita soltanto sulla croce o sulla resurrezione di Gesù cadrebbe nel radicalismo e nello spiritualismo esaltato.»414 Significativa è anche la posizione di Bonhoeffer relativa alla sessualità, conseguenza di una visione antropologica che valorizza la corporeità: «L’uomo è un essere corporeo e lo rimane per l’eternità. Esistenza umana e vita fisica sono inseparabili. Perciò la corporeità, che Dio ha voluto come forma dell’esistenza dell’uomo, è fine a se stessa. Ciò non esclude che il corpo sia anche subordinato a uno 413 414
BONHOEFFER, Etica, p. 234. BONHOEFFER, Etica, p. 112.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA scopo superiore. Ma è importante tenere presente che tra i diritti della vita fisica c’è quello di essere conservata non solo in quanto mezzo, ma anche in quanto fine in sé.»415
Etica ed escatologia in Helmut Thielicke Thielicke,416 luterano, prende le distanze dall’impostazione dei due regni. Egli enfatizza il carattere fortemente escatologico dell’etica cristiana. Il credente si trova a vivere in una tensione tra presente e futuro, tra realtà e speranza e ciò condiziona le sue scelte morali: «L’etica ha pertanto il suo posto precisamente nella tensione fra l’eone antico e il nuovo… Il problema dell’etica risiede nel fatto che i due eoni procedono simultaneamente lungo il corso del “tempo ultimo”, il tempo cioè tra l’ascensione e l’ultimo giorno…»417
Secolarizzazione, pluralismo ed etica protestante contemporanea Abbiamo già parlato del legame tra la Riforma e la modernità, un rapporto non privo di ambiguità. I movimenti evangelici più fondamentalisti, carismatici e di risveglio, hanno denunciato tale situazione riproponendo un'attitudine di 415
BONHOEFFER, Etica, p. 131. Appare ardita, ma conseguente, la sua seguente affermazione: «Se il corpo è fine a se stesso, esiste un diritto ai piaceri del corpo senza che essi siano direttamente subordinati a uno scopo superiore. Il piacere per sua natura è guastato dal pensiero di una finalità». (BONHOEFFER, Etica, p. 131). 416 Helmut Thielicke (1908-1986), teologo e filosofo, è stato rettore dell’università di Amburgo dal 1960 al 1978, ma ha operato in diverse parti del mondo. Partecipò sotto il nazismo alla chiesa confessante da cui venne perseguitato. 417 THIELICKE, H. cit. da E. McGRATH, A. Teologia cristiana. Torino: Claudiana, 1999, p. 552.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE sostanziale rifiuto della cultura e dei valori della modernità,418 ma Lohse afferma: «...non possiamo rompere il legame fra il protestantesimo e la modernità, senza colpire il cuore stesso della spiritualità e dell’etica protestanti. Non è possibile ritornare a posizioni anteriori alla democrazia, alla libera critica, alla libertà di giudizio e di coscienza, alla presa sul serio, per ragioni spirituali, della realtà concreta sotto tutte le sue forme, senza cessare per ciò stesso di essere protestanti e, direi addirittura, cristiani.»419
Una vocazione dell’etica protestante è quella di rispettare la laicità ed il pluralismo tipici di una società secolarizzata e, nel contempo, professare delle convinzioni teologiche. Secondo Fuchs, i temi fondamentali per l’etica protestante sono: «l’impegno politico, la valorizzazione dell’aspetto economico e l’evidenziazione della forza strutturante della coppia uomo-donna per tutta la vita personale e sociale».420 Ricordiamo che una società si secolarizza quando non cerca e non trova più la sua legittimità in riferimento alla religione; la società secolarizzata moderna si caratterizza, appunto, per il pluralismo e la laicità: Il pluralismo421 è il risultato di un processo storico che ha generato una relativizzazione delle credenze che vengono collocate nel campo delle scelte private. 418
Anche Barth, che ha dominato il pensiero protestante dagli anni '20 ai '60, ha affermato che la verità teologica non tollera alcun compromesso con la cultura, per cui occorre strappare la fede dalla cattività babilonese del modernismo, del liberalismo e della filosofia. 419 LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento. 420 FUCHS, L'etica protestante, p. 99. 421 Se la legittimazione di una società non deriva più dai valori assoluti di una religione o di un’ideologia forte, non può che essere individuata grazie ad un dibattito aperto a tutti i possibili protagonisti della vita sociale.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA La laicità precisa il rapporto esistente tra una società secolarizzata con la verità, quest’ultima non viene più colta come pretesa assoluta.422 In questa società l’uomo è percepito come autonomo, libero e responsabile, e questo suo status teorico va concretamente perseguito. Il ruolo dello Stato muta: esso deve far rispettare il pluralismo ed assicurare la regolazione degli interessi divergenti dei vari gruppi sociali; non deve invadere altri campi, non spetta allo Stato dettare e imporre ciò che deve essere creduto o amato. Una società secolarizzata rifiuta il cosiddetto Stato etico,423 ma concepisce lo Stato al servizio dei diritti dell’individuo. 422
Per laicismo, invece, s’intende la radicalizzazione ideologica della laicità, un’attitudine a sua volta intollerante. Ha scritto Levi: «Ha ragione il cardinale Ratzinger di condannare quel tipo di laicismo che non crea ‘spazi di libertà per tutti’, ma degenera in una “aggressività ideologica secolare” che vuol limitare la libertà di parola del credente religioso. Un tale atteggiamento tradisce l’essenza della cultura laica, rinnega il grande insegnamento che il pensiero laico ha impartito al pensiero religioso tradizionalista, liberandolo dalle sempre presenti tentazioni fondamentaliste, insegnandoli la tolleranza e il dialogo, contribuendo alla sua crescita spirituale: tanto da rendere la Chiesa contemporanea capace di accettare “che la storia vada avanti, affrontando la difficoltà di credere in un contesto pluralista” che la rende però “libera e adulta”.» (LEVI, A. «Il Dio che esiste in noi laici», su Repubblica, 23 novembre 2004. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/11/23/il-dio-cheesiste-nelle-scelte-di.html> [3 febbraio 2009]). 423 Lo Stato etico è tipico delle grandi dittature ideologiche. In tali realtà lo stato è invadente e tende a legiferare su tutti gli aspetti della vita. L’attuale ritiro dello Stato dalla legislazione morale lascia spazio alla gestione comunitaria; gli stati riconoscono sempre più i diritti di categorie più piccole della nazione alla specificità morale e all’autodeterminazione. I diritti umani sono l’effetto della rinuncia dello Stato a certe prerogative legislative e alle sue antiche ambizioni di regolamentazione estesa e capillare della vita individuale. Lo Stato etico rivendica un ruolo di educatore che non gli spetta. All’opposto c’è lo Stato qualunquista o eticamente agnostico, che in-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Il pluralismo richiede l’esercizio della tolleranza, anche se tale valore si traduce, spesso, in indifferenza. La società moderna ha determinato un vuoto ideologico che lascia aperta la questione della verità, che però ha determinato l’emergere di altre certezze sostitutive rispetto a quelle religiose che lasciano spessissimo posto al disincanto. Oggi assistiamo anche, nella società secolarizzata, ad una crisi dello Stato liberale che di fatto è invadente ed onnipresente e tende a favorire gli interessi della maggioranza. Si pone il problema di come il protestantesimo, che ha collaborato alla nascita di questa società pluralista e liberale, possa trovare delle risposte efficaci ai problemi che l’affliggono. In primo luogo, come conciliare il rispetto dell’altro con la solidarietà;424 la Riforma ha sostenuto che non vi è libertà dove non c’è rispetto per l’altro e non vi è rispetto dell’altro dove non v’è amore, e l’amore è azione etica. Per i protestanti, il rispetto della laicità non deve essere interpretato come indifferenza nei confronti della verità; scrive Lohse: «In una società laica deve essere posta la questione della verità, senza dubbio non sotto forma d’affermazione categorica che non lascerebbe alcuno spazio alla libertà altrui, ma sotto forma d’affermazione che impegna radicalmente colui che la enuncia e
coraggerebbe un'anarchia morale. 424 Tale problematica non si pone soltanto all’interno di un singolo Stato, ma anche nel rapporto tra diverse nazioni: è il tema della cosiddetta ingerenza umanitaria. In quale misura una nazione o un insieme di nazioni possono intervenire negli affari interni di uno Stato quando si ritiene che i diritti umani fondamentali vi siano trasgrediti? Come conciliare il rispetto delle sovranità nazionali con l’interesse per le persone? E’ un problema aperto e di difficile soluzione in quanto sovente i fini di tali interventi non sono pienamente collocabili nel piano della tutela dei diritti umani.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA che, per questo, richiede il dialogo con gli altri… la verità non ci appartiene, dal momento che ci precede».425
Tale autore sostiene che sia lo scetticismo, sia il dogmatismo sono inammissibili per una vera cultura protestante.426 Nella società,427 il compito politico della Chiesa non consiste nel cercare di partecipare al potere, ma nella vigilanza dei valori etici alla base dell’ordine democratico. Essa deve impegnarsi per il rispetto delle libere convinzioni, spesso minacciate da una struttura burocratica statale senza progetto, né orizzonte, se non quelli della pura gestione della cosa pubblica. Lo Stato non deve governare in nome del Vangelo e la Chiesa non è chiamata ad essere sottomessa allo Stato in ogni situazione; la Chiesa deve ricordare allo Stato l’importanza della legge cui essa si sottomette, nella misura in cui questa non contrasti con la legge divina.
Etica protestante e rapporto uomo/donna Notevole è l’apporto di Fuchs a riguardo di questa tematica, lo riassumiamo. Il protestantesimo ha contribuito ad una maggiore giustizia nel rapporto uomo/donna in diversi modi: Ha rivalutato l’istituto matrimoniale offrendo identità sessuale alla donna.428 425
LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento, p. 82-83. Bonhoeffer ha affermato suggestivamente che il mondo è diventato adulto, cioè un mondo in cui Dio non è più percepito come necessario o evidente, una realtà che non ha più bisogno di Dio come garanzia morale: occorre vivere davanti a Dio come se Dio non esistesse. 427 In una visione protestante, la società civile viene prima dello Stato come interlocutrice politica dei credenti. 426
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Ha ridato, in particolare, valore alla sposa ed alla famiglia, ciò soprattutto nella cultura puritana.429 Con l’accettazione da parte delle chiese protestanti dei moderni metodi di contraccezione, ciò ha esteso l’uguaglianza tra uomo e donna alla vita intima della coppia.430 428
Nel medioevo, le figure femminili positive fondamentali erano la vergine casta, che rinunciava alla sessualità, e la madre, che riassumeva la sessualità nella maternità. Per altro verso la donna era percepita come tentatrice verso la virtù dell’uomo. 429 Citiamo al riguardo Fuchs, per cui la donna tra i puritani è vista come «guardiana dei valori, educatrice morale e spirituale, depositaria delle virtù e indispensabile compagna, addirittura amante, del proprio marito, la donna viene considerata infinitamente superiore all’uomo nel campo dell’affettività, dell’interiorità, dell’educazione e della morale». (FUCHS, L'etica protestante, p. 121). Nella tradizione puritana la virtù principale è costituita dal controllo di sé. Scrive Martella che «il puritanesimo andava al di là degli aspetti individualistici e faceva della capacità di dominare se stessi una virtù fondamentale che, oltre all’interesse del singolo, andasse a beneficio della collettività. Infatti, uomini e donne, comportandosi con temperanza, avrebbero reso possibile che si affermasse un sistema di vita collettiva armonioso ed integrato, basato sul rispetto reciproco… Nel talamo coniugale bisognava evitare gli estremi riguardo sia alla passione amorosa, sia all’eccitazione sessuale; fuori delle pareti domestiche, le azioni dei singoli dovevano obbedire a un codice di autodisciplina…» (MARTELLA, N. Sesso e affini. Vol. 4. Roma: Punto e Croce, 1998, p. 174175). I puritani erano aperti ad una idea di matrimonio in cui trovava posto il piacere sessuale; essi cercano di conciliare l’amore sensuale con un ideale normativo. Scrive FUCHS che «i puritani non pensavano che il matrimonio avesse come scopo principale la procreazione o la congiunzione di due patrimoni, ma che lo scopo essenziale del matrimonio consistesse nell’aiuto e nel conforto reciproco e che il piacere sensuale e sessuale fosse indispensabile per questo benessere…». (FUCHS, L'etica protestante, p. 65). 430 Scrive Fuchs: «dal momento in cui la gravidanza non è più una sorta di fatalità imposta dal partner, la responsabilità della coppia si approfondisce e quella della donna in particolare diventa fondamentale. Sta ormai a lei scegliere liberamente di diventare madre. Il figlio diviene così il frutto dell’amore e della libertà… e non costituisce più il fine “che giustifica” il matrimonio e la sessualità.» (FUCHS, L'etica pro-
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA Con una disponibilità ad offrire alle donne responsabilità ecclesiali maggiori. Gli interpreti protestanti hanno sempre manifestato, rispetto ai cattolici, una maggiore propensione ad iscrivere i testi biblici concernenti natura e funzione della donna negli specifici contesti storicosociali, ciò ha aiutato a tradurre in pratica il principio teorico dell’uguaglianza uomo/donna. Quest’attitudine può portare a «...minimizzare, addirittura di dimenticare, l’importanza strutturale di un giusto riconoscimento della differenza fra uomo e donna. Per conservare unite queste due affermazioni non possiamo accontentarci del discorso cristiano tradizionale, il quale, mentre afferma l’uguaglianza dell’uomo e della donna davanti a Dio nei loro diritti spirituali, mantiene, in nome della differenza, una subordinazione della donna sul piano sociale.»431
L’insistenza legittima sull’uguaglianza, se non accompagnata dalla valorizzazione della differenza, conduce all’isolamento, alla competizione, alla paura, sintomi del nostro tempo. Nella coppia è necessario il dialogo, «E’ la coppia che deve inventare il senso dell’identità differenziata dell’uomo e della donna. L’uguale diritto di entrambi i partner di affermare la propria identità deve andare di pari passo con l’uguale diritto di dire come ciascuno di loro percepisce l’identità dell’altro.»432 Sempre secondo Fuchs, la vera parola dialogante crea, da un lato la distanza tipica dell’interlocuzione, dall’altra collega, unisce, permette una storia a due. L’immagine biblica di base del rapporto uomo/donna è quella dell’alleanza. testante, p. 122). 431 FUCHS, L'etica protestante. p. 123. 432 FUCHS, L'etica protestante, p. 124.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE I pericoli per la coppia, nella società odierna, paiono soprattutto due: L’individualismo. Esso tende a dissolvere la coppia matrimoniale in una relazione contrattuale tra entità separate; il contratto ha come ragione l’interesse: affettivo, sessuale, economico. Nella misura in cui tale interesse viene meno anche la vita della coppia termina; l’etica evangelica non può accettare uno sbandamento individualistico. Un malessere più generico che tende a rifiutare, in nome di una visione pessimista e talvolta disperata della vita, il progetto matrimoniale, come altri progetti che presuppongono l’accettazione di un senso dell’esistenza. Fuchs sostiene: «...l’uomo e la donna di oggi devono inventare un nuovo stile che rispetti l’uguaglianza e la differenza. Ma la condizione di questa invenzione sta nell’accettare la coppia come luogo privilegiato di questa ricerca. Dalla riuscita della coppia dipende la riuscita, a livello sociale, di un nuovo stile nelle relazioni fra l’uomo e la donna. Allo stesso modo, la riuscita della vita familiare è la condizione della riuscita delle due esperienze fondamentali di ogni vita sociale: il rapporto fra libertà e autorità, da una parte, e la valutazione positiva della temporalità, dall’altra.»433
Soffermiamoci su questi due aspetti: Il rapporto tra libertà ed autorità. Esso è anche al centro del dibattito politico contemporaneo. La famiglia può essere il laboratorio positivo di tale esperienza perché in essa l’autorità parentale deve esercitarsi in vista della propria scomparsa: «in essa, il potere naturale deve imparare a diventare autorità, cioè responsabilità a far crescere la persona sulla quale si esercita il potere, farla crescere verso l’autonomia e quindi a tendere alla sua propria aboli433
FUCHS, L'etica protestante, p. 127.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA zione».434 L’autorità deve essere esercitata, per essere moralmente legittima, in funzione e per il bene di colui che la subisce. La temporalità. La vita familiare ci costringe a confrontarci su tale tema visto che si è, in successione, bambini, adulti, genitori, anziani. In essa si sperimentano tutte le relazioni col tempo; un’etica autenticamente cristiana vede nella relazione un costante rinnovamento anche spirituale in cui la morte prospetta l’ultima metamorfosi.435
La morale cattolica tradizionale Il fondamento principale della tradizione morale cattolica è l’opera di Tommaso che ha sostanzialmente cristianizzato l’etica aristotelica; per lui, la morale consiste nel movimento della creatura razionale verso Dio: «La morale è dunque quel movimento ascensionale della creatura ragionevole verso il Creatore e la contemplazione del Creatore rappresenta l’equivalente di ciò che le morali dell’antichità chiamavano il bene supremo».436 Il mezzo che porta a questo fine è costituito dalle opere morali dell’uomo. 434
FUCHS, L'etica protestante, p. 128-129. L’ossessione della morte e della vecchiaia è un carattere tipico della nostra società e costituisce un indice di povertà relazionale e di senso. Ciò che appare drammaticamente assente o carente nel nostro orizzonte è proprio il senso, manca la risposta ai grandi perché, manca un motivo onnicomprensivo e sintetico per esistere e per riempire il tempo. Non c’è da stupirsi del fatto che, se è il tempo il grande imputato dell’infelicità dell’uomo moderno che coglie con sgomento il suo accelerare senza un dove, sia proprio un nuovo senso del tempo ad offrirsi, dall’oriente e dal passato, agli eredi del pensiero ebraico-cristiano come consolazione per il loro dramma. Nel pensiero ebraico-cristiano si spezza la ciclicità del tempo, una parola che nello spazio significa lontano e nel tempo significa ultimo: è l’eschaton, il tempo dove solo alla fine si chiarisce il fine di tutto, dove la storia ha senso. 436 MEHL, Morale cattolica e morale protestante, p. 23. 435
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE L’intelligenza è sorretta dalla libera volontà e, solo secondariamente, dalla sensibilità; il peccato è un habitus cattivo, non adatto all’uomo ragionevole. La legge di Dio costituisce il principio esterno ed immutabile della moralità umana; l’uomo è in grado di conoscerla, in quanto essa è scritta nella ragione umana, è la legge naturale. La grazia divina sorregge l’uomo nell’adempimento del suo destino: «da un lato l’azione morale scaturisce dalla realtà interiore dell’uomo e ne esprime la spiritualità e la libertà. D’altro lato essa è determinata da norme esterne e oggettive e riceve il suo orientamento da un fine supremo che agisce sulla libertà senza costringerla, poiché si tratta della libertà di un essere ragionevole che, essendo creato tale, è di norma predisposto a questo fine supremo.»437
Il cattolicesimo e la secolarizzazione La Chiesa cattolica non ha mai pienamente accettato il processo della secolarizzazione. Secondo Mehl: «...la secolarizzazione appare dunque come un processo di dissociazione fra le due società, la civile e la religiosa; questa dissociazione è stata accompagnata da un allargamento costante dei poteri e delle funzioni sociali della società civile e dello stato… le Chiese si sono trovate respinte, di fatto ed in virtù di disposizioni giuridiche, nel campo dello spirituale, della cura d’anime, dell’organizzazione cultuale.»438
437 438
MEHL, Morale cattolica e morale protestante, p. 25. MEHL, Morale cattolica e morale protestante, p. 58.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA Il cattolicesimo si è aperto a tale fenomeno, considerato però sempre negativo, per un’esigenza tattica, sulla base della sua tradizionale capacità di adattamento.439 Jean Daniélou, manifesta la non accettazione cattolica di una civiltà puramente secolarizzata, con le seguenti motivazioni: «...mi sembra impossibile considerare che una civiltà sia veramente umana quando manchino in essa i valori religiosi; tali valori mi sembrano essenziali per la civiltà stessa, cioè una civiltà in cui i valori religiosi sono assenti è una civiltà inumana, in cui l‘uomo non è rappresentato nella sua interezza. Intendo religioso in un senso molto generale… non tanto riferito alle religioni esistenti, quanto a una certa dimensione primaria di ogni uomo, di cui d’altronde l’unica interpretazione pienamente valida si trova in Gesù Cristo.»440
Solo i cattolici dunque sarebbero capaci di cogliere il senso della vita. In concreto, il rifiuto della secolarizzazione si esprime sul piano dell’etica pubblica combattendo la laicità politica e della scuola; sul piano individuale si concentra sulla sessualità e la bioetica.
439
Il sistema dei concordati con gli stati liberali significa il riconoscimento implicito della secolarizzazione, un male minore attraverso cui la Chiesa cerca di ottenere il maggiore numero di privilegi. Le intese delle confessioni protestanti con lo Stato italiano rispondono alla medesima logica e sono considerate dagli evangelici come una sorta di legittima difesa contro l’invadenza della Chiesa cattolica. Noi riteniamo che meglio sarebbe stato per la Chiesa avventista non seguire tale percorso ed attenersi in modo più rigoroso al principio della separazione tra Chiesa e Stato. 440 DANIÉLOU, J. ; BOSC, J. L’Eglise face au monde. Paris: La Palatine, 1966, p. 99.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
Tendenze attuali dell’etica cattolica Il confronto attuale con l’etica laica registra una forte difficoltà perchè la morale cattolica solo in teoria è univoca ma, in pratica, presenta diversi volti e proviene da diverse fonti di autorità. Nell’ultimo ventennio, è risultata particolarmente significativa la posizione che l’allora cardinale Ratzinger, ora papa Benedetto XVI, ha espresso nel famoso Rapporto sulla fede441 (1985). Per lui, la morale è in netta crisi;442 la colpa è primariamente dell’influenza del liberalismo occidentale, moralmente permissivo; torna la tesi della condanna della modernità come pervertitrice degli autentici valori. Il campo elettivo di tale perversione è quello della sessualità: rottura del legame tra sessualità e maternità/procreazione;443 nella sessualità l’uomo moderno ricercherebbe essenzialmente il piacere provocando la rottura dei «legami naturali fondamentali» ed elimi444 nando ogni riferimento oggettivo.
441
Ratzinger, l’attuale papa, è da decenni una voce ufficiale importantissima della teologia e della pietà cattoliche. Il libro riporta una sua intervista con Messori, noto giornalista e scrittore cattolico, il tema è quello del compito della morale cattolica contemporanea. Ved. MESSORI, V.; RATZINGER, J. Rapporto sulla fede. Cinisello Balsamo [Milano]: Ed. Paoline, 1985. 442 Significativamente, il titolo del capitolo dedicato all’etica è «Il dramma della morale». 443 Afferma Ratzinger: «Separato dal matrimonio, il sesso è restato senza una collocazione, si è trovato privo di punti di riferimento; è diventato una sorta di mina vagante, un problema e insieme un potere onnipresente». (MESSORI; RATZINGER, Rapporto sulla fede, p. 84). Importante il riferimento all’introduzione dei nuovi metodi di fecondazione artificiale. 444 «Ciascuno è libero di dare il contenuto che crede alla sua libidine personale. E’ dunque naturale che si trasformino in diritti del singolo tutte le forme d’appagamento della sessualità.» (MESSORI; RATZINGER, Rapporto sulla fede, p. 85).
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA Per Ratzinger, è particolarmente grave l’attitudine dei teologi che cercano compromessi con la modernità; scrive: «Ecco dunque la pesante alternativa: o la Chiesa trova un’intesa, un compromesso con i valori accettati dalla società alla quale vuole continuare a servire, oppure decide di restare fedele ai suoi valori propri… ed allora si trova spiazzata rispetto alla società stessa.»445 Viene confermata anche la rigida chiusura della Chiesa cattolica al divorzio.446 Lohse afferma, a commento delle tesi di Ratzinger: «...questa visione della morale si fonda quindi su due elementi principali: la certezza che la morale moderna, per avere rotto i ponti con la morale tradizionale, non può finire che in catastrofe, e l’assicurazione che l’individuo non può accedere con le sue forze ad una morale autentica, se non accettando la morale insegnata dal magistero. Quanto a quest’ultima, appare chiaramente che per Ratzinger essa è fondata sull’idea che il Creatore ha fissato una morale oggettiva nelle sue creature e che l’uomo, illuminato dalla rivelazione e dall’insegnamento della Chiesa, ha il compito di scoprirla e di applicarla.»447
Giovanni Paolo II, a sua volta, ha manifestato una costante delegittimazione dell’indipendenza dello Stato, cedendo all’antica tentazione di imporre le proprie verità attraverso braccio secolare. Scrive Paolo Flores d’Arcais: «Karol Wojtyla non ha, infatti, detto che l’aborto è contrario alla fede, dunque costituisce peccato e ne va della vita eterna. Ha detto
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MESSORI; RATZINGER, Rapporto sulla fede, p. 87-88. Ricca ha invece scritto che certamente Dio chiama la coppia ad un’unità coniugale duratura, che «ciò che Dio ha unito, Dio non lo separa. Questo non significa però che tutte le unioni tra un uomo e una donna, solo perché avvengono, sono automaticamente volute da Dio.» Cit. da LONG, Protestanti e sessualità, p. 41. 447 LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento, p. 88. 446
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE che ogni parlamento che voti in difformità da questa convinzione è fuori della democrazia, quindi illegittimo. Che la legittimità democratica coincide solo con una legislazione –come tale coercitiva per credenti e non credenti– in sintonia con la morale della Chiesa.»448
La posizione di Ratzinger non è condivisa unanimemente dai teologi cattolici, alcuni dei quali sostengono che il Vangelo non interviene nei contenuti della morale (che dipendono dalla cultura e dalla storia), ma semmai a livello delle motivazioni; per essi, la morale sarebbe dunque autonoma e non esisterebbe, di conseguenza, una morale cristiana.449 Scrive il domenicano Jean-Pierre Jossua, a commento di tale posizione:
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FLORES D’ARCAIS, P. «Dio esiste?», su Micromega 2/2000, Roma, p. 32. A quest’affermazione di Flores, Ratzinger ha risposto: «Motivo per tale affermazione sarebbe il riferimento al fatto che il papa ha definito le leggi che permettono l’aborto e l’eutanasia prive di un’autentica validità giuridica. Perciò, chi si mette contro un parlamento eletto e cerca di esercitare un potere mondano con pretese ecclesiastiche dimostra che il suo pensiero resta essenzialmente improntato dal sigillo del dogmatismo cattolico. Tali affermazioni presumono che non ci possa essere nessun’altra istanza al di sopra delle decisioni di una maggioranza. La casuale maggioranza diviene l’assoluto. Così l’assolutismo, l’infallibile è di nuovo presente. Siamo abbandonati alla signoria del positivismo e all’assolutizzazione del caso, anzi del manipolabile…» (RATZINGER, J. «Quid est veritas?», su Micromega 3/2000, Roma, p. 212). 449 Secondo Ratzinger: «nell’attuale dibattito sulla natura propria della moralità e sulle modalità della sua conoscenza, la questione della coscienza è divenuta il punto nodale della discussione, soprattutto nell’ambito della teologia morale cattolica». (RATZINGER, J. La Chiesa. Una comunità sempre in cammino. Cinisello Balsamo [Milano]: Ed. Paoline, 1991, p. 113). L’autore riconosce che nel mondo cattolico esistono al riguardo due sensibilità diverse: una per una morale più oggettiva, l’altra che simpatizza per un orientamento più soggettivo dell’etica cattolica; la Chiesa è ufficialmente vicina al primo indirizzo.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA «Ci si colloca dunque da qualche parte fra la morale classica, nella quale imperativi e interdetti immutabili indicavano la strada… e la “morale della situazione” che potrebbe e dovrebbe continuamente inventarsi nel senso forte del termine. Tale è l’etica agli occhi dei nostri contemporanei e io non vedo affatto perché vi sarebbe un’opposizione fra questo modo di pensare e di condurre la propria vita e la fede cristiana.»450
E’ una tesi evidentemente opposta a quella di Ratzinger, anche se minoritaria. Tra le due posizioni, in ambiente cattolico, esiste tutto un vastissimo spettro di distinzioni e enfatizzazioni, sia sul piano ideale che pratico. Ancora ci pare utile riportare alcuni estratti di un’intervista, dell’autunno del 2003, del noto teologo dissenziente Küng molto critica sul pontificato di Giovanni Paolo II; afferma Küng: «La credibilità di quest’ultima (la Chiesa, ndr)… è scesa al minimo, a causa della politica romana… Invece delle parole programmatiche del Vaticano II, “aggiornamento-dialogo-collegialitàapertura ecumenica”, egli ha dato le parole d’ordine, “restaurazione-magistero-obbedienza-romanizzazione”… sotto questo papa è stato costruito un sistema rigido e centralistico, con un profluvio di prescrizioni e di divieti, che uccide ogni vita dentro la Chiesa. Sotto di lui, la Grande Nave è tornata a essere una galera medievale di minorenni che, come nel periodo pre-conciliare, non hanno nulla da dire, ma devono soltanto obbedire, pregare, pagare e soffrire… L’eredità di questo papa saranno in primo luogo i tanti vescovi ultra-conservatori, incapaci e non amati, che lui e il suo apparato hanno nominato.»451 450
JOSSUA, J.-P. La foi en questions. Paris: Flammarion, 1989, p. 119. Citato da LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento, p. 91. 451 Intervista a Hans Küng, PAOLO, V. « Solo divieti, la Chiesa sta perdendo il suo popolo», su Corriere della Sera, 15 ottobre 2003, p. 17.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Anche il pontificato di Ratzinger, come il precedente, sta manifestando un’attitudine rigida sulle questione etiche; il discorso di Benedetto XVI tenuto (2006) ai parlamentari del Partito Popolare europeo era intitolato «Via, famiglia, educazione: non negoziabili», ed esprimeva chiaramente la sua volontà di premere sui legislatori per ottenere un riconoscimento formale della visione etica cattolica nelle nazioni europee: «Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, l’interesse principale dei suoi interventi nell’arena pubblica è la tutela e la promozione della dignità della persona e quindi essa richiama consapevolmente una particolare attenzione sui principi che non sono negoziabili. Fra questi ultimi, oggi emergono particolarmente i seguenti: tutela della vita in tutte le sue fasi… riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia… tutela dei diritti dei genitori di educare i propri figli... l’azione della Chiesa nel promuoverli non ha dunque carattere confessionale, ma è rivolta a tutte le persone, prescindendo dalla loro affiliazione religiosa…»452
Il richiamo ai non-cattolici e al dovere delle Chiesa di regolamentare anche la loro vita manifesta la mancata distinzione tra peccato e reato, tipica della cultura tradizionale cattolica.
<http://archiviostorico.corriere.it/2003/ottobre/15/Solo_divieti_Chiesa_sta_perdendo _co_0_031015048.shtml> [4 febbraio 2009]. Ancora lo stesso autore afferma: «Le particolari questioni controverse che ridividono da questo papa riguardano i problemi interni della Chiesa e soprattutto la sorprendente contraddittorietà tra la politica estera e quella interna di questo papa. La politica estera sta nel segno dell’impegno mondiale in favore dei diritti umani, della libertà e del riconoscimento degli altri. La politica interna, a mio avviso, sta sotto il segno della repressione della libertà di opinione, dell’inquisizione, del disprezzo delle donne, del costante impedimento opposto alla soluzione delle questioni controverse… la Chiesa romanocattolica dà attualmente l’impressione di una dittatura spirituale. In essa non viene tollerato chi sia di diversa opinione.» (KÜNG, Perché un’etica mondiale?, p. 39, 42). 452 Citato da LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. V-VI.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA
L’etica fondamentalista La morale fondamentalista fa riferimento alle norme morali che pretendono di trovare ispirazione direttamente nella Scrittura e di esserne la trascrizione fedele, se non addirittura letterale.453 Leggiamo in un fondamentale documento evangelicale sulla Scrittura: «Crediamo che le Sacre Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento siano la Parola di Dio ispirata ed inerrante. Crediamo che la Bibbia, così come è stata data attraverso gli umani agenti di rivelazione, sia infallibile e consideriamo ciò come un decisivo articolo di fede con implicazioni per tutta la vita e la pratica di tutti i cristiani… affermiamo la nostra fiducia nella totale veracità delle Scritture ritenendo che qualunque concezione che attribuisca ad esse un grado d’inerranza inferiore a quello totale sia in conflitto con la testimonianza della Bibbia, in generale, e, in particolare, con l’insegnamento di Gesù Cristo…»454
Qui l’autorità ufficiale è quella della Bibbia, ma in realtà si tratta di una particolare interpretazione della Scrittura.455 In realtà, nella Scrittura sono presentate diverse sensibilità morali, differenti modi di presentare come la fede susciti la responsabilità etica,456 occorre porre le diverse situazioni storiche, di cui la Scrittura è testimone, nel loro contesto. 453
Essa è proposta dagli ambienti fondamentalisti e in primo luogo dalla cosiddetta moral majority negli Stati Uniti. 454 Dalla Dichiarazione di Ligonier sull’autorità della Scrittura; BOLOGNESI P. (a cura di). Dichiarazioni evangeliche. Bologna: EDB, 1997, p. 46. Vedere anche la Dichiarazione di Chicago sull’ermeneutica biblica in ibidem, p. 177 ss. 455 Il testo biblico è usato come un complesso di insegnamenti atemporali, fondandosi sul principio dell’inerranza della Bibbia in tutti i suoi dettagli, senza una riflessione adeguata sulla distinzione dei domini, sui generi letterari, sulla contestualizzazione, sul senso dell’ispirazione, ecc… 456 Si pensi alla violenza veterotestamentaria motivata esplicitamente con la volontà
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE In nome di una presunta fedeltà letterale al testo biblico, non è giusto né opportuno non prendere sul serio la realtà concreta; ci pare illuminante l’invito di Gesù a considerare che «l’uomo non è fatto per il Sabato, ma il Sabato per l’uomo». La pietà evangelica è, su questo punto, abbastanza ambigua: c’è una difesa impropria della letteralità del testo biblico, ma una flessibilità pragmatica sul piano dei comportamenti, dove, di fatto, esiste un riconoscimento dei condizionamenti culturali.457
Alcune conclusioni per una moderna etica protestante Nell’attuale società secolarizzata la specificità dell’etica protestante ci pare consista nel rifiuto sia del ripiegamento su una posizione autoritaria e clericale, sia dell’accettazione passiva delle esigenze di una società che cerca legittimazioni morali a comportamenti utilitaristici. Scrive Jean-Francois Collange: «...l’etica protestante è innanzi tutto un’etica della responsabilità… Posta sotto il segno della responsabilità, e dunque dell’ascolto, divina e la fede dei profeti che chiedono giustizia e rispetto per i deboli; si pensi all’etica matrimoniale che attraversa la Bibbia; al rapporto con la società e la politica, ecc… 457 Un aspetto di tale ambiguità è offerto dal fatto che se da un lato l’avventismo mondiale riconosce ufficialmente un unico Manuale di Chiesa, dall’altro, concretamente, lascia che diverse sue indicazioni siano disattese riconoscendo quindi una sorta di autorità culturale locale. C’è da chiedersi se non sarebbe più chiaro avere un Manuale con due parti distinte, una uguale per tutti, l’altra definita dai vari campi sulla base della loro specifica sensibilità etico-religiosa. L’assemblea della CG del 2000 ha iniziato comunque a muoversi lungo quest’indirizzo, anche se attraverso una diversa impaginazione del Manuale: una serie di indicazioni da considerare con flessibilità sono state, infatti, trasportate dal testo alle note in calce e lasciate, di fatto, alla gestione dei campi locali. Riteniamo sarebbe opportuna una maggiore chiarezza e l’affermazione esplicita di ciò che si vuole comunicare di fatto.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA l’etica protestante si trova anche nel campo dell’interpretazione e della discussione. Essa non si considera come l’esecutrice servile degli editti piovuti dal cielo, ma è forgiata dalla paziente ed incessante ricerca della verità etica.»458
Si ribadisce l’imperativo del Sola Scriptura, ma nel rifiuto del modello fondamentalista. Si tratta di definire la natura del funzionamento dell’autorità biblica in campo etico, dando anche ragione delle frequenti contraddizioni presenti nel testo sacro in relazione alla morale. Confermiamo la nostra convinzione che la Bibbia non offra una risposta a tutti i problemi, al contrario di quanto si sostiene sovente, e tanto meno una risposta univoca.459 Afferma Lohse che «il NT non conosce il concetto d’etica, ma conosce invece bene il dovere di riflettere sulla condotta morale e di indicare di volta in volta come deve risultare un comportamento ad essa corrispondente».460 E’ indicativo l’episodio evangelico di Lc 10: «che cosa occorre fare per ereditare la vita eterna?» (10: 25-28), Gesù rinvia all’osservanza della Legge divina riassunta nel duplice precetto dell’amore per il prossimo e per Dio. Prima di fare, occorre essere in relazione con gli altri; occorre divenire prossimi e figli di Dio; occorre dunque riflettere sulle condizioni che alla base dell’emergere della domanda etica. Per la Bibbia, la domanda etica dipende da una promessa di Dio; in Gn 2 il comando divino relativo all’albero è legato ad una promes458
COLLANGE, J.-F. «Bioetica e protestantesimo», su Diritti umani e bioetica. Roma: Sapere 2000, 2000, p. 65. 459 Fuchs così commenta le motivazioni alla base di tale attitudine apologetica: «… questa posizione apologetica –“la Bibbia ha una risposta a tutti i vostri problemi”– dipende, secondo me, più dalla psicologia che non dalla teologia…». (FUCHS, L'etica protestante, p. 100). 460 LOHSE, Etica teologica del Nuovo Testamento, p. 14.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE sa; lo stesso modello torna nel decalogo dove la legge è motivata dall’azione liberatrice di Dio; Israele è reso consapevole del fatto che l’esigenza etica lo costituiva popolo sia della promessa sia della responsabilità. Gesù conferma costantemente questo indirizzo: solo con la conversione la promessa della vicinanza di Dio si può attuare; tutta la Bibbia invita a considerare l’esigenza etica come il frutto di una promessa, di una grazia. Essa c’impegna al riconoscimento ed alla riconoscenza prima di esigere delle decisioni. La Bibbia chiede all’uomo di riconoscere tre cose: 1. la priorità della creazione divina, del fatto che egli è creatura e non la ragione della propria origine; è, di conseguenza, dall’altro che il singolo riceve il diritto di esistere; 2. l’interdipendenza, evidenziata specificamente nella sessualità; questa si manifesta nel compromesso tra somiglianza e differenza;461 ricordiamo che «per la teologia protestante non esiste il matrimonio cristiano, ma un modo cristiano di vivere il matrimonio: non sacramento come per la chiesa romana, ma evento di importanza cruciale nell’esperienza e nella progettualità umana»;462 3. la responsabilità umana di offrire risposte. Quindi, alla domanda su quale sia l’autorità della Scrittura in materia di morale, si può rispondere che essa si esprime in primo luogo nella riflessione circa la nostra situazione di esseri umani. L’esigenza etica, espressione della promessa di Dio, comincia sempre col rinviare l’uomo alla sua relazione con Dio e con l’altro; 461
Scrive Long: «Nella relazione con lui, con lei, riconosco il mio “limite”, la mia dipendenza, ma anche l’ambito della mia libertà. E’ proprio questo intreccio di dipendenza e libertà che fonda un rapporto non fusionale, non possessivo». (LONG, Protestanti e sessualità, p. 11). 462 LONG, Protestanti e sessualità, p. 34.
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ALCUNE NOTE DI ETICA PROTESTANTE ED ETICA CATTOLICA prima di chiedersi cosa fare, si deve accettare di essere esposti dalla legge divina all’appello dell’Altro. Una volta accettata tale premessa, ci si può rivolgere al contenuto dell’esigenza etica cristiana che si sviluppa essenzialmente su due modelli: uno negativo e uno positivo. Secondo il modello negativo, si definisce uno spazio entro dei limiti estremi: ad es. il decalogo. Entrambe le due tavole della Legge possono essere riassunte da un’interdizione fondamentale: la prima all’idolatria, la seconda all’omicidio: tali limiti definiscono lo spazio della libertà umana. Secondo il modello positivo, occorre, per fare il bene, accettare la metanoia, l’avvicinamento a Dio; amare significa rispondere a Dio che si fa vicino, nel prossimo.463 Scrive Fuchs: «...il modello biblico, parlando dei comandamenti di Dio, della legge morale, non intende tanto dirci “quello” che dobbiamo fare, quanto piuttosto mostrarci “come” dobbiamo agire per comprendere in tutta la sua verità quello che dobbiamo fare. Il “ben fare” dipende assolutamente dal modo di riconoscere la giustezza delle regole che definiscono il rapporto dell’uomo all’Altro (Dio e prossimo).»464
L’esigenza etica, nella sensibilità protestante, è appello alla fede, all’amore ed alla speranza. Da sottolineare che, se è vero che non esiste un magistero protestante simile a quello cattolico, è altrettanto vero che il protestante non ricerca la verità etica in modo solitario, ma all’interno della comunità ecclesiale.465 463
Il testo evangelico più significativo a supporto di questa visione è la parabola del buon samaritano. 464 FUCHS, L'etica protestante, p. 108. 465 Scrive Collange che «… le chiese esistono in quanto comunità, ovvero come luoghi di condivisione e di formazione della responsabilità di ciascun individuo».
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO Definizioni e problema Possiamo definire come morale religiosa quell’insieme di norme di giudizio e di comportamento che s’ispirano al credo di una tradizione religiosa; la morale laica tende, al contrario, a fondarsi soltanto sui dati della ragione.466 L’accusa costante del mondo religioso al costume laico/secolare è quella di relativismo morale, dove per relativismo si può intendere, secondo Tugendhat, «la constatazione di una molteplicità di convinzioni morali reciprocamente contraddittorie… che avanzano ciascuna una propria pretesa assoluta».467
L’etica laica Secondo il cattolico Corradi, «...con l’espressione “etica laica” si intende l’etica razionale, cioè la concezione che sostiene la morale della responsabilità basandosi sulla ragione. Questa caratteristica differenzia l’etica laica tanto da quella rivelata che si fonda sulla fede, quanto da quella laicista che sostituisce la morale della responsabilità con quella dell’arbitrio.»468
466
Per Pirani il «laicismo è problematicità contrapposta ad assoluto, dubbio sistematico contrapposto a certezza aprioristica, storicismo agnostico contrapposto a finalismo etico». (SCALFARI, E. (a cura di). Dibattito sul laicismo. Verona: Mondadori, 2005, p. 49). 467 Citato da FRANCO, Etiche possibili, p. 18. 468 CORRADI, Le ragioni dell’etica. Oltre la cultura del frammento, p. 113.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Certamente, legare l’etica all’esistenza di un Dio rivelato comporta che essa sia possibile solo per una parte limitata dell’umanità. La storia dell’etica moderna è un tentativo di fondare un’etica oggettiva, razionale, empirica, cioè laica.469 Nessuna delle più comuni teorie della morale laica, fondata sulla ragione, è esente da critiche; di fronte a questo, si sono presentate ultimamente tre possibili soluzioni: 1. L’appello all’evidenza (o intuizionismo etico). Scavalca la ragione (ultrarazionale). 2. Il relativismo assoluto secondo cui i giudizi di valore sono espressioni di emozioni, sentimenti, preferenze, opzioni, tra loro equivalenti. Deprime la ragione (infrarazionale).470 469
I tentativi essenziali sono stati quattro: 1. Il giusnaturalismo moderno fondato da Grozio, secondo cui la natura dell’uomo è la ragione. Dalla natura deriva ogni legge; un’azione è morale se si accorda con la natura razionale dell’uomo. Le leggi positive devono regolare i comportamenti. Il limite più evidente di tale visione sta nel fatto che resta da dimostrare che tutto ciò che è naturale sia buono. Ci si basa sull’idea che la natura sia l’emanazione di una volontà buona, ma così si reintroduce un argomento teologico e fideistico. 2. L’etica induttiva il cui argomento fondamentale per dare oggettività ai giudizi di valore è il consensus umani generis, cioè la constatazione che una certa regola di condotta è comune a tutte le genti. Due obiezioni appaiono però significative: vi sono realmente leggi universali? Inoltre vi sono leggi che sono state in vigore per secoli senza che per questo possano essere serenamente accettate come morali. 3. La teoria kantiana cui accenneremo in seguito. 4. L’utilitarismo. Il dato oggettivo su cui si fonda sono le sensazioni di dolore e di piacere; da cui la tesi per cui il criterio per distinguere il bene dal male è rispettivamente la quantità di piacere e di dolore che un’azione procura. Le difficoltà sono diverse e ciò ha spinto verso il cosiddetto utilitarismo della regola secondo cui il problema non è più quale azione ma quale norma sia più utile. 470 Ci sembra sostanzialmente la posizione di Lecaldano quando afferma che «un’etica senza Dio può riconoscere senza reticenze l’origine naturale della morali-
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO
3. L’affermazione che la sfera dei giudizi morali sia quella del non razionale, ma del ragionevole in cui valgono gli argomenti propri della retorica, o arte del persuadere, distinta dalla logica, o arte della dimostrazione. Limita la ragione (quasi-razionale). Eugenio Lecaldano significativamente porta avanti le ragioni di un’etica atea: «nel corso del XX secolo si è andata sviluppando una linea di pensiero secondo cui non solo non è vero che senza Dio non può darsi l’etica, ma anzi è solo mettendo da parte Dio che si può realmente avere una vita morale. Solo colui che è agnostico o ateo può effettivamente porre al centro della sua esistenza le richieste dell’etica… l’ateismo è la cornice concettuale più favorevole all’affermarsi di una moralità.»471
Secondo l’argomentazione di tale filosofo, «...l’orizzonte per le nostre decisioni etiche dovranno essere i sentimenti, le reali esigenze degli altri esseri umani… il non credente non ha bisogno di risalire a Dio, né sperare in un’altra vita in cui la sua condotta morale trovi il giusto premio. Egli può far ricorso semplicemente alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, alla ragione e alle pratiche riflessive che gli sono abituali. Il premio per la sua condotta morale deriverà principalmente dalla consapevolezza di avere fatto ciò che è bene, giusto e doveroso.»472
L’etica religiosa I limiti della ragione in campo etico rilanciano continuamente le spinte a fondare l’etica sulla religione, ma c’è da chiedersi se l’etica relità e rintracciare le sue radici in un nucleo di sentimenti ed emozioni molto umane e terrene, piuttosto che nella sua pretesa origine divina». (LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. 27). 471 LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. XI. 472 LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. XII, 45.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE giosa non vada incontro ad obiezioni analoghe a quelle che si rivolgono all’etica laica. L’etica religiosa afferma, comunque, che la fede è, complessivamente, un fattore positivo per l’etica; alla domanda di come concepire l’esistenza senza la fede, Elie Wiesel ha risposto: «Il mondo ne ha avuto esperienza evidente e recente: gli orrori del secolo appena terminato sono stati perpetrati da una dittatura pagana come il nazismo ed atea come il comunismo. Questo non vuole dire ovviamente che in nome di Dio non siano state commesse delle mostruosità: è lunga la lista dei credenti che si sono macchiati di infamie. Tuttavia l’assenza programmatica di un Dio, o quanto meno l’illusione di combatterne la presenza, porta sistematicamente all’orrore.»473
Scrive Gustavo Zagrebelsky che, per la Chiesa, «...solo i credenti sarebbero capaci di “senso della vita". La vita eterna promessa da Dio ai suoi fedeli dà un significato alla loro vita mortale. Se tutto si consuma quaggiù, senza premi e punizioni lassù, allora una cosa vale l’altra… Ecco allora il relativismo, l’indifferentismo, l’egoismo, il puro calcolo di utilità, la sopraffazione, la disperazione, il non-senso della vita: in breve, l’impossibilità di una morale esistenziale e, dunque, di una vita rivolta al bene piuttosto che al male.»474
Come conferma Lecaldano,
473
Intervista a Elie WIESEL, MONDA, A. «La religione degli americani/6», su La Repubblica, 3 marzo 2004, p. 39. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2004/03/03/la-religionedegli-americani-parla-elie.html> [3 febbraio 2009]. 474 ZAGREBELSKY, G. «Cosa pensa la Chiesa quando parla di dialogo?», su La Repubblica, 10 gennaio 2007, p. 23. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/01/10/cosa-pensala-chiesa-quando-parla-di.html> [4 febbraio 2009].
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO «...se la certezza e l’assolutezza di tali valori discendono direttamente da Dio e dalla natura, allora diventa ovvio per coloro che sostengono questa idea richiedere con forza e senza tregua che non solo la vita privata delle persone sia ispirata a tali valori discrezionalmente, ma che siano le leggi dello Stato a imporli a tutti i cittadini.»475
L’etica religiosa si sviluppa lungo due direzioni opposte: Il volontarismo teologico, secondo cui è giusto ciò che è comandato da Dio ed ingiusto quello che è da Lui proibito. La tesi secondo cui Dio comanda ciò che è giusto e quindi il criterio morale non è la volontà di Dio, ma la sua natura che essendo buona non può comandare azioni ingiuste. Risultano evidenti i limiti di tali posizioni che creano dei circoli viziosi, logicamente insuperabili. Occorre poi sottolineare che la ragione profonda del legame tra morale e visione religiosa del mondo non sta tanto nell’esigenza di fondare la morale, quanto in quella più concreta di favorirne l’osservanza.476 Gli appelli del Dio biblico, ad esempio, servono di solito non tanto per giustificare l’esistenza di norme di condotta obbligatorie, quanto per indurre coloro cui sono destinate a non violarle; cioè Dio è visto più come giudice che come legislatore.477 Per ottenere l’osservanza di precetti morali occorre altro che la loro giustificazione razionale, l’esperienza mostra che occorre un quadro sanzionatorio e/o deterrente. 475
LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. IX. I giuristi, infatti, distinguono tra la validità teorica di una norma e la sua efficacia. 477 Ci pare che, nelle pagine bibliche, conti spesse volte più l’attitudine di ubbidienza alle norme divine (cioè il tipo di relazione uomo/Dio) che il carattere di merito delle norme medesime; nel senso che la prima ha un valore assoluto, mentre le norme sono flessibili e legate, in parte, alle circostanze di tempo e di luogo. 476
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE In questo quadro si colloca anche il timore di Dio, che di fatto è una forma di intimidazione proporzionata al grado ed al tipo di sensibilità religiosa degli interessati. In definitiva, spesso, la vera ragione dell’ancoraggio della morale ad una visione religiosa non sta nell’esigenza di dare un fondamento assoluto alla morale, ma nel bisogno pratico d’imporne con più forza l’osservanza: Dio come giudice, più che come legislatore. Ma chi crede che la moralità sia fondata su comandamenti divini «...non ha difficoltà a convincersi che tutto ciò che ne fa parte deve essere imposto a tutti, anche a coloro che non credono nel suo Dio o in generale in Dio… l’atteggiamento di chi crede che la propria morale derivi da Dio non può che essere impositivo e intollerante e numerose sono le situazioni del passato che documentano la ricaduta pubblica di tale concezione.»478
Il confronto tra etica laica ed etica cristiana Per il cattolico Enzo Bianchi, «...per ragioni storiche e di memoria comune, laici e cristiani dovrebbero invece tentare insieme nuove aperture e insieme inventare “vie di senso”, dando spazio –per usare un’espressione di Paul Ricoeur– alla “ospitalità delle convizioni”. Sì, uomini di “buona volontà” (come si diceva nell’ora del Concilio), “uomini pensosi” (come si preferisce dire oggi), credenti e laici devono insieme cercare cosa significa essere responsabili del mondo, della terra, della storia; devono sapersi interrogare reciprocamente, restando esigenti gli uni verso gli altri contro l’irrazionalità, la superstizione, la magia e i sincretismi melliflui; devono insieme smascherare quelle saggezze esotiche che vorrebbero salvare l’uomo dissolvendolo, e insieme denunciare ogni voracità religiosa e quel fondamentalismo di
478
LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. 23-24.
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO cui a volte è tentata di rivestirsi la “parola forte” che trascende l’uomo; devono praticare la vita interiore come approfondimento dell’uomo e come mezzo per leggere la propria e l’altrui esistenza; devono insieme cercare la giustizia e la pace e “saper ascoltare il grido di tanti popoli poveri del mondo”…»479
Scrive Umberto Galimberti che «l’etica laica, che è tale proprio perché non si fida molto della provvidenza di Dio, dovrebbe farsi carico anche di quei problemi che l’etica religiosa affida alla provvidenza e non abdicare».480 Per tale autore, dunque, l’etica dei laici dovrebbe sentire una responsabilità ancora maggiore di quella dei religiosi, in quanto si trova senza il supporto dell’autorità e della provvidenza divine che suggeriscono alla fede di accettare anche l’inspiegabile.481
Il conflitto attuale tra Stato e Chiesa in Italia Siamo ormai di fronte ad contrasto tra due poteri, Stato italiano e Chiesa cattolica, non governabile con le tradizionali categorie della legittimità, o meno, dell’ingerenza delle gerarchie ecclesiastiche in riferimento al Concordato. Il terreno del conflitto è quello dei diritti fondamentali della persona legati soprattutto all’innovazione scientifica in campo biomedico.
479
BIANCHI, E. «Quell’altro che ci avvicina», su Avvenire, 15 luglio 2001. <http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna//010715g.htm> [4 febbraio 2009]. 480 GALIMBERTI, U. «Legge di Dio e Stato etico», su La Repubblica, 3 febbraio 1997. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/02/03/leggedi-dio-stato-etico.html> [3 febbraio 2009]. 481 Sulla stessa linea, Lecaldano sostiene che «legare l’osservanza della morale a una vita futura… mostra ancora una volta l’incapacità a reperire lo spazio per una condotta mossa da motivazioni effettivamente etiche». (LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. 20).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Il conflitto emerge dalle ultime prese di posizione della Chiesa; Benedetto XVI ha indicato una serie di valori non negoziabili e che impongono ai legislatori cattolici di «...presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondanti della natura umana;»482 la Pontificia Accademia per la vita ha «raccomandato una coraggiosa obiezione di coscienza» a tutti i credenti, e in particolare a «medici, infermieri, farmacisti e personale amministrativo, giudici e parlamentari ed altre figure professionali direttamente coinvolte nella tutela della vita umana individuale, laddove le norme legislative prevedessero azioni che la mettono in pericolo.»483 Ciò, in concreto, significa che i valori di riferimento dei legislatori non dovrebbero più essere quelli indicati dalla Costituzione, ma quelli di un diritto naturale di cui la Chiesa vuole essere unica interprete. A ciò si accompagna un esplicito rifiuto dell’ordine civile rappresentato dalla legittima legislazione dello Stato non ritenuta conforme ai valori cattolici che persino i giudici non dovrebbero applicare; viene posto un limite al potere del Parlamento sul contenuto delle leggi con la minaccia che, qualora tale limite fosse superato, ci si potrebbe trovare di fronte ad una sorta di rivolta della componente cattolica della società. Secondo Stefano Rodotà, «...siamo di fronte ad un modo di essere della Chiesa che si presenta e si organizza in forme ritenute necessarie per salvaguardare valori che lo Stato non sarebbe più in grado di garantire. La con-
482
Nota del 13 marzo 2007. PONTIFICIA ACCADEMIA PER LA VITA. «Dichiarazione finalle della XIII Assemblea Generale». 15 marzo 2007. <http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/acdlife/documents/rc_pon t-acd_life_doc_20070315_xiii-gen-assembly-final_it.html> 483
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO trapposizione è frontale, la strategia è quella propria di un soggetto politico.»484
Siamo ben al di là della manifestazione della vocazione pastorale dei vescovi e la prima vittima della situazione è il dialogo tra laici e cattolici: un dialogo vero è impossibile, infatti, quando una della parti afferma di essere depositaria di valori non negoziabili. Si riscontra, certamente, la presenza nella Chiesa di una componente minoritaria ancora aperta ad un sereno confronto, come il cardinale Martini che ricorda che le parole della Chiesa non devono cadere dall’alto, ma l’ufficialità ecclesiastica pare non tenere conto di tale invito. E’ evidente che, quando scompare il dialogo, quando la verità assoluta esclude l’attenzione per il punto di vista altrui, è la logica democratica ad essere sacrificata. Si afferma che la non negoziabilità di certi valori nasce dalla natura stessa, fa parte di un diritto naturale dell’uomo che il legislatore non può scalfire. Ma il concetto di natura (o diritto naturale) è estremamente ambiguo e di difficile definizione; pensare di avere il monopolio nella definizione di stato di natura rivela un’attitudine autoritaria non compatibile con una democrazia moderna che affida alla costituzione il compito di individuare i valori comuni di riferimento: «sostituire ai valori costituzionali quelli attinti ad una natura costruita in modo autoritario porta con sé una regressione culturale che, di nuovo, nega la logica della democrazia».485 Nel prossimo paragrafo ci soffermeremo maggiormente su tale argomento. 484
RODOTÀ, S. «Il conflitto tra Stato e Chiesa e i diritti non negoziabili», su La Repubblica, 21 marzo 2007, p. 23. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/03/21/il-conflitto-trastato-chiesa-diritti-non.html> [4 febbraio 2009]. 485 RODOTÀ, «Il conflitto tra Stato e Chiesa e i diritti non negoziabili», p. 23.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Aggiungiamo però che identificare l’etica in qualcosa di presente e statico è rischioso, in quanto l’etica si occupa, per definizione, di ciò che deve essere, che pensiamo sia giusto che sia. Ciò che invece occorre è confrontarsi senza dogmatismi e rivendicazioni di primati sulle novità, anche antropologiche, che il nuovo contesto scientifico propone. Rodotà sostiene che, se si vuole fare riferimento all’umanità e capire davvero le necessità e le sofferenze delle persone, bisogna abbandonare il dogmatismo e parlare di cose concrete, che certamente non significa che le parti ignorino i propri valori di riferimento, ma che questi costituiscono una delle basi della discussione e non il suo punto finale predeterminato.
Il diritto naturale Comunemente si intende come legge di natura quella che viene scoperta dalla ragione umana; per i credenti, la ragione per giungere a tale scopo deve essere illuminata da Dio. Scrive Zagrebelsky che «forse la struttura mentale originaria, che condiziona il rapporto tra noi e il mondo, è la contrapposizione tra ciò che è naturale e sta fuori di noi, e ciò che è artificiale e procede da dentro di noi».486 Ma tale definizione si è poi complicata, e, nel tempo attuale in cui anche la genetica può essere manipolata, il soggetto e l’oggetto tendono a confondersi e tale distinzione non è più garantita e rassicurante.
486
ZAGREBELSKY, G. «Le false risposte del diritto naturale», su La Repubblica, 4 aprile 2007, p. 1. <http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/04/le-falserisposte-del-diritto-naturale.html> [3 febbraio 2009].
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO Il bisogno umano, soprattutto dei religiosi, di paradigmi eteronomi ha fatto riscoprire il dualismo natura/artificio e l’ha posto sul tappeto della polemica tra etica religiosa ed etica laica. Nel campo della giustizia, la contrapposizione si pone nella tensione tra diritto naturale e diritto positivo, cioè legislazione. Il diritto naturale è il complesso dei principi universali che hanno il loro fondamento nella natura e nella coscienza dell'uomo (il diritto che sta scritto nel cuore degli uomini); la giustizia che ne deriva vale dovunque allo stesso modo e non dipende dal fatto che essa sia riconosciuta o meno, in quanto la collettività la sente indubbiamente come propria. Storicamente il diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà rappresentano il nucleo minimo del diritto naturale,487 unitamente al diritto al nome, all’identità personale e alla famiglia. La giustizia che deriva della legislazione, invece, riguarda ciò che in origine è indifferente e può variare secondo i luoghi ed i tempi; essa costituisce il diritto positivo che consiste nell’insieme delle norme vigenti, di quei precetti, cioè, che in un dato momento storico rappresentano l’ordinamento giuridico di uno Stato. Se da un lato, dunque, la fonte del diritto positivo è il potere pubblico (lo Stato), il diritto naturale trova la sua legittimazione in una
487
Il riferimento è a Locke: «Ma, per quanto sia uno stato di libertà, questo non è uno stato di licenza. Benché sia incondizionatamente libero in questo stato di disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli appartenga se non quando lo imponga un motivo più nobile della semplice sopravvivenza. Lo stato naturale è governato da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi.» (LOCKE, J. Trattato sul governo. Roma: Editori Riuniti, 1997, p. 6).
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE serie di concezioni filosofiche e politiche che precedono la fondazione stessa dello Stato.488 Nel moderno Stato democratico il diritto positivo è espressione, sebbene indiretta, della volontà della maggioranza che non sempre, tuttavia è conforme a canoni di diritto naturale o della giustizia comunque intesa. Il rapporto dialettico fra diritto naturale e diritto positivo è stato sempre presente nella storia del diritto, ma se si volesse citare un episodio relativamente recente all’interno del quale tale rapporto è emerso in tutta la sua importanza e drammaticità si potrebbe fare riferimento al processo di Norimberga. 489 Per un certo periodo l’idea di legge naturale è caduta in disuso, oggi la Chiesa cattolica l’ha fortemente recuperata e la propone come grande rassicuratrice atta a dispensare forti certezze etiche. Scrive Zagrebelsky: «...il diritto naturale è indubbiamente una risorsa che appaga il bisogno di sicurezza. Di fronte a veri o presunti arbitrii e, perfino, ai veri e propri delitti compiuti con l’avallo della legge fatta dagli uomini, che cosa è più rassicurante di una legge obbiettiva, sempre u488
Si può parlare, infatti, di un diritto naturale di matrice razionalistica, di diritto naturale di matrice teologica e di diritto naturale naturalistico. 489 Conclusasi la II guerra mondiale, le potenze vincitrici giudicarono, per il tramite di un tribunale speciale, i crimini contro l’umanità commessi dai gerarchi nazisti. Il processo si svolse a Norimberga, città tedesca dall’alto valore simbolico. In quell’occasione la contrapposizione di cui parliamo fù rappresentata da un lato dalla difesa degli imputati che reclamò l’innocenza degli stessi per il fatto di avere, questi ultimi, semplicemente dato seguito ad ordini e norme formalmente legittimi; dall’altro l’accusa dei rappresentati delle potenze vincitrici replicò imputando ai gerarchi nazisti la violazione dei principi fondamentali del diritto naturale, principi che andavano rispettati quali che fossero gli ordini ricevuti o le disposizioni normative che ad essi si rivolgevano. L’ordinamento giuridico della Germania nazista era formalmente valido ed efficace ma ingiusto ed illegittimo perché violava i canoni più elementari della convivenza fra gli uomini, cioè, il diritto naturale.
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO guale e valida per tutti, la legge della natura appunto, che gli uomini non possono alterare e corrompere a loro piacimento?»490
Ma il diritto naturale in realtà non appare come un luogo di consenso universale, al contrario appare un terreno di conflitti, prima di tutto perché non c’è un accordo su cosa sia la natura; ad esempio: per i cristiani essa è opera di Dio e quindi l’ameranno;491 per gli gnostici opera del demonio e la disprezzeranno; gli illuministi era serena armonia; per il poeta Giacomo Leopardi severa matrigna. Stesso spettro di valutazione presenta il diritto naturale: per gli stoici è il regno dell’uguaglianza e della dignità umane; per i padri della Chiesa il luogo della fratellanza; Aristotele considerava la schiavitù conforme alla natura; Spencer affermava che la lotta per l’esistenza che prevede la sopravvivenza dei più forti era conforme alla natura; per i razzisti, la natura prevede differenze gerarchiche tra le razze; eccetera… Non esiste, dunque, una natura da tutti riconoscibile; si può parlare di natura, e quindi di legge naturale, solo dall’interno di un sistema di pensiero, di una visione del mondo, ma i sistemi e le visioni del mondo appartengono alle culture e non alla natura. I richiami autorevoli alla natura e alla legge di natura sono in realtà dei richiami all’autorità della propria visione del mondo o della propria fede religiosa:
490
ZAGREBELSKY, «Le false risposte del diritto naturale», p. 23. Scrive ancora Lecaldano: «fare appello al criterio secondo il quale Dio ci indicherebbe di seguire la natura per la nostra condotta porterebbe… alla bizzarra conclusione che non dobbiamo curarci da una malattia, dato che essa è naturale, così come non dobbiamo evitare di essere investiti da un macigno che in modo assai naturale sta per caderci addosso, né tantomeno cercare salvezza nella fuga da una catastrofe naturale…» (LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. 17). 491
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE «Ecco come la natura può diventare una maschera della sopraffazione: che è privo di fede e grazia sarà considerato un errante, un reprobo, un contro-natura o, nella migliore delle ipotesi, uno da convertire con l’aiuto di Dio misericordioso; in ogni caso, non uno al quale si possa riconoscere un valore da prendere in considerazione.»492 Ecco che collocare i drammatici problemi del nostro tempo, dove convivono valori e concezioni della vita diversi, sul terreno del diritto naturale significa evocare e promuovere conflitti.493 L’invito della Chiesa cattolica a disubbidire a certe leggi fatto addirittura ai giudici è, infatti, sovversivo e foriero di forti tensioni sociali: è l’espressione della pretesa di chi ha l’ardire di porsi al di sopra della civile convivenza democratica. Non crediamo che sia la natura il paradigma di cui la società attuale ha bisogno per salvaguardare l’etica pubblica: essa è una risposta ambigua ed aggressiva. Occorre che una società democratica utilizzi le sue armi che sono il ragionamento, il dialogo, la volontà di ricercare il giusto e il buono, ben sapendo che ciò che è frutto di una mediazione non potrà avere 492
ZAGREBELSKY, «Le false risposte del diritto naturale», p. 23. Ciò è stato riconosciuto anche nella relazione del teologo cattolico Wojciech Giertych (12 febbraio 2007) al Congresso internazionale sul diritto naturale promosso dall’Università Lateranense; in un passo finale si riconosce che la natura umana non è un concetto biologico o sociologico bensì teologico; che cosa sia l’uomo dovrebbe comprendersi considerando il suo rapporto con Dio. I precetti fondamentali del diritto naturale sarebbero percepibili solo per mezzo di un’intuizione metafisica delle finalità dell’esistenza frutto della fede: «La realizzazione pratica dell’ethos del diritto naturale non è possibile senza la vita della grazia». Ma chi non è credente come può accettare simili parametri? 493 Scrive Lecaldano che «in mezzo a questa secolare e complessa discussione su quale sia il volere che Dio ci manifesta attraverso le leggi naturali sta il credente, il quale può trovarsi in una selva ancora più oscura di quella in cui si agiterebbe un laico o un miscredente.» (LECALDANO, Un’etica senza Dio, p. 12).
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ETICA LAICA ED ETICA CRISTIANA A CONFRONTO assolutezze e rigidità, e che le norme che da esso scaturiscono dovranno essere periodicamente rivisitate.494
494
Scrive ancora Zagrebelsky: «Proprio in questa ricerca, se mai, consiste la natura umana. La legge naturale che ne deriv è che gli esseri umani non possono sfuggire al dovere di agire nel mondo con responsabilità e secondo la libertà che è loro propria: un legge dalla quale la Chiesa sembra allontanarsi vistosamente, quando ripropone vecchie visioni della natura che sollevano sì dalla responsabilità, ma accentuano il potere a scapito della libertà.» (ZAGREBELSKY, «Le false risposte del diritto naturale», p. 23).
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI L'etica nell'avventismo: generalità495 Occorre premettere che il modo con cui il mondo è costituito influisce profondamente sul nostro comportamento e sulla percezione del proprio status in tale realtà. La struttura dottrinale dell'avventismo ha inevitabilmente influenzato la maniera con cui i suoi aderenti hanno portato avanti le loro responsabilità morali. Esiste, infatti, una netta, ma non sempre evidente relazione, tra le strutture ideologiche di un gruppo e le attitudini etiche dei suoi membri. In questo periodo storico esiste, all'interno della Chiesa avventista, un significativo processo di revisione degli standard morali e questo è causa di non trascurabili tensioni al suo interno. Occorre tenere presente che un presupposto fondamentale dell'etica avventista tradizionale è la credenza nell’imminenza del secondo avvento di Cristo che enfatizza la natura transitoria della nostra attuale esistenza vista come il preludio della vita eterna. Questo però si fonde col pragmatismo tipico delle origini nordamericane dell’avventismo, generando un quadro complesso che, nel contempo, rappresenta la forza e la debolezza della sua tradizione etica.
495
Per queste brevi considerazioni seguiremo il testo, non più recente ma ancora lucidissimo, di PEARSON, M. Millennial Dreams and Moral Dilemmas. Seventh-day Adventism and contemporary ethics. Cambridge: Cambridge University Press, 1990.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
L'avventismo come chiesa del rimanente Ricordiamo che l'avventismo sorse in un momento di confronto tra due concezioni della storia e della Chiesa presenti nel protestantesimo americano: il postmillenarismo ed il premillenarismo. La prima visione, che prevede la parusia come atto conclusivo del trionfo del bene e della Chiesa nel mondo, è ottimista sulla capacità umana di accogliere l'invito divino e sulla possibilità della storia di purificare se stessa; essa porta forti motivazioni per la riforma personale e sociale. La seconda, che prevede la parusia come rimedio, per certi versi drammatico, alle vicende storiche e come inizio del regno divino, è pessimista sull'uomo e affida a Dio la soluzione ultima del problema della storia. L'avventismo è e resta nettamente schierato nel quadro premillenarista. Ovviamente, dopo l'esperienza di disincanto del 1844, si pose negli eredi del movimento millerita, un forte dilemma: come riempire, dopo la dilazione dei tempi, l'attesa della fine? Essa doveva essere un luogo in cui collocare l'azione morale e l'impegno sociale? Oppure tale tempo, breve, doveva essere riempito essenzialmente da un anticipo mistico del regno di Dio, fatte salve quelle attività che assicuravano la sopravvivenza nel mondo? La società umana e i suoi problemi dovevano richiamare l'attenzione degli Avventisti o il mondo era così negativo da giustificare soltanto un suo utilizzo strumentale? La tensione che scaturisce da tali domande ha prodotto diversi comportamenti paradossali. Ad esempio, pure attendendo il regno di Dio, gli Avventisti hanno diligentemente operato nella prospettiva terrestre attraverso iniziative sociali, una miriade di istituzioni, programmi educativi, ecc...
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI James Walters ha osservato che «dato che gli Avventisti attendono con passione un prossimo mondo perfetto, essi non si sono particolarmente impegnati con le modalità con cui gli individui si relazionano gli uni con gli altri, qui e ora, ma piuttosto sul come raggiungere il loro obiettivo nel futuro».496 Gli Avventisti, come d’altronde altri gruppi religiosi, hanno sempre attribuito a loro stessi un posto unico nella storia umana: si sono, infatti, definiti, crediamo con una certa presunzione, come la Chiesa del rimanente di Dio. Tale preteso ruolo di custodi e proclamatori speciali delle verità divine ha, ovviamente, avuto enormi implicazioni sul loro impegno socio-politico, sul loro approccio al dialogo ecumenico e interreligioso, sulla loro identità morale. Una prima osservazione è che la convinzione tradizionale che il compito di annunciare il vangelo eterno richieda una neutralità politica: è meglio, secondo tale linea, perdere qualcosa sul piano della giustizia immanente che rischiare restrizioni nella testimonianza cristiana. Un primo problema forte si pose durante la guerra civile americana;497 significativa fu, in tale occasione, la posizione di Ellen G. White che sosteneva che gli Avventisti non dovevano comunque pren496
WALTERS, J. «Toward an Adventist Ethic». Spectrum. Vol. 12, n. 2, p. 2. <http://www.spectrummagazine.org/files/archive/archive11-15/12-2walters.pdf> [4 febbraio 2009]. 497 Particolarmente carico di ambiguità fu il famoso editoriale di James White dal titolo «The Nation» (Review and Herald and Sabbath Herald. V. XX, n. 11 [12 agosto 1862] p. 4. <http://www.adventistarchives.org/docs/RH/RH1862-V20-11/index.djvu> [26 octubre 2009]) in cui sosteneva tra l'altro che, in caso di mobilitazione generale, la responsabilità della violazione della legge divina sarebbe ricaduta sullo Stato. Anche la posizione di Uriah Smith era difficile da sostenere: egli infatti credeva, basandosi su referenze bibliche, che la schiavitù doveva esistere fino alla fine del mondo e che quindi quella guerra non avesse alcun senso.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE dere le armi, a prescindere dal valore della causa, aggiunse acutamente che la motivazione principale del conflitto non era la sorte degli schiavi, ma l'aspetto politico della secessione. A prescindere dalle simpatie politiche per il presidente Lincoln,498 nel complesso, la preoccupazione della maggioranza degli Avventisti durante la guerra civile era di mantenere la loro Chiesa intatta da contaminazioni politiche e pronta a predicare l'evangelo quando le ostilità fossero cessate. Osserviamo però che, se gli Avventisti hanno mantenuta la neutralità politica per preservare l'integrità della Chiesa, in certe occasioni hanno usato strategie politiche per raggiungere lo stesso fine: per esempio nell'area della tutela della libertà religiosa, a cominciare dalla difesa dell'osservanza del sabato. La constatazione che l'impegno politico degli Avventisti si concretizza normalmente quando è la propria Chiesa a vedere compromessi i suoi legittimi interessi pone un evidente problema. Ad esempio, il silenzio della Chiesa è stato molto criticato negli anni '60 riguardo al problema delle lotte, soprattutto negli Stati Uniti, per il riconoscimento dei diritti umani: una maggiore presenza in quel confronto avrebbe per alcuni aperto un nuovo quadro di prospettive all’azione etica della Chiesa, ma per altri (la maggioranza del gruppo dirigente) avrebbe rischiato di intaccare la tradizionale identità avventista. Scrive Michael Pearson: «...gli Avventisti, concependo loro stessi come i guardiani della dottrina cristiana nella sua forma conclusiva e assoluta, hanno avuto la tendenza a credere di dover generalmente occupare posizioni
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E’ indubbio che il cuore della gran parte degli avventisti (che erano concentrati nel nord del paese) battesse dalla parte dell’Unione e dell’abolizione della schiavitù. Ricordiamo che molti pionieri avventisti avevano preso attivamente parte alle attività delle organizzazioni antischiaviste.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI conclusive e inalterabili. Ma molte questioni etiche contemporanee sono così complesse che diventa straordinariamente difficile giungere a soluzioni conclusive. Gli Avventisti, a livello ufficiale, hanno sovente risolto questo problema evitando impegni etici forti.»499
Si può anche affermare che la tendenza avventista a considerarsi come un movimento peculiare staccato dal resto della cristianità ha indebolito il conseguimento di un sentimento di solidarietà con gli altri cristiani e le loro attività. Aggiungiamo che la cautela mostrata in relazione alle iniziative ecumeniche se ha da un lato tutelato la Chiesa, dall'altro ha costituito un ostacolo al nostro impegno nell'affrontare i grandi problemi sociali che, per le loro dimensioni, avrebbero richiesto una risposta cristiana coordinata e massiccia. Dopo un periodo, dall'inizio dei '60 fino al termine della decade successiva, in cui si è verificato un aprirsi, seppur timido, della Chiesa verso significative problematiche teologiche, socio-politiche ed etiche, ci pare che la leadership per reazione si sia successivamente sforzata di ristabilire la tradizionale identità avventista e questo, per taluni studiosi, sta alla base di un fallimento etico dell'avventismo contemporaneo. Diversi autori avventisti contemporanei, tra cui Roger L. Dudley,500 hanno trattato il tormentato tema del rapporto della chiesa avventista con la cultura secolare. 499
PEARSON, Millennial Dreams and Moral Dilemmas. Seventh-day Adventism and contemporary ethics, p. 25. 500 Dudley, professore della Andrews University, trae spunto dai fondamentali studi di Karl Paul Reinhold Niebuhr (1892-1971) contenuti nel suo famoso libro Christ and Culture. Egli osserva che, dal momento che la cultura include ogni situazione sociale, quindi anche la religione, è indispensabile per i credenti esaminare la natura culturale della propria fede. Occorre riconoscere che la grande maggioranza degli usi di una chiesa non corrispondono a peculiari direttive bibliche: la Bibbia non dice nulla sul nostro tipo di gerarchia e organizzazione, né sul nostro sistema edu-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE
cativo, né sulla nostra liturgia, né sulla nostra posizione nei confronti dei divertimenti o del teatro, eccetera. Occorre interpretare il testo biblico ed ogni interpretazione è un'operazione culturale. La cultura non consiste in un quadro preciso e fisso di valori. Esiste sempre un certo grado di pluralismo ed anche nella Chiesa esiste un confronto per stabilire una gerarchia di valori. Sulla base di alcune affermazioni bibliche molti credono che la cultura vada rigettata: il mondo è malvagio, ma la comunità cristiana rappresenta il regno di Dio dentro il mondo. I credenti sono in una società ostile con la quale possono interloquire solo per assicurarsi la sopravvivenza fisica; essi sono sospettosi della politica e pessimisti verso le scoperte e le conquiste scientifiche, sociali e artistiche. I problemi di pubblica moralità non paiono loro importanti, la moralità è concepita come un fatto privato ed ecclesiastico. Questi credenti sono dunque nemici dell'umanesimo, visto come fenomeno erosivo dei valori cristiani. In loro è acuta la separazione tra sacro e profano. Alcuni sostengono che la Chiesa avventista non dovrebbe permettere nessuna pratica non espressamente indicata dal NT, come ad esempio la consacrazione delle donne. Altri credenti pensano invece che Dio si rivela non soltanto nell'area religiosa, ma anche laddove creatività, genio, bellezza, spiritualità si manifestano. L'impegno anche politico nella società è visto come un mezzo per apportare giustizia, ordine e benessere. In particolare, è forte l'impegno per la pace che si contrappone all'accettazione della violenza come segno necessario del peccato e dell'avvicinarsi della fine. Forse l'area in cui questo approccio è più specifico è quello artistico in cui si valorizzano le espressioni dell'uomo, in quanto è visto come estremamente positivo tutto ciò che porta a conoscere ed esprimere la complessità della situazione umana. Ovviamente la sessualità e i suoi problemi sono visti con più libertà e possibilismo. Tale posizione pone un forte accento sull'etica a scapito della teologia. Questa soluzione crea un ponte con gli altri, anche a livello di linguaggio e sfruttando la scelta etica, oggi più comprensibile rispetto a quella dottrinale. Ciò attira alla chiesa classi sociali più colte ed offre al messaggio evangelico un respiro più universale. Dudley presenta poi la posizione conversionista di Niebuhr verso cui va il suo favore. Occorre distinguere nettamente tra creazione e caduta: tutte le cose sono state create buone, ma si sono corrotte. Di conseguenza, il problema della cultura per il cristiano è quello della sua conversione, non della sua sostituzione. Dal punto di vista socio-politico i fautori di questa posizione ritengono che loro dovere sia di inculcare i principi cristiani entro il processo politico: la Chiesa ha anche un messaggio per la società. Valutare questa posizione centrista è più difficile proprio perché essa evita sia i maggiori pericoli che i pregi più grossi delle visioni precedenti. In particolare essa
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI Da un lato, dunque, l'avventismo rigetta la cultura secolare, dall'altro riconosce nel rapporto positivo col mondo un fattore imprescindibile nel piano della salvezza. La relazione col mondo è evidenziata dalla creazione di una vasta organizzazione, dalla gestione di un gran numero di istituzioni, dall'impegno nel campo della salute. Tutto questo esprime una certa ambivalenza, per lo più non esplicitamente ammessa e quindi non sufficientemente e criticamente riflettuta.
Le basi storiche delle norme avventiste: processi Alle norme della Chiesa sono attribuiti dei differenti significati: Alcuni vi vedono delle direttive atte all’individuazione ed alla sanzione del peccato. Per altri, le norme della Chiesa offrono una precisa identità all'avventismo individuando degli ambiti comunitari e permettendo di definire chi e cosa siano o no avventisti. Altri ancora ne hanno una concezione perfezionista: esse sono un mezzo semplice per definire la purezza che occorre raggiungere per ottenere la salvezza.501
tende ad agire sulla società, qui e ora. L'autore sottolinea la necessità di convivere con una certa ambiguità dovuta al fatto che il credente vive a cavallo tra due mondi, occorre sapere che non si avrà mai una risposta per tutto e a tutto. Bisogna vedere nella tolleranza un valore cristiano. Occorre vivere senza pensare al passato come ad una sorta di eden perfetto. La verità è senza tempo, ma il mezzo con cui essa si esprime si deve accordare coi bisogni della società. E' un preciso dovere della Chiesa estrarre dalla Scrittura i principi che superano la relatività del tempo, individuare la volontà di Dio e legarla al proprio contesto culturale. 501 Si tratterebbe dell’assunzione di criteri visibili che confermano il proprio stato di santità e di conseguenza un mezzo per sentirsi salvati.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Una piccola minoranza continua a vedere un rapporto tra le norme ecclesiastiche e la contestazione della società circostante; tale attitudine era significativa all'inizio del movimento. Infine, esiste un altro modo di intendere le norme che si è perso nell'avventismo attuale quello che parte dalla nozione di discipline spirituali di Wesley e che ha come fine primario quello di comunicare efficacemente il Vangelo ed influenzare positivamente la società. Tali norme sono dei mezzi attraverso cui i principi morali e spirituali raggiungono la loro maturità nei credenti.502 Osserviamo che il rifiuto da parte di un gruppo della cultura contemporanea costituisce un mezzo per affermare la propria identità, che si compatta ed evidenzia, dunque, per opposizione; in questa attitudine c’è un evidente rischio dovuto al fatto che un’identità che si regge nel contrasto dipende di fatto dalla conservazione del fattore che l’ha indotta e trae forza dalla forza altrui.
Le basi storiche delle norme avventiste: alcuni esempi Ellen G. White e gli altri pionieri avventisti hanno introdotto nel nascente movimento uno stile di vita basato essenzialmente sulle indicazioni di Wesley e di altri gruppi religiosi conservatori; anche il clima che si creava durante i tanti revival religiosi ebbe un peso significativo.
502
Le cosiddette discipline spirituali contengono due elementi essenziali: «il primo implica un tentativi di porre sotto l'autorità del Cristo la propria salute, abbigliamento, sessualità, opinioni politiche, concezioni su economia, arte e cultura, vita professionale, ricreazioni –tutto ciò che costituisce l'esistenza e le risorse di un individuo–. L'altro elemento sottintende una profonda decisione di applicare progressivamente a tutti gli aspetti della propria vita i principi e gli insegnamenti della vita del Cristo con sempre maggiore cura e profondità.» SAHLIN, M. «Les normes de l'Eglise: où allons-nous?» Servir, I/90, p. 20.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI La maggioranza dei metodisti provenivano da classi sociali inferiori e vedevano nell'abbigliamento e negli ornamenti costosi dei segni di vanità, espressione del modo di vivere materialistico delle classi più ricche; la loro semplicità permetteva di riconoscersi facilmente e di distinguersi dalla società circostante. I primi Avventisti si ritrovarono a loro agio nelle concezioni metodiste sia perché diversi tra essi erano stati metodisti, sia perchè provenivano per lo più dalla stessa classe sociale. Nell’esame della Bibbia per trovare delle indicazioni utili per il loro stile di vita furono guidati dunque da un particolare paradigma interpretativo. Ricordiamo, ad esempio, che già il 30 aprile 1866, la chiesaguida di Battle Creek adottò ufficialmente una serie di delibere concernenti l'abbigliamento; qualche giorno dopo anche la Conferenza Generale si espresse analogamente al riguardo.503 Non è facile, oggi, individuare le ragioni per tali prese di posizione, occorre, infatti, ricordare il contesto con cui i primi Avventisti si erano confrontati: occorrono delle considerazioni di carattere sociologico. Gli Americani del XIX secolo tenevano moltissimo ad essere considerati come membri della classe media che, al tempo, era tesa ad affermare la propria egemonia; questa volontà di affermazione è all'origine delle formulazione delle norme avventiste, in quanto i nostri correligionari del tempo erano tentati di adottare i capricci e gli status-symbol della borghesia e ciò era visto come un rischio per la loro spiritualità.
503
Il Comitato della CG espresse un parere estremamente favorevole allo studio di Adoniram Judson, missionario in Birmania, dal titolo «A Letter to the Women of America on Dress» e pregò la Review and Herald Publishing Association di aggiungere le risoluzioni della chiesa di Battle Creek al testo di Judson.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Ellen G. White, infatti, si oppose nettamente a tale tendenza sostenendo invece le posizioni e lo stile di vita delle classi inferiori: sentiva evidentemente il pericolo che gli Avventisti perdessero definitivamente la loro identità ed il loro ruolo.504 Così si spiega, ad esempio, la sua netta opposizione iniziale all’uso della bicicletta che costituiva un oneroso simbolo d'identificazione con la classe media; quando questa divenne poi un semplice mezzo di trasporto Ellen G. White non si espresse più al riguardo: quando, cioè, il ruolo della bicicletta cambiò, anche le sue reazioni mutarono. Ellen G. White si oppose anche all'uso del corsetto, per ragioni sia di salute sia simboliche, in quanto esso era considerato un segno di ricchezza e di distinzione: solo una donna ricca, con la possibilità di avere della servitù, poteva evitare di lavorare, cosa che il corsetto impediva. Ellen G. White dichiarò comunque anche che il modo di vestire non doveva giocare il ruolo di prova della fede, fissando così un limite all'attitudine di molti tra i primi Avventisti secondo cui tutto doveva servire da test di discepolato. Gli Avventisti si opponevano inoltre a tutto ciò che avesse anche una remota origine pagana: ad esempio evitavano di chiamare i giorni della settimana coi loro nomi che collegano i giorni con divinità antiche.505 Anche il non portare l’anello matrimoniale506 fu un simbolo d’identificazione tra gli Avventisti americani, tale divieto costituiva 504
Ricordiamo che le osservazioni di Ellen G. White si mostrano più comprensive verso le classi sociali superiori che verso la classe media caratterizzata, come già affermato, da una forte e spesso cinica volontà di affermazione. 505 Era, infatti, diffusa, nelle comunità avventiste, l’abitudine di indicare i giorni con numeri ordinali. 506 Nell'America vittoriana l'anello in oro massiccio, senza ornamenti aggiuntivi, era un simbolo importante proprio nella classe media.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI addirittura una direttiva indispensabile per il battesimo; ma la Chiesa non imponeva tale divieto ai fedeli fuori dall’America riconoscendo di fatto che il carattere evocativo, e quindi moralmente significativo, di un oggetto/gesto differiva a seconda della cultura.507 Il problema dell’anello matrimoniale è stato, purtroppo, oggetto di lunghe discussioni e diatribe nella storia della Chiesa avventista; ciò deriva dal fatto che le nuove generazioni avventiste, eredi di una cultura che aveva storicamente considerato l'anello nuziale come il simbolo d'infedeltà alla chiesa, iniziava a vedervi un segno di fedeltà al vincolo matrimoniale.508 Un'altra norma che gli Avventisti hanno per lungo tempo fortemente difeso era quella che proibiva di partecipare, a qualunque titolo, a rappresentazioni teatrali: la ragione è facilmente individuabile considerando il basso e sovente degradante livello del teatro americano dell'epoca.509 Già questi pochi esempi mostrano sufficientemente come la sensibilità etica dei primi Avventisti fosse condizionata da fattori socioculturali. 507
Al matrimonio di William White, figlio di Ellen e James, con la giovane australiana May Macey, ci fu uno scambio di anelli a causa del profondo significato rivestito da tale usanza in seno alla famiglia della sposa. Più tardi però, quando anche May si stabilì in Nord America, essa cessò di portare la fede in quanto era avvenuto il passaggio da una cultura in cui questa era considerata un simbolo di impegno matrimoniale a un'altra dove si riteneva che il non portarla costituiva un segno di appartenenza alla chiesa avventista. 508 Un notevole turbamento arrecò agli avventisti conservatori la pubblicazione, circa 20 anni fa, di diverse foto di famiglia che mostravano Ellen G. White con ornamenti al collo e appesi alla veste. Numerosi sono gli ornamenti portati da Ellen G. White dal suo soggiorno alle Hawai; inizialmente il dono di tali monili aveva suscitato in Ellen G. White un’istintiva reazione di rifiuto. 509 Su questo tema, e in genere sulle considerazioni del paragrafo, vedere la preziosa opera di LAND, G. e altri. The World of Ellen G. White. Washington, D.C.: Review and Herald Publishing Association, 1987, p. 177-191.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Questo non deve stupire, occorre semmai che la chiesa maturi maggiormente e con equilibrio l'attitudine a mantenere di una cultura solo ciò che presenta un valore atemporale ed autentico e a rigettare ciò che è transitorio e pericoloso. Particolarmente rilevante è la posizione di Ellen G. White sul tema della salute e delle famose otto regole fondamentali, che non furono una sua invenzione, ma erano state ripetutamente promosse da diverse pubblicazioni popolari; Ellen G. White spinse gli Avventisti a farle proprie, ma rigettò le motivazioni di coloro che le raccomandavano. E' necessario ricordare che, nella seconda parte dell'800, la borghesia americana bianca si sentiva minacciata dal declino delle nascite e dalla crescente immigrazione dall'Europa del sud e dell'est; essa temeva di perdere, con la maggioranza demografica, anche il controllo politico. La campagna a favore di una riforma igienico-sanitaria era visto come un mezzo per rinforzare l'etnia anglosassone e, in particolare, aumentare la fecondità delle proprie donne: queste motivazioni erano chiaramente razziste; Ellen G. White, nel caso specifico, accettò le metodologie, ma non i pregiudizi e i fini che ne erano alla base. Gerald Wheeler osserva giustamente che «occorre anche che impariamo ad ammettere che una pratica può simboleggiare un pericolo in un certo contesto storico-culturale e perdere tale significato nella misura in cui il contesto si evolve».510 Inoltre occorre sottolineare il fatto che quando le congregazioni e le denominazioni si sviluppano e universalizzano, diviene sempre più difficile mantenere una relazione comunitaria costruita attorno a norme di comportamento molto specifiche.
510
WHEELER, G. «Basi storiche delle norme avventiste», trad. da Servir, S.I/1990, p. 5-13.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI
La spinta attuale al rinnovamento delle norme della Chiesa Il bisogno di un rinnovamento delle norme della Chiesa avventista si fa sentire oggi in modo particolare in occidente. E' interessante notare che se certe regole sono minacciate d'abbandono, altre in compenso fanno la loro apparizione anche sulla spinta dell’evolversi della sensibilità culturale.511 Diversi sondaggi, studi, statistiche, mostrano come ciò che sta perdendo forza nella Chiesa è il meccanismo dell'alleanza e dell’impegno responsabile, in pratica il modo con cui i membri della Chiesa si sostengono reciprocamente, più che i valori formali espressi nelle norme. Infatti, anche nelle culture più secolarizzate dell'occidente, gli Avventisti continuano sostanzialmente a sottoscrivere le nostre posizioni storiche,512 ma sentono di dover superare i metodi tradizionalmente utilizzati per adottarle e viverle. In altre parole, alcune tradizionali ed identitarie dottrine stanno perdendo adesione, non tanto perché si contesta la loro validità scritturale, ma in quanto si denuncia la loro limitata pertinenza con l’esistenza concreta dei credenti. 511
Ad esempio, negli USA, molti avventisti ritengono che occorra prendere posizione contro l'aborto; dopo l'affare Davenport ed altri dissesti finanziari analoghi, esiste una spinta affinché venga più specificamente regolamentato il modo e gli ambiti in cui impiegare potere e ricchezze nella Chiesa. In particolare, i problemi che si sono riproposti con la presidenza Folkenberg (e che hanno provocato le sue dimissioni) hanno portato ad una normativa più stringente per i conflitti d’interesse. Il mondo avventista ha anche preso posizione chiara nei confronti della violenza in famiglia che caratterizza diverse culture, soprattutto africane. 512 In effetti, nell’occidente avventista, anche alcune tradizionali ed identitarie dottrine stanno perdendo adesione, non tanto perché si contesta la loro validità scritturale, ma in quanto si denuncia la loro limitata pertinenza con l’esistenza concreta dei credenti.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Scrive Sahlin: «Il nostro problema riguardo alle norme non è tanto quello del lassismo, ma quello dell'indebolimento dello spirito associativo. Nella misura in cui la Chiesa si è sviluppata e istituzionalizzata, i membri provano sempre più difficoltà a vivere gli uni con gli altri in modo amorevole e personale.»513
Il sistema normativo di una Chiesa percorre normalmente il seguente processo. All'inizio, un piccolo gruppo si sforza di essere radicalmente fedele ai principi istitutivi; si oppone fortemente alle tradizioni e alle istituzioni storiche; sul piano della vita personale esiste invece una notevole libertà che, talvolta, può sfociare nell'anarchia. Man mano che il gruppo si amplia, i suoi membri sono portati a mettere ordine nella comunità; si passa dalla scoperta dei principi istitutivi all'enfasi sui modi di metterli in pratica. Si definisce un patto associativo che comporta delle prescrizioni minime. Proseguendo, i membri tendono a centrare l'attenzione unicamente sulle modalità d'applicazione i principi istitutivi perdendo di vista il contenuto degli stessi. Di conseguenza, parecchi fedeli non sono più in grado di spiegare teologicamente il perché delle regole osservate, ma le osservano con zelo. In questo stadio quindi i principi cedono il passo alla tradizione e il gruppo tende a divenire inflessibile e incapace di cambiamento. Più tardi ancora, il gruppo può, senza rendersene conto, appoggiarsi sulla tradizione per incoraggiare dei comportamenti che, in realtà, violano i principi istitutivi. Può iniziare così il percorso verso l'apostasia. Inoltre, scrive Gottfried Oosterwal, 513
SAHLIN, «Les normes de l'Eglise: où allons-nous?», p. 24.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI «...la Chiesa avventista d'America ha riflesso, personificato e santificato le norme e i modelli in uso all'interno delle frontiere nazionali. Nella misura in cui la Chiesa si sviluppò, questi elementi s'integrarono sempre più nella vita e nella struttura del Movimento. A tal punto che dall'inizio di questo secolo, il messaggio divino e le forme culturali si confusero formando un tutt'uno. La generazione seguente di credenti pensò di ereditare da questa cultura un dono totale, indivisibile, proveniente da Dio: messaggio e organizzazione, norme di comportamento e missione. Quando la Chiesa iniziò ad estendere la sua azione agli altri paesi ed alle altre culture, lo fece sotto la stessa forma, e con le medesime modalità praticate in America: gli evangelisti piantarono le loro tende nel mezzo delle città medievali europee, dove tali strutture avevano un connotato differente da quello che potevano assumere negli USA; i sermoni e le pubblicazioni seguirono lo stile americano e fecero uso d’illustrazioni, metafore e racconti di quella cultura; furono introdotti inni e culti della stessa ispirazione; l'insegnamento cristiano s'identificò con le pratiche e con la filosofia americana; si insistette sul portare vestiti ed abbigliamenti “convenienti”, cioè che riflettevano i valori e i gusti nazionali. In altri termini, un gran numero delle nostre abitudini, dei nostri modi d'agire e dei nostri metodi di lavoro divennero dei modelli per l'avventismo del mondo intero.»514
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OOSTERWAL, G. «Evangile, culture et mission». Servir, I/90, p. 42. Il problema emerse per la prima volta in modo serio dopo l'arrivo dei primi missionari americani avventisti in Europa; la Chiesa organizzò una serie di assemblee missionarie (18831885) per risolvere il problema. I rapporti di tali incontri sono stati conservati e mostrano come molti missionari americani pretendevano che i convertiti europei non inserissero le verità accettate nel loro mondo culturale «perché esse sono il prodotto della quintessenza del pensiero e dello studio più approfondito di uomini che erano stati per più tempo in rapporto con l'Opera avventista». Ma Ellen G. White fu di diverso avviso e al Consiglio di Basilea del 1885 affermò: «…mi è stato rivelato che delle anime qui in Europa sono state allontanate dalla verità perché si è mancato di tatto e di competenza… Nessuno dovrebbe avere la convinzione che la sua opinio-
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Ancora Shalin scrive: «Quando una Chiesa si aggrappa ai suoi comportamenti senza esaminarli e facendo ricorso a delle razionalizzazioni per giustificare delle pratiche immutabili, è in pericolo di perdere contatto con i veri principi biblici. È certo che il modernismo e la secolarizzazione possono provocare il naufragio della fede, ma a questo si può anche giungere con un attaccamento idolatra alla “religione del buon tempo antico”.»515
Ellen G. White ha osservato che «quando la vita spirituale autentica declina… le persone… hanno la tendenza a divenire conservatori, ad evitare la discussione… e a adorare ciò che non conoscono».516 La sua visione della Chiesa avventista era quella di un'associazione vigorosa, animata da una fede dinamica, profondamente ancorata ad una missione costituita dall'evangelizzazione, dal servizio e dall'azione sociale.
L'esigenza dell'unità della chiesa La Chiesa avventista è riuscita a difendere con successo la sua unità: non ha, infatti, subito nella sua storia nessuno scisma significativo; il merito è in gran parte della sua forte organizzazione centrale:
ne è perfetta, che le sue idee sono al di sopra di ogni critica... Quello del terzo angelo non è un messaggio ristretto. Esso è universale... La storia passata dell'opera di Dio ci rivela che certi hanno una comprensione di una cosa; altri di un'altra. E' nell'intenzione divina che ci sia un accordo tra le parti interessate...» Le precedenti citazioni sono riportate su Historical Sketches of the Foreign Missions of the 7th Day Adventists. Basel: Imprimerie Polyglotte, 1886, p. 122, 124-125. <http://www.adventistarchives.org/docs/HSFM/HSFM1886/index.djvu> [4 febbraio 2009]. 515 SAHLIN, «Les normes de l'Eglise: où allons-nous?», p. 25. 516 WHITE, E. G. Counsels to Writers and Editors. Nashville (Tennessee): Southern Publishing Association, 1946, p. 39.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI mantenere l'unità del movimento è una chiara priorità amministrativa. Il pericolo in tale situazione sta nel fatto che una chiesa organizzativamente molto solida tende a divenire impersonale e amorale, sollevando il singolo dal dover affrontare problematiche morali sul piano strettamente personale. Siamo di fronte ad un fenomeno tipico della modernità: la Chiesa tende ad assumere lo stesso ruolo della Stato moderno, le sue regole e la sua gerarchia, pure stabilite democraticamente, si sostituiscono alla responsabilità morale. Il desiderio d'unità ha reso la denominazione lenta nel rispondere alle problematiche e alle sfide morali: l'aprirsi alla discussione, da parte di una Chiesa plurietnica e interclassista, determina il rischio di conflitti; la chiarezza e la presa di responsabilità scuotono il quieto vivere e l'unità. Per la Chiesa, l'individualismo ha una doppia valenza: è positivo quando porta il singolo a prendere delle decisioni spirituali controcorrente che lo portano a aderire alla chiesa superando sovente ostilità e difficoltà, è percepito come negativo dopo, all'interno della comunità, perché ne mette a rischio l'unità. Teologicamente, l'avventismo pone molta enfasi sulla libertà, sulla volontà, sulla responsabilità del singolo; questo porta a considerare il peccato come problema privato con Dio oscurando la funzione e l'importanza delle strutture sociali nel determinare gli standard etici;517 non dovrà dunque destare meraviglia se, tra gli Avventisti, au517
Scrive Ellen G. White: «Il governo sotto il quale Gesù visse era corrotto e tirannico; da ogni parte vi erano abusi evidenti, estorsioni, intolleranza e orribili crudeltà. Tuttavia, il Salvatore non si propose un programma di riforme politiche. Non criticò tali abusi e non condannò i nemici della nazione. Non interferì con le autorità o le amministrazioni in carica. Colui che è stato il nostro esempio si tenne lontano dai governi terreni. Fece ciò non per indifferenza verso i dolori degli uomini, ma perché il rimedio consisteva non in misure umane ed esteriori ma nel rivolgersi ad ogni
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE menterà nel prossimo futuro il distacco anche dalle istituzioni ecclesiali.518 Pearson osserva acutamente che «l'avventismo chiaramente sostiene l'idea che i buoni uomini creano buone istituzioni sociali, invece del contrario, cioè che buone istituzioni facciano buoni uomini. Il paradosso sta nel fatto che gli Avventisti hanno investito grossi sforzi per creare buone istituzioni.»519
La famiglia: la preoccupazione fondamentale della morale avventista La difesa della stabilità della famiglia in senso moderatamente tradizionale è la preoccupazione etica fondamentale dell'avventismo; ha scritto Ellen G. White che «il cuore della società, della Chiesa e della nazione è la famiglia. Il benessere della società, i progressi della Chiesa, la prosperità dello stato dipendono dall’influsso familiare.»520 Tale stabilità offre un grande contributo alla continuità della chiesa: secondo stime abbastanza recenti i membri di chiesa di seconda generazione rappresentano il 75% del totale. La cura dei bambini, al fine di prepararli ad essere futuri membri di chiesa, è molto enfatizzata e ha comportato molti investimenti. Le problematiche familiari che hanno investito la Chiesa sono molte e diverse:
uomo individualmente e nel rigenerare il suo cuore.» (WHITE, E. G. La speranza dell'uomo. Impruneta (Firenze): ADV, 1990, p. 363-364. 518 Questo fenomeno, in occidente, è certamente già in atto, soprattutto nei confronti delle istituzioni ecclesiali lontane, meno nei confronti delle comunità locali. 519 PEARSON, Millennial Dreams and Moral Dilemmas. Seventh-day Adventism and contemporary ethics, p. 42. 520 WHITE, E. G. Ministry of Healing. Mountain View (California): Pacific Press Publishing Association, 1942, p. 349.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI
La contraccezione, che vede gli Avventisti favorevoli proprio per
la tutela del nucleo familiare. Il divorzio, che vede la chiesa molto esitante a prendere posizioni nuove per non scoraggiare i membri con standard troppo elevati e nel frattempo difendere l'ideale; su tale tema, gli avventisti manifestano molta difficoltà a riconoscere ed accettare la sconfitta. La tendenza implicita a considerare lo status di single come inferiore; la chiesa sente che le persone sole, avendo preso meno impegni di vario tipo, rappresentano un fattore potenziale destabilizzante per la chiesa; fino a poco tempo fa, in alcune zone degli USA, il matrimonio era un prerequisito per l'ordinazione al ministero pastorale. La poligamia, soprattutto nella missioni in Africa, ha costituito un problema serio poiché l'ideale monogamo si scontra con culture secolari e situazioni di fatto. L'endogamia, cioè lo sposarsi tra avventisti; alcune ricerche affermano che il 75% degli Avventisti si sposano dentro la chiesa, ma tale percentuale è in diminuzione in occidente. La sessualità in genere cui si riconosce sempre più valore nella vita coniugale.
Il ruolo dello Spirito di Profezia Il grande ed irrinunciabile ruolo che Ellen G. White ha ricoperto nella Chiesa avventista ha avuto un forte peso nel determinare i valori etici della chiesa, questo più in America che in Europa. Il problema dell'autorità normativa delle sue affermazioni ha dato luogo a continue polemiche, anche perché lei stessa a volte reclama una sorta di legittimità divina sulle sue posizioni, altre volte afferma che «solo Dio è infallibile» e che quando lei si esprime su argomenti comuni e non sacri esprime soltanto le sue personali opinioni.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Scrive Arthur Spalding: «Lei non ha mai preteso l'infallibilità. Il sostenere un'infallibile e umana autorità è la risorsa di seguaci insicuri che non pensano con la loro testa e richiedono un oracolo.»521 E' purtroppo invalsa l'abitudine di inondare le chiese d’opere compilative di Ellen G. White: si tratta di libri in cui innumerevoli citazioni o brani di Ellen G. White sono riuniti per argomento, senza sufficiente cura della cronologia, o delle circostanze o degli interlocutori interessati; il risultato sovente è rappresentato da opere prolisse, ripetitive, contraddittorie, anacronistiche, poco comprensibili. L'effetto spesso è opposto a quello che i curatori si propongono: una sempre maggiore messa in discussione dell'autorità e dell'utilità della testimonianza di Ellen G. White. Nell'Italia avventista, pochi sono coloro che danno effettivamente un credito totale allo Spirito di Profezia, pochi quelli che non vi credono per nulla, la grande maggioranza è fatta da persone che affermano di credervi, senza avere però chiare le implicazioni di tale dichiarazione. Sicuramente l'uso fatto degli scritti in questione e l'attitudine dei loro pochi accaniti sostenitori hanno una notevole responsabilità in tale situazione imbarazzante. Inoltre, negli ultimi decenni la figura e l'opera di Ellen G. White hanno subito pesanti attacchi esterni e, soprattutto, interni alla chiesa; tutto questo, minando l'autorità morale di Ellen G. White, ha reso precaria la struttura etica che a lei s’ispirava.522
521
SPALDING, A. Origin and History of Seventh-day-Adventism. Vol. I. Washington, D.C.: Review and Herald Publishing Association, 1961, p. 77 522 Segnaliamo l’interessante e documentato testo di RIZZO, R. L’eredità di un profeta. Impruneta (Firenze): ADV, 2002.
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI
L'eredità culturale vittoriana e americana L'avventismo impegna i suoi aderenti in un sotto-sistema etico molto sviluppato. Nella sua tradizione esiste, infatti, un livello elevato di proibizioni: nell'osservanza del sabato, nel campo alimentare, nel consumo di certe sostanze eccitanti, nel fumo, nell'abbigliamento, nell’estetica personale, nei divertimenti, nel gioco, ecc... Alcune di queste proibizioni possono essere viste come un riflesso del mondo vittoriano,523 altre invece non possono essere così facilmente spiegate. Tali prescrizioni localizzate nel comportamento osservabile portano ad individuare facilmente un buon Avventista; il rischio è che tale semplice canone prescrittivo pare assolvere gli Avventisti da una più vasta responsabilità verso questioni etiche maggiormente complesse ed implicanti. In altre parole, l'immediatezza del loro sottosistema etico ha portato certamente dei benefici pratici agli Avventisti, ma la sua estensione li ha incoraggiati ad operare per lo più a livello dei loro tabù evitando questioni più complesse, producendo, secondo Pearson, «il fallimento della immaginazione morale avventista».524 Da un paio di decenni a questa parte, è evidente che l'avventismo cerca di riparare a questa debolezza; forse il momento-simbolo di tale presa di coscienza è stato la fondazione del Loma Linda University Center for Christian Bioethics nel 1984 che divenne universalmente noto per i trapianti di cuore di babbuino su bambini.
523
Alcuni studiosi hanno definito quella avventista, una subcultura vittoriana protestante. 524 PEARSON, Millennial Dreams and Moral Dilemmas. Seventh-day Adventism and contemporary ethics, p. 44.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE Sempre negli ultimi 20/25 anni, sono apparse diverse, significative, opere che evidenziano le radici storiche e teologiche dell'avventismo.525 Queste riflessioni hanno contribuito a contestualizzare il patrimonio dottrinale dell'avventismo, mostrandolo come parte di un processo riformatore e non come la nuova riforma. Seguendo la storia della nostra Chiesa, si evidenziano i suoi caratteri nord-americani, che, sovente, l'hanno posta in difficoltà nel fronteggiare molti problemi locali che possono essere capiti solo con la conoscenza dello specifico retroterra socio-politico-culturale. Forse la più grande eredità che la cultura americana ha trasmesso all'avventismo è il pragmatismo: la Chiesa infatti manifesta una notevole abilità a adattarsi per sopravvivere, questo ci pare un pregio, occorre però rendersene consapevoli e non proclamare una virtuosa fissità. Tale attitudine di venire a patto con la realtà cercando di non mettere in pericolo l'essenza dell'avventismo è, però, un'operazione necessaria ma difficile, che dovrebbe partire dal riconoscimento del cambiamento della natura della composizione del popolo avventista. Solo in questo inizio di millennio la Chiesa pare rendersi veramente conto della vasta problematica generata dalla sua diffusione in tutto il globo, che ne fa una realtà pluri-etnica, pluri-culturale e anche pluri-religiosa. Un conseguente problema pratico di grande importanza che tale realtà fa emergere è il seguente: è giusto e possibile che una Chiesa 525
Ricordiamo: dell'inglese Bryan BALL, The English Connection: The Puritan Roots of Seventh-Day Adventism (Cambridge: James Clarke and Co, 1987); dell'anglicano australiano Geoffrey PAXTON, The Shaking of Adventism (Grand Rapids [Michigan]: Baker Book House, 1978. <http://www.presenttruthmag.com/7dayadventist/shaking/index.html> [4 febbraio 2009]); dell'americano W. L. EMMERSON, The Reformation and the Advent Movement (Washington: Review and Herald, 1983),
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ETICA E AVVENTISMO: ALCUNE CONSIDERAZIONI GENERALI così oggettivamente ed ineludibilmente differenziata possa avere degli standard etici comuni? Come conciliare concretamente unità e diversità? Cosa va ritenuto patrimonio non negoziabile e cosa va lasciato alle specifiche culture? La risposta a tali essenziali quesiti non è estranea ai caratteri propri dell'etica e alle prospettive di radicale mutamento che i passaggi epocali pongono a tutti; in altre parole, l'etica avventista non può staccarsi né come radici, né come prospettiva, da quella del mondo, o dei mondi, in cui si colloca.
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MODERNITÀ, POSTMODERNITÀ E MORALE amDYyZ4gbPpo2zDg&sa=X&oi=book_result&ct=result&resnum= 1#v=onepage&q=%22arco%20di%20vita%20di%20coloro%22&f =false> [Consulta: 17 septiembre 2009] BERNANOS, George. Lo spirito europeo e il mondo delle macchine. Milano: Rusconi, 1972. BLANCHOT, Maurice. L’infinito intrattenimento. Torino: Einaudi, 1977 BODEI, Remo. Il libro della speranza e della memoria, Bologna: Il Mulino, 1995. BONHOEFFER, Dietrich. Etica. Milano: Bompiani, 1969. BUBER, Martin. Il problema dell’uomo. Leumann (Torino): Edizioni Elledici, 1983. – L’eclissi di Dio. Milano: Passigli, 2001. CASOLI, Giovanni. Presenza e assenza di Dio nella letteratura contemporanea. Roma: Città Nuova, 1995. CERETI, Giovanni e altri. Storia del cristianesimo. L’età contemporanea. Roma: Laterza, 1997. CHIURAZZI, Gaetano. Il postmoderno. Milano: Mondatori, 2002. CORRADI, Enrico. Le ragioni dell’etica. Oltre la cultura del frammento. Milano: ITL, 1998. DI MARCO, Chiara. Percorsi dell’etica contemporanea. Milano: Mimesis, 1999. EMMERSON, W. L. The Reformation and the Advent Movement. Hagerstown (Maryland): Review and Herald Publishing Association, 1983. FERRARIO, Fulvio. Libertà di credere. Torino: Claudiana, 2000. FILORAMO, Giovanni. Le vie del sacro. Torino: Einaudi, 1994. FLORES D’ARCAIS, Paolo. Etica senza fede. Torino: Einaudi, 1992. FORTE, Bruno. La sfida di Dio, Milano: Mondatori, 2002. – L’essenza del cristianesimo. Milano: Mondatori, 2002. FORTE, Bruno; QUINZIO, Sergio. Solitudine dell’uomo, solitudine di Dio. Brescia: Morcelliana, 2003.
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