Azione 6 del 3 febbraio 2025

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edizione

MONDO MIGROS

Pagine 2 / 4 – 5

SOCIETÀ Pagina 3

Anche la moda aveva predetto la vittoria di Trump con le tendenze del quiet luxury e della tradwife

La politica intransigente del presidente USA sui migranti e cosa cambia rispetto al passato

ATTUALITÀ Pagina 11

Il corpo secondo Lingiardi, tra simboli, funzioni e memorie fuse a scienza, arte e letteratura

CULTURA Pagina 17

Svizzera, nazione di valichi

Marco Leva svela l’emozione delle gare di regolarità, dove la sfida sta nella precisione più che nella fretta

TEMPO LIBERO Pagina 27

Cosa luccica in Congo e in Groenlandia

E così, alla fine di gennaio 2025 scopriamo che non ci sono solo due guerre, quella in Ucraina e quella a Gaza, non si sa fino a quando dormiente. Come dal nulla salta fuori che in Africa – un continente mediaticamente fantasma, salvo quando si parla di anonimi fuggiaschi che attraversano il Mediterraneo e qualche volta ci annegano – in una città del Congo chiamata Goma sono scoppiati violentissimi scontri causati dai ribelli dell’M23 (un genere di nome che dalle nostre parti appioppiamo agli orsi) sostenuti, in uomini e proiettili, dal Governo ruandese. Il primo sito strategico a cadere nelle mani degli assalitori è stato l’aeroporto, poi la sede del Governo provinciale, infine parecchie ambasciate. Si contano numerosi morti, mentre il laboratorio sull’Ebola a Goma rischia di essere colpito, con la prospettiva apocalittica di una diffusione incontrollata del virus. Alcuni soldati congolesi sono fuggiti, altri si sono

spogliati dell’uniforme per evitare la cattura. Il cibo scarseggia, l’elettricità va e viene. Dall’inizio di gennaio, dice l’ONU, mezzo milione di persone sono state sfollate dal focus del conflitto. Poi è subentrato qualche momento di tesissima calma, ma tutto, laggiù resta fluido ed esplosivo. Spiegare la complessità di questo ginepraio geopolitico è impresa ardua anche per degli africanisti, figurarsi per noi. Ma al di là dei bizantinismi del caso, vale la pena di ricordare che questo caos non nasce affatto dal nulla. È l’ultimo atto di una crisi che dura da trent’anni. Povertà e guerra civile hanno causato, dal 1998 a oggi, 5 milioni di morti, il bilancio più sanguinoso dalla Seconda guerra mondiale.

Eppure, non ce n’eravamo accorti, come non ci eravamo accorti che la Siria è rimasta un Paese in guerra anche se da anni non se ne leggeva più una riga sui giornali. Non fosse stato per

il colpo di mano di un gruppo forgiatosi alla scuola di al Qaeda e dell’ISIS spodestando i satrapi della famiglia Assad, avremmo persino potuto credere che a Damasco, Homs e Aleppo si vivesse in pace. Abbiamo memoria corta, attenzione vaga, ogni nuova crisi «invisibilizza» quelle precedenti. Nel 2025 si contano oltre una cinquantina di conflitti, più o meno intensi: chi ne sa citare più di quattro?

La vicenda congolese si presta a un’altra considerazione inquietante, come ha messo in risalto il «Tages Anzeiger»: dovrebbe toccare tutti quelli che possiedono un telefonino. Come molte mattanze, infatti, anche in questo caso c’entra il controllo delle risorse del Paese sotto tiro. E, indovinate un po’?, la Repubblica Democratica del Congo è la mecca mondiale di materie prime quali rame, piombo, diamanti, oro, germanio, argento, manganese, coltan e altre terre rare. Le terre rare, coi loro

nomi misteriosi (scandio, lantanio, cerio, praseodimio…) sono cruciali per il funzionamento dei dispositivi tecnologici, in particolare dei telefonini.

Non c’è solo il Congo, se è per questo. C’è anche… la Groenlandia, di cui si è tumultuosamente innamorato Donald Trump, pronto a tutto pur di possederla. Stando al Nationale geologiske undersøgelser for Danmark og Grønland, nel 2023 l’immensa isola contava almeno cinquanta potenziali giacimenti minerari. Più della metà è a nord del Circolo polare artico, quindi è difficile e costoso sfruttarli. Però, una piccola parte di essi, a sud, è libera dai ghiacci. Come Tanbreez, guarda caso pieno zeppo di terre rare. A questo punto un sospetto è lecito: saranno le terre rare il «nuovo petrolio» che attirerà gli appetiti dei potenti, scatenando le prossime guerre, come in passato era successo in Iraq o in Libia per le risorse di greggio?

Gian Franco Ragno Pagina 21
Gabriele Spalluto
Carlo Silini

Nuova apertura OBI al Centro Migros di Agno

Info Migros ◆ L’inaugurazione di un nuovo centro per il fai da te è prevista per il mese di maggio

Coerentemente alla decisione di concentrarsi sul core business dei supermercati, aumentandone l’attrattività agli occhi dei consumatori, all’inizio di febbraio dello scorso anno tutti i mercati specializzati del Gruppo Migros sono stati messi in vendita. La Cooperativa Migros Ticino, nell’interesse di avventrici e avventori, delle proprie collaboratrici e dei propri collaboratori, nonché dell’intera regione, si è mossa per trovare soluzioni alternative in un’ottica di offerta e servizio alla clientela.

La compravendita a livello nazionale del formato Do it + Garden Migros è tutt’ora in essere, ma Migros Ticino, per non trovarsi spiazzata, ha lavorato d’anticipo in autonomia, trovando una fantastica soluzione per andare a colmare un futuro vuoto nella propria offerta di fai-da-te, addirittura assicurando alla regione una presenza del formato OBI ancor più capillare e un assortimento completo anche nel Sottoceneri, in un settore che in Ticino è risaputo essere molto apprezzato e conteso.

La Cooperativa ha ceduto negli scorsi giorni la propria filiale di S. Antonino a OBI International Development and Service GmbH, garantendo la piena ripresa dell’attività dal 1° aprile 2025 e un posto di lavoro a tutti i 45 dipendenti. L’apprezzato OBI di S. Antonino passerà dunque di mano, ma resterà all’interno degli spazi del Centro commerciale Migros Bellinzonese. Questa fruttuosa collaborazione con un partner importante e di respiro internazionale ha poi portato una seconda novità di rilievo e molto positiva per il nostro Cantone: il 2 maggio 2025 aprirà infatti presso il Centro Migros di Agno un secondo punto vendita OBI in Ticino, di ben 4’000 metri quadrati di superficie, che andrà ad affiancare l’apprezzata filiale de La Posta, colmando un white spot nell’offerta del fai-da-te sottocenerino e creando ben 27 nuovi posti di lavoro, nonché nuovo indotto per l’economia interna.

Forum elle ◆ Un calendario ricco di appuntamenti con arte, natura e… logistica

La sezione ticinese di Forum elle, l’organizzazione femminile della Migros che è piattaforma di scambio femminile apartitica, aconfessionale e indipendente, anche nel 2025 invita le sue socie a godersi una serie di appuntamenti che non offrono solamente importanti momenti aggregativi, ma permettono di scoprire anche lati meno visibili della nostra realtà.

Si inizia martedì 11 febbraio e mercoledì 12 febbraio (ore 14.15) con una visita al centro pacchi di Cadenazzo, dove si avrà modo di vedere con i propri occhi le nuove tecnologie che consentono lo smistamento e la distribuzione di un numero enorme di pacchi. Iscrizioni entro mercoledì 5 febbraio 2025.

Mercoledì 19 febbraio (inizio ore 13.45) si partirà alla volta del Museo Hermann Hesse di Montagnola , con l’accompagnamento di una guida che porterà le partecipanti alla

scoperta dei luoghi più amati dallo scrittore (durata ca. 90 min). La passeggiata include la visita guidata al

entro venerdì 14 febbraio 2025.

L’appuntamento per giovedì 20 febbraio (ore 20.45) è al Teatro Sociale di Bellinzona con lo spettacolo La buona Novella Protagonisti della serata saranno Neri Marcorè e Rosanna Naddeo, in un confronto con il grande Fabrizio De André. CHF 35 (invece di CHF 44).

Si torna al Teatro Sociale anche il 14 marzo (ore 20.45), questa volta con Luca Bizzarri e il suo fortunato Non hanno un amico, spettacolo ispirato dall’omonimo podcast di grande successo. Con tutta la sagacia della sua satira, Luca Bizzarri ci porta a ridere di noi stessi, delle nostre debolezze e dei nostri tic.

Giovedì 27 marzo (17.30) sarà la volta dell’Assemblea generale di Forum elle, che avrà luogo all’OTAF di Sorengo, Sala Tre Vele.

Giovedì 3 aprile 2025 (ritrovo al parcheggio di Via Silva a Balerna, ore 9.45) gita alla scoperta del Parco della Breggia e dei suoi tesori con

possibilità di pranzo in un suggestivo grotto.

Mercoledì 16 aprile 2025 (20.45) al Teatro Sociale di Bellinzona andrà in scena Ti ho sposato per allegria di Natalia Ginzburg con Giampiero Ingrassia, Mariella Bargilli e Lucia Vasini.

Giovedì 1. maggio 2025 (ore 20.45) al Teatro Sociale di Bellinzona sarà la volta di Stori da Bar... lafüs con la compagnia Flavio Sala e la brava Rosy Nervi.

Iscrizioni e informazioni simona.guenzani@forum-elle.ch

Simona Guenzani

Segretaria FORUM elle Ticino Via Gemmo 21 6932 Breganzona Tel 077 524 73 47.

Il nuovo OBI di Agno avrà una superficie di 4’000 metri quadrati
si affiancherà alla filiale de La Posta. L’apertura del centro fai da te il prossimo 2 maggio prevede
creazione di 27 nuovi posti di lavoro.
costo di CHF 16 (ingresso al museo non incluso). Iscrizioni
Un momento dello spettacolo La buona Novella, con Neri Marcorè. (Teatro Sociale)

SOCIETÀ

Le nuove pandemie

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’arrivo di una prossima pandemia è inevitabile e non dovrà coglierci impreparati

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Motori: una finestra sul futuro

Le novità presentate al Consumer Electronic Show di Las Vegas svelano automobili sempre più capaci di interagire con l’ambiente

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La voce del Consiglio Comunale

A Lugano le registrazioni delle sedute dal 1962 al 2003 sono state conservate e digitalizzate, ora si possono ascoltare online

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Anche la moda aveva predetto Trump

Costume ◆ Abbigliamento e accessori possono veicolare messaggi, proteste e ideali, oggi è il momento di una tendenza che vede vincenti il quiet luxury e la riscoperta della tradwife

Se c’è una cosa che possiamo dire con certezza, è che la moda non è mai stata neutrale. Il primo ricordo che ho di un accessorio come espressione politica è sui banchi di scuola, studiando la Rivoluzione francese, con il tipico nastro rosso, indossato al collo dalle Merveilleuses, in memoria dei decapitati.

Un semplice pezzo di stoffa poteva comunicare tutto: ribellione, dolore, memoria. Quindi, quando è stato rieletto Donald Trump lo scorso novembre, per gli osservatori di tendenze e passerelle non è stato un vero shock: come racconta la content creator Elysia Berman, l’esito sembrava «scritto sui muri da mesi».

Dal trend quiet luxury alla riscoperta della tradwife e della femminilità sobria, la moda ha tracciato con ago e filo una linea sottile verso un conservatorismo non solo estetico, ma ideologico. La moda, spesso liquidata come un capriccio frivolo, in realtà affonda le sue radici nella sociologia più profonda. Del resto, negli Stati Uniti, basta un cappellino da baseball rosso per comunicare il proprio schieramento politico. Come osserva Lafayettenews, «la moda di un’epoca è incredibilmente importante per comprendere il panorama politico». Dietro il trionfo del quiet luxury o della tradwife si nasconde un desiderio collettivo di stabilità, un antidoto al caos degli ultimi anni. Non è un caso, quindi, che la politica non si giochi solo sui palchi delle convention. Ma cos’è questa tradwife? Per chi non è immerso nei social, l’idea evoca la romantica casalinga perfetta. Influencer da milioni di follower come Nara Smith incarnano questo ideale di femminilità impeccabile, senza sporcare mai un grembiule, un’immagine stereotipata che non lascia spazio ad inclusività, dove la perfezione è l’unico requisito. L’inganno sta proprio qui: mentre la tradwife sembra suggerire una vita semplice, in realtà proietta un’immagine così patinata da apparire irreale. «Fashion Magazine» recita: «Dopotutto, sognare di essere una casalinga in un’utopia immaginata è probabilmente più in voga che bramare il successo professionale». Questa estetica, definita dalla critica culturale Claire Burke come «disincanto di massa», è una risposta diretta al burnout collettivo che deriva dalla cultura dell’ hustle (cioè del superlavoro o del lavoro frenetico). Parallelamente, il rinascimento del quiet luxury – con il suo amore per materiali pregiati e silhouette discrete – riflette un ritorno nostalgico al «vecchio denaro». Il fatturato in crescita di brand americani per eccellenza, come Ralph Lauren, che trasudano patriottismo, riflette un desiderio

collettivo di stabilità e sicurezza economica che sembra sfuggire. Come suggeriva Georg Simmel nella sua analisi sociologica, la moda «è il desiderio contraddittorio di essere parte di un gruppo e simultaneamente stare fuori del gruppo, affermando la propria individualità». Una tensione che ora si traduce in una dialettica tra estetiche retrò e aspirazioni contemporanee.

Oggi le passerelle della moda che rievocano gli anni 50 sembrano parlare di un desiderio politico di ritornare a valori tradizionali

Moda e politica sono sorelle legate da un filo invisibile nella storia. Aileen Ribeiro, nel suo Fashion in the French Revolution (1988) ricordava come i francesi abbandonarono i fasti aristocratici per un look più democratico, dimostrando fedeltà alla Rivoluzione tramite indumenti patriottici. Simil-

mente, Richard Thompson Ford della Stanford University sottolinea come il «Sunday Best », il completo elegante dei manifestanti per i diritti civili avesse il potere di comunicare valori di uguaglianza e dignità. Oggi, invece, le passerelle della moda che rievocano gli anni 50, parlano di desiderio politico di ritornare a valori tradizionali dopo decenni di cambiamenti tumultuosi. Non sono solo i look esibiti su modelle magrissime a raccontare storie. Accessori, colori e forme comuni possono assorbire significato dalle strade, dalle masse che li adottano e trasformarsi in potenti veicoli di messaggi. Il cappello rosso di Trump, emblema di una polarizzazione politica, è un lontano cugino del basco rosso di Bobi Wine, simbolo della resistenza ugandese. E persino lo sport non sfugge a questa dinamica: la divisa gialla del calcio brasiliano, ormai legata ai sostenitori di Bolsonaro, e la polo Fred Perry, adottata dai Proud Boys, dimostrano come un indumento possa diventare un portavoce ideologico, che lo voglia o no.

Le scelte di moda quotidiane individuali, in un clima politico teso, non sono mai banali. Quando il mondo si uniforma, indossare un capo vintage trovato in un negozio dell’usato o optare per un outfit di un designer indipendente diventa un atto di dissenso. Con i suoi simboli e slogan, l’abbigliamento ha saputo incarnare proteste e ideali, portando l’attivismo nelle strade e sulle passerelle. Nel 2017, dopo l’insediamento di Trump, migliaia di donne hanno trasformato le strade di Washington in un mare rosa di pussyhat. Quel cappellino con orecchie da gatto, nato come simbolo di resistenza, ha attraversato il confine tra piazza e moda, apparendo persino nella sfilata di Missoni. Lo stesso hanno fatto designer come Maria Grazia Chiuri di Dior, che ha trasformato in dichiarazioni politiche t-shirt con slogan come «We should all be feminists» a supporto di movimenti come il #Metoo. La moda ha sempre avuto un ruolo cruciale nell’attivismo sociale: colori distintivi, slogan incisivi e simboli scelti con cura rivelano

immediatamente ideali condivisi, facendo di una scelta stilistica un’affermazione pubblica di lotta sociale. L’attivismo non si limita alle piazze, ma passa anche dai tappeti rossi. Da Vivienne Westwood, che usava le t-shirt stampate per sfidare il potere, anche personaggi pubblici e politici in contesti sociali come il Met Gala hanno tramutato il proprio abito in un atto di ribellione, come l’outfit di Alexandria Ocasio-Cortez, che recita lo slogan «Tax the Rich » o Carolyn Maloney con l’abito ispirato alle suffragette. La moda diventa così una forma di comunicazione radicale, un dialogo tra creatore e pubblico che va oltre il tessuto. Se un colore può dividere una nazione e una t-shirt può fare eco a un movimento globale, allora ogni scelta che facciamo davanti allo specchio è politica, che lo ammettiamo o meno. Forse, la domanda non è più «cosa va di moda?», ma «cosa stiamo dicendo?». E se il linguaggio della moda può davvero predire chi siederà alla Casa Bianca, forse vale la pena ascoltarlo meglio.

La tradwife incarna un’idea di romantica casalinga perfetta legata ai «valori tradizionali». (Freepik.com)
Virginia Antoniucci

L’eccellenza è servita

Attualità ◆ Il prosciutto Parmacotto prodotto in Italia con carne svizzera delizierà anche i palati più esigenti. Questa settimana è in offerta speciale

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Prosciutto cotto

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Materia prima di qualità svizzera e ricetta e tradizione tutte italiane: quale migliore accoppiata per offrire ai consumatori un’esperienza culinaria indimenticabile? Grazie al nostro prosciutto cotto Parmacotto prodotto in Italia al 100% con carne di maiale svizzera da allevamenti sostenibili, la clientela Migros può essere certa di gustare una specialità di eccellenza che celebra la passione per la buona tavola. Materie prime selezionate, pochi ingredienti, morbidezza inconfondibile, profumo intenso, gusto rotondo, una cottura lenta e graduale che mantiene intatte le proprietà organolet-

tiche sono i tratti distintivi del cotto firmato Parmacotto, azienda specializzata nella produzione di prosciutti cotti fondata nel 1978, tra i leader del settore in Italia. Il prosciutto cotto è per eccellenza un ingrediente versatile, utilizzato in molte cucine, apprezzato da persone di ogni età. È un ingrediente imprescindibile per farcire panini, piadine, focacce, toast; con il suo sapore delicato arricchisce ottimamente pizze, piatti di pasta, antipasti, buffet e taglieri di salumi misti; inoltre, grazie al suo basso tenore di grassi e alla facile digeribilità, si inserisce bene in un regime alimentare equilibrato.

Profumo di Sicilia

Attualità ◆ I Mandalate sono una varietà di mandarini nota per essere molto dolce e succosa. Alla Migros sono ora disponibili i frutti provenienti dalla splendida isola italiana

Grazie al suo clima mite, al terreno particolarmente fertile e a secolari tecniche di coltivazione, la Sicilia – in particolare la Piana di Catania – è rinomata in tutto il mondo per la produzione di aromatici agrumi. Tra le molte varietà di agrumi dal sapore unico coltivate sull’isola, vi è anche il mandarino Mandalate. Nato dall’incrocio tra il mandarino Fortune e il mandarino Avana, questo agrume si caratterizza per la sua forma ellissoidale, la buccia sottile dal bel colore arancio di facile sbucciabilità e l’elevata succosità. Privo di semi, del peso medio di 100 g, possiede un alto contenuto di zuccheri e il suo gusto fresco tendente all’acidulo regala una piacevole nota di vivacità al palato. Questo mandarino è disponibile da febbraio per un periodo limitato.

Voglia di uno sfizioso dessert? Con una macedonia di mandarini alle noci caramellate è facilissimo stupire i propri ospiti. Per quattro persone, pelare quattro mandarini ed eliminare la pellicina bianca. Dividere i frutti in due e tagliarli a fettine sottili. Mescolare un decilitro d’acqua con un po’ di sciroppo al punch rum analcolico, due cucchiai di miele, un cucchiaino di cannella e portare ad ebollizione. Versarvi i mandarini e lasciar marinare per un paio d’ore. Caramellare un cucchiaio di zucchero in una pentola, togliere dal fuoco e aggiungere mescolando cento grammi di noci di macadamia. Aggiungere un cucchiaio di panna, mescolare e versare la massa su un foglio di carta da forno. Lasciare raffreddare e servire la macedonia di mandarini con le noci caramellate.

Un sapore rustico

Attualità ◆ Il nostro pane della settimana delizierà chi è alla ricerca di sapori genuini e autentici

Il pane paesano rustico è un prodotto del panificio della Migros ed è realizzato utilizzando ingredienti accuratamente selezionati e grande competenza da parte degli abili panettieri. È preparato principalmente utilizzando farina integrale di frumento e farricello di segale, entrambi di produzione certificata IP-SUISSE. Questo marchio dal caratteristico simbolo della coccinella è sinonimo di prodotti svizzeri ottenuti nel rispetto della natura e degli animali. Nella coltivazione è vietato l’impiego di regolatori di crescita, insetticidi e fungicidi. Ciò contribuisce alla fertilità del terreno e alla biodiversità dell’ambiente circostante.

Grazie all’utilizzo di un mix di farine come la farina integrale di frumento, il farricello di segale e la farina di malto d’orzo, il pane presenta una crosta particolarmente croccante e una mollica soffice. Il suo sapore è deciso, ricco e caratteristico. Il suo aspetto va dal dorato al marrone scuro. Considerando i suoi ingredienti e i lunghi tempi di lievitazione dell’impasto, è un pane che si mantiene fresco più a lungo rispetto a quelli convenzionali. È ricco di fibre alimentari.

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Il pane paesano rustico è ottimo da mangiare accompagnato da una serie di ingredienti che esaltano ulteriormente il suo aroma pieno. Gli abbinamenti più apprezzati sono per esempio quelli con formaggi e salumi stagionati, verdure grigliate, marmellate fatte in casa, miele della nostra regione, paté di fegatini e salmone. Si presta anche bene, tostato leggermente, per la preparazione di sfiziose bruschette.

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Le pandemie del futuro dopo il Covid

Salute ◆ Secondo l’OMS l’arrivo di un evento pandemico non dovrà trovarci impreparati perché è solo questione di tempo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) avverte: «L’arrivo di una nuova pandemia è solo una questione di “quando”, non di “se”. E dobbiamo prepararci; ancora oggi non lo siamo». La storia insegna che, fra pandemie ed epidemie, quella di Covid è l’ultima di una serie di infezioni che hanno sconvolto il nostro pianeta dal Novecento ad oggi: dall’influenza spagnola all’Ebola, passando per l’influenza Asiatica, la pandemia influenzale del 1968, l’HIV (probabilmente la più importante della nostra storia recente prima del Covid), la SARS e l’influenza suina. L’influenza spagnola è stata una pandemia (universale): nel biennio 1918-1920 ha causato la morte di quasi 50 milioni di persone. Un numero impressionante anche perché, a conti fatti, la Prima Guerra Mondiale, altamente sanguinosa, aveva causato la metà delle vittime. Col senno di poi, molte possono essere le considerazioni che oggi portano a comprendere le affermazioni dell’OMS. A cominciare dall’impatto delle dinamiche di comunicazione. La storia narra che, all’epoca, il primo caso fu registrato negli USA ma i giornali spagnoli furono i primi a parlare di pandemia. Da qui il nome di «influenza spagnola», anche a causa della censura di guerra che la confinava, a torto, alla sola Spagna. L’espansione globale fu data dal fatto che il virus influenzale si espanse con facilità insieme alle truppe sui fronti, facilitato dalla scarsa condizione igienica in cui i soldati erano costretti a vivere.

A 100 anni di distanza, le dinamiche dell’influenza spagnola ci permettono di capire le asserzioni dell’OMS: non ne passeranno altrettanti dopo quella di Covid: «Ci sarà una prossima volta e potrebbe essere causata da un virus influenzale o da un nuovo coronavirus, oppure da un nuovo agente patogeno che ancora non conosciamo e che chiamiamo Malattia X». È un dato «di fatto», suffragato dai risultati di due anni di lavoro dell’OMS i cui risultati sono nell’elenco degli agenti patogeni a più alto rischio di dare luogo in futuro a una nuova pandemia. La lista è aggiornata nel documento Pathogens prioritization: a scientific framework for epidemic and pandemic research preparedness che riporta 32 virus e batteri a cui si aggiunge il patogeno X, (oggi ignoto) che, come nel 2019 con il virus SarsCoV2, potrebbe emergere e diffondersi globalmente. Vi compare nuovamente il vaiolo, insieme a patogeni come il vibrione del colera o la salmonella (batteri con alte percentuali di resistenza agli antibiotici). Infine, ci sono malattie trasmesse da vettori come Dengue e Chikungunya, mentre tra gli osservati speciali vi sono numerosi virus influenzali e aviari a cui si aggiungono le minacce contenute nelle precedenti versioni del documento: ebola, virus Zika e coronavirus. «La storia insegna che scienza e determinazione politica sono essenziali per mitigare l’impatto di una pandemia», afferma il direttore generale dell’OMS Tedros Adhanom Ghebreyesus.

A questo proposito, la nostra Confederazione non sta con le mani in mano e, per voce del Consiglio Federale, afferma che intende «migliorare le condizioni quadro per gestire delle future pandemie». Nella seduta del 29 novembre 2023 ha avviato a tale fine la procedura di consultazione sulla revisione parziale della leg-

ge sulle epidemie (LEp) conclusasi a marzo dello scorso anno, con l’obiettivo di consentire a Confederazione e Cantoni di collaborare strettamente per proteggere la salute della popolazione dalle future minacce rappresentate dalle malattie trasmissibili, nonché dalle resistenze agli antibiotici, adottando tempestivamente provvedimenti di prevenzione: «La pandemia di coronavirus ha evidenziato l’importanza di elementi chiave per prevenire e impedire la diffusione di malattie trasmissibili. Numerosi elementi hanno funzionato bene durante l’emergenza, ma altri necessitano di adattamenti puntuali come rafforzare la sorveglianza, ottimizzare il modello della gestione della crisi, la lotta alle resistenze agli antibiotici e alle infezioni nosocomiali (AZIONE no 3 del 13.01.25 La minaccia dei super batteri)». L’intento è quello di gestire meglio le future crisi di salute pubblica.

«La storia insegna che scienza e determinazione politica sono essenziali per mitigare l’impatto di una pandemia»

Qui da noi il dottor Christian Garzoni fu in prima linea nella gestione della pandemia Covid. A lui, forte dell’esperienza maturata anche in seno alla Commissione federale delle pandemie, abbiamo chiesto un commento alle affermazioni dell’OMS: «Viviamo in un mondo (umanità e forme di vita) dove è naturale convivere con virus e batteri. Laddove ci sono nemici naturali come questi, le affermazioni dell’OMS risultano quindi evidenti». Considerando che è naturale condividere il pianeta anche con virus e batteri, la risposta di Garzoni è in un certo senso rassicurante: «È normale e naturale che succederà regolarmente che un nuovo virus faccia capolino nella popolazione umana, causando ancora una volta la diffusione di una nuova malattia. Come, dove e quando è solo questione di statistica. Le pandemie da influenza fanno parte della natura delle cose, così come la probabilità che una serie di altri virus, di cui l’umanità non ha memoria immunologica, per motivi diversi cominci a infettare l’essere umano. Ne seguirà una soluzione di adattamento a un nuovo patogeno che, nel corso di questa evo-

luzione, potrà portare purtroppo anche a dei decessi». Secondo lo specialista «le pandemie c’erano e ci saranno, questo non si può cambiare. I contatti con questi nuovi patogeni hanno condotto nel passato a una selezione di individui più resistenti, mentre purtroppo ve ne sono stati altri che hanno avuto una minore resistenza come

anziani o persone fragili e vulnerabili, ma anche solo per motivi genetici. La medicina di oggi, come ha fatto durante il Covid, aiuterà a mitigare l’impatto di questi patogeni grazie a nuovi farmaci e ai vaccini, e gli Stati dovranno avere dei piani per gestire le future pandemie». Egli conferma pure che parte della responsabilità sia

da imputare al cambiamento climatico: «La lista dei patogeni è aumentata per la diffusione di zone caldo-umide (tropicali) anche nel bacino mediterraneo e centro Europa. Ecco che virus come Dengue e Chikungunya, prima circoscritti a tipiche regioni tropicali, oggi sono pensabili anche in Europa». Queste sono le ragioni per cui non bisogna farsi trovare impreparati e fare tesoro della recente esperienza, perfezionandone gli aspetti: «Dobbiamo chiederci per tempo cosa si dovrà fare se ci sarà una nuova pandemia. Come ci dovremo comportare? Entra in gioco anche il tema dei vaccini, e dovremo propendere per il minore dei mali: se il virus dovesse essere così mortale, dovremo “portare a casa la pelle” evitando che le persone maggiormente a rischio si ammalino. Prepararsi è diventato molto laborioso perché vi sono potenzialmente molti ambiti che aiutano a superare una pandemia: in primis si pensa alla logistica, all’organizzazione medica e ai farmaci. Ma ora abbiamo capito che vi sono molti altri aspetti che un tempo non parevano essenziali. Ad esempio, perfezioneremo la comunicazione? Ci saremo chiesti cosa comporta confinare la popolazione? Le conseguenze? Avremo analizzato gli aspetti psicologici di una pandemia? Prima del Covid tutto ciò non era tema di discussione. Oggi è doveroso pensarci e prepararsi adeguatamente».

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L’automobile diventa un concentrato di tecnologia

Motori ◆ Le novità presentate al Consumer Electronic Show di Las Vegas svelano modelli sempre più capaci di interagire con l’ambiente circostante e di offrire servizi personalizzati e sicuri

Mario Alberto Cucchi

Da capitale mondiale del gioco d’azzardo a capitale mondiale della tecnologia. A Las Vegas, in America, a inizio anno si è aperta una finestra che guarda sul futuro: il CES-Consumer Electronic Show. Scorrendo l’album delle foto dal 1967, anno della sua nascita, vediamo le immagini di tutte le tecnologie che una volta sembravano solo utopie ed oggi sono diventate realtà di vita quotidiana. Il tradizionale appuntamento di inizio gennaio, una volta conosciuto solo dai «nerd» più appassionati, di anno in anno è diventato sempre più trasversale e importante. E se una volta era riservato all’elettronica di consumo si è evoluto sino a diventare una vetrina per ogni tipo di innovazione: dagli elettrodomestici smart ai computer che ci porteranno forse su Marte, dalla mobilità elettrica ai veicoli a guida autonoma.

L’edizione 2025 ha coinvolto 141’000 visitatori da tutto il mondo, più di 4500 espositori, 1400 startup e oltre 6000 giornalisti. Un vero palcoscenico privilegiato per l’innovazione, soprattutto per quanto riguarda la mobilità. Quest’anno, l’auto si è presentata non solo come mezzo di trasporto, ma come una vera e propria piattaforma tecnologica mobile, con display avanzati, a guida sempre più autonoma e soprattutto intelligente. Proprio l’intelligenza artificiale (IA) è stata protagonista indiscussa. Molti produttori hanno presentato sistemi di assistenza alla guida sempre più sofisticati, capaci di apprendere dalle abitudini del conducente e di adattarsi alle diverse situazioni stradali, di allenarsi a riconoscere le più imprevedibili condizioni della circolazione attraverso algoritmi di apprendimento basati su universi paralleli simulati proprio dall’IA partendo da filmati provenienti dal mondo reale.

Le auto che si guidano da sole sono una presenza costante sulle strade californiane con servizi di robotaxi come Waymo e le curiose navette dimostrative Zoox che sfrecciano sulla Strip con la sicurezza di Ncc esperti senza conducente (Waymo) e addirittura senza volante e pedali (Zoox). Se l’IA trova applicazione anche

in sistemi di monitoraggio dell’attenzione del conducente che permettono di rilevare il livello di attenzione del guidatore per abilitare la guida autonoma di 2° livello già disponibile in molti Paesi, a Las Vegas si sperimentano il 3° e 4° livello. Non solo grandi Costruttori automobilistici ma anche tante aziende meno note che propongono soluzioni hardware e software anche per mezzi agricoli e da cantiere per i quali la guida autonoma è già una realtà capace di aumentare la produttività. Alla base del SDV (Software Defined Vehicles), ovvero dei veicoli definiti dal software, c’è la conoscenza (i dati) e la capacità di calcolo per elaborala. Mai come oggi la disponibilità di dati in quantità incredibilmente vaste e la capacità di processarli è stata così importante e accessibile. Nvidia ha presentato un supercomputer che sta nel palmo di una mano capace di oltre tremila TeraFlops (tre milioni di miliardi di operazioni al secondo). Se prima serviva una stanza zeppa di computer per guidare un’auto, oggi basta una scatoletta delle dimensioni di un pacchetto di sigarette. Dopo aver reso possibile il rapidissimo sviluppo degli LLM (Large Language Models) che ha consentito la creazione di AI come ChatGPT e similari capaci di risolvere problemi complessi a parole, Nvidia sta creando la base dati necessaria alle macchine per riconoscere ed interpretare il mondo che ci circonda e dar vita a robot (androidi, ma anche mezzi di trasporto) capaci di muoversi autonomamente. Nel frattempo, l’industria dell’auto si prepara a questa terza rivoluzione industriale presentando diverse soluzioni abilitanti per un futuro in cui le automobili non saranno soltanto strumenti per spostasi dal punto A la punto B. Honda ha svelato due prototipi della 0 Series in arrivo dal 2026: 0 Saloon e 0 SUV con sistema operativo Asimo che farà di Honda il primo costruttore globale ad offrire la guida automatizzata di livello 3 senza vincoli. Suzuki innova ripartendo dalle sue origini (Keicar) con e-Mobility, concept di micro piattaforma multiu-

so per vetture e veicoli commerciali. Hyundai Mobis rivoluziona l’esperienza a bordo con il display olografico che trasforma l’intero parabrezza in uno schermo per la navigazione, le informazioni sul veicolo e gli avvisi di sicurezza. BMW lancia il suo Panoramic iDrive, display a tutta larghezza alla base del parabrezza più schermo a centro plancia per offrire un’esperienza immersiva e personalizzata. Diverse aziende hanno mostrato soluzioni di realtà aumentata (AR) che sovrappongono informazioni utili al contesto reale visualizzato attraverso il parabrezza, come indicazioni stradali, avvisi di pericolo e dati sul traffico, migliorando la consapevolezza del conducente e la sicurezza. Al CES 2025 si è assistito a un cambio di paradigma nella progettazione delle auto, con un focus sulle piattaforme integrate. Questo approccio permette maggiore flessibilità e personalizzazione, consentendo di integrare diverse tecnologie e funzionalità in modo più efficiente. Progressi significativi anche nell’utilizzo di nuovi materiali, più leggeri e resistenti, che contribuiscono a migliorare l’efficienza dei veicoli e ridurre le emissioni. Continua l’evoluzione delle auto elettriche che, sempre grazie all’IA, sfruttano meglio l’energia accumulata per estendere l’autonomia come il sistema Electra, oppure sfruttano l’energia solare per alimentare (parzialmente) le batterie, come l’Aptera, veicolo futuristico biposto che integra pannelli solari sulla carrozzeria sviluppato in collaborazione con Pininfarina per ottimizzarne l’aerodinamica. Il CES 2025 ha mostrato un futuro dell’automotive sempre più connesso, intelligente e sostenibile. L’integrazione dell’IA, display avanzati, realtà aumentata e nuove piattaforme di sviluppo stanno trasformando radicalmente l’esperienza di guida e il concetto stesso di automobile. Da «semplice» mezzo di trasporto, l’auto diventa un vero e proprio hub tecnologico in movimento, capace di interagire con l’ambiente circostante e di offrire servizi sempre più personalizzati e sicuri.

La voce della politica comunale

Lugano ◆ Le registrazioni delle sedute del Consiglio Comunale dal 1962 e il 2003 sono state digitalizzate e sono ora fruibili online

Ho una certa simpatia per chi disobbedisce alle regole, soprattutto se questa inosservanza delle norme porta a vantaggi per la collettività. Così mi ha fatto piacere scoprire che, grazie al comportamento irregolare di intere generazioni di addetti alla redazione dei verbali della Città di Lugano, è stato preservato un patrimonio unico. Secondo regolamento, infatti, dopo la trascrizione avrebbero dovuto distruggere le bobine di nastro magnetico con le registrazioni delle sedute del Consiglio Comunale, invece hanno scelto di conservarle. «Per tutelare questo patrimonio, è stato necessario modificare il Regolamento di applicazione della Legge Organica comunale», spiega oggi Nicoletta Solcà, Responsabile dell’Archivio amministrativo della Città di Lugano. «La modifica ha introdotto la possibilità di conservare le registrazioni per fini storici e archivistici, in linea con la Legge sugli archivi pubblici». Questo piccolo atto di disobbedienza, reiterato nei decenni, ha permesso alla città di ritrovarsi con un corpus audio di valore inestimabile: la registrazione quasi integrale di oltre cinquant’anni di sedute del Consiglio Comunale, oggi accessibile online nella quasi totalità. Fanno eccezione solo alcuni contenuti riservati: «Poiché le sedute del Consiglio Comunale sono pubbliche, non è stato necessario richiedere autorizzazioni particolari. Abbiamo tuttavia tutelato le informazioni sensibili, escludendo le discussioni sulle naturalizzazioni e le autorizzazioni a procedere in controversie legali», precisa Solcà.

La prima fase del progetto, avviato nel 2021 per valorizzare il fondo delle registrazioni delle sedute del Consiglio Comunale di Lugano, si è recentemente conclusa. In collaborazione con la Fonoteca Nazionale Svizzera, sono stati digitalizzati i 454 nastri magnetici che compongono questo straordinario archivio. L’iniziativa è stata resa possibile grazie al supporto di Memoriav, il centro di competenza nazionale per la salvaguardia e valo-

rizzazione del patrimonio audiovisivo svizzero. Il progetto, tuttavia, è ancora in corso. Dal 2023, infatti, le registrazioni delle sedute proseguono su supporti diversi — cassette, Minidisc e CD — che vengono attualmente digitalizzati e catalogati. Questi nuovi materiali, una volta completato il processo, andranno ad arricchire l’archivio già disponibile online, anche se non è ancora stato definito con precisione quando e come ciò avverrà. Si tratta di un progetto pionieristico, poiché la salvaguardia di documenti sonori riguarda quasi esclusivamente musica, materiali etnografici o produzioni radiofoniche. Registrazioni audio provenienti da un Parlamento sono una rarità: oltre a quelle del Canton Giura, l’archivio di Lugano è uno dei pochissimi esempi di questo tipo in Svizzera. I nastri raccolgono le voci delle Consigliere e dei Consiglieri comunali, delle Municipali e dei Municipali in carica tra il 1962 e il 2003, offrendo una testimonianza

unica sull’evoluzione delle tematiche affrontate e sul linguaggio della politica comunale. Nicoletta Solcà, responsabile dell’archivio amministrativo cittadino, descrive con emozione il valore di questo patrimonio: «È stato un vero viaggio nella storia, attraverso le voci di chi si è impegnato per il bene comune. È stato interessante scoprire come, per prendere decisioni – dalle più piccole alle più rilevanti – tante persone si siano documentate, abbiano dibattuto, talvolta anche duramente, approfondendo temi tecnici e complessi. E non sempre riuscendo a raggiungere un risultato…».

Un ascolto integrale delle oltre mille ore di registrazioni potrebbe sembrare un’impresa titanica, destinata solo alle persone davvero appassionate di politica locale e dotate di una buona dose di pazienza. La qualità audio, infatti, lascia spesso a desiderare: le voci risultano a volte lontane dai microfoni e la tecnologia dell’epoca non sempre garantiva regi-

Sergio Badino

Sulle tracce della verità

Pelledoca (Da 11 anni)

L’incipit è un flashback rispetto alla storia principale: Mario, Yuri e Irene sono bambini e hanno deciso di addentrarsi nel bosco. Ma non siamo in una fiaba: lì dentro i bimbi vogliono trovare la casa di un vecchio «strano» e solitario che la gente chiama Miserere, spinti da quel brivido di curiosità mista a paura che spesso innesca le avventure. Ma, esaurite le due pagine del prologo, ecco il salto in avanti della narrazione: l’«oggi» è sei anni dopo, che per dei ragazzini diventa un «dopo» enorme, erano tre bambini, ora sono adolescenti. E soprattutto sono rimasti in due, Yuri è morto, è stato investito da un’auto, del cui conducente non si hanno tracce. Il funerale del ragazzo segnerà il ritrovarsi di Irene e Mario, perché la loro era una di quelle amicizie estive, nel paese di campagna che per Mario era solo un luogo di vacanza, mentre per gli altri due era casa. La prospettiva narrativa è quella di Mario, il «cittadino», il fuoriposto in un certo senso, quello che in tutti quegli anni si era perso dei pezzi di vicende,

quello che non si era mai fatto sentire, come gli rimprovera Irene, fattasi una ragazza assertiva e forte. Mario vive un profondo senso di sdoppiamento, non solo tra città e campagna, ma anche tra la casa della mamma e quella del papà, nel frattempo divorziati, e tra la sua infanzia, che deve lasciare andare, e l’adolescenza, dentro la quale occorre – forse ancor più che nel bosco – trovare il coraggio di addentrarsi. «Perché non può tornare tutto come prima?» si chiede Mario, perché non si possono aggiustare le cose, riavvolgere il nastro, far tornare insieme i suoi, far tornare in vita Yuri? Questo è un giallo,

genere che connota l’editore milanese Pelledoca, ma è anche un romanzo di crescita, su quel delicato passaggio tra la stagione aurea dell’infanzia e la stagione a chiaroscuri dell’età adulta, in cui occorre fare i conti con il dolore e la separazione. Pur lottando per riuscire, mettendocela tutta, a ritrovare la luce della speranza. Che in questa storia significherà per Mario intraprendere un’indagine (con l’aiuto del padre, che è poliziotto), risolvere un caso, rendere giustizia a un amico. E a chi è vittima di pregiudizi solo per una presunta diversità. Ma significherà anche ritrovare un’amica e rivisitare con consapevolezza piena il luogo incantato delle estati dell’infanzia.

Sergio Badino ambienta questa storia nella sua Liguria, e ci porta dentro i luoghi facendoceli vedere, così come ci fa vedere le cose con piccoli «zoom» efficaci: la macchinina con la scritta «Rico» sul cofano con la quale Mario giocava con Yuri, i vetri appannati della trattoria in cui mangia col padre in un giorno d’inverno, le esitazioni nei messaggi che scrive a Irene, sono solo alcune delle istantanee che punteggiano il romanzo, conferendogli autenticità.

del Consiglio

di

strazioni impeccabili. «L’apparecchio di registrazione era un Revox, posizionato presso il banco presidenziale – mi spiega ancora Nicoletta Solcà –Intorno al 1967, con la ristrutturazione della sala, l’impianto fu migliorato e il numero di microfoni aumentato. Tuttavia, i problemi di acustica persistettero fino agli anni Ottanta e furono definitivamente risolti solo con i lavori del 2004, che dotarono ogni banco di un microfono». Nonostante le difficoltà tecniche, la precisa indicizzazione dei file audio e la possibilità di ricerche testuali consentono di individuare episodi unici. Ho dedicato un intero pomeriggio all’ascolto di questo materiale, tra le «chicche» spiccano alcuni momenti curiosi: il 28 maggio 1973, durante una risposta del Sindaco su un’interrogazione relativa alla Funicolare degli Angioli, l’aula fu improvvisamente invasa dalla musica proveniente da Piazza della Riforma. Il 7 ottobre 1976 si discusse animatamente sulla censura del film

Andrew Knapp

Dov’è Momo? In giro!

Topipittori (Da 2 anni)

Funziona solitamente molto bene con i bambini il meccanismo cerca-etrova nei libri, ma in quelli di Momo il successo è assicurato alla grande, l’ho sperimentato innumerevoli volte e non sarà un caso se i libri di Andrew Knapp, fotografo e designer canadese, restano tra i best seller del «New York Times». Le pagine sono cartonate, e per fortuna, perché verranno sfogliate e toccate molto spesso da piccole dita entusiaste. Nella pagina

Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini. Il Sindaco Ferruccio Pelli difese la decisione municipale di vietare la proiezione sul territorio comunale: «Non so se tutti coloro che apprezzano questi film siano persone più sane di me, però devo dire, scusate la parola, che è una solenne porcheria». Curiosa la richiesta del consigliere comunale Bassi che nell’ottobre del 1982 chiedeva di introdurre alla Piscina comunale serate con l’acqua più calda per le persone anziane e una riservata alle donne che desiderassero nuotare «senza cadere sotto gli sguardi di quegli ominacci che siamo noi». Rimane anche registrata sui nastri magnetici l’irruzione in aula di un gruppo di giovani che, il 1° luglio 1996, durante l’intervento del Municipale Brioschi, chiese a gran voce spazi autogestiti: «Questa è un’azione pacifica, vorremmo solo dire delle cose, poi andiamo via…», pochi mesi dopo vennero occupati i Molini Bernasconi a Viganello.

Le registrazioni evidenziano anche come certi temi ritornino nel tempo, la necessità di alloggi popolari, l’aeroporto, il futuro del Campo Marzio, la pedonalizzazione del lungolago, ore e ore di discussione. Si potrebbe frettolosamente affermare che abbiano portato a scarsi risultati, ma bisogna ricordare che le lunghe discussioni sono parte fondamentale del processo democratico. Nicolettà Solcà è convinta che ora che si ha a disposizione un patrimonio documentale così prezioso sarebbe interessante analizzare il tutto anche da un punto di vista linguistico. «Dal Sindaco che citava frasi in latino, si è passati ad interventi in buon dialetto luganese, ma non è stato forse questo il cambiamento più eclatante, piuttosto un certo linguaggio più diretto e meno formale. Qualche volta si è scaduti negli insulti, talvolta pesanti, ma tutto sommato sempre entro certi limiti». Analizzare queste trasformazioni potrebbe aprire nuove prospettive, sia storiche che linguistiche, su oltre mezzo secolo di politica comunale.

di sinistra troviamo in questo nuovo volume sempre cinque immagini: un primo piano del border collie Momo, uno della cagnolina sua amica Boo (che è bianca con la mascherina nera, quindi perfettamente complementare al muso nero con la mascherina bianca di Momo), e tre oggetti tipici del contesto dell’immagine che troviamo nella pagina di destra, ad esempio se a destra vediamo una spiaggia, i tre oggetti saranno telo, sandali, pallone. Il gioco è immediato, si guarda l’immagine di destra e si parte alla ricerca: dov’è Momo? Dov’è Boo? Dov’è il pallone… Non sarà facile perché nella fotografia a destra gli oggetti da trovare non saranno più grandi e isolati, ma molto piccoli, spesso orientati diversamente e ben nascosti tra una miriade di cose!

Dopo Dov’è Momo? esce ora Dov’è Momo? In giro!, con l’ingresso del personaggio di Boo e con nuove ambientazioni, anch’esso perfetto per giocare non solo a trovare, ma anche per allenarsi a osservare, a vedere, a nominare, a scoprire nuove parole e nuove cose. E anche a immaginare insieme a mamma e papà tante avventure di Momo e Boo.

Sala
Comunale
Lugano, 1962. (Archivio storico della Città di Lugano, Fondo Vincenzo Vicari)
Viale dei ciliegi
di Letizia Bolzani

Approdi e derive

Possibilità imprevedibili della vita

«Ma non è possibile! Non ci posso credere!». Chissà quante volte sarà capitato anche a voi di sentire il vostro interlocutore reagire così quando gli raccontate un episodio significativo del tutto inatteso: un incontro, una chiamata, un messaggio. Quando veniamo a conoscenza di eventi ritenuti altamente improbabili, capita spesso di esclamare, sorpresi e increduli, «ma non è possibile!».

A me pare degno di attenzione il linguaggio che ci accompagna in simili esperienze; mi sembra interessante riflettere sul fatto che il significato di imprevedibile (strano inatteso e sorprendente) venga identificato con quello di impossibile. In una vera e propria confusione semantica, ciò che non è prevedibile, ciò che appare sorprendentemente imprevedibile, viene definito tout court impossibile. «Non ci posso credere!». Anche questa esclamazione è molto interessante. Credere è una forma potente di cono-

Terre Rare

scenza che si fonda sul riconoscimento di una realtà come vera, o quantomeno possibile. Credo, purché ciò che credo sia perlomeno possibile. Come più volte mi è capitato di ricordare, le parole non sono mai neutre. Si vede bene, anche in questi esempi, come siano proprio le parole a disegnare il panorama e le atmosfere dentro cui viviamo. La parola possibile è di per sé una parola forte della vita che riconduce alle radici della nostra umanità e che proprio per questo non sembra per nulla incompatibile con ciò che si offre a noi in modo inatteso, imprevedibile, finanche altamente improbabile.

Riconoscere la presenza del possibile come condizione originaria del vivere, significa assumerne tutta la sconfinata potenza come condizione dell’esistenza. Significa rimanere sempre aperti all’altrove, all’inatteso e al non ancora visto; insomma, significa accogliere il valore di quell’inquietudine esi-

Programmi che programmano

C’è una cosa che preoccupa nella recente dichiarazione di Mark Zuckerberg, e cioè nella sua decisione di affidare in sempre maggior misura all’Intelligenza artificiale il compito di scrivere il codice utile ai servizi della sua azienda. Secondo il proprietario di Facebook, in futuro l’IA vedrà un suo campo fondamentale d’applicazione proprio nel settore della programmazione informatica. Già oggi pare che la nuova tecnologia sia in grado di realizzare software con un’affidabilità tra il 90 e il 100 per cento. In futuro, la sua qualità potrà solo migliorare, permettendo un risparmio di tempo (e di soldi) inimmaginabile. Chi si occupa di programmazione sa esattamente di cosa parliamo: scrivere codice è un lavoro complesso, minuzioso, sfaccettato, che richiede tempo e costanza. E poi verifiche e debugging, cioè controlli sulla funzionali-

tà, fino a ottenere prodotti affidabili ed efficaci. L’uso dell’IA permetterà invece di accorciare i tempi in modo drastico e, verosimilmente, anche di ridurre drasticamente la manodopera necessaria.

Dopo i giornalisti, anche gli informatici sono dunque ufficialmente una categoria a rischio. E del resto, come dicevamo giorni fa scherzando con un amico, forse solo gli idraulici, di questi tempi, possono dirsi al riparo dall’IA nel loro settore professionale (almeno finché qualcuno non le insegnerà a sturare i lavandini).

Ora, per tornare alla nostra affermazione d’apertura, non sono solo legate al mondo dell’impiego le preoccupazioni che ci ispirano gli scenari preconizzati da Zuckerberg. Il punto forse meno appariscente è che affidando alle macchine il compito di realizzare del codice, noi correremo il rischio

Le parole dei figli

«Se ti comporti così non mi fai entrare in flow!». Se un adolescente arrabbiato non si è mai rivolto a noi genitori con queste parole, dobbiamo sapere che prima o poi potrebbe farlo.

Flow, che tradotto letteralmente dall’inglese vuol dire flusso, è uno stato mentale in cui ci sentiamo totalmente coinvolti in quello che stiamo facendo e non ci rendiamo conto del tempo che passa. Ne Le parole dei figli solitamente è abbinato al momento di studio ideale in cui uno riesce a essere immerso nei libri o negli esercizi, concentrato e assorto in quello che fa. Tanto da non accorgersi di altro! È (ovviamente) una situazione che capita di rado. Di solito prevale TiKTok! Più frequente – come ben racconta Matteo Salvo in Studiare è un gioco da ragazzi (ed. Gribaudo) da cui ne Il caffè dei genitori di novem-

stenziale che sempre ci abita, aperta ad ogni esperienza di trascendenza rispetto ciò che siamo e a ciò che conosciamo, qui ed ora. Di per sé l’idea di possibilità rimanda ad un orizzonte per sua natura sconfinato, ma questo non significa che tutto sia sempre possibile. Pensare l’esistenza del possibile come presenza intrinseca alla vita non solo è compatibile con l’idea di limite, che della vita è la radice etica, ma ne è anzi la sorgente più luminosa. Ce lo ricorda quel «nulla di troppo» scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, che ci indica la via, fin dalle origini della nostra civiltà. E ancora oggi, nella conoscenza scientifica, sempre alla ricerca di nuovi possibili, il limite esprime un grande valore. Pensiamo alla bella lezione di Karl Popper: la condizione di ogni affermazione che voglia ritenersi scientifica è nel suo limite, ovvero nel fatto che vieti qualcosa, che non sia sempre possibile. L’affermazio-

ne «domani pioverà o non pioverà», ad esempio, non è scientifica proprio perché è sempre vera, non vieta nulla, non si espone al rischio di essere falsificata: tutto è possibile. Il valore della possibilità come feconda radice dell’esistenza, come apertura ideale verso un altrove, è dunque intrecciato con il valore del limite che esprime la nostra umanità. Se dunque appare fondamentale riconoscere questa cornice etica, il problema nasce invece quando il valore esistenziale del possibile viene soffocato e tradito. Purtroppo è questo ciò che spesso accade oggi, come il nostro esempio credo abbia mostrato. Ridurre l’esperienza del possibile a ciò che in qualche modo è prevedibile significa ridurre e mortificare le potenzialità e le risorse creative e trasformative della vita.

La parola possibile, frettolosamente consegnata all’idea di prevedibile, o addirittura di ciò che è statisticamente probabile, perde il suo conte-

nuto vitale perché soffoca il suo essere fondamento della creatività, della libertà, della spiritualità, e di tutto ciò che siamo o possiamo essere: impedisce di sentire la nostra umanità come progetto, come tensione ideale, come immaginazione.

L’esercizio della razionalità, della scienza predittiva e dell’approccio statistico alla realtà, costringono sempre più il nostro ragionare dentro le loro gabbie rendendo quasi impensabile l’esperienza feconda e vitale del possibile. Anche delle stupefacenti performance di ChatGPT è fondamento proprio la logica predittiva e il calcolo delle probabilità. Così si rischia di perdere di vista un fatto cruciale, ben espresso da Edgar Morin, e cioè che l’imprevedibilità è intrinseca all’idea stessa di ciò che è possibile. Scrive il filosofo, citando Euripide, «gli dei ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie e all’inatteso un dio apre la strada».

di perdere il controllo dei processi «di base» implicati nella realizzazione dei programmi. In pratica, sarà probabilmente molto difficile verificare la reale efficacia e pertinenza delle procedure architettate di volta in volta: insomma, il timore è che nessun umano abbia più la possibilità, e poi il tempo, di andare a controllare la concatenazione delle routines, la logica dei processi interni, nei miliardi di righe di codice scritti (di puro copia-incolla, tra l’altro) dalle macchine stesse. Con il rischio che venga a innescarsi un processo di «entropia digitale» dalle conseguenze imprevedibili. Ma non sbagliamoci: già da tempo stiamo vivendo qualcosa del genere. Discutendo qualche tempo fa con un altro amico programmatore, che sta passando una fase di deciso scetticismo verso la propria professione, riflettevamo sul fatto che gran parte di

chi programma oggi spesso non conosce davvero i processi informatici di base che pilotano i computer. Ci si accontenta di lavorare «in superficie» creando app che funzionano, ma senza sapere veramente «perché» funzionano. Se pensiamo agli anni in cui i primi elaboratori hanno iniziato ad apparire negli uffici e nelle attività professionali, ricordiamo che allora erano forniti con approfondite documentazioni, con dettagliate istruzioni per interagire a livello di «linguaggio macchina», cioè con i più elementari processi logico/elettronici di funzionamento. Ma dagli anni 90 in poi il continuo perfezionamento dei sistemi operativi, la corsa alla semplificazione nell’uso, hanno reso sempre più distanti i livelli di accesso di profondità. Fino ad arrivare a un punto, rideva amaramente l’amico, in cui oggi nessuno sa più veramente perché «va» un

computer, su quale catena di soluzioni approssimate (e precarie) sia basato il suo comportamento. E allora eccoci al busillis: quando la programmazione sarà affidata direttamente alle macchine stesse, probabilmente perderemo un altro tassello di reale conoscenza e contatto con i processi informatici. Chi sarà in grado infatti di sollevare il cofano e andare a riparare il motore, quando non si avrà la più pallida idea di come quello è stato assemblato? Un consiglio agli aspiranti informatici del futuro: preparatevi a diventare creativi meccanici digitali, perché il rischio che si corre è di dover mettere le mani in grandi, caotici pasticci. Sperando sempre che da qualche parte, comunque, qualcuno abbia previsto un pulsante di alimentazione, da premere in caso di emergenza. Hal 9000 docet

bre abbiamo cercato di carpire i segreti per aiutare i nostri figli a fare al meglio i compiti – è l’immagine dello stato di flow di un bambino che gioca a un videogioco. Salvo descrive gli elementi che determinano questo stato mentale: 1) la durata della situazione; 2) l’interesse; 3) (il fatto di) sentirsi parte importante; 4) (il fatto di) dover esprimere il meglio di sé, il senso di sfida; 5) un obiettivo chiaro e preciso. Non è da confondere con il chill, dall’inglese to chill, ossia rilassarsi: è una Parola dei figli di cui ci siamo già occupati e che è un sinonimo di «scialla», un invito a prendere le cose con calma, niente stress. Essere in chill vuol dire essere tranquilli. Il concetto di flow invece è coniato dallo psicologo ungherese (naturalizzato statunitense) Mihaly Csikszentmihalyi che negli anni Novanta ci scrive un libro-bestseller.

La lettura dei suoi studi per capire al meglio il significato del termine ci porta a scoprire che durante il flusso le persone in genere sperimentano un profondo godimento, creatività e un coinvolgimento totale con la vita che si può chiamare felicità. Come spiega Csikszentmihalyi, il flusso è «uno stato in cui le persone sono così coinvolte in un’attività che nient’altro sembra avere importanza; l’esperienza è così piacevole che le persone continueranno a farla anche a caro prezzo, per il solo gusto di farla». Ebbene – attenzione genitori – per lo psicologo ungherese il modo in cui noi interagiamo con i nostri bambini avrà un effetto duraturo sulla loro capacità in futuro di entrare in flow. In pratica: noi mamme e papà abbiamo un ruolo fondamentale nell’allenarli a godersi la vita. Ecco l’ennesima responsabilità! Ce la giochiamo su cinque fronti: 1) la chia-

rezza che vuol dire che gli adolescenti devono sapere cosa ci aspettiamo da loro; 2) la sensazione dei bambini che devono percepirci interessati a ciò che stanno facendo nel presente, ai loro sentimenti ed esperienze concrete, piuttosto che preoccupati del fatto che entreranno in una buona università o otterranno un lavoro ben pagato; 3) la scelta, ossia i bambini sono consapevoli di avere una varietà di possibilità tra cui scegliere, inclusa quella di infrangere le regole dei genitori, purché siano preparati ad affrontare le conseguenze; 4) la fiducia, che consente ai bambini di sentirsi abbastanza a loro agio da mettere da parte lo scudo delle loro difese e di impegnarsi spontaneamente in qualsiasi cosa interessi; 5) la sfida, ovvero la dedizione dei genitori a fornire ai propri figli opportunità di azioni sempre più complesse. In sintesi: i bambini che crescono in

situazioni familiari che facilitano la chiarezza degli obiettivi, il feedback, la sensazione di controllo, la concentrazione sul compito da svolgere, la motivazione intrinseca e la sfida avranno generalmente una migliore possibilità di ordinare le loro vite in modo da rendere possibile il flusso. La speranza è che i ragazzi della Generazione Z non leggano Mihaly Csikszentmihalyi in modo che non ci possano attribuire tra le varie colpe che già ci vengono rinfacciate anche quella di non farli entrare in flow! Piuttosto adesso che abbiamo compreso che cos’è, proviamo a entrarci insieme ai nostri figli. Per avvicinarci, magari, alla felicità. Non sarebbe bello?

Così una Parola dei figli può diventare un ponte tra generazioni invece che essere usata per fare del boomer-stumping, ossia per «mettere in imbarazzo il boomer ».

di Lina Bertola
di Simona Ravizza
di Alessandro Zanoli

ATTUALITÀ

Soluzioni creative al calo demografico Agenzie, eventi per cuori solitari e particolari app cercano di invertire una tendenza negativa per l’economia in tutto l’Estremo Oriente

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Saïdou, una grande storia d’amore Mentre il Consiglio federale annuncia l’intenzione di vietare le adozioni internazionali una famiglia ci racconta la sua esperienza

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«Non sono i droni ad essere cattivi» Intervista all’ingegnere Michele Pagani: equipaggiati di intelligenza artificiale stanno modificando molte regole, anche in guerra

Pagina 15

Migranti, cosa cambia davvero con Trump

Stati Uniti ◆ Il neo presidente mostra i muscoli, incassa una vittoria-lampo contro la Colombia e promette di non fermarsi In molti si indignano ma si tratta di decisioni in rottura totale con il passato?

Donald Trump ha già incassato una vittoria-lampo: contro la Colombia. Facile, si dirà. Ricordo cos’è successo. Di fronte alle immagini di migranti illegali incatenati, il presidente della Colombia ha annunciato che avrebbe impedito il loro rimpatrio, per protesta contro l’abuso dei loro diritti umani. Trump ha risposto minacciando dazi del 25%. La Colombia esporta petrolio, caffè, fiori freschi e gli Stati Uniti sono il suo principale cliente. La crisi è rientrata subito, il leader colombiano ha offerto addirittura il suo aereo presidenziale per il rimpatrio dei migranti.

Lezione numero uno: non minacciate Trump se non siete sicuri che i rapporti di forze sono in vostro favore. Seconda lezione: i rapporti di forze non sono quasi mai in vostro favore. Messico, Canada e tanti altri hanno preso nota. Terza lezione: a volte Trump usa i dazi solo come uno strumento per ottenere altre cose, e spesso le ottiene. Tanto più che il resto del mondo ha quasi sempre praticato dazi molto superiori a quelli americani (la Cina è l’esempio estremo di un Paese che si proclama a favore delle frontiere aperte e fa l’esatto contrario), sicché la guerra protezionista è asimmetrica: l’America può infliggere danni molto superiori a quelli che subirebbe dalle ritorsioni.

La vicenda colombiana è anche indicativa del modo in cui stiamo affrontando la politica migratoria di Trump. A volte l’indignazione esplode in automatico, con questo presidente. Le catene ai migranti, per esempio, sono uno spettacolo orribile ma non nuovo: nei tribunali Usa è normale vederle usate per imputati a rischio di fuga, che siano stranieri o cittadini statunitensi. Non le ha inventate Trump, le catene. Gli attribuiremo anche l’esistenza della pena di morte? Come cittadino americano di origine italiana, impregnato di cultura europea, io sono contrario alla pena di morte. Però in America esiste da sempre e i democratici quando erano al potere non hanno mai cercato di abolirla (peraltro esisteva ancora in Francia fino a Mitterrand, 1981).

Per valutare la portata del cambiamento in corso, è bene non affidarsi né alla propaganda trumpiana né a quella dell’opposizione. In America è iniziata una vera svolta sulla politica dell’immigrazione, in rottura totale con il passato? Trump vuole dare questa impressione. Sarebbe d’altronde un modo per mantenere le promesse fatte in campagna elettorale; l’immigrazione è uno dei temi che gli hanno portato crescenti consensi tra le classi lavoratrici e le stesse minoranze etniche.

Ma le novità in certi casi sono me-

no dirompenti di quanto sembri. Su espulsioni e rimpatri, o sull’uso dei militari alla frontiera, ci sono precedenti importanti nelle Amministrazioni democratiche. Per adesso l’unica rottura vera riguarda l’annunciata revoca dello «ius soli», la cittadinanza automatica per chiunque nasca sul suolo degli Stati Uniti. Questa è anche la novità che avrà più ostacoli per realizzarsi. È già stata bloccata dalla magistratura per sospetto di incostituzionalità.

Donald Trump vuole superare i rimpatri effettuati da Joe Biden. Se fa sul serio, ci sarà un salto dimensionale

Sono gli stessi giornali di opposizione, «New York Times» e «Washington Post», a riconoscere che esistono elementi di continuità fra Trump e i leader democratici su alcuni aspetti delle politiche migratorie. Si prendano le espulsioni di migranti illegali, ovverosia rimpatri concordati con i loro Paesi di provenienza (così va tradotto il termine «deportations», non si tratta di «deportazioni» nel senso crudele che questa parola ha in italiano). Il «New York Times» ricorda che Biden ne realizzò ben quattro milioni durante i

suoi quattro anni di presidenza. Cioè più del doppio delle espulsioni-rimpatri durante la prima Amministrazione Trump (gennaio 2017-gennaio 2021). Anche sotto la seconda Amministrazione Obama milioni di clandestini erano stati espulsi. In ogni caso, oggi Trump vuole superare i rimpatri effettuati da Biden. Se fa sul serio, ci sarà un salto dimensionale. Ma non una svolta sul terreno dei principi, perché le procedure di espulsione-rimpatrio sono uno strumento usato regolarmente, da molto tempo e da presidenti di diverso colore politico. Lo stesso dicasi sul dispiegamento di militari al confine. Il «Washington Post» ricorda che se Trump invia 1500 soldati lungo la frontiera col Messico, questi vanno ad aggiungersi ai 2500 già schierati da Biden.

I numeri con Trump dovrebbero salire ben oltre, si parla di arrivare fino a diecimila soldati: se è vero l’aumento sarà sostanziale. Non si tratta però di un’innovazione sui principi. L’uso delle forze armate in funzione di supporto logistico per le operazioni della polizia di frontiera è antico, consolidato. Peraltro le operazioni di espulsione restano di competenza dei corpi di polizia ad hoc, in quanto i militari non hanno né la formazione né i poteri di polizia giudiziaria che

sono richiesti. Il loro dispiegamento non è uno strappo alla Costituzione, non più di quanto lo sia l’uso di militari in Europa in compiti di anti-terrorismo, per esempio a difesa di ambasciate straniere o aeroporti.

Né si può dire che Trump stia abusando dei suoi poteri quando pretende che le polizie locali collaborino con quelle federali nell’applicare le leggi sull’immigrazione. Qui si entra certo in un terreno delicato, i rapporti tra potere centrale e Stati Usa, in un sistema segnato da un federalismo spinto. Resta un’anomalia quella per cui ci sono delle leggi nazionali varate dal Congresso, poi disapplicate a livello locale nelle «città-santuario». Accade regolarmente che dei criminali condannati per reati violenti, qualora siano immigrati illegali, non vengano consegnati dalle polizie locali alle autorità federali per l’espulsione. La dis-applicazione delle leggi federali avveniva anche quando alla Casa Bianca c’era un presidente democratico.

Di tutti gli annunci e i decreti firmati da Trump sulla migrazione, l’unico che si può considerare come un vero strappo, come detto, è la revoca dello «ius soli». Il diritto ad essere cittadini degli Stati Uniti se si nasce nel Paese sta scritto nella Costituzione, nel suo 14esimo emendamento.

Fu approvato alla fine dell’Ottocento in un contesto storico molto diverso: sanciva la piena cittadinanza degli afroamericani dopo l’abolizione dello schiavismo. Non nacque quindi come un provvedimento mirato agli immigrati; però fu applicato da subito anche ai figli di stranieri. È dubbio che una norma costituzionale possa essere cancellata da un decreto presidenziale. Infatti una lunga schiera di Stati hanno già avviato un ricorso legale. L’antefatto, nel caso dello «ius soli», è la polemica degli ultimi anni sui cosiddetti «anchor-baby», cioè i neonati usati per «gettare l’ancora» nel Paese (immagine metaforica). Da tempo la destra denuncia i casi di madri che aggirano nei fatti le leggi sull’immigrazione e sulla cittadinanza, venendo a partorire sul territorio Usa: i loro figli, una volta maggiorenni, possono avviare la pratica della regolarizzazione per estendere la cittadinanza agli altri familiari (non è né automatico né veloce, però in genere il risultato è positivo). Trump fa affidamento anche sull’effetto-annuncio: le sue politiche possono ridurre gli incentivi alla partenza, perché descrivono urbi et orbi un’America molto meno accogliente. Tanto più se i Paesi limitrofi come Messico e Canada per accattivarsi Trump provvedono a ostacolare il transito.

Lungo la frontiera colombiana. (Keystone)
Federico Rampini

Risposte creative al calo delle nascite

Asia ◆ Da Tokyo a Seul, eventi per cuori solitari e particolari app cercano di invertire una tendenza negativa anche per l’economia

Nel dicembre 2024 la fashion blogger Xiangxiang, una ragazza cinese sulla trentina, ha preso un treno da casa sua a Hong Kong per raggiungere Canton, la più grande città costiera del sud della Cina. Dopo tre ore di viaggio, Xiangxiang è arrivata al Tianhe Park dove si teneva un evento a cui era interessata: un matchmaking corner, un luogo dove incontrare e proporsi a persone single. In un video pubblicato ai suoi 70 mila follower sul social Xiaohongshu, molto popolare in Cina, ha spiegato che aveva viaggiato fino a Canton perché voleva un uomo «della Cina continentale» dato che, secondo lei, i ragazzi di Hong Kong hanno «un cattivo carattere».

Il ventennio di brutale politica del figlio unico ha portato la Cina ad avere troppi uomini per troppe poche donne

Solo che nel matchmaking corner di Canton ha trovato soprattutto genitori in cerca di fidanzate per i propri figli, con rigidissime regole d’ingaggio. E Xiangxiang, con i suoi 154 centimetri, non era abbastanza alta per le mamme desiderose di accoppiare i figli maschi. Per esempio una di queste madri, ha raccontato la fashion blogger nel video, le ha detto che il figlio è nato nel 1984 ed è alto 174 centime-

tri, ma per lui cercava specificamente una partner nata nel 1988, 1989, 1992 o 1993 e con un’altezza minima di 160 centimetri. Scartata.

Il post di Xiangxiang ha riscosso molto successo online, soprattutto tra gli utenti che hanno commentato ridicolizzando certi genitori cinesi – sono loro a cercare partner per i figli! – decisamente troppo esigenti. Ma ha riaperto anche il dibattito sugli incontri per cuori solitari che, in Cina e non solo, cercano di dare risposte al calo demografico e all’economia che rallenta. Nelle principali città cinesi, fra Shanghai, Pechino e Shenzhen, questi eventi si organizzano sin dal 2004. Il ventennio di brutale politica del figlio unico ha portato la Repubblica popolare cinese ad avere un panorama demografico alterato: troppi uomini per troppe poche donne perché allora, come unico figlio, si preferiva un maschio rispetto a una femmina. Il brusco calo delle nascite ha portato poi la leadership di Pechino a cancellare la norma, ormai una decina di anni fa, e adesso a chiedere ai cittadini di fare più figli. Solo che nel frattempo la società è cambiata, e non solo in Cina. In tutta l’Asia industrializzata, così come in Europa, si fanno sempre meno figli. Così, i matchmaking corner sono tornati di moda soprattutto tra le vecchie generazioni alla ricerca di un partner per i propri figli, ma rappresentano anche la perfetta manifesta-

zione della pressione sociale verso il matrimonio subita dalle nuove generazioni, soprattutto fra le donne. Inoltre, la loro reale efficacia rimane dubbia, anche fuori dai confini cinesi. In Giappone, considerato il Paese più vecchio del mondo con un tasso di

natalità tra i più bassi dei Paesi industrializzati, le attività sociali per cuori solitari si sono evolute molto negli anni. Esistono diverse tipologie di eventi per single e quest’anno la città di Tokyo ha perfino lanciato un’app municipale per incontri, Tokyo Enmusubi, che usa l’intelligenza artificiale per abbinare le persone considerate «seriamente intenzionate» ad accoppiarsi in base «ai loro valori». La registrazione è biennale e costa l’equivalente di circa 70 franchi: gli aspiranti fidanzati vengono sottoposti a un colloquio con persone reali, dipendenti comunali, e devono dimostrare la loro identità e il loro reddito medio. Soltanto dopo la tecnologia interviene per fare i potenziali accoppiamenti. Quello della città di Tokyo è solo l’ultimo dei tentativi del Governo centrale per rispondere alla crescente difficoltà dei giovani giapponesi nel trovare un/a partner, aggravata dagli impegni lavorativi e dalla ridotta socializzazione della vita di tutti i giorni, una sorta di incomunicabilità fra giapponesi che fa parte della cultura e che lo stress da lavoro ha esasperato. Secondo un sondaggio del Governo di qualche mese fa, in Giappone un adulto sposato su quattro sotto i 40 anni ha trovato il proprio o la propria partner attraverso le app di incontri, che sono ora il metodo più comune per trovare moglie o marito senza particolari stress da appuntamenti. Gli annunci pubblicitari per questa tipologia di app aumentano specialmente intorno a Natale, una festività che in Giappone ha un significato molto simile a quello che in Europa ha San Valentino, durante la quale le compagnie che vendono servizi tendono a enfatizzare il romanticismo e l’importanza di essere in coppia.

Anche la Corea del Sud affronta gli stessi problemi del vicino Giappone per quanto riguarda il calo dei matrimoni e delle nascite. Il Governo di Seul ha organizzato diversi eventi di matchmaking, uno degli ultimi si è tenuto il 23 novembre scorso, chiamato «Romance in Hangang». A ottobre si è aperta la lotteria per cento uomini e donne single (nella conservatorissima società sudcoreana si promuovono solo le coppie eterosessuali) fra i 25 e i 39 anni che vivono nella capitale sudcoreana per vincere la partecipazione a un evento che sembrava quasi una se-

rie tv, con giochi di gruppo, incontri con gli psicologi, una crociera sul fiume Han, e infine un buono dell’equivalente di oltre settemila euro per l’acquisto di un appartamento ottenuto solo dalle coppie che si sarebbero formate durante l’evento. Un bell’impegno economico sia per il Governo municipale di Seul sia per gli sponsor, che però, a giudicare dai commenti sui media locali, non ha portato a grandi risultati, anzi. Secondo diversi osservatori il Governo continua a ignorare i problemi più profondi legati alla natalità e alla struttura sociale del Paese, dove è difficile socializzare per via del troppo lavoro, per le pressioni sociali legate al reddito medio, all’impossibilità di accedere all’acquisto della prima casa, al costosissimo sistema educativo dei figli e alle aspettative tradizionali di genere.

In Corea è difficile socializzare per via del troppo lavoro e per le pressioni sociali legate al reddito medio

Anche in Thailandia il settore del matchmaking secondo molti rifletterebbe le fluttuazioni dell’economia. Kulchulee Subsinudom Nylander, amministratrice delegata e fondatrice di Bangkok Matching (agenzia di appuntamenti), ha spiegato al «Bangkok Post» che un’economia stagnante porta a una diminuzione della domanda di servizi di matchmaking, in particolare tra i clienti facoltosi. Per adattarsi all’incertezza economica, Bangkok Matching ha introdotto nuovi servizi pensati per attrarre una clientela più ampia, ma anche qui i risultati sono variabili: «Al giorno d’oggi i thailandesi credono che se un partner non migliora la loro vita, o non è un partner perfetto, allora è meglio rimanere single». È proprio questo il problema comune in tutta l’Asia: la pressione sociale e culturale trasforma gli eventi per cuori solitari in attività volte alla stabilità economica e alla compatibilità familiare più che al vero amore. Questo approccio spaventa i giovani, perché può portare a relazioni poco funzionali che influiscono negativamente non solo sulla durata dei matrimoni, ma anche sulla soddisfazione personale.

Una vera gioia che va oltre i pregiudizi

Svizzera ◆ La storia di Saïdou e della famiglia ticinese che lo ha accolto mentre Berna punta a vietare le adozioni internazionali

Il Consiglio federale intende vietare le adozioni internazionali, lo ha fatto sapere mercoledì scorso, specificando che ha incaricato il Dipartimento federale di giustizia e polizia di elaborare, al più tardi entro la fine del 2026, un progetto di legge in tal senso da porre in consultazione. Il motivo principale? «Anche un diritto in materia di adozioni severo non può escludere il rischio di abusi», si legge sul portale del Governo elvetico. «Il divieto è il miglior modo per tutelare in modo adeguato tutte le persone interessate, in particolare i bambini». Mentre qualcuno sottolinea il rischio di spostare il problema altrove (leggi traffici sempre più illeciti e maternità surrogata, vietata nella Confederazione ma consentita altrove) e nell’attesa che il progetto prenda forma, abbiamo incontrato Renata, residente nel Locarnese, mamma biologica di Enea Xan e adottiva di Saïdou Elia. Mamma e basta, direbbe lei. È consapevole delle irregolarità nell’ambito delle adozioni internazionali che, soprattutto tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del Novecento, sono state perpetrate da individui senza scrupoli allo scopo di guadagnare sulle spalle di bambini che già soffrivano. Conosce appunto il lungo percorso dell’adozione, non privo di prove a volte dure (le ha raccontate in un libro intitolato Riigma che in lingua moré significa abbraccio). Ma vuole sottolineare, con grande energia, la positività di un’esperienza che arricchisce la vita: della famiglia che accoglie e del minore.

Saïdou si è affidato alla sua nuova famiglia che veniva da lontano: meglio l’ignoto rispetto all’inferno che conosceva

«Lo voglio ripetere più e più volte, per noi tre è una gioia», esordisce. «Mi sono spesso scontrata con visioni negative e pregiudizi: una parte della società giudica male l’adozione. Certo, le sfide non sono mancate. Soprattutto durante il percorso che ha portato all’arrivo di Saïdou. Ma lui è una gioia e un’opportunità di crescita, nonostante abbia un passato complesso alle spalle con cui deve e dobbiamo fare i conti. Siamo stufi della mancanza di sensibilità di alcune persone, che pongono domande indiscrete e fanno affermazioni infelici: “Poverino, avrà una vita difficile!”, “Conosco un’amica che ha adottato, ma il ragazzo le dà tanti problemi”, o “Avevate già un figlio vostro, perché buttarsi in una simile impresa?”. Dimostrano scarsissima empatia per una situazione in fondo così normale: accogliere chi ha bisogno, offrire una possibilità a chi non ce l’ha e se la merita, darsi la possibilità di sperimentare un amore più grande». Come è nata l’idea dell’adozione? «Avevamo già un figlio nostro – racconta Renata – però non ci mancava la volontà di allargare la famiglia, aiutando nel contempo un bambino in difficoltà. Mio marito Oliver viene dal Canton Zurigo, dove viveva accanto a una struttura per ragazzi soli. Sapevamo bene quanta tristezza porta l’assenza di una famiglia vicino…». Inoltre la coppia ha sempre coltivato una profonda ammirazione per l’Africa, viaggiando in Zimbabwe, Namibia ecc. Lei si era anche trasferita per un periodo a Cape Town. Per questo – quando è arrivato il momento – non hanno avuto dubbi, puntando sull’a-

dozione di un bambino del Burkina Faso. «Nel 2016 abbiamo inoltrato la richiesta al Cantone; nel 2019 l’associazione Mani per l’Infanzia – persone stupende – ci ha contattati per informarci dell’abbinamento: il bimbo era Saïdou!». Quegli anni di attesa, dice Renata, sono stati caratterizzati dalla speranza, dall’ansia, dalla paura, dai corsi pre-adozione, da allegria e delusioni (come la perdita di documenti sia in Africa sia in Svizzera). «La nostra grande fortuna, in fondo, è stata che avevamo già un figlio, Enea, che ci ha supportati in tutto e per tutto».

Nel 2020 è arrivata «la telefonata»: Mani per l’Infanzia ha informato la famiglia che il tribunale del Burkina Faso aveva dato il suo consenso e che i documenti erano pronti. La partenza era prevista sabato 5 dicembre 2020 da Ginevra – durante la pandemia – e il soggiorno nel Paese doveva durare

due settimane ma, data l’instabilità politica nella regione, era consigliato rientrare in Svizzera il prima possibile. Renata si emoziona pensando al primo incontro con Saïdou: «Doveva avere 4-5 anni ma sembrava più piccolo della sua età. Era magrissimo, pesava appena 9 chili, e aveva evidenti tagli e bruciature sul corpo. Non aveva nessuno. Viveva in una “casa famiglia” a Koudougou: una capanna spoglia insieme a due persone con quattro figli. Due persone che non erano per niente gentili con lui...». È stato amore a prima vista. Sembrava che il piccolo volesse partire, si è affidato senza riserve alla sua nuova famiglia che veniva da lontano: meglio l’ignoto rispetto all’inferno che conosceva. «Durante i corsi obbligatori per l’adozione – utilissimi – ci avevano spiegato le probabili dinamiche dell’incontro, ci avevano detto della possibilità che non ci accettasse, che

piangesse, che reagisse con aggressività per via del suo passato. La realtà per noi è stata diversa: bella e naturale. In Burkina Faso una signora ci ha chiesto che altro nome volevamo dargli… Non è mai stata un’opzione per noi, il suo nome era Saïdou e quello restava. È parte della sua storia, una delle poche cose che gli rimangono del suo passato».

L’arrivo in Svizzera è stato caratterizzato da momenti divertenti, ricorda Renata: Saïdou continuava ad accendere e spegnere la luce, ridendo a crepapelle, oppure ad azionare lo sciacquone del water. «È andato tutto molto bene! Certo, sapevamo che si trattava di un bimbo con un passato non idilliaco alle spalle. I segni erano evidenti e non sono del tutto scomparsi. Ad esempio all’inizio mangiava troppo, fino a stare male. Avendo sofferto la fame non si poneva limiti e poi nascondeva il cibo nell’armadio

Un progetto sempre meno allettante, vediamo perché

Un dato messo in evidenza dal Consiglio federale, nel comunicare le sue intenzioni per il futuro, è stato il calo delle adozioni internazionali nell’ultimo decennio. «In Svizzera siamo passati dalle 275 adozioni del 2008 alle 30 del 2023; a livello ticinese, dai 24 minori giunti nel 2008 ai 7 del 2023 (6 nello scorso anno)». A parlare Sabina Beffa, responsabile dell’Ufficio dell’aiuto e della protezione del Cantone. Tra i motivi che hanno scoraggiato la pratica troviamo: la Convenzione dell’Aja sulla protezione dei minori, entrata in vigore nel nostro Paese nel 2003, che ha gli obiettivi di «stabilire delle garanzie affinché le adozioni internazionali si facciano nell’interesse del minore e per impedire la vendita, la tratta di minori» e di «instaurare un sistema di cooperazione fra gli Stati contraenti al fine di assicurare il rispetto di queste garanzie». Sono dunque cresciute l’attenzione nei confronti delle procedure e la pressione affinché si svolgano in maniera corretta, osserva Beffa. Inoltre molti Paesi di origine hanno iniziato a privilegiare soluzioni «interne», come previsto dalla Convenzione, con la

conseguente significativa diminuzione del numero dei bambini adottabili. L’intervistata elenca altri elementi che hanno favorito la tendenza: l’instabilità nei Paesi di origine e i blocchi dovuti al Covid. La maggior parte degli aspiranti genitori desidera inoltre adottare un minore nei primi anni di vita e in buona salute, ma ciò non corrisponde alle esigenze reali: numerosi Paesi propongono bambini più grandi e con «bisogni speciali».

Costi e tempistiche

Da considerare anche i costi non indifferenti dell’adozione internazionale: in Ticino 850 franchi per l’apertura del dossier e la valutazione di idoneità, oltre a diverse migliaia di franchi per i corsi pre-adozione, per la traduzione dei documenti, per le prestazioni degli intermediari e la stesura del dossier da inviare al Paese di origine, per i viaggi e le permanenze ecc. Senza dimenticare le difficoltà della procedura, i tempi lunghi e il rischio che si concluda con un nulla di fatto. «Il percorso di valutazione di idoneità dei

o, alla scuola dell’infanzia, non capiva perché le pietanze avanzate venivano buttate… Quando si rompeva qualcosa si accovacciava a terra, proteggendosi la testa con le manine. Ancora adesso se qualcuno alza la voce si blocca per la paura. Ha timore soprattutto degli uomini».

«All’inizio mangiava troppo. Avendo sofferto la fame non si poneva limiti e poi nascondeva il cibo nell’armadio»

Ma le note positive superano di gran lunga le preoccupazioni. «Mi chiama mamma, adora suo fratello, ha tanti amici, è un gran chiacchierone. Dispone di un lessico fantastico. Si è integrato in classe. La scuola ticinese si è aperta alle diversità, come tante persone. Rimangono dei pregiudizi, specie tra le vecchie generazioni, e talvolta sento frasi quali: “I neri non si affermano nelle professioni prestigiose”, “Che futuro avrà?”. Siamo consapevoli che Saïdou dovrà confrontarsi anche con questo, cerchiamo di prepararlo, di dargli gli strumenti giusti per rispondere». Intanto lui dimostra la sua forza di volontà, ci mette tutta l’energia possibile per imparare, partecipa, corre, desidera essere come gli altri, sembra voler approfittare al massimo delle possibilità che in Africa non aveva. «Gli raccontiamo delle sue origini e, se un giorno vorrà, potrà ritornare… Lo aiuteremo a trovare la sua strada, come facciamo con Enea. I nostri figli devono sapere di essere amati e liberi di decidere come orientare la loro vita».

Informazioni

Trovate Riigma (2024) nelle librerie ticinesi e online (www. fontanaedizioni.ch). Parte del ricavato della vendita del volume servirà a sostenere la formazione professionale dei ragazzi e delle ragazze residenti nell’orfanotrofio di Ouagadougou, capitale del Burkina Faso.

candidati dura 6 mesi circa», afferma Beffa. «Dopodiché bisogna preparare il dossier da presentare al Paese d’origine e possono passare dai 3 ai 5 anni per l’adozione». Qualche famiglia di nostra conoscenza ci ha parlato delle «lungaggini» dell’iter burocratico.

L’esperta risponde: «Parliamo di un percorso introspettivo verso un progetto complesso che richiede tempo. I 6 mesi di valutazione da parte di operatori sociali e psicologi sono volti ad esplorare le varie dimensioni del progetto di adozione e l’idoneità della famiglia o del singolo candidato, mentre il focus resta il benessere del minore che vale sopra ogni cosa.

Le “lungaggini” burocratiche possono manifestarsi nei rapporti col Paese di origine. Ci sono realtà, come la Colombia, che chiedono pure l’albero genealogico... E la fase di attesa, dopo l’invio del dossier, è un buco nero. Non si sa come il Paese di origine valuta le candidature, che non arrivano solo dalla Svizzera».

Per adottare, da noi, bisogna rivolgersi ad associazioni che fanno da intermediarie. Sono 5 ad essere attive (più una che si occupa di adozio-

ni nazionali), due hanno sede in Ticino. «Ma – spiega Beffa – Chaba Adozioni (Locarno) chiuderà i battenti e ora segue solo i casi già aperti. Sono infatti sempre meno i bimbi che arrivano dalla Thailandia, Nazione di cui si occupa». Mani per l’infanzia (Dino) opera in Burkina Faso, Repubblica Dominicana, Perù. Non accetta nuovi dossier per Haiti (instabilità politica) e per la Costa d’Avorio (è in prova). Restano il Bureau genevois d’adoption (Ginevra), per bambini che arrivano dalle Filippine e dalla Thailandia, che non accetta nuovi dossier; la Fondation enfants-espoir (Berna), che si concentra sull’India, e Stiftung Ouvre tes mains / SOS Adoption (Grolley) sulla Thailandia. Non vi sono adozioni dall’Italia. «La vicina Penisola – come qualsiasi Nazione dell’Europa occidentale – punta sull’adozione nazionale (in Svizzera è poco diffusa, si predilige l’affido)». Ultima nota: nel nostro Paese possono adottare anche single e coppie gay, basta avere una differenza d’età di almeno 16 anni e al massimo 45 dal minore, ma «sono pochi i Paesi che accettano queste tipologie di candidati».

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I droni, nuovi signori in cielo e in terra

L’intervista ◆ L’ingegnere Michele Pagani: dotati di intelligenza artificiale stanno modificando le regole, anche in guerra

Il 2024, oltre ad essere stato l’anno delle guerre, è stato l’anno dell’intelligenza artificiale che affascina e intimorisce (IA). A fare da trait d’union tra queste due parole – guerra e IA – ce n’è però una terza: drone, parola che deriva dall’inglese e significa «fuco». Il suo acronimo, in inglese, è UAV (Unmanned aerial vehicle) e, in italiano, APR (Aeromobile a pilotaggio remoto). Il drone nasce in ambito militare nel 1917 – durante la Prima guerra mondiale – ma solo verso la fine degli anni Novanta conquista mercati diversi, non ultimo quello dei «giocattoli per bambini». Duplice identità dunque quella dei droni che trova conferma anche nell’ultimo nato in casa EPFL (Politecnico federale di Losanna) dove i ricercatori, a inizio dicembre 2024, hanno messo a punto RAVEN (il corvo) il cui acronimo sta per Robotic avian-inspired vehicle for multiple environments (Veicolo robotico ispirato all’aviaria per ambienti multipli) e che si ispira appunto a uccelli come i corvidi, in grado di alternare i loro movimenti tra cielo e terra. RAVEN infatti, oltre a volare, sa saltellare al suolo su superfici di vario genere, col risultato di potersi spostare su terreni accidentati e decollare da aree ristrette. Affascinante per i bimbi, ma anche per i signori della guerra.

«Se i droni vengono usati per colpire e uccidere, converrà con me che la negatività non sta in loro, ma in chi li governa»

L’ingegner Michele Pagani, 27 anni, è un ex-studente al Politecnico federale di Zurigo e, quello dei droni, è il suo mondo. Lui, tra l’altro, è uno dei progenitori dei droni saltellanti. Proprio grazie al suo Lynchpin –un prototipo di drone di questo tipo – vince, a pari merito con altri due concorrenti (un germanico e uno statunitense) il concorso promosso nel 2020 dall’attore Terrence Howard.

Quando nasce il suo interesse per i droni?

Nel 2018 al cinema. Non ricordo che film ero andato a vedere. Ricordo invece la pubblicità che ha catturato il mio interesse e che ha portato me, studente di ingegneria meccanica dal 2016, a trascorrere i mesi seguenti a leggere tutto quello che potevo trovare sul tema, ad allenarmi su un simulatore per poi iniziare a costruire i miei droni fino a farli volare. Tutto ciò ha influenzato la mia carriera scolastica e, dopo due anni, ho avuto l’opportunità di seguire una parte dei corsi – che si è presto trasformata in un 200% – sotto forma di progetto. Mi sono così trovato a progettare e a costruire droni in grado di generare energia elettrica carpendola in volo dal vento. Su questo tipo di drone ho basato anche la tesi di bachelor. L’elemento nuovo che ho aggiunto: il drone era «guidato» dall’intelligenza artificiale. È dopo aver conseguito il bachelor che mi sono imbattuto nella competizione del drone saltellante promossa da Terrence Howard. Un po’ perché mi divertiva l’idea, un po’ perché i 25’000 dollari in palio erano, per me studente, un premio assai allettante...

Quali le caratteristiche del suo Lynchpin? Il concorso in sé era molto aper-

to. Il drone doveva avere sei motori, montati in una posizione particolare e doveva soprattutto avere una dimensione minima. Ho rispettato i requisiti e sono riuscito a fare in modo che il mio Lynchpin fosse in grado di volare, ma anche di muoversi a terra.

A cosa mirava il concorso?

All’inizio tutto sembrava un’iniziativa filantropica di Terrence Howard (a me noto solo perché sono un patito dei film della Marvel), al quale era venuta in mente l’idea di un drone piccolo ed agile che potesse collegarsi con altri simili così da poterne creare uno più grande. Obiettivo del concorso: accertarsi se l’idea poteva essere tradotta nella realtà. Terminata la competizione, che ha visto la partecipazione di un centinaio di concorrenti, a noi tre finalisti – premiati ex-aequo in quanto avevamo soddisfatto le condizioni del concorso in aree diverse – è stato chiesto di sviluppare il progetto. Cominciò a farsi largo il dubbio che più che una gara, il concorso fosse una vera “caccia di cervelli”. Da un certo punto di vista la cosa mi ha fatto piacere, ma avendo ancora gli studi da portare a termine ed avendo constatato la comparsa di esponenti dell’esercito statunitense, ho preferito distanziarmi dalla seconda fase del progetto.

I droni non la interessano più?

M’interessano ancora. Proprio a gennaio 2024 ho finito in bellezza con la tesi di master, sempre sui droni, dove ho presentato velivoli in grado di volare in modo autonomo, droni che usano cioè solo la telecamera a bordo per definire la propria rotta.

Droni pericolosi se penso al loro uso nelle guerre in corso… «I droni non sono pericolosi, sono coloro che li governano e guidano ad esserlo. Pensi ai droni che da anni sorvegliano anche i confini svizzeri. Sono pericolosi o utili? E quanto avrebbero potuto essere utili i droni se impiegati per la sorveglianza e la manutenzione del viadotto Polcevera a Genova? Senza poi contare l’utilizzo dei droni nella ricerca di persone disperse a seguito di catastrofi naturali o in un bosco. Il drone è una macchina nata dal concorso di intelligenze volte a migliorare la vi-

ta degli umani. Se queste macchine vengono usate per colpire e uccidere, converrà con me che la negatività non sta in loro, ma in chi li impiega a tale scopo.

Convengo. Le chiedo però un’altra cosa. Il 24 novembre 2024 Elon Musk sul suo X, ha scritto: «Alcu-

ni idioti continuano a costruire jet da combattimento con equipaggio, come l’F-35», facendo capire che il futuro dell’aviazione militare passa dai droni. La notizia non è passata inosservata in Svizzera (che ha acquistato per il suo esercito 36 di questi aerei). INFOsperber l’ha riportata completandola con quan-

to il professor Roland Siegwart dell’ETH ha dichiarato alla «Sonntags-Zeitung» ovvero: «Nel prossimo futuro i droni sostituiranno gli aerei da combattimento con equipaggio». Secondo Siegwart i droni, in futuro, abbatteranno i jet da combattimento e «i piloti non avranno alcuna possibilità, perché i droni sono molto più agili». È uno scenario verosimile? È verosimile e probabile. Penso però che ci vorranno ancora un paio di decenni prima che questo scenario si concretizzi. Glielo dico pensando alle molte difficoltà che esistono nella programmazione di tutte le possibilità che l’AI preposta a condurre un drone deve gestire. Le faccio un esempio. Avrà sentito parlare – rimanendo nel campo di azione di Musk – delle automobili senza essere umano al volante, settore nel quale si registrano sviluppi rapidi e sorprendenti. Ebbene, a maggio di quest’anno, un’auto autonoma (Waymo, un servizio taxi di auto autonome a Phoenix, Stati Uniti) aveva davanti a sé un camion che portava un albero con foglie e rami. L’auto, probabilmente “pensando” di avere davanti un vero albero, ha continuato a frenare cercando di evitare l’albero e invadendo a più riprese la pista ciclabile. Apparirà chiaro a chiunque che di strada da fare ce n’è ancora molta.

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La materia del corpo come narrazione

Letteratura ◆ Vittorio Lingiardi intreccia riflessioni lungo un’indagine che fonde conoscenze scientifiche e culturali per rivelare la complessità dell’organismo umano e delle sue rappresentazioni

Il lettore, anche quello più smaliziato, farebbe fatica a definire il nuovo sorprendente libro di Vittorio Lingiardi, Corpo, umano (Einaudi, 282, 20 euro); lo si potrebbe forse semplicemente concepire come un lungo racconto di forte e coinvolgente presa narrativa, o meglio una esperienza, un viaggio dentro il corpo, le funzioni, i meccanismi, il suo immaginario e i suoi simboli. Una esperienza segnata dalla necessità di entrare in rapporto con qualcosa di umano e troppo umano che riguarda tutti, ciò che siamo, la materia multiforme di cui siamo fatti e con la quale ci relazioniamo con l’altro da sé e le cose del mondo circostante, dove si esercita anche il biopotere, quello che Foucault chiamava «gestione economica e biologica dei corpi». Si vive l’esperienza del piacere, del dolore, la metamorfosi del genere.

Nell’esplorazione intensa di questo intellettuale eclettico italiano vengono messe a nudo la vulnerabilità e la potenza del corpo umano

Ho detto coinvolgente perché pur trattando questioni di una certa complessità, che l’autore non intende affatto semplificare, riesce a porcele con una scrittura colloquiale da racconto orale, che talvolta è confessione intima, memoriale privato, altre volte osservazione e costatazione dello psicoanalista, dotta bibliografia letteraria, soprattutto testi di narrativa e poesia, frammenti di film, però sempre strettamente al servizio dei ragionamenti, oppure citazioni e spunti presi da una sterminata biblioteca, quella stratificata ed eccentrica di un intellettuale eclettico, psichiatra, psicoanalista, ma anche professore di psicologia dinamica in Italia e all’estero.

Diciamo che assunti medici e umanistici si mescolano, teorie scientifiche e suggestioni letterarie riverberano tra le pagine (i corporali Mishima, Testori, l’elettrico Whitman, moltissimi altri, soprattutto poeti) così come gli elementi iconici della fotografia ma soprattutto della grande arte figurativa (Rembrandt, Manet, Rubens, Goya, tra gli altri), nelle tre parti che compongono il libro: Il corpo ricordato, Il corpo dettagliato, Il corpo ritrovato Il corpo come mappa, geografia del sé e della propria memoria vivente, dove «chi ha esperienza della cura psichica riconosce il taglio sulle braccia della sofferenza borderline; l’osso sporgente dell’anoressia e il vomito della bulimia; l’ossessione vigoressica e che gonfia i muscoli; il panico che simula l’infarto e ferma il respiro». Un organismo pulsante e sensibile dove la Pelle, «il più psichico dei nostri organi» è «involucro e confine, luogo del contatto e della separazione» in un circuito neurale e biochimico complesso dove «anche il corpo è mente, non solo il cervello», e il cibo ingerito «interroga la psiche e il corpo»; ma anche per eccellenza luogo del desiderio sessuale, «un corpo im-

maginifico e carnale, politico e culturale». Quello che colpisce è il rapporto fortissimo tra vita fisica, psichica e la biografia, perché tutti sappiamo intimamente quanto si riguardano e, come pensava uno dei padri della medicina moderna, William Osler, «le tragedie della vita sono in gran parte arteriose. Il romanzo del cuore non

può che essere un racconto di paure, esperimenti, entusiasmi e delusioni», perché come pensava Mallarmé «ogni anima è un nodo ritmico». Nella seconda parte del libro, Il corpo dettagliato, la più ampia e narrativa, ogni organo è un racconto in un palinsesto affascinante di versi, assunti, citazioni, Lingiardi dera-

glia abilmente, con acuta intelligenza narrativa infila sequenze godibili e illuminanti, mette insieme questioni etiche, sociali, esistenziali, politiche. Come nel capitolo Pelle, «la superficie dell’amore», dove parte da un ricordo di bambino, i tatuaggi siberiani raccontati da Lilin, per arrivare anche a qualcosa che può alimentare il razzismo perché, come ammonisce Toni Morrison, è un problema dei bianchi se da sempre credono «che sotto ogni pelle scura si nasconde una giungla». Gli occhi sono «finestre dell’anima» e icona fotografica di Man Ray, il naso evoca Pinocchio e Rabelais, e ovviamente Il profumo di Süskind ma anche le Opinioni di un clown di Böll, la bocca «luogo cruciale della psicanalisi» e leucoplachia al palato che colpì Freud, ma disconoscevo il fatto che secondo l’etologo Desmond Morris «il bacio è stato inventato dalle scimmie che premasticano il cibo e imboccano i cuccioli con l’aiuto della lingua». Questo libro tesse una tramatura fitta di sollecitazioni, visioni, mescola sapientemente conoscenze diverse fino all’Intestino consacrato dalla Merda d’artista di Piero Manzoni, l’immaginario dei Capelli, il Sangue «Padrone del nostro colorito», la sua carica metaforica, «simbolo di tutto: fatica, rabbia, amore, ferocia», i «regni misteriosi» dei Genitali, un altro avvincente capitolo, la vergognosa Prostata dalla forma di «una castagnetta», poi la Mano della chiromanzia ma anche della cura. E, per ultimo, Lingiardi racconta il Cervello, il direttore d’orchestra di tutti gli organi, dove nasce il linguaggio, l’immaginazione e la coscienza, «la sede dei nostri punti di forza e di debolezza», che si nutre di relazioni e può deprimersi, quel «cane nero» di cui hanno scritto Virginia Woolf, la Plath e Foster Wallace: «Come stare sotto una campana di vetro a cui hanno risucchiato tutta l’aria, e tu non puoi respirare nemmeno un briciolo d’aria fresca».

Come scrive l’autore del suo libro aperto, denso di suggestioni ma dalla scrittura elegante e dal tratto sicuro: «A volte, il piacere, l’avventura e la bontà di una rotta sono il risultato dell’incontro di molteplici brezze. Citazioni e bibliografie finiscono per costruire dentro di noi un paesaggio al quale non solo è impossibile sottrarsi, ma in cui è bello naufragare».

Bibliografia e info Vittorio Lingiardi, Corpo umano, Einaudi, collana Frontiere, 2024, pp. 296. L’autore incontrerà il suo pubblico al LAC di Lugano mercoledì 19 febbraio 2025 alle ore 18.00; www.lac.ch

Immagine usata per la copertina di Corpo umano di Vittorio Lingiardi. (Einaudi)
Angelo Ferracuti

Il Martirio di San Bartolomeo di Valentin

Tesoro nascosto ◆ Alle Gallerie dell’Accademia di Venezia un santo condannato, vecchio e rassegnato

Gianluigi Bellei

All’inizio del Seicento la Chiesa di Roma, dopo aver conquistato le odierne Polonia, Austria, Germania e parte della Svizzera, pensa di aver contenuto l’avanzata dell’eresia protestante. Comincia di conseguenza un’intensa attività di propaganda dando l’incarico ai pittori di rappresentare da una parte l’estasi, come momento di comunione in Dio, e dall’altra la testimonianza del sacrificio degli antichi martiri e il loro coraggio sotto le torture.

Il testo di riferimento è il Martyrologium romanum di Cesare Baronio approvato nella prima versione da papa Gregorio XIII nel 1584.

Le grandi tele commissionate a Guercino, Valentin e Poussin per gli altari della basilica di San Pietro raccontano proprio le storie di martiri: santa Petronilla, i santi Processo e Martiniano e sant’Erasmo. Supplizi, dipinti fra orrore e commozione per gli atti di efferata crudeltà.

Raccontiamone uno: il Martirio di san Bartolomeo di Valentin de Boulogne alle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

Le Gallerie dell’Accademia sono il punto di riferimento cittadino, e non solo, per l’arte veneta. Troviamo capolavori come il Ritratto di gentiluomo di Lorenzo Lotto, la Sacra conversazione di Palma il Vecchio, i dipinti di Giovanni Bellini, ma soprattutto una grandiosa Ultima cena di Paolo Veronese il quale, convocato il 15 luglio 1573 dall’inquisizione per sospetto di eresia, muta il titolo dell’opera nel Convito in casa di Levi, come si chiama ancor oggi.

Le Gallerie dell’Accademia sono situate nel complesso di S. Maria della Carità che in origine, e fino al XVII secolo, aveva tre funzioni: chiesa, monastero, scuola. Nel 1750 sorge la Scuola dei pittori e scultori e col periodo napoleonico, e la soppressione degli istituti religiosi, diventa sede dell’Accademia di Belle Arti. Le opere presenti servono per il lavoro degli studenti. Nel 2004 con il progetto di restauro Grandi Gallerie, l’Accademia di Belle Arti viene trasferita all’ex ospedale degli Incurabili.

Il primo nucleo delle opere è costituito dai gessi della Collezione Farsetti e dai saggi degli allievi ai quali si sono aggiunte le raccolte Molin, Contarini, Renier e Manfrin. Dopo il passaggio delle Gallerie allo Stato, dal 1878 si procede con importanti acquisizioni. Prima di addentrarci nel dipinto di Valentin, vediamo chi è Bartolomeo. Di lui si sa poco; ne accenna il Vangelo di Giovanni identificandolo con Natanaele (o Nataniele). «Gesù lo vide che veniva a lui e dice di lui: Ecco veramente un Israelita in cui non è inganno». In ogni caso è un apostolo che predica in India, Etiopia, Armenia. Ma è soprattutto un martire, anche se non è specificato se il martirio avviene tramite crocifissione, scorticamento o decapitazione. Esiste un Vangelo apocrifo di Bartolomeo del X-XI secolo nelle versioni greche e latine, famoso per il colloquio fra Bartolomeo e il Diavolo che parla degli angeli, della creazione e della sua disobbedienza. Il fantastico colloquio

inizia con la presentazione: «Dapprima mi chiamavo Satanael, che significa messaggero di Dio, ma quando non riconobbi di essere modello di Dio, il mio nome fu chiamato Satana, che significa guardiano del Tartaro». Valentin oggidì è poco conosciuto anche se ai suoi tempi riscuoteva molto successo. Nasce il 3 gennaio 1594 a Coulommiers en Brie e muore, il 17 agosto 1632, nella Parrocchia di Santa Maria del Popolo a Roma. Valentinus filius Valentini de Boulogne e di Jeanne de Monthyon; probabilmente discendente da un bolognese. Anche di lui si sa molto poco. Figlio d’arte ha stu-

diato forse a Parigi o a Fontainebleau; arriva a Roma tra il 1609 e il 1615. Joachim von Sandrart afferma che è stato allievo di Vouet e che frequentava la bottega di Manfredi. Amico di Poussin, ha condotto una vita sregolata bevendo e fumando. Nel 1524 si iscrive al gruppo dei Bentvueghels con il nome di Amador, un sodalizio il cui motto è Bacco, tabacco e Venere. Giovanni Baglione racconta con dovizia di particolari la sua morte in giovane età. È protetto dal cardinal Barberini che gli commissiona diverse opere e dal papa Urbano VIII che lo incarica, nel 1629, di dipingere per la basilica di

In scena l’ombra del femminicidio

San Pietro il Martirio dei santi Processo e Martiniano. I personaggi raffigurati si muovono danzando in un clima esasperato. Opera che gli è valsa subito grande notorietà.

Seguace di Caravaggio, Valentin ha una pittura decisamente superiore a quella degli altri seguaci del Merisi. Nel 2016 il Metropolitan Museum di New York gli ha dedicato una grande mostra a cura di Keith Christiansen e Annick Lemoine.

Il Martirio di san Bartolomeo quando, nel 1871, entra alla Galleria dell’Accademia, è attribuito a Mattia Preti, poi a Jusepe de Ribera. Nel 1958 Roberto Longhi sostiene che sia di Valentin de Boulogne. Tesi confermata in seguito da Arnauld Brejon de Lavergnée e Jean-Pierre Cuzin. La scena è quella centrale del martirio. Bartolomeo, anziano, barba e capelli lunghi e bianchi, viene legato da un carnefice a una croce. Un altro inizia a tagliare la pelle della coscia sinistra. Lo sguardo di Bartolomeo è di rassegnazione, mentre quello degli altri due uomini di attenta concentrazione. Una chiarezza luminosa svetta su tutto il corpo del santo. Una scena tragica, orrorifica, macabra, dipinta con realismo caravaggesco e con una «peculiare attenzione alla resa lenticolare».

Dove e quando Martirio di san Bartolomeo Valentin De Boulogne 1613-1615 circa, olio su tela cm 122 x 165,5 Gallerie dell’Accademia, Venezia www.gallerieaccademia.it

Teatro ◆ La compagnia Divanoproject debutta al Teatro Foce con un racconto potente che ricorda l’Otello di Shakespeare

Giorgio Thoeni

La scoperta e, soprattutto, il buon uso di nuovi linguaggi teatrali è una sfida costante. E non sempre l’avere a disposizione grandi e sofisticati mezzi multimediali facilita l’impresa. La loro creazione richiede attenzione all’ambiente circostante e un’indubbia sensibilità a cui si aggiunge uno sforzo non indifferente per scoprire intime profondità, sentimenti nascosti e passioni latenti, in costante lotta contro la superficialità di cui siamo avvolti e ormai vittime consapevoli. Il teatro dimostra spesso di essere così uno degli strumenti ideali per riunire gli strumenti che servono: le idee, la scrittura, gli attori, la regia e una scena. Un’ovvietà? Non proprio. Per riunire il tutto e orientarlo verso un buon risultato, oltre che con l’intuizione e l’ascolto, occorre misurarsi con la conoscenza.

L’ha fatto e c’è riuscita la giovane compagnia Divanoproject in scena al Teatro Foce di Lugano per il suo debutto con Un live podcast, il progetto vincitore 2024 del bando te-

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stinscena, concorso biennale per una nuova drammaturgia, ideato e sostenuto dalla Fondazione Claudia Lombardi per il teatro.

Due autori (Margherita Fusi Fontana e Marzio Gandola), quattro attori (Maria Canino, Gionata Soncini, Michele Correra e Alessandra Curia, vincitrice del Premio Hystrio alla Vocazione 2024) e un regista (Gianmarco Pignatiello): come una formula magica.

Un live podcast prende le mosse dal formato più gettonato per l’informazione e l’intrattenimento digitale: il podcast. Un luogo della narrazione per eccellenza, un rifugio dell’ascolto, spesso una scelta libera e individuale. In scena, i giovani interpreti stanno realizzando in diretta radio un breve racconto sceneggiato di un episodio vissuto da uno degli attori. Sono alle prese con un concorso di podcast e vengono scelti per la finalissima. Occorre però trovare una nuova storia. Il gruppo sceglie così di far rivivere la sofferenza di Michele

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Ivan Leoni

lasciato dalla sua ragazza dopo una lite finita malamente con una spinta: senza conseguenze, ma comunque una spinta. Dunque una violenza percepita come una potenziale minaccia. Da lì nasce l’accostamento al tema del femminicidio attraverso, soprattutto, un intelligente parallelismo con l’Otello di Shakespeare, il sospetto di tradimento, la rabbia, l’abuso da cui

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Una foto di scena della compagnia Divanoproject, da sinistra: Maria Canino, Gionata Soncino, Michele Correra e Alessandra Curia. (Erica Mela Magagnato)

nasce l’ombra di un tragico epilogo. In una commistione fra realtà e finzione – dove l’attore rivive l’esperienza vissuta – la narrazione di Michele è accompagnata dal commento di Maria, e dagli interventi di Alessandra e Gionata, dove l’accostamento con l’opera del Bardo non invade il campo del racconto teatrale, ma resta come una traccia di una paura subli-

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minale, di una minaccia latente, purtroppo, nella sua triste attualità. L’intreccio è semplice e lascia emergere quanto quel conflitto, apparentemente privo di iniziale animosità, possa virare al peggio o quantomeno lasciarlo supporre.

I quattro attori, freschi di diploma dell’Accademia Paolo Grassi e di quella dei Filodrammatici di Milano, sono bravi, autorevoli, spigliati e si percepisce in loro il piacere per la scrittura scaturita da una dinamica di gruppo. L’accompagnamento della regia è misurata e ben fatta, giuste le luci e le scelte d’accompagnamento musicale lasciando che l’azione possa restituire la tematica in tutta la sua modernità senza dimenticare momenti di leggerezza e di sorriso. Un ulteriore risultato di rilievo generato dalla Fondazione Claudia Lombardi per il teatro che, ricordiamo, dal 2016 ha avviato un progetto volto a promuovere giovani talenti della drammaturgia contemporanea con testi inediti.

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Il Martirio di san Bartolomeo (Valentin de Boulogne, 1610-1620 ca.) si trova alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. (Wikimedia Commons/Sailko)

Due volte Campione sullo schermo

Film Festival ◆ Alle Giornate di Soletta e alla kermesse di Rotterdam si fa protagonista il Casinò dell’exclave italiana

Max Borg

La stagione dei festival europei include, tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, due appuntamenti importanti quali le Giornate di Soletta, da poco terminate, e l’International Film Festival Rotterdam, ora in corso; il primo è dedicato alla produzione elvetica, il secondo al cinema mondiale con un occhio di riguardo per le opere che pensano fuori dai canoni prestabiliti. Per una curiosa coincidenza di calendario di produzione dei rispettivi film, entrambi gli eventi presentano dei lungometraggi sullo stesso argomento: il Casinò di Campione d’Italia, protagonista di Architektur des Glücks a Soletta (22 - 29 gennaio) e Un Gran Casino a Rotterdam (30 gennaio - 9 febbraio).

Due progetti molto diversi a livello concettuale, accomunati dalla durata breve (entrambi intorno ai 77 minuti), dal sostegno della Ticino Film Commission e da un minimo d’ironia, che nel caso di Architektur des Glücks (letteralmente, «architettura della fortuna») si limita al titolo, che allude beffardamente all’origine del Casinò come luogo per il divertimento degli inizi e al suo attuale destino infausto, tra bancarotta e successiva riapertura, che ha mandato nel panico la cittadinanza di Campione, quel microcosmo italiano circondato dalla Svizzera, sulle rive del lago di Lugano.

È un lavoro molto preciso, quello che hanno fatto insieme lo zurighese Michele Cirigliano e il collega tede-

sco Anton von Bredow, originario di Amburgo per Architektur des Glücks: il loro film ripercorre la storia dell’edificio e del suo impatto sul territorio, con la consueta alternanza di interviste e immagini d’archivio, dove la gloria dei primi tempi, ripresa dalle telecamere di SRF e RSI, si contrappone al grigiore odierno. Un ritratto abbastanza convenzionale nell’esecuzione, ma comunque efficace nel suo obiettivo di veicolare il rapporto deleterio fra quel monumento all’edonismo pecuniario e le persone che, quasi nolenti, hanno avuto a che fare con esso: «Era quasi una scelta obbligata, ce l’avevi sotto casa», ricorda uno che ha lavorato nell’edificio, in una conversazione svoltasi a Melide, nel bel mezzo della Swissminiatur, altra grande attrazio-

ne locale che però non ha mai avuto problemi equiparabili a livello gestionale e finanziario.

Questo per quanto riguarda la produzione audiovisiva svizzera (con la partecipazione della Germania); dall’Austria, invece, proviene il già menzionato Un Gran Casino, con quel titolo volutamente a doppio senso che rientra nella poetica irriverente del suo autore, Daniel Hoesl. Si era già interessato a questioni elvetiche nel 2020 con il documentario Davos, presentato a Visions du Réel, dove si analizzava il contrasto fra chi in quella città ci vive e gli individui benestanti che vi si riuniscono ogni anno. In quell’occasione Hoesl aveva firmato la regia con la collega Julia Niemann, sua abituale compagna

d’avventure fino allo scorso anno (Veni Vidi Vici, satira su un uomo che uccide impunemente chiunque gli capiti per strada), mentre per Un Gran Casino ha lavorato da solo. Non che la cosa abbia influito su come il cineasta si avvicini alla materia, quel simbolo del capitalismo che lui trova esteticamente e moralmente ripugnante. Anche qui si parla di un certo grigiore, ma è espresso in termini visivi, con un bianco e nero che accentua il tocco un po’ surreale di Hoesl, il quale, oltre a mostrare con inquadrature statiche lo squallore generato dalla situazione poco stabile del Casinò, lo descrive con una voce narrante che è al contempo poetica e infuriata, mentre assistiamo al percorso di redenzione di un giocatore d’azzardo incallito

Dramma e ironia in terra di conflitto

Cinema ◆ Il documentario svizzero Riverboom racconta l’Afghanistan attraverso lo sguardo di tre reporter

Con oltre 7mila entrate in un mese nella Svizzera francese e 30mila in Francia, Riverboom è stato uno dei documentari svizzeri più visti del 2024. Nelle nostre sale è arrivato il 16 gennaio, riscuotendo un successo tale da essere ancora in programmazione. Un film che ha saputo catturare l’interesse del pubblico grazie a una formula vincente: un mix tra road movie e reportage, che ci porta in un Paese come l’Afghanistan sempre al centro delle cronache internazionali. Il tono del film riesce infatti a bilanciare il dramma del conflitto con momenti di sottile umorismo.

Ambientato qualche mese dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e nel pieno dell’intervento militare americano, Riverboom segue il viaggio di tre reporter: Serge, un giornalista determinato a portare a casa un articolo importante, Paolo, un fotografo spensierato, e Claude, un timido tipografo svizzero che si improvvisa cameraman acquistando una videocamera a Kabul. Il film, diretto da Claude Ba-

echtold, uno dei tre viaggiatori, offre diversi livelli di lettura. Il primo è quello del reportage, dove i tre documentano un Paese devastato dalla guerra. Il secondo è un viaggio di scoperta personale e reciproca tra i protagonisti, che si incontrano per motivi di lavoro, ma si ritrovano legati da

un’esperienza che cambia le loro vite. E, non da ultimo, Riverboom racconta anche l’incontro tra due mondi: quello dei reporter occidentali e quello del popolo afghano, ancora lontano dal ritorno al potere dei Talebani. Questo incontro avviene in maniera spontanea, attraverso l’umorismo che smorza la drammaticità della guerra. Il documentario offre uno sguardo unico su un Paese in conflitto, grazie a filmati ritrovati vent’anni dopo. «Le cassette di quell’esperienza – racconta Baechtold – erano finite nel garage di un amico. Un giorno mi ha chiamato per chiedermi se le volevo ancora o se poteva buttarle, e riguardandole, ho capito che mostravano un Afghanistan diverso, fuori dagli schemi, che un reportage tradizionale non avrebbe mai catturato». I protagonisti, pur trovandosi in un contesto di guerra, sperimentano momenti di umanità genuina, che li avvicinano a un popolo spesso dipinto solo attraverso le lenti della guerra. Tra le scene più sorprendenti, vi è quella dei viveri lanciati dagli aerei delle organizzazioni internazionali che finiscono in un campo minato, rendendoli quasi irrecuperabili. Altrettanto interessanti sono gli incontri con la popolazione e i militari afghani, che rivelano una realtà complessa, fatta anche di accoglienza inaspettata verso gli stranieri.

sotto l’ala protettrice – ma sarà davvero così, conoscendo il regista? – della dea del denaro.

Un mix di ingredienti potentissimi, che insieme creano un film in bilico tra dura realtà e stralunata fantasia, un pamphlet di humour nero la cui forza sta nel minimalismo esplicito con cui porta sullo schermo un emblema dell’opulenza più sfrenata, grazie a una regia senza fronzoli e un minutaggio che mai farebbe pensare ad ambizioni epiche come quelle sottintese nell’ira cinematografica di Hoesl.

E così quel gran casino/casinò viene adeguatamente ridimensionato, tramite l’esibizione della sua piccolezza (spirituale) su schermi decisamente più grandi.

Dal punto di vista formale, il documentario si distingue per l’uso originale di fotografie combinate con il commento fuori campo del narratore, spesso ironico e leggero. Questo stile, che ricorda il celebre La Jetée di Chris Marker (1961), intreccia il linguaggio visivo con quello verbale, creando una narrazione diversa dove le immagini statiche si fondono con le parole per costruire un racconto che riesce a coinvolgere lo spettatore, invitandolo a riflettere su quelle realtà.

In definitiva, Riverboom è un documentario che, pur trattando temi drammatici, riesce a farlo con un tocco di leggerezza, offrendo una visione intima e autentica di un Afghanistan mai visto, attraverso gli occhi di tre reporter che, quasi casualmente, si sono ritrovati a vivere un’avventura straordinaria e probabilmente irripetibile. È un’opera che non solo documenta, ma racconta la vita in tutta la sua complessità, con un approccio che mescola realtà e narrazione, creando un racconto profondo e per nulla scontato.

Un’immagine tratta dal film austriaco Un Gran Casino

Chiliha inventati?

GUSTO

Gli orsetti di gomma prima si chiamavano Orsi ballerini

Gli orsetti di gomma fanno felici i piccini e pure i grandi: ma chi li ha inventati?

Testo: Barbara Scherer

I dolciumi gommosi esistono fin dall’antichità. Gli antichi Egizi, ad esempio, miscelavano la linfa dell’ibisco con il miele per creare una composto denso ma molle: una specie di antico marshmallow. Ma i primi orsetti di gomma come li conosciamo oggi furono inventati solo nel 1922.

L’azienda Haribo (sigla che sta per: Hans Riegel Bonn) venne fondata nel 1920 da Hans Riegel a Friesdorf, vicino a Bonn, in Germania. I suoi orsetti gommosi originariamente si chiamavano «Orsi ballerini» ed erano più grandi e più sottili degli orsetti di oggi. Venivano realizzati usando come additivo la gomma arabica, una resina naturale.

La hit di Haribo: gli Orsetti d’Oro Infine, nel 1960, vennero lanciati sul mercato gli Orsetti d’Oro, oggi tanto celebri. Sette anni dopo, l’ufficio brevetti tedesco riconobbe ufficialmente agli Orsetti d’Oro il marchio di fabbrica. Oggi, 160 milioni di Orsetti d’Oro Haribo vengono prodotti ogni giorno in 16 stabilimenti in undici Paesi del mondo. Gli orsetti sono venduti in più di 120 nazioni.

Gli orsetti gommosi sono persino entrati nel Guinness dei primati. E questo grazie a Thomas Gottschalk: dal 1991 al 2015 il presentatore tedesco è stato il testimonial di Haribo. Il record mondiale per la più lunga partnership pubblicitaria.

Non per vegetariani

Ma cosa c’è negli orsetti? Oltre allo sciroppo di glucosio e allo zucchero, gli orsetti di gomma contengono anche gelatina, una proteina insapore ricavata dal tessuto connettivo animale. A rigore, quindi, gli Orsetti d’Oro Haribo non sono per vegetariani. Haribo non produce Orsetti d’Oro per loro. Oggi esistono però altri dolciumi gommosi adatti ai vegetariani. In alternativa alla gelatina si può infatti ricorrere alla pectina, un agente gelificante ottenuto dalla frutta, o all’agar-agar, che si ottiene dalle pareti cellulari delle alghe blu o rosse.

Oggi gli orsetti gommosi sono un vero e proprio prodotto di culto: non mettono più allegria solo come bontà da mordicchiare ma come motivo su tazze e magliette o sotto forma di ciondoli colorati su collane e orecchini.

Orsetti d’Oro Haribo 350 g Fr. 2.35
PREZZO BASSO

I valichi attraverso l’obiettivo di Spalluto

Pubblicazioni ◆ Un progetto fotografico che esplora i confini, i paesaggi e l’identità del territorio elvetico in un’edizione limitata

Gian Franco Ragno

Da più di una decina d’anni la Fondazione Artphilein di Gianfranco e Caterina de Pietri, oltre a promuovere ed esporre l’arte contemporanea della propria collezione, incoraggia e sostiene progetti editoriali di giovani fotografi della regione. Recentemente è stato il caso di Aline d’Auria, Tonatiuh Ambrosetti, Giuseppe Chietera e Fabio Tasca, senza dimenticare anche altre iniziative riguardanti artisti più maturi e affermati come Adriana Beretta e Marco D’Anna.

Quest’ultima produzione nell’autunno del 2024 riguarda il primo libro di Gabriele Spalluto (1995), giovane fotografo del Mendrisiotto, il quale ha studiato e lavorato a Zurigo: oggi insegnante, oltre che fotografo, è attivo altresì come artista, curatore e videomaker.

Il libro è il frutto di un impegnativo progetto, quello di testimoniare attraverso un preciso stile documentario – ovvero senza enfasi retoriche, interventi successivi e riprese secondo rigidi protocolli formali – i valichi stradali in Svizzera. Si è trattato quindi di riprendere ben centosettantacinque siti, dando vita a un volume di trecentocinquanta pagine: un’impresa condotta nell’arco di un anno, dal marzo 2022 al marzo 2023, confluita appunto in un corposo libro disegnato da Unfolded Zurigo e supervisionato da Giulia Brivio.

Le riprese, eseguite nei momenti di minor traffico, sono state attentamente pianificate per esaltare la purezza architettonica delle strutture

Eseguite anche grazie al permesso dell’Ufficio federale delle Dogane, trattandosi di punti sensibili, le riprese hanno come prima e immediata impressione il fatto di essere fatte, programmaticamente, nei momenti di minor traffico. La predizione per i momenti meno frequentati è data dalla volontà di far ritrovare nello scatto di questi complessi architettonici una sorta di originaria purezza, e far sì anche che la lettura formale sia il più agevole possibile. In questo modo, si leggono con meno disturbo le varie stratificazioni storiche del sito (ad esempio un edificio ottocentesco con il tipico bugnato, oppure un edificio più moderno nonché spesse volte le pensiline dal carattere più contemporaneo e modernista). Nel loro insieme, da un lato, que-

ste immagini danno l’impressione di una marcata eterogeneità, mentre dall’altro appaiano tutte sottilmente accomunate da alcuni elementi ricorrenti quali la bandiera svizzera, le sbarre bianco-rosse e la segnaletica. Il piacere nello sfogliare il volume risiede proprio nel fatto che ogni immagine è autonoma ma al contempo parte di un tutto, di un processo. Come detto, vi sono valichi più strutturati e dal grande impatto geometrico, in cui le moderne pensiline sembrano entrare perentorie nel campo visivo – su tutte l’immagine carica di tensione del valico di Chiasso Strada a Brogeda. Per altri, si tratta quasi di ritratti bucolici, ovvero una semplice indicazione tra i campi in aperta campagna (Beggingen, nel Canton Sciaffusa). Altre dogane che si appoggiano, sottolineandoli, a dei confini naturali – uno sperone, un canale o un fiume – che spesse volte definiscono il confine sia geografico sia politico (Gondo, Arzo, Ponte Tresa).

Il titolo del libro prende in prestito la famosa locuzione latina, Hic sunt leones (Ecco i leoni). Essa veniva inserita a margine delle mappe antiche per indicare le regioni sconosciute e pericolose. Un motto che oggi suona ironico.

Chi vive in questi distretti, come l’autore che è cresciuto nel Mendrisiotto, sa molto bene quanto sia frequente lo scambio tra le due regioni confinanti. E a parte le persone, ciò che attraversa molto più velocemente le frontiere sono oggi le merci, provenienti da ogni angolo del mondo; tutto appare interconnesso, il mondo sembra un unico negozio. L’autore, nel breve testo che accompagna il

progetto, si chiede «cosa sono i confini?». Sicuramente, sul piano metaforico, rappresentano la porta verso ciò che c’è di diverso, estraneo e straniero rispetto alla nostra identità, ma al tempo stesso, oggi più che mai, rappresentano quella sfida che consiste nell’oltrepassarli, per crescere, e per farlo bisogna necessariamente mettersi in una situazione di confronto.

Su un piano più generale riguardante la fotografia svizzera contemporanea sono stati molti gli autori

negli scorsi decenni che si sono interrogati sull’identità svizzera: penso ad esempio a un gruppo di autori riuniti in una grande esposizione Adieu la Suisse del 2012-13 (Nicolas Faure, Yann Goss, Jean-Luc Cramatte – oltre a Andri Pol, non presente in quella occasione). A questo gruppo aggiungerei anche il luganese Igor Ponti (1981), che nel 2014 pubblicò un libro intitolato appunto Looking for Identity, intorno agli stessi temi, per l’importante editore tedesco Hatje Cantz.

Gabriele Spalluto, in un certo senso, oggi, chiude il cerchio, collegando i singoli punti che definiscono i confini all’interno dei quali i suoi colleghi hanno svolto la loro ricerca. Ultima nota a conclusione, per i sempre più numerosi collezionisti di libri fotografici, riguarda l’edizione, ovvero di sole 250 copie.

Bibliografia

Gabriele Spalluto, Hic Sunt Leones, Lugano, Artphilein Edition, 2024.

a partire da 2 pezzi

zucchero, scatola Blackcurrant da 60 g a 4.46 invece di 5.95, busta Blackcurrant e Blueberry da 110 g a 5.70 invece di 7.60

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Battibecchi

La modesta ambizione dello scrittore povero

Suona il telefono. Rispondo.

«Buongiorno signor Mozzi, parlo con il signor Mozzi?», dice una voce maschile fioca.

«Sono Giulio Mozzi», dico. «Con chi ho il piacere di parlare?».

«Sono uno scrittore povero», dice la voce maschile fioca.

«Così povero da non avere neanche un nome?», dico.

«Sono povero perché non mi sono ancora fatto un nome», dice la voce maschile fioca.

«Ma un nome all’anagrafe ce l’avrà», dico.

«Ecco, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «anche lei è come tutti, signor Mozzi».

«Come tutti chi?», dico.

«Come tutti quelli che sono interessati al nome più che all’opera», dice la voce maschile fioca.

«Lei ha scritto un’opera?», dico.

«No», dice la voce maschile fioca.

Pop Cult

«Sono uno scrittore povero, così povero da non avere nemmeno scritto un’opera».

«Se lei non ha scritto un’opera», dico, «non è uno scrittore».

«Sono uno scrittore povero», dice la voce maschile fioca, «così povero che non sono nemmeno uno scrittore».

«E quindi», dico, «in che cosa ritiene che potrei esserle utile?». «Soldi», dice la voce maschile fioca. «Soldi?», dico.

«Signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «di che cosa crede che abbia bisogno un povero, signor Mozzi, se non di soldi?».

«E perché dovrei farle avere dei soldi?», dico.

«Perché io possa scrivere un’opera», dice la voce maschile fioca, «e così diventi uno scrittore».

«Ma, almeno, un’idea di opera, in mente, ce l’ha?», dico.

«No», dice la voce maschile fioca. «Nemmeno un’intuizione?», dico. «Gliel’ho detto, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «sono uno scrittore povero, signor Mozzi». «Allora, signor scrittore povero», dico, «mettiamo le cose in chiaro. Lei avrà sentito dire che lavoro nell’editoria, che faccio scouting, che porto alla pubblicazione nuovi talenti, e così via».

«Ho sentito che lei aiuta gli scrittori poveri, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca.

«Ma io come faccio», dico, «a far arrivare dei soldi a una persona che vuole essere scrittore ma non ha neanche un’idea di un’opera da scrivere?».

«Lei è crudele, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca.

«Lei non ha nulla da offrire», dico. «Perché sono povero, signor Mozzi!», dice la voce maschile fioca, ora

La «mitologia» degli anni 80 e 90

Chiunque sia uso a bazzicare quotidianamente il web e i suoi maggiori social network non avrà certo potuto fare a meno di notare il recente sviluppo di un curioso fenomeno – ovvero, la sempre più frequente tendenza a una forma di nostalgia e rimpianto assolutamente pervasivi nei confronti degli anni 80 e, soprattutto, 90. Negli ultimi mesi si è infatti potuto assistere alla proliferazione di centinaia di video (soprattutto shorts e reels, come YouTube e Facebook definiscono i filmati di breve durata), i quali offrono strazianti carrellate sugli oggetti e abitudini che hanno definito quei decenni, in un irresistibile «effetto nostalgia» dalle connotazioni quasi proustiane – al punto da rendere incredibilmente attraenti perfino le schermate dei vecchi computer MS-DOS, nuovi oggetti del desiderio all’interno di questo «amarcord» tecnologico.

Xenia

Naturalmente, le interpretazioni dei possibili motivi dietro questo fenomeno si sono sprecate: su tutte, quella che ne imputa la causa alla natura sempre più ipertecnologica del nostro mondo, in cui ci troviamo a trascorrere la maggior parte del tempo incollati a uno schermo – sia esso quello di uno smartphone, o del laptop da lavoro; un mondo in cui il contatto umano appare come sempre più lontano ed elusivo, quasi superfluo, facendo delle antiche forme di aggregazione qualcosa a cui guardare con rimpianto. Ma se ciò basta a spiegare la nostalgia verso lo stile di vita a cui eravamo abituati una trentina d’anni fa, non è comunque sufficiente a giustificare i commenti inteneriti degli utenti dei social, talmente simili tra loro da risultare pressoché intercambiabili: tutti sottolineano infatti la profonda commozione provata nel rivedere,

come in un flashback, le immagini di semplici oggetti di uso quotidiano di quegli anni – dalle musicassette e tessere del videonoleggio, fino ai gadget che rappresentavano veri e propri status symbol di allora, quali i primi walkman e gli indimenticati stereo boombox. In realtà, è chiaro che in questo amaro rimpianto collettivo (al quale nessuno sembra essere del tutto immune) giocano un ruolo cruciale gli eventi degli ultimi anni, i quali hanno inevitabilmente messo a dura prova soprattutto le generazioni più giovani; e se la pandemia è la prima a essere chiamata in causa, altre emergenze, tra guerre in corso e crisi economiche, hanno mostrato come, per molti versi, il nostro vecchio mondo abbia definitivamente perduto quell’innocenza in cui forse la maggior parte di noi aveva un tempo creduto. Il che porta

un pochino meno fioca, «Ma io voglio smettere di essere povero!».

«E che cosa vuole essere?», dico. «Io voglio essere benestante!», dice la voce maschile, ora vigorosa, «Voglio essere uno scrittore benestante!».

«E perché non ricco, allora?», dico. «Lei non ha il senso della misura», dice la voce maschile, ora indignata. «Io, non ho il senso della misura?», dico.

«Prima di diventare ricchi», dice la voce maschile, ora imperiosa, «bisogna diventare benestanti! E poi, ma solo poi, ricchi! E poi…».

«E poi?», dico.

«E poi nababbi!», dice la voce maschile, ora urlando. «Perché è questo che voglio diventare! Voglio diventare uno scrittore nababbo!».

«Si calmi», dico.

«E lei mi deve aiutare!», dice la voce maschile, ora a squarciagola.

«Lei deve procacciarmi dei contratti principeschi!».

«E, mi dica», dico, «quando avrà firmato un contratto principesco, immagino che le verrà in mente anche una storia da scrivere».

«Signor Mozzi», dice la voce maschile, ora di nuovo fioca, «quando avrò firmato un contratto principesco scriverò un’opera, e l’oggetto della mia opera sarà la vita dello scrittore povero».

«Mi sembra un colpo di genio», dico. «La vita dello scrittore povero, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «con tutti i suoi poveri drammi, le sue povere tristezze, i suoi poveri digiuni, la sua povera aridità, la sua povera povertà».

«Sarà un successo planetario», dico. «Ecco, signor Mozzi», dice la voce maschile fioca, «vedo che finalmente c’è arrivato. Se ha una penna sottomano posso dettarle l’Iban».

le persone tra i 35 e i 45 anni di età – ovvero, proprio il target che, quasi masochisticamente, si strugge di rimpianto davanti ai video di cui sopra –a tracciare un curioso parallelo con la propria infanzia: nell’amore per l’ingenua e arcaica tecnologia degli anni 80 e 90, i nostalgici sembrano così ricercare la loro stessa innocenza perduta, ricordo dell’età adolescenziale che la maggior parte di essi stava attraversando all’epoca; un sentimento irripetibile, come irripetibili sono la spensieratezza e naturalezza dell’infanzia – del tutto sovrapponibili, del resto, alla percezione di un mondo apparentemente più facile da navigare. E quale modo più semplice di riportare in vita tale innocenza che tramite la celebrazione della cosiddetta «cultura materiale» – ovvero, dei reperti tangibili della vita quotidiana, i quali, come si evince dalle compila-

tion video che furoreggiano ovunque in rete, includono gli ausili tecnologici e perfino i luoghi fisici simbolici dell’epoca, in una sorta di postmoderno studio archeologico. E allora, per quanto dolce «il naufragar in questo mare» possa apparire, forse occorre comunque anelare a una cura alternativa al rimpianto; benché il passare del tempo sembri condannarci a una forma di costante nostalgia, è ancora possibile ritagliarsi uno spazio che riporti la nostra anima a una dimensione maggiormente a misura d’uomo – a una società non più guidata soltanto dal servilismo verso una tecnologia ipertrofica e onnipresente, ma da un ritorno alla centralità della persona e dei sentimenti. In un meccanismo, infine, certo più costruttivo delle lacrime spese davanti all’immagine di un vecchio computer o di una videocassetta.

Treccine è una parola gentile, che associamo all’infanzia. In ogni donna evoca la bambina che è stata, l’accudimento di una madre che le spazzola e intreccia i capelli perché restino in ordine all’asilo o al parco giochi. Consuetudine intima e gesti che, adulta, non smetterà di rimpiangere. Forse è proprio per questo tenero rimpianto che le occidentali si sottopongono alla tortura dell’acconciatura afro. Molte africane la eviterebbero volentieri, se qualcuno inventasse un prodotto capace di allisciare i capelli per sempre. Scienza e pregiudizio convengono nel ritenere il riccio un difetto di natura. Eppure non c’è giovane donna bianca che prima o poi non voglia farsi le treccine. Questa aspirazione paradossale, Christelle l’ha scoperta quando abitava in Italia da alcuni anni. Arrivata col barcone, insieme al compagno che poi se n’era andato in Francia con un’altra, aveva sgobbato senza costrutto in

campagna, nella cucina puzzolente di un ristorante e, dopo la nascita della figlia, vendendo chincaglieria africana in spiaggia. La bambina, che aveva inizialmente pensato di affidare a un’amica, perché ostacolava le sue ricerche di un lavoro stabile, si era rivelata invece la sua dote. Allegra, sempre sorridente, attirava attenzioni come una calamita. A tre anni, le treccine di Kelya suscitavano complimenti esta-

tici, moine, soldi. Finché una ragazza le aveva chiesto di fargliele: uguali a quelle della piccola. Lì, sull’asciugamano, sotto l’ombrellone di uno stabilimento della costa adriatica. Christelle le aveva spiegato che è un’operazione delicata, necessita di molto tempo, perché i capelli delle bianche sono troppo fragili e sottili. E poi ci vogliono le perline e gli elastici per fermare ogni treccina, e le estensioni in fibra da intessere ai capelli veri, che lei non le aveva. Va bene, aveva detto la ragazza, vieni a farmeli a casa mia. Christelle le aveva chiesto cinquanta euro. La ragazza era stata la sua prima cliente: oggi le dispiace averne dimenticato il nome. Si era presentata con perline ed elastici multicolori, e una busta di cellophane contenente fasci di capelli sintetici lunghi sessanta centimetri. Esistono anche estensioni di capelli umani, ma costano di più. Sono di provenienza indiana, e quindi neri, e pure la decolorazione per adat-

tarli ai toni delle capigliature europee aumenta il prezzo. Christelle aveva impiegato quasi quattro ore – alla fine non sentiva più i polpastrelli. Ogni tanto la ragazza emetteva un gemito di sofferenza – perché per scriminare e torcere Christelle le tirava il cuoio capelluto come dovesse farle lo scalpo, e alla fine le faceva male la testa, come se l’avessero infilata in una pressa. Ma il risultato era eccellente. Meglio di Rihanna! aveva commentato la ragazza, guardandosi allo specchio. Christelle aveva infilato i cinquanta euro nel reggiseno. Non doveva dividerli col padrone della merce né col mediatore che le aveva affittato la porzione di litorale in cui vendere braccialetti e collanine: erano davvero suoi.

Le clienti successive sono state le amiche della ragazza, o vicine di ombrellone. Il lavoro che Christelle aveva cercato invano per sette anni aveva trovato lei. Adesso ha un sito web a suo nome: Parrucchiera afro. Cliccan-

do sulle icone, si visualizzano le varie acconciature, le fotografie, il listino dei prezzi. Ha la partita IVA ed emette ricevuta, se gliela chiedono. Non deve affittare un negozio, né spendere per luce e riscaldamento. Lavora a domicilio, il che le ha permesso di conoscere le case e le usanze degli italiani. Le lunghe sedute le hanno permesso di migliorare la lingua, perché la conversazione fa parte dell’esperienza. Affascinate dall’Africa, aliene dal sospetto di appropriazione culturale, le clienti fanno domande e ascoltano i suoi racconti. Non ha tenuto il conto di quante ne abbia avute finora. Ma tutte ora sanno dove si trova il Camerun. Ha risparmiato una somma considerevole. Intende acquistare un prodotto fenomenale di alta cosmetica. Due-tre trattamenti con la cheratina, e il crespo scompare per sempre. Christelle è la migliore parrucchiera afro dell’Italia adriatica. Ma avrà i capelli lisci di una donna bianca.

di Giulio Mozzi
di Benedicta Froelich
di Melania Mazzucco

CONSIGLI

Giallo uguale convenienza

Cartellini gialli ovunque si guardi. E presto ce ne saranno ancora di più: Peter Diethelm, direttore di Migros Supermercati SA, spiega la strategia dei prezzi bassi e perché continueranno a esserci le azioni

Testo: Kian Ramezani

Prezzo basso
Mele Gala: uno degli oltre 500 prodotti a prezzo basso della Migros

CONSIGLI

Peter Diethelm, quando si fa la spesa alla Migros, si notano sempre più cartellini gialli con la scritta «Prezzo basso». Cosa significano esattamente?

È semplice: i cartellini gialli indicano i prodotti che offriamo a prezzi da discount. Si tratta di prodotti di uso quotidiano che finiscono nel carrello dei nostri clienti con particolare frequenza. Che di questi cartellini gialli se ne vedano sempre di più è dovuto al fatto che stiamo offrendo sempre più prodotti a prezzo basso.

E quanti prodotti a prezzo basso ha la Migros?

Attualmente ce ne sono già più di 500 ed entro la fine dell’anno saranno più di 1000, tra cui prodotti bio e di marche molto apprezzate, sia proprie che terze. Abbiamo iniziato lo scorso ottobre con della frutta e verdura, ora seguono carne, pesce e latticini. Entro l’estate si aggiungeranno il pane e svariati articoli non alimentari. Non c’è più motivo di scegliere i discount.

Alla clientela è chiaro cos’è il prezzo basso o c’è il rischio che lo confonda con le azioni?

Un’azione è una riduzione di prezzo limitata nel tempo e che di solito è associata a una settimana specifica. Il prezzo basso, invece, è un prezzo standard da discount e che ha validità permanente. Diversi media, che confrontano regolarmente i prezzi nel commercio al dettaglio svizzero, hanno compreso che stiamo mantenendo la nostra promessa.

E che succede se i concorrenti diventano improvvisamente più convenienti?

Se i discount abbasseranno i prezzi in modo permanente, lo faremo anche noi sui prodotti già contrassegnati con la dicitura «prezzo basso». Per semplifica-

«Alla Migros sarà sempre possibile trovare la scelta migliore e nel contempo molti articoli a prezzo basso».

Presto anche sulla stampa Migros si potrà vedere quali sono i prodotti a prezzo basso. A complemento delle ricette e dei contributi redazionali continueremo a presentare prodotti dell’assortimento Migros, che verranno contrassegnati in giallo ogni volta che apparterrano alla categoria di quelli più convenienti.

re, abbiamo però rinunciato a proporre prezzi non arrotondati come CHF 1.99, proponendo invece gli articoli in questione a CHF 2.-. Grazie alla carta Cumulus e alla distribuzione dei buoni Cumulus, il prezzo finale risulta comunque inferiore a CHF 1.99.

I clienti stanno già avvertendo l’effetto dei prezzi bassi sul proprio portafoglio?

Come detto, si tratta principalmente di prodotti di uso quotidiano che fanno parte della normale spesa. Chi fa regolarmente la spesa alla Migros avverte senz’altro l’effetto dei prezzi bassi. Ed è proprio questo il nostro obiettivo: molte persone in Svizzera devono infatti combattere contro l’aumento del costo della vita. I costi di cassa malati, energia, alloggio e molto altro ancora stanno mettendo a dura prova il budget: è qui che noi come Migros vogliamo e dobbiamo intervenire per cambiare la situazione. Stiamo investendo 500 milioni di franchi per applicare prezzi più bassi che hanno un effetto positivo immediato sul portafoglio.

Entro la fine dell’anno dovrebbero esserci più di 1000 prezzi bassi. La Migros sta diventando un discount? No, la Migros è e rimane un dettagliante con un assortimento completo e molte marche proprie uniche, nonché con il più grande assortimento regionale del Paese (in Ticino con il marchio «I Nostrani del Ticino») e una vasta scelta di prodotti freschi. Inoltre la nostra clientela viene servita al banco della carne, del pesce e del formaggio da collaboratrici e collaboratori altamente qualificati e motivati. Nelle nostre panetterie della casa il nostro personale specializzato produce ogni giorno pane fresco mettendoci tanta passione. Così alla Migros sarà sempre possibile trovare la scelta migliore e al contempo molti articoli a prezzo basso.

Prezzi bassi sulla stampa Migros
PREZZO BASSO
Peter Diethelm, direttore di Migros Supermercati SA

La Corea per gourmet

TEMPO LIBERO

Emilio Balli nell’era dei globetrotter 472 giorni, un giro del mondo e un’eredità fatta di scoperte, incontri e meraviglie esotiche raccolte nella testimonianza di un valmaggese

Pagina 29

Una ricetta saporita per fusilli speciali Serve solo una salsa alla panna con prosciutto crudo e rucola, da presentarsi con un uovo sodo dal tuorlo morbido cosparso di pepe ai fiori

Pagina 30

Giocare a briscola tra le stelle Così le carte diventano terreno di battaglia dove sfruttare astuzia, fortuna e strategie che sfidano le leggi del tempo e dello spazio

Pagina 31

«Classiche» di regolarità più che di velocità

Adrenalina ◆ Marco Leva racconta la passione per le gare in cui ogni curva e ogni chilometro diventano una sfida al cronometro non per arrivare prima, ma per dimostrare precisione

A vincere non è chi arriva prima al traguardo, ma chi lo raggiunge discostandosi il meno possibile da tempi e medie prestabiliti. Non il più veloce ma il più regolare e preciso. Non per questo, le gare di regolarità – i classic rally, come vengono chiamate nel gergo – sono avare di emozioni. «Adrenalina? Ne scorre a fiotti, dalla prima all’ultima curva: il brivido non te lo dà la velocità, ma la continua lotta con contachilometri e cronometro», assicura Marco Leva, uomo… navigato di questo genere di competizioni.

Nelle Classiche le curve diventano una danza e ogni manovra una sfida mentale, dove precisione e sangue freddo sono tutto

Al suo attivo, Marco Leva ha parecchie gare di regolarità. «Ho perso il conto di quante saranno: ormai non sono più un pilota… di primo pelo» confida con un largo sorriso. «Ma ogni volta è come la prima. Una magia che puntualmente si ripete quando ti metti dietro al volante, giri la chiave del contatto e pigi sulla tavoletta dell’acceleratore».

Sono trascorsi dunque molti anni da quando nacque la passione per questo genere di competizioni: «Sembra ieri… e, invece, senza accorgermene sono passati quasi vent’anni. La prima competizione classica l’ho disputata nel 2006. Inizialmente con le prove di regolarità classica, quelle con i “pressostati” (i “tubi” nel gergo per chi ha familiarità con questo ambiente), che servono a rilevare il tempo tra un settore e l’altro del rally. Una volta fatto il rodaggio, ho cambiato marcia e ho provato a salire un ulteriore gradino, cimentandomi anche con le prove di regolarità sulla media oraria, che per certi versi sono anche più impegnative di quelle a tempo, ma anche più emozionanti».

Le grandi classiche, Marco Leva le ha corse quasi tutte, macinando chilometri e chilometri sulle strade dell’intera Europa, al volante della sua Lancia Fulvia 1600 HF, «un gioiellino a cui sono molto affezionato, e che mi ha accompagnato in questo viaggio da brivido», che l’ha portato, fra l’altro, al Rally di Montecarlo versione classica, forse la prova sulle strade europee più rinomata e prestigiosa, a cui ha preso parte diverse volte: «La mia prima volta a Montecarlo è stata nel 2010: quella è stata anche la mia prima volta in una manifestazione di regolarità a media oraria. Praticamente è stato amore a prima vista: da quella volta, sempre più spesso ho partecipato a gare di questo genere,

anche se a quei tempi non erano così diffuse in Europa: gran parte di questi eventi erano concentrati in Francia, e in particolare nell’entroterra di Nizza. Con gli anni, però, le cose sono cambiate, e oggi se ne trovano un po’ dappertutto. In Italia, ad esempio, è pure nato un vero e proprio campionato nazionale a media. E non è cosa da poco metterlo in piedi, considerando tutti gli aspetti che si devono tenere in considerazione».

In queste gare l’emozione è pura tensione: non conta la velocità, ma il controllo totale del mezzo, secondo per secondo fino alla fine

Tra questi un dettaglio spicca certamente per importanza fondamentale: «Servono prima di tutto le strade, quelle giuste per poter disputare una prova che si basa sulla media oraria. Mi spiego meglio: dovendo attenersi al codice stradale, disputare una prova che prevede una media di massimo 50 km/h nelle campagne della Pianu-

ra padana, lungo interminabili rettifili non avrebbe granché senso. Ma con saliscendi, curve e quant’altro, il discorso cambia parecchio… Sotto questo aspetto la Svizzera, e in particolare il Ticino, con la sua morfologia, ha un potenziale enorme per le gare di regolarità».

Tornando alle emozioni, Marco Leva non può dimenticare le gare che maggiormente gliele hanno fatte provare: «Ce ne sono due il cui ricordo ancora oggi mi fa venire la pelle d’oca. Indimenticabile resta la partenza del Rally di Montecarlo del 2011, per l’occasione scattato da Glasgow, in Scozia. Lungo le vie del centro cittadino si erano radunate parecchie persone per seguire le fasi iniziali di quella competizione: sfilare nel mezzo di due ali di folla festante è stato qualcosa di pazzesco. Non ho mai visto così tanta gente schierata per assistere alla partenza di una gara. Purtroppo in quella tappa iniziale mi si è rotto un perno del cambio. L’abbiamo riparato, ma poi sono arrivato fuori tempo massimo al controllo finale di quella frazione, a Mon-

tecarlo, e la mia gara è finita lì…». E sempre alle strade del regno monegasco è legato il secondo ricordo più intenso di Marco Leva in fatto di competizioni di regolarità. «L’anno seguente, nel 2012, invece, il Rally di Montecarlo (che tradizionalmente si disputa a cavallo tra fine gennaio e inizio febbraio) è stato caratterizzato da una nevicata terrificante, cosa che ha aggiunto ulteriore suspense alla gara. Per quello che mi riguarda è stata un’edizione memorabile: mi sono parecchio divertito a guidare in quelle condizioni!».

I motori, dunque, nel cuore, tra le ragioni che hanno spinto Marco Leva a mettersi dietro al volante per coltivare questo hobby agonistico: «Essenzialmente coltivo fin da quando ero bambino la grande passione per i motori, le auto e per gli sport motoristici, in particolare per i rally, che ho sempre avuto nel cuore. Quello di correre in macchina era un sogno che coltivavo già da ragazzo, un sogno però che non mi sono mai potuto permettere dal profilo finanziario. Almeno finché non ho scoperto il

mondo delle competizioni di regolarità, dove in fin dei conti puoi correre in macchina a costi tutto sommato accettabili e alla portata di tutti». Sessantadue anni all’anagrafe, di spegnere il motore Marco Leva non vuole ancora sentir parlare: «Il bello dei Rally Classic è che fondamentalmente si possono disputare anche da non più giovanissimi, come il sottoscritto, anche perché per prendervi parte non sono richieste particolari preparazioni fisiche. E poi, perché all’atto pratico, l’adrenalina che ti scorre nelle vene è tanta e tale per cui il tuo corpo è quasi “immune” alle sollecitazioni della strada o di un percorso sconnesso. Gli acciacchi, semmai, li percepisci dopo, a motore spento. Ma a quel punto sei così stanco per i chilometri percorsi che anche i dolori passano un po’ in secondo piano; basti considerare che quasi per ogni singola tappa stai in ballo, tra preparativi, guida e briefing finali, per un’abbondante dozzina di ore, ritmi che se fatti per diversi giorni consecutivi alla lunga si fanno sentire».

La Lancia Fulvia 1600 HF di Marco Leva.
Moreno Invernizzi

Balli, il primo ticinese a circumnavigare il globo

Bussole ◆ La straordinaria avventura tra continenti e culture del XIX secolo è raccontata attraverso lettere e fotografie ne Il giro del mondo in 472 giorni

Nel 1872 non si parlava d’altro: il giro del mondo! Per cominciare, un famoso scrittore, Jules Verne, aveva appena pubblicato con enorme successo Il giro del mondo in ottanta giorni. La trama è nota: Phileas Fogg per scommessa s’impegna a compiere il giro del mondo nel minor tempo possibile. Dopo mille peripezie il gentiluomo inglese riesce nell’impresa, ma solo grazie a un evento imprevisto (non vi diremo quale, per lasciarvi il piacere della scoperta). Naturalmente dei Paesi che attraversa Fogg vede poco o nulla, incalzato com’è dall’orologio, anche se il viaggio gli apre quanto meno nuovi orizzonti sentimentali, dopo il salvataggio di una vedova indiana, destinata al rogo: «Che cosa aveva portato di straordinario da questo viaggio? Nulla, direte voi? Nulla, è vero, se non una donna graziosa, che – per quanto improbabile possa sembrare – lo rese l’uomo più felice… Davvero, non avrebbe mai immaginato che, per fare il giro del mondo, bastasse una donna».

Nello stesso anno 1872, ma con molto più agio, il primo agente di viaggio, Thomas Cook, conduce una comitiva di una decina di turisti attorno al mondo «a prezzo fisso e tutto compreso», percorrendo 25mila miglia in 225 giorni. Diventerà poi un’offerta regolare negli anni seguenti.

Nell’Ottocento, mentre le rotte si allargano e le distanze si accorciano, il viaggio diventa simbolo di progresso e scoperta

Sino a quel momento il giro del mondo era stato un’impresa difficile e rischiosa, roba da esploratori. Nel settembre 1522 la spedizione guidata da Ferdinando Magellano, capitano portoghese al servizio della Spagna, era riuscita a tornare a Siviglia, da dove era partita tre anni prima, dopo aver circumnavigato per la prima volta il globo. Ma molte erano le ombre, poiché era tornata una sola nave di tre che erano partite, oltretutto in condizioni miserevoli e senza il gran capitano, ucciso dagli indigeni in un’isola delle Filippine. Avventurieri ed esploratori, nei secoli seguenti, furono anche gli imitatori di Magellano: Francis Drake, Louis-Antoine de Bougainville e James Cook. Ancora negli anni Trenta dell’Ottocento il giro del mondo di Charles Darwin è una spedizione scientifica e non certo un viaggio di piacere; non a caso il grande scienziato tornò con i fondamenti della teoria dell’evoluzione. Nel 1872 però due novità avevano cambiato interamente la prospettiva. Il 10 maggio 1869 a Promontory Summit, Utah, le due maggiori compagnie ferroviarie americane, la Union Pacific e la Central Pacific, collegano i loro binari realizzando la prima ferrovia transcontinentale degli Stati Uniti. Grazie a una recente invenzione, il telegrafo, la notizia si diffonde rapidamente in tutto il Paese, ancora avvolto nei lutti della Guerra di secessione. Il nuovo collegamento ferroviario consente di andare dalla costa orientale a quella occidentale degli Stati Uniti in pochi giorni anziché in diversi mesi e apre la via per il Pacifico. Soltanto pochi mesi dopo, il 17 novembre 1869, dall’altra parte del mondo la società elegante si dà

appuntamento a Port Said, in Egitto, per l’inaugurazione del Canale di Suez. Grazie al nuovo collegamento tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, per raggiungere l’Asia non è più necessario circumnavigare l’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza. L’India, dominio della corona inglese, è sempre più vicina. Grazie a tutte queste novità, negli

anni Settanta dell’Ottocento è possibile girare intorno al mondo in veste di turisti o, come si diceva allora con un nuovo termine, globetrotter. Uno di questi primi curiosi è un giovane ticinese, Emilio Balli, valmaggese d’origine, nato a Locarno.

Nel 1878, a soli 23 anni, Balli aderisce alla crociera all-inclusive proposta dalla Société des Voyages d’Études Autour du Monde (SVEAM) di Parigi. Già prima d’imbarcarsi a bordo della nave Junon, Balli compie un giro del mondo in miniatura all’Esposizione universale di Parigi del 1878, dove ogni Paese mostra il meglio della sua produzione industriale e culturale. Poi si parte davvero.

La comitiva comprende una ventina di viaggiatori, tutti uomini, tre svizzeri. Il viaggio s’interrompe però bruscamente a Panama, a causa di problemi economici degli organizzatori. Dopo qualche incertezza Emilio Balli decide di continuare per conto proprio, con un amico conosciuto in viaggio, appoggiandosi alla rete di diplomatici, mercanti e missionari europei sparsi per le colonie: «Bene o male, a piedi, a nuoto, in vettura o in canotto questo mondo birbone lo girerò ugualmente» scrive in una lettera alla famiglia.

Dovendo trovare di volta in volta nuove soluzioni, il viaggio di Balli s’allunga rispetto alle previsioni e durerà alla fine sedici mesi. L’itinerario resta quello individuato dai primi globetrotter : Londra, New York, Salt Lake City, San Francisco, Yokohama, Hong Kong, Singapore, Calcutta, Bombay, Aden, Suez, Alessandria. Tra le attrazioni più ricercate le cascate del Niagara, il gigantesco Buddha di bronzo di Kamakura, la Grande muraglia cinese, il Taj Mahal, le piramidi. Ma Balli ricorda con particolare commozione anche l’incontro in California con la numerosa colonia di ticinesi emigrati, dove per qualche giorno riscopre il piacere di parlare in dialetto.

Dopo un’iniziale diffidenza, il Giappone diventerà la tappa più significativa del lungo viaggio. Pochi anni prima, al Paese era stata imposta con la forza l’apertura ai commerci internazionali, dopo un lungo periodo di isolamento. In quella fase di transizione tra passato e futuro traboccava di oggetti meravigliosi, che Balli spedisce a casa in numerose casse affidate alle grandi compagnie di navigazione. E in Giappone si erano stabiliti anche diversi fotografi, dai quali il giovane ticinese acquista centinaia di immagini.

Dopo il suo ritorno a casa, Emilio Balli sarà direttore del Museo archeologico di Locarno e non farà più grandi viaggi, come se quel giro del mondo avesse soddisfatto tutti i suoi sogni giovanili. Solo di recente dagli archivi di famiglia sono riemerse le lettere scritte ai fratelli, così come le fotografie e gli oggetti acquistati come souvenir. Dopo una piccola quanto curata mostra allestita presso il Museo di Valmaggia a Cevio lo scorso anno, il ricordo di quella straordinaria impresa turistica è affidato a un coloratissimo e documentato volume dell’editore Armando Dadò. È forse inevitabile un sussulto di nostalgia nei lettori; nel tempo dei voli intercontinentali, il giro del mondo ha perso molto del suo significato originario, ma proprio esperienze come quelle di Emilio Balli hanno aperto la via al turismo internazionale (e al mondo globale).

Bibliografia

Il giro del mondo in 472 giorni. La testimonianza di un globetrotter svizzero 1878-1879 a cura di Alessandro Botteri Balli, Raphaël Pieroni e JeanFrançois Staszak, Armando

48 CHF.

Dadò Editore, 200 pp.,
Mappa dell’itinerario del viaggio intorno al mondo (1878-1879) di Emilio Balli. (Responsiva, Ticino); sotto: pubblicità per l’agenzia di viaggi Thomas Cook, circa 1902; in basso da sinistra a destra: «Ho dunque una piccola carrozzella verniciata, a due ruote, tirata da un buon Giapponese (…)», Yokohama, 20 febbraio 1879; e souvenir orientali.

Ricetta della settimana - Fusilli alla panna con prosciutto crudo

Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

2 scalogni

2 c d’olio d’oliva

½ cc di farina

1 dl di brodo di verdura

2,5 dl di panna semigrassa sale

noce moscata

100 g di prosciutto crudo

50 g di rucola

2 uova

400 g di fusilli pepe dal macinapepe

Preparazione

1. Tritate molto finemente gli scalogni. Soffriggeteli bene nell’olio a fuoco medio poi cospargeteli di farina. Aggiungete il brodo e lasciatelo sobbollire finché si riduce della metà.

2. Aggiungete la panna e proseguite la cottura, finché la salsa lega e diventa cremosa. Insaporite la salsa con f leur de sel e noce moscata.

3. Tagliate il prosciutto a strisce e tritate grossolanamente la rucola.

4. Cuocete per circa 8 minuti le uova, poi estraetele dall’acqua e lasciatele intiepidire. Sgusciatele e dividitele a metà.

5. Nel frattempo, lessate i fusilli al dente in acqua salata.

6. Scolateli e fateli sgocciolare bene.

7. Mescolate la pasta con la salsa, il prosciutto e la rucola. Servite ogni porzione di pasta con un mezzo uovo e cospargete con una macinata di pepe.

Preparazione: circa 30 minuti.

Per persona: circa 28 g di proteine, 28 g di grassi, 77 g di carboidrati, 670 kcal.

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Giocare a briscola nello spazio profondo

Colpo critico ◆ Dai tavoli d’osteria ai viaggi interstellari: così i giochi di carte possono unire tradizione e fantascienza

Alcuni libri ritornano quando meno te lo aspetti. Magari credi di averli dimenticati, ma qualcosa fermenta nell’ombra. Finché una parola, uno sguardo, un evento minimo – la luce che cambia in una stanza, l’arrivo di un treno, una partita a carte – ti riporta un personaggio perduto. A me è accaduto con Niccolò Machiavelli. Il gioco, come la vita, è fatto di incertezze, così, mentre Machiavelli rifletteva sulle sue mosse, anche oggi ci si può ritrovare a navigare tra il calcolo e l’imprevedibile

Non parlo dell’uomo vissuto fra il 1469 e il 1527, e nemmeno dell’autore del Principe o della Mandragola. Il Machiavelli che mi è tornato in mente appare come personaggio in un romanzo di Guido Arpino: Le mille e una Italia (1960; Lindau, 2011). L’avevo letto a scuola, in seconda media. Racconta la storia di Riccio, un ragazzo siciliano che attraversa l’Italia per raggiungere suo padre al traforo del Monte Bianco. Nel percorso s’intrecciano la storia e la geografia, tanto che Riccio incontra uomini e donne celebri di varie epoche. Nella campagna intorno a Firenze si ferma in un’osteria dove quattro uomini giocano a carte. Tre sono grossi, rozzi e ir-

suti, mentre il quattro è più minuto e dall’aspetto signorile. Gli energumeni schiamazzano e giocano in maniera istintiva. Il quarto invece borbotta fra sé lunghe elucubrazioni tattiche, pensando a quale sia la mossa migliore. L’oste si rivolge a lui chiamandolo «signor Machiavelli».

Alla fine, nonostante i suoi piani tortuosi, Machiavelli viene sconfitto: «Tutti i suoi calcoli si svelarono deboli e astrusi di fronte allo schieramento di quei tre omaccioni, che avevano in mano carte buone. […] “Signor mio, paga lei le bottiglie,” dissero poi all’uomo che si lisciava la barba, pensieroso, con le delicatissime dita. Il signore assentì, senza neppure guardarli. Il suo occhio mirava lontano, nero e vellutato, occupato in strategie che quei forzuti miserabili non avrebbero mai potuto capire».

È evidente l’ironia di Arpino, che ritrae il grande politico mentre subisce l’ennesimo rovescio della fortuna. Ho ripensato a questa scena durante una partita a Luz (Taiki Shinzawa, Iello 2024). È una variazione della briscola per 3-5 partecipanti: c’è l’obbligo di rispondere al seme, chi gioca il valore più alto vince, un seme conta più degli altri. Con una particolarità: i giocatori guardano solo il dorso delle proprie carte, colorato secondo il seme. Io potrò sapere, per esempio, di avere quattro carte rosse, ma senza distinguerne i valori; in compenso, conoscerò le carte

Giochi e passatempi

Cruciverba

Lo sapevi che i girasoli seguono il sole…

Scoprirai il resto della frase a soluzione ultimata leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 8, 7, 2, 10)

degli altri giocatori. Con queste premesse dovrò fare una previsione sulle mani che m’impegno a prendere, pur senza vedere l’arsenale di cui dispongo. Luz mette allegria: è impagabile il brivido di posare una carta scoprendo solo in quel momento il suo valore. Bisogna fare previsioni, azzardare ipotesi, studiare gli occhi degli avversari cercando indizi… in poche parole, ci si trova in una situazione simile a quella del povero Machiavelli di Arpino.

La scena del romanzo è ispirata probabilmente dalla Lettera a Francesco Vettori, scritta nel 1513, nella quale Machiavelli racconta all’amico i pomeriggi passati a «ingaglioffirsi» all’osteria e gli annuncia la prossima pubblicazione del Principe. Quando ho ritrovato il romanzo e ho riletto la scena, mi sono chiesto quale gioco avrei potuto suggerire a Machiavelli e agli «omaccioni». Se amavano le carte, forse avrebbero apprezzato

The crew: alla scoperta del pianeta Nove (Thomas Sing, Kosmos 2019; Giochi Uniti, 2020). È una variante cooperativa della briscola, che detto così suona come un paradosso. Eppure funziona: i partecipanti (da 3 a 5) devono compiere una serie di missioni di difficoltà crescente, rispettando alcune condizioni (per esempio: un certo giocatore deve prendere una certa carta; anche se aiutato dagli altri, non è sempre facile). In questo modo, almeno, Machiavelli e i suoi amici d’osteria avrebbero perso o vinto tutti insieme. The Crew è ambientato nello spazio: i giocatori sono astronauti che devono imparare a comunicare in maniera tacita, per poi imbarcarsi insieme alla scoperta di un nuovo pianeta. Non posso fare a meno d’immaginare Machiavelli e i suoi nerboruti compagni a bordo di un’astronave diretta verso l’ignoto interstellare, oltre le più remote galassie. Di certo l’autore fiorentino avrebbe apprezzato. Infatti s’interessava di tutto, era curioso e dotato di una mente aperta. Così lo descrive lo studioso Maurizio Viroli: «Ama vivere di cose gravi e leggere. Pensa che nella vita ci debba essere posto per le une e per le altre. Ritiene in questo di seguire la natura e non si cura del giudizio dei moralisti e dei noiosi, per i quali la vita deve essere rivolta sempre alle cose importanti e serie» (Il sorriso di Niccolò, 1998; Laterza 2018).

ORIZZONTALI

1. Un suonatore singolare

7. Nome femminile

8. Le iniziali del matematico Torricelli

9. Ambito Territoriale Ottimale

10. Piccolo gruppo

11. Termine di paragone

12. Giro a Londra

13. Ambienti bui e tetri

17. Dorso, schiena

18. Non comunica con il mare

19. Albero tropicale

20. Abbreviazione di una formula di rispetto

21. Saluto musulmano

23. Ci... seguono in cucina

24. Parti di superficie delimitate

25. Il prefisso che dimezza

27. Così è il chiarore lunare

28. Termine di paragone

VERTICALI

1. Un attore comico di nome Alessandro

2. Vergogne, disonori

3. L’attore Gullotta

4. Le iniziali dell’attrice Spada

5. Ha potere per operare miracoli

6. Tutt’altro che tonico

10. Parte centrale e vecchia del tronco di un albero

12. Può seguire disco e panino...

13. Respiro, alito in poesia

14. Valle, distretto del Pakistan e anagramma di grana

15. Tigre senza vocali

16. Un romano senza mano

17. Usate nella riproduzione vegetale

19. Canto senza fine

21. Suo a Parigi

22. Aggettivo possessivo

24. Ai piedi delle ragazze

26. Tra «l» e «o»

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi,

intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie

esclusivamente

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo
Ne Le mille e una Italia (1960; Lindau, 2011) di Guido Arpino, il protagonista, Riccio, arriva in un’osteria della campagna fiorentina, dove tre uomini irsuti giocano a carte con Machiavelli (sopra, nel ritratto di Santi di Tito). (Wikimedia)

Hit della settimana

4. 2 – 10. 2. 2025

16.65

Carta per uso domestico Plenty Original, FSC® in conf. speciale, 16 rotoli 40%

invece di 27.80

Mele Golden Svizzera, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.20) 0% 1.–

1.54

invece di 2.20 Le Gruyère piccante AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato 30%

di

Fino a esaurimento dello stock. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti.

1.60 invece di 2.30

Cotolette di collo di maiale marmorizzate IP-SUISSE per 100 g, in self-service 30%

8.80 invece di 12.60

Cornetti al prosciutto Happy Hour M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 24 pezzi, 1008 g, (100 g = 0.87) 30%

Validi gio. – dom.

imbattibili weekend del Prezzi

Fondue Gerber

L'Original o Moitié-Moitié, per es. L'Original, 2 x 800 g, 20.90 invece di 29.90, (100 g = 1.31), offerta valida dal 6.2 al 9.2.2025 conf. da 2 30%

6.2 al 9.2.2025 a partire da 3 pezzi

Settimana Migros

4. 2 – 10. 2. 2025

1.54

invece di 2.20 Le Gruyère piccante AOP circa 250 g, per 100 g, prodotto confezionato

Chips Zweifel

175 g e 280 g, per es. alla paprica, 175 g, 2.94 invece di 4.20, (100 g = 1.68)

invece di 12.60 Cornetti al prosciutto Happy Hour M-Classic prodotto surgelato, in conf. speciale, 24 pezzi, 1008 g, (100 g = 0.87)

1.60 invece di 2.30 Cotolette di collo di maiale marmorizzate IP-SUISSE per 100 g, in self-service

Mele Golden Svizzera, vaschetta da 500 g, (100 g = 0.20) 0% 1.–

Patate resistenti alla cottura Svizzera, sacchetto da 1 kg 1.–

Già 500 amatissimi prodotti a prezzo basso permanente

2.80

Chorizo M-Classic

Spagna, 150 g, in self-service, (100 g = 1.87)

1.85

Yogurt drink Bifidus al moca 500 ml, (100 ml = 0.37)

5.70

Mini Babybel rete da 12 x 22 g, (100 g = 2.16)

2.15 Fettine di pollo M-Classic

Svizzera, per 100 g, in self-service

1.85 Latte pastorizzato Migros Bio 1 litro

1.65

Insalata mista Anna's Best 260 g, (100 g = 0.63)

3.50 Panna intera UHT Valflora, IP-SUISSE 500 ml, (100 ml = 0.70)

PREZZO BASSO

3.15

Burro speciale Valflora 200 g, (100 g = 1.58)

–.65 Mirtilli M-Classic

Offriamo già 500 prodotti a prezzo discount: da M-Budget alla qualità bio. I prezzi bassi si trovano su tutto l’assortimento e includono i prodotti preferiti dalla nostra clientela, rendendo gli acquisti sensibilmente più convenienti per tutti. Ma non è tutto: stiamo già lavorando per offrire ulteriori prezzi bassi.

4.95 Capri-Sun multivitaminico

10 x 200 ml, (100 ml = 0.25)

2.95

Formaggio fuso Gruyère

10 fette, 200 g, (100 g = 1.48)

2.25 Corona croccante IP-SUISSE

320 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.70)

–.50 Lievito in polvere Pâtissier

10 x 15 g, (100 g = 0.33)

2.80

Maionese à la française Thomy 265 g, (100 g = 1.06) 1.55

1.95

Tonno rosa sott'olio M-Classic, MSC

155 g, (100 g = 1.26)

4.95

Nutella

750 g, (100 g = 0.66)

1.20 Cocco grattugiato M-Classic

200 g, (100 g = 0.60)

Passata Alnatura prodotto vegano, 690 g, (100 g = 0.22)

1.40

Fiocchi d'avena integrali fini M-Classic 1 kg, (100 g = 0.14)

1.90

Cioccolato Kinder 100 g

3.40 Sacchetti per rifiuti Cleverbag

35 litri, 20 pezzi

Fresche, croccanti e ricche di vitamine

Per scegliere i broccoli più freschi possibile, bisogna controllare che abbiano un colore verde intenso e foglie e gambi croccanti. Avvolti nella pellicola trasparente, i broccoli si conservano per circa tre giorni nel cassetto delle verdure del frigorifero. CONSIGLIO FRESCHEZZA

3.60

2.80

1.20

2.80

Migros Ticino
Formentino
Insalata invernale
Frutti della passione Colombia, rete da 3 pezzi, (1 pz. = 0.40)

Pesce e frutti di mare

Quando la pesca è

buona

23%

Pesce fresco Anna's Best in vaschetta per la cottura al forno filetto di salmone al limone e coriandolo, filetto di merluzzo con pistacchi e filetto di salmone selvatico con aneto, per es. filetto di salmone al limone e coriandolo, ASC, d'allevamento, Norvegia, 400 g, 9.95 invece di 12.95, in self-service, (100 g = 2.49)

Carne soda, sapore morbido

25%

8.95

invece di 12.–

Con il 75% di filetti di pesce da pesca selvatica

Filetti di orata con pelle M-Classic, ASC d'allevamento, Turchia, 350 g, in self-service, (100 g = 2.56)

6.95 invece di 11.90

Filetti Bordelaise Pelican, MSC prodotto surgelato, 2 x 400 g, (100 g = 0.87)

Da succosa a saporita

5.50

Migros Ticino

4.95

CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

Le cotolette di maiale restano belle succose se preparate correttamente: prima di cuocere la carne, portarla a temperatura ambiente e condirla con sale e pepe. Rosolarla poi in una padella calda per due o tre minuti su ogni lato e metterla in forno a circa 130 gradi fino a raggiungere la temperatura interna desiderata (noi consigliamo circa 65 gradi).

Formaggi e latticini

Freschi, cremosi e irresistibili

1.10

Tilsiter dolce circa 300 g, per 100 g, prodotto confezionato 21%

invece di 1.40

conf. da 3 20%

7.05

invece di 8.85

Emmentaler e Le Gruyère grattugiati, AOP 3 x 130 g, (100 g = 1.81)

Cottage cheese disponibile in diverse varietà, per es. M-Classic al naturale, 450 g, 2.55 invece di 3.–, (100 g = 0.57) 15%

2.25 invece di 2.70

Caseificio Leventina per 100 g, prodotto confezionato 16%

Raclette Gottardo 300 g, (100 g = 2.53) 15%

7.60

invece di 8.95

1.85 invece di 2.20

Formaggella ticinese 1/2 grassa per 100 g, prodotto confezionato 15%

Migros Ticino

Tutta la varietà delle piante, dall'avena alle mandorle

a partire da 2

20%

Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi per es. macchiato, 230 ml, 1.68 invece di 2.10, (100 ml = 0.73)

Tutto l'assortimento Alpro per es. This is not M*lk 3,5%, 1 litro, 2.80 invece di 3.50 20%

da 4

1.–di riduzione

5.–

invece di 6.–

Creme Dessert Tradition Vanille, Caramel o Chocolat au lait, 4 x 175 g, (100 g = 0.71)

conf. da 2 20%

5.25

invece di 6.60

Tartare erbe e aglio o panna e fleur de sel, 2 x 150 g, (100 g = 1.75)

100%naturaliingredienti

a partire da 4 pezzi 20%

Tutti gli yogurt Elsa, IP-SUISSE per es. stracciatella, 180 g, –.76 invece di –.95, (100 g = 0.42)

Migros Ticino
conf.
pezzi

Pane e prodotti da forno

Sapore rustico e dolci piaceri

Il nostro pane della settimana: farina integrale, crosta croccante e morbida mollica

3.30

4.50

Trancio di tiramisù 275 g, prodotto confezionato, (100 g = 1.64)

Pane paesano rustico IP-SUISSE

400 g, prodotto confezionato, (100 g = 0.83)

discoletti, nidi alle nocciole o biscotti al cocco, per es. discoletti, 3 x 207 g, 6.60 invece di 9.90, (100 g = 1.06)

1.98

invece di 2.95

6 pezzi, 300 g, (100 g = 0.66) 33%

Michettine croccanti precotte M-Classic, IP-SUISSE

Il classico dolce carnascialesco

2.56

invece di 3.20

= 1.19) 20%

Biscotti freschi
Frittelle di carnevale grandi Petit Bonheur (chiacchiere escluse), 6 pezzi, 216 g, prodotto confezionato, (100 g

Dolci e cioccolato

Per veri golosoni

5.65

Offerte valide dal 4.2 al 10.2.2025, fino a esaurimento dello stock.
invece di 8.10
Petit Beurre M-Classic con cioccolato al latte o cioccolato fondente, 3 x 150 g, (100 g = 1.26)
conf. da 3 30%
Tutti i biscotti Tradition per es. Petit Gâteau al limone, 150 g, 3.60 invece di 4.20, (100 g = 2.40)
a partire da 2 pezzi –.60 di riduzione
Tutte le Têtes au Choco Villars
4 x 30 g o 20 x 10 g, per es. 4 x 30 g, 3.16 invece di 3.95, (100 g = 2.63)
conf. da 4 20%

Una scorta di varietà

conf. da 3 33%

a partire da 3 pezzi 33%

Caffè in chicchi Boncampo Classico 3 x 1 kg, (100 g = 0.87)

invece di 38.85

conf. da 2 20%

Spicchi di mango o noci di anacardi Sun Queen

2 x 200 g, per es. spicchi di mango, 7.– invece di 8.80, (100 g = 1.75)

a partire da 2 pezzi 20% 26.–

Mini pizze Piccolinis Buitoni prodotto surgelato, mozzarella, prosciutto o 3 formaggi, 9 pezzi, 270 g, 3.96 invece di 4.95, (100 g = 1.47)

Gallette al mais e gallette di riso alle mele, Lilibiggs, gallette di riso allo yogurt e gallette di riso al cioccolato, M-Classic (prodotti Alnatura e mini tondelli di riso con cioccolato al latte esclusi), per es. gallette di riso integrale M-Classic con cioccolato al latte, 100 g, –.80 invece di 1.20

conf. da 4 40%

Fiori o gnocchi, Anna's Best, refrigerati fiori al limone e formaggio fresco o gnocchi alla caprese, in confezioni multiple, per es. fiori, 4 x 250 g, 11.75 invece di 19.80, (100 g = 1.18)

conf. da 2 15%

Focaccia alsaziana originale 2 x 240 g o 2 x 350 g, per es. 2 x 240 g, 5.40 invece di 6.40, (100 g = 1.13)

conf. da 2 20%

Maionese, Thomynaise, senape dolce o concentrato di pomodoro, Thomy per es. maionese à la française, 2 x 265 g, 4.45 invece di 5.60, (100 g = 0.84)

Tutti gli oli di colza M-Classic e IP-SUISSE per es. olio di colza M-Classic, 1 litro, 3.96 invece di 4.95 20%

9.45 invece di 12.60 Coca-Cola Classic o Zero, 12 x 330 ml conf. da 12 25%

20%

Tutte le salse per arrosto per es. Knorr, in tubetto, 150 g, 3.36 invece di 4.20, (100 g = 2.24)

Rio Mare

disponibile in diverse varietà e in confezioni multiple, per es. tonno in olio di oliva, 4 x 104 g, 14.– invece di 18.80, (100 g = 3.37)

conf. da 10

43%

2.80 invece di 4.95

Capri-Sun

Multivitamin, Multivitamin Zero o Monster Alarm, 10 x 200 ml, (100 ml = 0.14)

20x CUMULUS Novità

4.50 Salsicce vegetariane Rügenwalder Mühle

190 g, (100 g = 2.37)

20x CUMULUS Novità

4.20 Bratwurst vegano Rügenwalder Mühle 180 g, (100 g = 2.33)

Evian in confezioni multiple, per es. 6 x 1,5 litri, 4.42 invece di 6.60, (100 ml = 0.05) conf. da 6 33%

partire da 2 pezzi

La Corea chiama: sapori

Per far battere ancor più forte

2.50 Candela magica mini Home disponibile in diversi motivi, il pezzo

Tutti i praliné in scatola Frey (confezioni multiple escluse), per es. Pralinés du Confiseur, 147 g, 7.13 invece di 9.50, (100 g = 4.85) 25% 9.95

5.95

Cuoricini con pomodori e burrata

250 g, (100 g = 2.38)

Rinfrescare, detergere

conf. da 3 20%

Fazzoletti e salviettine cosmetiche Kleenex, FSC® scatola quadrata Collection oppure Ultra Soft, per es. Collection, 3 x 48 pezzi, 5.85 invece di 7.35

Fazzoletti e salviettine cosmetiche Linsoft, FSC® per es. in scatola quadrata, 3 x 90 pezzi, 5.40 invece di 6.75 conf. da 3 20%

4.25

a partire da 2 pezzi 30%

Tutto l'assortimento Manhattan per es. mascara waterproof Volcano, il pezzo, 7.63 invece di 10.90

a partire da 2 pezzi 25%

Creme per le mani I am, Atrix, Nivea o Garnier per es. balsamo per mani e unghie I am, 2 x 100 ml, 5.55 invece di 7.40, (100 ml = 2.78) conf. da 2 25%

Fazzoletti Classic Linsoft, FSC® in conf. speciale, 42 x 10 pezzi

Creme per le mani Neutrogena o Le Petit Marseillais per es. non profumata, 2 x 50 ml, 6.95 invece di 9.30, (10 ml = 0.70) conf. da 2 25%

Tutto l'assortimento Grether's per es. pastiglie Elderflower, 60 g, 4.46 invece di 5.95, (100 g = 7.43)

a partire da 2 pezzi 25%

Tutte le creme per le mani (confezioni multiple e confezioni da viaggio escluse), per es. balsamo per mani e unghie I am, 100 ml, 2.78 invece di 3.70, (10 ml = 0.28)

Assortimento di prodotti per la cura del viso e creme multiuso, Nivea incl. prodotti Men (confezioni da viaggio, prodotti Sun e confezioni multiple esclusi), per es. siero antimacchie Luminous 630 Nivea, 30 ml, 24.71 invece di 32.95, (10 ml = 8.24)

Prodotti per la cura del viso o del corpo o creme multiuso, Nivea per es. struccante per occhi per trucco resistente all'acqua, 2 x 125 ml, 8.90 invece di 11.90, (100 ml = 3.56)

Fondata ad Amburgo nel 1911, questa marca ha rivoluzionato la cura della pelle con la prima emulsione acqua in olio, che è stata la base della prima crema Nivea. Dal suo lancio e da una semplice crema, Nivea è diventata una marca globale di prodotti per la cura della pelle. Oggi, oltre alla famosa crema blu Nivea, esistono più di 500 prodotti diversi: da quelli per capelli alle creme idratanti.

Ordine e pulizia in tutta semplicità

Tutti gli ammorbidenti Exelia per es. Florence, in conf. di ricarica, 1,5 litri, 4.17 invece di 6.95, (1 l = 2.78)

Tutti i detersivi Total (confezioni multiple e speciali escluse), per es. 1 for all in conf. di ricarica, 2 litri, 7.98 invece di 15.95, (1 l = 3.99)

Formule potenti

Tutto l'assortimento Potz per es. detergente per vetri Forte, 500 ml, 3.60 invece di 4.50, (100 ml = 0.72) a partire da 2

Tutto l'assortimento Hygo WC per es. detergente gel Extreme, 750 ml, 3.47 invece di 4.95, (100 ml = 0.46)

Frittura croccante con poco olio

Friggitrice ad aria calda Mio Star Air Fryer potenza

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Solo da questo giovedì a domenica

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8.95

Skrei M-Classic, MSC

invece di 13.20

a partire da 3 pezzi

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pesca, Atlantico nordorientale, 2 pezzi, 300 g, in self-service, (100 g = 2.98), offerta valida dal 6.2 al 9.2.2025

conf. da 2

30%

Fondue Gerber

L'Original o Moitié-Moitié, per es. L'Original, 2 x 800 g, 20.90 invece di 29.90, (100 g = 1.31), offerta valida dal 6.2 al 9.2.2025

Tutto l'assortimento di alimenti umidi per gatti Vital Balance per es. Adult al manzo, 4 x 85 g, 3.22 invece di 4.60, (100 g = 0.95), offerta valida dal 6.2 al 9.2.2025

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