Azione 06 del 4 febbraio 2019

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Due psicologi americani spiegano in un libro come superare la resistenza a migliorarsi

Ambiente e Benessere Il dottor Brazzola, responsabile del Servizio emato-oncologico dell’ORBV, parla dei tumori pediatrici, del percorso di cura e dei successi medici che aumentano

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 4 febbraio 2019

Azione 06 Politica e Economia Le nuove rotte commerciali dell’Artico che cambiano il mondo

Cultura e Spettacoli A 150 anni dalla morte di Carlo Cattaneo diversi appuntamenti ne ricordano la figura

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di Nocioni e Rampini pagine 28-29

AFP

Il disastro chavista

pagina 35

Uno shutdown boomerang di Peter Schiesser È stato lo shutdown governativo più lungo della storia degli Stati Uniti (che negli ultimi 40 anni ne ha conosciuti 21): per 35 giorni 800mila dipendenti del governo federale sono rimasti senza paga, ma 420mila hanno dovuto continuare a lavorare per garantire i servizi essenziali (compresa la sicurezza della famiglia del presidente), innumerevoli altri sono rimasti senza reddito o quasi a causa di uffici, musei e parchi nazionali chiusi, la qualità di compiti importanti come quelli della guardia costiera e degli addetti alla sicurezza aerea ne ha risentito fortemente. Alla fine il presidente ha ceduto, accettando di porre termine allo shutdown senza ottenere il finanziamento per il muro al confine con il Messico. The loser questa volta è lui, Donald Trump, lui che manifestamente riesce a provare solo disprezzo per i perdenti. Certo, ha cercato di relativizzare la sconfitta, assicurando che non rinuncerà al muro, a costo di far ricorso ai poteri speciali, e poi lo shutdown è solo sospeso per tre settimane... Ma che cosa è successo? Come mai Trump ha ceduto in cambio di nulla? Ora che i democratici hanno riconquistato la Camera

dei rappresentanti, Trump ha incontrato la prima persona che gli tiene testa: Nancy Pelosi, speaker della Camera, che di fatto occupa una carica istituzionale pari a quella del presidente – in virtù della separazione dei poteri fra legislativo ed esecutivo. E Donald Trump non solo non ha potuto far valere il suo potere, è persino cascato nel tranello tesogli da Nancy Pelosi: in una riunione alla Casa Bianca, davanti alle telecamere accese, il presidente si è talmente infuriato per il no al muro di Pelosi e del capogruppo democratico al Senato Schumer, da dichiarare che avrebbe decretato lo shutdown del governo se i democratici si fossero opposti al finanziamento. Essendosi assunto la responsabilità della chiusura, la sconfitta risulta ancora più bruciante. E il disappunto fra gli elettori, anche fra i suoi sostenitori, elevato: qui si è giocato sulla pelle del semplice cittadino, danneggiando l’economia, dando prova di scarsa sensibilità sociale (un ministro di Trump, miliardario, si è detto stupito che i lavoratori senza paga non volessero semplicemente ricorrere a dei crediti privati), per una sorta di capriccio politico del presidente. Vista la tenacia di Nancy Pelosi (che ha pure impedito a Trump di tenere alla Camera il discorso sullo stato dell’Unione prima della fine

dello shutdown) e l’intenzione dei democratici di mostrarsi compatti, si può desumere che la seconda metà del mandato sarà più difficile per Trump. Non ha più una maggioranza repubblicana in entrambe le camere del Congresso che gli obbedisce per convinzione o per timore di essere punita dalla base del partito, perciò ha due opzioni: o va allo scontro permanente rischiando altre umilianti sconfitte, oppure accetta dei compromessi con i democratici, ora ben consapevoli del loro potere di ostruzione. Ma i democratici non si accontenteranno di questo: faranno di tutto per picconare il presidente anche sul piano personale, esigendo la pubblicazione delle sue dichiarazioni fiscali, istruendo qualche altra inchiesta. Nel frattempo, l’inchiesta coordinata da Robert S. Mueller (con la S che sta per swan, cigno) sui rapporti fra il suo staff e la Russia cresce di intensità: con l’arresto di Roger Stone, già consigliere di Trump, si arriva sempre più in alto nella cerchia degli uomini della campagna del presidente. Stone si era vantato di conoscere in anticipo le rivelazioni di Wikileaks su Hillary Clinton e di avere rapporti con un cittadino russo, risultato essere uno degli hacker che hanno sottratto dati al partito democratico. Per The Donald, questi due anni non saranno una passeggiata.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Attualità Migros

La digitalizzazione nella formazione è già realtà

Scuola Club Migros Ticino Nuovi corsi e nuove forme di insegnamento concretizzano

la volontà di innovazione nelle proposte didattiche per i prossimi anni La portata dei cambiamenti tecnologici in atto è così ampia da giustificare il ricorso all’idea di «rivoluzione 4.0» per raccontarli. Stiamo attraversando una fase di mutamenti inediti che può essere paragonata, per i suoi multiformi impatti, ai grandi turning point del pas-

sato, come l’avvento del vapore o dell’elettricità. Ormai è chiaro che il digitale e le sue logiche stanno ridisegnando radicalmente i nostri modi di comunicare, lavorare, produrre, viaggiare, abitare. Creeranno nuove professioni e rimodelleranno quelle esistenti.

Anche il campo della formazione è incluso nel vortice delle innovazioni, poiché stanno cambiando i nostri stessi modi di conoscere e di apprendere. Alla Scuola Club di Migros Ticino la sfida della digitalizzazione è stata raccolta per tempo. «Dal 2015 stiamo lavorando

Formazione per formatori Corsi in partenza a Bellinzona

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per rendere la nostra proposta formativa sempre più capace di dialogare con queste trasformazioni. Questo ci ha portato a muoverci in tre direzioni. La prima tocca l’innovazione dei mezzi didattici» spiega Mirella Rathlef, Responsabile della Scuola Club di Migros Ticino. «Come sappiamo, gli strumenti non sono mai neutrali nell’apprendimento: il digitale si impara soprattutto facendone esperienza. Per questo motivo ho deciso alcuni anni fa di investire nelle dotazioni tecnologiche delle nostre sedi oggi provviste di LIM, le lavagne interattive multimediali. Oggi siamo al secondo step: l’adozione del tablet e dello smartphone come strumenti didattici individuali per i nostri partecipanti». «La seconda direzione di lavoro ha a che fare con le competenze digitali dei nostri formatori» racconta Barbara Sangiovanni, Responsabile Formazione FFA & Quality Management alla Scuola Club di Migros Ticino. «Siamo partiti dall’apprendimento dell’uso della LIM per arrivare in modo sempre più convinto all’adozione del digitale al fine di facilitare l’apprendimento. Questo significa per un formatore disporre di un ventaglio più ampio di tecniche e strumenti per garantire sia lezioni sempre più interattive, sia, non da meno, creare punti di contatto con i nativi digitali. Tutto a vantaggio di un apprendimento più vivace, interessante, coinvolgente. E dal momento che ci interroghiamo costantemente su come innovare nella didattica, abbiamo progettato, grazie anche al supporto della nostra rete nazionale, un percorso formativo ad hoc che presenteremo a Lugano il prossimo 16 aprile». «Il terzo filone di lavoro riguarda l’Online Academy, che oggi siamo pronti a proporre alle aziende» riprende Mirella Rathlef. «L’Online Academy è concepita come un complemento e non una sostituzione dell’offerta classica caratterizzata dall’apprendimento in

Animare corsi per adulti FFA APF-M1 Dal 23.02.2019 (14 incontri, 91 ore). Prezzo: CHF 2600.–. Sostenere processi individuali di apprendimento FFA APF- M3 Dal 23.03.2019 (4 incontri, 26 ore). Prezzo: CHF 950.–. Accompagnare processi di formazione in gruppo FFA APF-M2 Dal 4.04.2019 (5 incontri di cui 4 in forma residenziale, 36 ore). Prezzo: CHF 1500.–. Serata informativa Novità!

La digitalizzazione nella formazione. Come diventare formatori digitali. Percorso formativo A Lugano, martedì 16.04.2019, ore 19.00. Informazioni e iscrizioni: Tel. 091 821 71 50 formazione.formatori@migrosticino.ch www.scuola-club.ch presenza, sotto la guida di un docente, una modalità che conferma ancora oggi tutta la validità dei suoi presupposti metodologici e didattici. Tuttavia le molteplici esigenze delle imprese ci spingono a trovare nuove soluzioni per consolidare e potenziare le conoscenze linguistiche dei collaboratori in breve tempo e in modo mirato. Parliamo di figure molto impegnate e spesso in trasferta che faticano a seguire un corso in modo regolare. L’Online Academy è perfetta per loro. Le sessioni sono infatti accessibili ovunque e in qualsiasi momento». Tre sono i profili della proposta, attualmente disponibili in inglese, tedesco, francese, spagnolo e italiano. Si parte con la formula BASIC, un e-learning di 24 unità didattiche, per passare al COACH, che vede in aggiunta un supporto individuale online e compiti a casa personalizzati, fino al PRIVATE a tutti gli effetti su misura. La digitalizzazione? Alla Scuola Club di Migros Ticino è già realtà.

Per la tutela dell’ambiente

Ecologia I n futuro Migros offrirà solo frutta e verdura svizzere

provenienti da fornitori con serre riscaldate da fonti rinnovabili Il cambiamento climatico è una realtà. Migros quindi si è posta da tempo obiettivi ambiziosi per ridurre le emissioni di CO2 nella propria azienda. Ora fa un ulteriore passo avanti, intervenendo nella propria catena di fornitura: l’obiettivo è che entro il 2025 tutti i produttori svizzeri che riforniscono Migros di frutta e verdura riscaldino le loro serre con energie rinnovabili. «Con questo progetto pionieristico Migros, insieme ai propri produttori, dimostra che il riscaldamento senza l’utilizzo di olio combustibile e gas fossile è possibile», afferma il capo del WWF Thomas Vellacott. E aggiunge: «È di questo tipo di impegno collettivo che abbiamo bisogno per adempiere all’accordo di

Parigi sul clima e contenere il cambiamento climatico. In tal senso, Migros lancia un segnale chiaro, anche agli altri settori dell’economia». Oggi le serre sono riscaldate soprattutto con petrolio o metano. In futuro ogni azienda dovrà impiegare per la propria sede un mix ottimale di fonti energetiche rinnovabili. Pompe di calore, riscaldamento a legna, biogas, geotermia, energia solare e allacciamento a sistemi di teleriscaldamento con le centrali di termovalorizzazione saranno così portati in primo piano. Le serre in Svizzera verranno riscaldate soprattutto all’inizio e alla fine della stagione al fine di prolungarla. Si calcola che questo intervento permetterà ogni anno un risparmio

fino a 75’000 tonnellate di CO2, mentre le serre riscaldate con l’utilizzo di energie rinnovabili permetteranno un rafforzamento della produzione agricola regionale. Per migliorare ulteriormente l’impatto ambientale delle serre va considerato che un uso generalizzato di impianti di produzione idroponica permetterà un sensibile risparmio d’acqua, grazie a un’irrigazione controllata da computer, e un decisivo risparmio anche nell’uso di fertilizzanti e di insetticidi. Al termine del ciclo di crescita, i nuovi sistemi di coltivazione potranno permettere aumenti di produzione. Il progetto di rinunciare entro il 2025 ai combustibili fossili in questo

Azione

Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

I nuovi sistemi di coltura avranno un impatto positivo sulle emissioni di CO2. (MM)

settore è ambizioso. Il cambiamento avverrà in stretta collaborazione tra Migros e i suoi produttori. Ogni anno Migros investirà nel progetto un milione di franchi. Il denaro servirà a sostenere economicamente la conversione dei produttori. Inoltre, grazie

a impegni chiari in merito ai futuri volumi di ordinazione, i fornitori beneficeranno di una sicurezza di pianificazione. Migros accoglie con soddisfazione l’impegno di tutte le parti coinvolte per un futuro all’insegna del rispetto dell’ambiente.

Tiratura 102’022 copie

Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch

Inserzioni: Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino Tel 091 850 82 91 fax 091 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch

Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Visita anche

Idee e acquisti per la settimana

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Alta Salumeria Italiana

Attualità Una raffinata gamma di salumi sinonimo di storia, tradizione e qualità selezionata per voi da Migros.

Li potrete assaggiare nelle filiali di Lugano, dal 6 al 7 febbraio, e a Biasca dall’8 al 9 febbraio

La linea di salumi gourmet Alta Salumeria seduce i palati come nessun’altra. Prelibatezze quali Prosciutto di Parma, Prosciutto del Chianti, Pancetta Artigianale, Bresaola di Punta d’Anca, Coppa di Parma e Porchetta arricchiscono di aromi e profumi unici la tavola di qualsiasi buongustaio. Tutte queste specialità sono elaborate dal prosciuttificio Crudi D’Italia, la cui sede si trova nel cuore del Parmense, territorio ad alta vocazione per la produzione dei salumi più pregiati. Fiore all’occhiello della gamma è senz’altro il Prosciutto di Parma DOP, antica tipicità che viene prodotta con grande passione ed esperienza nel pieno rispetto della tradizione e della filiera produttiva del Consorzio. I segreti della lavorazione sono da ricondurre alla capacità di selezionare accuratamente le materie prime, in primis cosce di maiali nati e allevati esclusivamente in 10 regioni del Centro-Nord Italia, di razza Large White Landrance e Duroc, alimentati con mangimi di qualità quali granoturco, orzo e siero della lavorazione del Parmigiano, e che abbiano raggiunto mediamente un peso di 160 kg. La prima fase della produzione prevede il raffreddamento delle cosce per 24 ore affinché la carne possa rassodarsi e rifilata più facilmente. La rifilatura viene eseguita a mano e permette di rimuovere parte del grasso e della cotenna per favorire la successiva salagione, dove le parti della cotenna sono trattate con sale umido, mentre quelle magre con sale asciutto. La salagione avviene in due fasi, dette «primo sale» e «secondo sale», dopo le quali le cosce vengono poste nella cella «di riposo» per un periodo che può durare fino a 80 giorni. Una volta lavate, le cosce sono appese ad asciugare in stanzoni con condizioni ambientali naturali otti-

I prosciutti stagionano lentamente nelle «Antiche Cantine Luppi».

mali – fase nota anche come pre-stagionatura - dopodiché la parte muscolare scoperta viene ricoperta di sugna per proteggere la carne e preservarne la sua morbidezza. La stagionatura nelle «Antiche Cantine Luppi»

Al 7° mese i prosciutti sono pronti per la stagionatura e vengono trasferiti nelle «Antiche Cantine Luppi» di San Vitale di Baganza, situate in una Villa del Settecento appartenuta ai Conti Carpintero. Qui le cosce trovano le condizioni ambientali ideali

per maturare lentamente secondo la migliore tradizione. In queste cantine a volte irregolari e pareti larghe fatte di sassi e mattoni che «respirano», si creano microclimi particolari e unici che permettono di determinare il caratteristico profumo e la peculiare dolcezza del Prosciutto di Parma DOP. Arrivati fino a 24 mesi di stagionatura, periodo in cui sono stati curati e seguiti con passione dai mastri salumieri, i prosciutti sono pronti a deliziare ogni amatore dei sapori più intensi e caratteristici della grande tradizione gastronomica italiana.

Rösti Limited Edition 500 g Fr. 3.20

Fino all’11 febbraio nelle maggiori filiali Migros molte delizie della cucina svizzera sono in primo piano. Inoltre, con un po’ di fortuna, si possono vincere carte regalo Migros partecipando al concorso tematico online sul sito migros.ch/chalet. Gli amanti di una delle specialità nazionali più conosciute al mondo hanno di che gioire, ma solo se si affrettano! I rösti in tre particolari e golose varianti sono infatti disponibili solo fino ad esauri-

Prosciutto di Parma DOP 100 g Fr. 6.60

Inverno in forma con la spremuta d’arancia fresca

Flavia Leuenberger Ceppi

Rösti in edizione limitata

Bresaola Punta d’Anca 100 g Fr. 7.50

mento dello stock. La scelta include i rösti svizzeri con cervelat, formaggio e pancetta, dedicati a chi ama i sapori particolarmente intensi; i rösti dell’alpigiano con knöpfli e formaggio Appenzeller per un pasto all’insegna della genuina tradizione; mentre chi cerca qualcosa di più delicato non si lascerà sfuggire i rösti grigionesi con carne secca. Pronti da arrostire, si preparano in pochi minuti in padella senza l’aggiunta di grassi.

Durante il periodo invernale le spremute fresche 100% frutta sono particolarmente gettonate: oltre ad essere gustose e rinfrescanti, fanno anche bene, perché aiutano a fare il pieno di vitamine, sostanze utili a sostenere e rinforzare il nostro sistema immunitario e a combattere i malanni stagionali come raffreddori e influenze. E allora correte a concedervi la vostra razione quotidiana di salutare bontà, grazie alle spremute d’arancia che potrete preparare voi stessi nei supermercati

Migros di Giubiasco, Grancia, Locarno, Serfontana, Agno, S. Antonino, Lugano e Bellinzona. Qui troverete uno spremiagrumi facile da utilizzare: non dovete fare altro che posizionare la bottiglia da 0,5 o 1 litro messa a disposizione e premere il pulsante. La spremuta di arance bionde così ottenuta è da conservare in frigo e da consumare al più presto. Infine, nelle filiali indicate, venerdì e sabato prossimi siete invitati a degustare le freschissime spremute appena fatte.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Idee e acquisti per la settimana

Profumo di basilico

Attualità Il Pesto di Pra’: i sapori autentici della cucina genovese a casa vostra

Il vero pesto genovese rappresenta un antico rituale tramandato da generazioni e generazioni. Un perfetto equilibrio di fragranze che trova la sua terra d’elezione a Genova, nel quartiere di Pra’. È infatti in questo territorio, stretto tra montagna e mare, assolato e accarezzato dalla brezza marina, che l’azienda Il Pesto di Pra’ coltiva con passione il rinomato basilico ligure DOP, apprezzato per il suo profumo delicato, il sapore intenso e le caratteristiche organolettiche uniche nel suo genere. Questo è l’ingrediente principale d’eccellenza utilizzato dall’azienda stessa per produrre il tradizionale pesto genovese, il condimento della cucina ligure ormai diventato imprescindibile sulle tavole di tutto il mondo. Il segreto del suo aroma antico, genuino e inconfondibile, sta nell’accurata lavorazione artigianale del basilico appena raccolto e dal perfetto dosaggio degli altri ingredienti essenziali, nella fattispecie pinoli e aglio italiani, Pecorino Romano DOP, sale marino grosso, olio extra vergine d’oliva scelto e Parmigiano Reggiano e Grana Padano DOP. Il pesto genovese tradizionale Il Pesto di Pra’ è un prodotto fresco, lavorato a freddo e senza conservanti. Nella cucina mediterranea si presta a mille usi differenti: accanto ai classici abbinamenti con paste quali ad esempio trofie, orecchiette, gnocchi, lasagne, linguine o tagliolini, è ottimo anche su gnocchi di patate, nei minestroni, su carni, pesce, formaggio, sulla pizza, oppure ancora per la preparazione di sfiziosi crostini per l’aperitivo. Infine, segnaliamo che al reparto refrigerati di Migros Ticino, oltre al Pesto di Pra’ tradizionale, è pure disponibile la variante senza aglio, indicato per coloro che non gradiscono questo ingrediente.

Pesto e trofie: un connubio perfettamente riuscito.

Il pesto di Pra’ 90 g Fr. 3.–* invece di 4.30

Il pesto di Pra’ senz’aglio 90 g Fr. 3.–* invece di 4.30 *Azione 30% dal 5.2 all’11.2

Marrons Glacés e Marroni Canditi Agrimontana

Collant alla moda sostenibili

in ogni momento dell’anno

dei collant a base di semi di ricino bio per contribuire alla salvaguardia dell’ambiente

Specialità Raffinate delizie di qualità eccelsa da assaporare e regalare

Attualità L’assortimento Migros annovera

Marroni Canditi Agrimontana 4 pezzi Fr. 5.20

Collant Organic We Care 50 DEN Fr. 8.90

Marrons Glacés Agrimontana 4 pezzi Fr. 5.50

Nata nel 1972 nei pressi di Cuneo, in Piemonte, la Agrimontana è un’azienda a conduzione famigliare, da sempre specializzata nella produzione artigianale di marroni canditi e marrons glacés. Solo i migliori marroni italiani accuratamente raccolti e selezionati diventano delle specialità Agrimontana. I pregiati frutti provengono da castagneti di montagna gestiti in modo tradizionale ed elaborati con passione e cura da esperti mastri canditori. La

delicata canditura avviene per mezzo di un processo graduale a bassa temperatura con una miscela di sciroppi a concentrazione di zucchero crescente. La lenta e accurata lavorazione permette di conservare la consistenza e il sapore originale dei marroni. I prodotti sono privi di conservanti, aromi, coloranti e antiossidanti. Come vuole la tradizione, i marroni sono asciugati al forno su griglie e, nel caso nei marrons glacés, ricoperti con una fi-

nissima glassa di zucchero al velo che conferisce al prodotto finale la sua caratteristica trasparenza e lucentezza. Variazioni di colore dei singoli frutti sono sinonimo di naturalità del prodotto. Uno speciale metodo di confezionamento mantiene inalterate le qualità dei marroni appena glassati. I Marrons Glacés e i Marroni Canditi Agrimontana sono disponibili nelle maggiori filiali Migros, nella confezione da 4 pezzi.

Sotto la linea «Organic We Care», troverete dei variegati e innovativi collant alla moda prodotti con fibre ottenute a partire da semi di ricino biologici, ossia provenienti da coltivazioni esenti da sostanze chimiche. Gli stessi semi sono utilizzati anche per la preparazione dell’olio di ricino, conosciuto a molti per il suo effetto depurativo. L’utilizzo di semi di ricino permette inoltre di ottenere delle fibre

dalle proprietà antibatteriche naturali e particolarmente morbide da indossare. Nell’assortimento Migros di biancheria e calzetteria il tema bio e sostenibilità ha sempre più un ruolo importante. Oltre ai collant «Organic We Care», la scelta include anche collant realizzati con microfibre di poliammide riciclato. I collant possono essere lavati in lavatrice a massimo 40 gradi, senza candeggio.


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Società e Territorio I rustici di Dario Müller Un libro edito da Dadò raccoglie i disegni nati da un passione che dura da più di quarant’anni

Primi passi alla scuola dell’infanzia Opinioni a confronto sul delicato momento dell’inserimento graduale dei bambini durante il primo anno di frequenza alla scuola dell’infanzia pagina 9

Reinserimento professionale L’attività della Fondazione IPT, organizzazione attiva nel ricollocamento dei disoccupati grazie a programmi personalizzati pagina 11

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Per migliorarsi bisogna superare la propria immunità al cambiamento. (Marka)

La possibilità del cambiamento

Psicologia In un libro appena pubblicato in italiano due psicologi americani spiegano come superare la resistenza

a migliorarsi: per trovare la versione migliore di sé non serve rincorrere il perfezionismo, ma riconoscere ansie e paure

Stefania Prandi Cambiare è difficile, ma non impossibile. Ne sono convinti Lisa Laskow Lahey e Robert Kegan, psicologi americani dell’Università di Harvard, che hanno dedicato al problema dieci anni di ricerche, incontri e pubblicazioni. Tutti sappiamo quanto sia faticoso modificare abitudini e atteggiamenti, anche quando in gioco ci sono aspetti importanti. Come spiega Laskow Lahey, «basta considerare i comportamenti dei malati di cuore ai quali i dottori hanno chiaramente detto di correggere lo stile di vita perché altrimenti possono morire. Questi pazienti sanno esattamente quello che devono fare: mangiare in modo più salutare, con una dieta povera di calorie, fare esercizio fisico, smettere di fumare, e così via. Eppure, nonostante rischino la pelle, soltanto uno su sette riesce davvero ad abbracciare nuove abitudini, gli altri continuano come prima». Le resistenze a migliorarsi sono spiegate dai due psicologi in un libro che negli Stati Uniti ha avuto successo e che è stato appena pubblicato in italiano. Il titolo, Immunità al cambiamento (Franco Angeli), ricalca il nome della teoria cardine di Laskow Lahey e Ke-

gan, alla base anche del loro programma di coaching individuale e di gruppo per le aziende. All’origine della possibilità di diventare la versione migliore di se stessi c’è l’idea che lo sviluppo mentale sia qualcosa di progressivo, cioè che con il dovuto nutrimento – dalla cultura nelle sue forme più svariate, alle interazioni con gli altri, all’esercizio fisico – non si blocchi e retroceda con il passare degli anni. La plasticità mentale, «l’incredibile capacità del cervello di adattarsi lungo tutto il corso della vita», permette di potersi mettere in discussione in continuazione. Il punto è come riuscire a smettere di auto-boicottarsi nonostante razionalmente si sia davvero convinti di voltare pagina. La motivazione individuale è la prima vera spinta (non si può essere persuasi dagli altri), ma non sufficiente quando c’è l’«immunità al cambiamento», determinata dalle resistenze che mettiamo in atto in maniera inconsapevole e che sono causate dalle nostre paure e dall’ansia. Un caso concreto, esaminato dai due studiosi, è la «mappa dell’immunità» di Cathy, giovane donna che lavora nel marketing di una delle aziende farmaceutiche più grandi al mondo.

«Energica, motivata e di successo, tende però a essere impaziente e stressata quando sopraggiungono problemi o ostacoli». Su un foglio vengono disegnate quattro colonne, dedicate rispettivamente all’impegno di Cathy per migliorarsi, alle azioni che intende fare o interrompere per superare l’impazienza e lo stress, agli obiettivi antagonisti nascosti e alle convinzioni latenti. È proprio su queste ultime due colonne che si deve agire per riuscire a innescare un percorso virtuoso. Qui Cathy riconosce consapevolmente i propri limiti (la difficoltà di dire no e di avere scontri con gli altri, il volere essere sempre e comunque la persona di riferimento per il suo gruppo, essere disponibile ad ogni costo) e le ragioni più intime della paura di fallire e di mostrarsi debole (timore di deludere i colleghi, pensare di rendere al centocinquanta per cento, pretendere una dedizione straordinaria dal suo team). Da queste considerazioni, risulta che Cathy dovrebbe imparare a rallentare, ad avere aspettative più realistiche per se stessa e per gli altri, a dire no quando necessario. Il percorso per passare dall’intenzione alla pratica, però, è accidentato. Mentre pensa di avere intrapreso la strada giusta, un

giorno sviene per il troppo nervosismo e finisce in ospedale. Da quel momento non può fare altro che constatare di non riuscire a essere all’altezza dei propri standard irrealistici. Ottiene anche il supporto del capo e dei colleghi che si preoccupano per lei. Nell’arco di sei mesi, Cathy riesce a sbloccare la sua «immunità» agendo nel concreto: va via dall’ufficio a orari umani, dedica del tempo a se stessa ogni giorno, inserendo nella sua routine l’esercizio fisico e la meditazione, chiede ad alcuni colleghi fidati di avvertirla con segnali in codice quando, senza accorgersene, sta per ricadere in certe dinamiche emozionali durante le riunioni. Alla fine riesce ad attuare «la propensione al cambiamento, che è spesso innescata da un’improvvisa comprensione di una verità su se stessi. Nella graduale scoperta dell’immunità, una porta che non si è vista prima si dischiude e rivela quello che era stato tenuto nascosto a se stessi. Anche se la prima reazione è il turbamento, in questo molti vedono una promessa e un’opportunità per comprendere finalmente la fonte dei comportamenti antagonisti». Immunità al cambiamento fa parte di un filone prolifico di pubblicazio-

ni che, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dà indicazione su come trovare la versione migliore di sé. Una parte di questi manuali cerca di andare sempre di più verso soluzioni accessibili perché sembra inutile darsi obiettivi improbabili che difficilmente possano adattarsi alla propria indole. È il caso di Happy Ever After: Escaping The Myth of The Perfect Life (Felici e contenti: sfuggendo al mito della vita perfetta), uscito nei giorni scorsi in inglese per l’editrice Allen Lane. L’autore, Paul Dolan, professore di Scienze comportamentali alla London School of Economy, spiega che in certe circostanze è meglio abbassare le aspettative, adattandole ai propri standard, per riuscire ad avere un’esistenza più soddisfacente. Ad esempio, non è detto che si debbano scegliere i percorsi canonici: non è necessario dovere andare all’università per avere soddisfazione nel lavoro né sposarsi per stare bene nella sfera privata. La sfida è ribellarsi al perfezionismo, che sembra essere diventato uno dei grandi assilli del nostro tempo, rivisitando l’idea di automiglioramento in un’ottica sostenibile: cambiare non significa stravolgersi, ma imparare ad ascoltarsi e correggere il tiro.


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Società e Territorio

L’essenza dei rustici Libri I disegni di Dario Müller pubblicati da Dadò

Luciana Caglio Nell’inesauribile discorso su identità e radici, che non di rado si presta a ingannevoli nostalgie, proprio i rustici rappresentano un punto fermo, cioè il passato come realmente fu. Testimoniano una presenza umana che ha lasciato, nel nostro paesaggio alpino e prealpino, già in epoche lontane, tracce concrete di habitat: ambienti di vita, dove risiedere e lavorare coltivando il suolo e allevando il bestiame. Da qui la necessità di costruire strutture di riparo e protezione: case, stalle, fienili per rispondere a bisogni essenziali. S’intitola appunto Architettura dell’essenziale: i nostri rustici il bel volume, pubblicato da Armando Dadò, in cui il tema è affidato, innanzi tutto, a 90 disegni di Dario Müller, singolare specialista in materia. Infatti, di professione musicista alla RSI, ha alle spalle anche studi d’arte figurativa al CSIA, con cui ha perfezionato un’abilità innata, messa poi al servizio della riscoperta dei rustici. Ne è nata una passione, cresciuta a competenza, che dura da più di quarant’anni. Risale, come ricorda, al 1976, quando, uscendo dai boschi della Capriasca, improvvisamente gli si para davanti la visione di un cascinale diroccato. L’incontro è soltanto in apparenza casuale. Infatti, quel viandante, come se l’aspettasse, era munito di album e di penna a inchiostro nero, pronto a ritrarre il rudere e poi a decifrarne il messaggio. Forse gli deriva dalla lettura degli spartiti, che esige un’incessante attenzione, fatto sta che, anche ai rusti-

ci, ha dedicato un’assiduità meticolosa. Lo confermano le immagini, disegnate con la precisione di un occhio fotografico e, in pari tempo, filtrate con l’inimitabile sensibilità dell’occhio umano, accompagnate inoltre da didascalie e citazioni. E così, su e giù per le valli, quest’osservatore e camminatore instancabile ha raccolto un materiale tale da compilare una carta topografica del Ticino, basata sui rustici: vera e propria peculiarità regionale. Lo è già dal profilo linguistico. Oltre confine, rustico è soltanto aggettivo, sinonimo di campagnolo o grossolano, mentre per definire una costruzione di pietra e legno, destinata ad animali, fieno, attrezzi, si dice stalla o cascina. In quanto a baita, in Italia come da noi, si allude ormai a un accogliente rifugio alpino. Nel nostro Cantone invece, il sostantivo rustico assume il significato ben più ampio di fenomeno dai tanti risvolti: architettonici, storici, politici, persino polemici. Appartiene al novero dei temi, caldi e suggestivi, che continuano a sollecitare l’intervento degli addetti ai lavori: in questo volume, Mario Donati, docente e sociologo e Benedetto Antonini, architetto e già direttore della Sezione pianificazione urbanistica cantonale. Il rustico, dunque, visto da angolazioni diverse. In quella di Donati, prevale lo sguardo storico che ricostruisce la quotidianità, immaginaria ma verosimile, di questi nostri predecessori, sul «filo conduttore della transumanza». Era «un costante peregrinare», alle prese con fatiche, avversità, e non di rado,

pestilenze e carestie. E, quindi, la casa rappresenta una roccaforte, con aperture ridotte al minimo, per difendersi da un esterno ostile. È proprio questa contrapposizione «dentro fuori» che meglio esprime il vero senso dell’abitare: assicurare un rifugio dalle minacce di una natura non sempre amica. Hanno molto da raccontare questi ruderi, smentiscono persino certa retorica attuale. Bisogna però saperli ascoltare. Ma, oggi, conclude l’autore, si conosce meglio il lontano e s’ignora «colpevolmente» il territorio vicino. Dal canto suo, Antonini, urbanista impegnato nella tutela del patrimonio paesaggistico e costruito, propone un’altra interpretazione dei rustici: quali segni di «un’architettura senza architetti», manufatti da cui «si sprigiona un senso di grande nobiltà, maestosi nella loro semplicità». Sono, insomma, i depositari di una forma spontanea di sacralità, che li rende intoccabili. Tanto da giustificare il loro abbandono a un inevitabile deperimento, teoria che, del resto, continua a trovare convinti sostenitori, non da ultimo nelle schiere ambientaliste. Ma è una minoranza. Per l’opinione pubblica corrente il rustico rappresenta una possibile residenza secondaria, a disposizione del cittadino in cerca di una tranquillità: agreste e tuttavia confortevole. Un’aspirazione molto diffusa, e del resto realizzabile: dato che non manca la materia prima. Infatti, i rustici sono tanti. Nella sola Valle Onsernone, l’architetto Giovanni Buzzi, autore dell’Atlante dell’edilizia rurale nel Canton

Vezio, Malcantone, 9.5.1987. (Dario Müller)

Ticino, ne aveva censiti 1400, di cui un terzo destinato a diventare villetta. Con tutti i rischi del caso. Ciò che indusse Buzzi a redigere il Manuale per la riattazione, a partire dall’esperienza in Val Bavona, dove sotto l’egida della Confederazione, del Cantone, dei patriziati, nel 1990 era stata creata una «zona protetta», per tutelare l’edilizia tradizionale e proporre modelli di corretto restauro. Evitando interventi sconsiderati: «Edifici trasformati in giocattoli, agghindate case per le bambole…» per dirla con Buzzi. Per di più, si tratta di operazioni abusive che violano le norme decise dalla Confederazione e, in parte contestate, dal Cantone che le ritenne troppo intransigenti. Insomma, una vertenza giudiziaria che dovrebbe concludersi nei prossimi mesi, sulla scorta di un compromesso, preannunciato dal ministro Zali. Intanto, la corsa al rustico abitabile prosegue: 700, negli ultimi cinque anni da parte di proprietari che, a volte, stentano ad accettare le disposizioni ufficiali. Qui si apre un altro capitolo di

questa vicenda sfaccettata. Concerne la sensibilità estetica del proprietario e la libertà dell’architetto, figura non sempre chiamata in causa. Ma, quando gli si affida un restauro, si fa sentire. In altre parole, lascia la propria impronta su un edificio che, inevitabilmente, cambierà faccia e funzione. In proposito, Pietro Boschetti, autore di riattazioni nella zona di Caroggio e a Vezio, parla di «intervento critico». Occorre, innanzi tutto, stabilire se valga la pena di intervenire, quando le condizioni dell’edificio appaiono precarie. Per poi modificare senza stravolgere, creando un ambiente adeguato alle normali esigenze del cittadino di oggi. Conclude: «È inutile scimmiottare la stalla che non esiste più». Questione, pure qui, di un compromesso. Se, come afferma, da urbanista, Antonini «il nuovo utente deve adattarsi all’oggetto, e non viceversa», d’altro canto l’oggetto è chiamato ad adattarsi al suo fruitore, come sostiene Boschetti, da architetto. E su queste due facce della medaglia si continuerà civilmente a discutere. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Società e Territorio

Dalla famiglia alla scuola

Scuola dell’infanzia Opinioni a confronto sul delicato momento dell’inserimento graduale durante il primo anno Sara Rossi Guidicelli

Chi ha figli piccoli e lavora deve fare i conti con tre aspetti: i propri orari, i ritmi del bambino e l’offerta scolastica. P. e G. hanno due figli, vivono nel Locarnese. Lui lavora a tempo pieno, lei ha un posto al 50%, per due giornate e mezzo, a Bellinzona. «Il più piccolo l’ho portato alla scuola dell’infanzia nell’anno facoltativo, perché era già stato al nido e mi avevano detto che in due settimane avrebbe concluso l’inserimento, ma per un mese il suo orario era dalle 8.30 fino alle 11.30, quattro giorni a settimana. Tempo di andare al lavoro ovviamente non c’era. Dopo un mese, ha cominciato a rimanere in mensa a mangiare, cosa che lui avrebbe voluto fare dal primo giorno. Prima di Natale dunque restava 4 giorni fino all’una e mezza. Mi dicevano che l’inserimento serve a dare continuità con le persone di riferimento di prima, per un passaggio graduale dalla famiglia alla scuola, ma ho dovuto mobilitare nonni, sorelle, mamme diurne e babysitter affinché aiutassero me e mio marito nell’organizzazione degli orari. Al pomeriggio non lo tenevano perché avrebbe avuto bisogno di un riposino, ma nella nostra sede non ci sono le brandine (perché non ci sono brandine in ogni sede?). Credo piuttosto che sia una questione di organizzazione della maestra, perché è lei che decide. Io ho provato a dirle i miei bisogni e quelli che penso siano di nostro figlio, ma non volevo insistere troppo per paura che poi l’antipatia per me si ripercuotesse sul piccolo. Prima al nido gli orari erano un po’ più prolungati, e tra me mia mamma e mio marito riuscivamo a gestire la settimana». Susy Poletti, vice presidente aggiunta della Conferenza Cantonale dei Genitori e direttrice pedagogica di Agape (associazione attiva nel sostegno alla conciliabilità famiglia-lavoro), commenta così: «Posso confermare che esistono diversi casi di genitori che si trovano in difficoltà nel conciliare lavoro e inserimento del figlio al primo anno di scuola dell’infanzia (facoltativo o obbligatorio, ndr). Le segnalazioni arrivano anche a noi. A volte, anche se raramente, si vivono situazioni frustranti quando si vedono bambini che assumono comportamenti regressivi dal nido alla scuola dell’infanzia proprio a causa di un inserimento troppo lento». Secondo lei ci vorrebbero criteri chiari, semplici e poco fraintendibili, che possano aiutare anche il genitore a capire quando il figlio è pronto a essere inserito e in quanto tempo, soprattutto quando devono scegliere se iscriverlo all’anno facoltativo. Durante la transizione, aggiunge Poletti, i tempi dovrebbero essere concordati coinvolgendo anche i professionisti che operano nelle strutture collettive come i centri extrascolastici, se li frequenta, e così via. Il regolamento sull’inserimento è infatti piuttosto elastico. «Noi per legge accogliamo tutti dai 3 anni», spiega Rezio Sisini, capo sezione delle Scuole Comunali. «Poi ci impegniamo a raggiungere entro la fine dell’anno facoltativo il tempo pieno, facendo quello che è più giusto per il bambino. Nell’anno obbligatorio, dai 4 anni, i bambini inizialmente frequentano 4 mattine e tutte le famiglie hanno un colloquio entro fine ottobre con il docente; i tempi di inserimento vengono concordati ad personam e l’obiettivo è di raggiungere il tempo pieno entro fine ottobre. I maestri sono professionisti che hanno metodi di osservazione molto precisi e che prendono decisioni sulla base di molti criteri, difficili però da definire in modo inequivocabile, perché non si tratta di macchine bensì di esseri umani. Per noi è importante il colloquio con la famiglia, per informarla sempre mano a mano delle osservazioni fat-

I tempi di inserimento alla scuola dell’infanzia sono elastici. (Ti-Press)

te sul bambino e per venire incontro ai loro bisogni qualora possibile. La scuola è un’istituzione e non un servizio: il suo compito è di formare ed educare i bambini. I servizi sul territorio devono invece dare una risposta ai bisogni di conciliabilità». Ma da parecchie testimonianze raccolte da noi, la piena frequenza spesso non è raggiunta nemmeno alla fine dell’anno, tra i bambini di tre anni; e molti genitori lamentano che anche tra i bambini di quattro anni l’inserimento si protrae ben oltre questo termine. A marzo scorso Nadia Ghisolfi ha scritto una mozione al Governo affinché le direttive nella scuola dell’infanzia siano adattate in modo che la frequenza a tempo pieno entro la fine di ottobre valga per tutti gli allievi iscritti, fatta eccezione per casi pedagogicamente motivati. Secondo Ghisolfi l’obiettivo della frequenza a tempo pieno per gli allievi nell’anno facoltativo «sembra in particolar modo venire dimenticato in alcune sedi». Nel corso della reale introduzione nella scuola dell’infanzia, la frequenza a tempo pieno per i bambini nell’anno facoltativo non viene più «costruita progressivamente e in accordo con la famiglia ma viene imposta secondo un rigido schema uguale per tutti: settembre e ottobre 4 mezze giornate senza refezione, dopodiché, se la maestra considera il bambino pronto, novembre e dicembre si integra la refezione, e poi, sempre a discrezione della maestra, da gennaio potrà frequentare anche al pomeriggio». Il Consiglio di Stato ha risposto che a febbraio 2018 solo il 47,14% degli allievi di tre anni erano scolarizzati a tempo pieno e che questo dato «è lungi dall’essere soddisfacente» e che l’opzione di un tempo parziale deve essere concordata con la famiglia. Laura Battaini e Alexia Devittori sono docenti di scuola dell’infanzia, rispettivamente di Pregassona e di Olivone, entrambe membre del comitato dell’Associazione Cantonale Docenti Scuola dell’Infanzia. «Secondo noi», spiegano, «abbiamo una struttura pensata molto bene. Ci sono maestri che ritengono sarebbe meglio separare i bambini dell’anno facoltativo in una classe a sé, così da poter integrare più rapidamente sia loro sia quelli dell’anno obbligatorio, ma noi non siamo di questa opinione. Tre fasce d’età insieme costituiscono una grande ricchezza. Seguire il ritmo del bambino significa inserirlo gradualmente il primo anno, renderlo poi pienamente partecipe nel secondo e addirittura responsabile dei più piccoli nel terzo. È una crescita bellissima. Certo, sappiamo che ci sono genitori che lavorano e quindi cerchiamo a volte di velocizzare il processo, ma se pensiamo al bambino, ai suoi bisogni affettivi, fisici, comunicativi, molte volte avrebbe bisogno di maggiore gradualità e lentezza». Nessuno nega poi che ci sia anche una questione di difficoltà crescente nell’organizzazione delle classi della scuola dell’infanzia. «Certo che esisto-

no problematiche che non sono legate né al bambino né alla questione della conciliazione lavoro-cura dei figli», esplicita Sisini. «Per esempio da molto tempo si denuncia il fatto che i docenti di SI lavorano ininterrottamente dalle 8.30 del mattino alle 16 senza pausa. In più c’è il fatto che il numero massimo di allievi per classe è troppo elevato (il Decs ha più volte proposto a diminuirlo ma senza trovare il consenso del Gran Consiglio). Riguardo alla refezione, di cui sono responsabili i Comuni, solo 18 sezioni su 419 non ne sono ancora dotate. Infine, sulla questione della possibilità di riposare, ogni sede offre un angolo tranquillo». Visto che non è la Scuola dell’In-

fanzia a dover risolvere i problemi dei genitori che lavorano, le loro disattese richieste d’aiuto devono essere rivolte altrove, cioè a chi si occupa di conciliabilità famiglia-lavoro (Dipartimento Sanità e Socialità) e in particolare alla sua rete di servizi extrascolastici. Rezio Sisini spiega che il Decs e il Dss, in collaborazione con la Supsi, hanno un gruppo di lavoro che sta compilando un documento da fornire ai Comuni al più presto con tutti i suggerimenti per l’offerta che questi possono mettere in piedi per le famiglie riguardo a validi servizi extrascolastici. «Come Conferenza Cantonale dei Genitori cooperiamo affinché migliori sempre più la collaborazione tra i due Dipartimenti»,

spiega Susy Poletti, «così da favorire la conciliabilità tra lavoro e genitorialità, nel rispetto dei bisogni del bambino. Il nostro contributo su questo tema passa anche attraverso la piattaforma “Forum della genitorialità”, che raggruppa associazioni e professionisti del territorio. Lavoriamo insieme ai Dipartimenti per un potenziamento dei centri extrascolastici, che ora sono più sviluppati nelle regioni del Luganese e del Mendrisiotto, nelle città di Bellinzona e Locarno, mentre sono meno presenti nelle Valli e nelle periferie dove, quindi, per il momento, chi può deve appoggiarsi di più sulla sua rete famigliare e di contatti. I centri extrascolastici garantiscono la refezione agli allievi delle scuole, sia dell’infanzia sia elementari, quando questa non è integrata nell’istituto, e garantiscono apertura per il pre e il doposcuola, compresi mercoledì e vacanze scolastiche. Vi lavorano educatori formati che sanno gestire tempi e attività in funzione dei bisogni dei bambini di ogni età e sanno adeguare l’intervento e distinguere i bisogni in relazione al periodo dell’anno e dell’attività scolastica svolta dai bambini». «C’è un altro aspetto ancora da non dimenticare in questo discorso», sottolinea Laura Battaini mettendo tutti d’accordo almeno su questo punto. «In Ticino si chiede molto alla scuola, perché manca flessibilità nei tempi di lavoro e questo riguarda i datori di lavoro. Se si potessero avere più tempi parziali, per le mamme, i papà e i nonni che lo richiedono, ci sarebbero meno problemi». Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Società e Territorio

Ritrovare un lavoro

Disoccupazione La Fondazione Integrazione Per Tutti è un’organizzazione attiva nel reinserimento professionale

dei disoccupati grazie a programmi personalizzati, abbiamo incontrato la direttrice Debora Banchini-Fersini Fabio Dozio Naser ce l’ha fatta. 45 anni, rifugiato politico proveniente dall’Iran, assistente di farmacia di formazione, cintura nera di taekwondo, un’arte marziale coreana. Dopo un periodo di disoccupazione è riuscito a inserirsi nel mercato del lavoro in Ticino grazie anche alla Fondazione Integrazione Per Tutti (IPT). «Sono molto riconoscente nei confronti della Fondazione, – dice – il lavoro fa parte del mio equilibrio personale. La mia mentalità non mi permette di restare inattivo. Ho bisogno di rendermi utile». IPT ha sostenuto e accompagnato Naser nella sua riqualificazione professionale e nella ricerca di una nuova attività. La Fondazione è presente in Svizzera da più di 45 anni. Fondata nel 1972 su impulso di alcuni imprenditori romandi, all’inizio si occupava soprattutto di persone escluse dal mondo del lavoro per problemi di salute. Oggi la missione è più ampia e riguarda tutti coloro che cercano un reinserimento professionale dopo aver perso il diritto agli aiuti sociali. Si tratta di un ufficio di collocamento specializzato che agisce in partenariato con le aziende, le assicurazioni sociali e private, i servizi sociali e i professionisti della sanità. A livello svizzero nel 2017 sono state assistite 4694 persone, la metà di queste ricollocate in un’attività professionale. Sono stati organizzati 2812 stage e la durata media del processo di inserimento è stata di 5,5 mesi. L’identikit dei disoccupati che si affidano a IPT è variegato. Dal profilo dell’età c’è un certo equilibrio. Un quarto sono giovani tra i venti e i trent’anni. Un quinto trentenni. Un altro quarto sono quarantenni e il rimanente sono cinquantenni. La maggioranza dei disoccupati proviene dagli Uffici regionali di collocamento, altrimenti dai servizi sociali pubblici e privati, da medici e ospedali. Interessante anche notare la durata della mancata attività. Per la maggioranza dei casi (35%) un anno al massimo, per il 18% dei casi fino a due anni. Più del 20% è rimasto senza lavoro da due a cinque anni e più. E ancora, il 18% delle persone che

si presentano a IPT non hanno mai avuto un impiego. In Ticino la Fondazione è attiva da una dozzina di anni e i disoccupati che fanno ricorso a IPT sono circa 350 in un anno, di cui la metà ritrova un lavoro. «La nostra Fondazione – ci dice la direttrice Debora Banchini-Fersini – ha un ruolo importante nella nostra società, perché essere senza lavoro significa perdere l’identità. Vediamo che emergono problemi anche in persone insospettabili, che fino al giorno prima stavano bene. Noi cerchiamo di lavorare sulle cose positive, di infondere fiducia, mettendo in rilievo le competenze di ognuno. Competenze di cui non sempre il disoccupato è cosciente. Bisogna mettere in luce le risorse e non i limiti. C’è chi ha qualità e conoscenze che non sono mai state utilizzate in ambito professionale perché fanno parte della vita privata». Il concetto di reinserimento professionale di IPT è originale e innovativo e si basa sulla cultura del possibile e sul principio di corresponsabilità. Gli operatori della Fondazione offrono un programma su misura e personalizzato in quattro tappe: un bilancio socioprofessionale completo, seguito da una valutazione delle risorse ed eventualmente da uno stage in un’azienda per valutare le capacità della persona. Poi segue la preparazione all’impiego, dove il candidato diventa attore del proprio progetto, per poi passare al vero e proprio collocamento, preceduto di solito da uno stage. Una volta ricollocato il candidato viene comunque ancora seguito da IPT e anche il datore di lavoro usufruisce del sostegno della Fondazione. «Ogni persona che arriva da noi ha un consulente di riferimento, poi ci sono i formatori e, se necessario, anche lo psicologo. – spiega la direttrice di IPT – Un sostegno a tutto campo per cercare un posto di lavoro. Noi lavoriamo con le aziende: in Ticino sono più di mille quelle che ci conoscono e circa 400 quelle con cui lavoriamo. L’80% delle offerte di lavoro non sono pubblicate sui giornali o sul web. Sono indispensabili i contatti e le conoscenze. Noi facilitiamo l’incontro con le aziende, e queste sono più disponibili nei confronti del disoc-

Cercare un lavoro spesso non è facile, in Ticino circa 350 disoccupati all’anno si rivolgono alla Fondazione IPT. (Ti-Press)

cupato, perché sanno che ha già fatto una preparazione con noi, un processo approfondito di conoscenza che deve basarsi sulla trasparenza». In Ticino i disoccupati lo scorso dicembre erano 5390, il 3,3% dei lavoratori, mentre in Svizzera il tasso di disoccupazione ammontava al 2,7%. In cerca d’impiego, alla fine dell’anno scorso, erano però più di 9mila. Questi sono i dati della SECO, che registra i disoccupati che si annunciano agli uffici del lavoro. I dati ILO, che contano anche coloro che non si iscrivono agli uffici e sono raccolti tramite sondaggi, indicano una disoccupazione del 7% in Ticino per l’ultimo trimestre del 2018. La disoccupazione non è più al primissimo posto fra le preoccupazioni degli svizzeri (secondo il sondaggio annuale del Credit Suisse), ma rimane fra i timori maggiori e soprattutto resta un fenomeno endemico. Lo Stato, le associazioni padronali e i sindacati si preoccupano e si muovono per contrastarla. Il direttore del Dipartimento ticinese delle finanze e dell’economia, Christian Vitta, non perde occasione per riba-

dire che il fenomeno della disoccupazione deve essere gestito attivamente e il lavoro va tutelato e protetto. Vitta ha visitato lo scorso mese di novembre la sede luganese di IPT, sottolineando l’importanza del processo di ricollocamento professionale. Il Dipartimento sottolinea che la visita a IPT è stato «un prezioso momento di approfondimento e di confronto, volto a riflettere congiuntamente sulle prospettive e sulle opportunità esistenti nel delicato ambito del sostegno al collocamento, un ambito di azione prioritario per il DFE, che si impegna a mettere al centro della sua azione il singolo individuo, con le sue caratteristiche, le sue competenze e i suoi percorsi». «La risposta delle aziende alle nostre sollecitazioni è buona. – precisa la direttrice Banchini-Fersini – Negli ultimi tempi mi sembra che ci sia una maggiore apertura da parte dei datori di lavoro, tanti cercano manodopera. Noi riusciamo a collocare la metà dei nostri disoccupati nel giro di sei mesi. Comunque ci sono persone che non riescono a reinserirsi. Bisogna fare il pos-

sibile per non lasciare per troppo tempo una persona disoccupata. Più passa il tempo, più si accumulano delusioni e frustrazioni, e questo non aiuta». Le testimonianze di chi si rivolge a IPT sono sintomatiche del disagio con cui è confrontato chi non ha un lavoro, come questa di un disoccupato quarantaquatrenne: «Sembra che tutto vada bene e poi, all’improvviso, il baratro. È come una collana di perle: se la cordicella si rompe non cadono solo una o due perle, ma tutte, e tutte assieme. Tutto ciò che aveva valore crolla, non resta niente, quindi che fare? Solitamente è così, perché tutto è collegato, la sfera affettiva, quella personale e quella professionale: una cosa tira l’altra». La direttrice Debora BanchiniFersini sottolinea che in questi anni si sta lavorando bene nell’ambito del ricollocamento. Ci sono diverse realtà attive in questo campo: «Siamo in tanti, ma ognuno coltiva il suo orticello. Sarebbe opportuno coordinare maggiormente, sviluppare una rete, con gli Uffici regionali di collocamento, le aziende, i diversi servizi attivi sul territorio».

Il Monte Ceneri frontiera interna dello sci Lanostrastoria.ch Pubblicati video storici degli sport invernali in Ticino Lorenzo De Carli Quest’anno, a metà gennaio, si è svolta una gara di slitte a motore a San Bernardino. È stata una competizione un po’ speciale, alla quale hanno partecipato piloti a bordo di motoslitte costruite anche decenni fa – una sorta di corsa vintage, in un percorso che non è privo, anch’esso, di una sua storia, perché proprio a San Bernardino, mezzo secolo fa, si svolse una delle prime competizioni di slitte a motore. Nelle pagine della piattaforma di storia partecipativa lanostraStoria. ch è stato reso disponibile l’unico video della storica competizione svoltasi a San Bernardino nel gennaio di cinquant’anni fa. Conservato su film 16mm e solo recentemente digitalizzato, il video andò in onda nella trasmissione televisiva «Obiettivo sport» nei giorni 19 e 20 gennaio 1969. Lo storico video dedicato a una delle prime gare europee di slitte a motore fa parte di un nutrito dossier interamente composto da video dedicati alla pratica degli sport invernali negli anni Sessanta nella Svizzera italiana, pressoché tutti

trasmessi da «Obiettivo sport» e mai più rivisti nell’ultimo mezzo secolo. Uno dei primi documenti risale al gennaio del 1963. A Cardada si svolgeva allora la gara di sci Tre Funi organizzata dallo Sci Club Locarno. Una

Christian Marazzi vinse la discesa libera di Carì nel 1969 (immagine tratta dalla pellicola in 16mm trasmessa da «Obiettivo sport»).

sintesi di questo slalom speciale – vinto da Francesco Segrada e da Brigitte Flüeler – andò in onda il 14 gennaio 1963. Dando notizia dell’imminente gara, l’8 gennaio 1963, l’«Eco di Locarno» scriveva: «Questa competizione è di grande richiamo e possiamo già annunciare che i concorrenti saranno più di quelli dello scorso anno raggiungendo circa una ottantina di ottimi elementi provenienti dal Ticino, dalla Svizzera interna e dall’Italia.» Curiosa l’osservazione che si legge nel penultimo paragrafo: «Facciamo notare che in questi ultimi anni gli sciatori del basso Ticino hanno compiuto grandi progressi raggiungendo il livello di quelli dell’alto Ticino, più favoriti dalle condizioni ambientali per la pratica dello sport». All’inizio degli anni Sessanta, dunque, il Monte Ceneri divideva la popolazione in due parti: a nord quelli che sapevano sciare, a sud quelli che ci provavano. Siccome gli altri video pressoché coevi – che documentano, per esempio, i campionati regionali di sci nel 1963 svoltisi a Leontica, la discesa libera di Carì del 1969, gli slalom gigan-

te a Bosco Gurin e al Sasso della Boggia dello stesso anno – mostrano solo competizioni svoltesi nel Sopraceneri, sembrerebbero la prova indiretta di quanto sostenuto dal quotidiano locarnese, senonché, a mano a mano che ci inoltriamo negli anni Sessanta, emergono nomi di sciatori di talento anche del Sottoceneri, verosimilmente a causa non tanto della maggiore o minore vicinanza alla neve, quanto piuttosto di una rapida diffusione sociale della pratica dello sci, che – dapprima appannaggio delle classi sociali agiate, che potevano permettersi trasferte, alloggi in località turistiche e attrezzature adeguate – diventa un’attività che anche la piccola borghesia ticinese in rapida espansione può permettersi, fino a diventare uno sport popolare grazie all’impegno profuso dagli sci club e dalla scuola. È tuttavia proprio a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta che la generazione del baby boom sviluppa il mito – nel frattempo rapidamente diventato nostalgia – degli sport invernali. Come in ogni mito, ci sono elementi di realtà. Basterebbe pensare al

fatto che una delle più popolari gare sciistiche di allora, la «Pontiade», organizzata dallo Sci Club Crap di Ponto Valentino, si svolgeva ai primi di maggio, mentre lo slalom speciale del San Gottardo, ancora nel 1969, si svolgeva ai primi di giugno – dimostrando che, allora, la neve c’era davvero. È stato il rapido cambiamento del clima degli ultimi tre decenni a trasformare in mito la pratica dello sci in Ticino, che sarebbe del tutto scomparsa senza lo sviluppo delle tecnologie per l’innevamento delle piste. I video storici pubblicati nelle pagine di lanostraStoria.ch esaltano le prodezze dei campioni di cinquant’anni fa: Francine Martinoli e Gisella Pedimina tra le donne, Roberto Pilotti e Christian Marazzi tra gli uomini. La ricca raccolta di video storici è completata da una serie d’interviste sul rapporto tra giovani, sport e scuola nel 1969 e un servizio televisivo al primo corso di Istruzione Preparatoria (IP), cui furono ammesse le ragazze. Sarebbe stato uno degli ultimi «Corsi IP» prima della nascita, nel 1972, di «Gioventù e Sport».


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’Europa: ieri, oggi, forse domani Capita, talvolta, di leggere pagine di un passato lontano che sembrano parlare del nostro presente. Ad esempio, questa: «Non vi sono oggi più Francesi, Tedeschi, Spagnoli, perfino Inglesi, checché se ne dica; non vi sono che degli Europei. Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi, perché nessuno è stato nazionalmente formato da particolari istituzioni. Tutti, nelle stesse circostanze, faranno le stesse cose; tutti si diranno disinteressati e non saranno che canaglie; tutti parleranno del bene pubblico e non penseranno che a se stessi. Non hanno ambizione che per il lusso, passione che per l’oro: sicuri di avere con l’oro tutto ciò che li tenta, si venderanno al primo che vorrà pagarli. [...] Purché essi trovino denaro da rubare e donne da corrompere, si sentono ovunque in patria». Era l’anno 1771 quando il ginevrino Rousseau, ormai da tempo residente

a Parigi, scriveva questo duro attacco contro i popoli europei (escludendone la Repubblica della sua Ginevra). La severità moralistica di Rousseau è probabilmente eccessiva, anche per i suoi tempi: ma che cosa direbbe, oggi, se potesse osservare l’uniformità dei costumi, il livellamento dei gusti, l’esplosione dell’avidità di denaro e la completa emancipazione sessuale? Il conformismo, soprattutto, è oggi certamente molto più diffuso in quella che, almeno economicamente, è ormai diventata un’Europa unita, dove, alle tante mode condivise, si aggiunge addirittura una moneta unica. Ma c’è un aspetto della polemica rousseauiana che merita particolare attenzione: il filosofo non trova più, nei Paesi che condanna, una caratteristica propria, quello che nel Settecento si chiamava génie o esprit des nations e che oggi definiremmo identità nazionale. Dunque, iniziava allora un processo

che si è poi prolungato fino a noi, sia pure con momenti di retromarcia: il Romanticismo e l’emergere dei nazionalismi otto e novecenteschi hanno segnato queste temporanee inversioni di marcia. Ma poi, dopo il secondo conflitto mondiale, l’unificazione è ripresa e la progressiva globalizzazione sembra avviata ad abbattere le differenze non solo tra Stato e Stato, ma addirittura tra continente e continente. Indubbiamente ci sono molti aspetti positivi in questa progressiva unificazione mondiale; ma ci sono anche scompensi e incognite che ne derivano. L’uomo, come già sapeva Aristotele, è un «animale sociale»: è fatto per vivere in comunità. Ma può esistere una comunità di miliardi di persone? L’evoluzione culturale e tecnologica procede a ritmi incalzanti; al contrario, l’evoluzione del cervello e degli istinti umani segue i ritmi biologici, estremamente lenti. L’«animale sociale» è

fatto per vivere in piccole comunità di vicinanza reciproca: studi recenti sulle tendenze morali innate nell’uomo mostrano che un individuo è naturalmente morale, solidale e corretto verso il suo «prossimo» – ossia, letteralmente, con le persone vicino alle quali vive e con le quali è in confidenza; nei confronti di un anonimato sconosciuto questa tendenza tende a spegnersi. E nel processo di globalizzazione l’anonimato si espande, ti circonda, ti avvolge. Non è dunque un caso che l’attualità faccia registrare segnali di reazione: l’erezione di muri – reali o giuridici – sembra una tentazione diffusa, un desiderio di separazione crescente. È comprensibile: ogni identità – individuale o collettiva – si regge sul confronto con l’«altro» e sulla differenza che divide e distingue. Ma i muri non bastano certo a costituire un’identità nazionale. Come per un individuo, così anche per una nazione ciò che la

identifica è la continuità della sua storia: la tradizione. Ossia, l’insieme di storia, lingua, cultura, usanze – tutto un passato che si consegna di mano in mano, da una generazione all’altra: senza questa consapevolezza del passato non c’è identità, né di una persona, né di un Paese. Cancellata la tradizione, si sfalda anche la comunità; e allora l’anonimato, il conformismo, l’individualismo e la solitudine prevalgono. Senonché, conservare una tradizione è possibile solo se persiste la volontà di appartenere a una comunità: come scriveva nell’Ottocento Ernest Renan, una nazione è un «plebiscito di tutti i giorni». Nel presente frenetico e nel livellamento dei costumi che ora viviamo la tradizione tende a scivolare nell’oblìo; e allora, forse, le parole che Rousseau scriveva quasi duecentocinquant’anni fa possono suonare non solo come un’accusa contro il suo tempo, ma come una profezia del nostro.

vive a Parigi, quest’utilissima opera in situ. Figlio di Walter A. Bechtler (19051994), fondatore con il fratello Hans della Luwa – ditta zurighese di impianti di aerazione e riscaldamento che fece fortuna nella seconda guerra mondiale con rifugi antiaerei e filtri per maschere antigas – e noto collezionista d’arte. Gli altri due pezzi forti dell’hotel sono il Rote Bar di Pipilotti Rist e Gabrielle Hächler e la costruzione cilindrica di James Turrell con un foro circolare per il cielo chiamata Skyspace Piz Uter. Ma se percorrete corridoi e stanze varie, il Castell si rivela una vera galleria d’arte con opere di Fischli & Weiss, Carsten Höller, Roman Signer, eccetera. Discutibili alcune acquisizioni e di dubbio interesse altre, ma come si dice comunemente, sono gusti. Casomai, per una scelta forse più accurata e meno carnevalesca, visitate le due rinomate gallerie di Zuoz. Tschudi e Monica De Cardenas: già le due case cinquecentesche giù in paese, Chesa Madalena e Chesa Albertini, entrambe ristrutturate con classe estrema da Hans-Jörg Ruch, valgono da sole la pena. Tra l’altro sempre Ruch si è occupato del letto e il bagno in cembro per metà

delle stanze di questo hotel stravagante in posizione da Kurhaus, tra le quali, meno male, la mia. Le altre sono di uno studio di Amsterdam che ha firmato anche l’hammam e i lussuosi appartamenti glaciali troppo vicini all’hotel. Rinnovo il rito del vapore al bergamotto sprigionato dalle pietre incandescenti che per certi versi mi ricollega all’età del bronzo, periodo nel quale era già abitata questa collina mistica ora preda delle piste da sci. Neve in faccia, ne mangio perfino un po’, poi mi siedo davanti alla sauna. Lo sbalzo di temperatura, dai quasi novanta gradi ai diversi gradi sotto zero, inizia a risultare benefico. Nel bosco di larici si sente gorgogliare sommesso un torrentello mezzo coperto dalla neve. Lo chiamano Ova da Quatterlains che in romancio putér, il dialetto alto engadinese, significa acqua dei quattro legni. Dalla Val Boschetta all’En, noto anche come Eno o Inn – tributario destro del Danubio – dovrebbe dunque incontrare sul suo tragitto: larici, cembri, pini mughi, pecci. Di sicuro quest’acqua, penso ritornando per la terza volta nell’ormai sacrale sauna, è una promessa danubiana.

A due passi di Oliver Scharpf La sauna dell’hotel Castell di Zuoz Accappatoio in spugna bianco dell’hotel, scarpe in pelle da taglialegna del Massachusetts, parto così. Terapeutico all’istante è lo scricchiolìo soave dei passi nella neve fresca. Un minuto neanche di viaggio e incrocio le travi della passerella contro la roccia ideata da Tadashi Kawamata, artista giapponese classe 1953. Cammino un po’ più cauto, sulle assi innevate, ed ecco laggiù la piccola sauna a cielo aperto. Come quelle vere in riva ai laghi in Finlandia

tra boschi di betulle. Una microcapanna, parte del progetto di Kawamata risalente al 1997 e intitolato Felsenbad. Coperto dalla neve, c’è infatti uno specchio d’acqua incastonato tra le rocce e incorniciato da una superficie di legno. Accanto alla sauna, in uno spogliatoio da battaglia stile riparo di fortuna, mi tolgo veloce le scarpe. Infilo la chiave e apro la prima porta, tiro verso di me la seconda ed entro, un pomeriggio del primo dei tre giorni della merla alle tre in punto, nella sauna dell’hotel Castell di Zuoz (1802 m). Hotel con sembianze da castello, come già dice il nome, costruito su una collina nel 1912 secondo i piani di Nicolaus Hartmann (18801956), architetto artefice tra l’altro del museo Segantini di St. Moritz e figlio d’arte. Nicolaus Hartmann Senior è l’architetto del glorioso Waldhaus di Vulpera sorto nel 1897 e bruciato sul finire degli anni ottanta. Una vampata di calore m’investe, appena rovescio una dose d’acqua, sulle pietre roventi. Rimetto a posto il mestolo nel tino colmo e respiro a fondo. Intercetto, seduto nella posizione del loto, un’essenza di agrumi, bergamotto credo. Dalla finestrella in alto si vedono, tra le cime dei

larici, i fiocchi di neve. Quando la sabbia della clessidra indica che è passato un quarto d’ora, mi asciugo il sudore e mi rimetto l’accappatoio. A piedi nudi, adesso, dentro nella neve. Una catasta di legna è sistemata nella minibaraccavestiario dove nove viti come appendiabiti sono infilate, di traverso, nel legno. Rudimentale eleganza che mostra tutta la diligente sprezzatura con la quale Kawamata ha costruito – un po’ come se tutte le assicelle fossero state portate lì a casaccio dal vento o si trattasse di un mikado all’incontrario – sei nidi sulla facciata del Pompidou a Parigi. Come pure le tre case sugli alberi nel Madison Square Park di New York o le favolose favelas in Belgio con legno di scarto. Il guscio in larice della sauna è anche opera di Kawamata, mentre l’interno matrimoniale standard, concepito in Finlandia da una ditta specializzata. Torno nella mia temporanea dimora invernale, questo è il significato, a quanto pare, dell’antica parola finlandese sauna. E mi sdraio nudo in alta Engadina. È Ruedi Bechtler, dal 1996 proprietario del Castell assieme ai galleristi di grido Hauser & Wirth, a commissionare al prolifico artista nato a Hokkaido che

La società connessa di Natascha Fioretti Conversazioni digitali semiserie su letteratura e filosofia Se uno degli scrittori svizzeri più letti e tradotti di punto in bianco decide di aprire un account su Twitter e, qualche mese dopo, annuncia il lancio del suo sito personale (martin-suter.com) con l’intenzione di riprendere a pubblicare la sua storica rubrica Business Class, ospitata per più di un decennio sulla «Weltwoche», vorrà pur dire qualcosa. Anche perché Martin Suter conosce bene le regole del marketing editoriale che negli anni, grazie anche a quella sua impeccabile immagine un po’ dandy – vestito sartoriale blu scuro, camicia bianca e capello lucido all’indietro – ha saputo ben sfruttare. Chissà se anche solo un ricciolo si è scomposto e gli è caduto sulla fronte quando, poche ore dopo il debutto in versi, il suo account@martinsutercom è stato oscurato. Eppure la prima di tante rime pubblicata il 3 novembre

scorso non era male: «Ich habe einen kühnen Plan, Bin früh schon auf den Beinen: Ich fang jetzt auch zu twittern an. Von Tweets nur, die sich reimen» (Ho un piano ardito, son già in piedi dal mattino: anch’io da oggi twitto, solo tweet in rima). Certo il suo ingresso sul social network ha spiazzato molti, primo tra tutti il suo storico editore zurighese, il Diogenes Verlag, che ha subito segnalato l’account pensando si trattasse di un fake. In fondo fino a quel momento il suo scrittore di punta non aveva mai mostrato interesse per Twitter o Facebook. Ma in un attimo tutto cambia e, a ben guardare, il suo account un po’ ci ricorda gli aforismi digitali di Eric Jarosinski su @NeinQuarterly: «Tomorrow. Tomorrow. We regret to inform you that, yes, there is a tomorrow» (Domani. Domani. Ci spiace informarvi che sì, c’è un domani). Non

male anche i tweet dello scrittore svizzero Alan de Botton «You’re not much more demented than the rest – you just know a lot more about what’s passing through your mind» (Non sei molto più demente degli altri, semplicemente sei molto più consapevole di quello che ti passa per la testa). E non sono soltanto i grandi autori a tenere conversazioni semiserie digitali su letteratura e filosofia ma anche identità nascoste da nomi di fantasia. Come BLLW che sta per Bougie London Literary Women (Donna londinese snob appassionata di letteratura), alias @BougieLitWoman, 14.000 follower in soli 3 mesi, che si definisce «un uccello marino alla deriva sulle maree londinesi che può essere sorpreso a divorare letteratura, a nuotare in modo selvaggio o a fare scarabocchi». Salvo poi specificare che dietro questo account

non c’è un uomo e suggerire ai suoi follower «carpe librum». I suoi tweet sono dei veri artifici linguistici, parodie e citazioni di libri, autori e autrici: «sto cercando di mettere insieme un abbigliamento per la giornata che esprima queste due cose “evidentemente sono una discendente di George Sand” e “faccio regolarmente degli incantesimi”». George Sand è stata una femminista e una scrittrice e drammaturga francese tra le più prolifiche della storia della letteratura, magica, ricorderete, La sua piccola Fadette. Sembra facile ma i tweet non son cosa da tutti, ci vuole una certa arte, bisogna condensare stile, audacia e carattere, individuare una nicchia e risvegliare un interesse che possa attirare utenti disposti a seguire le tue conversazioni semiserie a condividere il tuo registro, lo spirito e il tono dei tuoi tweet,

allora l’account si trasformerà in una sorta di club letterario alla Scriblerus per principianti. Fondato nel 1700 da Alexander Pope, Jonathan Swift, John Gay e John Arbutnot mirava a prendersi gioco dei letterati pedanti e ottusi, a fare satira contro la vuota erudizione. E poi, ancora, ho scoperto di recente gli account per gli amanti dei classici come TS Eliot e Silvia Plath:«Voglio essere una cicatrice di parole». Le parole sono importanti, non era necessario twitter per ricordarcelo con i suoi giochi di caratteri, ma è vero che questa declinazione e questa frammentazione letteraria di sensi slegati dai contesti sono lo specchio di un tempo che ama la semplificazione all’accesso e l’accumulo di significati sotto forma di illusorie pillole di conoscenza che procurano euforia a chi le legge e visibilità a chi le condivide.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Ambiente e Benessere Astroturisti a caccia di cieli Nel 2017 circa sette milioni di statunitensi hanno viaggiato per vedere l’eclissi solare totale

L’eleganza dei Sphyrna mokarran Fino a quando sarà ancora possibile incontrare gli squali martello? La specie è considerata in via di estinzione

Contro il male del secolo Leggere ansie e depressioni possono trarre benefici dall’Erba di San Giovanni, cioè l’Iperico

pagina 19

pagina 17

Eterni secondi, per scelta Storicamente, il gregario è sinonimo di dedizione, lealtà, fedeltà e sacrificio pagina 25

pagina 23

I tumori pediatrici

Medicina Grazie ai progressi della medicina

sale il numero di bambini che guarisce dal cancro

Maria Grazia Buletti Una collana di perline colorate è tra le mani del dottor Pierluigi Brazzola, caposervizio di pediatria e responsabile del Servizio emato-oncologico dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli. Parliamo di tumori infantili: «Ogni “Perla del coraggio” rappresenta un atto medico e segna il percorso di cura di ogni bambino o ragazzo che ne riceve una ogni volta che affronta un esame radiologico, un prelievo di sangue, una radiografia, una seduta di chemioterapia e via dicendo». Un gioco per i piccoli, mentre per quelli più grandicelli al termine del percorso di cura rappresenterà molto di più: «Alla fine conserveranno questa collana come un amuleto, un totem prova tangibile della loro lotta, della battaglia personale contro la malattia». La collana di perle chiude il cerchio della malattia e della sua cura. Ne parliamo perché il 15 febbraio si celebra la Giornata mondiale contro i tumori infantili: una malattia curabile ma che da noi continua a essere la seconda causa di morte dopo gli incidenti. Secondo il Registro Svizzero dei Tumori Pediatrici (RSTP), ogni anno in Svizzera si ammalano di cancro circa 200-220 bambini (sotto i 15 anni) e quasi la metà delle nuove diagnosi riguarda neonati e bimbi da 1 a 4 anni. Questa la situazione che però, grazie ai progressi della medicina, permette altresì di affermare che il numero di bambini che muoiono di cancro continua a diminuire e oggi, in media, 4 su 5 bambini guariscono. Diagnosi e trattamento del cancro in età infantile e adolescenziale sono un’esperienza molto sconvolgente, gravosa e traumatica per tutte le persone coinvolte: famiglia e bambini. Questi si ammalano per cause differenti dall’adulto: «I tumori dell’adulto sono per lo più dovuti a cause esterne: le cellule hanno “una data di scadenza”, i meccanismi che ne controllano le funzioni possono incepparsi e col tempo escono i “difetti di usura” delle cellule che si ammalano». Per contro, il dottor Brazzola riporta le cause scatenanti il cancro infantile al concetto saliente della sfortuna: «In pediatria i tumori non derivano da cause esterne, bensì da una condizione insita nell’individuo: nei miliardi di cellule di cui siamo fatti, il programma non funziona sempre a dovere e una su dieci miliardi potrebbe non comportarsi adeguatamente». Una sorta di difetto di fabbrica che emerge e che poi va individuato e cu-

rato, in un percorso che si preannuncia, dice il dottor Brazzola, «non come un’autostrada, ma come un sentiero che si inerpica su per la montagna». Sentiero tortuoso e faticoso, che il piccolo malato condividerà con la famiglia e il team curante. «Si pensa sempre che queste cose succedano solo agli altri, ma quel giorno “gli altri” eravamo noi», sono le parole del padre di un ragazzo al momento della diagnosi di leucemia di suo figlio. La moglie, madre del giovane, condivide oggi con noi il ricordo di quel momento: «Nostro figlio aveva 12 anni, quando ha iniziato a lamentare forti dolori diffusi alle ossa e alle articolazioni; approfondite indagini mediche hanno trovato i linfociti alle stelle e poi la diagnosi: leucemia». La signora racconta delle reazioni di genitori che si apprestano a condividere col proprio figlio una delle guerre più dure: complice e compagno di viaggio sarà il team medico e curante. «Non ci siamo persi d’animo: sapere chi fosse il nemico che ora avevamo dinanzi ci dava comunque forza. In quei momenti ci si rende conto che un figlio non è “un” progetto di vita, bensì “il” progetto». La madre si è dunque calata nei panni di «una mamma travestita da tigre», concorde col marito su un fatto: «Se nostro figlio se ne dovrà andare, faremo in modo che ogni minuto e ogni secondo che possiamo passare insieme sarà il migliore della sua vita». E il dottor Brazzola spiega che la chiave per iniziare questo difficile percorso di cura passa da qui: «Comunicazione, onestà nel percorso e nella sua condivisione, oggettività. Ciò costruirà le basi per un rapporto di fiducia reciproca con il ragazzo e con la sua famiglia, permettendo a tutti di andare nella stessa direzione. Una realtà che rispecchia le fiabe: a Cappuccetto Rosso non si nasconde il Lupo, ma le si insegna come combatterlo». Ne traggono utilità i piccoli pazienti stessi: «Occorre spiegare loro tutto onestamente, usando termini e concetti adatti alla loro età. Insieme ai genitori decidiamo come fare e li sosteniamo in ogni momento; concordiamo strumenti, parole, termini da usare e per questo ci aiutano alcuni libri adeguati all’età dei pazienti». Li sfogliamo e ne troviamo con semplici illustrazioni e cartoni animati per i più piccoli, fino a quelli più articolati in cui termini e filo logico sono adeguati agli adolescenti «più consapevoli della propria malattia e perciò desiderano essere meglio informati». A conferma di ciò la testimonianza

Il dottor Pierluigi Brazzola, caposervizio di pediatria e responsabile del Servizio emato-oncologico dell’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli. (Vincenzo Cammarata)

della signora: «Il dottor Brazzola ci ha aiutato parecchio nel trovare il modo migliore per parlare con nostro figlio, soprattutto all’inizio quando noi non avevamo proprio le parole». Nel suo percorso terapeutico, il ragazzo ha ricevuto un trapianto di midollo e anche, in merito a questa fase delicatissima, la madre non manca di ricordare la vicinanza da un lato degli amici e della rete sociale, dall’altro quella degli infermieri curanti che definisce angeli senz’ali: «Nei momenti peggiori dicevano a nostro figlio: non so quando riuscirò a farti passare il dolore, ma sarò qui con te fino a quando ti passerà». Le terapie e i loro effetti collaterali sono spesso molto duri da affrontare, lo conferma il dottor Brazzola: «Perciò dobbiamo sostenere e informare costantemente ragazzo e famiglia sui benefici terapeutici e sugli effetti indesiderati, come ad

esempio la caduta dei capelli; per altri disponiamo comunque di farmaci adatti ad alleviarli. Se sono informato, non mi stupisco di quanto avviene strada facendo, fa parte della terapia e lo affronto consapevolmente sapendo che è solo per ora, poi passerà». Il ragazzo la cui mamma ha condiviso il percorso è guarito e oggi ha 18 anni e «un progetto di vita» per il quale i suoi genitori sono orgogliosi. «Lo guardo felice e ogni volta penso e ringrazio la persona che gli ha donato il midollo», così si congeda la mamma. Non è così in tutto il mondo e il dottor Brazzola ci invita a riflettere su questo: «La Giornata mondiale è l’occasione per rivedere tutto ciò che ruota attorno all’oncologia pediatrica: la guarigione non è appannaggio globale di tutti e in certe Nazioni si fatica spesso ad avere diagnosi e terapie adeguate». Questa

giornata dedicata vuole aumentare la consapevolezza e l’informazione sul cancro nell’infanzia, esprimere sostegno ai bambini, agli adolescenti e alle loro famiglie, riconoscendone coraggio, forza ed eroismo.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dottor Pierluigi Brazzola.


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Ambiente e Benessere

Figli delle stelle

Esploratori di un millennio

Viaggiatori d’Occidente Con l’astroturismo, in giro per il mondo alla ricerca

dei cieli più belli

Bussole I nviti a

letture per viaggiare

Claudio Visentin

In Norvegia contro l’eccesso di luminosità si testano lampioni «autooscuranti»: quando non c’è nessuno, le luci si abbassano al 20 per cento della potenza Nel 2015, il Regno Unito ha annunciato la creazione della più grande riserva marina al mondo (830mila kmq) proprio nell’area intorno a Pitcairn. E presto sarà anche riconosciuta come International Dark Sky Reserve, ovvero una vasta area priva di luce artificiale dove è possibile osservare il cielo stellato in tutta la sua bellezza. È un ottimo esempio di astroturismo, una delle tendenze di viaggio più importanti del 2019 secondo il «New York Times». L’astroturismo può prendere for-

«Dove è finita, mi chiedo, la nostra fiducia? La fiducia nelle persone chiamate a comandare, nella veridicità delle notizie e sì, perché no, anche la fiducia in Dio, quella che un tempo sosteneva le persone anche quando tutto sembrava perduto… Sono a Point Wild, sull’isola Elephant, è qui che cento anni fa furono piazzate due barche rovesciate e ventidue uomini, al comando di Frank Wild, rimasero in attesa della salvezza. Per quattro mesi».

Pixnio

L’isola di Pitcairn è uno dei luoghi più remoti del pianeta, nell’Oceano Pacifico meridionale a sud del Tropico del Capricorno. Dista oltre cinquemila chilometri dalla Nuova Zelanda ma non ha aeroporto e può essere raggiunta solo via mare. Nonostante le sue ridotte dimensioni, Pitcairn ha però diverse storie da raccontare. Per esempio fu il primo Paese ad aver concesso il voto alle donne, già nel 1838. Ma è conosciuta soprattutto per il celebre ammutinamento della nave mercantile «Bounty», raccontato in tre film di successo (rispettivamente con Clark Gable, Marlon Brando e Mel Gibson). La storia è nota: nel 1789, dopo una lunga sosta a Tahiti, e la prolungata frequentazione delle bellissime donne locali, alcuni marinai del «Bounty», guidati da Christian Fletcher, si ribellarono quando il capitano William Bligh decise di ripartire. E così, gli ammutinati abbandonarono il capitano Bligh e gli uomini a lui fedeli su una scialuppa in mare aperto, con pochi strumenti e provviste: si salveranno solo dopo una lunga e pericolosa navigazione. E poiché la Marina inglese dava una caccia senza quartiere agli ammutinati, dopo essere tornati a Thaiti e aver imbarcato le donne, i ribelli si rifugiarono nella disabitata isola di Pitcairn, la cui posizione oltretutto era stata registrata in maniera errata sulle carte geografiche. Lì vissero sicuri e la maggior parte degli attuali abitanti – una sessantina – sono i loro discendenti. Pitcairn fu poi riscoperta nel 1808 da una nave americana di passaggio e divenne colonia britannica.

me diverse. Ovviamente l’interesse e il numero di visitatori crescono quando ci sono grandi eventi celesti: congiunzioni di astri, eclissi, comete, stelle cadenti… Per esempio nel 2017 circa sette milioni di statunitensi hanno viaggiato per osservare l’eclissi solare totale. Ma l’astroturismo può essere praticato in ogni periodo dell’anno, visitando un osservatorio astronomico. Un consiglio pratico: prima di andarci, accertatevi che ci sia un astronomo per raccontarvi il cielo in una delle frequenti serate di apertura al pubblico; in altri momenti infatti i grandi telescopi potrebbero essere manovrati a distanza e trasmettere le loro osservazioni attraverso la rete. Acquistare un telescopio richiede comunque un investimento limitato (poche migliaia di franchi) e un apprendistato non troppo lungo e complicato. E può capitare che astronomi dilettanti facciano scoperte significative. Più complicato, è invece trovare aree poco illuminate per le vostre osservazioni personali: secondo una ricerca del Light Pollution Science and Technology Institute, cerchereste invano il buio profondo nell’80 per cento della superficie dei continenti. E l’illuminazione artificiale, spesso eccessiva o inutile, toglie la vista del cielo al 99 per cento della popolazione in Europa

e negli Stati Uniti. Per questo in Norvegia si sperimentano lampioni «autooscuranti»: quando non c’è nessuno, le luci si abbassano al 20 per cento della potenza ma al passaggio di un’auto (o di un ciclista o di un pedone), grazie a un sensore, tornano alla massima potenza. Sarebbero perfette anche da noi, soprattutto per strade attraverso aree naturali poco trafficate. Dal 2001, la International DarkSky Association, con sede a Tucson, Arizona, premia le destinazioni amiche del buio, così come la Royal Astronomical Society of Canada. Naturalmente spesso queste aree sono all’interno di grandi parchi naturali, per esempio negli Stati Uniti (il Parco nazionale del Grand Canyon) o in Canada. Anche i deserti del Messico sono famosi per le loro stellate. Per questa via, l’astroturismo diventa di fatto una nuova forma di ecoturismo e può portarvi in tutto il mondo. Il 2 luglio 2019 potreste viaggiare in Cile e Argentina per ammirare una spettacolare eclisse solare. Anche i deserti dell’Australia o dell’Africa offrono l’opportunità di safari a caccia di stelle. Oppure lo Hyatt Regency Maui Resort alle Hawaii, con i suoi tre potenti telescopi sul tetto. Ma puoi trovare un telescopio dove meno te l’aspetti, per esempio sulla nuova nave da crociera Viking Orion, con tanto di planetario e

astronomo a disposizione dei passeggeri per lezioni e osservazioni del cielo. Naturalmente anche le nostre valli vanno benissimo. A dicembre si poteva osservare la cometa Wirtanen dalla Capanna Gorda, ad Acquacalda; oppure il sabato sera si può salire all’Osservatorio del Monte Generoso (sostenuto anche da Percento culturale Migros), a poca distanza dal Fiore di pietra di Mario Botta. Per nuove proposte tenete d’occhio il sito www.astroticino.ch. Per gli appassionati di fotografia notturna si aprono naturalmente ulteriori prospettive. E poi: potete sempre fare anche da soli, stendendovi sul prato in una notte d’estate: cominciate dal riconoscere la Via lattea, poi il Grande carro, il quale vi condurrà alla Stella polare… e il resto verrà da sé. Nelle grandi vacanze d’agosto non dimenticate di osservare le scie delle Perseidi, le stelle cadenti di San Lorenzo. In tanta bellezza, una sola nota malinconica: diverse nuove forme di turismo ci conducono alla ricerca di esperienze comuni e quasi scontate per gli uomini del passato: il buio rischiarato soltanto da un limpido cielo stellato, il silenzio, l’aria pulita… Così che la contemplazione del cielo ci riporta infine alla Terra e al miglior uso di questo incantevole pianeta.

sono considerarsi incontrovertibili. 7. Per quella ricorrenza, sono stati organizzati imponenti festeggiamenti. 8. Preferisco muovermi su un’imbarcazione a motore. 9. I suoi intendimenti sono effettivamente generosi. 10. Sono pienamente convinto che si tratti di una notizia veritiera. 11. Anche se non si dà molte arie, quello è un personaggio rinomato. 12. Sarebbe auspicabile avviare un processo di pacificazione internazionale. 13. Puoi darmi una risposta chiara, pronunciando soltanto due parole. 14. Quel provetto prestidigitatore mi ha sorpreso notevolmente.

15. È ora di troncare questa rabbiosa controversia. 16. A questa domanda, dovete rispondere, oppure tacere. 17. A distanza di tanti anni, questi scenari appaiono tramutati.

Nel suo ultimo libro, il giornalista e viaggiatore Stefano Ardito ha raccolto storie di esploratori distribuite nell’arco di un millennio, da Erik il Rosso (X secolo) all’alpinista Simone Moro (2018). Vi troviamo anche le imprese in Antartide di Ernest Shackleton, nei primi decenni del XX secolo, e il racconto di come Reinhold Messner nel 1989-90 attraversò l’Antartide sugli sci. Lo stesso Messner nel suo ultimo libro è tornato a raccontare la storia di Shackleton e della sua straordinaria Imperial Trans-Antarctic Expedition (1914-1916). Dopo che la nave «Endurance» fu bloccata dal ghiaccio, stritolata e scagliata nell’abisso, Shackleton per cercare aiuto affrontò una traversata apparentemente impossibile di ottocentotrenta miglia nautiche con una sola scialuppa e pochi uomini. Messner però adotta piuttosto il punto di vista del suo secondo, il capitano Frank Wild, al quale fu affidato il compito parimenti impossibile di tenere alto il morale dei suoi compagni nel buio e nel gelo della notte antartica. Alla fine, nonostante le inaudite difficoltà, Shackleton e Wild tornarono a casa senza perdere neppure un uomo, lasciandoci la perfetta testimonianza di cosa sia un capo. Bibliografia

Stefano Ardito, Le esplorazioni e le avventure che hanno cambiato la storia, Newton Compton, 2018, pp. 352, € 12.90. Reinhold Messner, Wild. Tra i ghiacci del Polo Sud al fianco del capitano Shackleton, Corbaccio, 2019, pp. 256, € 20.–.

Parole sgonfiabili Giochi A volte, come si dice, meno è meglio 18. Devo dire che questo strumento si è rivelato adatto allo scopo. 19. Tutto avvenne in una determinata circostanza. 20. Purtroppo, questa è un’usanza destinata a scomparire.

Soluzione

A volte può capitare di trovarsi nella necessità di elaborare delle brevi frasi (ad esempio, titoletti o didascalie) che contengano una quantità di caratteri non superiore a un limite prestabilito. Se non ci si riesce nella prima stesura, bisogna necessariamente cancellare una o più parole da quanto si è scritto. In alcuni casi piuttosto fortunati, però, è possibile togliere delle lettere da una particolare parola, ottenendo un suo sinonimo (ad es.: vocaboli-> voci; conteggiare-> contare). In questo modo, si ha l’opportunità di ridurre la lunghezza della frase in oggetto, senza modi-

ficarne sostanzialmente la struttura. Ciascuna delle seguenti venti frasi, contiene una di queste singolari parole, che possono essere definite scherzosamente sgonfiabili. Cercate di individuarle tutte. 1. Sarebbe opportuno accondiscendere alle richieste ricevute. 2. Questi alloggiamenti sono veramente confortevoli. 3. Si è verificata, davvero, una coincidenza straordinaria. 4. Il corteggiamento di quell’ammiratore sta diventando assillante. 5. In seguito a quel cataclisma, abbiamo subito danneggiamenti irreparabili. 6. A mio avviso, questi episodi pos-

In relazione a ogni frase proposta, qui di seguito viene riportata la parola sgonfiabile in essa contenuta, sottolineando le lettere che devono essere eliminate per ottenere un relativo sinonimo. 1. accondiscendere cedere; 2. alloggiamenti alloggi; 3. straordinaria strana; 4. corteggiamento corte; 5. danneggiamenti danni; 6. incontrovertibili certi; 7. festeggiamenti feste; 8. imbarcazione barca; 9. intendimenti intenti; 10. veritiera vera; 11. rinomato noto; 12. pacificazione pace; 13. soltanto solo; 14. prestidigitatore prestigiatore; 15. controversia contesa; 16. oppure o; 17. tramutati mutati; 18. adatto atto; 19. determinata data; 20. scomparire sparire.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Ambiente e Benessere

L’imponente e solitario Squalo martello maggiore Mondo sommerso I n via d’estinzione, l’incontro con uno Sphyrna mokarran lascia sbalorditi

scecane, molto preziosa ed estremamente ricercata nel mercato asiatico. Il progressivo e purtroppo inarrestabile declino di questa specie è altresì influenzato dall’inquinamento, da catture accessorie durante le battute di pesca ricreativa nei mari tropicali, dall’utilizzo dei palamiti, delle reti fisse sul fondo, delle reti da traino nell’Oceano Atlantico e delle reti anti-squalo a protezione delle spiagge australiane e sudafricane. Di conseguenza, le grandi popolazioni di squali martello si stanno riducendo inesorabilmente in tutto il mondo. La specie è considerata infatti

«in via di estinzione» ed è stata iscritta nella lista rossa dell’Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN); nel 2013 è stata aggiunta all’Appendice II CITES e nel 2014 all’appendice CMS II. Il mio interesse personale per questo viaggio non mirava solo a fotografare uno degli squali più elusivi negli oceani – impossibile da prevedere e vedere pur navigando nei mari di tutto il mondo a bordo di apposite barche da crociera – bensì anche alle ricerche della Stazione Biologica di Bimini (Sharklab). Sono affascinato dalle loro ricerche. La combinazione di metodi usati per stu-

diare le peculiarità degli squali martello maggiori ha rivelato complessi movimenti e migrazioni attraverso la Florida, le aree di Jupiter e Bahamas, così come la fedeltà stagionale ad alcuni siti (come il ritorno annuale a Bimini per molti individui). I ricercatori dello Sharklab hanno utilizzato tecniche di bio-telemetria (acustica e satellitare), tagging convenzionale, fotogrammetria laser e fotoidentificazione per indagare il grado di fedeltà dei grandi squali martello alle aree costiere delle Bahamas e degli Stati Uniti. I risultati hanno rivelato migrazioni di ritorno su larga scala, residenza stagionale in alcune aree locali, la fedeltà ai siti conosciuti e numerosi movimenti internazionali. Il grande squalo martello è considerato un predatore a livello trofico superiore e, per i suoi movimenti a lungo raggio, è molto probabilmente una delle più importanti specie di collegamento tra i diversi ecosistemi oceanici, poiché riveste un ruolo importante nella struttura e nella stabilità di questi sistemi. Tramite uno studio a lungo termine di marcatura e ri-cattura, i ricercatori hanno scoperto che la distanza massima percorsa da un individuo è stata di 1180 km in quattro anni di osservazione. I ricercatori hanno evidenziato una migrazione individuale di almeno 1200 km dall’arcipelago Florida Keys a 500 km al largo della costa del New Jersey, rilevando il percorso di squali che hanno seguito le calde acque della Corrente del Golfo. Gli squali martello maggiore taggati a Bimini, Bahamas e Jupiter, in Florida, sono stati tracciati nelle loro migrazioni stagionali sino in Virginia e ritorno verso Jupiter e Key Largo (Florida) e le Isole Bahamas. Questi movimenti sono stati tipicamente rilevati al termine della stagione invernale, suggerendo l’ipotesi di migrazioni a scopo alimentare o riproduttivo, piuttosto che climatiche. Informazioni

https://www.biminisharklab.com

Franco Banfi

Un paio di anni fa ho accompagnato un micro-gruppo di appassionati subacquei e fotografi all’isola di Bimini (arcipelago delle Bahamas): una distesa di sabbia impalpabile e perlacea che si erge per pochi metri sulla superficie dell’Oceano Atlantico al largo della Florida, lambita dalla Corrente del Golfo e circondata da mangrovie. Oltre a essere un’isola da cartolina, quella classica che sbuca dalle copertine dei cataloghi turistici, è uno dei luoghi migliori per osservare da vicino l’imponente e solitamente solitario squalo martello maggiore (Sphyrna mokarran). È uno squalo davvero grande (gli esemplari più grandi arrivano ai sei metri di lunghezza), molto mobile (pelagico), che frequenta sia le zone costiere sia le immensità oceaniche circum-tropicali e può vivere in acque profonde, ma anche in lagune poco profonde, e pure vicino alle barriere coralline. Osservato da vicino, ha una bellezza e un’eleganza talmente evidenti da lasciare sbalorditi. Quello che è iniziato come un viaggio focalizzato in prevalenza sulla documentazione fotografica dello squalo martello maggiore, si è poi rivelato un’esperienza unica per i numerosi incontri con la specie target, ma anche con gli squali toro e gli squali nutrice, attirati dall’abbondanza di cibo e dalle condizioni di estrema tranquillità con cui si sono svolte le attività. Per poter attrarre qualsiasi specie di squali, ovunque, è ormai necessario utilizzare delle esche e offrire cibo: varie sono le tipologie di adescamento messe in opera dalle aziende che lavorano nel settore. A Bimini, gli squali sono attirati su distese sabbiose, a una profondità di circa 8/10 metri dalla superficie, per consentire ai subacquei di avere molto tempo per osservare i loro comportamenti e scattare le immagini in ambiente sicuro, nel quale i pericoli sono stati ridotti al massimo. Non va infatti scordato che sono animali liberi e selvatici. Questa esperienza è simile a quella che si potrebbe provare durante un safari terrestre in

Africa: ci troviamo nella natura, nella nostra zona di comfort, abbiamo una guida che ci insegna come comportarci e dobbiamo seguire le sue istruzioni, ma queste attività non sono totalmente prive di rischio. Quando rispettiamo le regole, Madre Natura è prodiga e tutto accade senza imprevisti. Gli squali che ho documentato si muovevano con lentezza e girovagavano pigramente, seguendo la scia lasciata dall’esca portata dalla nostra guida, come qualsiasi altro animale opportunista. Nella mia esperienza di shark feeding (dare cibo agli squali), ho potuto notare che i grandi squali pelagici hanno un comportamento molto più rilassato rispetto agli squali che frequentano le barriere coralline. Sia gli squali martello maggiore sia i nutrice non prestavano attenzione a noi subacquei e nuotavano lasciando intendere che si trovavano a loro agio, senza mostrare alcuna irrequietezza. Siamo rimasti sul fondo finché l’aria delle bombole lo ha concesso; poi abbiamo iniziato il nostro breve ritorno alla barca. Durante le mie immersioni, ho potuto documentare con chiarezza il comportamento di caccia dei grandi squali martello, che fanno oscillare le loro enormi teste sul fondo del mare, come uno scandaglio, raccogliendo in tal modo gli indizi lasciati dalle razze sepolte nella sabbia, grazie ai loro sensori (le ampolle di Lorenzini) situate sul lato inferiore della testa. Le persone meno informate valutano questo tipo di viaggio come «turismo d’avventura rischioso», senza sapere alcunché del comportamento degli squali, della loro ecologia, della loro natura. Le persone comuni spesso criticano comportamenti che ritengono con pregiudizio «irresponsabili», senza conoscere la dedizione di una manciata di operatori che collaborano con i ricercatori per colmare la nostra ignoranza in materia. Purtroppo il grande squalo martello (così come gli squali in generale) è pescato con irresponsabilità perché le sue grandi pinne sono l’ingrediente principale della zuppa di pinne di pe-

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Ambiente e Benessere

Costoletta di vitello con ratatouille all’aglio

Migusto La ricetta della settimana

Secondo piatto

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

Ingredienti per 4 persone: 600 g di carote · 400 g di radici di prezzemolo · 6 spicchi d’aglio · 1 cipolla · 1½ c d’olio d’oliva · 1 cc di zucchero di canna · 2 cucchiai di concentrato di pomodoro · 3 dl di brodo di verdura · 2 costolette di vitello di circa 400 g · sale · pepe dal macinapepe · 1 c di senape ai fichi · 4 c, circa di farina di mais · 2 cucchiai d’olio di colza HOLL · ½ mazzetto di timo · 4 c d’aceto balsamico.

1. Tagliate le verdure a pezzi di circa 2 cm e l’aglio a bastoncini. Tritate finemente la cipolla. Fate appassire l’aglio e la cipolla nell’olio d’oliva. Aggiungete le verdure, lo zucchero, il concentrato di pomodoro e fate appassire il tutto a fuoco basso per alcuni minuti. 2. Unite il brodo e lasciate sobbollire le verdure coperte per ca. 20 minuti. 3. Condite le costolette con sale e pepe. Spalmatele di senape da entrambi i lati. Passatele nella farina di mais. Rosolate la carne da entrambi i lati nell’olio in una padella antiaderente a fuoco medio per 12-18 minuti. 4. Staccate le foglioline di timo e incorporate alla ratatouille insieme all’aceto balsamico. Aggiustate di sale. Tagliate la carne a fette e servitela con la ratatouille. Preparazione: circa 45 minuti. Per persona: circa 31 g di proteine, 19 g di grassi, 38 g di carboidrati, 460

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Ambiente e Benessere

La pianta che cresce sulla vecchia statua

Fitoterapia L’Iperico, chiamato anche Erba di San Giovanni, è considerato magico

per la sua proprietà anti depressiva Eliana Bernasconi L’ansia viene chiamata il male del secolo, ci informa la farmacista cui ci rivolgiamo per chiedere se sono molte, come sospettavamo, le persone che richiedono farmaci per curare stati di forte stress, insonnia, ansia, agitazione, depressione o esaurimento. Quando ancora non esistevano le molecole di sintesi, i rimedi a base di erbe erano l’unica cura praticata, tramandata di generazione in generazione. All’epoca si individuavano le piante medicinali che racchiudevano i principi attivi, solo molti secoli dopo la sperimentazione scientifica avrebbe confermato questo sapere antico detenuto dalle «donne guaritrici», a volte perseguitate perché ritenute streghe. Oggi la ricerca medica, che sta alle spalle dell’industria chimica farmaceutica, ha fatto passi da gigante. Per i disturbi di cui sopra, esistono numerose tipologie di farmaci. Fra quelli più utilizzati, o gli ansiolitici della classe delle Benzodiazepine. Ben tollerati e con azione rapida, il loro consumo è secondo soltanto agli antinfiammatori: possono essere assunti solo dietro

Scheda botanica dell’Hypericum perforatum.

prescrizione del medico, che ne controlla dosaggio e applicazioni. Accanto ai farmaci di sintesi, ci sono i prodotti della fitoterapia che, se da una parte non sono utilizzabili nei casi più gravi, dall’altra sono invece preziosi in quelle situazioni medio leggere, per tutte le forme moderate di sindromi ansiose o depressive, nervosismo, insonnia e disturbi vari del tono dell’umore. L’automedicazione comporta seri rischi. Contrariamente a quanto si pensa, usate in modo errato, le piante medicinali possono essere tossiche. Anche per i farmaci fitoterapici è indispensabile affidarsi a professionisti, al medico o farmacista, a chi possiede insomma una valida formazione in tecniche o scienze erboristiche. Sono ben noti gli effetti sedativi della Valeriana, o quelli del Biancospino che cura ipertensione e palpitazioni cardiache. Così come si conoscono le proprietà della Melissa, che è digestiva e calmante, ma anche quelle della vecchia e cara Camomilla, della Passiflora, che favorisce il sonno, della Rodiola o dell’Escolzia, sedative del sistema nervoso, o ancora del Luppolo, del Tiglio o del Meliloto. E l’elenco sarebbe lungo, ma è importante comprendere che ogni pianta ha caratteristiche proprie che agiscono in modalità differenti sulle singole persone (non siamo tutti uguali). Il più potente antidepressivo naturale si chiama Hypericum perforatum L. Chiamato «erba miracolosa» per le sue molteplici proprietà curative, come spesso succede in fitoterapia, ha indicazioni multiple, gli sono riconosciute proprietà antispasmodiche, antinfiammatorie delle vie respiratorie, diuretiche, cicatrizzanti, riepitalizzanti (ndr: che promuove la formazione di nuovi strati di cellule). Già noto ai greci, da cui deriva il nome che significa «pianta che cresce sulla vecchia statua» è utilizzato da 2400 anni in Cina, nell’Europa occidentale e in America. In Russia è apprezzato per le sue proprietà antivirali e antibiotiche. Cresce in zone temperate fino a 1600 m.slm, nel sottobosco, in

Un esemplare di Hypericum perforatum. (AnRo000)

prati aridi e incolti, ai bordi di strade; ama il suolo neutro o acido e il sole. Coltivazioni intensive si trovano negli Usa, in Canada, Australia e Germania. Le piccole corolle gialle dai lunghi stami emanano un odore che ricorda l’incenso. Fiorisce fra maggio e agosto, le foglie verde pallido hanno sul retro minuscole «tasche», che sono ghiandole da cui esce un lattice rosso sangue. Il suo aspetto insignificante e comune non inganni, però, l’Iperico appartiene alle piante in passato considerate magiche, il che ci dice molto circa i suoi poteri. Il nome con cui era indicato nella medicina popolare, «erba di San Giovanni» ci riconduce alla credenza secondo la quale andava raccolto nella notte precedente la festa di San Giovanni Battista, tra il 23 e il 24 giugno, affinché esplicasse al massimo i suoi poteri: in questa millenaria festa di origini pagane con riti e usanze popolari si celebrava il

solstizio d’estate, quando il sole è al suo apice e tutto il creato si carica di energia. L’Iperico agisce sul sistema nervoso in molti modi: è stato riconosciuto, ad esempio, il suo effetto di aumentare le onde Theta nel nostro cervello durante le ore di veglia; queste onde cerebrali generalmente si producono durante gli stati di sonno profondo, di meditazione, in momenti di felicità o creatività intensa, aumentano la rapidità del passaggio delle informazioni nel nostro cervello e potenziano percezione, memoria e chiarezza di pensiero. Ricerche recenti hanno dimostrato la sua capacità di combattere le manifestazioni depressive, compresa la depressione stagionale, agendo su tre sostanze chimiche cerebrali, i neurotrasmettitori: la Serotonina che migliora l’umore, la Noradrenalina, responsabile dell’energia e della vivacità, e la Dopamina, che procura un sentimento

generale di benessere. Se si assumono altri farmaci, l’Iperico potrebbe influenzarne l’assorbimento; è sconsigliato il suo uso in estate perché provoca fotosensibilizzazione. Con l’Iperico si ottiene un meraviglioso olio antirughe di colore rossastro, indicato anche per ulcere e scottature: si prendono 70 grammi di sommità fiorite fresche, si fanno macerare a temperatura ambiente in 250 ml di olio di mandorle o di oliva in una bottiglia ben chiusa per 6 settimane, si espone al sole per un giorno, si filtra e si conserva in barattoli di vetro scuro. Bigliografia

Gabriele Peroni, Trattato di Fitoterapia Driope, Nuova Ipsa editrice Jill-Rosemary Davies, Le Millepertuis. Hypericum Perforatum, HF Ullmann Editions (in francese). Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Il gregario è un eroe nascosto (N. 2 - ... vanta ben cinque premi Nobel) 1

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8S laSpreziosa 5A 6 complicità 7 V verificate A N 4Esenza Sport Molte delle imprese dei grandi campioni del ciclismo non si sarebbero dei gregari, ambasciatori 7di fedeltà e dedizione 2 5 1 I T A 9C A B 8

Giancarlo Dionisio Tra i milioni di scatti fotografici della storia del ciclismo ce n’è uno che è rimasto scolpito nel profondo del cuore degli appassionati: il passaggio di borraccia tra Fausto Coppi e Gino Bartali sulle rampe del Puy-de-Dôme. Era il 17 luglio del 1952. Si correva la 19a e terzultima tappa del Tour de France. Un’edizione dominata dal Campionissimo con quasi mezz’ora di vantaggio sul belga Stan Ockers. Non importa chi dei due offrisse o ricevesse da bere in quella giornata torrida. In quella foto è racchiusa l’essenza del ciclismo. L’Airone e Ginettaccio non erano amici, ma neppure nemici. L’inimicizia in gruppo è merce rara. Il Piemontese e il Toscano erano due rivali, correvano con due maglie diverse, al servizio di due padroni diversi. Ma nel ciclismo non si lascia nessuno a bocca asciutta. In gruppo ci si scambiano bevande, panini, gel liquidi, zuccheri. Sempre, tranne nei finali di corsa, quando magari si spera che l’avversario venga colto da una potentissima «fringale», la crisi di fame che riduce le gambe in pappa. Negli ultimi chilometri non si chiede e non si dà. Si studiano i volti, le posture, gli sguardi per capire chi sta bene e chi è al gancio. Almeno queste astuzie gliele dobbiamo concedere. Sono carini i ciclisti, ma non perfetti. E che diamine! La lingua italiana ha un termine molto pertinente per definire chi, in una squadra è chiamato ad aiutare: «gregario», dal latino «grex, gregis», ovvero, «facente parte del gregge».

Giochi

10 gregario significa appartenere 11 Essere a una comunità. Meraviglioso, molto più12efficace del francese13 «domestique», che sottintende un rapporto servile, o dei più generici «helfer» e «helper», che 17 a sufficienza 18 non esaltano la relazione simbiotica tra chi corre per vincere, e chi20si mette in gioco 21 affinché ciò possa accadere. Storicamente, il gregario è sino24 di dedizione, 25 nimo lealtà, fedeltà e sacrificio. Non a caso chi garantisce una qualità 28 elevatissima, chi porta il pro-29 prio velocista in posizione ideale fino ai 300 metri, chi resiste accanto al capitano fino alle rampe conclusive, viene adeguatamente ricompensato. Chi conosce il ciclismo capisce che non sto raccontando una fandonia, o intuisce, perlomeno, che la verità non è molto lontana. Agli altri, libertà di 1credere2e approfondire, oppure di sorridere per cotanta ingenuità. 7 Arunas Matelis, regista lituano di Vilnius, ha voluto andare oltre, e 10 sentiha tentato di raccontare questi menti. A quanto pare, lo ha fatto molto bene poiché il suo film-documentario Wonderful Losers (I fantastici perdenti) è fra i candidati all’Oscar nella 14 15 «Miglior 16 17 categoria film straniero». Arunas ha colmato un vuoto suo personale, quello di un ex ragazzino 18 19 che correva in bici e che avrebbe voluto essere un professionista. Ha ottenuto 22 la21fiducia degli organizzatori del Giro d’Italia per filmare dalla pancia del gruppo, ed è riuscito a farsi accettare 24 anche dai corridori, impresa tutt’altro che scontata, visto che, a partire dalle 27 grandi indagini sul doping degli scorsi

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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

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siciliano con un cognome da gregario, in fuga, lanciato verso la sua probabi6 2 8a 34 anni le prima9 vittoria in carriera, suonati, viene avvisato che dietro, dal gruppo,8 è partito come una scheggia la maglia rosa Alberto Contador. Proprio quel Contador 9 3 che l’anno prece1 dente aveva più volte beneficiato del suo prezioso aiuto. Che infame canN. 3 DIFFICILE nibale, avranno pensato in molti. Già, valori universalmente riconosciuti, spazzati via per una vittoria di tappa 4 che aveva già da parte3di un6 campione iscritto il proprio nome nell’albo d’o3 ro dei tre Grandi Giri. Invece 1 no, 8i romantici potranno continuare a credere che nel ciclismo 1 8 ci sono delle regole 2 non scritte che nessuno osa e oserà infrangere. E se qualcuno vorrà scopri3 re come si concluse realmente quella tappa, e conoscere anche le altre storie 6 5 4 litua1 raccontate dal sensibile regista Giochi per “Azione” - Gennaio 2019 no, potrà accomodarsi in platea. Da domani Wonderful 7 Losers approderà 2 Stefania Sargentini nelle sale cinematografiche della Sviz7 zera 9 Italiana.

(N. 3 - ... un piede ha ventisei ossa)

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C H E I E A F P O P E R

S C I L P I N I I O D R E C I E S A L T N E L L E I G L I N G O S A I O S

T S E O L I A

2 8 Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi9con il cruciverba (N. 1 - ... in Bulgaria si fa il contrario) SUDOKU PER AZIONE GENNAIO 2019 delle 2 carte era regalo da 50 franchi il sudoku 6con 7 -5 (N. 4 - ... parmigianae una di melanzane lungo) 2

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ORIZZONTALI 1. Città italiana famosa per il prosciutto 5. Scialba, triste 10. L’attrice Valle 11. Il nome di Zorro 12. Nelle vernici e nel pennello 13. Parte posteriore 15. Il pallonetto del tennista 17. Così... pregando 19. Sono di famiglia 20. Ciascuno 21. Negazione tedesca 23. Prode 24. Conteneva olio 25. Il piede di Harrison Ford 27. Nome inglese 28. Niente per Cicerone 29. Cibele lo risuscitò 31. La volgare d’altri tempi... 32. Il porto da cui salpò Colombo 34. In mezzo all’interruttore 35. Simboli di forza 37. Stato francese 39. Ali anteriori di alcuni insetti 40. Spirito dei boschi

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Cruciverba «Volevo tatuarmi anch’io come te il nome del mio amore sul braccio ma…» Trova il resto della frase risolvendo il cruciverba e leggendo le lettere evidenziate. (Frase: 10, 2, 9, 3, 5)

3 R E N O 1 5C 4 I decenni, telecamere, cineprese, miU N O N. 2 MEDIO M Ocrofoni T e taccuini sono visti come dei nemici. L’operazione S E C 8A R ha4 pure I colmatoQWonderful U6 Losers I un vuoto storico moderno nes4 R 9E poiché, nelPciclismo O D O U 7 aEcogliereRcosì suno era mai riuscito bene l’anima dei gregari, riuscendo a 2 Davanti dall’interno. E A M I A scandagliarla T A I A agli occhi dello spettatore scorrono 2 le immagini di alcune tra 3 le vicende N O R M A piùR toccantiI degliO ultimi anni. T Come ad esempio 6 3 quella 4 di Paolo Tiralongo verso Macugnaga O S E A B nella EsalitaLfinale A T O al Giro d’Italia del 2011. Lui, lavoratore

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VERTICALI 18. Metazoi 1. Piccoli centri se letto da sinistraossa) (N. 20. 3 - Non ... uncambia piede ha ventisei 2. Si nascondono per vanità a destra o viceversa 1 2 3 4 5 6 3. Le iniziali dell’attore Nobile 22. Epoche della Terra 7 8 9 4. Zerbino inglese 23. Dio sbuffante 5. L’attore Proietti 24. Sovrano 10 d’altri tempi 11 12 6. Rischia di andare dentro... 25. Sono nelle trame... 13 7. Le iniziali della cantante Grandi 26. Appoggio caritatevole 14 15 16 17 8. Collina dove fu crocifisso 27. Le macchie dell’anaconda Gesù 28. Piccole anche se adulte 18 19 20 9. Prefisso che vuol dire «i due» 30. Fa corse in città... 21 22 23 11. Fiume albanese 32. Per ... per gli spagnoli 24 25 26 14. Uno storico presentatore di Striscia la 33. Senatore in breve Notizia (Nome) 36. Le iniziali di Torricelli 28 27 16. È il numero uno in Inghilterra 38. Oratori senza orari

U L N I A U N T O 9 3 L O V 2 P U T I 8 7 O M O 2 I A S C H E N A N T

A S C E N S O R E

Soluzione

N. 4 GENI

A R M A N N A 5 N T 9E I A Z 5 6 7 N 2 E 5 I1 1 5 4 3 Z I N. V 2AMEDIO N E S S R A O I T8 A C B 6 4E 4 A N A M R4 E N C 7I 9 O UE N OR M A O 5T 2 P S E2 C A R I 3 Q 9 4 6R 3L 4 O D O R E E PO U 7 I A 2 8 E3 A M T 1A E L I T 6 R M A 9 2 N O R 8I R O

F A 4 O M E I N Soluzione: 8 O P A Scoprire i3 C O 3 1 9 numeri corretti T 3 da inserire nelle A5 R4 caselle colorate. 9 R I 2 3 7 S O

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I N C U B I

N. 1 FACILE G A LSchema E R

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D R I 2N

N A U I ENR I1 A ET

O S E della A 8settimana B E precedente L A T O Soluzione 9 DI ANATOMIA 3 – Frase 1 UN PO’ risultante:

G 1 R7 4 I2 3 9 8 7 I 5 2E2 6 G3 3 7 1 G 86 O 5 1 9 I 2 54 96O6 4 8 2 5 99 E6 38R8 7 1 5 4 F O O I 24 L81 39 43 L 7 O5 69S9 9 2 8 6 I 6 67 1 E8 3 4 55 7 5G 6 4 N1

G5 4 6 1O9 5 4 L 2 8 3 7 G 6 1 71 O2 9 3 T 7 5 A 6 2

A 3 1 2 5 48 7 M 4 2 9 6 O B 3 4 7 5 1 78 N I 7 3 9 4E 5 1 6 8 2 4A 31T 6 9I 7 5 8 1 8 3 4 R2 U 5 1 4 3 7 A 9 1T2 3T 4 5 2 9 7 8 1 6 3 O M 9 7 2 8 O 3

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…IL PIEDE HAVENTISEI OSSA. N. 3 DIFFICILE 3 1 6 O 2 V V I O

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N. 4 GENI

S3 P I E N I N A5

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L A 8 B R2 I E L T1 I E S S O S I

S E N O T E L A

I premi, cinque carte regalo Migros(N. Partecipazione inserire laera luzione, 4 - ... parmigianaonline: di melanzane lungo) corredata da nome, cogno5 2 4 del valore di 50 franchi, saranno sor- soluzione del cruciverba o del sudoku me, indirizzo, email del partecipan1 2 3 4 5 6 7 8 9 teggiati tra i partecipanti che avranno nell’apposito formulario pubblicato tePdeve essere spedita a «Redazione A R M A G R I G I 9 11 fatto pervenire la soluzione corretta 10 sulla pagina del sito. Azione, Concorsi, C.P. 6315, A N N A 5 D6 I E G7 6901 O entro il venerdì seguente la pubblica- 12 Partecipazione postale: la15lettera o Lugano». 13 14 16 E N R8 G1 O LsuiO 2 T E9 corrispondenza zione del gioco. la cartolina postale che riporti la so- Non si intratterrà 17 18 19 20 S I A Z I I O G N

concorsi. Le vie legali sono escluse. 5 7 un9 pagamento 2 1 6 in4con3 Non è 8 possibile premi. I vincitori saranno Atanti dei 3 9 6 7 8 4 2 1 5 per iscritto. Partecipazione Mavvertiti 1 esclusivamente 2 4 3 5 6a lettori 8 9 che 7 riservata Brisiedono 7 3 2 4 9 8 1 5 6 in Svizzera. I


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia Maduro contro Guaidó 40 milioni di persone impoverite fino alla fame sedute sulla polveriera venezuelana

Non è solo «cinguettare» Sulla stampa americana si è aperto un dibattito sull’uso di Twitter, considerato un editore a tutti gli effetti che costringe a lavorare gratis i giornalisti

Le proteste dei pashtun Con la sua strategia antiterroristica e discriminatoria Islamabad rischia di dividere il Paese a metà

Come tassare i dividendi Una proposta concreta lanciata dal consigliere nazionale verdeliberale Jürg Grossen pagina 31

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Cambia l’ambiente, cambiano le rotte

Grande Nord Americani, russi e cinesi

scendono in campo per giocarsi le rotte artiche che si cominciano ad aprire verso il Polo a causa dello scioglimento ghiacci. E che rivoluzionano in prospettiva il commercio mondiale

Lucio Caracciolo Ogni volta che cambiano le rotte commerciali del mondo cambia il mondo. Da Cristoforo Colombo e dalle scoperte dei navigatori portoghesi e spagnoli, genovesi e veneziani, mezzo millennio fa, questa è la legge bronzea che regola la geopolitica planetaria. Varrà anche domani o dopodomani, quando le rotte artiche potrebbero finalmente aprirsi al grande traffico dei portacontainer? Ipotesi più che plausibile. Tutto comincia dall’ambiente. I ghiacci artici si stanno sciogliendo a ritmo notevole. L’ultimo rapporto della National Oceanic and Atmospheric Administration, branca del dipartimento del Commercio statunitense, stabilisce che nel 2018 in Artico si sono registrate le seconde temperature atmosferiche mai misurate nella storia; la seconda estensione minima delle superfici ghiacciate; il più mite inverno nel Mare di Bering; e la più precoce fioritura del plancton causato dalla liquefazione del ghiaccio nel Mare di Bering. Questo significa fondamentali cambiamenti nell’habitat umano e animale. Dal punto di vista strategico e commerciale, rappresenta un ulteriore segnale sulla prossima agibilità del Passaggio a nord-est (Rotta settentrionale nella dizione russa) che potrebbe tagliare di un buon terzo i tempi di percorso, e quindi i costi, dei traffici fra Cina e Stati Uniti. Questo spiega, fra l’altro, l’improvviso interesse della Repubblica Popolare Cinese per gli spazi artici. Di recente, Xi Jinping ha voluto annette-

re una cosiddetta futuribile «via polare della seta» al vasto bouquet delle nuove vie della seta fra Europa e Asia, destinate a inaugurare una globalizzazione con gli occhi a mandorla entro la metà del secolo. La Cina si afferma «paese vicino all’Artico» per poter avvicinare il rango dei protagonisti della geopolitica settentrionale: Stati Uniti, Russia e, più distaccate, Danimarca (via Groenlandia, peraltro sempre più autonoma e sotto l’ombrello militare americano), Norvegia e Canada. La posta in gioco è alta e rende golosi: in ballo sono formidabili ricchezze minerarie, promettenti giacimenti di idrocarburi (anche se a profondità oggi inattingibili), pesci e altra fauna. Ciò spiega anche lo speciale interesse della comunità scientifica dei paesi artici (e meno artici), che dedica allo studio dell’ambiente circumpolare un’attenzione certamente non neutra. Anche per questo i dati distribuiti ai media dagli scienziati, specie dai climatologi, vanno presi con un grano di sale. Quanto alla Russia, è lo Stato più artico di tutti. Il suo affaccio sull’Oceano Artico è enorme, correndo lungo tutta la costa siberiana. Ciò consente a Mosca di rivendicare vastissimi spazi marittimi e di controllare la Rotta settentrionale. In parole povere, chiunque vorrà utilizzare – e già alcuni l’utilizzano, nei mesi meno gelidi – la più strategica delle rotte artiche dovrà pagar pegno al Cremlino. Ad ogni buon conto, Putin ha ordinato di rafforzare e ammodernare il suo apparato militare nella costa Nord, imperniato sulla

Nella cartina le nuove rotte artiche, a cui la rivista «Limes» dedica l’intero numero in uscita il 7 febbraio. (Laura Canali)

strategica Penisola di Kola, a ridosso del confine norvegese, dunque della «nuova cortina di ferro». Chi resta per ora molto indietro sono gli Stati Uniti. Washington non ha mai mostrato una particolare attenzione per l’Artico, salvo quando acquistò l’Alaska russa, nel 1867, destinata a diventare uno Stato federato nel 1959. Ma l’Alaska resta una sorta di exclave, priva di collegamenti terrestri diretti con la metropoli statunitense. Per avere una misura del disinteresse degli Usa per il Grande Nord

basti considerare che essi dispongono solo di un paio di rompighiaccio, di cui una quasi inutilizzabile, contro le oltre quaranta schierate dalla Russia. La rivoluzione geopolitica delle rotte artiche non è però imminente. Ci vorrà tempo per attrezzare quei passaggi impervi al grande traffico transcontinentale, sempre se il riscaldamento climatico continuerà a manifestarsi ai ritmi correnti – e trascurando gli effetti micidiali che potrebbe avere globalmente, a partire dall’innalzamento del livello dei mari. In-

tanto, alcune compagnie commerciali hanno messo in cantiere nuove gigantesche navi con chiglia e strutture rinforzate, adatte a rischiare il passaggio fra i ghiacci artici, purché precedute da rompighiaccio. La partita artica conferma che il tema del riscaldamento globale non è affatto privo di conseguenze geopolitiche, oltre che ambientali. Per questo anche le grandi potenze sono scese in campo. Insieme al clima, si sta riscaldando l’assetto strategico del Grande Nord.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia

Venezuela con due teste Scenari Il livello di corruzione e di gestione delle ricchezze da parte dei militari è tale

che è difficile capire che cosa può essere offerto loro per convincerli a lasciar cadere il governo Angela Nocioni Trenta milioni di persone, molte delle quali armate, moltissime delle quali impoveritesi fino a fare la fame, sedute su una polveriera pronta ad esplodere. Questo è oggi quel che fu il «Venezuela Saudita», fino a qualche decennio fa uno dei paesi più prosperi dell’America latina, con un suolo straordinariamente ricco non solo dei maggiori giacimenti di petrolio del continente ma anche di gas, di oro, di minerali preziosi. Caracas in questi giorni è teatro di un braccio di ferro drammatico tra il regime presieduto da Nicolás Maduro – erede politico del defunto Hugo Chávez, senza nemmeno l’ombra del carisma né dell’abilità del predecessore – e un’opposizione di solito litigiosissima, per la prima volta dopo vent’anni resuscitata da una linea comune, molto sostenuta internazionalmente, che tenta con oceaniche manifestazioni popolari di dare una spallata al governo. Se non ce la farà, soprattutto se non ci riuscirà entro breve tempo, il rischio di una repressione feroce e, peggio, quello di una guerra civile, è molto alto. Con la quantità d’armi in circolazione in Venezuela, nel caso di un conflitto di tutti contro tutti basterebbero poche ore a lasciare a terra centinaia di morti. Niente è scontato nell’esito della prova di forza contro il regime chavista al crepuscolo, ma non ancora tramontato. E quindi capace di pericolosissimi colpi di coda. Maduro è in mano a una casta militare che ha vuotato le casse statali, ipotecato le future estrazioni di petrolio per garantirsi inezioni di denaro fresco dalla Cina, senza esser capace di lasciare nemmeno gli spiccioli necessari a garantire il rifornimento di garze e siringhe agli ospedali. Anche l’aspirina e il paracetamolo si trovano solo di contrabbando. Scaffali semivuoti nei negozi. Valore della moneta polverizzato da un’inflazione che cresce all’incredibile ritmo quotidiano del 4 per cento. Economia dollarizzata di fatto, prodotti essenziali trovabili solo al mercato nero.

Maduro è in mano a una casta militare che ha vuotato le casse statali lasciando un Paese impoverito fino alla fame Ci sono oggi in Venezuela due presidenti e due parlamenti. Anche due diplomazie informali, l’una contro l’altra armata. La lunga crisi venezuelana ha avuto un’accelerazione il 23 gennaio, quando una manifestazione popolare contro il governo Maduro è terminata con l’autoproclamazione come presidente ad interim, alla guida della transizione in attesa della convocazione di libera elezioni, di Juan Guaidó, trentacinquenne presidente dell’Assemblea nazionale, il parlamento esautorato dal regime che l’ha sostituito con una costituente eletta in votazioni irregolari. Maduro gode della protezione dei vertici delle forze armate. Guaidó no. E questo è il principale problema dell’opposizione che conta di poter vincere le prossime elezioni presidenziali qualora Maduro si decidesse a convocarle. Sono i militari che fanno la differenza in questo conflitto. Chi ha il loro appoggio si prende il Paese. Le prime ore dopo l’autoproclamazione di Guaidó il silenzio delle forze armate ha lasciato sperare ai più ottimisti tra gli oppositori che l’immediata copertura di Washington al

Maduro con Remigio Ceballos, responsabile del Comando Strategico Operativo delle Forze Armate. (AFP)

giovane presidente del parlamento – e l’ipotesi remota, ma lasciata circolare, di un intervento statunitense – fossero state sufficienti a incrinare la protezione garantita degli alti comandi al regime. Invece, dopo una tesissima attesa, il ministro della Difesa Vladimir Padrino, da dieci anni uno dei più potenti esponenti del regime, s’è presentato in tv attorniato dai comandi delle forze armate e ha ripetuto frasi ascoltate già decine di volte: «Da molto tempo si sta preparando un volgare colpo di Stato». «Questo piano è arrivato ora a livelli di altissima pericolosità». Con un avvertimento: «Le Forze armate non accetteranno mai un presidente imposto. Un signore che si autoproclama presidente è un fatto gravissimo. Difenderemo la Costituzione». Come già avvenuto molte altre volte il capo dei militari ha paragonato il clima interno e le pressioni internazionali su Maduro alle «ore drammatiche del tentato colpo di Stato contro Hugo Chávez nel 2002». La denuncia del tentato golpe manovrato da forze esterne, l’evocazione delle ingerenze statunitensi e colombiane, indipendentemente dal sostegno realmente dato sia dall’amministrazione Trump che dall’entourage dell’ex presidente colombiano Uribe al piano dell’opposizione (e nonostante la diffidenza che questo crea in quella ampia parte della popolazione stanca di Maduro, ma timorosa che i suoi avversari dipendano dalla estrema destra statunitense o colombiana) è un copione che si ripete uguale da anni e che finora ha sempre funzionato per puntellare il regime. L’allineamento degli alti comandi militari è ciò che ha salvato sia Chávez sia Maduro dalle rivolte di piazza. Per mantenere le forze armate fedeli, il regime ha coperto i loro capi di soldi, ha messo nello loro mani le chiavi della cassa statale. Tutto ciò che genera entrate in dollari in Venezuela, come a Cuba, è in mano a generali. Una delle maggiori fonti di profitti illeciti sta nel sovrap-

prezzo che molti di loro incassano gestendo in totale opacità gli approvigionamenti statali, che nessuno controlla. Fanno pagare il doppio o il triplo del reale prezzo e si intascano la differenza. Lì sta anche la principale fonte di guadagno della «boliborghesia», la borghesia bolivariana la classe sociale cresciuta all’ombra della rivoluzione. L’impresa pubblica del petrolio, Pdvsa, ha una piccola rosa di imprese che si occupa del rifornimento di materiali e macchinari. Sono private e comprano all’estero, in dollari. Chi gestisce gli acquisti, e si tratta sempre di militari, gonfia i prezzi a piacimento. Altra gigantesca fonte di entrate per i generali del regime è stata la compravendita controllata di dollari. I militari hanno controllato per anni le subaste di dollari. Ormai le imprese private sono quasi tutte fallite o sono state comunque costrette a chiudere, ma per anni, quando le aziende private avevano bisogno di dollari, essendo rigidamente controllato il mercato di valuta, facevano un’offerta e un fantomatico ente governativo, sempre in mano ai militari, decideva a chi vendere e a chi no attraverso una subasta pubblica e contemporaneamente segreta. Un sistema di regolazione del valore nel mercato parallelo che per molti anni è stato una fabbrica di soldi per i generali che ne erano a capo, un formidabile sistema di riciclaggio (di soldi dei narcos essenzialmente) di corruzione e di pressione sulle imprese private. Questo gigantesco meccanismo di corruzione ha fatto accumulare loro una tale quantità di ricchezza e li ha portati a compiere una tale quantità di reati, molti dei qual vincolati al narcotraffico, perseguibili anche all’estero e al centro di inchieste infatti della Dea statunitense, che è difficile capire cosa può essere offerto ai vertici delle forze armate per convincerli a lasciar cadere il governo. La carta tentata dall’opposizione è quella di offrire una amnistia. Buona

per allettare i quadri medi. Ma forse insufficiente a convincere al voltafaccia quelli che rischiano di finire condannati per riciclaggio e narcotraffico nelle galere statunitensi. Cosa puoi offrire che per loro valga la pena, anche facendo pressione dall’estero, ai generali che hanno ridotto il Venezuela a un narco-Stato? L’impunità? Ce l’hanno già, comandano loro anche sui giudici in Venezuela. Li puoi forse prendere per fame? Puoi al massimo togliere loro margini di profitto attraverso il blocco economico alle attività produttive che controllano, misura in parte prevista dalle nuove sanzioni americane. Ma quanto tempo occorre perché si vedano gli effetti? E in quali condizioni si riduce, in attesa che vengano fiaccati loro, il resto della popolazione? In attesa di farsi breccia tra gli alti gradi, l’opposizione sta tentando di tirare dalla sua parte le truppe. «Soldato, non sparare sul tuo popolo!» è l’appello lanciato da Guaidó. Ci sono state defezioni negli ultimi mesi di soldati in servizio, fughe silenziose, soprattutto di militari impiegati nei pattugliamenti lungo il confine. Molti di loro in realtà non disertano perché sono contro il regime, ma per fame. Questo succede soprattutto negli Stati periferici, nel Venezuela profondo, dove ci si arruola perché è l’unica possibilità di mangiare. Con lo sprofondare dell’economia, all’ora del pasto arriva una scodella di acqua sporca e si scappa. Negli ultimi giorni sono rimbalzate voci, impossibili da verificare, su gruppi di militari che si sarebbero rifiutati di uscire a reprimere le manifestazioni contro il governo e i saccheggi. L’esercito venezuelano è un esercito popolare, i bassi ranghi soffrono privazioni pesanti. Non hanno intenzione di sparare sui cortei di civili. Una loro rivolta non è impossibile. Ma Maduro non è del tutto idiota e a reprimere le manifestazioni antiregime per ora non manda l’esercito, ma i corpi d’elite della polizia speciale.

Parliamo europeo di Paola Peduzzi I vasi comunicanti dell’odio Il governo ungherese ha deciso di non partecipare al dibattito dell’EuroParlamento della scorsa settimana perché, dice, l’Assemblea europea ha superato «linee rosse» invalicabili, «triplicando i fondi dell’Unione europea alle ong, mettendo l’accoglienza di immigrati illegali come condizione per garantire lo stato di diritto e sanzionando apertamente paesi che si oppongono all’immigrazione illegale», spiega il governo di Budapest presieduto da Viktor Orbán. Nel comunicato, c’è una parentesi molto significativa, dopo la parola ong, che dice: «completando così in modo effettivo il sesto punto del piano di Soros». George Soros, sempre lui, il tycoon ungherese che è diventato il simbolo di tutte le lotte, in Europa, in America, anche in Cina dopo che, al forum di Davos, Soros ha tenuto un discorso molto commentato contro il governo di Pechino, la minaccia illiberale più grande del mondo. Soros è un’ossessione specifica di Viktor Orbán, per ragioni personali, politiche, culturali: i due erano molto vicini negli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, quando Soros decise di investire i suoi enormi fondi in campagne liberali contro l’Unione sovietica e Orbán, uno dei leader del partito giovanile Fidesz sembrava l’uomo su cui puntare per traghettare l’Ungheria fuori dal comunismo e in Occidente. L’alleanza, che conta tra le altre cose una borsa di studio che Soros diede a Orbán per frequentare corsi a Oxford, si raffreddò e infine si spezzò, ma per gran parte degli anni Novanta e Duemila, la campagna contro Soros era appannaggio dei partiti di destra più estrema, come Jobbik. Poi tutto è cambiato di nuovo, o almeno si è evoluto, e ora il filantropo liberal trova nella casella di posta ordigni esplosivi ed è raffigurato nella propaganda di destra (a volte anche della sinistra populista) come l’ebreo avido e mercatista che vuole distruggere l’Occidente inondandolo di migranti che ne trasfigurano l’identità. È chiaro che «George Soros sta cercando di espandere la sua influenza nelle istituzioni europee», ha detto Orbán in un’intervista e così ripete a tutti i giornalisti il suo ciarliero ministro per la Comunicazione, quel Zoltan Kovács che si è laureato alla Central European University di Budapest, la Ceu, l’università di Soros, che il governo ungherese ha deciso di boicottare, costringendola a spostare parte delle sue attività in un’altra città (a Vienna nella fattispecie). L’influenza che Soros eserciterebbe sulle istituzioni europee ha a che fare con l’immigrazione: Budapest si rivende come la vittima di un complotto europeo ai suoi danni, la punizione per aver chiuso le frontiere ai migranti. Tutti i partiti anti immigrazione d’Europa cavalcano lo stesso vittimismo, e chi non sta con loro è per forza sul libro paga di Soros – in America è andata ancora peggio: a causa della cosiddetta invasione da sud finanziata da Soros, un signore a Pittsburgh, in Pennsylvania, è andato in sinagoga, ha sparato sui fedeli e ha ucciso undici persone. Si parte con il Soros da odiare perché è paladino della società aperta e liberale e si finisce con una enorme campagna antisemita, contro il filantropo con il naso adunco pieno di soldi e di avidità: l’odio è fatto così, si muove in vasi comunicanti.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia

Caracas spacca il mondo

Crisi Venezuela Stati Uniti da una parte, Europa quasi allineata suo malgrado, Cina e Russia dall’altra parte.

E una certezza: in quell’area del mondo gli «esperimenti socialisti» sono tragicamenti falliti

Federico Rampini Il Movimento 5 Stelle ha scelto di riscoprire la sua anima di sinistra nel peggiore dei modi: assolvendo un tiranno paleo-socialista; bloccando il riconoscimento da parte del governo italiano di un’alternativa democratica alla guida del Venezuela. L’Italia è rimasta a guardare mentre tanti suoi concittadini – espatriati o italo-venezuelani con doppia cittadinanza – sono stritolati da un’emergenza umanitaria e dalla morsa brutale di un regime sanguinario. Non sono solo i grillini a rispolverare le tradizioni più oscene della vetero-sinistra, del socialismo-zombie. Un tweet «sfuggito» al più importante sindacato italiano esprimeva solidarietà al dittatore venezuelano Maduro, contro le «ingerenze internazionali». L’infortunio era talmente clamoroso che presto venne seguito da una smentita imbarazzata, ma la posizione ufficiale della Cgil resta quella di un’assurda equidistanza: da una parte si chiede al regime repressivo il rispetto dei diritti umani, d’altra parte c’è la denuncia delle presunte interferenze dall’estero. Cioè, ovviamente, dagli Stati Uniti. Gli adolescenti venezuelani arrestati e torturati dalle squadracce poliziesche di Maduro, sentitamente ringraziano la Cgil che li considera pedine inconsapevoli di Washington. Triste destino per quello che fu un grande sindacato ai tempi di Luciano Lama e Bruno Trentin. La storia, disse Karl Marx, si ripete sempre due volte: prima come tragedia poi sotto forma di farsa. È una tragica farsa lo spettacolo della sinistra occidentale che tenta di coprire gli orrendi crimini di Maduro; e fa le acrobazie per attribuire a un disegno golpista americano quella che è una crisi tremenda in atto da molti anni per esclusiva colpa del regime Chavez-Maduro. Donald Trump ha questo dono magico e malefico: ipnotizza e poi rende imbecilli i suoi oppositori, che pur di dargli contro finiscono col mentire quasi quanto lui. Una parte della sinistra occidentale – solo una parte, per fortuna – ha rispolverato slogan degli anni Sessanta come se Maduro fosse un giovane Fidel Castro o Che Guevara (pe-

Il leader dell’opposizione Juan Guaidó si autoproclama presidente. (AFP)

raltro, il Fidel Castro versione anziana aveva già tradito i suoi ideali di gioventù, costruendo un regime di corruzione e repressione). Negli Stati Uniti è dovuto scendere in campo l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Ben Rhodes, per ammonire la sinistra americana a non cadere nella trappola. «I democratici – ha scritto Rhodes con tono allarmato sul «Washington Post» – non devono farsi travolgere dalla loro rabbia verso Trump, e rimangiarsi il sostegno al popolo del Venezuela, alla sua dignità, al suo bisogno di democrazia». Altrove, il danno era ormai fatto: il leader del partito laburista inglese Jeremy Corbyn, che fa di tutto per essere una macchietta caricaturale dei nostri anni Sessanta, ha abbracciato la causa «anti-imperialista» di Maduro, schierandosi con tutti gli autocrati del pianeta e avallando le loro imposture. Il Venezuela con «due presidenti» spacca il mondo intero. La situazione più drammatica ovviamente è quella sul terreno: dove si moltiplicano le proteste e gli arresti di massa, le violenze di esercito e polizia, le sofferenze di una popolazione ormai allo stremo. Ma è singolare anche l’impatto della crisi a livello internazionale. La tensione

può ricordare i peggiori momenti della guerra fredda, con l’America da una parte, l’Europa «quasi» allineata suo malgrado, Russia e Cina dall’altra parte coi loro alleati. Ma questa non è una riedizione della crisi di Cuba che nel 1962 portò il pianeta sull’orlo di un conflitto nucleare. Troppe cose sono cambiate da allora, e il cambiamento più importante non è Trump. La differenza sostanziale in quell’area del mondo è che gli «esperimenti socialisti» sono falliti tragicamente, e una maggioranza dei paesi latinoamericani ha deciso di condannare i loro feroci epigoni. Maduro tenta di ravvivare il patriottismo delle «repubbliche bolivariane», denuncia «un intervento gringo». Ma la sua retorica patriottarda è una beffa ideologica, sempre più logora, per mascherare i crimini contro il suo popolo. L’erede di Chavez è riuscito a ridurre alla fame una nazione straricca di petrolio, ha costretto alla fuga tre milioni di suoi concittadini (non stupisce che con lui solidarizzi Assad…), ha scatenato un’iperinflazione che galoppa al ritmo dei «dieci milioni per cento» (mai vista nella storia). Nelle manifestazioni di protesta contro di lui trecento sono stati uccisi dalla polizia, 13.000 sono gli arrestati. Ha stravolto la Costituzione, ha esautorato il Parlamento, ha

riempito le carceri di oppositori inclusi rappresentanti eletti del popolo. L’unica ragione per cui Maduro sta in piedi? Ha regalato l’economia del Venezuela a un trio composto dal suo esercito, Russia, e Cina. Dopo anni in cui i protettori esteri del dittatore hanno ignorato la sorte del suo popolo – e gran parte dell’opinione pubblica internazionale si è voltata dall’altra parte – ora Vladimir Putin denuncia una «violazione dei principi della legalità internazionale», accusa l’America di orchestrare un golpe. Ma la legalità è stata violata alle ultime elezioni. Non a caso la maggioranza dei governi latinoamericani si sono rifiutati di riconoscere la rielezione di Maduro per un secondo mandato, hanno disertato le cerimonie d’insediamento, in certi casi hanno chiuso le ambasciate. Che Trump evochi la possibilità di un intervento militare Usa perché una crisi internazionale può distrarre dai suoi guai interni (lo shutdown), nulla toglie al dramma umanitario del Venezuela. Anche il mite progressista che governa il Canada, Justin Trudeau, ha deciso di riconoscere come vero presidente a Caracas il 35enne Juan Guaidó. Anche il premier spagnolo, caso encomiabile di un leader di sinistra raziocinante, ha fatto la stessa scelta. L’Unione europea,

sempre indecisa a tutto, ha preso una posizione inutilmente più sfumata, ha tergiversato per molti giorni (anche per colpa del governo italiano). Ha detto che la «voce del popolo non può essere ignorata», ha condannato Maduro, senza riconoscere inizialmente Guaidó. L’unico che si è spinto un po’ più avanti è Emmanuel Macron che ha detto di «sostenere la restaurazione democratica, contro l’elezione illegittima di Maduro». Le sottigliezze diplomatiche degli europei interessano poco, perché la loro voce in quella parte del mondo conta sempre meno. Non siamo a un remake della crisi di Cuba nel 1962, perché i rapporti di forze politici in America latina oggi sono a favore degli Stati Uniti; e nell’ipotesi di un intervento militare americano la Russia non avrebbe molti mezzi per rispondere. Tuttavia l’arrivo di soldati Usa a Caracas sarebbe pericoloso. Così come sono probabilmente controproducenti le sanzioni sul petrolio venezuelano, se non vengono accompagnate da aiuti economici concreti alla popolazione. Non bisogna offrire un’ultima occasione a Maduro per giocare la carta falsa del patriottismo, della mobilitazione contro l’imperialismo yankee. Una parte del suo popolo, e probabilmente la maggioranza dei militari, farebbe quadrato attorno all’autocrate, se mai dovesse vedere a Caracas delle divise dello Zio Sam. La via preferibile è un’altra: che Guaidó si appelli ai 14 paesi del Gruppo di Lima, perché intervengano a difendere il popolo del Venezuela e a salvarlo da una tragedia. Maduro è circondato da grandi nazioni vicine, ben più democratiche della sua, che tutte insieme possono agire per ripristinare la legalità e i diritti umani in un paese che ha sofferto già troppo. Mentre scrivo, i media internazionali danno qualche credito a un’altra ipotesi: un compromesso tra i «due presidenti», con Maduro disponibile a convocare nuove elezioni legislative (non presidenziali, però). A giudicare dai precedenti, questa rischia di essere l’ennesima astuzia di Maduro per rimanere aggrappato al potere, rinsaldare l’alleanza coi militari, e ingannare ancora una volta le speranze del suo popolo.

Basta cinguettare? Il social dei giornalisti Sulla stampa americana si è aperto un dibattito sull’urgenza

di uscire da Twitter, diventato un vero e proprio editore che fa lavorare gratis Christian Rocca Che cosa sarebbe Twitter senza i giornalisti e che cosa sarebbero i giornalisti senza Twitter. Sarebbero entrambi diversi, molto diversi, da come li conosciamo adesso. Twitter è il social media delle notizie, dei commenti e delle analisi istantanee, per questo è chiamato «il social dei giornalisti». Ma proprio nel mondo dell’informazione americana, nei giorni scorsi, si è aperto un dibattito sull’urgenza di uscire da Twitter: «Basta twittare», ha scritto il «New York Times» in un editoriale del suo esperto di cose tecnologiche. La Cnn gli è andata dietro, citando un manager della Silicon Valley secondo il quale «i giornalisti sono la linfa vitale di Twitter, una parte enorme del suo valore è creato dai contenuti che i giornalisti gli forniscono gratuitamente». Quello tra i giornalisti e Twitter è un rapporto morboso perché è su Twitter che si trovano le notizie, e dove si trovano prima di altrove, fin da quando Barack Obama decise di annuncia-

re proprio sul social degli allora 140 caratteri di aver scelto Joe Biden come vicepresidente. Da allora, qualunque personaggio pubblico voglia comunicare qualcosa sceglie la perentorietà di Twitter, per questo i giornalisti non possono non frequentarlo. Ma il problema non è questo, dicono i sostenitori del «basta twittare»: il problema è che, frequentando il social network, la gran parte dei giornalisti sente l’urgenza di dire la sua, di fare una battuta tagliente, di retwittare qualcosa e così via, sottraendo tempo, attenzione e dedizione al lavoro e ragione d’essere al giornale che gli paga lo stipendio. Non si è mai capito per quale motivo gli editori di tutto il mondo, quelli grandi e quelli piccoli, quelli prosperi e quelli in crisi, consentano ai propri giornalisti di lavorare, tra l’altro gratuitamente, per un super mega editore concorrente che a poco a poco li sta facendo a pezzi. Nei primi anni di Twitter, addirittura, gli editori incoraggiavano i propri dipendenti, redattori ed editorialisti, a essere presenti sui social in modo da diffondere link e

contenuti dei propri giornali, ma presto è diventato un’altra cosa: Twitter è diventato il più grande editore del mondo capace di offrire in anteprima le notizie riportate dai più celebrati giornalisti del pianeta e i commenti delle migliori firme su qualsiasi argomento immaginabile, tutto gratis e a carico dei datori di lavoro terzi, ma anche la piattaforma dove il grande commentatore e il redattore frustrato, o viceversa, sentono la necessità di comunicare i propri pensieri politici o privati senza riuscire a sottrarsi alle degenerazioni tipiche della discussione social. Emblematico è il recente caso dello studente trumpiano della Covington Catholic High School della Louisiana che ha molestato un anziano indiano d’America apparentemente colpevole soltanto di suonare un antico ritmo della sua tribù. Il video del ragazzo cattivo e dell’anziano inerme parlava da solo e su Twitter si è scatenato l’inferno contro il bullo, contro la scuola bigotta, contro Trump e in difesa della vittima. Gli opinionisti si sono lasciati trascina-

re da una storia che sembrava confermare ogni tipo di pregiudizio possibile. Solo che, un paio di giorni dopo, sono comparsi altri video e, come in Rashomon, si è scoperto che viste da un’altra angolatura le cose sono andate in modo diverso: i ragazzi della scuola cattolica erano in realtà le vittime di insulti razzisti e omofobici da parte di un gruppo razzista afroamericano ed è stato l’anziano native american, in questo clima molto teso, ad avanzare senza alcuna ragione verso il ragazzo e a sfidarlo con lo sguardo fino a suonargli il tamburo davanti alla faccia. Una seconda versione che, ovviamente, ha scatenato i commentatori della parte opposta. Non importa capire chi fosse la vittima e chi il provocatore in questo caso, semmai il fatto che un episodio reale, visto in modo parziale una prima volta e in modo altrettanto parziale la seconda, abbia scatenato una reazione così profonda, contribuendo ad avvelenare il dibattito pubblico e a fare leva sui peggiori istinti della natura umana. Il caso degli studenti della Covington High School è

la ripetizione, ancora una volta, del caso di Justine Sacco, la ragazza la cui vita nel 2013 è stata rovinata da un tweet sarcastico con il quale intendeva prendere in giro il pregiudizio razzista dei bianchi nei confronti dell’Aids, ma che è stato interpretato, al contrario, come un messaggio razzista contro i neri. Meglio non twittare, dunque, o pensarci molto bene prima di farlo. La cosa non vale soltanto per gli operatori dell’informazione. Detto questo, uscire da Twitter non sarebbe nemmeno eticamente corretto per un giornalista, come spiegano i sostenitori della tesi contraria, perché vorrebbe dire rifiutare di ascoltare una parte del pubblico di lettori che trova sui social e negli hashtag il luogo e lo strumento per poter comunicare, non avendone altri. Il giornalismo è conversazione, e quindi anche ascoltare il pubblico.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia

Pashtun: quando Islamabad gioca con il fuoco Prossimo Bangladesh? L’uccisione di Naqibullah Mehsud ha inaugurato un anno di proteste

da parte del movimento pashtun, la cui popolazione è diventata bersaglio di continue discriminazioni e vittima di operazioni dell’antiterrorismo pakistana Francesca Marino Si sono riuniti ancora una volta a migliaia, il 5 gennaio in Germania, a Colonia, e il 12 gennaio a Tank, nel Khyber-Pakthunhwa, per commemorare il primo anniversario della morte di Naqibullah Mehsud e per reiterare la loro determinazione a cercare giustizia in modo non violento per tutte le migliaia e migliaia di vittime delle cosiddette strategie antiterrorismo portate avanti dal governo pakistano. E, come è accaduto lungo tutto questo anno costellato di proteste nei confronti di Islamabad, la stampa pakistana non ha potuto o voluto raccontare l’accaduto: le notizie, come accade sempre più spesso in Pakistan, viaggiano quasi esclusivamente via social media e raccontano la storia di un Paese sempre più lacerato da discriminazioni e violenza nei confronti di gran parte dei propri cittadini. La storia di Naqibullah è simile a quella di molti altri, che siano Pashtun, Baluchi o Sindhi. Naqibullah non era un eroe, e nemmeno un condottiero. Era soltanto un ragazzo con una bottega da mandare avanti e nella testa il sogno di diventare un fotomodello o, quantomeno, una star di Instagram. Le sue foto, ritoccate

La popolazione pashtun protesta a Peshawar per la scomparsa dei propri familiari. (AFP)

con filtri vari, postate sui social media, fanno tenerezza e anche un po’ sorridere. Aveva anche vaghi interessi socio-umanitari, e questa, come è ac-

caduto a molti altri comuni cittadini, potrebbe essere stata la causa della sua morte. Naqibullah è stato ucciso, difatti, in un presunto scontro a fuoco

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con la polizia, che lo ha accusato di essere un basista dei talebani. Niente di più lontano dalla realtà: dopo le prime proteste, sia della famiglia di Mehsud che di varie organizzazioni umanitarie, è stato provato che il ragazzo non aveva nulla a che fare con i talebani e che lo «scontro a fuoco» era stato fabbricato ad arte dalla polizia: in particolare da Anwar Rao, un fiero appartenente alla polizia locale noto per usare sistemi eufemisticamente definiti «spicci» per liberarsi di persone in qualche modo scomode o non gradite. L’uccisione di Naqibullah è stata la scintilla che ha fatto divampare una protesta che covava sotto la cenere da molto, moltissimo tempo. Da quando, dopo l’11 settembre, la terra dei Pashtun e le regioni tribali, le Fata, sono diventate campo di battaglia tra le truppe pakistane e i talebani ostili a Islamabad e al tempo stesso nascondiglio privilegiato per i cosiddetti «buoni» talebani. A farne le spese è stata la popolazione locale, presa tra due fuochi e diventata infine uno dei bersagli privilegiati di esercito e servizi segreti. Dichiara Manzoor Pashteen, leader riconosciuto del Pashtun Tahafuz Movement (Ptm) che guida la protesta: «Siamo stati sacrificati per anni sull’altare dei cosiddetti interessi strategici a causa dei gruppi terroristici autorizzati a operare sulla nostra terra. I nostri villaggi sono stati bombardati e la nostra gente è stata costretta ad abbandonare le proprie case in nome delle operazioni antiterrorismo. Migliaia di giovani sono stati illegalmente detenuti o sono semplicemente scomparsi. Molti dei nostri leader tribali, molti religiosi, leader politici e studenteschi sono stati semplicemente assassinati. Lo Stato ha totalmente fallito nel perseguire i colpevoli di questi crimini nelle Fata e nelle regioni confinanti abitate dai pashtun, come il Khyber Pakhtunhwa e il Balochistan». Molti abitanti delle aree interessati sono stati costretti ad emigrare altrove per scampare alla guerra e agli abusi di militari e terroristi, ma non è servito a molto. Anche in altre regioni del loro stesso Paese, i Pashtun sono stati e sono bersaglio di continue discriminazioni e umiliazioni. Gli abitanti del Waziristan sono stati costretti a usare le cosiddette carte d’identità Watan, che discriminano il portatore

in base all’appartenenza etnica e regionale. Sono carte d’identità speciali, che devono essere approvate e rilasciate dalle agenzie di intelligence e che rendono i portatori soggetti ad abusi e discriminazioni in nome della sicurezza nazionale. Il Ptm è nato letteralmente per strada, in modo spontaneo, durante la lunga marcia di protesta che ha visto migliaia di Pashtun scendere in strada per raggiungere Islamabad e far sentire la propria voce. Lungo questo anno, nonostante i dinieghi del governo, circa quattromila persone «scomparse» sono tornate a casa: ma sono ancora a migliaia quelli di cui non si ha più notizia. Così come sono migliaia coloro che sono stati vittima delle leggi draconiane che governano le aree tribali e quelle di confine, leggi che il Ptm chiede di abrogare o, almeno, di rivedere perché violano i fondamentali diritti umani e civili della persona. Una per tutte, la cosiddetta «legge della responsabilità collettiva», che viene sempre adoperata dalle forze dell’ordine: se qualcuno commette un crimine, a essere punito è l’intero villaggio o la tribù e la famiglia di appartenenza. Islamabad, dicono, sta giocando col fuoco: fa alcune concessioni ma continua a censurare giornali e televisioni per quanto riguarda le proteste pashtun, arresta i leader del Ptm, gli impedisce di lasciare le aree tribali e addirittura li mette sulla no-fly list. Quando non li accusa, come accade per i Balochi, di essere strumenti nelle mani delle solite «potenze straniere». Il numero di persone che sono scese in piazza ultimamente, però, racconta una storia diversa. Una storia da cui a quanto pare Islamabad non ha imparato assolutamente nulla: un simile movimento pacifico per i diritti umani e civili, lanciato dagli abitanti dell’allora Est Pakistan che erano vittima dello stesso tipo di abusi, è stato represso con la forza e ha portato infine alla nascita del Bangladesh nel 1971. Se governo ed esercito costringono i Pashtun ad abbandonare le proteste pacifiche e ad unirsi alla resistenza armata che opera, ad esempio, in Balochistan, le conseguenze per il Pakistan potrebbero essere devastanti e dividere per l’ennesima volta il Paese a metà.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia

Crisi da eccessi di credito: un evergreen Dibattiti Se l’accumulazione di debiti non è un fatto nuovo, di più lo è invece la facilità attuale che la caratterizza Edoardo Beretta L’analisi economica non può prescindere dalla presa in considerazione delle problematiche legate al credito − che sia bancario, finanziario o di origine ulteriore − con altrettante legate allo stesso indebitamento: del resto, trattasi di due facce della stessa medaglia. L’economia e le misure connessevi poggiano sui radicati principi della contabilità a partita doppia, che implica da un lato che il credito dell’uno corrisponda al debito dell’altro (e viceversa) e dall’altro che laddove si acquisti in termini commerciali (ad es., beni e servizi) si venda necessariamente in termini finanziari, cioè si ceda un diritto di prelievo su un reddito attuale/ futuro (e viceversa). Ora, se la tematica del debito pubblico come privato è già stata affrontata in un recente articolo per «Azione», rimane da compiersi uno step successivo, cioè da chiedersi quali siano i profondi nessi con la sempre forte domanda di prestiti. Per quali motivi l’economia nazionale pare essere dipendente da fonti esterne di finanziamento atte ad integrare le risorse effettive a propria disposizione? E perché quanto si guadagna pare non bastare mai? Se da un lato vi sono gli accresciuti bisogni generati da una società sempre più globalizzata o rivolta al consumismo, dall’altro vi è certamente anche un incentivo economico-politico a spendere mezzi altrui piuttosto che soltanto (o quasi esclusivamente) i propri. Ad esempio, la politica monetaria dei tassi di interesse ai minimi storici ‒ per quanto inevitabile a fronte della congiuntura economica da poco lasciata alle spalle ‒ ha certamente come effetto quella di fungere da «volano» nella concessione di prestiti e, nel contempo, indiretta-

Credito domestico da banche al settore privato (% del PIL)1 1960

1980

2000

2016

Δ%

Membri OCSE

35,8

89,6

81,2

+45,4

Mondo

4,8

53,6

81,9

87,8

+83,0

Credito domestico dal settore finanziario a quello privato (% del PIL)2 1960

1980

2000

2016

Δ%

Membri OCSE

83,6

191,0

207,0

+123,4

Mondo

92,6

165,0

184,1

+91,5

1. Elaborazione propria sulla base di: http://data.worldbank.org/indicator/FD.AST.PRVT.GD.ZS?end=2017&start=1960 2. Elaborazione propria sulla base di: http://data.worldbank.org/indicator/FS.AST.DOMS.GD.ZS?end=2017&start=1960

mente disincentivare il risparmio. A tale complessità determinata da una variabile quale il tasso di interesse − non lo si dimentichi mai: per gli uni è «passivo» (cioè da corrispondersi), per gli altri è invece «attivo» (cioè da percepirsi) − si aggiunge la constatazione che le economie domestiche tendano ormai spesso a rivolgersi anche ad attori esterni al sistema bancario quali il sistema finanziario nel suo ampio complesso. Ciò deriva non tanto da una politica monetaria restrittiva (in quanto si sa bene quanto accomodante essa ora sia) quanto dalle frequenti difficoltà di accesso al credito a fronte di rigidi criteri di valutazione della liquidità/solvibilità delle categorie «più tradizionali» richiedenti prestiti. Il fattore «rischio» di tale modus operandi deriva anche solo dal maggiore tasso di interesse spesso richie-

sto da finanziatori «non-bancari» oltre che dai possibili minori controlli rispetto alla «classica» banca di fiducia. In altri termini, la pericolosità non sta soltanto nell’indebitamento preso tout court quanto nei soggetti («attivi» e «passivi», quindi) contraenti tali impegni finanziari. Trascurare ciò sarebbe un grave sbaglio per il decisore pubblico in quanto è spesso chiamato − si pensi alla casistica di fallimenti di enti bancari-finanziari, che si trovino in difficoltà tali da potere ingenerare un effetto sistemico sull’economia locale − ad intervenire mediante onerosi salvataggi. Meno garantita è, invece, a fronte della molteplicità dei suoi attori la posizione del settore finanziario nel suo complesso (cioè sia degli attori che vi operano sia di chi vi si finanzi). La tendenza a concedersi a prestiti spesso troppo esuberanti con ampio

utilizzo dell’«effetto leva», cioè la facoltà di ottenere mezzi altrui a fronte dell’impiego di solo una parte di mezzi propri, è senz’altro preoccupante sebbene sia la base dell’economia del credito. Dal punto di vista macroeconomico non si può, però, anche trascurare che un’eccessiva offerta di credito rispetto al PIL possa essere inflazionistica. Che tale effetto magari non ricada sul mercato dei beni di consumo quanto su quelli meno tradizionali come quello finanziario ed immobiliare poco importa: la crescita nominale non accompagnata da un corrispettivo incremento dei valori reali, cioè l’inflazione, vi sarebbe comunque. Il legame fra alti livelli di indebitamento (e, quindi, gli eccessi di credito), inflazione e bolle finanziarie non potrebbe essere più evidente. Quale potrebbe, dunque, essere la so-

luzione? Forse una contrazione (à la «decrescita felice») di quello che è invece il fabbisogno individuale? Non necessariamente: piuttosto, si dovrebbe riacquisire consapevolezza che ogni prestito debba essere rimborsato, ma nel frattempo permetta al beneficiario di vivere in quello che nella letteratura anglosassone viene spesso chiamato a fool’s paradise, cioè in «un paradiso di pazzi» dove manca la percezione del reale. In altre parole, disporre di risorse altrui da spendere comporta che si perda quell’oculatezza, che si tende invece ad avere nei confronti dei soli mezzi propri. Del resto, come formulava il vincitore del Premio Nobel per l’economia Milton Friedman nel 2004, «[c]i sono quattro modi per spendere […]. Possiamo spendere […] per noi stessi: quando lo facciamo stiamo davvero attenti a cosa facciamo […]. Oppure possiamo spendere i nostri soldi per qualcun altro: […] ora, io non ho poi grande interesse per il contenuto del dono, ma sono stato molto attento al costo. L’altra possibilità ancora: possiamo spendere i soldi di qualcun altro per noi stessi. E allora […] saremo sicuri che ci scapperà una bella mangiata al ristorante! Infine, l’ultima modalità: possiamo spendere i soldi di qualcun altro per un’altra persona ancora. E, allora, […] non sarò più preoccupato di quanti siano né di come li spenda. Questo è quel che fa il Governo»1. È evidente che la terza e quarta casistica siano le «peggiori» in termini di gestione finanziaria oltre che essere quelle appunto qui prese in esame. Note

1. Traduzione propria di: www. foxnews.com/story/your-worldinterview-with-economist-miltonfriedman.

Quali deduzioni fiscali per le finanze private La consulenza della Banca Migros Jeannette Schaller

Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros

Non importa se si tratta di capitale di previdenza, conto di risparmio, deposito titoli o proprietà abitativa: la dichiarazione fiscale offre numerose possibilità di deduzione per quanto riguarda i vostri valori patrimoniali. A tal proposito quattro consigli utili: 1. Previdenza: È possibile detrarre dall’imposta sul reddito i versamenti nel pilastro 3a, i riscatti nella cassa pensioni nonché il successivo versamento dei contributi AVS mancanti degli ultimi cinque anni. Tuttavia, la previdenza con agevolazioni fiscali è molto più ampia. È inoltre possibile dedurre dall’imposta sul reddito i premi della cassa malati (al netto della riduzione dei premi), i premi assicurativi (senza pilastro 3a) e gli interessi sui risparmi – fino a un importo massimo di diverse migliaia di franchi. 2. Gestione patrimoniale: Anche l’accumulo privato di un patrimonio può servire alla previdenza individuale. Tuttavia, solo una piccola parte dei costi di gestione patrimoniale è deducibile, in prima linea le spese per la custodia dei valori patrimoniali, come i diritti di custodia, le spese per la tenuta dei conti e delle cassette di sicurezza nonché i costi per l’allestimento di un elenco fiscale. Per motivi di semplicità, diversi cantoni consentono una deduzione forfettaria

La lista delle deduzioni possibili è lunga, per i proprietari di immobili sono però in vista importanti cambiamenti. (Keystone)

compresa tra lo 0,5 e il 3 per mille del patrimonio, in combinazione con un importo massimo. 3. Interessi debitori: gli interessi di credito e gli interessi di mora possono essere dedotti dalle imposte sul reddito, ma non i tassi e le rate di leasing. Inoltre, presso la Confederazione e la maggior parte dei Cantoni non sono deducibili gli interessi del credito di costruzione e del diritto di superficie. 4. Proprietà abitativa: Per chi abita

in un immobile di proprietà l’utilizzo viene conteggiato come reddito imponibile sotto forma del cosiddetto valore locativo proprio. D’altro canto, sono consentite detrazioni fiscali per gli interessi ipotecari, la manutenzione, i premi per l’assicurazione stabili e le spese di amministrazione di terzi. Potete far valere i costi di manutenzione effettivi o un forfait. Quest’ultimo varia tra il 10 e il 25 percento del valore locativo proprio, a seconda dell’età

della vostra proprietà e del Cantone. Fate valere l’importo forfettario o i costi effettivi, a seconda della variante più conveniente. Nei prossimi anni, tuttavia, emerge una limitazione delle detrazioni autorizzate, in parallelo all’abolizione del valore locativo proprio. Questo cambiamento suggerisce di anticipare i lavori di rinnovamento e ristrutturazione pluriennali al fine di poter beneficiare il più possibile delle attuali deduzioni complete.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia

Come tassare i dividendi dopo la riforma fiscale

Previdenza Un’iniziativa del Verde liberale Jürg Grossen propone una nuova formula «giuridicamente neutrale»

per tassare tutti i dividendi delle società nello stesso modo, tanto a livello federale, quanto a livello cantonale. In particolare dopo la riforma in votazione in maggio Ignazio Bonoli Il 19 maggio prossimo il popolo svizzero sarà chiamato ad esprimersi sull’insolita accoppiata della riforma delle tassazioni e di quella dell’AVS (vedi «Azione» dell’11.6.18). Il tentativo è quello di far accettare – dopo il Parlamento, anche a livello popolare – due riforme urgenti, ma che sono anche molto combattute. Tant’è vero che per l’AVS è già pronto un nuovo piano di riforma (vedi «Azione» del 9.7.18), mentre le grandi discussioni nate attorno al progetto di riforma fiscale cominciano a far sorgere proposte di miglioramento. Una di queste è l’iniziativa parlamentare del Verde liberale Jürg Grossen che vuole superare lo scoglio ancora presente nella tassazione dei dividendi delle società. Il tema dei dividendi è in discussione da tempo per quanto concerne la tassazione. Infatti – a ben vedere – i dividendi delle società sono colpiti due volte dal fisco: una prima volta come utile imponibile della società e una seconda volta come reddito dell’azionista. Ne soffrono in particolare le aziende di famiglia, nelle quali la società si identifica spesso con l’azionista unico, quindi il proprietario. Per attenuare questa doppia imposizione, tanto la Confederazione, quanto i Cantoni concedono ribassi sulle

partecipazioni importanti (a partire dal 10% della partecipazione al capitale). Attualmente, la Confederazione concede un ribasso del 40%, mentre i Cantoni vanno dal 30 al 65%. Il ribasso medio a livello cantonale è quindi attorno al 50%. Questo ribasso si basa sia sull’imponibile, sia sulle aliquote d’imposta. Il progetto di riforma della legge federale, che sarà posto in votazione in maggio, comporta un inasprimento della tassazione dei dividendi per le partecipazioni importanti. La Confederazione tasserà il 70% dei dividendi, quindi con un ribasso del 30% (invece del 40% attuale), mentre i Cantoni che finora erano completamente liberi nel determinare l’imposta da pagare sui dividendi, dovranno ora tassarli in misura di almeno il 50%. Eventuali ribassi potranno essere concessi soltanto sotto forma di riduzione nel calcolo dell’imponibile. Questa disposizione è chiaramente volta a ridurre lo spazio di manovra dei Cantoni, evitando la concorrenza fiscale criticata tanto dall’OSE, quanto dall’UE. A pochi mesi dal voto popolare è quindi già avviata in Parlamento la discussione sulla prossima riforma della tassazione delle società. Il tema è stato lanciato dalla citata iniziativa parlamentare di Jürg Grossen che non chiede ancora di imporre ai Cantoni un

Con la sua iniziativa parlamentare, Jürg Grossen fa compiere un passo avanti al dibattito sulla tassazione dei dividendi. (Keystone)

livello di tassazione unico, ma chiede una base giuridicamente neutra per la tassazione di tutte le forme di società. In altri termini, gli utili aziendali delle persone giuridiche (per esempio le società anonime), di singole aziende, nonché di società di persone devono essere soggetti allo stesso trattamento fiscale. In pratica, la scelta della forma giuridica per l’azienda non deve essere discriminata dal fisco. Oggi, nei Canto-

ni, le imposte sugli utili e sulla loro distribuzione sono diverse a seconda del tipo di società. Il concetto di «forma giuridica neutrale» è facilmente comprensibile. Un po’ meno lo è la sua applicazione concreta. In pratica l’imposta da pagare varia da un luogo all’altro e, inoltre, può cambiare da un anno all’altro. Una norma giuridica univoca è quindi difficile da applicare. Al limite, la Con-

federazione potrebbe proporre ai Cantoni un modello semplice, su un caso tipico, da adeguare a tutti gli altri casi. Per esempio: tutto l’utile della società è considerato «dividendo», è sottoposto all’aliquota sugli utili e distribuito, i proprietari si situano nella parte alta dell’aliquota d’imposta e abitano nel comune sede della società, non si tiene conto dei contributi sociali e dell’imposta sulla sostanza. Basta questo elenco per capire quali e quante potrebbero essere le eccezioni alla regola. Secondo calcoli dell’Amministrazione federale delle contribuzioni, l’imponibile d’imposta federale non si allontanerebbe molto dalla media odierna del 60% , mentre quella cantonale, in media al 53%, sarebbe leggermente inferiore a quella attuale. Di regola, la riforma provoca un aumento dell’imposta sui dividendi, ma una diminuzione di quella ordinaria sugli utili aziendali. La riforma lascia comunque ai Cantoni un certo margine di manovra. Questo permetterebbe loro di praticare misure politiche di sostegno alle aziende, pur avvicinandosi alla media nazionale della tassazione dei dividendi. Ricordiamo che l’imponibile viene calcolato dalla Confederazione al 70%, mentre le previsioni dei Cantoni, in media, sarebbe del 63%. Parecchi pensano già al 70%, come la Confederazione. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Strategia di sviluppo per il Cantone Di recente mi è stato chiesto, intanto che preparavo la cena, di suggerire, al giornalista che mi intervistava telefonicamente, quale potrebbe essere, oggi, o domani, la strategia di sviluppo economico del Cantone. Compito ingrato! Non soltanto perché intanto che parli puoi difficilmente seguire che cosa sta succedendo nelle padelle, ma soprattutto perché così, sui due piedi, difficilmente potrai dire qualcosa che vada al di là della banalità. Se la risposta, improvvisata sui due piedi, sarà, con grande probabilità, banale, la domanda, invece, non lo è. Siamo alla vigilia del rinnovo dei poteri cantonali ed è quindi più che legittimo domandarsi che cosa il governo e il parlamento possono fare per lo sviluppo del Paese. Chi scrive pensa che per trovare la risposta a questo quesito convenga staccarsi dal discorso ideologico e osservare invece quello che sta avvenendo, e questo per

due ragioni. In primo luogo perché è molto difficile che dalle nuove elezioni esca una classe politica completamente rinnovata. E, in secondo luogo, perché gli indirizzi della politica governativa e parlamentare cambiano sì, ma molto lentamente nel tempo. In democrazie parlamentari come la nostra il cambiamento immediato, o nel breve termine, si manifesta solamente in seguito a iniziative popolari, oppure in caso di catastrofe. Insomma, mutamenti decisi e rapidi di direzione sono l’eccezione. La regola è invece quella della continuità: nella prossima legislatura non si farà molto di più, o molto di meno, o molto di diverso di quello che si è fatto nella presente. È vero comunque che se, invece di fermarci alla legislatura, prolunghiamo il periodo di osservazione a qualche decennio, possiamo osservare qualche mutamento importante. Partiamo da 60 anni fa.

Quello era il periodo della pianificazione. Si pensava che lo Stato, anche in un sistema di economia di mercato, avesse un ruolo-guida nel promuovere la trasformazione dell’economia e della società. Per quel che riguarda l’economia, nel contesto di un approccio keynesiano, l’attenzione dei politici, anche di quelli dei Cantoni, erano gli investimenti e il saldo della bilancia commerciale perché, si pensava, che l’aumento di questi aggregati avrebbe potuto avere un effetto moltiplicatore sul reddito. Anche il consumo dello Stato veniva guardato con un certo rispetto soprattutto quando la spesa statale promuoveva il progresso tecnico e il riequilibrio a livello territoriale. Poi, alla fine degli anni Settanta dello scorso secolo, è venuta la rivolta dei contribuenti a mettere la parola fine al modello della crescita basato sulla spesa pubblica. Allora si riscoprì, quasi come

per miracolo, la taumaturgia del mercato. Verso la fine del secolo la parola d’ordine era «liberalizziamo i mercati», a livello nazionale e a livello internazionale. Lo Stato, anche quello cantonale, aveva sempre un suo compito specifico nella politica di sviluppo. Ma doveva giustificare i suoi interventi a forza di valutazioni ex-ante e ex-post. Prevaleva insomma il giudizio che la migliore politica di sviluppo fosse quella in cui lo Stato si limitava ad assicurare le condizioni per l’esercizio della concorrenza. La legge del mercato avrebbe garantito il resto. Purtroppo sappiamo che la realtà dei mercati, anche dei nostri modesti mercati cantonali, non è quella nella quale il principio della concorrenza gioca un ruolo dominante. Così non mancarono le scaramucce attorno al ri-orientamento liberale della politica di sviluppo. A livello cantonale furono soprattutto i conflitti

sull’uso del territorio e sulla politica di protezione dell’ambiente a mettere in luce le insufficienze del modello tradizionale dell’economia di mercato. Per non parlare naturalmente dell’astio sollevato dalla libera circolazione della manodopera. Così il modello liberale venne messo, abbastanza rapidamente, da parte anche dai politici del PLR. Oggi la strategia di sviluppo cantonale è largamente influenzata da aspirazioni protezionistiche. È il motto «prima i nostri!», e non obiettivi di efficienza, rispettosi delle forze del mercato, a definire le finalità della politica del benessere. Se questa politica dovesse continuare non è lontano il momento in cui ci ritroveremo tutti impiegati di qualche cartello con tariffe fissate dal Cantone o dalla Confederazione. Chi vorrà ancora cercare di guadagnare in un mercato, potrà tornare a collezionare francobolli.

sentarsi come un’alternativa di sistema nel momento in cui si è a Palazzo Chigi (e lo si controlla attraverso uomini scelti da un’azienda privata). I gilet gialli piacciono molto anche a Salvini, che ha condannato le aggressioni ai poliziotti – cosa che a dire il vero ha fatto pure Di Maio –, ma detesta Macron al punto da simpatizzare con tutto quanto si agita contro di lui. Eppure il numero dei manifestanti continua a diminuire, mentre aumenta il livello di violenza e di giusta repressione: 5 mila finora i fermati, di cui 150 finiti in carcere. Il punto è che la Francia è uno Stato serio, e chi tocca i poliziotti prima o poi la paga. Il terzo punto riguarda i giornalisti. Perché i gilets jaunes li picchiano? Se l’è chiesto un quotidiano, «Libération», che ha interpellato 25 tra direttori, editorialisti, reporter. Qualcuno ha sostenuto che i giornalisti francesi sono troppo diversi dai gilet gialli per capirli. Guadagnano in media 2800 euro al mese, contro i 1800 dei connazionali.

Si sposano tra loro, parlano soprattutto tra loro, vivono tra loro, di solito a Parigi (20 mila dei 35 mila giornalisti francesi risiedono nella capitale o nei dintorni). È il «parisianisme», l’incapacità di scendere nella Francia profonda. Qualcuno ha replicato citando Max Weber: «Non occorre essere Giulio Cesare per comprendere Giulio Cesare». Forse la spiegazione migliore è quella di JeanEmmanuel Ducoin, redattore capo de «L’Humanité»: «I giornali non raccontano più la vita vera della gente. Dove raccontiamo la sofferenza dietro i muri delle fabbriche? Anche noi abbiamo smesso di farlo». Ed Elorri Manterola di «Explicite»: «Talvolta scriviamo per le nostre fonti e per i nostri colleghi, persone super-informate su cui ci preme fare colpo». Conclude Jérome Lefilliatre, l’autore dell’inchiesta: «Siamo troppo chiacchieroni. Ripetiamo sempre la nostra opinione, anziché dare la parola agli altri». Mi pare un’autocritica salutare. L’unico modo per colmare la distanza tra i

media e i lettori è vivere le vite degli altri. Andare in giro e parlare con le persone, anziché stare sui social, crearsi uno schema mentale e cercare nella realtà qualche segno che lo confermi. Se ad esempio i giornalisti parigini avessero viaggiato di più sulle strade di provincia, avrebbero realizzato che gli automobilisti vivevano come un sopruso di Stato la misura salva-vita di abbassare il limite di velocità a 80 chilometri l’ora. Anche in Francia, come in Italia, i giovani giornalisti guadagnano meno dei colleghi anziani (in media 1900 euro). Ma tanti – non tutti – vengono da università di élite, hanno assorbito l’inglesorum dei master. Faticano a parlare e soprattutto a pensare come i loro lettori. E tendono a far coincidere il mondo con i confini della loro testa, per cui i fatti non sono nulla e l’opinione è tutto, e il giornalismo diventa (copyright Antonio Albanese) «litigare via Twitter con Celentano». Detto questo, i gilet Gialli dovrebbero imparare a rispettare il lavoro altrui.

neva e lo indignava. Cattaneo rifiutò sempre ogni proposta che comportasse un suo impegno nel parlamento del Regno. Preferì rimanere nel suo «romitorio» di Castagnola, curvo sui libri e sui trattati di coloro che considerava i suoi maestri, Gian Domenico Romagnosi e Melchiorre Gioja. Se con un occhio seguiva le vicende italiane, e lombarde in particolare, con l’altro scrutava quanto avveniva sotto le sue finestre, l’ardua costruzione (politica, economica, amministrativa, scolastica, civile) del Ticino nel suo travagliato cammino verso la modernizzazione e nella sua integrazione nella famiglia confederata. A Milano aveva conosciuto e stretto amicizia con un giovane proveniente dalla bassa Leventina, Stefano Franscini, avviato alla carriera ecclesiastica ma poco propenso a percorrere quella strada. Sedotti dalle idee dei riformatori, dai progressi delle scienze e delle tecniche, dalle buone pratiche imprenditoriali, dalla fioritura d’iniziative editoriali, entrambi avviarono un programma di ricerca imperniato

sulla nozione di «statistica», che allora includeva diverse discipline (demografia, geografia, economia, ordinamento dello Stato, usi e costumi, linguistica), dando luogo a «descrizioni» dal respiro enciclopedico. I frutti di tale approccio furono copiosi e fecondi. Franscini nel 1827 pubblicò la Statistica della Svizzera, mentre Cattaneo dette vita, nel 1839, alla prima serie del periodico «Il Politecnico». Lo storico Luigi Ambrosoli ricorda nella sua introduzione al volume cattaneano Storia della Lombardia e storia d’Italia che il leventinese in questo campo precorse il milanese: «le affinità tra l’opera dedicata da Franscini al Ticino e quella da Cattaneo alla Lombardia sono evidenti nell’impianto generale, nella distribuzione della materia, nell’ordine dato ai vari argomenti trattati». Un’ipotesi che l’avvocato varesino Mario Speroni conferma nel saggio Carlo Cattaneo e Stefano Franscini: storia di un’amicizia apparso nella «Rassegna storica del Risorgimento» (gennaio-giugno 2017). Cattaneo è rimasto a lungo in ombra nella storia d’Italia, uno sconfitto del

Risorgimento, un solitario, un intellettuale sfortunato, fatta eccezione per una breve parentesi di gloria negli anni 90 del Novecento, sull’onda dell’offensiva federalistica promossa dalla Lega Nord guidata da Umberto Bossi. Dal 1992 al 2001 il politologo Gianfranco Miglio si propose di farsi ambasciatore delle esperienze federali dai banchi del Senato della Repubblica, ma come si evince dalla raccolta dei suoi Discorsi parlamentari i successi furono scarsi. Dopo quel tentativo, Cattaneo è rientrato nei ranghi, figura certo nobile ma destinata a sopravvivere soltanto nelle biblioteche e nei musei che l’Italia dedica all’epopea risorgimentale. Eppure la lezione di Cattaneo rimane viva, non merita l’oblio. I suoi scritti affascinano ancora per la limpidezza del dettato e l’accuratezza dello scavo analitico. Sono pagine da leggere e commentare nelle scuole, come le esemplari Notizie naturali e civili su la Lombardia, recentemente ripubblicate nell’Edizione nazionale delle opere a cura di Giorgio Bigatti (2014).

In&outlet di Aldo Cazzullo Quel che resta dei Gilet gialli Che cos’è successo in Francia? Una parodia della Rivoluzione? O un’insorgenza reazionaria? L’ondata di protesta dei gilet gialli non si è ancora spenta. Ora forse faranno un partito che si presenterà alle Europee, sottraendo voti ai due leader populisti, Jean-Luc Mélenchon (sinistra) e Marine Le Pen (destra), e quindi facendo un favore all’odiato Macron. Nel momento in cui è diventato violento e ha aggredito più volte le forze dell’ordine, il movimento di protesta si è affievolito, perdendo il consenso della maggioranza dei francesi. Restano tre punti su cui meditare. Il primo è la debolezza della classe politica francese, a cominciare dal presidente della Repubblica, colto totalmente di sorpresa dall’esplosione di collera popolare. Mitterrand rimase all’Eliseo quattordici anni. Chirac dodici. Sia Sarkozy sia Hollande hanno fatto un solo mandato. Macron dopo un anno e mezzo ha già perso il sostegno della maggioranza degli elettori. Il sistema a

doppio turno favorisce la stabilità a discapito della rappresentanza. I francesi sono sfiduciati e frustrati. E la figura un tempo quasi regale, se non sacrale, del capo dello Stato è oggi esposta ai rigori e alle bizzarrie di un tempo di crisi e di malcontento. Il secondo punto riguarda le mosse dei Cinque Stelle. Non si era mai visto, nella storia dell’Unione europea, il primo partito di un grande Paese sostenere un movimento violento ed eversivo, in rivolta contro il presidente – criticabile finché si vuole ma democraticamente eletto – di un altro grande Paese, per giunta confinante e legato da secoli di storia comune. Sono atteggiamenti, quelli di Luigi Di Maio che ha offerto ai gilets jaunes sostegno logistico e alleanza elettorale, da capetto di un gruppuscolo in cerca di visibilità; non certo da vicepremier e leader di una forza che alle politiche ha conquistato in Italia un terzo dei voti. Questo conferma l’attitudine un po’ grottesca a fare l’opposizione anche quando si è maggioranza, a pre-

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Cattaneo, mente politecnica Carlo Cattaneo si spense il 5 febbraio del 1869, giusto 150 anni or sono, nella sua dimora di Castagnola. Nel villaggio sul Ceresio Cattaneo era approdato dopo un passaggio a Parigi, all’indomani delle Cinque giornate di Milano (1848), rivolta alla quale aveva partecipato in prima persona. Qui, nella casa presa in affitto dalla famiglia Peri (ora sede dell’Archivio della città di Lugano), rimase fino al decesso, in posizione appartata ma non

Monumento a Carlo Cattaneo di E. Ferrari a Milano. (G. Dall’Orto)

indifferente ai dibattiti risorgimentali italiani e ai dilemmi che tormentavano il giovane cantone Ticino. Spirito libero e intransigente, restio a farsi intruppare in qualche fazione politica, l’illustre esule profuse energie e la sua acuta intelligenza nello studio. Non riflessioni astratte, però; Cattaneo avversava le speculazioni dei Rosmini e dei Gioberti, e pure l’avventurismo inconcludente di Mazzini. Le sue indagini scaturivano dall’esigenza di offrire risposte concrete a questioni reali, come ad esempio l’organizzazione scolastica, le bonifiche, i trasporti. I lettori delle sue opere solevano dire che la sua prosa «sapeva di carbone», tanto era avvinghiata alla materialità dei processi. Luigi Einaudi definì la sua scrittura come l’esito di un felice connubio «tra lo splendor della forma letteraria e il rigore della scienza». L’Unità d’Italia, così come si andava configurando intorno ad un rigido principio centralizzatore, trovò in lui un fiero oppositore; la mortificazione dell’architettura federalistica ad opera della nuova classe dirigente l’indispo-



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Cultura e Spettacoli Soletta e le immagini Si è appena concluso uno dei più importanti appuntamenti della Svizzera con il cinema pagina 36

Picasso, Braque e gli altri Un’imponente e imperdibile mostra celebra il cubismo al Pompidou di Parigi, città in cui nacque nel 1907

Un uomo o un cane? Stefano Massini trascrive Bulgakov per il teatro: a Milano va in scena Cuore di cane

Sciacquiamoci la bocca Nel suo nuovo libro Massimo Arcangeli si china sulle bruttezze della lingua italiana

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Intellettuale del futuro

Anniversari A 150 anni dalla morte di Carlo

Cattaneo, molte le iniziative per ricordarlo

Pietro Montorfani Tra il serio e il faceto, negli ultimi tempi mi è capitato più volte di ricordare che Carlo Cattaneo è morto nel mio ufficio. Non che non sia vero, ma il fatto è sintomatico dell’abitudine tutta moderna di schiacciare il passato sulla contemporaneità, di leggere la storia senza prospettiva, facendone quasi una forma di gossip più o meno erudito. Ora che l’Archivio storico della Città di Lugano si appresta a lasciare Casa Cattaneo per la sua nuova sede, e a 150 anni esatti dalla scomparsa del suo più celebre inquilino (5 febbraio 1869), sarà bene tornare a rimettere le cose nel loro giusto ordine e dare a Carlo quel che è di Carlo, cioè un posto di riguardo nelle vicende che hanno segnato la storia della Svizzera italiana, ben oltre il suo ventennio di permanenza in riva al Ceresio. Basterebbe citare l’annoso dibattito sulle trasversali ferroviarie alpine, che lo vide da subito propugnatore convinto del San Gottardo, contro l’ipotesi piemontese e genovese che voleva invece una via da Locarno al Lucomagno, per poi giungere a San Gallo, al lago di Costanza e infine in Baviera, senza toccare nodi cruciali quali Milano e Basilea. Capace di una visione d’ampio respiro non limitata al corto raggio della contingenza, Cattaneo vedeva un’Europa unita grazie ai binari del progresso, in cui i popoli potessero collaborare tra loro senza perdere le loro caratteristiche e la loro autonomia. Federalista convinto (anzi «cantonalista», come amava ripetere) si occupò poco di politica, ma nella sua esperienza-lampo quale membro del Consiglio di guerra delle Cinque giornate intravide presto la necessità di condividere con la cittadinanza le decisioni e i verbali delle riunioni (fu prontamente osteggiato) e sempre promosse la diffusione e lo scambio delle più recenti conquiste scientifiche, due atteggiamenti che ne farebbero oggi un paladino di internet e uno strenuo difensore dell’open source. Aveva ereditato da Romagnosi il desiderio di una filosofia pragmatica, intrisa di diritto e di scienza, che fosse innanzitutto al servizio dell’evoluzione della società. Non si tratta di attribuirgli chissà quali misteriose capacità profetiche ‒ un destino che tocca spesso i grandi,

da Leonardo in giù, senza nulla aggiungere alla loro caratura intellettuale ‒ semmai di tornare a leggere i suoi scritti con la consapevolezza del suo essere stato, a tutti gli effetti, un classico, cioè un «contemporaneo del futuro», un autore dal cui confronto con il nostro presente possano sgorgare insegnamenti e consigli, anche soltanto in forma di intelligenti provocazioni. In un’epoca che ancora non riesce a estirpare il tarlo dell’antisemitismo (ma vale per tutte le forme di razzismo) le sue Interdizioni israelitiche non smettono di portare in superficie le contraddizioni e le difficoltà di una convivenza che solo sulla carta continuiamo a definire «civile». Dopo la grande abbuffata delle celebrazioni per il bicentenario dalla nascita (2001), festeggiato a Milano e Lugano con mostre e pubblicazioni, di Cattaneo erano tornati ad occuparsi gli specialisti, i curatori degli opera omnia e dei volumi dell’epistolario, promossi dal benemerito Comitato italo-svizzero presieduto da Franco Masoni. Un nuovo anniversario offre quindi l’occasione per tornare a togliere un po’ di polvere dagli scaffali, salvo il fatto che, libri alla mano, in molte pagine di Cattaneo c’è ben poco da spolverare, tanto il suo pensiero è rimasto limpido e attuale: «I popoli ‒ così scriveva in una delle prefazioni al Politecnico (183944) – debbono farsi continuo specchio fra loro, perché li interessi della civiltà sono solidarj e communi. [...] Il dover nostro è di conferire le poche forze nostre a questa impresa commune dell’umanità; il dover nostro è d’accrescere nella patria che abitiamo, colla lingua che parliamo, e colle felici abitudini naturali della nostra stirpe il dominio delle intelligenze». E ancora: «Noi dobbiamo partecipare a questa guerra tra il progresso e l’inerzia, tra il pensiero e l’ignoranza, tra la gentilezza e la barbarie, tra l’emancipazione e la servitù. Dunque ogni idea vera e buona, da qualunque paese, da qualunque lingua ci arrivi, sia nostra, e immantinente, e come se fosse germinata sul nostro terreno». Parole sante, in cui echeggiano già i toni e gli slanci utopici (ma quanto abbiamo bisogno di quegli slanci!) che sarebbero ritornati nella Prolusione a un corso di filosofia con cui si inaugurava, nel novembre

Ernesta Legnani Bisi, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo.

del 1852, il neonato liceo di Lugano. Colpisce, in Cattaneo, l’insolita convivenza tra una visione del mondo abbracciata alla scienza (compresa la storia, da lui intesa secondo la lezione di Vico) e la capacità di conferire calore a quella visione per mezzo di un’intelligenza viva e di un linguaggio duttile e affascinante. Mentre biasimava il bello stile di molti scienziati e filosofi italiani della sua epoca, rei di non mettere molta sostanza nei loro discorsi estetizzanti, fondava di fatto una lingua della saggistica che avrebbe fatto scuola. Qui sta forse il nodo principale dell’inter-

pretazione moderna del pensiero di Cattaneo: come si fondano in lui passione e scienza, razionalismo e utopia, cioè quel «di più» che non ne permette l’assimilazione tout court al rigido positivismo di fine secolo e che, senza dimenticare le feroci diatribe antimetafisiche con Gioberti e Rosmini, lo porta fin sulla soglia di questioni non del tutto spiegabili all’interno del suo stesso sistema di pensiero. Gli appuntamenti dell’anniversario

11 marzo, 25 marzo e 1 aprile 2019, USI, Il ritorno di Carlo Cattaneo (corso

di tre serate promosso dall’Associazione Carlo Cattaneo); 7 maggio ‒ 7 settembre 2019, Biblioteca cantonale di Lugano, Carlo Cattaneo, un intellettuale europeo a Lugano 15 maggio 2019, Liceo cantonale di Lugano, I luoghi di Carlo Cattaneo 29-30 ottobre 2019, Milano, Cattaneo dopo Cattaneo (convegno scientifico); 11 e 18 novembre 2019, Università della Svizzera italiana, Carlo Cattaneo e la questione dei trasporti internazionali (corso di due serate promosso dall’Associazione Carlo Cattaneo).


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Cultura e Spettacoli

Un fine omaggio ad Armand Rondez Libri d’arte Le edizioni Topík restituiscono

al lettore la figura di un artista straordinario

Nicola Mazzi

Eliana Bernasconi

I problemi della fiction ticinese

Giornate di Soletta Si è appena concluso uno dei più importanti

appuntamenti cinematografici della Svizzera

Nicola Mazzi Il Ticino, a livello numerico, è stato ben rappresentato alle 54esime Giornate di Soletta che si sono tenute la scorsa settimana. Diversi i film e i cortometraggi della Svizzera italiana presenti nei vari programmi della rassegna dedicata alle produzioni elvetiche. Alcuni già noti e visti, come il documentario di Niccolò Castelli su Lara Gut (Looking For Sunshine), quello dedicato a Fabio Pusterla di Francesco Ferri – passato nei giorni scorsi in TV– (Libellula gentile), o ancora quello di Fulvio Bernasconi (Dick Marty, un grido per la giustizia, visto nei mesi scorsi alla trasmissione «Storie»), altri invece inediti. Tra questi ultimi: Barbara, adesso; l’atteso film di Alessandra Gavin-Müller.

Seppur ben rappresentate, le produzioni ticinesi in qualche modo risultano incomplete Proprio su quest’ultima produzione voglio soffermarmi. Perché, oltre a essere stata presentata per la prima volta a un pubblico, mi ha messo di fronte – ancora una volta, purtroppo – alla delicata situazione in cui si trova la fiction ticinese. Alla base del film c’è una bella idea, di grande attualità: una madre abbandona il marito e la figlia di tre anni perché non si sente più adeguata a quel ruolo. In lei si è spento l’istinto materno. Inizialmente Barbara si sente sollevata, più libera, pensa di aver ritrovato la sua vita. Arriva pure a negare, con il collega di lavoro, di essere mai stata madre. Ma col tempo emergono anche i sintomi della fragilità di cui non riesce a liberarsi. Come il non poter fare a meno di suonare alla porta della madre, anche se questa non le risponde mai. Il punto di partenza è davvero in-

trigante. Ma il resto non riesce a essere all’altezza della promessa narrativa. I problemi di questo film, ma anche di altre fiction ticinesi viste di recente, sono diversi, ma quello più importante è legato alla sceneggiatura. Alla scrittura della storia e a come essa viene messa in scena. La tensione narrativa, che dovrebbe essere la base di un buon racconto, quella magia che ti tiene incollato allo schermo per un’ora e mezza, in questa produzione ha dei cali abbastanza evidenti, sia nello sviluppo tematico, sia nelle relazioni che Barbara costruisce con le persone che le stanno accanto. Certo, abbiamo alcuni lodevoli tentativi con i quali la regista riesce a compiere questa operazione, per esempio nel rapporto tra Barbara e il figlio della vicina: se al primo incontro lei lo fa sedere su una sedia fuori casa in modo da non essere disturbata mentre lavora, la seconda volta che lo ospita gli dà una sedia in cucina, vicino a lei. Peccato che siano poche ed estemporanee queste soluzioni. E il tutto si perde in una vicenda troppo frastagliata, che passa senza una vera ragione dalla storia di Barbara a quella del marito con la figlia, soli a casa e alla ricerca di un nuovo equilibrio famigliare. Così come non c’è uno sviluppo nella storia tra lei e il collega di lavoro. Solo qualche frase, qualche accenno a una possibile relazione. Certo – mi si potrebbe obiettare – è proprio quello che voleva la regista: far capire allo spettatore il disorientamento della sua protagonista, persa in relazioni che non riesce a costruire e delle quali non le importa molto, smarrita in una solitudine dalla quale non riesce a uscire. Ma anche se così fosse, resterebbero i problemi di partenza. Perché questa solitudine non viene sufficientemente messa a fuoco, analizzata, capita, indagata e spiegata. Lo spettatore resta spaesato; non riesce a capire dove si vuole andare a parare e quale sia la direzione che vuole prendere la regista. Problemi che emergono anche nella recitazione. Alla fine, i personag-

gi che appaiono più naturali e quindi più credibili, sono il padre e la figlia, proprio perché non recitano, vivono la loro quotidianità come se non ci fosse la camera a filmarli. La provenienza teatrale, della pur brava protagonista, è abbastanza evidente sia nei momenti introspettivi sia nella scena in cui dà sfogo alla sua rabbia e urla tutto il suo malessere al mondo. La mancanza di una gamma di grigi e lo spazio lasciato al bianco e al nero (tipici del teatro e meno del cinema) non aiutano a identificarsi con il personaggio. Così come non aiuta la mancanza di quella necessaria abilità e grazia nel costruire interessanti nessi logici, quelli alla base di una narrazione che fonda le radici sul concetto di causa-effetto. Meglio, invece, un corto ispirato alla tragica vicenda del 2017 quando un giovane emigrato, che si era rifugiato sul tetto di un treno, morì alla stazione di Balerna. Le prix du ticket di Mariama Balde riesce, in modo chiaro e semplice, a descrivere il fatto, creare legami credibili tra i personaggi e a suscitare un’emozione in chi lo guarda. Forse bisognerebbe ripartire da questo piccolo film. Forse, come si dice nello sport, bisogna riscoprire i fondamentali e tra questi la sceneggiatura. La rassegna si è conclusa con il Premio del Pubblico assegnato al documentario Gateways to New York di Martin Witz prodotto dalla ticinese Ventura Film e dalla RSI, mentre il Premio di Soletta è andato al documentario Immer und Ewig di Fanny Bräuning. Sempre a Soletta, sono state rese note anche le Nominations per i Quartz, gli Oscar del cinema nazionale. Wolkenbruch, il film svizzero di maggior successo dell’anno, ha ottenuto cinque candidature. Il film di Simon Jaquemet, Unschuldige, è invece presente in quattro categorie. Mentre, a dimostrazione di quanto detto, nessun ticinese è in lizza per ricevere un riconoscimento nazionale. I premi saranno attribuiti il 22 marzo a Ginevra.

Armand Rondez, Le Stagioni Dell’utopia/Zeit Der Utopie, Visionarietà e progettualità tra vita e arte, Edizioni Topík – è una piccola monografia bilingue, in italiano e tedesco, curata da Maria Will, con progetto grafico di Ivano Facchinetti, testi della figlia di Armand Rondez, Gabrielle Dominique Rondez e di Loredana Müller Donadini, presentata nella Biblioteca del Museo d’Arte di Mendrisio. Si tratta di un omaggio all’artista, a oltre 30 anni dalla sua scomparsa all’età di 58 anni, che con più di 50 riproduzioni di opere e illustrazioni fotografiche, in un susseguirsi parallelo di testi e immagini corrispondenti, segue l’opera, l’evoluzione e la maturazione del pittore Armand Rondez, (Zurigo 1928-1986) vissuta nel segno dell’identificazione totale fra vita e arte, che sempre contraddistingue l’artista vero. «L’attuale vincente prospettiva globalizzante», scrive Maria Will nell’introduzione della monografia, «invade sempre più, annullandoli, gli spazi di dimensioni altre; di conseguenza esperienze creative idonee a contribuire alla ricchezza intangibile della collettività rischiano di restare sommerse per sempre». Ed è anche per questo che nel 2012 per merito di Maria Will e di un ristretto gruppo di amici sono nate le edizioni Topík con un ben delineato progetto: rivolgersi alla produzione artistica del Ticino e regione per salvaguardarne e proteggerne l’imperdibile valore. (Questo curioso nome che deriva dal dialettale «andare a Topík» e vuole ricordare Giorgio Orelli che nelle sue passeggiate bellinzonesi con la bicicletta con questa espressione alludeva scherzosamente al pericolo sempre da lui evitato di cadere perdendo l’equilibrio). Contraddistinte dal logo intenso e suggestivo di Ivano Facchinetti le edizioni Topík hanno già al loro attivo significative collane, come «Gli Accenti», partita con una mostra di Mirko Canonica, o come la collana «in Campo», che con Rondez è al suo terzo titolo, o come «Arco», rivolta ad artisti con varianti stilistiche, come Ivano Facchinetti. Nato da una famiglia di origini giurassiane di agiato rango borghese, Armando Rondez studia a Einsiedeln, suo maestro è l’artista e urbanista Walter Jonas, dopo la frequentazione della Kunstgewerbeschule il suo spirito di irrequieto sperimentatore lo spinge a molte peregrinazioni che la monografia ci racconta. Era la stagione irripetibile degli inizi degli anni 70 che Rondez ha respirato, quella della ribellione, del rifiuto del conformismo, dello spirito hippie, di quando il mondo, a differenza di quanto succede oggi, non era sempre di facile accesso e disponi-

La monografia dedicata all'artista Armand Rondez.

bile, ma ancora erano possibili la scoperta di realtà nascoste, lo svelamento di luoghi inesplorati e, come scrive la figlia Gabriella Dominique Rondez, «ci si poteva lanciare in nuove avventure senza troppo pianificare». Rondez frequenta la Spagna, la Costa Azzurra, la Francia; grazie all’amicizia con il pittore svizzero Theo Gerber che aveva acquistato e trasformato un ex convento, passa lunghi soggiorni in Provenza che alterna a periodi zurighesi, negli anni 80 tiene dei corsi in un frequentato atelier sotto i tetti nel quartiere della Langstrasse, dove le finestre guardano dall’alto sull’ambiente delle sommosse del centro giovanile autonomo. Frequenta la scena artistica zurighese di avanguardia di quel tempo, di matrice esistenzialista, inizia a essere apprezzato da galleristi e collezionisti, attira l’attenzione di un mercante d’arte zurighese, Max Bollag, che tratta artisti come Picasso e Klee, sue opere sono acquistate a Zurigo, Berna e da collezionisti americani. Risale invece agli anni 60 il soggiorno a Riva San Vitale, nella signorile dimora cinquecentesca del palazzo della Croce, attiguo alla chiesa omonima, monumento artistico nazionale; in questa storica sede, acquistata dall’amico artista Ernest Houck, che condivide l’attrazione per il sud mediterraneo, vi erano spesso ospiti come il suo primo maestro Walter Jonas e si respirava un clima intellettuale di grande apertura. Giungerà poi negli anni successivi l’approdo a Mendrisio, nella centrale via Stella 9 dove la figlia Gabrielle prende in gestione, ristruttura e prosegue l’attività del noto e avviato centro d’arte gestito dal pittore e gallerista Carlo Gulminelli e successivamente dalla vedova Liliana. Purtroppo la malattia interrompe crudelmente i nuovi sogni e la vita di Armand Rondez che progettava di iniziare un atelier di insegnamento delle arti incisorie, disciplina che aveva da sempre praticato. È in via Stella 8, di fronte alla galleria, che nel 2012 verrà aperto l’Archivio NAR (Nachlass Armando Rodez), dove l’intero lascito della sua opera si trova fortunatamente riunito: tele, tecniche miste, tempere acquerelli, disegni, incisioni, litografie, insieme all’archivio fotografico, ai suoi scritti e alle sue corrispondenze. In tutta l’opera di questo artista sono leggibili e felicemente fuse le componenti culturali nordiche e mediterranee. Era attratto, come succede spesso agli artisti, da ogni forma di sapere anche esoterico e mistico e seppe conciliare i modi e il non facile dialogo del figurativo e dell’astratto, di cui usava i due registri espressivi. Nel suo diario si interrogava continuamente sul valore del processo espressivo e sui risultati che ne scaturiscono. La sua ansia di autenticità si coglie nei ritratti e in splendidi e luminosi acquarelli come Riva San Vitale, (1960), che rimandano alla leggerezza e alla luminosità di un Matisse. Dal legame con le forme del vero mai del tutto negate arriverà a una poetica dell’informale lirico in una tensione che congiunge concretezza geometrica, astrazione e potenzialità architettonica, dove il colore ha una funzione simbolica e drammatica, mai disgiunta dalla razionalità del disegno compositivo. È questa la cifra stilistica originalissima delle ultime opere di Armand Rondez che in una simultaneità di spazio e tempo racchiudono una appassionata interrogazione sul destino umano.


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Cultura e Spettacoli

Cubismo e così sia Mostre/1 Imponente mostra al Pompidou di Parigi Gianluigi Bellei Se vi interessa il Cubismo, o se non lo conoscete abbastanza e vi intriga, al Centre Pompidou di Parigi c’è l’esposizione che fa per voi. D’altronde il Cubismo è nato proprio a Parigi nel 1907 e solo il Pompidou poteva organizzare una «mostra-monstre» (è proprio il caso di dirlo) così importante e ampia: ben 300 opere. Da perderci la testa. Si indaga il decennio fra il 1907, appunto, e il 1917, anno della diaspora da Parigi degli artisti a causa della grande guerra. Sono esposte opere importantissime come Portrait de Gertrude Stein del 1905-06 proveniente dal Metropolitan Museum of Arts di New York, quello di Ambroise Vollard del 1909-10 proveniente dal Musée d’État des beaux-arts Pouchkine di Mosca ambedue di Picasso o il Grand nu del 1907 di Georges Braque. Manca, a dire la verità, l’opera prima e probabilmente la più importante, l’icona del Cubismo, il dipinto choc che tutti dovrebbero vedere per forza prima o poi e che si trova al Museum of Modern Art di New York: Les Demoiselles d’Avignon del 1907 di Pablo Picasso. Ma che cosa è il Cubismo? Siamo nei primi anni del Novecento e il filosofo Henry Bergson ne L’evoluzione creatrice scrive di un diverso rapporto fra tempo e conoscenza, mentre Albert Einstein teorizza la relatività secondo la quale due ipotetici fenomeni hanno fra loro un rapporto casuale e non di dipendenza reciproca. Il poeta Guillaume Apollinaire ritiene che il tempo di Bergson sia «la quarta dimensione». Quella appunto dei Cubisti che rompono con la tradizione della prospettiva con un unico punto di vista frontale e inseriscono nello stesso soggetto piani diversi e quindi una visione multipla e simultanea. Insomma, in un volto possiamo vedere il naso di profilo e contemporaneamente tutti e due gli occhi, un seno di fronte e nello stesso tempo la schiena. Il 14 novembre 1908 Louis Vauxcelles su Gil Blas a proposito di Braque scrive che «disprezza la forma, riduce

tutto, luoghi, figure ed edifici, a schemi geometrici, a cubi». Il 16 dicembre dello stesso anno Charles Morice sul «Mercure de France» scrive che Braque vuol cogliere le «armonie geometriche di ogni cosa». Leo Stein di fronte a Les Demoiselles d’Avignon dichiara che Picasso ha voluto dipingere la «quarta dimensione». Le opere dal 1907 al 1909 vengono definite protocubiste e sono caratterizzate dalla scomposizione prospettica e da solo due o tre toni di colore. Dal 1909 inizia la fase del Cubismo analitico nel quale il colore diventa monocromo e i piani si spezzano in piccole sfaccettature. Infine dal 1911 il Cubismo diventa sintetico ed è caratterizzato dai papiers collés con l’inserimento di pezzi di giornali o di tappezzeria (frammenti di realtà) all’interno del quadro. I due termini, «analitico» e «sintetico», che definiscono i periodi del Cubismo sono spiegati dal gallerista Daniel-Henry Kahnweiler nel libro La via al Cubismo del 1920. In mostra il celebre ritratto che Picasso gli fa nel 1910 e che ora si trova all’Art Institute of Chicago. Il corpo di Kahnweiler è smaterializzato e se ne intravedono alcune parti: le mani, i capelli e il naso, ma soprattutto in alto a sinistra si nota una scultura lignea della Nuova Caledonia che il pittore tiene nello studio. Questo particolare introduce un altro aspetto caratterizzante il Cubismo: l’attrazione verso le sculture extraeuropee, africane soprattutto. Braque ne possiede una piccola collezione; Matisse una ventina e diverse Picasso, il quale sappiamo visita il Museo etnografico del Trocadero a Parigi nel giugno del 1907. Queste maschere sono per gli artisti un nuovo modo di rapportarsi con la realtà e la figura umana. Divisa il tredici sezioni la mostra si vede bene grazie alle grandi sale, ottimamente illuminate, e a un percorso circolare. Inizia con gli artisti che si sono mossi a latere dell’arte ufficiale, dei contromodelli; una sorta di predecessori del Cubismo. Parliamo di Paul Gauguin e di Henri Rousseau con le loro forme primitive e anticlassiche.

Georges Braque, Grand nu (1907-1908), Centre Pompidou, Musée national d’art moderne, Parigi. (© Centre Pompidou, MNAM-CCI/G.Meguerditchian/ Dist. RMN-GP © ADAGP, Paris 2018)

Un’ampia sezione è dedicata all’arte primitiva per poi entrare nel merito del padre nobile del cubismo: Paul Cézanne per il quale la natura non è altro che un cilindro, una sfera e un cono. Diverse sale sono dedicate al rapporto fra Braque e Picasso. Un’amicizia e una collaborazione artistica coltivata con

la stretta vicinanza di tempi e luoghi. Questo nonostante i due personaggi siano differenti l’uno dall’altro. Braque ama il colore, è misurato, deduttivo, introverso. Picasso, al contrario, ama il disegno, è estroverso, irruento, frenetico. In ogni caso lavorano a stretto contatto, si scambiano informazioni, si confron-

tano, discutono. Diverse opere di quel periodo non sono firmate e i critici a volte fanno fatica a distinguere fra quelle dell’uno e quelle dell’altro. Nel frattempo il metodo cubista prolifera e molti artisti seguono le orme di Picasso e Braque. La consacrazione del Cubismo avviene nel 1911 al Salon des indépendants di Parigi. Nella sala 41 troviamo opere di Robert Delaunay, Fernand Léger, Albert Gleizes, Henri Le Fauconnier, Jean Metzinger e Marie Laurencin. L’anno seguente, sempre al Salon des indépendants, Robert Delaunay presenta il suo monumentale Ville de Paris e Marc Chagall À la Russie. In quello del 1914 la critica si sofferma su L’Atelier de mécanique di Jacques Villon e contemporaneamente partecipano in ordine sparso Kazimir Malévič e Aleksandr Archipenko. In tutte le esposizioni dei Salon Braque e Picasso non sono mai presenti e questo ha contribuito a supporre che non fossero i principali artefici del nuovo corso rivoluzionario, come in effetti furono. Ma il Cubismo non è solo monocromo e un po’ slavato, bensì nelle sue varianti – soprattutto quello definito Orfico dei coniugi Delaunay – estremamente colorato. Per chi ama una Parigi sfavillante alcune sale sono dedicate proprio ai suoi principali monumenti come la Tour Eiffel che in quegli anni rappresentava la rivoluzione moderna e la grandiosità di una città in perenne effervescenza. L’esposizione parigina, che termina il 25 febbraio, verrà in seguito riproposta al Kunstmuseum di Basilea dal 30 marzo. Dove e quando

Le cubisme, a cura di Brigitte Leal, Christian Briend, Ariane Colulondre. Centre Pompidou, Parigi. Fino al 25 febbraio. Tutti i giorni ore 11.00-21.00 Chiuso martedì. Catalogo Edizioni Centre Pompidou, euro 49.90, album, euro 9.90. www.centrepompidou.fr

L’arte dell’equilibrio Mostre/2 Le opere di Simon Deppierraz alla Galleria Daniele Agostini di Lugano Alessia Brughera Simon Deppierraz è un giovane artista svizzero nato a Morges nel 1984 che vive e lavora tra Losanna e Berlino e che ha già alle spalle diverse mostre in territorio elvetico e internazionale. Di recente ha partecipato ad alcune esposizioni collettive ticinesi che hanno incominciato a farne conoscere la peculiare ricerca anche nel nostro cantone. Tra queste si può citare la rassegna di arte pubblica organizzata la scorsa estate a Morcote, a cui Deppierraz ha preso parte con un intervento site-specific all’interno del Parco Scherrer incentrato sullo stretto rapporto tra opera e contesto. In Ticino la prima mostra personale dell’artista è quella che la Galleria Daniele Agostini di Lugano gli dedica in questi giorni, una piccola ma significativa monografica che raccoglie lavori realizzati negli ultimi cinque anni, a documentare gli aspetti principali del suo linguaggio. Nelle sculture e nelle installazioni di Deppierraz si possono trovare richiami a più correnti artistiche: dall’Arte Povera, da cui egli mutua l’impiego di materiali sia naturali sia industriali (legno, pietra, plexiglas, metallo) sfruttati nella loro espressività primaria e immediatezza sensoriale, all’arte minimalista, da cui derivano

la riduzione della realtà a strutture geometriche elementari e l’enfasi posta sulla fisicità dell’opera, per arrivare, in alcuni lavori, all’Optical Art, da cui desume l’obiettivo di dare risalto ai puri valori visivi giocando con l’osservatore attraverso immagini che sembrano vibrare. Nessun riferimento, però, circoscrive l’artista in una precisa definizione, perché le sue opere mostrano, su

Simon Deppierraz, Loop, 2014, puleggia, acciaio, corda, moschettone. (Muriel Hediger)

tutto, un orientamento che, partendo da nessi e attinenze, riesce ad approdare a risultati distintivi. Deppierraz è innanzitutto un artista-artigiano: è lui ad assemblare tutti gli elementi che costituiscono le sue creazioni. Ama la manualità e la precisione e non delega nulla ad altri. Frese, seghe circolari e levigatrici sono spesso sue compagne di lavoro, utilizzate in taluni casi in maniera così inedita che mai si penserebbe che le opere siano state realizzate con quegli strumenti. Con materiali semplici (spesso legati alla sua vita privata, come le corde e i moschettoni che rimandano alla sua passione per le scalate in montagna) Deppierraz dà vita a installazioni dalla forte componente ludica che trasmettono il suo debole per la geometria e per la fisica, di cui si diverte a stuzzicare le leggi. Collocati in spazi aperti o all’interno di musei e gallerie, difatti, i suoi lavori ruotano spesso attorno al concetto di equilibrio, di tensione tra forze contrastanti. In Deppierraz tutto è un gioco di incastri e di pesi che sospendono le opere in una «bilanciata instabilità». Esse ci appaiono come una sorta di esercizio, di esperimento dell’artista che sfida le regole della statica spingendosi fino al limite oltre il quale ci sarebbe la rottura, il crollo. La ricerca di Deppierraz si concen-

tra sulla gravità, sollevando questioni sull’idea di fragilità e di resistenza. Se l’approccio dell’artista è razionale e altamente scientifico, basato com’è sull’attenta analisi dei fenomeni fisici e ottici, è però altrettanto vero che le sue installazioni ci appaiono come proiettate in una dimensione quasi irreale, non priva di una certa poesia. Deppierraz riconfigura così lo spazio, traccia nuovi percorsi visivi e focalizza l’attenzione sul valore fisico degli elementi. Alla base c’è sempre la volontà di stimolare la percezione e la sensazione di chi osserva creando affascinanti strutture, calibrate nei minimi dettagli, capaci di generare un senso di precarietà nel loro pur solido impianto compositivo. Nella mostra di Lugano troviamo molti esempi di questo suo confrontarsi con il peso dei corpi materiali; ora è un sistema di corde, pulegge e moschettoni che sorregge un anello in acciaio in un delicato equilibrio; ora è un semplice elastico a tenere insieme un cilindro di legno e dei tubi di alluminio nella totale mancanza di saldature; ora sono alcune piccole rondelle di pietra calcarea incastrate tra due perni di ottone la cui stabilità è affidata al solo contrapporsi di forze. Della serie intitolata Tools, interessanti sono un’opera del 2015, il cui reticolo dagli effetti optical è stato rea-

lizzato lavorando con la sega circolare il retro di una lastra di plexiglas, e un disegno del 2018, eseguito dall’artista inchiostrando il disco di una levigatrice e applicandolo poi su carta giapponese. Particolarmente significativi dell’attrattiva di Deppierraz per le leggi della fisica e per le illusioni ottiche sono Effetto Casimir, un’opera costituita da quattro lastre di granito unite tra loro da una cinghia che si ispira al fenomeno teorizzato da Hendrik Casimir riguardante l’energia del vuoto, e Illusione di Hering, rielaborazione in legno, acciaio ed elastici della famosa immagine creata dal fisiologo tedesco Ewald Hering che distorce la percezione di due linee perfettamente rette facendole apparire curve. Tra giochi di forze e sottili equilibri, tra illusioni e paradossi, Deppierraz con il suo lavoro non fa altro che investigare con ironia e provocazione le contraddizioni della condizione dell’essere umano, da sempre spinto verso quell’esile margine tra resistenza e precarietà. Dove e quando

Simon Deppierraz. Equilibri. Galleria Daniele Agostini, Lugano. Fino al 2 marzo 2019. Orari: me, ve e sa 13.0018.00, gio 13.00-19.00 e su appuntamento. www.danieleagostini.ch


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Cultura e Spettacoli

Gli effetti imprevisti di un trapianto

Il peso specifico interattivo

Teatro Cuore di cane di Bulgakov nella versione teatrale di Massini

invita lo spettatore a fare delle scelte

Giovanni Fattorini

Alessandro Panelli

«22 dicembre 1924. […] Il cane in esame ha suppergiù due anni. Maschio. Razza: bastarda. Nome: Šarik. Pelo non folto, a ciuffi, brunastro con macchie bianchicce». Così comincia (nella traduzione di Vera Dridso) il diario clinico redatto dal dottor Ivan Arnol’dovič Bormental’, assistente del professor Filipp Filippovič Preobraženskij, endocrinologo di fama internazionale, che il giorno successivo asporta chirurgicamente i testicoli di Šarik e trapianta in loro vece quelli di un uomo di 28 anni deceduto 4 ore e 4 minuti prima dell’operazione. Subito dopo, «previa trapanazione della calotta cranica», sostituisce l’ipofisi canina con quella del medesimo giovanotto. «Scopo dell’operazione: […] chiarire la questione dell’attecchimento dell’ipofisi e in un secondo tempo della sua influenza sul ringiovanimento dell’organismo delle persone». L’intervento si conclude felicemente. Ma nell’arco di due settimane Preobraženskij deve riconoscere con sgomento che «il trapianto dell’ipofisi non produce un ringiovanimento, ma una completa umanizzazione». Nella singolare creatura che è il frutto imprevisto del suo esperimento emergono infatti, sempre più evidenti, i tratti fisio-psichici dell’individuo da cui sono stati prelevati i testicoli e l’ipofisi: un suonatore di balalaica, alcolista, condannato a quindici anni di lavori forzati con la condizionale, autore di parecchi furti, morto per una coltellata al cuore in una birreria. Col passare dei giorni, l’ex quadrupede che si fa chiamare Šarikov diventa sempre più intollerabile: usa un linguaggio scurrile, si ubriaca, insegue i gatti fuori e dentro casa, ruba dei soldi e accusa di furto la cameriera (Zina) su cui ha tentato più volte di allungare le mani. Non bastasse, diventa un informatore di Švonder, il presidente del comitato di caseggiato, che in applicazione delle norme relative agli appartamenti in coabitazione vorrebbe ridurre lo spazio abitativo «esorbitante» (sette stanze) del celebre

Bandersnatch, scritto da Charlie Brooker (autore principale degli episodi di Black Mirror) e diretto da David Slade (The Twilight Saga, 30 giorni di buio) è il primo film interattivo distribuito da Netflix. Tramite l’interazione concessa allo spettatore si devono fare delle scelte che si ripercuoteranno sul finale, è quindi possibile vedere più finali. Al centro di Bandersnatch vi è un giovane programmatore di videogiochi (Stefan) che intende sviluppare un’avventura grafica, una sorta di film interattivo, basata su un libro, anch’esso interattivo, scritto dal suo idolo Jerome F. Davies. Una volta ottenuto l’ok per la produzione da parte della Tuckersoft, Stefan inizia a lavorare sul videogioco e questo scatenerà in lui forti problemi psicologici. Le cause sono molteplici e vanno da un opprimente passato che lo condiziona e lo costringe a seguire una terapia, alla pesante ingerenza di Colin Ritman, famoso programmatore della Tuckersoft, e non da ultimo alla nostra influenza, che decidiamo per lui. A livello tecnico il film si posiziona su standard altissimi, come del resto ci ha abituati Black Mirror: una scenografia stupefacente e una fotografia che dà vita a inquadrature mozzafiato. Tuttavia è proprio l’interattività a non convincere in Bandersnatch. È apprezzabile il fatto che Netflix si sia lanciata in questo progetto, ma sappiamo anche che è una piattaforma capace di far parlare di sé, e che la realtà di Bandersnatch non è proprio inedita, poiché riprende il concetto dei videogiochi nati negli anni 80. L’interattività rappresenta a tratti un ostacolo per lo spettatore: ci si ritrova spesso a un punto morto dove, a causa di scelte sbagliate, si dovrà tornare indietro. I finali sono molto simili tra di loro, a eccezione di poche alternative che però richiedono la consultazione di una guida. Lo spettatore in pratica decide solo quando terminare la storia, poiché, optando per un percorso diverso, viene rimandato indietro. A questo punto ci si chiede quale sia il senso dell’interattività. Se Charlie Brooker si fosse focalizzato su un tema operando lui stesso le scelte, lo spettatore avrebbe ricevuto un messaggio più chiaro e definito. Sorge dunque il dubbio che l’interazione non sia che un pretesto per aggiungere qualcosa di diverso al catalogo del colosso dello streaming. Inizialmente ci si sente elettrizzati dal fatto di poter scegliere per il protagonista e di pensare di potere determinare in maniera importante la storia, ma una volta finita l’avventura, con l’amaro in bocca, si è costretti a constatare come in realtà sia sempre il film a indirizzare lo spettatore. Pur non trattandosi dunque di una novità assoluta, l’idea del film interattivo è pur sempre un passo in una direzione che – e questo è fuor di dubbio, – sarà oggetto di ulteriori e probabilmente sorprendenti sviluppi.

Netflix Bandersnatch

Lo spettacolo è in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano. (© Masiar Pasquali, piccoloteatro.org)

chirurgo. Esasperato, Preobraženskij decide di riportare Šarikov, mediante un nuovo trapianto, alla sua originaria condizione animale. Cuore di cane – il romanzo fantascientifico-satirico scritto da Michail Bulgakov nel 1925 e pubblicato integralmente nel 1989 – inizia con l’ululato e l’invocazione («Oh, datemi uno sguardo, sono in fin di vita».) di un cane randagio, affamato e dolorante per un’ustione sul fianco sinistro, che in una nevosa e gelida notte moscovita viene avvicinato da Preobraženskij, il quale, dopo avergli dato un nome (Šarik), lo porta con sé nella sua lussuosa casa-studio, dove lo cura e lo nutre per farne la cavia dell’esperimento di cui sopra. Sia per strada che nell’abitazione del chirurgo, Šarik ulula, ringhia, uggiola e guaisce, ma mentalmente monologa con un lessico e un periodare squisitamente umani. Nella «libera versione teatrale» di Stefano Massini, la presenza propriamente canina di Šarik (ribattezzato «Pallino») si riduce a poca cosa: alla figura cioè di Paolo Pierobon, che mugolando si muove per pochi mi-

nuti a quattro zampe sotto e sopra il palcoscenico. A parlare per primo è Preobraženskij (Sandro Lombardi), con un monologo noiosetto della durata di un quarto d’ora in cui espone il suo pensiero sull’identità, il trascorrere del tempo, la decadenza del corpo e gli interventi chirurgici che possono contrastarlo (interventi riservati ai ricchi clienti – siamo al tempo della NEP – che desiderano ringiovanire). Lo spettatore che ha letto Bulgakov, e dopo la tirata del luminare si aspetta, ad esempio, di entrare insieme a Pallino nell’affocata cucina dove Dar’ja Petrovna (in una meravigliosa pagina del romanzo) sta preparando ghiotti manicaretti per il chirurgo buongustaio, si sentirà probabilmente defraudato. Stefano Massini è ansioso di arrivare alla fase post-operatoria in cui dalla bocca dell’homunculus cominciano a fuoriuscire le parole. Al drammaturgo fiorentino interessa principalmente il tema del linguaggio usato a fini di indottrinamento: sia da parte dell’altezzoso Preobraženskij (uomo di scienza e cultore del bon ton, che detesta il pro-

letariato e difende con arroganza i suoi privilegi di professionista affermato e facoltoso), sia da parte del compagno Švonder, compiaciuto della sua piccola posizione di potere, che imbottisce la testa del cittadino Poligraf Poligrafovič Pallinov (esponente del proletariato più rozzo e ignorante) di teorie marxiane volgarizzate e di slogan propagandistici. La commedia in due atti di Massini ha un carattere prevalentemente didascalico (quindi distante dalla varietà, dalla vividezza e dal brio del romanzo di Bulgakov) che non è certo alleggerito dalla scena cupa (e bella) di Marco Rossi, né dal ritmo perlopiù lento della rappresentazione, firmata da Giorgio Sangati. Sandro Lombardi, però, è molto bravo, e ancor di più lo è Paolo Pierobon. Bravo Giovanni Franzoni (Bormental’). Bene Lucia Marinsalta (Zina), Bruna Rossi (Dar’ja) e Lorenzo De Maria (Commissario del Popolo). Dove e quando

Milano, Piccolo Teatro Grassi, fino al 10 marzo.

Viaggio in salita fra le mura di casa In scena La brava Begoña Feijoó Fariña si è esibita al Foce di Lugano in uno spettacolo

che racconta le difficoltà di una donna alcolista Giorgio Thoeni Un po’ in sordina, ma non per questo da ignorare, è stato il passaggio alla rassegna Home del Teatro Foce di Lugano di Begoña Feijoó Fariña con Maraya, dell’amore e della forza, monologo di cui è autrice e attrice, tratto da un suo recente romanzo pubblicato nel 2017 dalla casa editrice AUGH! di Viterbo. Per chi non lo ricordasse, Begoña – concedeteci la confidenza ma il nome è piacevolmente evocativo – è nata a Vilanova de Arousa in Spagna. All’età di 12 anni si trasferisce in Svizzera dove successivamente si laurea in Scienze Biologiche. Vive a Brusio dove è organizzatrice di eventi per la commissione comunale Casa Besta e ha fondato con Chiara Balsarini la compagnia inauDita. La vena letteraria di Begoña non è una novità, nel 2015 ha esordito con una raccolta di testi fra racconti e poesie, Potere e P-ossesso dello Zahir e altre storie (Youcanprint), un titolo ispirato a Borges, a cui è seguito un primo romanzo Abigail Dupont (Demian). Lo scorso anno, oltre a ricevere il

L’autrice e attrice Begoña Feijoó Fariña.

sostegno dell’Ufficio della cultura dei Grigioni vincendo il concorso Grandi Progetti 2018, Pro Helvetia le ha concesso una borsa letteraria dotata di 25’000 franchi (tra i beneficiari anche il ticinese Massimo Daviddi di Mendrisio): il risultato di una selezione operata su 93 pro-

getti. Oltre ai due autori di lingua italiana sono stati scelti undici germanofoni e sette francofoni. La pagina scritta però non basta, come ha dimostrato lo slancio e il coraggio che ha indotto Begoña a sfidare la scena declinando l’ultima sua fatica letteraria in un sofferto quanto ap-

passionato monologo, quello approdato recentemente al Foce. La Maraya teatrale racconta le ossessioni di una donna che lotta con disperazione per uscire dall’alcolismo. Una determinazione infarcita di ricordi e profonde amarezze, ferite laceranti come un aborto, una vita vissuta lungo la scalata di una montagna da cui basta poco per precipitare cedendo alla tentazione per la bottiglia, in uno spazio immerso nella solitudine, affollato da fantasmi e ricordi, da suoni che sembrano echeggiare dall’oltretomba. Una cinquantina di minuti senza orpelli, dal divano al comodino, durante i quali, in una sorta di delirio consapevole, Maraya racconta il suo viaggio fra le mura di casa, fra ricordi da cui emerge l’amore per la musica, per la poesia, per la natura con una prosa lucida, scorrevole, dal ritmo studiato. Lo spettacolo, sostenuto fra gli altri dal Percento culturale di Migros Ticino, apre la porta a una maggiore efficacia interpretativa e, soprattutto, merita una presenza registica meno sospesa e più incisiva. A beneficio del tutto.

La locandina di Bandersnatch, in programma su Netflix.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 febbraio 2019 • N. 06

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Cultura e Spettacoli

La lingua della pancia Pubblicazioni Da dove viene l’abitudine alle cattive maniere

comunicative? Da dove il risentimento linguistico? Un saggio decisamente originale di Massimo Arcangeli

Scholl, il fascino del controtenore Musica I l celebre controtenore Andreas

Scholl alla chiesa St. Peter di Zurigo

Stefano Vassere

Marinella Polli

«Se m’ingegnassi a scrivere un saggio sulla nostra lingua fra passato e presente, avrei difficoltà a intitolarlo La grande bellezza dell’italiano o L’italiano è meraviglioso. Mi accorgo che per gran parte della mia vita umana e professionale ho coltivato o inseguito la sregolatezza e il caos, l’oscurità e la bruttezza, la differenza e il dolore, la contaminazione e l’eterodossia, le sporcature e le anomalie, le anfrattosità e i percorsi accidentati». Uno dei problemi che accompagnano da sempre il desiderio di svelare la storia, nei secoli, dell’italiano parlato risiede nel fatto che la nostra lingua è stata poco parlata e molto scritta (c’erano i dialetti) e che quel poco che si riesce a intuirne lo si deriva molto indirettamente da testi di scritto popolare. Un registro episodico, quest’ultimo, marginale, che porta certo l’odore di quella varietà ma che è sempre come un po’ vestito della festa e quindi quasi mai naturale e spontaneo. Questo inusuale e profondo saggio di Massimo Arcangeli, Sciacquati la bocca. Parole, gesti e segni dalla pancia degli italiani, la prende un po’ alla larga: prima di tutto nel senso che non ne fa una questione solo linguistica e accoglie la dimensione pragmatica, cioè la lingua più il contesto, con i gesti, i milieux storici e sociali, i confronti con le altre lingue e tutto quello che trasforma il codice linguistico in comunicazione. Questo libro ha poi un metodo piuttosto infrequente, riassumibile più o meno così: «non abbiamo la possibilità di cogliere queste manifestazioni di costume sociolinguistico direttamente dalla bocca dei parlanti e allora che facciamo? Andiamo nella tana del lupo, nello scritto dei classici e vediamo lì se riusciamo a cavarne qualcosa». Goldoni, Leonardo, Dante, i latini, il cinema, politici, autori meno conosciuti, braccati proprio nell’uso di espressioni che nei secoli sarebbero diventate parolacce e cattive abitudini linguistiche. Per datarle, identificarne le origini, valutare che cosa sono diventate dal lì a qui.

Una musicalità invidiabile, un raro carisma, un grande istinto musicale e una schietta comunicativa sono le caratteristiche precipue di Andreas Scholl, il controtenore in grado di scatenare l’entusiasmo del pubblico in qualsiasi teatro si presenti. Esattamente come è accaduto giovedì sera a Zurigo, nella solenne St. Peter Kirche (per intenderci, quella con l’orologio dal quadrante più grande d’Europa), i biglietti per un suo recital vanno a ruba ovunque. Il termine «controtenore» – senza voler entrare nei particolari di una tecnica dalla lunga storia e dagli aspetti non poco complessi – viene usato oggi per indicare gli interpreti di sesso maschile che cantano nel registro di contralto, e che perciò sono più propriamente contraltisti. Si tratta in effetti di una traduzione del termine inglese «countertenor» usato per definire quei cantanti che eseguono le parti in origine realizzate per i castrati da compositori come Monteverdi, Cavalli, Händel, ecc. I controtenori hanno uno stuolo di fan, veri conoscitori o soltanto amatori, soprattutto in Germania, Inghilterra e Stati Uniti; ma c’è anche chi rimane spiazzato dal loro canto particolare.

Un dito medio d’arte: L.O.V.E. di Maurizio Cattelan, Piazza Affari Milano. (Keystone)

Prendiamo i gesti dell’ombrello e del dito medio alzato, che sono un po’ rappresentativi del carattere di novità nel materiale di Arcangeli; hanno una loro diacronia, in italiano: il primo è usato da Alberto Sordi nei Vitelloni e poi quasi scompare, evolvendo nel secondo, che è però scovato in carmi latini dedicati al dio Priapo, in Marziale («Riderai molto di chi ti avrà dato dell’omosessuale, o Sestillo, e gli sbatterai davanti il dito medio»), la Commedia dantesca, esempi classici francesi e spagnoli, americani («Negli Stati Uniti il dito medio alzato sarebbe stato introdotto nell’Ottocento da immigrati italiani»). Dai gesti alle parole il passo è banalmente breve; c’è a pagina 44 un elenco sistematico e scientifico di occorrenze nel cinema americano di parolacce che richiamano parti intime, di vari ambiti e gradi di volgarità. Dai gestacci, al sessismo, ai riferimenti obliqui alle identità di genere e di provenienza geografica, al linguaggio politico, il testo procede per scarti e sorprese con generose inserzioni delle

preziose fonti, e serve un catalogo ragionato e approfondito del malvezzo comunicativo e linguistico. Questo libro non si legge con comodità; perché la sincera e tormentata ricerca dell’autenticità dichiarata da Arcangeli fin dalle prime righe riguarda la sostanza della ricerca e il suo contenuto, ma anche un caratteristico tessuto testuale semilavorato, che richiama la voce degli originali, propone spesso le impressioni e i ragionamenti quasi come se il linguista diventasse una specie di narratore e, non da ultimo, arricchisce il tutto con un talora destabilizzante apparato iconografico. È un libro sorprendente e nuovo. Al lettore soddisfatto si concederà qualche riserva sull’immagine di copertina, irriferita qui e certamente non all’altezza. Bibliografia

Massimo Arcangeli, Sciacquati la bocca. Parole, gesti e segni dalla pancia degli italiani, Milano, il Saggiatore, 2018.

Andreas Scholl è nato a Eltville am Rhein nel 1967. (musicavivaaustralia)

Andreas Scholl (tedesco, classe 1967) ha studiato alla Schola Cantorum Basiliensis con Richard Levitt e René Jacobs (anche lui un celebre controtenore) ed è diventato famoso intorno agli anni Novanta con direttori di gran calibro, tra cui anche William Christie, i quali hanno spesso fatto capo a lui, in quanto artista in grado di cimentarsi con repertori di Monteverdi, Bach e Händel, per le cui ammalianti interpretazioni Scholl è oggi osannato dal pubblico internazionale. E Bach è uno dei due compositori cui era dedicato anche questo concerto zurighese. L’altro è Arvo Pärt, l’estone del minimalismo sacro, un grande di ben tre secoli dopo. Scholl, coadiuvato da un’eccellente Zürcher Kammerorchester (di cui fa parte anche la nostra violinista Daria Zappa Matesic), era leggermente indisposto, ma si è prodotto in una brillante e precisa performance di improba difficoltà, interpretando le due cantate di Bach Vergnügte Ruh, beliebte Seelenlust BWV 170 e Widerstehe doch der Sünde BWV 54, e i brani di commovente bellezza di Arvo Pärt Es sang vor langen Jahren, per contralto o controtenore, violino e viola, Wallfahrtslied (Salmo 121), per voce maschile e quartetto d’archi, nonché un toccante Vater unser. Perché questo particolarissimo abbinamento, vien fatto di chiedersi, ma questa era davvero un’occasione ghiotta per ascoltare due grandi compositori lontani nel tempo, ma vicini nella loro emozione per la musica sacra, per temi universali quali il rapporto fra vita e morte, cielo e terra, caos e ordine, meraviglia e timore. Resta da dire della Zürcher Kammerorchester (Konzertmeister: Willi Zimmermann) impeccabile e ispirata nell’esecuzione della Chaconne dalla versione per orchestra d’archi della Partita No. 2 in re minore per violino solo BWV 1004; e della standing ovation all’indirizzo di Andreas Scholl da parte del folto pubblico.

Van De Sfroos, le parole degli altri Incontri A colloquio con il cantautore italiano che ha fatto del dialetto la propria cifra e che sabato prossimo

si esibirà al LAC di Lugano Enrico Parola Sabato canterà al LAC, tappa elvetica della tournée che lo sta portando in mezza Italia. Con la chitarra e quella sua voce roca dove ti sembra di ascoltare le rughe scavate dal tempo e dal vento; e soprattutto con le storie che riemergono da un passato popolare e contadino e che oggi appassionano al

dialetto non solo azzimati nostalgici ma tanti, tantissimi giovani le cui frequentazioni musicali passano normalmente da smartphone e playlist. È il miracolo di Davide Van De Sfroos, al secolo Bernasconi, che ha conquistato l’Italia tutta, isole comprese, a colpi di accordi e dialetto laghée, la lingua di quel fazzoletto di terra attorno a Tremezzina che si specchia

Van De Sfroos in occasione di un concerto agli Arcimboldi nel 2016. (Keystone)

nel Lago di Como. «È un successo che sorprende anche me; non volevo fare il musicista, a me interessava raccontare storie, soprattutto le storie che avevo ascoltato da piccolo. Alle medie ero il Davide che racconta storie, crescendo ho capito che se avessi messo le storie in un libro non se le sarebbe filate nessuno, forse la musica poteva essere un canale più efficace». Lo è stato. La Ninna nanna del contrabbandiere, Sciur Capitan, Il figlio di Guglielmo Tell sono diventati dei successi clamorosi, assieme a tanti altri titoli, da Yanez a 40 pass. Sembrava un azzardo la scelta del dialetto: «Il mio punto di partenza era il desiderio di raccontare e siccome le storie appartenevano a cent’anni fa le volevo narrare “in lingua originale”: il dialetto mi sembrava più naturale». Van De Sfroos ha 53 anni, non 80: «Infatti ho incontrato il mondo dei contrabbandieri e dei contadini quando ne avevo 5-6: zie e nonne mi portavano nelle case dei loro amici e loro, quando vedevano un bimbetto che invece di uscire a giocare a pallone stava lì a sentirli, aprivano gli armadi della memoria e non smettevano più di raccontare.

E io di ascoltare. Tutte le mie canzoni ripetono storie intere o mettono insieme parole sentite, cose e persone viste. Non ho mai conosciuto la Figlia del capitano, ma ho visto più ragazze sposarsi con “quello là” contro il parere dei genitori e degli amici perché sembrava uno scapestrato e chissà come va a finire; e invece sono ancora insieme e si vogliono bene, mentre certi matrimoni perfetti sono finiti dopo mesi». Non poteva aver sentito raccontare del figlio di Guglielmo Tell preoccupato perché papà, prima di tirare la freccia («non si potrebbe usare un melone?» chiede), «süta a bef bira», e poi un po’ imbronciato perché nessuno si ricorda il suo nome, solo quello di papà. «Ogni tanto è bello giocare con la fantasia. Ad esempio Sugamara mi è venuta in mente pensando a un uomo incredibile che veniva in paese, faceva la doccia in mezzo alla strada e dormiva in una chiesa sconsacrata, poi scompariva come era arrivato; non ci potevi parlare, non era mai abbastanza lucido per rispondere; lo guardavo e ho voluto immaginare quel che a occhio non si vedeva».

È stata la mamma a raccontargli del contrabbandiere cui ha dedicato la Ninna nanna: «Da piccola andava da un’amica il cui padre usciva vestito in modo strano quando ormai era notte; sua moglie si affacciava alla finestra e lo accompagnava con una preghiera. Mi è venuto da pensare alla moglie del finanziere che in un’altra casa salutava il marito con lo stesso sguardo e probabilmente la stessa preghiera». Non è raro nelle canzoni l’accenno a una preghiera: «Oggi sembra qualcosa di astratto, ma quando entro nelle chiesette di montagna e vedo gli inginocchiatoi di legno levigati dai fedeli che si sono piegati su di essi, capisco che la preghiera lascia il segno, seppur silenziosamente e lentamente. È il nostro modo di anelare, quando non siamo sepolti da troppe cose, a quell’infinito di cui siamo parte, è il riconoscere il mistero della realtà. Per gli antichi la luce era un dono degli dei, poi la scienza ha scoperto i fotoni; ma io oggi, pur sapendo dei fotoni, non posso non vedere la luce ancora come un miracolo. Ed è un miracolo il fatto che io ci sia e in questo momento stia parlando».


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La colazione dei campioni per gli amanti degli sport invernali.

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