Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio «È intelligente ma non si impegna»: un libro rivaluta gli studenti minimalisti
Ambiente e Benessere I viceprimari dell’Unità di Ortopedia e Traumatologia all’Ospedale Regionale di Lugano, Christian Candrian e Paolo Gaffurini, illustrano i nuovi orizzonti della protesica di anca e ginocchio
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXII 4 marzo 2019
Azione 10 Politica e Economia Xi Jinping sarà in italia il 22 marzo. Di fatto Roma entra nelle Vie della Seta
Cultura e Spettacoli I Musei Reali di Torino propongono le opere del pittore fiammingo Antoon van Dyck
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Il #MeToo della Chiesa
Keystone
di Giorgio Bernardelli pagina 34
Identità: una, nessuna, centomila? di Peter Schiesser Un manifesto elettorale per le cantonali del 7 aprile attira la mia attenzione: lo slogan del candidato recita «Prima i ticinesi». Una sottile variazione sul tema «Prima i nostri», appannaggio di un’altra ma alleata formazione politica. Il discorso identitario va per la maggiore in diversi paesi europei, risulta elettoralmente pagante, perché dovrebbe essere altrimenti in Ticino? È un messaggio chiaro, segnala un attaccamento alla propria comunità. Almeno in apparenza. Anzi, solo in apparenza, se proviamo a ragionare. Presuppone innanzitutto che l’essere umano abbia una sola identità, o che si ritenga prevalente una in particolare, in questo caso quella legata all’origine della persona. Soffermiamoci quindi sull’«identità ticinese». La mia biografia mi porta a chiedermi se sono ticinese, essendo figlio di genitori svizzero-tedeschi, nato e cresciuto in Ticino ma tuttora attinente di un cantone di Oltralpe. Mi rispondo che mi sento ticinese, in quanto parte di una rete sociale e di un territorio in cui sono cresciuto, ma anche svizzero tedesco, poiché con quella realtà condivido ancora la lingua (mia lingua
madre ma che parlo meno bene dell’italiano, lingua del cuore e della mia realtà quotidiana), le parentele e certi meccanismi mentali, una comprensione più ampia dell’essere svizzeri. La mia identità è dunque plurima. Come me, in Ticino ci sono tante altre persone che non hanno un’origine puramente ticinese, pur non essendo straniere (le quali sono senza facoltà di voto, per cui escluse dalla contesa elettorale e dal messaggio del candidato in questione). Senza dimenticare le molte persone naturalizzate. Sono, siamo da considerare ticinesi? Se avessi ereditato da un genitore anche un passaporto straniero, oltre a quello svizzero, l’interrogativo si porrebbe in modo ancora più acuto, specialmente se anziché essere solo elettore volessi candidarmi ad una carica politica – ne sa qualcosa Ignazio Cassis, che ha rinunciato alla cittadinanza italiana per non sentirsi chiedere se è davvero un consigliere federale leale alla Svizzera. Ognuno darà una risposta secondo le proprie inclinazioni, chi mette al primo posto il discorso identitario, che in genere si articola in una contrapposizione fra «noi e loro», faticherà a riconoscere che un’identità possa essere plurima. Il messaggio «Prima i ticinesi», se presuppone una purezza di origine, come è prassi in formazioni di stampo nazionali-
stico, si rivolge dunque ad un campione elettorale che si restringe. E si restringe ulteriormente se ci chiediamo: prima quali ticinesi? Quelli di destra, di sinistra, di centro, i pro-europeisti, gli anti-europeisti, chi ama l’Italia, chi la detesta, gli eterosessuali, gli omosessuali, quelli aperti sul mondo o quelli chiusi su se stessi? Il messaggio elettorale in questione presuppone un gruppo identitario omogeneo, che invece non esiste. Oppure viene sottinteso che va considerato ticinese solo colui che implicitamente condivide i valori e le inclinazioni politiche e morali di quello specifico candidato, per cui gli altri non sono da considerarsi ticinesi? Non vorrei attribuire intenzioni simili al candidato in questione, ma bisogna fare molta attenzione a cavalcare il discorso identitario, poiché la realtà e la storia ci insegnano che è facile finire proprio lì: a considerare chi è diverso da noi non più come avversario in un contesto politico, ma come un nemico. Forse voleva essere solo uno slogan facile, che arriva subito alla pancia degli elettori, ma è difficile negare che titilla un sentimento di rivalsa: se è ora di dare spazio ai ticinesi, si intende implicitamente che finora è stato dato troppo spazio ad altri. Da inclusivo, il messaggio alla fine risulta essere esclusivo, anzi escludente.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Idee e acquisti per la settimana
Il saporito baccalà
Attualità Una specialità particolarmente apprezzata in occasione del Mercoledì delle Ceneri, accompagnata
da una fumante polenta
Per coloro che seguono la regola di mangiare di magro l’ultimo giorno del carnevale di rito romano, è un piatto di pesce che arricchisce la tavola di gusto e creatività. Stiamo parlando del baccalà, o merluzzo sotto sale, spesso servito fritto o in umido abbinato ad una buona polenta. Il pesce sotto sale, si sa, è una delle più antiche tecniche di conservazione, la quale permetteva di poter disporre di scorte di cibo a lungo e di affrontare meglio i periodi più difficili. Nei paesi nordici il merluzzo è chiamato anche stoccafisso, pesce bastone, ove il pesce viene fatto essiccare all’aria su appositi bastoni davanti alle casette dei villaggi costieri. Il processo di salagione non solo permette di preservare il pesce, ma di fatto rende le carni anche più saporite, conferendo alle fibre maggiore tenerezza e morbidezza. Prima di cucinare il baccalà, è tuttavia necessario dissalarlo. Ecco come fare: sciacquare con cura il pesce sotto l’acqua fredda corrente per eliminare il sale in eccesso. Eliminare le eventuali spine ancora presenti e tagliarlo a pezzi regolari. Disporlo in una ciotola capiente ricoprendolo completamente con dell’acqua fredda. Coprire la ciotola con della pellicola alimentare e sistemarla in frigorifero. Lasciare il pesce almeno due giorni in frigorifero prestando attenzione a che l’acqua venga cambiata ogni otto ore. Una volta scolato, il pesce sarà pronto per essere cucinato oppure anche congelato. Tra le molte tradizionali preparazioni aventi per protagonista il delizioso merluzzo salato, ve ne proponiamo una con le olive nere. Per 4 persone mettere in una padella ampia 800 g di baccalà, qualche cucchiaio di olio, della passata
Azione 20%
di pomodoro (o pomodori freschi tagliati finemente a cubetti), uno spicchio d’aglio, una spolverata di prezzemolo tritato e, a piacimento, qualche patata tagliata a dadi. Cuocere il tutto a fuoco moderato per una mezzoretta. Togliere l’aglio, aggiungere 100 g di olive nere denocciolate, qualche rametto di rosmarino e terminare la cottura per altri dieci minuti. Servire con della polenta, del riso in bianco o delle fette di pane abbrustolito.
sul filetto di merluzzo salato MSC, Atlantico nord-orientale, a libero servizio e al banco pesce 100 g Fr. 2.30 invece di 2.90 dal 5 al 9 marzo
Un vero rustico
Attualità La costanza e la cura con cui i panettieri Jowa lavorano
Flavia Leuenberger Ceppi
ingredienti di altissima qualità danno vita al croccante e gustoso Pane Passione Rustico
Una bontà già solo alla vista.
I lunghi tempi di lievitazione – fino a 24 ore a bassa temperatura - e l’utilizzo di materie prime eccelse di origine svizzera certificate IP-Suisse rendono il sapore del pane scuro Passione Rustico molto aromatico e piacevole. La lavorazione da parte dei panettieri del panificio Jowa richiede ancora parecchia artigianalità perché tutti gli ingredienti possano essere miscelati in modo ottimale. Inoltre l’impasto, prima di essere cotto in forno, viene accuratamente ritorto a mano affinché acquisti la sua tipica forma allungata. Farina di segale; semi oleosi quali girasole, lino e sesamo; nonché spelta macinata grossa, regalano al pane tipici sentori di tostatura con note gustative dolci-acidule ben bilanciate. Croccante, fragrante, di buona conservabilità e invitante già solo alla vista grazie ai semini in superficie, il Pane Passione Rustico è una delizia irrinunciabile per chi cerca un genuino accompagnamento ad una fresca insalata di stagione, ad un prodotto da spalmare speziato, a formaggi stagionati, oppure da servire come pane per far risaltare le pietanze della cucina di tutti i giorni.
Pane Passione Rustico 380 g Fr. 2.55* invece di 3.20 *Azione 20% dal 5 all’11.3
Auguri a tutte le donne!
8 marzo Una mimosa per la Festa della Donna
Fiore simbolo della Festa della Donna, la profumatissima mimosa la potrete trovare in vendita nel vostro reparto fiori Migros di fiducia solo questo giovedì 7 e venerdì 8 marzo, come mazzetto singolo oppure integrata ad altre composizioni ad hoc . Il bellissimo fiore dallo sgargiante colore giallo, che grazie alla sua vivacità
e forza rispecchia perfettamente la natura femminile, si mantiene bene per alcuni giorni, a condizione di tenerlo in un luogo fresco della casa e cambiando spesso l’acqua. Le nostre mimose fioriscono al sole di Sanremo e della Riviera dei Fiori, regione conosciuta in tutto il mondo per la sua produzione floreale.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Idee e acquisti per la settimana
Acquisto bio perché…
Attualità Un assortimento in continua crescita e prezzi attrattivi: il mercato del bio è in piena espansione
e sempre più consumatori pongono l’accento sulla qualità e la sostenibilità dei generi alimentari. Alcuni clienti Migros ci raccontano perché tra i loro acquisti figurano anche prodotti biologici
Naima Buletti (33 anni) con la figlia Mei (1)
Pierluigi Paioni (66 anni)
«Certo che compro bio! Quando faccio la spesa, se esiste un prodotto equivalente al convenzionale in qualità biologica, prendo sempre quest’ultimo. A mio avviso gli alimenti bio sono più genuini e saporiti di quelli che subiscono trattamenti. Prendo un po’ di tutto, ma frutta e verdura figurano tra i miei preferiti».
Fotografie Giovanni Barberis
«Acquisto regolarmente prodotti bio perché ritengo che siano più rispettosi dell’ambiente e degli animali. Inoltre, laddove è possibile, dò la priorità ai prodotti locali a km 0 oppure svizzeri, in modo da sostenere i nostri contadini. Prestare attenzione a questi aspetti è importante anche per il futuro dei nostri figli».
Sharon Odorico (26 anni)
«Prendo di tanto in tanto qualche prodotto bio, ma attualmente per me non è la regola. Solitamente acquisto della pasta o del riso biologici. Penso che questi prodotti, non essendo trattati, siano anche più sani degli altri. In futuro sicuramente presterò più attenzione ai marchi sostenibili».
Nadia Orlandi (48 anni)
«Apprezzo molto la diversità dei prodotti targati Migros-Bio e Alnatura. Ne acquisto molto spesso non solo per una questione ecologica, ma anche perché mi sono abituata alla qualità di certi articoli e non riesco più a farne a meno. I miei prodotti preferiti sono i legumi, il müesli, lo sciroppo d’acero e i cereali».
Un mondo di dolcezze
Novità Vieni a scoprire le nostre nuove specialità firmate Balocco, marchio piemontese storico nel settore dolciario
Balocco BiscoJunior PJ MASK 400 g Fr. 2.50
Balocco Fibra&Gusto Cereali 350 g Fr. 2.40
Balocco Fibra&Gusto Cereali & Cioccolato 350 g Fr. 2.40
Balocco Amaretti 200 g Fr. 2.50
Balocco Sfogliatine zuccherate 200 g Fr. 2.10
Balocco Savoiardi 200 g Fr. 2.30 400 g Fr. 3.70
Con questi biscottini la colazione dei più piccoli si trasforma in un momento ultra divertente grazie alle immagini raffiguranti le avventure dei Super Pigiamini. I golosi frollini PJ Mask con cioccolato e nocciole sono preparati senza olio di palma e non contengono conservanti, coloranti, né grassi idrogenati.
Ricchi di fibre e incredibilmente gustosi, questi frollini in pratiche monoporzioni sono perfetti da portare sempre con te come spuntino da sgranocchiare in qualsiasi momento della giornata. Sono fatti con ingredienti non modificati geneticamente e senza olio di palma.
I frollini che mettono d’accordo sia gli amanti del cioccolato sia i fan dei cereali più ricchi di nutrienti. Farina di frumento, fiocchi d’avena, frumento soffiato e crusca assicurano il giusto apporto di fibre, mentre l’aggiunta di delizioso cacao li rende una bontà amata da grandi e piccini.
Tradizione e genuinità si incontrano alla perfezione in questi fragranti e deliziosi biscotti tipici dal gusto inconfondibile. Ottimi gustati da soli, per accompagnare un buon espresso, oppure per dare un tocco speciale e personale a tutti i tuoi dessert. Sono preparati senza coloranti né conservanti.
Le Sfogliatine Balocco zuccherate non possono mai mancare nella tua dispensa. Queste paste sfoglie leggere e friabili arricchite con un dolce strato di zucchero sono ideali da gustare in tutta semplicità a merenda oppure per decorare dolci e gelati sempre nuovi.
Una saporita ricetta tradizionale particolarmente ricca di uova fresche caratterizza questi tipici biscotti piemontesi savoiardi. Sono l’ingrediente perfetto per un irresistibile tiramisù fatto in casa, ma grazie alla loro versatilità possono essere utilizzati in molte altre golose preparazioni.
I prodotti illustrati sono in vendita nelle maggiori filiali Migros
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Società e Territorio Uomo, misura delle cose Dalle riflessioni di Protagora all’idea di democrazia: il nostro mondo è a misura d’uomo pagina 7
Musei e tecnologie La visita museale è ormai un’esperienza multidisciplinare e multisensoriale: l’esempio del Museo dell’Automobile di Torino e dell’M9 di Mestre
Videogiochi Metro Exodus: Atyom è pronto per nuove avventure in una Russia post apocalittica
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Le emozioni dei genitori Uno studio americano dimostra come sia controproducente nascondere stati di stress, rabbia o tristezza ai propri figli
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La rivincita degli studenti minimalisti Pubblicazioni Dalla Germania arriva un
manuale per ragazze e ragazzi che a scuola si impegnano il minimo riuscendo comunque a cavarsela, con la raccomandazione di smetterla di chiamarli «scansafatiche»
Stefania Prandi Sono il cruccio di genitori esigenti e ambiziosi: figli che a scuola si impegnano il minimo necessario riuscendo comunque a non farsi bocciare. La famosa frase «è intelligente, ma non si applica abbastanza», pronunciata da adulti accigliati, diventa un mantra che li perseguita per anni. In genere si tratta di studenti appassionati solo a certe materie, che attuano strategie di «sopravvivenza» con il resto del programma scolastico. Molto diversi dai secchioni, che si danno un sacco da fare e sanno sempre tutto, i «minimalisti dello studio» dedicano ai compiti e alla preparazione degli esami lo stretto necessario, riducendosi all’ultimo. In loro difesa è arrivato un libro, a metà tra saggio e manuale (con esercizi pratici), tradotto dal tedesco all’italiano e appena pubblicato da Feltrinelli, intitolato Guida allo studio per pigri. Trucchi e strategie degli studenti minimalisti di successo. Tra le pagine viene spiegato che questi alunni sono «produttivi», perché ottengono grandi risultati con poco sforzo, e che il loro metodo di apprendimento, invece di essere demonizzato, dovrebbe servirci da ispirazione. Le autrici sono Iris e Felicitas Komarek. Iris è una sociologa, formatrice e coach per l’apprendimento, che ha sviluppato il programma Ich lern einfach (Semplicemente imparo). Per oltre quindici anni ha fatto ricerche e insegnato metodi di studio utili, facili, senza stress ed è autrice di diversi libri sul tema. A ispirarla nel lavoro la figlia, Felicitas Komarek, esperta studente minimalista, oggi brillante universitaria. «Alle elementari mi sono ben presto resa conto di imparare in modo differente rispetto ai compagni di classe. Il mio obiettivo primario è sempre stato uscire a giocare il prima possibile. Sapevo, pertanto, di dovere sbrigare tutti i compiti rapidamente – e comunque imparare qualcosa – se volevo evitare noie» scrive Felicitas. I problemi per lei sono cominciati dopo, al liceo, dato che lì le veniva imposta una routine ben precisa: per esempio,
doveva avere un quaderno apposito per i compiti a casa. «Questo mi infastidiva parecchio, mi sentivo limitata e anche bloccata. Quando ho avuto di nuovo la possibilità di studiare nel modo a me più congeniale, tutto è tornato a posto». A sostenerla nel percorso fuori dagli schemi sua madre, che «Azione» ha intervistato. Iris Komarek, perché ha deciso di dedicare un libro agli studenti minimalisti?
Molti giovani hanno problemi di motivazione nello studio e io ho sempre voluto cercare di stimolarli. Con alcuni ci sono riuscita, ma ce ne sono altri che semplicemente non hanno voglia di essere forzati a imparare la disciplina. E io non volevo che restassero indietro. Come madre di una bambina che riusciva a scuola attraverso l’apprendimento minimalista, ho avuto l’idea di mettermi a fare ricerca su questo tipo di comportamento. Come funziona il comportamento degli studenti minimalisti?
Gli studenti minimalisti che riescono a scuola sono accomunati dal fatto di mettere a fuoco gli obiettivi e di utilizzare strategie di studio efficaci. Si concentrano durante le lezioni, seguono il loro percorso e hanno bisogno della libertà di studiare come vogliono. Durante lo studio si focalizzano molto sull’esame. Si domandano: cosa mi verrà chiesto? Quali informazioni posso ottenere al riguardo? Sanno qual è il loro punto di forza e lo useranno senza risparmiarsi.
I minimalisti dedicano ai compiti lo stretto necessario, se forzati a fare di più non renderanno. (Marka) questo tipo di approccio? Quali sono i trucchi da sfruttare?
Nel libro lei esamina i comportamenti e i risultati di diversi tipi di studenti. I minimalisti come si differenziano dagli altri?
Chi usa l’approccio minimalista sa esattamente quanto deve prepararsi per superare un esame e sa che studierà seguendo le proprie inclinazioni. Si chiede: come devo procedere senza fare troppi sforzi? I minimalisti non sono necessariamente dei geni, ma sono intelligenti e consapevoli del modo in cui imparano.
Che cosa possiamo imparare da
Possiamo dire che questi studenti non raggiungeranno risultati eccellenti, ma arriveranno a fare quello per cui sono portati. Dato che il minimalista in genere è molto interessato a una materia specifica, per quella studierà con passione e imparerà più del dovuto. Ma se si trova in un contesto in cui è forzato
Sono studenti che devono avere la possibilità di provare un metodo diverso, con la libertà di poterlo usare, se funziona. Devono potersi conoscere, capire che cosa apprezzano e cosa vorrebbero cambiare. Hanno bisogno di un buon sistema di supporto che li possa guidare nell’imparare un percorso differente.
Si possono comunque raggiungere risultati alti?
a imparare tutto nello stesso modo, non renderà, perché per il resto farà il minimo necessario.
Nel suo libro è centrale il tema del tempo dedicato allo studio. Come si ottiene il massimo, impiegando il minor tempo?
Prima di tutto va considerato che il modo in cui si impara è il migliore per se stessi e non per gli altri. Non si deve generalizzare. Io suggerisco di stabilire un tempo di studio e di usarlo per concentrarsi al massimo. Bisogna avere fiducia, accettando il proprio metodo. Spesso si eccede il tempo che si è stabilito perché si ha poca stima di sé. Quindi dico: credi in ciò che sai e stai certo che avrai fatto abbastanza. Spesso i genitori non sono felici di avere dei figli «pigri». Che consiglio ha per loro?
Li incoraggio ad avere fiducia. Credo che molti genitori siano convinti che i loro ragazzi stiano sprecando il loro potenziale, e lo dico da madre che ha avuto lo stesso pensiero. Ma so anche che la decisione migliore che ho preso è stata di credere che mia figlia potesse trovare il suo modo giusto di imparare. I figli non devono essere i migliori, devono essere bravi abbastanza da farcela. Da bravi studenti minimalisti non falliranno: posso dire con certezza che quando sono lasciati liberi di seguire il loro metodo raggiungono quello che è bene per loro. Nota
* L’intervista è stata tradotta e in alcuni passaggi adattata dalla giornalista.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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La famiglia al centro
Socialità La Fondazione Vanoni è attiva in Ticino dal 1888. Offre un centro educativo,
una scuola e un servizio di sostegno alle famiglie che riguarda 420 minori di tutto il Ticino
Fabio Dozio Orsacchiotto, giraffa, riccio, bamboline, sono gli amici che hanno accolto la piccola A., di quattro anni, quando la scorsa estate è arrivata nella sua nuova cameretta della Fondazione Vanoni. Proveniva da un altro istituto, non è mai stata a tempo pieno in famiglia da quando è nata. Per fortuna con lei c’è anche il fratellino di sei anni. I genitori sono separati, vorrebbero occuparsi dei bimbi, ma non ce la fanno. La vita in istituto deve somigliare il più possibile a quella in famiglia, una camera accogliente, la scuola dell’infanzia e poi, soprattutto, un educatore che si prende cura della bimba con tutte le attenzioni del caso, con il gioco, le coccole e le storie da raccontare la sera, prima di dormire. L’Orfanatrofio femminile Vanoni è stato creato nel 1869 da Antonia Vanoni, appartenente a una facoltosa famiglia di commercianti luganesi. Cattolica devota, per garantire la continuità dell’opera assistenziale da lei iniziata, nel 1888 Antonia decise di dare fondamento giuridico all’Orfanatrofio istituendo l’omonima Fondazione. Sono passati tanti anni e la Fondazione si è adattata ai cambiamenti della nostra società e oggi è una delle strutture riconosciute come centro educativo dal Cantone. Il valore principale della Fondazione rimane la famiglia: ormai non si tratta più solo di genitori e figli, ma anche di famiglie allargate e complicate. I ragazzi che fanno capo al Centro educativo Minorile (CEM) sono 48 e vanno dai 4 anni ai 18, ma possono rimanere anche fino a 20. Ci sono 30 posti disponibili in internato e 18 in esternato. Sono giovani che provengono da situazioni di disagio famigliare, a volte hanno subito maltrattamenti, oppure sono vittime dell’incapacità di cura dei genitori. Arrivano al Centro secondo due modalità. Possono essere collocati spontaneamente dai genitori che si rendono conto di non farcela, oppure vengono indirizzati alla Fondazione dalle Autorità, in questo caso con decisione vincolante, anche se non c’è l’accordo dei genitori.
«Minore e genitore sono parte integrante del nostro progetto, l’alleanza con i genitori è fondamentale» «I ragazzi che abbiamo qui non hanno comportamenti devianti. – ci spiega il direttore della Vanoni, Mario Ferrarini – Provengono da famiglie fragili che si trovano in difficoltà, con disagi sociopsicologici e a volte con difficoltà finanziarie, e quindi i figli soffrono. Sommando questi elementi si ottiene spesso un risultato esplosivo. La struttura ha il compito di abbassare questa esasperazione, per intervenire sulle risorse della famiglia. Obiettivo per tutti è il rientro in famiglia, anche nelle situazioni più pesanti, dove siamo confrontati con maltrattamenti. Per noi il legame genitoriale rimane fondamentale». Il CEM è aperto, secondo i bisogni degli ospiti, tutti i giorni dell’anno e la vita quotidiana si svolge in quattro gruppi educativi. Ma, soprattutto, si
Il centro E. Corecco di Lugano è l’attuale sede provvisoria della Fondazione Vanoni. (CdT- Zocchetti)
Mario Ferrarini, direttore della Fondazione Antonia Vanoni.
lavora in stretto rapporto con i servizi per i minori presenti sul territorio (Ufficio famiglie cantonale, Servizio Medico Psicologico, Autorità Regionali di Protezione, Magistratura dei minorenni, Preture, Servizi di sostegno pedagogico, ecc.), concordando e definendo di comune accordo il progetto di intervento con gli ospiti. «Il rapporto con i genitori – dice il direttore – è prioritario. Manteniamo contatti telefonici giornalieri e organizziamo visite e incontri. Ogni ospite ha un suo programma specifico. C’è chi torna a casa, magari il mercoledì pomeriggio o il sabato e la domenica. Da gennaio abbiamo una nuova opportunità: un appartamento qui da noi che permette a genitori e figli di stare assieme una giornata o più in autonomia. Minore e genitore sono parte integrante del nostro progetto, l’alleanza con i genitori è fondamentale». Con la consulenza e il sostegno alle famiglie, la Fondazione persegue lo scopo di permettere ai genitori ai quali sono stati tolti i figli, di recuperare gradualmente la capacità di rispondere adeguatamente alle richieste di attaccamento dei bambini, aumentando la consapevolezza delle famiglie sulle loro difficoltà, per poterle superare. Altro servizio offerto dalla Fondazione è la scuola, o meglio le Unità Scolastiche Differenziate (USD). Attualmente ci sono tre classi di sei allievi ciascuna. Gli ospiti del CEM seguono
di regola le scuole pubbliche di Lugano. Le USD rappresentano una risorsa per fronteggiare tipologie di disadattamento scolastico dovuto a fattori endogeni e/o esogeni: disturbi dell’apprendimento, fragilità delle situazioni famigliari, problemi psico-affettivi. L’obiettivo è superare questi ostacoli recuperando le competenze scolastiche, sociali e relazionali, in modo da poter rientrare nelle classi regolari di scuola elementare. «Gli allievi delle USD – precisa Mario Ferrarini – sono confrontati con problematiche comportamentali, sono disturbati e non riescono a stare in classe. La scuola le prova tutte, ma poi chiedono a noi di gestirli. È una fase provvisoria, di passaggio, noi continuiamo a lavorare con la sede scolastica da dove provengono. Posso dire che si riscontra una sofferenza emotiva pesante, in bambini di sei o sette anni che dicono: perché devo stare al mondo? Io non valgo niente!». Secondo il direttore della Fondazione, la condizione delle famiglie non è necessariamente peggiorata negli anni, la situazione è cambiata perché è cambiata la società. Dare in mano un telefonino a un bambino può procurare disastri. Le sollecitazioni del territorio per chi a 12 o 13 anni vuole uscire il sabato sera, creano dinamiche difficili per i genitori, che non sempre sono in grado di dire di no. Anche il mondo del lavoro incide parecchio. Se in famiglia si è confrontati con la disoccupazione o con problemi finanziari, ci sono ricadute negative sui figli. Nel Duemila la Vanoni ha avviato un nuovo progetto, il Servizio di Sostegno e Accompagnamento Educativo (SAE). Si tratta di un servizio di prevenzione e protezione dei minorenni e delle loro famiglie. Gli operatori del SAE si recano al domicilio delle famiglie per offrire la loro consulenza a bambini e genitori. L’intento è quello di offrire un sostegno ai membri della famiglia in difficoltà, promuovendo la responsabilizzazione rispetto al ruolo educativo, grazie anche alla mediazione per riattivare la comunicazione all’interno del nucleo famigliare. Gli operatori del SAE sono
22 in tutto il Cantone. Nel 2000 50 famiglie e 86 minori hanno incontrato gli operatori del SAE, oggi ci sono 280 famiglie per 420 minorenni. «Abbiamo una famiglia in valle con otto figli, – racconta il direttore Mario Ferrarini – e un’educatrice fa solo quello, anche se non è a tempo pieno. Visita la famiglia tre volte la settimana. È un lavoro di prevenzione importante, l’obiettivo è migliorare la situazione famigliare. L’intervento dovrebbe durare non più di 18 mesi, ma siamo elastici. È l’unico servizio di questo tipo riconosciuto dal Cantone. Questo aiuto a domicilio evita di portare al collocamento dei ragazzi quando crescono. Riceviamo le segnalazioni soprattutto dalle scuole, e i casi sono aumentati in modo esponenziale». Molto spesso sono famiglie in cui si litiga e le relazioni sono perturbate. La psicologa Laura Formenti sintetizza il ruolo del SAE: «La gestione creativa del conflitto parte, prima di tutto, dal benedire le situazioni conflittuali senza temerle. Il conflitto è necessario all’apprendimento, come ogni adolescente sa. L’operatore del SAE è un esperto di mediazione, il suo ruolo è spesso quello di facilitare la comunicazione, non negando il conflitto, ma portandolo verso la trasformazione». Lo stravolgimento dei modelli famigliari e la fragilizzazione delle relazioni accresce il bisogno di sostegno. «L’obiettivo condiviso – annota Marco Galli, capo dell’Ufficio delle famiglie e dei giovani del Canton Ticino – è che il SAE continui sulla strada che ha intrapreso con impegno in questi anni, profilandosi come una delle risorse principali per valorizzare la competenza e la resilienza genitoriali, in modo che la famiglia non sia un semplice insieme di persone che si incontrano tra un’attività e l’altra, ma una cellula di tessitura della rete sociale e della cittadinanza. Si tratta di creare il contesto storico in cui anche la famiglia più vulnerabile possa ritornare a essere protagonista della propria azione educativa: garantire un futuro di benessere alle nuove generazioni, crescere esseri umani solidali e dei cittadini consapevoli. Una volta sarebbe stata una questione di giustizia sociale».
Notizie in breve Leadership al femminile Quali sono le difficoltà che le donne ancora incontrano nel mondo del lavoro nell’ottenere ruoli dirigenziali? Parlare di leadership al femminile significa creare uno stereotipo pericoloso per il ruolo della donna nella società? E le donne sono leader migliori o peggiori degli uomini? A queste e ad altre domande si cercherà di dare risposta nel corso di una serata pubblica promossa dal Dipartimento delle istituzioni che avrà luogo mercoledì 13 marzo alle ore 20.00 nell’Aula magna dell’Università della Svizzera italiana a Lugano. Nell’anno in cui ricorre il cinquantesimo anniversario dall’ottenimento del diritto di voto per le donne in Ticino, il Dipartimento delle istituzioni intende in questo modo approfondire e discutere il ruolo odierno della donna in posizioni di responsabilità nelle realtà aziendali pubbliche e private. La serata sarà introdotta da una relazione della Capo Settore Servizio giuridico della Polizia cantonale Bernadette Rüegsegger e in seguito la giornalista Simona Galli modererà la discussione con otto dirigenti che si distinguono nel loro ambito professionale. Si tratta di: Alessandra Alberti (Direttrice Chocolat Stella), Frida Andreotti (Direttrice Divisione della Giustizia del Dipartimento delle istituzioni), Monica Bonfanti (Comandante della Polizia cantonale di Ginevra), Rosy Croce (Membro di Direzione Cooperativa Migros Ticino, Responsabile Dipartimento Risorse umane), Monica Duca-Widmer (Direttrice EcoRisana SA e Presidente del Consiglio dell’USI), Beatrice Fasana (Direttrice generale della Sandro Vanini SA e membro del Consiglio dei Politecnici federali), Maruska Ortelli (Presidente del Consiglio comunale di Lugano), Dounia Rezzonico (Procuratore federale capo, Responsabile della Divisione criminalità economica del Ministero pubblico della Confederazione). Chiuderà il Simposio l’intervento della Presidente del Gran Consiglio Pelin Kandemir-Bordoli. Info: www.ti.ch/eventidi Il SwissSkills Team è pronto Un nuovo SwissSkills Team è pronto: sono 12 ragazze e 30 ragazzi, i migliori giovani professionisti in 40 professioni, e parteciperanno insieme ai loro 43 esperti ed esperte alla 45esima edizione dei campionati mondiali delle professioni nella metropoli russa di Kazan. La delegazione che rappresenterà la Svizzera dal 22 al 27 agosto a Kazan, capitale della repubblica russa del Tatarstan, è dunque composta da 42 partecipanti e 43 esperti ed esperte, provenienti da 20 cantoni differenti. Il ticinese Davide Donati, partecipante agli EuroSkills 2016, farà parte del team di esperti che seguiranno questi giovani professionisti. Per Donati, della ditta Bazzi Piastrelle SA, è la prima partecipazione come esperto internazionale. In agosto, i giovani professionisti svizzeri sfideranno più di 1’500 altri partecipanti provenienti da oltre 60 nazioni, in 56 professioni diverse. Nell’ultima edizione dei WorldSkills, nel 2017 ad Abu Dhabi, lo SwissSkills Team ha vinto 11 medaglie d’oro, 6 d’argento e 3 di bronzo, 13 diplomi e 3 certificati, piazzandosi al secondo posto nella classifica delle nazioni. Info: www.swiss-skills.ch/it/
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Società e Territorio
«A misura d’uomo»
Modi di dire Questa locuzione evidenzia come in ogni valutazione
umana prevalga la soggettività e contiene il germe della democrazia
Massimo Negrotti Il termine «misura» in relazione all’uomo è stato introdotto dal filosofo greco Protagora che, con quella parola, intendeva sottolineare come in ogni valutazione umana, alla fine, prevalga sempre quella che oggi chiameremmo soggettività, cioè la diversità delle premesse culturali, delle capacità e delle motivazioni che ognuno di noi porta con sé. L’espressione «a misura d’uomo» si è poi largamente diffusa e oggi può essere adottata in vari contesti anche diversi da quelli segnalati da Protagora. Uno di questi ha a che fare con il rapporto che l’uomo ha con la natura da un lato e le stesse cose umane dall’altro. Per avvicinarci al primo contesto, quello del rapporto con la natura, si pensi all’Arca di Noé, nella quale il patriarca aveva sistemato, per salvarli dal diluvio universale, animali di tutte le specie, alcune migliaia. Tutti noi saremmo in grado di riconoscere molti degli animali posti in salvo perché, anche ignorandone il nome scientifico, abbiamo avuto mille occasioni di vederli dal vivo o in qualche immagine. La stessa cosa aveva fatto Noé, ovviamente, ma sarebbe vano cercare nell’Arca molte specie non osservabili dall’uomo e, a quei tempi, ben lungi dall’essere conosciute, come i batteri ed altri organismi microscopici, condannati dunque a perire. Il fatto è che l’uomo deve fare i conti con «strumenti» naturali di osser-
vazione del mondo piuttosto limitati. Vista e udito, come del resto gli altri apparati sensori, consentono di vedere o udire i fenomeni con essi compatibili entro intervalli molto ristretti rispetto alla loro ampiezza naturale. Molti animali possiedono capacità diverse dalle nostre, come è per le api o vari uccelli che vedono l’ultravioletto o i cani che, come è noto, riescono ad udire, a differenza nostra, gli ultrasuoni. È sempre raccomandabile per chiunque dare un’occhiata con il microscopio alle cose anche le più apparentemente semplici e magari ritenute banali, come una goccia d’acqua di pozzanghera, per constatare come il mondo che vediamo ogni giorno possieda una profondità di livelli che i nostri occhi non ci permettono di osservare. La stessa raccomandazione vale, va da sé, per il telescopio e per mille altri dispositivi, come i rilevatori di radioattività o di vari tipi di gas. Diretta conseguenza di tutto questo è che il mondo naturale, così come ci appare, non è il mondo definitivo della natura ma solo lo scenario che i nostri sensi ci consentono di apprezzare, cioè, appunto, il mondo «a misura d’uomo». La percezione del mondo è insomma strettamente dipendente dalla specie animale e quella umana è solo una fra le tante. Lo stesso concetto di ambiente non può essere considerato come qualcosa di assoluto come se gli uomini, con un po’ di presunzione, avessero scoperto la sua «vera» e ultimativa definizione, sulla scorta di
una visione antropocentrica, che, cioè, pone il principio della «misura d’uomo» alla base di ogni possibile valutazione. Ogni variazione ambientale, in effetti, produce, ed ha già prodotto infinite volte, nel corso degli ultimi milioni di anni, situazioni vantaggiose per alcune specie e svantaggiose per altre. In sintesi, una bella giornata o un bel paesaggio per l’uomo possono essere una pessima giornata o una vista minacciosa per una specie diversa. Nelle vicende umane e sociali le cose non cambiano. Qui però Protagora torna pienamente protagonista, nel senso che la varietà delle nostre stime e dei nostri giudizi, non dipende solo, ed eventualmente, dalle nostre limitazioni fisiologiche, ma anche dalla nostra decisione di prendere spunto da una certa premessa piuttosto che da un’altra. La «misura d’uomo» in questo caso si può comunque esprimere come l’impossibilità, da parte di ognuno di noi, di tenere simultaneamente in considerazione tutti i profili dai quali sarebbe possibile descrivere un evento o un oggetto. È il caso di un insegnante il quale, nel valutare il rendimento scolastico, non può che partire dal grado di attenzione, lo scrupolo o la partecipazione alle lezioni mostrate dall’allievo in relazione alla sua abilità nello svolgere i compiti a lui assegnati. L’insegnante, in effetti, non è in grado di tenere in considerazione altri aspetti, psicologici, familiari, di salute personale, noti e non noti, pervenendo così ad un giudizio
L’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. (Wikipedia)
globale che colga la realtà totale dello studente. Una realtà completa che, a ben vedere, sfugge a lui stesso. Nella valutazione delle vicende politiche o economiche il peso della «misura d’uomo» è poi quanto mai evidente. La situazione economica complessiva di una società può essere infatti descritta prendendo le mosse da decine di profili diversi fra loro e solo raramente questi sono del tutto convergenti, come durante una crisi generale o una fase di sviluppo prorompente. In tutti gli altri casi, che sono i più numerosi, nessun esperto è in grado di «osservare» e dunque di tenere in considerazione tutte le variabili in gioco. Anche in tribunale, del resto, si ricorre al criterio della testimonianza nella speranza che, dall’esame di un evento colto da vari punti di vista, possa emergere una descrizione sufficientemente accurata e utile. Inutile dire, infine, che nelle prese di posizione politiche si assiste da sempre ad un’ulterio-
re esplosione individuale dei presupposti secondo i quali può essere descritta la realtà sociale. Poiché nella vita politica, delle istituzioni e dei gruppi umani portatori di ideali politici o di interessi, l’obiettivo pressoché invariabilmente è indicato nel «bene comune», gli uomini, con la loro «misura», sono posti inevitabilmente in contesti conflittuali nei quali ognuno pretende di avere scoperto la più genuina essenza della natura umana e dei suoi bisogni. Per questo, cioè proprio a causa del carattere inesorabilmente limitato di qualsiasi nostra capacità di stima dei fatti, la democrazia è l’unico sistema prudentemente «a misura d’uomo». Purché la maggioranza non pensi che la propria visione delle cose, per il solo fatto di essere prevalente, debba essere riconosciuta come «la verità», poiché essa è unicamente la provvisoria rappresentazione di una realtà che può mutare, e di fatto muta, assieme al cambiamento dei nostri «punti di vista». Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Il museo è un’emozione
Tecnologia Le nuove risorse offerte dalla cultura multimediale entrano ad animare il panorama espositivo:
alcune interessanti esperienze recenti indicano la direzione da percorrere
Alessandro Zanoli Sempre meno spazio allo sbadiglio e sempre più occasioni di coinvolgimento sensoriale: un nuovo modo di vivere le visite al museo si sta imponendo in modo evidente. La nuova vocazione dell’istituzione museale riscrive la logica con cui per decenni è stato vissuto questo tradizionale luogo della cultura di massa. Non più una carrellata di oggetti da osservare con distacco e con una certa soggezione, non più un luogo in cui percepire la presenza di una cultura «alta» a cui dover accedere attraverso una faticosa prassi di apprendimento, ma invece un’occasione esperienziale in cui confrontare ciò che già sappiamo con una visione globale, semplificata, divulgativa e spettacolarizzata dei fenomeni. In tale contesto naturalmente giocano un ruolo fondamentale tutte le più moderne risorse offerte dalla tecnologia: ben oltre i semplici «oggetti da vedere» il museo moderno offre un enorme catalogo di immagini significative, a cui accedere tramite proiezioni, visori 3d, videogiochi, ricostruzioni ambientali interattive. Lo spazio del museo insomma si trasforma in qualcosa a metà strada tra il cinema e il videogame, una dimensione sicuramente più consona alla nuova sensibilità visiva e anche narrativa delle giovani generazioni. Gli esempi più interessanti e più vicini a noi, per quello che riguarda l’area culturale italofona, possono essere
indicati nel Museo dell’Automobile di Torino (www.museoauto.it) e nel recentissimo M9, Museo del 900 della città di Mestre (www.m9museum.it). Se il primo offre al visitatore una ampia e dettagliatissima carrellata di modelli di produzione italiana (ma non solo) e quindi rispecchia la vocazione industriale specifica dell’area geografica in cui è sorto, il secondo sceglie invece di costruire la sua proposta informativa attorno a un’analisi antropologica e sociologica dell’Italia di oggi, mostrando l’evoluzione umana e del paesaggio avvenuta a partire dal 1900. Entrambi hanno la caratteristica di essere stati realizzati in costruzioni di grande interesse architettonico, con soluzioni all’avanguardia per ciò che riguarda la sistemazione e il percorso espositivo, ed entrambi contano su un coinvolgimento sensoriale visivo-tattile-uditivo del visitatore. Il percorso al loro interno è un viaggio in un ambiente buio, in cui gli oggetti-emblema sono invece vivacemente illuminati, posti all’attenzione in una mise en scène molto realistica che disegna un percorso esplorativo cronologico. Nel caso del museo torinese il viaggio corre naturalmente lungo le varie tappe dell’evoluzione dell’automobile, momenti che ripercorrono la storia sociale italiana dell’ultimo secolo. Nel caso del Museo di Mestre, invece, il percorso di visita si snoda sui due piani della splendida costruzione ricavata in un’area riqualificata del centro storico, in cui il Museo stesso
I visori Virtual Reality sono un elemento ormai abituale. (A. Savoldelli)
diventa un fulcro di interesse in grado di dare nuovo valore a un intero quartiere. L’itinerario espositivo, attraverso un’incredibile varietà di installazioni multimediali, invita ad osservare i mutamenti della società italiana in vari settori della vita sociale: dai ritratti di gruppo all’evoluzione dell’abbigliamento, dell’arredamento e dei tipi di lavoro; dalle modifiche del paesaggio al ruolo della politica e del sindacalismo, fino alle varietà linguistiche. Insomma una vera esperienza multidisciplinare e multisensoriale che per certi aspetti
può diventare persino estenuante per il visitatore più avanti negli anni. Su un altro versante, la modernizzazione della fruizione delle istituzioni museali può portare invece alle esperienze proposte da alcuni musei come il Museo Nazionale Archeologico di Taranto e il MANN di Napoli, i quali suggeriscono ai loro visitatori più giovani di scaricare delle particolari App sui loro smartphone (www.pastforfuture. it; www.museoarcheologiconapoli.it/ it/father-and-son-the-game). Si tratta di veri videogiochi gratuiti che danno
la possibilità di interagire con il percorso espositivo, trasformando la visita in una sessione di «gaming aumentato», in cui alla trama di una fiction videoludica si abbina la possibilità di integrare i dati reali ottenuti durante l’incontro con i reperti presentati nel museo. In tal modo la visita, di nuovo, si trasforma in un’esperienza avventurosa, degna di essere ricordata e di essere valorizzata. Il nuovo museo vuol fare in modo che i suoi utenti riportino a casa con sé, dopo la visita, un ricordo unico ed emozionante. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
In fuga dalla metropolitana Videogiochi Metro Exodus: nuove avventure in una Russia post apocalittica
Davide Canavesi Il 2013 è stato un anno che ha cambiato le sorti dell’umanità. Un enorme cataclisma nucleare ha spazzato via Mosca e, si ipotizza, anche qualsiasi altra metropoli del mondo. I pochi sopravvissuti si sono rintanati negli oscuri cunicoli della metropolitana moscovita, sopravvivendo di stenti e sprofondando in un baratro di barbarie e violenza. Fuori, in superficie, il mondo è un incubo di radiazioni letali e orribili mutazioni genetiche, mostri usciti dal peggiore degli incubi. In questo mondo morente troviamo Artyom, uno dei sopravvissuti al conflitto nucleare, un uomo le cui decisioni cambieranno il destino della razza umana. Il suo coraggio e la sua determinazione lo porteranno ad esplorare ogni anfratto della metro, scontrandosi con le diverse fazioni che ne controllano le linee nel disperato tentativo di bloccare la minaccia dei Tetri, creature dai poteri terribili e misteriosi. Questo, per sommi capi, l’incipit di Metro 2033, un romanzo fantascientifico post apocalittico pubblicato nel 2002 dallo scrittore russo Dmitrij Gluchovskij al quale lo studio ucraino 4A Games si è ispirato per la fortunata serie di videogiochi che comprende Metro 2033, Metro: Last Light e il nuovo Metro Exodus. Un esempio di come letteratura e videogiochi sono divenuti complementari, con l’opera elettronica che ha avuto origine da quella letteraria per poi proseguire con nuovi archi narrativi. Metro Exodus prosegue, infatti,
Exodus è il terzo episodio della saga ispirata al romanzo fantascientifico Metro 2033. (4A Games)
le avventure di Artyom al di fuori della metropolitana di Mosca per portare il giocatore in un viaggio lungo migliaia di chilometri tra le terre devastate (ma non disabitate come si pensava) della Russia. Dalle rive del Volga agli Urali meridionali, il mar Caspio, la taiga e altri luoghi ancora. Metro Exodus si apre con una rocambolesca fuga dalla metro a bordo di un treno a vapore, l’Aurora, alla ricerca di un governo centrale di cui, fino a pochi istanti prima, non sapevamo nemmeno l’esistenza. Dopo gli eventi
di Metro: Last Light Artyom è infatti un uomo disilluso, stufo delle continue lotte intestine tra le varie fazioni e cerca disperatamente di scoprire se qualcuno è sopravvissuto, da qualche parte nel mondo. È quindi con gioia che si imbarca nel lungo viaggio, accompagnato dalla moglie Anna e dall’Ordine degli Spartani. Il nuovo gioco di 4A Games, uscito su Xbox One, PlayStation 4 e PC, cerca rinfrescare la serie dopo i due precedenti capitoli. Dopo aver speso molte ore nei cunicoli della metropolitana,
seguendo una storia appassionante ma estremamente lineare, in Exodus si è deciso di offrire un mondo più aperto. Ora, al posto del classico sparatutto in prima persona in cui bisogna andare da un punto all’altro senza possibilità di deviare il percorso, troviamo un’impostazione più open world. Il team ha pensato di riprendere ogni elemento che ha fatto la fortuna della serie Metro, cambiando però approccio per quanto riguarda le ambientazioni. Ritroviamo ancora una trama accattivante, una gestione delle armi e munizioni piuttosto
complessa e una deriva nemmeno troppo velatamente horror. Questi elementi però si inseriscono ora in un mondo aperto, ampi spazi dove la scelta sta al giocatore. Potremo andare diritti all’obiettivo principale oppure perderci per ore esplorando ogni anfratto, aiutando persone, cacciando mostri e raccogliendo risorse. Un cambiamento piuttosto epocale per una serie che tradizionalmente offriva al giocatore un ritmo estremamente serrato. In realtà Exodus non stravolge totalmente l’idea alla base di Metro: non siamo realmente di fronte a un gioco totalmente a mondo aperto come tanti altri sul mercato. Tuttavia, non possiamo che guardare con un po’ di malcelata nostalgia alla riuscitissima formula dei primi due giochi. Metro Exodus è un titolo tecnicamente validissimo, specialmente su PC, vista l’introduzione della nuova tecnologia chiamata ray tracing. Essa simula il comportamento dei singoli raggi luminosi attraverso il mondo di gioco per offrire al giocatore un’approssimazione più realistica della luce. Il risultato finale è una fedeltà visiva maggiore, al costo di performance nettamente peggiori anche sui computer di ultimissima generazione. Finezze tecniche a parte, Exodus è un gioco magnificamente creato e totalmente adattato in lingua italiana. Un nuovo capitolo a tratti un po’ spiazzante per i vecchi fan della serie che rimane comunque interessante. Consigliato però solo a un pubblico adulto, visto tematiche e livello di violenza decisamente inadatto ai più giovani. Annuncio pubblicitario
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Società e Territorio
Genitori, figli e emozioni negative
Psicologia Nascondere ai propri figli stati di stress, rabbia o tristezza è percepito da molti come un modo
per proteggerli, uno studio americano dimostra però che è meglio scegliere la condivisione dei processi emotivi
Alessandra Ostini Sutto «Non di fronte ai bambini!». Chi non ha mai pronunciato, pensato o quantomeno sentito una frase simile quando si è trovato confrontato con un’emozione negativa o una situazione conflittuale? Probabilmente poche persone risponderebbero mai, dal momento che quello di celare tristezza, rabbia o delusione davanti ai propri figli, con l’intenzione di proteggerli, è un modus operandi che la maggioranza dei genitori ha interiorizzato. Una recente ricerca della Washington State University e delle Università della California di Berkeley e San Francisco dimostra però che è meglio esprimere e condividere con i ragazzini gli stati d’animo negativi. Questo comportamento, infatti, oltre a rafforzare la relazione, li aiuta a crescere senza la paura di affrontare le difficoltà. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica «Emotion», è stato condotto su 109 genitori con i rispettivi figli, di età compresa tra i 7 e gli 11 anni. Gli esperti hanno innanzitutto posto in una condizione di stress i genitori, chiedendo loro di parlare in pubblico e facendogli ottenere un feedback negativo da parte dell’audience. Poi, ai genitori è stata assegnata un’attività da svolgere con i loro figli. Ad alcuni è stato detto di sopprimere le emozioni, agli altri di agire normalmente. Si trattava di una costruzione con i Lego: i bambini hanno ricevuto un libretto d’istruzioni, ma non potevano toccare i pezzi, mentre i genitori dovevano assemblarli, senza però guardare le istruzioni. Nel frattempo, gli studiosi esaminavano la reattività, il calore, la qualità delle interazioni e il modo in cui i genitori assumevano il ruolo di guida per il proprio bambino. Sia genitori che figli erano collegati a dei sensori che misuravano vari parametri, tra cui frequenza cardiaca e livelli di stress. «Il nostro obiettivo – ha spiegato Sara Waters, una delle ricercatrici che ha contribuito allo studio – era osservare come sopprimiamo le emozioni e in quale modo questo influenza l’interazione tra genitori e figli». Ebbene, dai dati raccolti è emerso che l’atto di provare a dissimulare lo stress ha reso
i genitori dei compagni meno efficaci e positivi. «Davano meno indicazioni e il rapporto peggiorava non solo da parte degli adulti. Anche i bambini diventavano meno reattivi e positivi nei confronti dei loro genitori. È quasi come se gli adulti stessero trasmettendo le emozioni negative», continua la studiosa. Ci vuole infatti dell’energia per reprimere le emozioni. «Un’energia che viene tolta a qualcos’altro – afferma Julie de Szy, psicologa e psicoterapeuta, con studio a Lugano – bisognerebbe vivere con i nostri figli le emozioni, ma se siamo intenti a cercare di nascondere le nostre, ci allontaniamo dall’assaporare con loro il qui e ora». Secondo i risultati dello studio californiano, infatti, i bambini che hanno a che fare con mamme o papà che si mostrano stressati, arrabbiati o tristi hanno con loro un rapporto più stretto. Esternare gli stati d’animo negativi in maniera sana di fronte ai bambini è quindi meglio che autocensurarsi. «Esprimere le emozioni negative fa parte di noi, così come cercare di nasconderle. Entrambi i processi lasciano sempre trasparire qualcosa che viene percepito dai nostri figli – continua Julie de Szy – a monte del dilemma soppressione-espressione delle emozioni bisogna innanzitutto considerare l’impossibilità di non comunicare questi processi emotivi: anche quando non dico qualcosa, di fatto, sto comunicando che non lo comunico». Ciò non va però visto come qualcosa di negativo: «In questi frangenti il genitore si svela in tutta la sua autenticità, mostrando che non sempre l’emotività può essere completamente controllata. Insegna così al proprio figlio che esistono dei limiti di tollerabilità e di capacità di gestire le emozioni. Questo è molto importante, perché il genitore non deve porsi in un’ottica di onnipotenza, ma piuttosto di esempio e, soprattutto, cercare di gestire le varie situazioni con consapevolezza ed equilibrio. Come dicevano i filosofi greci, “la virtù sta nel mezzo”, anche se poi questa giusta misura non è facile da trovare», spiega la piscoterapeuta. Come abbiamo visto, nemmeno i genitori più abili riuscirebbero a sopprimere le proprie emozioni al punto di
I bambini che hanno a che fare con genitori che mostrano le proprie emozioni hanno con loro un rapporto più stretto. (Marka)
non far passare nulla. A ciò si aggiunge il fatto che i bambini hanno una capacità spiccata di sentire quello che sente l’adulto. Si tratta di qualcosa di fisiologico: i loro circuiti neuronali più attivi sono i cosiddetti “neuroni specchio”, responsabili dei processi empatici. «I bambini sono bravi a raccogliere gli indizi sottili delle emozioni. Se sentono che qualcosa di negativo è successo e che i genitori si comportano normalmente, si sentono confusi. Gli adulti, in questo modo, inviano due messaggi contrastanti», commenta Sara Waters, la quale suggerisce che la cosa migliore è che essi vedano il modo in cui il genitore riesce a superare le difficoltà: «Lasciate che vedano l’intero percorso: questa esperienza aiuterà i bambini a imparare a regolare le proprie emozioni e a risolvere i conflitti. È meglio far sapere ai bambini che si è arrabbiati e rivelare cosa si ha intenzione di fare per migliorare la situazione». Spiegando, per esempio, le ragioni della nostra rabbia, il bambino comprenderà il nesso causa-effetto tra gli eventi e gli stati emotivi dell’adulto di riferimento. Questo tipo di dialogo è
particolarmente importante quando ci si trova confrontati a situazioni delicate – come possono essere un lutto, una separazione, una malattia, un abbandono – che coinvolgono tutti i membri della famiglia. «In questo tipo di situazioni è fondamentale che il bambino capisca che non è colpa sua, che non è la sua responsabilità – commenta Julie de Szy – per aiutarlo ad attraversare le sue emozioni negative, gli adulti non devono nascondere il dolore, pur sapendolo modulare, ma mostrarsi nella propria autenticità ed essere pronti a condividere e accogliere le paure e i quesiti del figlio». Le emozioni negative non fanno infatti male ai bambini in quanto tali, ma in quanto non gestite e non elaborate all’interno della relazione con gli adulti di riferimento. «I bambini vanno educati a risolvere le situazioni dolorose e il modo più efficace per farlo è vivere il dolore, chiaramente laddove è possibile. Il genitore dovrebbe insegnare al figlio, consentendoselo in primis, la capacità di sentire fino in fondo le emozioni, di pensare fino in fondo i pensieri, stimolando così la capacità rappresentativa, perché nel momento
in cui il bambino può pensare, vivere e rappresentarsi le emozioni ha accesso ad un processo di trasformazione e quindi di elaborazione di esse – spiega la psicologa – se ciò invece non avviene, il bambino sarà portato ad agire gli stati emotivi, per mezzo di scatti di rabbia, pianti, disperazione, distruzione o vari sintomi psicosomatici, che non hanno valore trasformativo e che non comportano crescita psicologica e apprendimento». Per una corretta educazione emotiva dei propri figli, i genitori dovrebbero prima di tutto educare se stessi in questo senso, dal momento che il meccanismo di identificazione è quello che incide più di ogni altro processo educativo: «Non conta solo quello che chiedo a mio figlio di fare ma anche quello che io riesco a fare e, a tal proposito, per avere un rapporto sano con le proprie emozioni, bisognerebbe imparare ad essere prima di tutto tolleranti nei confronti delle proprie debolezze, darsi delle regole e dei limiti che si riescono a rispettare, porsi degli obiettivi che si pensa di avere la capacità raggiungere», conclude Julie de Szy. Annuncio gratuito
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Società e Territorio Rubriche
Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni Da malcostume a buoncostume Tra i cambiamenti più vistosi del nostro tempo, l’atteggiamento nei riguardi della sessualità spicca con particolare evidenza. Nel giro di alcuni decenni, tabù, divieti e censure in vigore da secoli e secoli sono stati abbattuti: la verginità non è più un pregio femminile, né una condizione per il matrimonio; il pudore è circoscritto a parti sempre più ridotte del corpo; l’omosessualità non è più un reato punibile, né un fattore di discriminazione sociale; la castità non è più una virtù – anzi, semmai lascia sospettare qualche carenza fisiologica… Insomma, ciò che oggi appare normale avrebbe suscitato lo scandalo non solo in epoca vittoriana, ma anche al tempo dei nostri nonni. In contrapposizione a questa tolleranza, si inasprisce – e giustamente – la condanna di ogni forma di violenza sessuale, dalle violenze domestiche allo stupro e all’abuso su minori. Pochi giorni fa, a Roma, si è concluso
il summit indetto da papa Bergoglio proprio per porre fine – o almeno per contrastare più efficacemente – i troppi casi di abusi sessuali ad opera del clero venuti alla ribalta negli ultimi anni. Il summit è stato dunque motivato dalla consapevolezza, come si legge nella lettera pontificia dell’agosto 2018, della «sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate». Se si confrontano questi due recenti sviluppi riguardo al tema della sessualità, un contrasto appare evidente: da un lato, tolleranza o lassismo nei confronti di comportamenti che prima erano severamente condannati; dall’altro, severità e rigore verso altri comportamenti che in precedenza venivano passati sotto silenzio e tacitamente tollerati. Quello che a prima vista sembra contraddittorio, in realtà è coerente con la nuova morale d’oggi: la libertà
del singolo costituisce uno dei valori dominanti del nostro tempo, e dunque nessuno ha il diritto di intromettersi nelle scelte di vita privata; la violenza, invece, è condannabile in quanto lede la libertà del soggetto e il rispetto dovuto alla persona. Questa nuova morale è dunque un evidente progresso rispetto a quella passata. Ma, naturalmente, non è tutto oro quel che luccica. L’esplosione della libertà individuale si manifesta, in primo luogo, nella crisi dell’istituzione familiare: il matrimonio è in crisi (e la Svizzera ha un tasso di divorzi tra i più alti del mondo). Finché il sacramento matrimoniale trovava un indiscusso consenso tra i credenti, in genere ci si atteneva ad un’unione indissolubile secondo la formula «finché morte non vi separi»; ma anche questa formula risulta oggi inadeguata ai tempi. In passato, un uomo e una donna che contraevano il matrimonio a venticinque
anni potevano contare, in media, su quindici anni di vita in comune, dopo di che uno dei due coniugi moriva; ma al giorno d’oggi, la medesima coppia può sperare di vivere insieme più di mezzo secolo. Sarebbe dunque necessaria una resistenza ben maggiore. Ma poi, in un mondo dove tutto cambia, cambia anche la sessualità: non si deve più attendere il matrimonio per consumare un rapporto, anzi, è abbastanza comune provare più partner prima di effettuare la scelta impegnativa. In casi sempre più numerosi, poi, si comincia con una convivenza per poi ratificarla, eventualmente, con un contratto matrimoniale. Anche in questo caso la solidità della coppia è sottoposta a un collaudo, come per un prodotto commerciale. Di conseguenza, l’età dell’unione coniugale tende a spostarsi ben più avanti di quanto accadesse in passato. È anche in continua crescita il numero dei giovani che utilizzano
internet e il «dating app» per incontrare un partner: la diffusione degli smartphone rende dunque comoda la scelta tra una miriade di «prodotti»; negli USA, nel 2015, una statistica rendeva noto che una coppia su tre si era incontrata on-line. In crescita sono anche le unioni tra omosessuali. Infine, i rapporti sessuali sono sempre meno finalizzati ad avere figli: i metodi contraccettivi e la pratica dell’aborto rendono possibile una maternità solo per scelta volontaria; e infatti la natalità è in decrescita. Del resto, già oggi sono possibili nuovi modi di procreare e altri si affacciano all’orizzonte. Goethe vedeva giusto: nel Faust il dottor Wagner, che sta per creare in provetta l’homunculus, proclama: «Dichiariamo il modo solito / di generare una farsa inutile. [...] Se alle bestie continuerà a piacere, / in avvenire l’uomo con le sue grandi doti / dovrà avere un’origine più nobile».
fondo» è la frase di rito che accompagna la cioccolata calda. Dopo pochi sorsi è un tuffo nell’infanzia, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, al quarto riaffiorano ricordi invernali di quasi vent’anni fa dai quali emerge preciso il sorriso di una ragazza pigra in pullover di lana shetland, poi al quinto ti godi il presente e ti senti di colpo a casa. «Non potevo staccare la bocca dai bordi deliziosi della tazza» scrive Maupassant a proposito di una cioccolata calda nei Racconti della beccaccia (1883). Le ultime ricerche dell’Università della Pennsylvania, a quanto pare, dicono che su dei cocci ritrovati nella foresta tropicale, nell’attuale Golfo del Messico, tracce di teobromina collocherebbero i primi sorsi di cioccolata calda alla civiltà olmeca: un migliaio di anni avanti Cristo. «Bonjour Christian!»: per nome viene salutato un cliente abituale «un po’ indietro di cottura» come diceva la zia Ilda, coccolato a voce da Christin che gli porta un caffè offerto dalla vicina di tavolino. Tre pignons vengono incartati
e messi in borsetta da un’altra habitué appena arrivata chez Auer. Henri Auer parte da Pontresina e approda a Toulon, in Costa Azzurra, nel 1820. Inizia così la dinastia degli Auer che dall’Engadina al Mediterraneo – tratto comune a molti pasticceri grigionesi l’emigrare al sud fondando epocali pasticcerie come per esempio Klainguti a Genova, Caflisch a Napoli e Palermo, Caviezel a Catania – passando per Berna, arrivano a Ginevra. Negli anni venti, oggi è la quinta generazione. Come la confiserie-chocolaterie Auer di Nizza, la loro cugina nata nel 1890 e reputata per la frutta candita. Le magistrali amandes princesses hanno invece fatto la fama della chocolaterie Auer (377 m) di Ginevra, dietro le quinte della quale, il direttore d’orchestra è Philippe Auer; cinquantenne premiato nel 2007 come «meilleur chocolatier de Genève». Rimarchevolissima inoltre è la scelta controcorrente di non moltiplicarsi in altre filiali cittadine come la Chocolaterie Rohr o la rinomata Chocolaterie du Rhône che adesso c’è
anche a Dubai, perdendo, ai miei occhi, ogni motivo di interesse. Un tea-room in miniatura in pieno centro a fianco di un negozietto, nel cuore delle Rues Basses, bastano. Balzo sul tavolino di fronte e prendo un pignon ben imbrunito. A morsi, la sua morbidezza s’intercala agli ultimi sorsi della mia cioccolata. Le orchidee in vetrina, in compagnia delle immancabili arance, un primo pomeriggio molto mite di fine febbraio, guardano passare i tram. Me ne vado ed entro accanto. Senza farmi distrarre dalla distesa tentatrice di cioccolatini, riesco a uscire soltanto con una scatola di amandes princesses da regalare. E cento grammi così, da passeggio. Le mandorle sono tostate, caramellizzate, ricoperte da una coltre spessa di cioccolato al latte, e spolverate di cacao. Per strada, una dopo l’altra, incominciano a sparire. Di una bontà spietata, non lasciano scampo, neanche trecento metri. In place du Molard, dove inizia Il tè delle tre vecchie signore (1941) di Friedrich Glauser, finiscono.
andamenti interessanti in grado di rivelare quando un paese raggiunge il suo punto critico determinando una migrazione di massa e come questo sia correlato a fattori come la carestia e un’economia in calo. Con questo nuovo algoritmo il giovane designer e il suo team hanno iniziato a esplorare le possibilità dell’intelligenza artificiale nel contesto Sub-Sahariano, ad esempio in Namibia, con l’intenzione di predire se nei prossimi cinque anni potrà esserci una crisi che porterà ad un fenomeno migratorio importante. Hanno raccolto dati sulla crescita della popolazione e constatato che i numeri degli ultimi anni sono in continua crescita. Li hanno incrociati con quelli del PIL che pure ha avuto una crescita esponenziale e continuerà su questa scia nei prossimi cinque anni. Risultato: la pressione economica nel paese porterà ad una emigrazione di massa da questa regione. La cosa interessante è che questa tecnologia lavora sui dati storici ma anche su
nuove informazioni in tempo reale – ad esempio decisioni governative che impattano sulla valuta nazionale o colpi di Stato militari – aggiustando di volta in volta l’algoritmo e le sue previsioni. Non è tutto, il software in caso di crisi imminenti è anche in grado di suggerire strategie e rimedi utili come metodi di agricoltura e fonti di cibo alternativi più rispettosi dell’ambiente oppure, nel caso di politiche che portano ad una riduzione del GDP, può suggerire strategie di lobby in grado di promuovere un cambiamento e proteggere gli interessi delle parti che in via confidenziale dispongono di questi dati. L’algoritmo per ora è ancora in fase beta, l’idea è di rendere accessibili i suoi codici e di trasformarlo in un tool per governi e organizzazioni. Intanto ci insegna che quando pensiamo all’intelligenza artificiale dobbiamo elevare il nostro sguardo e vedere oltre le auto senza pilota, i vocalizzi di Alexa e i robot domestici.
A due passi di Oliver Scharpf La chocolaterie Auer di Ginevra Nel bel mezzo di quei gelidi inverni ginevrini pervasi dalla bise, l’unica via di fuga sembrava essere la cioccolata calda di Auer. La presenza dell’ottone satinato che incornicia le due vetrine è l’insolito prologo, risalente agli anni settanta, di questo rifugio singolare qui al quattro di rue de Rive dal 1939. Rapida occhiata alle scatole di cioccolatini in vetrina, rapisce lo sguardo soprattutto un gigantesco bicchiere per margarita ricolmo di amandes princesses. Apro la porta accanto, quella che introduce in uno dei più piccoli tea-room al mondo. Una stanza tutta in mogano, tranne gli specchi. Nove minuscoli tavolini ovali in marmo, abbracciati da due ali di poltroncine in pelle capitonné tra il bordò scuro e il color prugna. Non ci sono sedie, sette mini sgabelli bassi casomai, sempre in pelle, dello stesso colore. Quasi in tinta con la sciarpa al collo di Christin, la signora che da decenni si occupa di preparare e servire cioccolate calde, cappuccini, spremute, caffè, tè. Simpaticissima non è mai stata, perlo-
meno ha il grande pregio di risparmiare salamelecchi inutili e pietose smancerie da bar insulso. Sui tavolini, sotto campane di plastica trasparente, stretti vicini uno all’altro come reggimenti, ci sono i famosi pignons: tortini cilindrici a base di pinoli. Poi comuni sandwich al prosciutto, formaggio, salame. E macarons al cioccolato enormi, fuori scala. Il tutto a libero servizio, poi si fanno i conti. Il tipo seduto qui a fianco non so quanti panini imbottiti – di quelli al latte, lunghi e morbidi – si è mangiato, più due pignons. L’intimità tra clienti è la particolarità del posto che bisognerebbe sapere quando si varca la soglia di questo buco elegante; ci si siede vicini uno all’altro come in uno scompartimento dei treni anni trenta. Quando uno parla, anche di fronte, benché non si ascolti e si faccia il possibile per astrarsi, si sente tutto. Una coppia da spremuta d’arancia, vicino all’appendiabiti e alla pianta d’appartamento nell’angolo, parla in spagnolo di una loro nevrotica amica in comune. «Mescoli bene in
La società connessa di Natascha Fioretti Intelligenza artificiale, non solo robot domestici Di intelligenza artificiale, questa sconosciuta, sentiamo parlare spesso. Credo che il più delle volte, mentre ci chiediamo quando cadrà dal cielo e ci colpirà in testa, tendiamo a guardarla, o meglio a pensarla, con un certo scetticismo. «Ma l’intelligenza artificiale è già qui» mi dice Judith Eberl, managing director di JuPantaRhei GmbH e organizzatrice di un executive forum su intelligenza artificiale e business environment il 7 e 8 marzo al LAC di Lugano. In particolare mi racconta di un’azienda in Africa che ha sviluppato un AI tool in grado di imparare dagli esperti all’opera nelle organizzazioni e capace, alla fine, di superare il maestro. L’esperto virtuale è in grado di apprendere processi decisionali e replicarli. Gli utenti a loro volta possono interfacciarsi con gli esperti virtuali tramite input vocali o tastiera. Incuriosita da questa informazione ho fatto qualche ricerca sullo stato dell’arte dell’intelligenza artificiale in Africa e mi sono imbattuta in Babusi
Nyoni, un ragazzo di 30 anni, originario dello Zimbabwe con un’esperienza migratoria alle spalle che lo ha portato prima in Sudafrica, poi in Svizzera e infine ad Amsterdam, dove attualmente si occupa di design. Babusi Nyoni è convinto che l’intelligenza artificiale sia sul punto di plasmare lo
Zeitgeist tecnologico a livello mondiale. Ha lavorato come UX Designer e Consultant per Thomson Reuters Lab a Cape Town in Sudafrica e per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati a Ginevra. In diversi interventi pubblici ha più volte raccontato come l’intelligenza artificiale possa fare la differenza nelle questioni umanitarie, in particolare nel predire le prossime grandi crisi migratorie. Ad esempio si può tradurre in un software che durante la finale di Champions League raccoglie tweet sul calcio in giro per il mondo e risponde agli stessi in modo naturale e fluido. Babusi Nyoni ha pensato di convertire questo software intelligente creato per Heineken in un utilizzo socialmente utile. È bastato sostituire i commenti sul calcio raccogliendo e incrociando dati provenienti dalla banca mondiale, dati sulla crescita della popolazione, sulle catastrofi create da condizioni di tempo estreme e la crescita del PIL. L’algoritmo risultato ha mostrato degli
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Ambiente e Benessere Il potere di Instagram Fotografiamo per attirare l’attenzione dei nostri follower, in cerca della loro approvazione?
Turismo sostenibile Gli elefanti in Thailandia: non sempre ciò che appare «bello» è anche «etico» pagina 21
pagina 20
Metamorfosi botaniche La grande diversità ambientale in mostra al Museo di storia naturale
Dalla Svizzera al Kenya Una sorta di contromigrazione sportiva, all’insegna dello scambio di competenze pagina 29
pagina 27
Protesi: nuovi orizzonti Medicina Avanza la ricerca negli interventi
chirurgici post-amputazioni a beneficio della qualità di vita
Maria Grazia Buletti La percentuale di persone che si trova a dover vivere con l’amputazione di una gamba al di sopra del ginocchio non si può fortunatamente definire consistente. Ma per chi è confrontato con la vita che segue a un intervento del genere, la propria condizione e i relativi disagi che ne derivano rappresentano il cento per cento. Perciò devono essere considerati tutti gli aspetti atti a migliorare qualità di vita, disagi e l’eventuale dolore che accompagna queste persone, con lo scopo di «alzare l’asticella» di tutti i fattori che possono in qualche modo migliorare quel «poi» già di per sé invalidante. La ricerca medica è sempre il fulcro attorno a cui si deve provare a «costruire» un futuro pregno di condizioni sempre più aderenti alle singole patologie e alla loro cura. Parliamo di chirurgia protesica ortopedica con i due viceprimari dell’Unità di Ortopedia e Traumatologia attivi all’Ospedale Regionale di Lugano: i dottori Christian Candrian e Paolo Gaffurini. Due i temi (e i relativi studi che hanno portato a importanti progressi) il cui comun denominatore sta nella protesica di anca e ginocchio: «Una prima nazionale e una prima mondiale», preannuncia il dottor Candrian che, posticipando l’approfondimento sulle innovazioni, lascia la parola al dottor Gaffurini per ciò che attiene all’impianto totale della protesi dell’anca che oggi è possibile effettuare in regime ambulatoriale. In Svizzera la degenza media dopo un tale intervento è in media di 4 o 5 giorni, un’opzione per ora «mirata a quei pazienti sui 50 / 60 anni», afferma Gaffurini che attribuisce l’attuale prudenza alla capillare preparazione pre-impianto dell’intervento ambulatoriale. «Il presupposto riguarda la degenza ospedaliera, strettamente legata alla gestione del dolore post operatorio. Condizione essenziale per procedere è un’accurata preparazione pre operatoria che tocca aspetti fisioterapici, farmacologici per il controllo del dolore e imparare a padroneggiare le stampelle». Una sorta di preparazione che responsabilizza il paziente al «poi». Cosa che comporta vantaggi: «Rispetto a prima, il recupero sarà precoce e il paziente stesso collabora attivamente e autonomamente alla sua riabilitazione». L’approccio è definito relativamente innovativo e mini invasivo: «L’accesso chirurgico avviene attraverso i muscoli che non vengono lesi ma solo spostati; il
dolore post operatorio sarà minore e la riabilitazione facile e veloce». E veniamo al secondo grande tema: lo studio cui accennava il dottor Candrian, inerente l’impianto di una protesi femorale studiata in modo specifico per quei pazienti amputati sopra il ginocchio. Con l’entusiasmo del ricercatore attento al benessere del paziente, per il quale auspica una sempre migliore qualità di vita, egli afferma che «non risultano pubblicazioni che documentino analoghi studi e interventi già avvenuti altrove, dunque: è una prima mondiale». Si riferisce ai pazienti che sino ad oggi, nel portare una protesi esterna, devono fare i conti con parecchi disagi e dolori: «Concepita come fino ad ora, la protesi esterna si fissa e appoggia sul bacino (osso pubico). È ingombrante e causa problemi di propriocezione, dolori e postura asimmetrica, ad esempio quando la persona si siede». Scomodità, dolori e fatica sono gli elementi che questo impianto protesico innovativo vuole limitare al massimo: «Ottenute le autorizzazioni necessarie per procedere allo studio – collaboriamo con Medacta (una ditta ticinese con sede a Castel San Pietro che opera nella ricerca, nello sviluppo e nella distribuzione protesica) – abbiamo studiato la parte delle protesi esterne con l’ortopedico Bösch e il dottor Nicola Schiavone (Clinica di riabilitazione di Novaggio). Un team che per il primo paziente, nel mese di dicembre, ha dapprima realizzato e poi impiantato una protesi interna, il cui perno va inserito nella parte lunga del femore. La grande innovazione sta nel fatto che questa protesi termina con una specie di “disco” piatto ad aumentarne la superficie utile dove la protesi esterna potrà poggiare, evitando perciò compressione e dolori sul bacino della persona». Con l’ausilio del modello osseo, ci viene mostrato che spesso non è possibile amputare la gamba conservando intatti parte del ginocchio e la relativa superficie utile ad ancorare la protesi esterna (su www.azione.ch, anche il video). Quindi, di norma, la superficie utile dopo l’amputazione è la parte lunga del femore, troppo piccola. Questo intervento permette di aumentarla, a vantaggio dell’appoggio: «La protesi esterna non andrà a pigiare sul bacino, ma sarà ancorata sulla parte distale della protesi interna». Di conseguenza miglioreranno materiale e fattezze della protesi esterna: «Meno voluminosa (e meno costosa) di quelle odierne, con
Il viceprimario dell’Unità di Ortopedia e Traumatologia all’Ospedale Regionale di Lugano, dottor Christian Candrian. (Vincenzo Cammarata)
un sensibile miglioramento della qualità di vita del paziente: si ovvierà ai dolori oggi causati dall’ancoraggio della protesi esterna al bacino; miglioreranno sia la propriocezione che la postura stessa». Può dirsi riuscito il primo intervento effettuato a dicembre dal dottor Candrian e dal suo team (dottor Del Cogliano) con il chirurgo estetico plastico professor Harder: «Siamo soddisfatti, non ci sono complicazioni e dopo tre settimane il paziente deambulava con la sua protesi esterna ben montata». Dal canto suo, il paziente riferisce ai medici della grande differenza rispetto la protesi classica da lui portata da parecchi anni e ne decanta i benefici sottolineando la diminuzione dei dolori che subiva in precedenza. Il dottor Candrian tira le somme di questo successo: «Nel corso dei pros-
simi mesi opereremo altri pazienti e lo studio pilota terminerà dopo cinque interventi, quando potremo verificarne benefici, back round dei pazienti, eventuali problematiche e vantaggi». Se, come ci si aspetta, i dati raccolti saranno ottimi, sarà scientificamente provato il vantaggio per rapporto al sistema vigente e saranno premiati gli anni di lavoro, gli investimenti e l’impegno della ricerca. Il rapporto costi-benefici va sempre valutato a medio-lungo termine: «Economicamente avremo una diminuzione dei costi delle protesi esterne (più leggere, da adattare con meno frequenza) e migliorerà la qualità di vita del paziente, il che potrebbe favorire un reinserimento socio-professionale, con evidenti ripercussioni positive sui costi complessivi della salute». Il «prezzo della ricerca» si compone di mezzi
economici, ideazione e realizzazione, ai quali segue la raccolta dei dati che permettono di decretarne il successo. «Sulla distanza i risultati premieranno diversi aspetti, in primis il benessere dei pazienti», ribadisce il dottor Candrian.
Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista al dr. Christian Candrian.
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Ambiente e Benessere
La linea d’ombra
Dalle steppe dell’Asia centrale
Viaggiatori d’Occidente Instagram sta cambiando il nostro modo di viaggiare
confondendo immagini e realtà
Bussole Inviti a
letture per viaggiare
Claudio Visentin
Dal 2011 al 2017 si contano oltre 250 morti per selficidio, con una rapidissima progressione Perché allora tante fotografie? Fotografiamo per raccontare in ogni momento la nostra vita: la casa, il cibo, gli animali, il tempo libero, i viaggi ecc. E spesso l’obiettivo della condivisione è attirare l’attenzione dei nostri follower, come se avessimo costantemente bisogno della loro approvazione, di essere rassicurati che viviamo nel modo giusto. Se nessuno ha messo un cuore alla nostra foto, siamo poi sicuri che fosse davvero un
«All’epoca delle elementari, grossomodo in terza, mi ero appassionato alla caduta dell’impero romano. O meglio, ero affascinato dal fatto che a un certo punto sulla mappa della storia fossero comparsi popoli forti e fieri che con una galoppata e un menar di spade avevano travolto quello che per me – convinto eurocentrico, almeno da novenne – era ovviamente il più grande impero del mondo. Mi domandavo e dunque domandavo alla severa signorina Speziali: “Maestra, da dove arrivavano tutti quei popoli?”. La risposta era sempre quella: dalle steppe dell’Asia centrale…».
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Nel giugno 2018 Instagram ha raggiunto un miliardo di utenti attivi in tutto il mondo. Era difficile immaginarlo quando fu fondata nel 2010 ed era solo una app per scattare foto con l’iPhone, modificarle con filtri creativi e condividerle facilmente in rete. Nel 2012 Instagram fu acquistata da Facebook per un miliardo di dollari: uno dei migliori affari della storia considerato che nel 2014 valeva già trentacinque miliardi di dollari e cento nel 2018. Il nuovo social continua a crescere velocemente soprattutto tra i giovani sotto i trentacinque anni d’età (Millennial): ha quindi tutto il futuro per sé. In pochi anni potrebbe raggiungere i due miliardi di utenti, poco meno di quelli attivi ora su Facebook. Ogni giorno un miliardo e ottocento milioni di foto vengono caricate in rete, più di trecento milioni proprio su Instagram. In origine la nuova app puntava soprattutto sull’immediatezza nello scattare e condividere foto (Instagram = Instant Camera + Telegram), ma strada facendo ha contribuito a cambiare il significato sociale della fotografia. A differenza del passato non fotografiamo più solo per ricordare eventi memorabili; secondo la psicologa cognitiva Linda Henkel (Fairfield University, Connecticut) potrebbe benissimo essere il contrario. La ricercatrice ha portato i suoi studenti in un museo d’arte e ha chiesto loro di osservare alcuni oggetti e di fotografarne altri. Il giorno seguente un test della memoria ha rivelato che gli oggetti osservati erano ricordati meglio di quelli fotografati.
momento speciale? Anzi è davvero esistito, quel momento? L’anno scorso «The Oxford English Dictionary» ha registrato una nuova parola: Instagrammable. È un luogo o una situazione particolarmente adatta per scattare una foto interessante, spesso un selfie. Per esempio la nuova moda di fotografare il cibo e condividerlo sui Social network ha prodotto una nuova generazione di ristoranti Insta-friendly. Ogni aspetto di questi locali, dall’arredamento all’illuminazione, al modo in cui il cibo viene presentato, è pensato per una migliore resa su Instagram. Un ottimo esempio è il ristorante Pez Playa aperto in agosto a Palma di Maiorca. Sin dall’arrivo degli ospiti il personale incoraggia l’uso di Instagram, suggerendo di ordinare piatti diversi per creare foto più vivaci e disponendo le portate sul tavolo con cura; dessert o cocktail gratuito se i clienti condividono un’immagine con l’hashtag del ristorante. Anche gli hotel stanno assecondando questa tendenza. Il resort The Conrad Rangali Island, alle Maldive, mette a disposizione un Instagram Butler, un assistente personale per gestire al meglio il proprio profilo Instagram. Questa nuova figura è sempre più utilizzata nei viaggi di nozze, come nel
caso del resort messicano Grand Velas Riviera Nayarit. Invece l’Hotel Ovolo 1888 Darling Harbour a Sydney offre la stanza gratis a chi ha più di 10mila follower. In viaggio, naturalmente, l’uso di Instagram è ancora maggiore, con conseguenze prevedibili. Fotografiamo soprattutto luoghi facilmente riconoscibili (anche se magari da punti di vista particolari) e questo produce conformismo, rafforzando il turismo di massa. Considerate l’elenco dei dieci luoghi più fotografati su Instagram: comprende tre parchi Disney (Anaheim, Orlando, Tokyo) oltre a Times Square, Central Park e il Ponte di Brooklyn a New York, Las Vegas, la Torre Eiffel e il Louvre a Parigi. Tra i millennial, la scelta dei luoghi da visitare è sempre più legata alla possibilità di scattare foto interessanti. Un perfetto esempio è la spiaggia di Chichibuga sull’isola di Shikoku. Nonostante i suoi templi, la vicinanza a grandi città e le bellezze naturali ancora qualche anno fa era a malapena conosciuta. Nel 2016 però un concorso fotografico premiò proprio l’immagine di due bambini riflessi nell’acqua perfettamente immobile di Chichibuga al tramonto. Ora ogni sera i visitatori si affollano a mi-
gliaia per catturare identiche immagini del mare infuocato (v. fotografia). Per scattare una foto vincente ed essere cool si può anche mettere a rischio la vita, sporgendosi troppo sul baratro o avvicinando animali pericolosi. Dal 2011 al 2017 – secondo il «Journal of Family Medicine and Primary Care» – si contano oltre 250 morti per selficidio, con una rapidissima progressione (3 nel 2011, 93 nel 2017). Nello stesso periodo, per fare un confronto, solo 36 persone sono state uccise dai temutissimi squali. Per avere successo su Instagram bisogna catturare rapidamente l’attenzione con immagini sempre più sorprendenti, colorate, di facile lettura; e dunque occorre studiare, lavorare sodo, seguire regole. Va ancora peggio se siete un influencer donna. La viaggiatrice di New York Oneika Raymond è andata in crisi con Instagram quando ha scoperto che raccontare una buona storia e mostrare un luogo interessante non basta più. A differenza degli uomini, per le donne essere fotogeniche conta moltissimo: bisogna mettersi in mostra, meglio se di spalle, magari con un abito colorato e un grande cappello. E così il racconto del nostro viaggio si è impadronito del viaggio stesso; la nostra ombra cammina senza di noi.
I viaggiatori indipendenti sono sempre alla ricerca di un nuovo Eldorado, anche se questo per definizione è ballerino sul filo dell’orizzonte. Dapprima fu intravisto in America centrale; poi lungo i fiumi e i villaggi del Sud-est asiatico; ora gli spiriti più inquieti lo ricercano nelle distese dell’Asia centrale. Tino Mantarro ha viaggiato in Uzbekistan, Tagikistan, Kirghizistan, Kazakistan: quattro Paesi accomunati dal suffisso -stan (viene dal persiano e vuol dire «Paese di») e da comuni memorie sovietiche, ancora vive nonostante siano passati trent’anni, anzi talora soffuse da una certa luce di nostalgia, passata anche nel titolo del libro. Ma sono poi Paesi anche assai diversi tra loro. E se lo sterminato Kazakistan può contare su vaste riserve di petrolio e gas, nel più povero e montuoso Kirghizistan si spera nell’arrivo dei turisti per diventare la Svizzera d’Asia. Certo chi ha una concezione classica della bellezza dovrebbe andare altrove. A volte Tino Mantarro quasi si scusa del suo interesse per pianure desolate, città screpolate, stabilimenti industriali abbandonati: basti dire che la prima stesura del libro s’intitolava Tutta la tristezza che mi merito, anche se poi, strada facendo, non mancano personali illuminazioni accanto a momenti stravaganti e divertenti. / CV Bibliografia
Tino Mantarro, Nostalgistan. Dal Caspio alla Cina, un viaggio in Asia centrale, Ediciclo, 2019, pp. 207, € 15,00–.
Domande tranello
Giochi di parole Il doppio senso linguistico può essere usato per elaborare freddure o questioni bizzarre congeniati. Una variante della freddura, che si presta maggiormente ad essere utilizzata sotto forma di indovinello, è costituito dalla cosiddetta domanda bizzarra. Gli esempi proposti qui di seguito, mettono in luce come, in questi casi, il doppio senso sfruttato compare direttamente nella frase interrogativa. Provate a risolverli tutti... 1. Qual è quella cosa che è sempre scoperta, anche quando è coperta? 2. Chi è che, più lavora, e più riposa? 3. Qual è quella cosa che è sempre piccola, anche quando è grande? 4. Quale oggetto resta sempre fermo, anche quando è in movimento? 5. Quale tipo di dono, più è gradito, più viene rifiutato? 6. Qual è quella cosa che è sempre bagnata, anche quando è asciutta? 7. Qual è quella cosa che, più è sterminata, e meno è sterminata?
8. Quali sono quelle cose che, più vengono rilasciate, e più vengono riprese? 9. Qual è quella cosa che può avere un
gran valore, anche quando è oggettivamente scadente? 10. Chi è sempre trasandato, anche quando è ricercato?
Risposte
L’effetto comico indotto da un doppio senso linguistico può essere sfruttato nell’elaborazione di classiche storielle. Ma, in maniera più sintetica, può essere legato a una domanda stravagante posta insieme alla relativa risposta. Gli esempi qui di seguito riportati, abitualmente catalogati come freddure (per l’effetto raggelante che producono…), mettono in evidenza come, in casi del genere, la domanda ha il compito di preparare il terreno alla contrapposizione tra due potenziali significati, mentre l’esposizione del doppio senso a cui devono riferirsi, compare solo nella risposta. ■ Perché il tempo fugge? Perché i musicisti lo battono. ■ Qual è il colmo per un fantasma? Farsi vivo ogni tanto.
■ Qual è il colmo per un editore? Regalare alla moglie delle collane economiche. ■ Qual è il colmo per un professore di geografia? Vedere un fiume seguire il suo corso. ■ Com’è possibile attraversare la giungla senza correre rischi? Camminando sulle zebre. ■ Perché i bambini degli Urali si divertono molto? Perché stanno sempre sulle montagne russe. Da quanto appena esposto è evidente che, se il propositore di una freddura concedesse al proprio interlocutore il tempo di trovare una risposta adeguata, invece di una spiritosaggine, in pratica, finirebbe per sottoporgli un indovinello. Per la loro estrema sinteticità è, in genere, piuttosto difficile riuscire a rispondere esattamente a quesiti così
1. Un’invenzione (che è sempre una scoperta, anche quando è coperta da brevetto). 2. La modella (che, più va avanti con il lavoro, e più riposa, ovvero: posa di nuovo). 3. La parola «piccola» (che non cambia significato, anche se è scritta in grande). 4. Il «fermo» della portiera di un’automobile (che continua a chiamarsi in tale modo anche quando la macchina si muove). 5. Un mazzo di fiori (che, quando è molto gradito, viene fiutato e rifiutato più volte). 6. La pasta (che, anche quando viene cucinata asciutta, deve comunque essere immersa nell’acqua…) 7. La foresta amazzonica (che, più viene distrutta, o sterminata, e sempre meno è smisurata, o sterminata). 8. Le dichiarazioni dei personaggi famosi (che, più vengono rilasciate dagli interessati, e più vengono riprese dai giornali). 9. La cambiale (che può essere di importo molto elevato, anche se è prossima alla scadenza, ovvero quando è scadente…). 10. Un malvivente, sciatto nel vestire (che è sempre trasandato, anche quando è ricercato dalla polizia).
Ennio Peres
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Ambiente e Benessere
Gli elefanti di Koh Samui
Reportage Un’area di rifugio e protezione dei pachidermi è sorta nel 2018 sull’isola thailandese
Simona Dalla Valle, testo e foto Animali sacri sia nel buddhismo sia nell’induismo (le due religioni più diffuse in Thailandia), gli elefanti sono simboli di saggezza e di forza. Raffigurati sulle monete, sui francobolli, sui loghi delle amministrazioni, sulla bandiera della marina, eccetera questi animali sono importantissimi nella cultura thailandese, tanto da avere una festa nazionale dedicata interamente a loro. Questa festa cade il 13 marzo di ogni anno con celebrazioni ed eventi in diverse località del paese. Verrebbe dunque spontaneo pensare che un animale così importante sia riverito e protetto, e invece molti elefanti sono sottoposti a torture e sfruttamento. Se nel 1850 si stimava la presenza di 100mila esemplari, questa cifra si è drasticamente ridotta fino ad arrivare ai 2700 esemplari dei giorni nostri (dati del Thai Elephant Conservation Center). Ed è solo una stima, data la difficoltà che si incontra nel contare gli elefanti selvatici per via del loro habitat fitto e boscoso. Ambiente e condizioni molto diversi e precari, quelli in cui vivono invece gli elefanti di proprietà «privata»; animali che sono impiegati principalmente nel logging (pratica del disboscamento vietata dal governo tailandese nel 1989, ma di fatto praticata ancora illegalmente) e nell’industria del turismo. Ebbene circa il 95 per cento degli elefanti thailandesi rientra in quest’ultima categoria, e prima di iniziare a lavorare sono «addomesticati». L’addomesticamento dell’elefante avviene attraverso una cruenta cerimonia tradizionale, il Phajaan, volta a «schiacciare» lo spirito selvaggio dell’animale per renderlo docile e sottomesso. In realtà più che di una cerimonia si tratta di una vera e propria tortura, durante la quale l’animale viene posto in una gabbia e legato con funi per impedirgli di muoversi e scalciare. L’elefante è sottoposto a percosse con bastoni affilati e altri strumenti, bruciature e tagli per mezzo di uncini e ganci in ferro su testa e orecchie, e nella fase conclusiva del Phajaan, il proprietario dell’animale, detto mahout, lo «libera» portandolo all’esterno della gabbia così da permettergli di nutrirsi e dissetarsi, ottenendo quindi il dominio totale dell’animale, che vede in lui un salvatore nel quale
Ai turisti non è consentito fare il bagno con gli elefanti: questa sarebbe una situazione innaturale che potrebbe causare stress agli animali.
dunque riporre la sua fiducia totale. Il rito può durare da pochi giorni a intere settimane e la maggior parte degli elefanti catturati per il Phajaan hanno fra i 3 e i 6 anni. Allo scopo di combattere tale situazione sono sorti in Thailandia numerose aree protette per la difesa e la cura dei pachidermi. Il Koh Samui Elephant Sanctuary, fondato da Wittaya Salangam, si trova nella zona settentrionale dell’isola di Koh Samui e si ispira all’operato dell’animalista e ambientalista Lek Chailert, fondatrice della Save Elephant Foundation e del rinomato Elephant Nature Park a Chiang Mai. Lek si batte per un turismo etico non solo in Thailandia ma in tutta l’Asia. Si può riconoscere facilmente un elefante che ha lavorato a lungo nel
La spiaggia di Chaweng, sulla costa orientale dell’isola.
logging perché non riesce più a piegare le zampe anteriori, mentre molti degli elefanti utilizzati nell’industria del turismo hanno strappi sulle orecchie e molteplici lesioni sulla fronte. Gli elefanti del centro hanno una storia di abuso e di violenza. Le elefantesse Cartoon e Kham San, ad esempio, sono state impiegate nell’industria del logging fino all’anno della sua abolizione e, in seguito, utilizzate per il trasporto dei turisti, che non ha loro risparmiato percorsi estenuanti senza acqua né cibo. Mae Kham Paeng viene invece da Pattaya ed è stata costretta a esibirsi fino al 2018, quando la sua liberazione è stata negoziata direttamente dai gestori del santuario. Sulle zampe e sulla coda presenta numerose lesioni. Anche Khum Phean era sfruttata a Pattaya, dove ha trasportato turisti per oltre trent’anni. Kaew Ta e Mae Kham Kaew sono cieche da un occhio in seguito a percosse da parte dei rispettivi mahout. Ma come si fa a capire, da turisti, quando le attività che pratichiamo rispettano i principi etici? Lo chiedo a Boy, la mia guida nella riserva, che mi dà consigli sia su come riconoscere i centri seri e rispettosi dell’animale, sia su cosa fare per scoraggiare la diffusione di pratiche crudeli. «Prima di tutto – ricorda – si può scegliere di non assistere a esibizioni nelle quali l’elefante è costretto a comportarsi in modo innaturale, ad esempio giocare a calcio, danzare o dipingere con la proboscide. Per far sì che l’animale impari determinati movimenti o coreografie, il proprietario lo sottopone a torture crudeli». Anche cavalcare il dorso di un elefante è una pratica che sarebbe meglio evitare: i turisti sono spesso ignari dei frequenti maltrattamenti, e il trekking con gli elefanti è purtroppo ancora una delle attività più richieste dai turisti in tutto il sud-est asiatico. È buona norma, infine, diffidare dei centri dove gli animali non sono liberi di muoversi ma sono legati con corde e catene e costretti a stare sotto il sole, o dove non viene loro dato da mangiare e da bere. In molti di questi centri che si autodefiniscono «riserve naturali» ai turisti è permesso caval-
Gli elefanti sono liberi di circolare nella riserva naturale senza funi né catene.
All’elefantessa Cartoon piace fare il bagno tutti i pomeriggi alla stessa ora.
care l’elefante e fare il bagno insieme a lui; ma queste pratiche sono da evitare, dal momento che una situazione apparentemente innocua come questa non è naturale per l’animale e rischia di confonderlo o spaventarlo. Non è raro che l’animale in un momento di lucidità si ribelli e attacchi il suo padrone o i turisti e di conseguenza sia soppresso. Il Koh Samui Sanctuary offre tour giornalieri durante i quali è possibile vedere gli elefanti da vicino, osservarli nelle loro consuetudini come il gioco, il pasto e il bagno, e dare loro da mangiare, nel rispetto totale della loro dignità.
Nel caso in cui ci si ritrovasse ad assistere a un abuso, viene consigliato di documentare l’accaduto con fotografie e video dell’animale e del mahout da lasciare poi nelle recensioni online, così da sensibilizzare i futuri visitatori di quella destinazione. Si può inoltre effettuare una segnalazione alla Save the Elephant Foundation scrivendo a info@saveelephants.org o chiamare la hotline del National Park and Wildlife al numero 1362. Per prenotare un tour è fortemente consigliato rivolgersi a enti di turismo etico e sostenibile come www.asianelephantprojects.com.
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Ambiente e Benessere
Allegri tropeoli in giardino e nel piatto Anita Negretti A una cena tra amici mi viene proposta un’insalata verde arricchita da foglie, boccioli e fiori giallo-arancio di tropeolo, un’annuale molto decorativa conosciuta anche con il nome di nasturzio (Tropaeolum majus). Conditi con olio sale e succo di limone, i fiori e le tenere foglie risultano essere molto gustose. Entusiasta dell’esperienza decido di piantarne in abbondanza nelle aiuole del mio giardino ottenendo il doppio risultato: sia estetico (i fiori sono bellissimi e molto decorativi) sia mangereccio. Sulle varie bustine di sementi che si acquistano vi sono però poche indicazioni per la crescita: piante annuali, resistenti a pieno sole, poco concime. Ben diverso è quello che si trova scritto su libri più autorevoli e, infatti, seguendo consigli esperti i risultati non si fanno attendere. Anzitutto (resistenza o no) non amano il pieno sole, ma la mezz’ombra luminosa, ad esempio potrebbero sentirsi a loro agio sotto la chioma di alberi a foglie grandi, in vasche sul terrazzo riparate dal sole del pomeriggio oppure in vasi appesi dove i lunghi rami ricadono verso il terreno. In piena ombra invece produrranno molte foglie a scapito dei fiori che saranno pochi e radi. Il terreno dovrà essere soffice e un buon trucco per ottenerlo consiste nel miscelarlo con qualche paletta di sabbia e torba così da renderlo arioso e sciolto. I grossi semi di tropeolo si interra-
no dagli inizi di aprile fino alla fine di maggio in piena terra o in vasetti tenuti al caldo. In 10-15 giorni spunteranno le prime foglie che diventeranno carnose, di un bel verde carico, con forma peltataarrotondata e lunghi piccioli. Da fine giugno, per favorire la fioritura, va somministrato concime facendo attenzione a non abbondare con l’azoto, per evitare di avere piante solo con foglie e senza fiori. L’ideale è nutrirle con un concime ricco di fosforo, che garantirà una fioritura abbondante fino ai mesi di ottobre e novembre. Le innaffiature dovranno essere costanti e generose durante tutta l’estate e vi consiglio di spargere qualche manciata di antilumaca per evitare che le foglie vengano morsicate durante le prime ore della notte. Benché esistano varietà perenni, i nasturzi vengono coltivati come piante tappezzanti o cascanti annuali, i cui semi rugosi e grossi, raccolti ogni autunno e interrati in primavera daranno vita a nuove piantine. Due sono le specie reperibili facilmente: Tropaeolum majus, con steli prostrati che arrivano alla lunghezza di 2-3 metri e Tropaeolum majus nanum che si sviluppa formando piccoli cespugli compatti e molto ramificati, più adatti alla coltivazione in aiuole o in giardini rocciosi. Se avete la fortuna di potervi procurare i semi nei vivai specializzati, specie tedeschi e inglesi, potrete creare ampie macchie di colore giocando sulle varietà: «Scarlet Glam» ha fiori scre-
Pixnio.com
Mondoverde Ravvivano l’ambiente con tanti colori e sono persino commestibili
ziati giallo rosso e arancio; «Orange Glam» e «Golden Glam» hanno sfumature accese di arancio e giallo oro con petali semi doppi. Belli facili e profumati i tropeoli sono originari del continente sud-americano dove sono molto comuni nei giardini e vengono trattati come piante
perenni. Il loro arrivo in Europa risale al 1684 e nei decenni successivi vi fu una coltivazione massiccia nei maggiori vivai e giardini di Inghilterra, Germania e Olanda, con un’intensa ricerca di varietà e ibridi dai colori sgargianti e dalle tinte variopinte. I ricercatori nel corso dei decenni
hanno potuto creare varietà con fiori dal rosso tenue fino al carico rosso sangue come in T. atrosanguineum, passando per la lunga scala dei gialli o sbizzarrendosi sulle foglie, tra cui bellissime e inusuali sono quelle porpora di T. «King of Tom Thumb» o le foglie dorate di T. coccineum foliis aurus. Annuncio pubblicitario
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Idee e acquisti per la settimana
Fonti di proteine Per molte persone rimanere fit e in forma è importante. Questo è il motivo per cui prestano attenzione alla loro dieta e cercano di rifornire il loro corpo con nutrienti specifici. Una dieta ricca di proteine è particolarmente apprezzata. Nel suo assortimento Migros propone numerosi prodotti che rendono piacevole seguire una variegata dieta ricca di proteine. Le monoporzioni sono pratiche in particolare quando si è fuori casa o subito dopo l’attività sportiva.
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Ecco perché il corpo ha bisogno delle proteine
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Le proteine (protidi) costituiscono una componente importante e centrale delle cellule del nostro corpo. Anche altre sostanze che svolgono compiti vitali sono costituite da proteine o dai loro componenti, gli amminoacidi. Non c’è quindi da meravigliarsi se le proteine hanno un ruolo centrale nella nostra alimentazione.
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Sono in particolare i culturisti e chi si allena per potenziare la forza ad attingere ai prodotti ricchi di proteine, per sostenere l’aumento di massa muscolare. Un sufficiente apporto di proteine non è però essenziale solo per gli sportivi, bensì per tutti. Questo perché un adeguato apporto di proteine è importante non solo per il mantenimento della massa muscolare e di quella ossea, ma anche per diverse funzioni vitali. Le proteine contribuiscono per esempio al mantenimento di ossa normali. Chi assume vari tipi di proteine animali e vegetali si assicura il rifornimento di tutti gli amminoacidi di importanza vitale.
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Ambiente e Benessere
Zuppa di pesce allo zafferano
Migusto La ricetta della settimana
Primo piatto Ingredienti per 4 persone: 4 gamberoni crudi non sgusciati · 2 cc d’olio d’oliva ·
migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.
2 dl di vino bianco · 5 dl di fumetto di pesce · 1 gambo di sedano · 2 scalogni · 250 g di brunoise di verdure surgelate · 3 prese di stimmi di zafferano · 200 g di pomodori cherry · sale · 300 g di vongole · 300 g di filetti dorsali di merluzzo · 200 g d’anelli di calamaro · ½ mazzetto d’aneto · 1 baguette · 4 cc di salsa aioli o all’aglio (vedi suggerimenti). 1. Sgusciate i gamberoni e soffriggete i gusci in un po’ d’olio, finché il soffritto profuma di buono. Spegnete con il vino e il fumetto di pesce e lasciate cuocere per 10 minuti. Filtrate il fondo con un colino raccogliendolo, mettete da parte. Gettate via i gusci di gambero. 2. Mettete da parte le foglie più belle del sedano. Affettate finemente il gambo. Tritate finemente gli scalogni. Soffriggete nell’olio rimasto il sedano, la brunoise e gli scalogni. Unite lo zafferano, soffriggete brevemente, poi spegnete con il fondo messo da parte. Unite i pomodori dimezzati, incoperchiate e fate cuocere per circa 10 minuti. Salate. 3. Sciacquate le vongole sotto l’acqua corrente, scartate quelle danneggiate o aperte. Unite le vongole alla zuppa, fatele cuocere per circa 5 minuti. Tagliate il merluzzo a pezzetti di 3-4 cm. Aggiungetelo alla zuppa con i calamari e i gamberoni. Continuate la cottura a fuoco basso per circa 10 minuti. Salate. 4. Poco prima di servire, tritate l’aneto, le foglie di sedano e distribuite sulla zuppa. Servite con la baguette affettata e la salsa aioli. Preparazione: circa 35 minuti. Per persona: circa 37 g di proteine, 23 g di grassi, 43 g di carboidrati, 580
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Ambiente e Benessere
Tra arte e natura
Esposizione Al Museo cantonale di storia naturale di Lugano, una mostra che vuole essere un punto d’incontro
tra lo sguardo dello scienziato e quello dell’artista Elia Stampanoni Scoprire in modo diverso l’affascinante mondo vegetale non solo dal lato scientifico, ma anche da quello artistico. È l’intento della mostra temporanea che si intitola «Metamorfosi botaniche»; ad organizzarla, il Museo cantonale di storia naturale in collaborazione con l’artista Ruth Moro.
Dall’origine all’evoluzione del regno vegetale, che ha saputo conquistare le terre emerse I pannelli dell’installazione, una decina, fanno da filo conduttore alla visita spiegando in modo semplice dapprima l’origine e in seguito l’evoluzione del regno vegetale. Dopo la dovuta fase introduttiva, si capisce come le piante abbiano saputo conquistare le terre emerse, adottando degli accorgimenti strutturali, innanzitutto per evitare l’essicazione, per sostenere il proprio peso, per il trasporto dei nutrienti e per la riproduzione in un ambiente non più acquatico. Le prime piante terrestri sono state le briofite, una divisione che racchiude muschi, epatiche e antocerote. Se di quest’ultima in Svizzera se ne conoscono solo tre specie, i muschi sono ben più noti e al mondo ne esistono circa 13mila specie, di cui 834 si trovano su suolo elvetico. Accanto all’aspetto più scientifico dell’esposizione, quello artistico è rappresentato dalle carte e dalle opere realizzate da Ruth Moro, artista nata a Svitto, che ora vive e lavora a Cavigliano. Si tratta prevalentemente di carte realizzate sulla base della tecnica giapponese washi, con l’impiego di materie prime quali foglie, brattee, frutti, steli e cortecce, guarda caso le stesse strutture che hanno avuto gli adattamenti maggiori nell’evoluzione
Una parete della mostra. (Elia Stampanoni)
delle specie vegetali. Il washi, chiamato anche «carta giapponese», è un tipo di carta fatta a mano e di buona consistenza che può essere utilizzata in molte applicazioni. Per la lavorazione si utilizzano le fibre vegetali delle piante locali che conferiscono caratteristiche differenti alla carta. Una tecnica ripresa e adattata dall’artista, che accompagna lungo l’esposizione seguendo la metamorfosi delle piante. Se i muschi sono ancora privi di tessuti vascolari lignificati, questi appaiono nelle pteridofite, il secondo grande gruppo evolutivo che comprende le poco note licofite, gli equiseti e la più familiare classe delle vere
felci, di cui in Svizzera se ne contano circa 60 specie. Grazie alla presenza di strutture lignificate e differenziate, anche le opere di Ruth Moro prendono forma e consistenza diversa, mutando parallelamente all’evoluzione della specie. Dopo le pteridofite ecco emergere il grande gruppo delle spermatofite, dove il seme sostituisce le spore nel ciclo riproduttivo. Ne fanno parte le gimnosperme, come le conifere, e le angiosperme, ossia le vere piante a fiore, di cui solo in Svizzera se ne contano quasi 4mila specie. La visita della mostra prosegue e, come cita la locandina, «vuole trovare un punto d’incontro tra lo sguar-
do dello scienziato e quello dell’artista sulla grande diversità di forme e strutture presenti in natura». Le molte trasformazioni che le piante hanno dovuto affrontare nel corso dell’evoluzione, in particolare quelle strutturali, accompagnano anche la parte artistica che può quindi appoggiarsi sull’ampia varietà di strutture apparse nei vegetali più sviluppati, quali radici, fusti, frutti e fiori. Per le prime carte dell’esposizione è stato per esempio usato del muschio raccolto a Ritorto in Valle Bavona, poi felci e in seguito steli di erbe, petali, sepali o cortecce. Ma anche scorze di fico, luppolo, carote cotte, barbabietole o brattee di tiglio. Specie vegetali
raccolte in Ticino e in Europa, ma anche ben più lontano, come per esempio il bambù dorato o il ginkgo biloba cinesi, l’acacia nera australiana, la yucca americana o la cannuccia di palude africana. Al centro di questo lavoro di Ruth Moro ci sono quindi soprattutto le fibre vegetali che grazie al loro contenuto di cellulosa e alla loro diversità consentono di proporre delle opere affascinanti. Composizioni che vogliono anche trasformare la natura in arte, una sorta di metamorfosi culturale narrata lungo le cinque sale della mostra che si potrà visitare fino al 31 agosto 2019, per l’appunto, al Museo cantonale di storia naturale a Lugano. Annuncio pubblicitario
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Publireportage: In forma al volante con più di 70 anni
IN FORMA AL VOLANTE CON PIÙ DI 70 ANNI Guidate un’auto e avete più di 70 anni? Rallegratevi: da quest’anno la visita medica periodica per i conducenti è obbligatoria soltanto a partire dai 75 anni. Finora il limite era di 70 anni. Per essere bene in forma e guidare un’auto in modo sicuro fino a quel controllo, è importante che vi assumiate le vostre responsabilità nella circolazione stradale. In questo vi aiuta la campagna di prevenzione Routinier 70+ con consigli utili, esercizi, autocontrolli e uno stand fieristico interattivo.
«Il 90 percento di ciò che accade nel traffico stradale viene percepito attraverso gli occhi. Grazie ai miei occhiali vedo ancora lontano.»
Potete fare molto per essere in forma al volante Andare in montagna per un’escursione, visitare gli amici o fare la spesa – l’auto vi rende indipendenti anche se avete più di 70 anni e vi garantisce una qualità di vita elevata. Perciò vale la pena di fare attivamente qualcosa a questo riguardo. Nella terza età l’acuità visiva e l’udito calano. Anche le capacità motorie diminuiscono lentamente. Inoltre la capacità di reazione rallenta. Sono tutti fattori importanti per guidare un’auto. Però per fortuna ci sono molte contromisure da prendere per continuare a guidare l’auto in modo sicuro. Allenatevi con www.routinier70plus.ch La campagna Routinier 70+ vi offre un aiuto eccellente. È focalizzata sui conducenti come voi, che hanno compiuto 70 anni. Vi insegna in modo semplice e comprensibile con quali esercizi e test di autocontrollo potete mantenervi in forma al volante, allenare il corpo e la mente e rinfrescare le vostre nozioni teoriche. Pertanto Routinier 70+ offre un contributo importante affinché restiate mobili in tutta sicurezza. Che ne dite di iniziare subito con l’allenamento? – Ne vale sicuramente la pena! Gli obiettivi di Routinier 70+ La campagna vi aiuta con delicatezza ad assumervi la vostra responsabilità personale nella circolazione stradale. Inoltre Routinier 70+ vi informa sui rischi della circolazione stradale e le alternative della mobilità. Ma grazie a esercizi e test semplici la campagna vi motiva soprattutto a diventare subito attivi, in modo da poter guardare con fiducia all’esame medico a 75 anni. Buon divertimento! Tutte le informazioni su: www.routinier70plus.ch
Allenamento live allo stand fieristico Fateci visita in una fiera – l’allenamento live è piacevole e aumenta la vostra sicurezza sulla strada. Allo stand potete mettere alla prova in modo interattivo la vostra attenzione e le vostre nozioni nella circolazione stradale. Il simulatore di guida è l’ideale per controllare percezione e reazioni. Provatelo in una fiera nelle vostre vicinanze. Potete apprendere le date delle fiere nel sito www.routinier70plus.ch o telefonando allo 031 328 31 33.
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Che grazie allo stato di salute sempre migliore dei settantenni il limite per la visita medica per i conducenti sia stato innalzato di 5 anni è un fatto positivo. Congratulazioni! Però questo significa simultaneamente che adesso avete la responsabilità di mantenervi in forma per la guida fino alla visita medica a 75 anni. Ne vale anche la pena se fate qualche gita in auto con i vostri nipotini. Quanto meglio guidate, tanto maggiore la sicurezza con cui circolate e tanto più bella diventa la giornata passata insieme. La guida sicura si basa su un apprendimento e una formazione continua durante tutta la vita. È importante, perché il traffico stradale diventa sempre più fitto e i segnali e le leggi cambiano.
Vi prego di inviarmi materiale informativo supplementare: ____ es. Autovalutazione della capacità di guida (Art.-Nr. 100I) ____ es. Opuscolo Routinier 70+ (Art.-Nr. 300I) Ritagliare il tagliando e inviarlo a: Automobile Club Svizzero Routinier 70+ Wasserwerkgasse 39 CH-3000 Berna 13
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Ambiente e Benessere
Attenzione al keniano bianco
Sport Non corre in bicicletta e non è britannico. È svizzero, corre a piedi, ed è piuttosto veloce
(1964), dagli anni Ottanta, con l’arrivo sulla scena atletica mondiale dei keniani, i mezzofondisti e i fondisti africani sono diventati padroni del mondo. Ne ho preso atto, senza disporre degli strumenti scientifici per disquisire sulla predisposizione o meno, di un’etnia o di un popolo, verso una determinata disciplina sportiva, anche perché credo che nel rapporto origini-risultati rientrino molti fattori, quali la cultura sportiva del paese in cui si è nati, la tradizione, la presenza o meno di un campione che possa fungere da modello trainante, il supporto della famiglia, i mezzi finanziari (pubblici e privati) a disposizione, il know how tecnologico, eccetera. Sta di fatto che Julien Wanders è europeo, di carnagione chiara, eppure si sta intrufolando sempre più in un mondo che, negli ultimi tre decenni, sembrava un feudo africano. Il trucco c’è, e si vede. Dopo la maturità, il ragazzo si è caricato lo zaino sulle spalle ed è volato a Iten, in Kenya, a 2200 metri di altitudine. Da lì si è mosso solo per gareggiare. Vive lì, non da ricco colonizzatore, ha una fidanzata keniana, si allena come i keniani, si alimenta come loro, e fa scuola. Infatti, da alcuni mesi altri atleti europei, hanno preso in considerazione questa opzione. È una sorta di contromigrazione sportiva, all’insegna dello scambio di competenze. Un rimescolamento di concezioni e di idee, che potrebbe suonare da monito e da sprone: «se trovi la chiave di lettura e ti impegni, anche se sei sudamericano, asiatico o africano, un giorno potresti vincere la discesa libera del Lauberhorn».
Giancarlo Dionisio «Carneade, chi era costui?» L’incipit dell’ottavo capitolo dei Promessi sposi, si sposa perfettamente col personaggio che desidero presentare. Tuttavia non sono Don Abbondio, e, per ragioni professionali sono tenuto a conoscere un giovane svizzero, considerato come una delle stelle nascenti dell’atletica mondiale, mentre per i più, Julien Wanders è effettivamente un Carneade, «uno sconosciuto». Compirà 23 anni il prossimo 18 marzo. È ginevrino, ha nazionalità svizzera e francese ed è nato in una famiglia di musicisti. La mamma, Bénédicte Moreau, è violinista nell’Orchestra della Svizzera Romanda, il babbo, André, è violoncellista. Julien, invece, come strumento, usa il suo corpo, cuore, polmoni, gambe, piedi. Il suo palmares sportivo è da pelle d’oca, anche se buona parte degli appassionati ha sentito il suo nome per la prima volta il 9 dicembre dello scorso anno, quando è stato nominato Miglior Giovane Speranza dello sport svizzero, davanti al campione mondiale Under 23 di ciclismo, Marc Hirschi. Ero quasi certo che quest’ultimo avrebbe avuto la meglio, poiché la sua impresa iridata di Innsbruck mi pareva inarrivabile. Poi mi sono preso la briga di documentarmi sul giovane romando e ho capito che la lotta sarebbe stata apertissima. Prima di quel giorno, Julien Wanders aveva polverizzato il record nazionale Under 23 della Mezza maratona, sottraendolo all’icona Viktor Röthlin, quindi aveva conquistato il primato europeo assoluto dei 10 km su strada,
L’elvetico Julien Wanders, a destra, primo classificato, e il keniota Fredrick Kipkosgei Kiptoo, a sinistra, alla 41a gara di Escalade a Ginevra. (Keystone)
strappandolo al britannico Nick Rose. Quest’anno, quasi a voler legittimare il titolo, il giovane maratoneta si è permesso di esagerare. L’8 febbraio, a Ras al-Khaima, ha firmato la miglior prestazione europea della mezza maratona. Tempo: 59 minuti, 13 secondi. Una follia. Ex primatista: Mohamed «Mo» Farah, il pluriolimpionico britannico. Un delirio. Julien è salito al quarto posto della graduatoria mon-
Giochi Cruciverba Scopri il proverbio nascosto nel cruciverba risolvendolo e leggendo nelle caselle evidenziate. (Frase: 6, 2, 5, 3, 9, 8)
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Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
culturali. Per un giornalista sportivo sono un fantasma in agguato, insidioso ancor più di quanto non lo siano gli stereotipi linguistici. Già poche righe sopra, evidenziando che Julien è il migliore dei non africani, sono scivolato su un luogo comune. Comprensibile, credo, poiché, se l’etiope Abebe Bikila aveva tracciato la strada negli anni Sessanta, vincendo, scalzo, le maratone olimpiche di Roma (1960) e Tokyo
Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
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ORIZZONTALI 1. Donna bruttissima 6. Nota città francese 11. Articolo 12. Soccorso poetico 14. Un giro in Francia 15. Il Teocoli della tv 17. Personaggi delle fiabe 19. Due nel canotto 20. Corsi d’acqua nei deserti africani 22. Parla senza la lingua... 23. Destinate ai sacrifici 24. Un numero inglese 26. La si frequenta spesso 28. Impiegati per fabbricare pennelli 30. Le figlie di Zeus e Temi 32. Periodi difficili 33. Lo era Pietro il Grande 35. Il re della Tavola Rotonda 37. Pollaio senza polli 38. Taccuino 40. Si contano a scopa 41. Impugnato da Robin Hood 43. Fu amata da Vasco de Gama 45. Quattro romani 46. Scrupoloso, diligente 47. Nutrono vane speranze
diale, primo dei non africani. Non completamente appagato, una settimana più tardi, a Monaco, ha demolito il primato mondiale dei 5 km su strada, correndoli in 13’29’’. In Svizzera su pista resiste ancora il 13’34’’ di Markus Ryffel. Cifre da capogiro, che ci giungono da parte di un giovane atleta che rimescola le carte e ci mette in crisi, costringendoci a riflettere sui nostri pregiudizi
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VERTICALI 1. Prestiti bancari 2. Eroe troiano 3. Le iniziali dell’imitatrice Aureli 4. Scorre... perfido 5. Fosche, tenebrose 7. Andati alla latina 8. Coppia di anelli 9. Una parente 10. Ripide, scoscese 13. È detta muta 16. Se sono buoni vengono... rifiutati 18. Un famoso sapiens 21. Termine di diminutivi maschili plurali
23. Un albero 25. In coppia con Ezio in «Striscia la Notizia» 27. Fa trascendere 28. Rossi come i… quadri 29. Contrari ai dittonghi 31. In questo luogo, poetico ... 32. Era una divinità cananea 34. Grosse ghiandole 36. Un poker mancato 38. Pronome personale 39. Il sale francese... 42. Le iniziali di Goldoni 44. La protagonista de La Ciociara (iniz.)
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
Partecipazione online: inserire la
soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la so-
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Soluzione della settimana precedente
GIOCHI OLIMPICI – Il motto dei Giochi olimpici: PIÙ VELOCE, PIÙ IN ALTO, PIÙ FORTE.
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luzione, corredata da nome, cognome, indirizzo, email del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 6315, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui
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concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia Riflettori su Hanoi Il Vietnam comunista, modello di sviluppo per la Corea del Nord?
Stallo in Venezuela I carichi di cibo e farmaci di provenienza statunitense destinati alla popolazione dall’opposizione antichavista rimangono accatastati nei depositi alla frontiera perché il regime di Caracas, per ora ancora sotto Maduro, ne impedisce l’accesso
8 marzo In ogni continente, al grido di «Non Una di Meno!» sarà proclamata la giornata della donna con uno sciopero femminista
Successo oltre le previsioni Con la mini-amnistia fiscale sono emersi in Svizzera capitali per 40-50 miliardi di franchi
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pagina 35 Una cartina che riproduce gli interessi cinesi nel Mediterraneo. (Limes)
Roma sulla Via della Seta
Xi Jinping in Italia L’arrivo a Roma il 22 e il 23 marzo del leader cinese segna l’ingresso dei cinesi nel Belpaese.
Con grande preoccupazione degli americani Lucio Caracciolo L’Italia sarà il primo Stato del G7 a entrare ufficialmente nel progetto cinese delle nuove vie della seta. Il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping, sarà a Roma il 22 e 23 marzo per firmare con il capo del governo italiano, Giuseppe Conte, il relativo memorandum of understanding. Documento poco più che simbolico. Ma siccome la politica, specie se internazionale, vive di simboli, cui in alcuni casi seguono fatti, il protocollo sinoitaliano ha notevole valore. Tanto da aver innescato la robusta reazione degli Stati Uniti d’America, che considerano l’Italia provincia del proprio informale impero europeo. Le nuove vie della seta (Belt and Road Initiative la denominazione attribuitagli da Pechino) sono infatti molto più che un progetto di infrastrutturazione delle rotte commerciali, marittime e terrestri, fra Europa e Cina. Nelle intenzioni di Xi Jinping
esprimono una controglobalizzazione di marca cinese, alternativa all’americana. Con dimensioni anche strategiche e militari, oltre che di soft power. La sequenza è più o meno questa: si decide insieme al paese partner quali infrastrutture costruire o ammodernare e si stanziano i fondi necessari; vi si spedisce manodopera cinese, che porta con sé il necessario, fino all’ultimo chiodo; se ritenuto indispensabile da Pechino si esporta anche la sicurezza per proteggere i propri operosi connazionali, sotto forma di intelligence o addirittura di soldati, da installare in basi apposite (così a Gibuti, prima struttura militare all’estero della Repubblica Popolare Cinese). Qualcosa di indigeribile per Washington. Specie in questa fase, in cui la competizione per il primato globale con la Cina ha toccato punte assai aspre, bel al di là della questione dei dazi. L’ingresso dei cinesi in Italia si colloca in questa competizione, nuova forma di bipolarismo strategico.
Quando ha saputo che il vice premier italiano Luigi Di Maio, capo dei 5 Stelle, stava per firmare nel novembre scorso a Pechino il memorandum of understanding con Xi Jinping, Washington è intervenuta a gamba tesa. Di Maio ha fatto marcia indietro. Ma il filo non è stato interrotto. E dopo mesi di discussioni non troppo cortesi fra Roma, Washington e Pechino si è arrivati a un compromesso che, salvo colpi di scena dell’ultimo secondo, porterà appunto alla firma italiana e cinese in calce al memorandum. Gli italiani hanno promesso agli americani che l’intesa riguarderà solo il commercio e non, come temevano e forse tuttora temono i servizi segreti e la diplomazia Usa, con ricadute nel delicato campo del 5G. Nuova frontiera delle telecomunicazioni nell’età dell’ «Internet delle cose», con ramificazioni importanti nell’intelligence. Fatto è che Huawei, leader nel 5G, è già presente in Italia e sta progettando di espandervi la sua rete. Difficile
quindi che, sullo slancio dell’accordo italo-cinese, l’azienda di Shenzen non allarghi la sua attività nella Penisola, e con essa la sua capacità di raccogliere informazioni messe poi a disposizione del governo di Pechino. Insomma, la disputa Italia-America-Cina continuerà anche dopo l’intesa di fine mese. Per ora è noto che compagnie cinesi intendono investire soprattutto sui porti di Trieste e Genova, hub alto-adriatici e alto-tirrenici delle vie della seta marittime. Particolarmente delicata, e già molto avanzata, la partita di Trieste. Ricorre quest’anno il trecentesimo genetliaco del porto franco, voluto dagli Asburgo. Questo regime, che consente di aggirare i normali dazi riscossi dal paese ospitante, è tuttora valido. Sotto ogni profilo, salvo la forma, Trieste resta un porto dell’ex impero asburgico. Le connessioni ferroviarie sono quella stabilite a metà Ottocento, ovvero dirette a nord, lungo la direttrice austro-bavarese,
mentre le linee con l’Italia sono in stato deplorevole. Inoltre, un oleodotto porta in Baviera il 100% del petrolio consumato nello Stato Libero, per diramarsi verso il Baden-Württemberg, di cui copre il 60% del fabbisogno. Infine, Trieste sta stringendo la collaborazione con l’interporto germanico di Duisburg, snodo terrestre dei collegamenti ferroviari fra Europa e Cina. L’Italia quindi non trarrà enorme beneficio da questo accordo, a meno che non si decida a sviluppare le connessioni con Trieste, città per la quale centinaia di migliaia di soldati italiani morirono nella prima guerra mondiale. La partita strategica riguarda però il potenziamento delle connessioni digitali. Cinesi e americani sono in competizione per costruire un data center nel terminal triestino che servirà le nuove vie della seta. Nell’incoscienza dell’opinione pubblica e di gran parte della classe dirigente italiana. Non però dei servizi di intelligence americani e cinesi.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia
Asia Si è concluso con un nulla di fatto il secondo vertice fra Trump
e il nordcoreano Kim Jong-un in Vietnam, paese che potrebbe rappresentare per Pyongyang l’esempio di sviluppo a cui aspirare
Giulia Pompili «In Vietnam non va mai bene niente agli americani», dice qualche cinico nella sala stampa di Hanoi dove migliaia di giornalisti sono rimasti senza parole, quando gli è stato comunicato che il summit si era concluso anzitempo. Anche il luogo è evocativo: il Sofitel Legend Metropole Hanoi, che sorge nella parte più antica della capitale vietnamita, non è soltanto uno degli hotel più lussuosi del mondo, ma un pezzo di storia del Vietnam. La sua facciata bianca, in stile coloniale francese, è ormai conosciuta anche da chi ad Hanoi non ha messo mai piede, grazie alle fotografie dei migliaia di giornalisti che hanno seguito mercoledì e giovedì scorso il secondo summit tra il presidente americano Donald Trump e il leader nordcoreano Kim Jong-un. È qui che i due leader si sono stretti la mano per la seconda volta, in favore di telecamere, aprendo quello che sarebbe dovuto essere il grande incontro per dare il via effettivo al processo di denuclearizzazione e di apertura al mondo della Corea del nord. Ed è qui che hanno lasciato tutti di sasso, quando ore prima della firma di un accordo –una firma che tutti si aspettavano, e che tutti avevano annunciato – hanno deciso di abbandonare i colloqui, almeno per il momento. Trump ha lasciato il Vietnam due ore prima dell’orario previsto, contravvenendo a molte regole diplomatiche asiatiche. Qui, infatti, il cerimoniale è considerato quasi più importante delle strette di mano. Del resto, come è accaduto per Singapore nel giugno del 2018, anche il Vietnam aveva capito che avrebbe potuto trarre vantaggio, in termini di attenzione mediatica e soft power, dall’interesse globale per lo storico summit. Nonostante il fallimento dei negoziati, per due giorni la capitale del piccolo Stato del sud-est asiatico, dove tutto ancora parla di una guerra dolorosa che sembra essere una ferita mai rimarginata, si è trasformata in un tappeto di bandiere americane, nordcoreane, sudcoreane e soprattutto vietnamite. E un’altra immagine di questo summit che difficilmente potrà essere esclusa dai libri di storia, infatti, è quella del presidente Donald Trump che tiene in mano le due bandiere, quella a stelle e strisce e quella rossa con la stella gialla a cinque punte del Partito comunista del Vietnam, dopo aver avuto un colloquio con il presidente Nguyen Phu Trong. Costruito nel 1901, l’hotel Legend Metropole di Hanoi è una leggenda perché negli anni è stato il quartier generale di dignitari stranieri, ambasciatori e personalità mediatiche. Nel
1972 l’attrice americana Jane Fonda si stabilì qui, durante il suo periodo di militanza contro la guerra. Così fece la cantante folk Joan Baez, che sotto le bombe americane registrò parte del suo disco «Where Are You Now, My Son?». Trascorse dodici giorni sotto le bombe dell’operazione per distruggere Hanoi autorizzata dal presidente Nixon durante gli ultimi mesi della guerra del Vietnam, quasi sempre chiusa nei bunker antibomba costruiti sotto al Legend Metropole. I rifugi furono sigillati dopo la guerra e riaperti soltanto nel 2011, quando l’hotel stava ristrutturando il Bamboo Bar, oggi uno dei bar più famosi del mondo, e decisero di aprire i bunker per farne un’attrazione turistica. La guerra e il turismo, e le ferite che non si rimarginano. Anche la penisola coreana è piena di luoghi di questo tipo: basti pensare alla Zona demilitarizzata, lungo il 38° parallelo. Sin dal 1953, dopo la firma dell’armistizio e la fine delle ostilità, l’area più militarizzata del mondo è stata periodicamente un luogo di morte e di aggressioni, e allo stesso tempo anche un luogo turistico, dove alle persone viene promessa una vera esperienza dalla Guerra di Corea, l’immagine di un paese diviso, e tecnicamente ancora in guerra, con tutti i gadget patriottici da acquistare nel negozio dietro l’angolo.
Il Vietnam è un paese ferito da una guerra, ubriaco di ideologia comunista, che oggi è fra le migliori economie del sud-est asiatico Subito prima di stringere la mano a Kim Jong-un, parlando con il presidente vietnamita, Trump aveva detto che sia Washington sia Pyongyang erano felici all’idea di svolgere il summit in Vietnam perché «questo è un posto che davvero può essere un esempio per capire cosa può succedere se si ha il giusto atteggiamento»: un paese ferito da una guerra, ubriaco d’ideologia comunista, che oggi è tra le migliori economie del sud-est asiatico. Ma vari analisti hanno più volte criticato l’esempio di Trump, perché il cosiddetto «regno eremita» di Kim si sente tutt’altro che un piccolo Paese del sud-est asiatico: dal suo punto di vista, dopo anni di deterrenza e isolamento strategico, la Corea del nord è una potenza nucleare che può permettersi di dialogare direttamente con i grandi della terra. «Penso che il tuo Paese abbia un enorme potenziale
economico. Incredibile. Illimitato», ha detto Trump a Kim prima che i due lasciassero l’hotel dei negoziati. «E penso che avrai un futuro grandioso con il tuo Paese, sei un grande leader. Non vedo l’ora che accada e sono pronto ad aiutarti». Ma ora che i colloqui di Hanoi sono falliti, bisognerà ricominciare da capo: Trump ha detto di aver lasciato il tavolo per via delle richieste della parte nordcoreana, che voleva la cancellazione immediata delle sanzioni economiche senza però dare niente in cambio sulla verificabilità dello smantellamento delle testate atomiche. Quel che è certo è che la strategia dell’Amministrazione Trump continuerà essere quella di offrire a Kim Jong-un la possibilità di far ricco il suo Paese, pur restando saldamente alla testa del regime, in cambio di una denuclearizzazione graduale. In parte, l’esempio usato da Trump è convincente: l’economia del Vietnam negli ultimi anni è in grande crescita, il Pil aumenta a ritmi del 6,8 per cento l’anno. Tutto grazie a una strategia economica iniziata negli anni Ottanta con il «doi moi», il rinnovamento, l’apertura a un’economia di mercato «con caratteristiche vietnamite». Non è un caso se negli ultimi giorni parte della delegazione nordcoreana abbia studiato, fuori dal circo mediatico di Hanoi, alcune aree strategiche del Paese come la città portuale di Hai Phong, dove ha sede VinFast, azienda del settore automotive che fa parte del conglomerato vietnamita Vingroup. Ma se il «doi moi» possa essere applicabile a una realtà come quella nordcoreana è ancora molto difficile a dirsi. Il socialismo vietnamita è completamente diverso dalla strada percorsa da Pyongyang, dove Kim Il-sung, nonno dell’attuale leader, negli anni Cinquanta istituì un socialismo ereditario di stampo quasi religioso. A oggi la famiglia Kim è la forza stabilizzatrice, il collante di 25 milioni di nordcoreani che, secondo vari report delle organizzazioni internazionali, hanno bisogno di un piano di sviluppo vero, che guardi al futuro, e non di investimenti sul breve periodo. Su un punto almeno il Vietnam può essere considerato un simbolo, piuttosto che un esempio: un paese che è stato diviso dalla guerra che tra gli anni Sessanta e Settanta è costata la vita ad almeno tre milioni di vietnamiti e 58 mila soldati americani, che subì l’isolamento economico e diplomatico dopo l’occupazione della Cambogia del 1978, è riuscito a superare il passato, senza dimenticarlo. Ma ancora oggi si trova diviso tra l’influenza cinese e quella americana, senza trovare una vera identità, se non nel suo passato.
Venditrici di frutta camminano nelle strade di Hanoi. (AFP)
Raid indiano contro la JeM del Kashmir India/Pak Per la prima volta dal 1971 Delhi
decide di attraversare militarmente il confine
Keystone
Il modello vietnamita
Francesca Marino I fatti innanzitutto: lo scorso 14 febbraio un attentatore suicida si faceva esplodere a Pulwama, in J&K, provocando la morte di quaranta soldati indiani. L’attentato viene subito rivendicato, in due video messi immediatamente in rete, dalla Jaish-e-Mohammed (JeM): uno dei numerosi gruppi jihadi di matrice pakistana, creato e addestrato dall’esercito e dai servizi segreti di Islamabad. Manzoor Azhar, il capo della JeM, vive in Pakistan sotto protezione dell’Isi e ogni tentativo di farlo includere nella lista dei terroristi internazionali dell’ONU è stato e viene regolarmente bloccato dalla Cina per conto del Pakistan. Alla JeM si devono numerosi attentati in India, incluso un attacco al Parlamento di Delhi nel 2001. Islamabad, seguendo un copione ormai prestabilito da anni, nega ogni coinvolgimento. Non solo: prima nega che esistano campi di addestramento della JeM, poi domanda all’India «prove» del coinvolgimento della suddetta JeM nell’attacco. Qualche giorno dopo, mentre il Gruppo d’azione finanziaria internazionale (FATF, Financial Action Task Force) decide se mantenere il Pakistan sulla grey list di Stati che sponsorizzano il terrorismo o includerlo nella black-list, Islamabad annuncia di aver messo al bando (per l’ennesima volta) le organizzazioni legate alla Lashkar-iToiba di Mohammed Hafiz Saeed (che ha organizzato l’attacco di Mumbai del 2008 ed è libero in Pakistan, come Manzoor Azhar) e di aver preso «controllo amministrativo» del quartier generale della JeM (lo stesso di cui negava l’esistenza fino a qualche giorno prima). Quando la FATF decide di lasciare il Pakistan, almeno fino a giugno, sulla grey list, Islamabad si rimangia ogni decisione presa, sostenendo ancora una volta che i campi della JeM non esistono e tutto è frutto della propaganda indiana. Il copione, praticamente identico, è stato seguito parola per parola ogni volta, ogni singola volta, che l’India è stata colpita dalla LiT o dalla JeM. E New Delhi, nel corso degli anni, ha sempre seguito le vie diplomatiche e del diritto internazionale per rapportarsi alle incursioni jihadi: o meglio, è sempre stata fermata dalla comunità internazionale e dagli Stati Uniti in particolare, per diversi motivi. Tra cui il fatto che sia l’India che il Pakistan possiedono armi nucleari e che una guerra tra le due nazioni potrebbe scatenare un conflitto potenzialmente globale. Lo spauracchio della bomba in mano ai jihadi ha sempre funzionato: non questa volta, però. Così dodici Mirage indiani sono entrati, per la prima volta dal 1971, in territorio pakistano per bombardare il più grosso campo di addestramento della JeM a Balakot, nel Khyber-Paktunkhwa. A un centinaio
di chilometri da Islamabad, tanto per dare un po’ di coordinate geografiche, e non distante da Abbottabad dove gli Usa, con un’azione simile, avevano ucciso Osama bin Laden. Il giorno dopo l’esercito pakistano ha attaccato postazioni militari indiane lungo la LoC, il confine provvisorio che divide il Kashmir, ha abbattuto due aerei indiani e catturato un pilota. Gli indiani hanno abbattuto un jet pakistano. E la possibilità di una guerra, l’ennesima, tra Pakistan e India diventa sempre più concreta. Gli inviti al dialogo arrivano da ogni parte, con una differenza, però. Nessuna nazione, neanche la Cina che ufficialmente sostiene il Pakistan a spada tratta, si è schierata a fianco di Islamabad per condannare l’incursione indiana. Sono stati in molti, invece, a chiedere a gran voce che il Pakistan la smetta una buona volta di adoperare terroristi e affini come mezzo di politica estera. La narrativa dell’esercito pakistano, difatti, comincia a mostrare la corda: alle dichiarazioni di Imran «Taliban» Khan, messo al potere dall’esercito e dai servizi segreti, non crede più nessuno. Il copione recita che il Pakistan ha pagato un prezzo altissimo in termini di vittime del terrorismo, che il Pakistan vuole pace, che Islamabad più volte ha teso la mano all’India per aprire un dialogo. Vero: ogni volta difatti che i rapporti tra India e Pakistan cominciavano a distendersi, i jihadi hanno attaccato. Kargil nel 1999, Mumbai nel 2008, Uri nel 2016 tanto per citare alla rinfusa. E l’esercito di Islamabad ha sempre puntato sulla quasi certezza che Delhi non avrebbe risposto militarmente. Le cose però cambiano, dappertutto tranne che in Pakistan. E l’India di Narendra Modi non è l’India del passato. Non perché ci sono gli integralisti hindu al potere, ma perché la nuova generazione, cresciuta da Kargil in poi, non ha nessuna intenzione di seguire la politica dei padri porgendo l’altra guancia. In maggio in India si vota per la rielezione del premier, e Modi non ha intenzione di perdere. D’altra parte, a Islamabad fa comodo avere dall’altra parte del confine un governo di destra, per poter continuare a propagandare la teoria del nemico alle porte: la guerra è una manna per distogliere l’attenzione dal fatto che tre quarti delle regioni pakistane sono in rivolta contro il governo centrale, che tre quarti dei cittadini pakistani sono privati dei più elementari diritti umani e civili, che l’economia è a pezzi e che il debito pubblico strangola il paese. Finché c’è guerra c’è speranza, recita il titolo di un film di Alberto Sordi. E la guerra, reale o paventata, è l’unica speranza per l’esercito pakistano di continuare a governare il Paese. Se la comunità internazionale non ferma il Pakistan, nessuna pace è possibile.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia
Chi vince in Venezuela?
Stallo Il Paese continua ad avere due presidenti: Maduro ostaggio degli alti comandi militari e Gaidó che non riesce
a convincere i vertici delle forze armate. Mentre permane il blocco chavista degli aiuti umanitari americani
Angela Nocioni
AFP
È in drammatico stallo la crisi venezuelana. I carichi di cibo e farmaci di provenienza statunitense destinati alla popolazione dall’opposizione antichavista rimangono accatastati nei depositi alla frontiera perché il regime di Caracas ne impedisce l’accesso. La Croce rossa, rispettando la sua necessità di rimanere organizzazione neutrale, si rifiuta di farsi carico della loro distribuzione perché non partecipa a missioni politiche e questa indubbiamente lo è. La prova di forza per tentare, nonostante il divieto chavista, di far entrare i carichi con le insegne della Usaid non ha avuto buon esito: secondo notizie impossibili da verificare a causa dell’isolamento della comunità indigena in cui sono avvenuti gli scontri del 23 febbraio che avrebbero lasciato a terra 4 morti, il numero delle vittime sarebbe di almeno 25 persone uccise. Il Venezuela continua intanto ad avere due mezzi presidenti: Nicolás Maduro, il capo del governo rieletto l’anno scorso in votazioni considerate illegitti-
me dalla comunità internazionale con l’eccezione di Russia, Cina, Turchia, Bolivia, Cuba e Nicaragua, e Juan Guaidó, il trentacinquenne presidente di turno dell’Assemblea nazionale (il legittimo parlamento esautorato dal regime) che il 23 gennaio scorso si è autoproclamato presidente ad interim con l’obiettivo dichiarato di condurre la transizione fino alle elezioni e che ha l’appoggio della stragrande maggioranza della comunità internazionale – soprattutto l’ingombrante benedizione dell’Amministrazione Trump che gli ha messo a disposizione i soldi dei depositi americani del regime venezuelano bloccati dalle sanzioni statunitensi – ma non ha in mano lo Stato. Guaidó non può far funzionare nulla della macchina statale qualora volesse e non ha il comando delle forze armate. L’emergenza sociale nel frattempo cresce. Continua l’esodo di chi può permettersi di scappare all’estero. Chi rimane scopre giorno dopo giorno che alla scuola dei figli mancano gli insegnanti perché, alla spicciolata, se ne stanno andando tutti, che in ospedale è
inutile andare perché non ci sono nemmeno le garze, che nei negozi i prodotti arrivano col contagocce e in ordine bizzarramente imprevedibile: a volte solo carta igienica, a volte solo farina. Caracas è una metropoli solitamente caotica sospesa in una stasi surreale. I trasporti pubblici sono quasi completamente paralizzati, quelli privati sono complicati dal fatto che entro breve la benzina finirà (in provincia è già introvabile da tempo). Finirà perché, paradossalmente, il Venezuela che galleggia sul petrolio e ha fatto dell’oro nero la sua pressoché unica industria, dipende dagli Stati Uniti per la benzina. Esporta nelle raffinerie del Texas il combustibile che, raffinato, poi ricompra. Le sanzioni dell’Amministrazione Trump non hanno bloccato né l’acquisto né la lavorazione del petrolio venezuelano, altrimenti quelle raffinerie si sarebbero fermate con conseguenti ricadute sul piano interno, ma hanno impedito la vendita di benzina a Maduro. Quindi tra un po’ si andrà a piedi. Per contrastare l’offensiva dell’opposizione Maduro ha inondato la capitale di casse Clap, le casse di prodotti basici distribuiti di solito nei quartieri più poveri. Annuncia un imminente arrivo di derrate alimentari da Mosca. Ma intanto molte persone sono ridotte alla fame. Gli ospedali sono completamente privi di farmaci essenziali. In una delle capitali tradizionalmente più ricche d’America si muore per banalissime infezioni ai denti perché gli antibiotici sono introvabili. Maduro non è in grado di governare né di resistere a un assedio politico internazionale così pressante, se si mantiene tale. Ma al momento nemmeno cade. È ostaggio degli alti comandi militari solo formalmente ai suoi ordini, ciascuno dei quali sta valutando se e come cedere alle pressioni statunitensi e in cambio di quali rassicurazioni sul
mantenimento non solo della libertà personale, ma anche di quali porzioni di profitto degli infiniti traffici in cui è da anni ormai stata travolta la rivoluzione chavista. Nessuno si fida più di nessuno nel palazzo di Miraflores. I consiglieri cubani che hanno in mano l’intelligence e la cabina di comando politica del regime non si fidano dei generali venezuelani che, a loro volta, diffidano di loro. L’opposizione riunita attorno a Juan Guaidó, d’altra parte, ha dalla sua l’esasperazione di gran parte della popolazione che non si traduce necessariamente in appoggio politico, il sostegno della comunità internazionale che non è unanime nel giudizio sull’affidabilità delle intenzioni di Donald Trump nella crisi e sul ruolo della destra colombiana (ora al governo della Colombia) e una valanga di soldi che, però, non sa bene come usare. Se il regime è fintamente compatto attorno a Maduro perché ciascuno dei suoi componenti teme per la propria libertà personale e per la sopravvivenza dei propri traffici, l’opposizione è unita attorno a Guaidó anche se non tutti vogliono concedere a lui lo spazio politico sufficiente a preparare la sua candidatura alle elezioni presidenziali che si dovranno pur celebrare indipendentemente dalla sorte di Maduro. Il capo di Guaidó, il quarantasettenne Leopoldo López, per esempio, di regalare al suo ex delfino lo scettro di candidato antichavista al quale ha lavorato per una vita non ha nessuna intenzione. López ha dovuto far posto a Guaidó perché è ai domiciliari, detenuto politico del regime, e non ha il ruolo istituzionale necessario a giustificare agli occhi del mondo un’autocandidatura all’interim verso le elezioni, non essendo a differenza di Guaidó presidente del parlamento che al momento è l’unica istituzione eletta legittimamente
nel Paese. Ma a regalare al suo giovane allievo il ruolo a cui lavora da vent’anni non ci pensa nemmeno. È stato lui, con un paio di altri dirigenti dell’opposizione venezuelana in esilio a Bogotà, a ideare la spallata a Maduro utilizzando abilmente tutte le condizioni politiche favorevoli di questa fase: l’esistenza dell’amministrazione Trump, il momento di grazia dell’uribismo (ossia del mondo di estrema destra che ruota attorno all’ex presidente colombiano Alvaro Uribe, ex paramilitari compresi) e la caduta di tutti gli alleati del chavismo in America latina tranne la Bolivia, Cuba e il Nicaragua. È stata la moglie di López, l’attivista Lilian Tintori, a gestire negli ultimi anni, mentre lui era prima nel carcere di Ramo Verde e poi ai domiciliari, i rapporti con Washington (più volte ricevuta alla Casa Bianca), con i senatori repubblicani eletti in Florida, con l’ex presidente Uribe in Colombia, con il presidente Macri in Argentina e con tutti quelli in Europa disposti a credere che lei sia non solo l’esponente della estrema destra dell’opposizione antichavista, ma la credibile rappresentante dell’estesa opposizione al regime. In questo provvisorio equilibrio tra due blocchi nemici apparentemente compatti, Caracas è attonita in attesa degli eventi. Guarda il cantante pop Luis Fonsi cantare «Despacito», il tormentone pop del momento, in un megashow pro-Guaidó che teme manovrato da Trump, Uribe e il non proprio rassicurante neopresidente brasiliano Bolsonaro, vede Maduro cacciare dal palazzo presidenziale una troupe invitata per un’intervista rea di avergli posto domande non concordate prima. E non riesce a trovare un’aspirina nemmeno al mercato nero dove, lo scorso settimana, una scatola di paracetamolo costava l’equivalente di tre salari minimi mensili.
Anche la Silicon Valley teme il caos
Disruption digitale Gli abusi di questi anni, in termini di violazione della privacy e dei processi elettorali,
possono diventare strumenti ancora più pericolosi per le democrazie e il loro business Christian Rocca La Silicon Valley comincia a farsi venire i primi timidi dubbi sull’impatto della rivoluzione digitale nella società contemporanea. Non è ancora una reazione strategica e coordinata, tantomeno imposta da leggi e regole globali, ma si moltiplicano i casi di singole aziende tech, grandi e piccole, che provano ad allacciarsi le cinture di sicurezza per evitare che gli abusi di questi anni, in termini di violazione della privacy e dei processi elettorali, possano diventare strumenti ancora più pericolosi non solo per il tessuto sociale delle democrazie, ma anche per il loro business. La disruption (turbativa) digitale creata da Internet ha modificato comportamenti individuali, politici e industriali, favorendo una disintermediazione tra popolo e potere, tra individuo e famiglia, tra consumatore e produttore che ha prodotto innovazione e crescita ma anche conseguenze sociali senza precedenti. Sono stati però i social media assieme all’uso dei dati personali, ad aver avuto un impatto negativo sull’informazione e sul dibattito pubblico e un ruolo decisivo sulla crescita dei populismi. Le grandi piattaforme digitali, Facebook e Google, non se ne sono accorte in tempo, impegnate come erano a inseguire un’utopia libertaria che non disdegna il profitto capitalista, e non hanno tenuto conto delle notevoli
obiezioni non di luddisti o di reazionari contrari alle novità tecnologiche, ma di pionieri di Internet come Tim BernersLee (l’inventore del web), Jaron Lanier (il guru della realtà virtuale) e di tanti pensatori della cultura digitale. Per convincerle c’è voluto il diffuso senso di frustrazione che si è avvertito in tutto il mondo occidentale dopo le manipolazioni dell’opinione pubblica in Gran Bretagna e soprattutto negli Stati Uniti, ma anche dopo la proliferazione delle fake news, l’ascesa dei populismi e l’indebolimento dei fondamentali della società contemporanea. Facebook è la piattaforma più attiva in questo senso, per una ragione molto semplice: a causa dell’uso sconsiderato dei dati degli utenti, della facilità di circolazione delle fake news nella sua comunità e dell’abuso della posizione dominante da monopolista, l’azienda di Mark Zuckerberg è la più esposta pubblicamente tra le Big Tech e i suoi top manager non brillano per empatia o efficacia di comunicazione. Su Facebook sono accesi i riflettori di varie commissioni d’inchiesta parlamentari di qua e di là dell’Atlantico e non si arresta la scrupolosa valutazione, anche fiscale, sulle sue attività. I grandi giornali conducono inchieste incessanti sulle sue violazioni della privacy e quando si parla di monopoli da spezzare o di fake news da fermare si pensa principalmente al social network di Zuckerberg.
Per questo motivo, Facebook prova sia ad attaccare sia a difendersi, lottando strenuamente per consolidare la sua posizione dominante e allo stesso tempo mostrando un lato compassionevole nei confronti di chi inizia a esprimere diffidenza nei confronti delle piattaforme digitali. Una delle accuse rivolte a Facebook è quella di essere diventato un’entità troppo grande, quasi uno Stato. Una comunità di oltre due miliardi di persone, secondo i critici, non può essere gestita da una singola corporation senza peraltro riconoscere alcun diritto agli utenti. La risposta di Zuckerberg è dimensionata alla sfida, tanto che ha immaginato una fase costituente di Facebook, appunto come se si trattasse di una comunità-Stato, affidata a una commissione di esperti semi-indipendenti che dovrà fissare le regole condivise di un meccanismo globale sui comportamenti da tenere sulla piattaforma. Nei prossimi mesi, Facebook farà partire una serie di consultazioni globali, aperte a terzi e a gruppi di pressione, in modo da arrivare alla fine dell’anno con tutti gli elementi a disposizione per far partire il lavoro dei 40 membri della commissione (che staranno in carica tra i tre e i sei anni). Nei giorni scorsi sono cominciati ad affiorare i primi malumori anche tra i ricercatori dell’intelligenza artificiale, i quali si preoccupano dei potenziali pericoli pubblici causati dalle
Secondo Tim Berners-Lee il web, a causa dello strapotere delle piattaforme dominanti come Google e Facebook, ha bisogno di regole super partes. (Keystone)
loro innovazioni. In particolare, i programmatori di un sofisticato software capace di generare testi che sembrano scritti da esseri umani hanno deciso di tenere per sé i codici, in modo da prevenire possibili abusi ed evitare un’automazione su scala industriale delle fake news. Preoccupazioni condivise anche dal Pentagono che, il 12 febbraio, ha pubblicato alcuni estratti della Strategia sull’Intelligenza Artificiale. Il documento della Difesa americana avverte che le capacità della Cina di sviluppare armi basate sull’intelligenza artificiale pongono una minaccia esistenziale all’ordine internazionale. La Strategia sull’Intelligenza Artificiale è un piano d’azione rivolto alla burocrazia militare e civile di Washington, ma tra i destinatari c’è anche la Silicon Valley. Il Pen-
tagono ritiene essenziale che le aziende tecnologiche, tradizionalmente restie a collaborare con l’apparato militare, lavorino insieme allo Stato per contrastare le minacce esterne. La novità è che per la prima volta non c’è una chiusura perentoria della Silicon Valley. Le perplessità cominciano a circolare anche tra gli adepti di blockchain, una tecnologia che fino a qualche tempo fa era descritta come sicura e inviolabile dai pirati informatici e per questo destinata a rivoluzionare le transazioni finanziarie e il sistema bancario. Gli esperti però adesso segnalano che blockchain è molto vulnerabile e costantemente sotto attacco degli hacker, i quali tra il 2017 e il 2018 hanno rubato più di due miliardi di dollari in criptovalute.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia L’ex cardinale Theodore McCarrick’s a cui il Papa ha tolto la porpora. (AFP)
Femminismi contro sovranismi
8 marzo Il movimento delle donne si apre
a una prospettiva più ampia che include gli uomini Luisa Betti Dakli
Vertice sulla pedofilia Chiesa cattolica La scelta del Papa di portare la questione
sotto i riflettori è il gesto più forte mai compiuto dal Vaticano
Giorgio Bernardelli Un anziano ex cardinale arcivescovo di Washington spretato dopo che, per anni, le accuse di molestie presentate da numerosi seminaristi nei suoi confronti erano state volutamente ignorate. Un vertice di quattro giorni in Vaticano con i presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo per discutere la questione degli abusi sessuali commessi dal clero. Svoltosi, però, mentre fuori dai Sacri Palazzi le vittime di quelle violenze protestavano contro una «tolleranza zero» a loro avviso più enunciata che praticata realmente dalla Chiesa cattolica. Infine lo shock della condanna per pedofilia inflitta da un tribunale australiano al cardinale George Pell, che papa Francesco aveva voluto in Vaticano alla guida del dicastero per l’economia della Santa Sede. Reato che sarebbe stato commesso ormai più di vent’anni fa a Melbourne, ma che l’imputato anche dopo la sentenza dal carcere continua a negare proclamandosi innocente. Sarebbe difficile immaginare per papa Francesco uno scenario più critico di quello che si è trovato a fronteggiare in queste settimane sul fronte delle accuse di pedofilia nei confronti di uomini di Chiesa. La nuova ondata di questa bufera che da vent’anni ormai periodicamente torna a scuotere il Vaticano era partita in estate dagli Stati Uniti, proprio l’epicentro del primo grande scandalo venuto a galla a inizio anni Duemila nell’arcidiocesi di Boston. In agosto vi era stato il rapporto della Corte Suprema della Pennsylvania con le accuse a oltre 300 sacerdoti che – dal 1945 a oggi – avrebbero abusato di più di mille minori. Ancora più clamorosa – anche per le sue modalità – era stata poi l’esplosione del caso del cardinale Theodore McCarrick, l’ex arcivescovo di Washington ormai ottantottenne, pubblicamente accusato dall’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti Carlo Maria Viganò di aver a lungo condotto una doppia vita, approfittando del proprio ruolo per abusare sessualmente di alcuni seminaristi. Accusa che l’ex diplomatico allargava alle coperture di cui McCarrick avrebbe goduto non solo negli Usa ma anche in Vaticano, chiamando in causa personalmente lo stesso Pontefice. Il tutto mentre in Cile rimane pesante l’eredità del caso Karadima, influente sacerdote di Santiago anche in questo caso coperto dai vescovi locali che avevano insabbiato le denunce sporte contro di lui dalle sue vittime. E in Francia il cardinale arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin, è alla sbarra per la gestione imprudente del caso di un sacerdote della diocesi, oggi anziano, accusato anni fa di pedofilia. Per non parlare poi dell’India, dove si è aperto un fronte diverso ma non meno imbarazzante per la Chiesa cattolica: una
denuncia di una suora nei confronti del vescovo di Jalandhar, Franco Mulakkal, ha scoperchiato il vaso di Pandora sul tema delle violenze nei confronti delle religiose, aprendo la strada a una versione tutta cattolica del fenomeno #metoo. È di fronte a questo scenario che papa Francesco ha deciso di convocare a Roma i vertici delle 113 Conferenze episcopali in cui si articola nel mondo la presenza della Chiesa cattolica. Annunciato ormai da mesi, l’incontro si è svolto dal 21 al 24 febbraio in Vaticano e proprio per dare un segno tangibile della volontà di affrontare sul serio il problema è stato preceduto dal provvedimento della dimissione dallo stato clericale del cardinale McCarrick. Sarebbe ingeneroso definire come il «solito convegno ecclesiastico» il summit presieduto dal Pontefice. La scelta di portare la questione apertamente sotto i riflettori in Vaticano è stato un cambio di passo notevole, che dice la consapevolezza di una questione che non viene più liquidata al rango di «poche mele marce» ma chiama in causa le responsabilità della Chiesa intera. Anche far aprire i lavori a una serie di video-denunce di alcune vittime – tra cui una donna africana che ha raccontato di essere stata costretta per ben tre volte ad abortire da un sacerdote che per anni l’ha violentata – è stato un gesto coraggioso, che ha indicato la strada dell’ascolto delle vittime come il punto di partenza in ogni situazione. Le stesse parole di papa Francesco sono state molto nette: finiti i tempi della difesa in trincea e del complottismo, Bergoglio ha spinto la Chiesa ad assumersi le sue responsabilità. Ha invitato ogni Conferenza episcopale a collaborare con le autorità civili nelle indagini, a dotarsi di strutture precise a cui rivolgersi per le accuse e la protezione delle vittime, a elaborare protocolli più efficaci per la prevenzione della pedofilia nelle strutture pastorali dove sono presenti i minori. Annunciando anche che da Roma arriveranno nelle prossime settimane nuove norme canoniche perché questa diventi davvero la strada per tutti. Al di là della discussione sull’efficacia concreta delle dichiarazioni d’intenti e delle regole sullo scandalo pedofilia resta però l’impressione di un grande macigno estremamente difficile per la Chiesa da maneggiare. Il summit è stato una buon momento di ricognizione delle sue proporzioni con l’indicazione degli interventi più urgenti per la messa in sicurezza di alcune aree. Ma questo basta davvero? Durante il confronto in Vaticano papa Francesco ha citato i documenti e i metodi suggeriti dalle Nazioni Unite per fronteggiare la piaga degli abusi sessuali e ha chiesto un maggiore coinvolgimento dei laici (e delle donne in particolare) nell’esame delle accuse rivolte contro i sacerdoti. Ha ribadito
quella che è la sua lettura del fenomeno: la pedofilia nella Chiesa è una degenerazione estrema del clericalismo, cioè sostanzialmente un abuso di potere. Ma deve fronteggiare le bordate dell’ala più tradizionalista che vorrebbe ricomporre tutto nell’ecclesiasticamente più rassicurante schema secondo cui sarebbe tutta colpa dell’omosessualità, lasciata dilagare all’interno dei Sacri Palazzi. Dunque – secondo questi ambienti molto agguerriti anche all’interno della blogosfera cattolica – si tratterebbe solo di «fare pulizia». Anche se poi sarebbe interessante capire che cosa questo voglia dire, dal momento che lo scandalo pedofilia attraversa in maniera trasversale le diverse «correnti» nella Chiesa; anche negli ambienti che più predicano il rigore nella morale sessuale sono esplosi scandali clamorosi su abusi durati decenni (vedi ad esempio il caso del messicano padre Marcial Maciel, fondatore della congregazione dei Legionari di Cristo, potentissimo anche in Vaticano ai tempi di Giovanni Paolo II). Il punto sta proprio qui: si può ragionare realmente dello scandalo pedofilia nella Chiesa senza mettere in discussione tutta la questione della dimensione affettiva nella vita del prete? Se così tante volte, da una parte all’altra del mondo, emerge un problema talmente serio da sfociare in comportamenti criminali, non è che va ripensato alla radice il modello su cui tuttora si fondano i seminari, le parrocchie, lo stesso esercizio del ministero sacerdotale nella Chiesa di oggi? Sullo scandalo pedofilia oggi si gioca il Pontificato di Francesco. E il caso del cardinale Pell è uno scoglio particolarmente problematico. Oggi c’è un cardinale elettore in un potenziale futuro conclave che si trova in carcere in Australia. Ed è un cardinale di posizioni tradizionaliste che una parte del mondo cattolico considera già un eroe ingiustamente condannato perché nel processo, tenuto a porta chiuse, la principale vittima non ha potuto testimoniare essendo morto per overdose anni dopo le presunte violenze. Alla luce di tutto questo, i princìpi enunciati in un vertice Francesco è chiamato ora a declinarli in una vicenda concreta, ben più difficile da dipanare rispetto a quella di McCarrick. Che cosa vuol dire in questo caso ascoltare le famiglie delle vittime e collaborare con la giustizia? Ha davanti la strada stretta di una trasparenza assoluta, Bergoglio, ma la deve percorrere in un clima avvelenato da lentezze e reticenze di un passato ancora molto presente. Uno dei gesti più forti dell’incontro tenuto coi vescovi in Vaticano è stata una liturgia penitenziale comune; l’impressione è che anche per papa Francesco, come per il suo predecessore, su questo tema degli abusi sessuali nella Chiesa l’esame di coscienza pubblico sia destinato a durare ancora a lungo.
Anche quest’anno per l’8 marzo si sciopera. Quella che era la festa delle mimose è ormai diventata la data scelta per lo sciopero internazionale indetto dalle donne che invitano tutti ad astenersi dal lavoro fuori e dentro casa. E mentre alle Nazioni Unite si svolge la Commission on the Status of Women (CSW63), che quest’anno verte su protezione sociale, politiche per l’uguaglianza di genere ed emancipazione, in Sud America il movimento NiUnaMenos, nato nel 2015 in Argentina contro i femminicidi, darà il via a uno sciopero globale e incrocerà le braccia insieme a tutte le donne che vorranno seguirle non solo contro la violenza di genere e per la tutela della salute riproduttiva, ma per i diritti di tutti contro ogni razzismo e fascismo, e per fermare l’ascesa delle destre nel mondo. Un giorno in cui in Italia si fermeranno autobus, voli e collegamenti marittimi, con manifestazioni, eventi, assemblee di donne che, insieme agli uomini, protesteranno contro l’inefficienza della lotta alla violenza di genere da parte dello Stato, i tentativi di sabotare la legge sull’igv, l’assalto al diritto al divorzio e la preoccupante esposizione alla violenza domestica per bambini e donne contenuta nel disegno di legge 735 proposto dal senatore leghista Simone Pillon. In Europa i movimenti femministi hanno ricevuto una nuova spinta vitale sia dall’America Latina con NiUnaMenos, sia dagli Stati Uniti con la Women’s March e il movimento #metoo. Donne che hanno acquisito nuova forza di coinvolgimento, sia sui diritti di genere che sui diritti civili, probabilmente anche a causa dell’attacco dei sovranisti che in tutto il mondo sono il frutto della stretta sinergia di gruppi ultracattolici reazionari di destra. Come dice la giornalista Ida Dominijanni: «Il nuovo filo rosso fra i femminismi non è più solo la lotta contro la violenza di genere, sulla sessualità, sulla procreazione, ma anche quella su tematiche più strettamente politiche», e «il fiume carsico delle lotte femministe riemerge in tutto il mondo» in maniera interseziale in difesa dei diritti di tutti, ponendosi contro i fascismi emergenti. Un autentico movimento di contrasto a populismi che veicolano messaggi di esclusione come le politiche razziste e misogine del presidente americano Trump, quelle fasciste di Bolsonaro in Brasile, fino ad arrivare ai governi autoritari di Ungheria e Polonia, a cui l’Italia si sta allineando, in un processo di limitazione delle libertà sull’esempio della Russa di Putin e della Cina. Un’avanzata che mina le istituzioni democratiche, in cui le donne sono uno dei primi bersagli da colpire in nome della «famiglia tradizionale» (uomo/donna) che porta con sé l’attacco all’aborto ma anche il ripristino del matrimonio per sempre
L’8 marzo il movimento NiUnaMenos organizza uno sciopero globale contro tutte le forme di violenza. (Keystone)
in un sistema dove la donna sta a casa a fare figli, mentre l’uomo torna a essere il pater familias, che si può permettere di malmenare la moglie nel caso sfugga al suo controllo. A Verona, a fine marzo, si svolge il World Congress of Families che riunisce le destre reazionarie e ultracattoliche del Pianeta e che avrà il patrocinio di Provincia, Regione, e del Ministero della famiglia. Un raduno a cui le femministe risponderanno con una tre giorni di proteste, dibattiti e spettacoli per la difesa dei diritti civili e della libertà delle donne. In Polonia, dove le attiviste vengono picchiate in pubblico e perseguitate sul lavoro, e dove il governo di destra del PiS (Prawo i Sprawiedliwość) cerca continuamente di cancellare una legge sull’aborto già restrittiva (pericolo di vita, stupro o grave malformazione) e taglia i fondi alle associazioni di donne che lavorano sulla violenza di genere, il movimento femminista è più forte che mai. Donne che si proclamano antifasciste e antirazziste, e che di fronte alla propaganda nazionalista combattono per la democrazia e i diritti di tutti. Forte come quello italiano e polacco, è il movimento delle femministe spagnole che hanno mostrato i muscoli quando, nel 2013, il governo di Rajoy cercò di restringere l’interruzione volontaria di gravidanza su cui il ministro della Giustizia si giocò la poltrona. Oggi le donne spagnole combattono su un nuovo fronte: l’ascesa della destra estrema di Vox, il partito che ha vinto le elezioni in Andalusia lo scorso dicembre e che non solo vuole togliere l’igv ma disconosce la violenza maschile sulle donne e vuole togliere i finanziamenti alle associazioni femministe. Quello che propone il nuovo governo andaluso – composto da Vox, Partito popolare e Ciudadanos – sono i sostegni alla famiglia tradizionale e un piano che distolga le donne dall’abortire, anche se la prima richiesta di Vox è stata quella di abrogare la legge regionale sulla violenza contro le donne, in quanto non garantirebbe protezione a tutti i soggetti che possono subire maltrattamenti in famiglia, mettendo così sullo stesso piano la violenza e la discriminazione millenaria sulle donne (1 miliardo nel mondo) e gli episodi di maltrattamento sugli uomini. Una proposta caduta nel nulla, dato che il giorno d’insediamento della giunta per l’elezione del presidente Moreno, migliaia di donne si sono radunate davanti al parlamento locale con slogan come «i nostri diritti non si negoziano! nessun passo indietro! fuori i fascisti!». Femminismi che si definiscono sempre di più come un baluardo a difesa dei diritti che partendo da sé, in quanto primi bersagli delle destre incombenti, si aprono a una prospettiva più ampia includendo gli uomini, con una capacità di aggregazione e di mobilitazione che non si vedeva da tempo.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia
Grande successo della mini-amnistia Fisco Nel 2018 sono venuti alla luce in Svizzera capitali per 40 – 50 miliardi di franchi, dichiarati
da 34’400 contribuenti presso i cantoni. L’incentivo è venuto anche dall’entrata in vigore degli accordi sullo scambio internazionale di dati fiscali
Ignazio Bonoli L’esito della mini-amnistia fiscale federale non finisce di sorprendere. Secondo le cifre pubblicate da 24 cantoni, non meno di 34’400 contribuenti hanno dichiarato al fisco capitali detenuti all’estero, finora «in nero», sotto varie forme, tra cui anche immobili, titoli e polizze assicurative. La cifra nel 2018 è di poco inferiore al record registrato nel 2017, ma probabilmente vi è un motivo particolare. Dal 1. ottobre 2018, le amministrazioni fiscali dei paesi che hanno aderito all’accordo hanno cominciato a fornire dati sui depositi di cittadini esteri nelle loro banche o sotto altre forme. Così, per evitare di incorrere in una multa si è corsi ai ripari, autodenunciando averi all’estero non dichiarati. Era infatti l’ultima occasione per approfittare della mini-amnistia senza pena. Alcuni cantoni, tra i quali anche Zurigo, hanno perfino visto superare il primato dell’anno precedente. Questo afflusso di autodenunce mette in difficoltà gli uffici delle contribuzioni. Per esempio, nel canton Vaud, 12’879 autodenunce erano ancora pendenti, mentre nel canton Zurigo erano ancora oltre 6000. Ci vorranno mesi e forse anni per smaltire questa montagna, che tradotta in franchi significa quasi 10 miliardi di franchi di capitali finora non tassati nel solo 2018, e cioè
un gettito fiscale complessivo di circa mezzo miliardo di franchi. Zurigo, Ginevra, Berna e Ticino sono i cantoni con il maggior numero di autodenunce nel 2018. Ginevra deteneva il record già nel 2017. Molti di meno i casi negli altri cantoni. Globalmente, dal 2010 si stimano tra i 100’000 e i 150’000 contribuenti privati che hanno utilizzato l’autodenuncia. Il totale delle somme denunciate dovrebbe aggirarsi tra i 40 e i 50 miliardi di franchi. Ricordiamo che la Confederazione ha deciso il condono delle multe, ma l’imposta e gli interessi di ritardo fino a 10 anni devono essere pagati, e l’amnistia può essere utilizzata una sola volta nella vita. In futuro, l’afflusso eccezionale di denaro nelle casse dei vari enti pubblici dovrebbe rallentare progressivamente, poiché lo scambio di informazioni fiscali fra paesi sarà sempre più funzionale e non saranno più possibili autodenunce esenti da pena. Coloro che non hanno approfittato di quest’ultima possibilità rischiano pesanti conseguenze finanziarie. Tra le cifre più significative di questa mini-amnistia, anche quella del numero di persone che hanno voluto mettersi in regola con il fisco è impressionante: come detto, si valutano tra le 100’000 e le 150’000 persone che hanno fatto uso dell’autodenuncia esente da pena. Valutare quali potrebbero essere le maggiori entrate fiscali per Confede-
Fra i beni emersi vi sono capitali liquidi, titoli, ma anche case di vacanza all’estero. (Keystone)
razione e cantoni al momento è ancora difficile. Si è comunque verificato un intensificarsi delle richieste lo scorso anno, per un totale di circa 100 miliardi di franchi di sostanze non dichiarate. Si può quindi stimare che dal 2010 siano venute alla luce sostanze imponibili, come detto, fino a 50 miliardi di franchi. Secondo una stima della stampa zurighese, queste cifre potrebbero generare circa 3,8 miliardi di franchi di maggiori entrate fiscali. In molti casi si
è trattato di piccole somme. Per esempio, non era stato dichiarato il valore della casa di vacanza all’estero. Spesso si è trattato anche di persone provenienti dall’estero, dove possiedono immobili, ma residenti in Svizzera. Il fisco vallesano ha, per esempio, constatato che in nove casi su dieci si tratta di piccole somme, con casi costosi da trattare ma poco redditizi. Anche Zurigo ha constatato che dal 2017 le somme dichiarate si sono ridotte di un terzo.
Ma l’amnistia ha provocato anche un altro fenomeno. Conti bancari di cittadini svizzeri sono venuti alla luce, nonostante che il segreto bancario svizzero sia rimasto tale e quale. Ma questo non dipende forse da una migliorata morale fiscale. Le stesse banche fanno pressione affinché tutto avvenga alla luce del sole. Va inoltre aggiunto che anche per i redditi di capitali non dichiarati viene trattenuta l’imposta preventiva, che talvolta è superiore all’imposta normale. In ogni caso vale la pena di recuperarla con la dichiarazione. In questo senso l’amnistia offerta è una buona possibilità per tutti. Va infine notato che negli ultimi anni le regole sulla trasparenza fiscale sono state sensibilmente inasprite e il generalizzarsi dello scambio di informazioni con autorità fiscali estere ha favorito la trasparenza anche all’interno della Svizzera. Ma, alla luce delle reali situazioni, va detto che l’effetto dell’amnistia è pur sempre limitato. Nel 2015 si contavano in Svizzera 5,2 milioni di contribuenti (persone fisiche). La sostanza netta posseduta era di 1800 miliardi di franchi dichiarati. Le somme venute alla luce dal 2010 costituiscono quindi dal 2 al 3 per cento della sostanza già dichiarata. Il che significa che la morale fiscale della stragrande maggioranza degli Svizzeri è buona. Con l’amnistia si è diminuito del 2-3% il totale (stimato tra il 5 e il 10%) delle sostanze non dichiarate. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia
Donne: attenzione alla previdenza per la vecchiaia La consulenza della Banca Migros
Jeannette Schaller
Jeannette Schaller è responsabile della pianificazione finanziaria alla Banca Migros
Oggi, in occasione della Festa della donna, questa rubrica si rivolge solo al pubblico femminile e alla sua particolare situazione previdenziale. Mentre dall’AVS le donne percepiscono rendite altrettanto elevate rispetto agli uomini, dalla cassa pensioni ricevono in media circa la metà, ovvero 19’000 franchi anziché 36’000. Questa situazione è dovuta al fatto che la maggioranza delle donne lavora solo a tempo parziale, prende pause più lunghe per prendersi cura dei figli e spesso percepisce salari più bassi. Per questo motivo è ancora più importante evitare lacune contributive. Richiedete alla cassa di compensazione un estratto conto AVS per poter colmare eventuali lacune entro cinque anni. Queste possono derivare anche dall’assistenza ai parenti: ogni anno avete diritto a un accredito dell’AVS per compiti assistenziali, ma dovete richiederne autonomamente l’iscrizione. L’assegnazione del contributo non è infatti automatica, a differenza di quanto accade con gli accrediti per i figli. Potrebbero insorgere lacune anche nella cassa pensioni, considerando che il datore di lavoro deve assicurarvi solo a partire da un salario annuo pari a 21’330 franchi. Esistono anche casse che accettano volontariamente
Per le donne, gli accrediti per le cure ai figli sono automatici, ma non quelli per l’assistenza ai parenti, che vanno quindi richiesti espressamente. (Keystone)
persone con una retribuzione inferiore, ma non è la norma. Un’alternativa consiste nell’assicurare in maniera cumulativa diversi impieghi a tempo parziale presso una sola cassa pensioni (ad es. l’istituto collettore LPP) oppure nell’effettuare versamenti a posteriori in un secondo momento, quando si percepisce uno stipendio più elevato.
Si raccomandano anche i versamenti nel pilastro 3a. Il presupposto è un reddito soggetto all’AVS, ad esempio se negli anni di pausa per i figli lavorate almeno a tempo parziale. Chi è assicurato presso una cassa pensioni può versare fino a 6826 franchi l’anno nel pilastro 3a. Chi invece non è affiliato a una cassa pensioni, perché guadagna
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 4 marzo 2019 • N. 10
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Tutti universitari? Ci sono nella nostra società tendenze di lungo termine che si manifestano da decenni e che rendono quindi facile la previsione per estrapolazione. Per esempio l’invecchiamento della popolazione. Da almeno cinquant’anni a questa parte la popolazione svizzera invecchia, nel senso che la quota delle persone con più di 65 anni, nel totale della popolazione, continua ad aumentare. Un’altra tendenza di questo tipo è rappresentata dall’aumento continuo delle persone con un diploma di una scuola di livello terziario (università, scuole universitarie professionali, alte scuole tecniche) nel totale della popolazione. Come mette in evidenza il recente rapporto del Consiglio federale sulle conseguenze dell’evoluzione demografica per l’educazione, l’aumento di questa quota è regolare. Da un livello inferiore al 40%, all’inizio di
questo secolo la quota delle persone con un diploma terziario è cresciuta al 45% e supererà l’anno prossimo la quota dei titolari di un titolo di studio del livello secondario (maturità, certificati di fine tirocinio, ecc). Tra dieci anni, stando agli scenari di questo rapporto, più della metà della popolazione sarà passata per una formazione di livello terziario. Quando, quasi sessant’anni fa, questa tendenza ha cominciato a mettersi in moto la si giustificava con argomenti soprattutto di uguaglianza sociale. Si reputava che fosse giusto che la formazione accademica e nelle scuole tecniche di alto livello fosse aperta a un numero maggiore di studenti e, soprattutto, di studentesse, per dare a ogni giovane, con le necessarie doti, le medesime opportunità di carriera. Si pensava che anche i datori di lavoro avrebbero potuto trarre beneficio da
questa «democratizzazione» degli studi che consentiva loro di profittare di un’offerta più abbondante di manodopera formata ai livelli superiori. Oggi l’obiettivo di politica sociale è passato in secondo piano. L’aumento continuo della quota di popolazione formata al livello terziario viene giustificato invece con le mutate esigenze del mondo del lavoro. Digitalizzazione e robotizzazione dei processi produttivi e dei servizi tendono a ridurre la domanda di manodopera poco qualificata, o formata solo al livello secondario, mentre fanno aumentare la richiesta di specialisti e di personale altamente qualificato. Lo dimostrano percentuali recentemente pubblicate dalla Seco, stando alle quali il 70% delle persone con una formazione di livello secondario lavora oggi in rami nei quali il fabbisogno in forza lavoro è inferiore alla media, mentre
due terzi delle persone con formazione terziaria sono attivi in rami nei quali la richiesta di personale è superiore alla media. La richiesta di personale altamente qualificato è così grande che molte aziende sono obbligate a ricorrere a specialisti immigrati per coprire le loro necessità. E non è che dall’immigrazione venga molto, perché praticamente tutti i paesi sviluppati d’Europa denunciano carenze di specialisti. Un altro indicatore che tende a confermare la tesi dell’eccesso di domanda nel settore delle alte qualifiche è rappresentato dal fatto che, nonostante il continuo aumento degli effettivi, i salari di questa categoria di personale, in generale, continuano ad aumentare, mentre il tasso di disoccupazione non è aumentato. Queste valutazioni variano ovviamente da tipo di formazione a tipo di formazione e da regione a regio-
ne. Il fabbisogno di personale altamente qualificato è maggiore nei rami che esportano e nelle aziende delle zone urbane, minore nel rami che servono il mercato interno e nelle aziende localizzate nel resto del paese. È utile precisare che il forte aumento della quota di popolazione con formazione terziaria è stato consentito, nel corso degli ultimi due decenni, soprattutto dallo sviluppo delle scuole universitarie professionali nelle quali il numero di studenti e studentesse è aumentato più rapidamente che nelle università. Da ultimo osserviamo che l’irreversibilità di questa tendenza fa apparire le polemiche sulla selezione nella scuola dell’obbligo o nella scuola secondaria, così frequenti anche in Ticino , come scaramucce di retroguardia. Invece di selezionare occorrerà piuttosto rafforzare il sostegno pedagogico.
diventare drammatica. Crescita zero, spread oltre quota 250, crollo della produzione industriale. Eppure nell’agenda di governo non c’è traccia di piani per rilanciare l’economia. Anzi, forse un’agenda di governo neppure c’è. I consigli dei ministri durano pochi minuti: il tempo di esorcizzare lo spettro di una manovra correttiva, ovviamente post-elettorale. L’unica strategia è il rinvio. Si rinvia la Tav, perché i Cinque Stelle non possono ammainare anche quella bandiera. Si rinvia la questione cruciale dell’autonomia delle Regioni del Nord. Ora si rinvia pure la riforma della legittima difesa. Il governo finora si è concentrato su due provvedimenti: il reddito di cittadinanza, il cui esito resta ancora abbastanza incerto, e quota 100. Si può discutere sull’equità di queste misure; l’unica certezza è che serviranno poco o nulla al rilancio dell’economia. Che ha bisogno di investimenti pubblici e privati. Di una politica che incentivi le imprese ad assumere. Di un taglio netto alle tasse sul lavoro. E anche della riduzione di spese improduttive e sprechi. È probabile che il prossimo 26 maggio i Cinque Stelle perderanno terreno rispetto alle politiche; ma sarebbe sbagliato considerarli finiti. È evidente che un movimento nato da un «vaffa»,
costruito cavalcando tutti i No possibili e immaginabili, cementato dall’opposizione al sistema, una volta andato al governo e quindi divenuto a sua volta sistema è destinato a perdere appeal. Tuttavia le ragioni del discredito delle forze che hanno appoggiato i governi precedenti sono ancora lì, quasi intatte. E non va sottovalutata l’influenza della rete, su cui i Cinque Stelle sono nati e che continua a rappresentare per loro – nonostante gli hashtag e i panini con nutella di Salvini – un terreno favorevole. Resta clamoroso l’esempio di quest’estate: dopo il crollo del ponte di Genova, l’attenzione della rete all’inizio si incentrò su Grillo, che aveva fatto proprie le parole di un gruppo antiGronda (il progetto autostradale che dovrebbe tagliare fuori la città di Genova liberandola dal traffico pesante) sulla «favoletta del crollo del ponte»; ma in poche ore tutto si è spostato addosso ai Benetton. Che avevano probabilmente le loro responsabilità, ma dal punto di vista degli influencer legati ai Cinque Stelle erano un bersaglio perfetto: ricchi e considerati «di sinistra», per via del rapporto con i governi del Pd e per l’aura gauchiste che circonda il fotografo Oliviero Toscani e le sue campagne antirazziste. Tuttavia il vincitore annunciato
delle Europee è ovviamente il leader leghista. La mutazione del Carroccio – da nordista a nazionalista – è ormai compiuta. Bossi vagheggiava di staccare il Settentrione d’Italia per agganciarlo all’Europa; Salvini vagheggia di rovesciare i rapporti di forza a Bruxelles, e qualcuno dei suoi di portare fuori dall’Europa l’Italia intera. Ma sono disegni percorribili? La verità è che qualsiasi leadership, anche la più dinamica, non può prescindere dalle condizioni economiche e psicologiche del Paese. L’Italia oggi segue Salvini quando frena gli sbarchi e fa la faccia feroce; ma domani non lo seguirà, se lui non saprà rispondere alla domanda di investimenti, cantieri, tagli alle tasse che sale dal Nord. Non possiamo sapere oggi a chi spetterà condurre questa politica, al governo in carica o a un futuro governo di centrodestra. L’unica certezza è che questa rappresenta l’unica politica possibile. O si rilancia l’apparato produttivo e si ricostruisce la fiducia degli investitori nel sistema Italia, oppure qualsiasi governo e qualsiasi leader finiranno per essere travolti dalla stagnazione e dal risentimento. Quanto ai Cinque Stelle, con Zingaretti alla guida del Pd si aprirebbe per loro una prospettiva diversa. Vedremo se sapranno coglierla e aprire un dialogo.
dati per il Gran Consiglio, interventi sui quotidiani, pagine su pagine con proposte, suggerimenti, considerazioni varie. E poi congressi, dibattiti radiotelevisivi, feste e aperitivi, cartelloni e «santini», il tutto ripreso e moltiplicato nelle reti sociali dentro un gioco di specchi infinito. Certo, gli eletti, al termine della corsa, saranno pochi, cinque da un lato (Consiglio di Stato), novanta dall’altro (Gran Consiglio). La maggior parte si dirà contenta di aver potuto accompagnare nella campagna il capolista. Ma intanto hanno avuto modo di farsi conoscere, di apparire in televisione, di ritagliarsi uno spazio: non è detto che al prossimo giro non scatti l’opportunità di risalire la graduatoria e pretendere un ruolo che non sia più quello della comparsa.
Resta da capire che risultato tangibile produrrà tutta questa agitazione, tutto questo sfoggio di sorrisi e promesse: in che modo si potrà realmente intervenire negli snodi che più angustiano la società, come i costi del settore sanitario con le relative ripercussioni sulle quote assicurative, l’occupazione (sempre più precaria), il traffico, la tutela dell’ambiente, la scuola. Negli ultimi anni il ceto medio, la formica che produce e risparmia, è visibilmente scivolato verso i gradini bassi della scala sociale. Chi sta in alto vive spensierato, chi sta in basso riceve i sussidi, chi sta in mezzo deve invece cavarsela da sé, soppesando attentamente introiti e spese. «Salvare» il ceto medio senza dimenticare o calpestare chi sta ai piedi della scala dovrebbe figurare tra i punti qualificanti di ogni programma elettorale.
In&outlet di Aldo Cazzullo La stagnazione è il vero nemico I Cinque Stelle sono finiti? Molti dicono di sì, tutto lascia credere di no. Il voto in Sardegna è stato un terremoto. Il partito che esprime il premier, un vicepremier, il presidente della Camera, il Guardasigilli e altri ministri importanti è passato da oltre il 40 a meno del 10 per cento. La coalizione di centrodestra che nel 2018 non aveva vinto un solo collegio uninominale ha conquistato la Regione, come era già accaduto in Molise, Friuli Venezia-Giulia, Trentino-
Alto Adige, Abruzzo (e come probabilmente accadrà in Piemonte). Eppure Salvini ribadisce di non avere alcuna intenzione di ricostruire a livello nazionale l’alleanza con cui si era presentato alle politiche, e ripete che il governo durerà altri quattro anni. Legittimo: la maggioranza parlamentare è solida; le opposizioni restano deboli e divise. Ma è altrettanto legittima la domanda: il governo dura per fare che cosa? La situazione dell’Italia è critica e può
Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 Stelle. (Keystone)
Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti Un altro giro sulla giostra elettorale Si è soliti pensare che il dibattito politico lasci indifferenti e che infiammi gli animi solo di gruppi ristretti, coloro che vivono nelle istituzioni e nei partiti. Sondaggi ed esperienza quotidiana confermano questa impressione, con dati certamente allarmanti per lo stato di salute della democrazia. La disaffezione trova conferma in tassi di partecipazione al voto decrescenti, il che finisce per consegnare il paese alle minoranze più motivate e organizzate. Il disinteresse non è tuttavia uniforme. Votazioni ed elezioni mobilitano fasce di cittadinanza variabili. Nei referendum e nelle iniziative ci si esprime su quesiti; nelle elezioni su partiti e persone (candidati). Nel primo campo si fa appello alla razionalità del votante, nel secondo alle passioni e alle simpatie
(questo in linea teorica: nella pratica i due piani s’intersecano). Il Ticino ha sempre riversato nella contesa elettorale un capitale di emozioni superiore alla media. Nell’Ottocento il confronto tra liberali e conservatori sfociava regolarmente in lotte furibonde, risolte ricorrendo alle maniere forti, a randelli e carabine. Per riportare la quiete la Confederazione inviava nel riottoso «Südkanton» commissari e contingenti armati. Questo fino alla rivoluzione del 1890, anno in cui divenne chiaro che bisognava voltar pagina, deporre le armi e superare gli steccati. La soluzione fu individuata nel proporzionale, metodo che garantiva alle forze maggiori un’adeguata rappresentanza nel legislativo e, dal 1922, nell’esecutivo con il «governo di paese», formula ideata da Giusep-
pe Cattori che tuttora regge le sorti della nostra repubblica. In sostanza, la formula prevedeva che solo il partito che otteneva la maggioranza assoluta dei suffragi avrebbe potuto rivendicare legittimamente la guida del paese. Traguardo che evidentemente era impossibile da raggiungere in quella costellazione di forze. Molto si è discusso sulla bontà dei due sistemi, se sia meglio il proporzionale o il maggioritario, quali i vantaggi dell’uno e quali gli inconvenienti dell’altro per la governabilità, disputa che lasciamo volentieri ai politologi. Qui ci limitiamo ad evidenziare un fatto: la capacità, da parte del sistema proporzionale, di favorire e stimolare la partecipazione alla gara elettorale. La prova l’abbiamo sottocchio in queste settimane: oltre settecento candi-
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Idee e acquisti per la settimana
Via le macchie
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PUNTI
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Cultura e Spettacoli Ma quale Buddha? Al Museo Rietberg una mostra intorno a una fede che è riuscita a conquistare il mondo
Le atmosfere di Joe Jackson Il cantante britannico Joe Jackson, tra i principali esponenti della New Wave ritorna con Fool, un album nuovo e convincente
Il nuovo teatro-canzone Tommaso Giacopini, degno erede del grande Gaber, presenta il suo teatro-canzone
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Vita di strada Esce in dvd Sauvage, il primo lungometraggio di Vidal-Naquet, dedicato alla prostituzione maschile
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I ritratti di un cortigiano
Mostre Antoon van Dyck al Musei Reali
di Torino
Gianluigi Bellei Il Seicento è il secolo dell’assolutismo. Già nel Cinquecento Pierre Grégoire nel De Republica sostiene che il sovrano è responsabile solo davanti a Dio. Il re d’Inghilterra Giacomo I Stuart nei suoi The True Law of Free Monarchies e Basilikon scrive che il sovrano è imago Dei, ovvero immagine di Dio. Cardin Le Bret con De la souveraineté du roi precisa che dovere del suddito è obbedire al sovrano, buono o malvagio che sia. Il vescovo francese Jacques-Bénigne Bossuet afferma, infine, che il potere del Re deriva direttamente da Dio. Insomma, il sovrano detiene il potere assoluto su tutto e tutti. In questo contesto troviamo i tre cavalieri dell’Apocalisse, la carestia, l’epidemia e la guerra, che seminano miseria. Secondo le stime di Gregory King quasi un quarto della popolazione inglese vive sotto la soglia di povertà e i vagabondi sono 30’000. Sébastien le Prestre de Vauban sostiene che in Francia un terzo della popolazione vive in miseria. Se il re è un’emanazione divina, a corte si vive divinamente. Grandi spese e grandi numeri. In Francia al suo servizio vivono circa 5000 persone. In Inghilterra «solo» 2000. Le spese di corte sono la terza voce del bilancio dello Stato dopo le guerre e gli interessi per i debiti. A corte vivono i cortigiani, già descritti nel 1528 da Baldassarre Castiglione ne Il Cortegiano, che seguono il corpo del Re per sacralizzarlo, dalla nascita alla morte, dall’alba al tramonto. Le corti sono divise in quattro sezioni: casa, camera, scuderia e cappella che accompagnano il sovrano nelle sue funzioni di mangiare, dormire, spostarsi e pregare. Queste sezioni sono guidate dal gran maestro per la casa, dal gran ciambellano per la camera, dal grande scudiere per le scuderie e dal grande elemosiniere per la cappella. Il modello era la corte dei Papi, anche se alcune diversità si possono notare fra quelle di Francia e di Spagna. In Francia il Re ha tutti i sudditi «come compagni», mentre in Spagna non parla mai con i suoi della camera. Il gran maestro e il gran ciambellano trascorrono molto tempo con il sovrano anche se questi di solito predilige il gran ciambellano perché è nella camera che il sovrano «deponeva ogn’aria maestosa per eguagliarsi agli altri uomini». Fra i cortigiani c’è sempre un artista. Che deve essere colto e capace di intrattenersi con i nobili. Uno di questi è Bernini, dall’aspetto piacevole, intelligente, arguto e con una brillante conversazione. Papa Urbano VIII appena eletto esclama: «Gran fortuna è la vostra, o Cavaliere, di vedere Papa il cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il Cavalier Bernino viva
nel nostro Pontificato». Viaggia per raggiungere la Francia da gran signore con un ricco seguito ed è accolto sempre con grandi onori. Poi Rubens, colto, intelligente, dai modi raffinati, al servizio di Alberto e Isabella nei Paesi Bassi, Vincenzo Gonzaga, Carlo I. Velázquez si lega unicamente alla corte spagnola e ottiene dal Re prima il titolo di usciere di camera, poi di aiutante del vestiario, sovrintendente ai lavori regi, aiutante di camera e infine maresciallo di corte con il compito di sorvegliare il cerimoniale. Gli artisti vengono elevati al rango di nobiltà con il regalo di una collana d’oro. Alberto d’Austria la regala a Rubens; Gregorio XV a Bernini; Giacomo I, Isabella Clara Eugenia e Carlo I a Van Dyck. Antoon van Dyck è uno dei più ambiti artisti delle corti europee del Seicento. Giovanni Pietro Bellori nelle Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni del 1672 così lo descrive (riporto dalla ristampa anastatica edita da Arnaldo Forni di Bologna nel 2000 senza usare la esse lunga, che sembra una effe, ma quella odierna): «Erano le sue maniere signorili più tosto che di huomo priuato, e risplendeua in ricco portamento di habito, e diuise, perche assuefatto nella scuola del Rubens con huomini nobili, & essendo egli per natura eleuato, e desideroso di farsi illustre, perciò oltre li drappi, si adornaua il capo con penne, e cintigli, portaua collane d’oro attrauersate al petto, con seguito di seruitori». Insomma, un tipetto bello, civettuolo e vanitoso. Katlijne Van der Stighelen – nel catalogo della mostra che i Musei Reali di Torino gli dedicano in questi mesi – dopo aver analizzato le varie biografie sull’artista, da quella di Joannes Meyssens nel 1649 fino a quella di Roger de Piles nel 1699 assieme ovviamente a quella del Bellori, arriva alla conclusione che van Dyck è di bassa statura, chiaro di pelle e rossiccio di capelli, piuttosto timido, dall’aspetto esteriore importante «perché gli piaceva trovare clienti nelle classi sociali più elevate» ed è un «cortigiano» nel contesto inglese alla corte di Carlo I, anche se ha frequentato quelle di Genova, Torino, Anversa e Londra. Tutti sono concordi che sia il migliore ritrattista del periodo. La mostra torinese è suddivisa cronologicamente in quattro sezioni: la prima è dedicata alla sua formazione e al rapporto con Rubens; la seconda al soggiorno in Italia dal 1621 al 1627; la terza indaga sugli anni alla corte dell’arciduchessa Isabella Clara Eugenia ad Anversa e l’ultima, dal 1632 alla morte nel 1641, alla corte di Carlo I a Londra. Del periodo italiano è il Ritratto del cardinale Bentivoglio eseguito a Roma nel 1623 nel quale Van Dyck mostra la sua
Antoon van Dyck, Marchesa Elena Grimaldi Cattaneo, 1623. (National Gallery of Art, Washington, Widener Collection)
predilezione per Tiziano con il rosso del vestito e nel contempo la finezza della trama pittorica ricca di dettagli. Un altro capolavoro è sicuramente il Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo realizzato durante il soggiorno genovese del 1622. Qui l’elegante signora passeggia nel suo giardino con un fiore in mano mentre un paggetto le copre il volto diafano con un ombrellino rosso. Fra i ritratti di duchi, marchesi, regine, re, lord, conti, cardinali, principi, abati, contesse, sir, banchieri, arcivescovi, cavalieri, spiccano in mostra le due versioni, fra le tante, de I tre figli maggiori di Carlo I: bambini imbellettati e immerlettati, immobili come bambole, tristi e consapevoli, dipinti con tonalità
tenui e bilanciate. A sinistra troviamo Carlo, principe di Galles di 5 anni, al centro Maria di 4 e a destra Giacomo vestito da ragazza come si usava ai tempi per i bambini fino a 2-3 anni per scaramanzia contro la morte prematura dell’erede. Van Dyck non ha mai raggiunto la qualità estetica e compositiva di Rubens e sicuramente il genere del ritratto non era molto considerato all’inizio del secolo. Il nobile Vincenzo Giustiniani in una delle sue lettere indirizzate all’avvocato olandese Theodor Amayden nel 1610, quella sul discorso sulla pittura, suddivide i modi di dipingere secondo una gerarchia classificata in dodici gradini. Quello più basso è lo spolvero,
segue la copia di altri dipinti, il saper disegnare e al quarto posto il ritratto. In seguito il ritratto si affianca alla pittura di storia occupando i primi posti della scala dei valori e per questo i vanitosi nobili del Seicento trattavano gli artisti di corte come principi. Piccola mostra con solo 45 tele e 21 incisioni, sale anguste e mal illuminate. Dove e quando
Van Dyck. Pittore di corte, a cura di Maria Grazia Bernardini e Anna Maria Bava. Musei Reali. Galleria Sabauda, Torino. Fino al 17 marzo. Tutti i giorni 9.00-19.00. www.mostravandyck.it
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Cultura e Spettacoli
Rileggere il presente
Tatort, il cult che diventa teatro
Mostre Franco Ghielmetti alla Casa comunale di Bioggio
In scena In prima mondiale a Zurigo
fino al 4 maggio
Eliana Bernasconi Lo spazio che il Comune di Bioggio riserva alle esposizioni nell’ambito della programmazione culturale, pur non essendo una vera e propria galleria e non rientrando strettamente nel sistema organizzato dell’arte, delle migliori gallerie ha impostazione e modalità operativa, che si evidenzia nelle scelte degli artisti. La mostra in corso segna i vent’anni dell’apertura di questo spazio che prevede quattro esposizioni all’anno, di cui una dedicata a un artista non vivente. Dei cataloghi a forte diffusione, con presentazione critica ed elegante progetto grafico accompagnano ogni mostra marcando l’interesse dei percorsi espositivi. Se la funzione del vero artista è di essere testimone del suo tempo, svelandoci significati nascosti dalle apparenze e cogliendo aspetti di realtà che non conoscevamo, questo è davvero il caso delle ultime opere di Franco Ghielmetti. Egli fa parte di quegli artisti che oggi avvertono l’urgenza di praticare una poetica della sottrazione, nell’eccedenza degli oggetti che la società dei consumi e dei conseguenti rifiuti produce nella parte ricca del mondo, dove sovrabbondanza, omologazione banalizzante, frastornante e incessante produttività possono derubarci del desiderio, del senso della conquista e del mistero. Queste opere mirano alla scoperta di un ritrovato stupore, suggeriscono come forse sia ancora possibile avere coscienza del fluire del tempo. Ghielmetti è artista, pittore e filmmaker, ha studiato pittura e storia dell’arte a Brera e Scienze audiovisive e filosofia a Parigi, dal 1979 al 1981 ha collaborato alla riprogrammazione del Padiglione d’Arte contemporanea di Milano. Nelle 50 opere in mostra, troviamo quelle bidimensionali, realizzate su elementari supporti di carta ordinaria o stoffa di cotone e quelle raccolte in una ordinata serie di assemblaggi e installazioni tridimensionali, chiamate Item (che significa, nel linguaggio informatico, il singolo dato o un insieme di dati considerato come unità). Fra le prime colpiscono Lontano dall’equilibrio (2012 e 2018), di grandi dimensioni, e il trittico Signe 1/2/3, 2018-19, su supporto tradizionale di tela. Le opere provengo-
Marinella Polli
Franco Ghielmetti, Lontano dall’equilibrio, 2018.
no dalla matrice dell’informale e dell’espressionismo astratto (caratteristiche della matrice sono riscontrabili nei violenti tracciati bianchi su fondo nero di Esausti, 2016) e sono accomunate da un caratteristico segno circolare e ripetitivo, posto al centro di vibranti campiture nere, bianche o blu oltremare. In queste opere la variazione minima della dimensione degli spazi bianchi e di colore non sfugge alla nostra percezione, ma cattura il nostro sguardo, suggerisce come ancora e sempre sia possibile la trasformazione di uno spazio dato, e il passaggio a un altrove. Ghielmetti è anche appassionato musicista e compositore: forse il suo tipico segno grafico circolare, a inchiostro scuro o di colore giallo e bianco, appartiene a una dimensione musicale tra la traccia grafica e il suono. A questo proposito nel trittico Signe il segno giallo è accostato a un timbro rosso, squillante come la nota acuta di un richiamo. È un’impronta che già abbiamo incontrato in Rouge del 2005, realizzato con cotone, carta, pigmenti e medium acrilico, dove i materiali poveri sono aspetti irrinunciabili dell’espressività dell’opera. Ma è nella serie degli assemblaggi (Item) di materiali diversi che cogliamo la singolare poetica di queste opere, la loro vicinanza al nostro presente quotidiano, del quale si alimentano e da cui non possono prescindere, ma che a sorpresa dello stesso creano una nuova
lettura. L’artista ci ha raccontato di aver raccolto negli ultimi anni oggetti che trovava casualmente per terra (bucce di banane o di arance, foglie, semi, scatolette di latta, sugheri) senza in un primo tempo comprendere la ragione del suo gesto. Grazie a candidi supporti congiunti tra loro, ricoperti e protetti solo da bianco, nero o dal medium acrilico blu oltremare, (antico colore del sacro) gli oggetti hanno acquistato un senso. La guaina del colore li avvolge e ne rinnova l’esistenza come fosse una amorosa scorza, ricollocandoli così nel circuito del tempo. A questo proposito, nella sua introduzione la scrittrice e poetessa Prisca Agustoni ha parlato di «Reliquie del quotidiano». Ghielmetti ha trascorso lunghi soggiorni sulle spiagge della Polinesia francese, dove ha appreso il mito secondo cui la creazione dell’universo avrebbe origine da un uovo. Ed è con un candido, comune guscio d’uovo (chiamato Huero / Ta’aora, dove in polinesiano «Huero» è l’uovo e «Ta’aora» la divinità maschile nata dall’uovo) che in Item II Franco Ghielmetti ci introduce al mistero delle cose.
In ambito germanofono, Tatort è una delle serie televisive di maggior successo. Già agli esordi negli Anni Settanta, il programma aveva raggiunto un audience pari a 25 milioni di spettatori per uno share del 70%, mentre nel 2010 ben 13 episodi di Tatort figuravano tra i 15 programmi più visti dell’anno della televisione tedesca. Una tendenza confermata anche nel 2011, con un’audience di 8,5 mio di telespettatori per episodio, nonché gli anni successivi. La serie mette a fuoco contrasti relazionali o di natura personale, ma anche spinose tematiche sociali, economiche e sociopolitiche, come per esempio l’avvenuta riunificazione delle due Germanie, gli immigranti, le comunità emarginate, dunque rappresentando eloquentemente da circa 50 anni la realtà tedesca. Al punto che il programma è stato anche oggetto di ampie discussioni sociologiche, filosofiche e letterarie. I fan di questa serie poliziesca prodotta da ARD, ORF e SRF (dal 2018 i telefilm vanno in onda anche in Italia sul canale «Giallo» con il titolo di Tatort – Scena del crimine) non dovrebbero perdere Totart, Tatort dell’attore, regista e artista multimediale tedesco Herbert Fritsch (classe 1951), in cartellone alla Schauspielhaus. Fritsch (sue la regia e le scene, costumi di Victoria Behr, luci di Gerhard Patzeit, musica di Ingo Günther) vede
Dove e quando
Franco Ghielmetti. La scorza dei giorni. Bioggio, Casa comunale. Orari: lu 16.00-19.00; ma-me-ve 9.45-11.45; gio 11.00-14.00. Fino al 17 marzo 2019. bioggio.ch
il linguaggio teatrale come tramite per la sperimentazione di nuove forme di comunicazione, di cui uno degli elementi principali è la compressione del testo, che in Totart, Tatort è ridotto all’essenziale: un variegato susseguirsi di frasi spezzate, mimica, contorsioni e mugugni, nella fattispecie tutti i luoghi comuni delle serie poliziesche. Non vi è una vera e propria trama e i personaggi sono caricature. Insomma, un cortocircuito fra ironia e nonsense, una sorta di parodistica, burlesca narrazione collettiva, però di grande impatto, in particolare grazie alla straordinaria prestazione di un cast multivalente. Dopo un breve accenno della celebre sigla musicale della serie, una bionda Henrike Johanna Jörissen stile Anni Cinquanta recita una breve introduzione sempre con rimandi alla celebre sigla. Segue uno spassoso caleidoscopio di ripetizioni, variazioni, e scene poliziesche: uccisioni, cadute tanto isteriche quanto acrobatiche e altre gag: ritrovamenti del cadavere e autopsie, interrogatori e interrogativi, visite ai famigliari e arresti, in un esilarante spettacolo coreografico di commissari con o senza impermeabile, assistenti, assassini, indiziati e cadaveri. I dieci attori sono praticamente sempre in scena, chiamati a muoversi e a contorcersi o a pronunciare le fatidiche arcinote frasi fatte tipo «dove si trovava ieri sera fra le dieci e le undici», «portatelo via», ecc. Il tutto in una scenografia a fondo blu ed effetto a specchi e con un’apertura da dove sbucano, si appendono a testa in giù o rientrano, vuoi in gruppo vuoi da soli, i dieci attori che costruiscono un’impareggiabile drammaturgia di un’ora e mezzo. Risate e divertimento e, al termine, battimani scroscianti per tutti, soprattutto, per gli eccellenti attori. Dove e quando
Gli attori in scena per Totart Tatort sono dieci. (© Tanja Dorendorf / T+T Fotografie)
Totart, Tatort, regia di Herbert Fritsch, Zurigo, Schauspielhaus. Fino al 4 maggio 2019. www.schauspielhaus.ch Annuncio pubblicitario
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PUNTI
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Cultura e Spettacoli
Un viennese dalle radici armene Concerti/1 Il violinista Emmanuel
Tjeknavorian al LAC il 14 marzo con l’Osi Enrico Parola «I miei genitori erano entrambi musicisti: papà direttore e compositore, mamma pianista; e non volevano che seguissi le loro orme». Ha disobbedito, Emmanuel Tjeknavorian: sarà lui il solista nel Concerto per violino di Brahms che l’Orchestra della Svizzera Italiana accosterà giovedì 14 alla Terza Sinfonia Renana di Schumann. A soli 23 anni. «Diciamo che ho iniziato a fare i capricci presto» ironizza «A due anni ero già sul palco: pretendevo di dirigere a fianco di papà. A cinque chiesi un violino e già due anni dopo facevo il mio primo concerto pubblico; ad accompagnarmi fu proprio mia madre». Emmanuel è nato e cresciuto a Vienna, patria del Classicismo aureo di Haydn, Mozart e Beethoven; ma la famiglia, come certifica il cognome, ha radici armene. «All’inizio non ci pensavo tanto, ma ora il saper parlare armeno e poter leggere la letteratura russa in lingua originale mi regala belle sensazioni; così come suonare musiche di quella terra». Se lo farà a Lugano sarà solo per il bis: il Concerto di Brahms vide la luce nell’estate del 1878 in un ameno paese della Carinzia che si specchia nel Wörthersee, Pörtschach; un luogo magico che per il compositore amburghese profumava di note e armonie. Amava passeggiare immerso nella natura e tutto lì, dai prati in fiore alle acque lacustri, gli suggeriva idee musicali; non è un caso che oltre
al Concerto vi furono composte anche la gioiosa Seconda Sinfonia e la Sonata op. 78. Nonostante la luminosità e la serenità, questo concerto è tutt’altro che una passeggiata di salute per il solista, chiamato ad affrontare una parte sì piena di canto meraviglioso, ma anche irta di tanti passaggi di enorme virtuosismo. Brahms era un ottimo pianista, non un violinista, e non gli era facile cesellare una scrittura perfettamente adeguata all’idioma degli strumenti ad arco; si affidò al rinomato virtuoso Joseph Joachim, amico sincero nonché già sodale di Schumann, confidente fraterno di Johannes e scopritore del suo genio. Il sodalizio fu proficuo e il Concerto è diventato uno dei più amati di tutta la letteratura violinistica; eppure tutti i grandi virtuosi dell’archetto muovono all’autore un rimprovero. La melodia più bella non viene presentata dal violino, bensì dall’oboe, che per primo intona il lirico tema dell’Adagio. Dettaglio forse non trascurabile, ma sicuramente scusabile pensando ai tantissimi altri momenti dove le qualità timbriche e tecniche del solista vengono esaltate. Bellezze e prodezze che non spaventano il 23enne austriaco (compirà 24 anni in aprile): «Nella musica solo l’1 per cento è talento, che viene dal Creatore e su cui non possiamo fare nulla; il 99 per cento è studio e applicazione, e su questo possiamo lavorare». Alla direzione dell’OSI ci sarà Markus Poschner, impegnato anche nella Renana di Schumann.
A Lugano eseguirà il Concerto per Violino di Brahms, diretto da Poschner.
Camelie musicali
Concerti/2 A Locarno la nuova edizione
della rassegna concertistica che propone quattro serate: biglietti in palio per i lettori Musica di primavera nella Sala della Sopracenerina a Locarno: dal 22 marzo 12 aprile quattro serate del finesettimana proporranno al pubblico ticinese concerti da camera con un programma vario e affascinante attraverso stili e strumenti d’epoca. L’undicesima edizione dei Concerti delle Camelie, Festival Internazionale di musica antica, si aprirà venerdì 22 marzo 2019 alle 20.30 con l’esibizione delle gemelle Johanna e Elisabeth Seitz, all’arpa e al salterio barocco. Le due musiciste ci proporranno un percorso musicale attraverso l’Europa barocca. Venerdì 29 marzo sarà la volta dell’ensemble Concerti Scirocco, gruppo diretto dalla ticinese Giulia Genini. Il loro programma vocale-strumentale spazierà tra le composizioni di Monteverdi, Legrenzi e Rovetta. Quartetto d’archi e chitarra venerdì 5 aprile, con un concerto interamente dedicato a Boccherini: il chitarrista Matteo Mela proporrà le pagine più famose del compositore italiano. Il quartetto che lo accompagnerà è l’Alea-
Ensemble, formato da Fiorenza de Donatis, Andrea Rognoni, Stefano Marcocchi e Gaetano Nasillo. La rassegna si concluderà venerdì 12 aprile con il recital del tenore Pino de Vittorio, accompagnato dal suo ensemble Laboratorio 600. Gli interpreti ci proporrano pagine di musica della Calabria antica, eseguite con strumenti a pizzico, quali arpa, liuto, tiorba e chitarra. La prevendita degli abbonamenti è all’indirizzo email: concertidellecamelie@gmail.com oppure all’Ente turistico Lago Maggiore. La sera del concerto sarà possibile acquistare i biglietti a partire dalle ore 20.00. Informazioni nel sito www.concertidellecamelie.com Biglietti in palio
«Azione» mette in palio alcune coppie di biglietti per le quattro serate». Per partecipare al concorso seguire le istruzioni contenute nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona Fortuna!
Le molte vie del buddhismo
Mostre Al Museo Rietberg di Zurigo si ripercorrono gli itinerari
storici e artistici di una corrente spirituale giunta fino a noi
Buddha Shakyamuni (dettaglio); Tibet occ. XII-XIII sec. (© Museum Rietberg, prestito permanente, collezione Berti Aschmann)
Marco Horat Tutto quello che avreste voluto sapere sul buddhismo, o quasi. È quanto propone il celebre museo dedicato alla culture altre dalla nostra, in una rassegna che per la prima volta nella storia dell’istituzione, coinvolge fin dalla sua impostazione la didattica: le otto «stazioni» tematiche dell’esposizione infatti sono visitabili seguendo percorsi autonomi pensati anche per le scuole – quelle cittadine hanno collaborato in prima persona nell’ambito del programma «religione e cultura» – e famiglie con bambini. Più di cento pezzi: oggetti, sculture, statue in bronzo e pietra, dipinti, rari e antichi mai esposti in Svizzera (integrati con documenti sonori attuali, cartine e immagini) provenienti da Cina, Giappone, India, Pakistan, Tibet, Myanmar e altri paesi; molti i prestiti di spicco come pure numerosi sono i reperti che appartengono alle ricche collezioni del museo zurighese, che qui vengono ulteriormente valorizzati in un nuovo contesto tematico. Il risultato è una mostra che vuole rappresentare la storia del buddhismo e delle scuole di pensiero che ne sono derivate (il Piccolo e il Grande veicolo ad esempio), i suoi princìpi, le sue caratteristiche, le particolarità e i personaggi reali o fantastici che lo animano, a partire dalla figura storica del Principe Siddharta Gautama che coincide con quella del Buddha Shakyamuni, fino ai discepoli, ai bodhisattva quali Tara della compassione o al demone tentatore Mara. Non c’è «il» buddhismo – dice Elena Del Carlo del Rietberg – perché in effetti si tratta di una realtà estremamente composita e dai confini sfumati; una città con molti quartieri, con edifici, vie e piazze diverse ma che insieme formano una comunità sparsa in tutto il mondo con milioni di seguaci, pur non avendo strutture ecclesiali ben definite: non c’è un papa, non ci sono cardinali, vescovi o simili. Si può dunque dire che il buddhismo sia una religione, oppure è una filosofia, uno stile di vita, un modo per rapportarsi con sé stessi e con il mondo? È tutto questo insieme, come un diamante dalle molte facce, con una storia plasmatasi dapprima in forma orale e poi scritta, in vari paesi e durante molti secoli, a partire dall’India e dal V-IV secolo avanti Cristo. Un principio che come per altre culture ha dato origine a un’infinità di forme artistiche di grande bellezza legate al culto praticato dalle classi privilegiate, ma anche ai riti e alla devozione popolare. Il percorso termina affrontando il
tema della odierna presenza buddhista in occidente e in particolare nel nostro paese, sia con testimonianze sonore di praticanti e studiosi (purtroppo solo in tedesco) sia con una ricostruzione di una via cittadina nella quale vengono provocatoriamente esposti ritratti di grassi Buddha in forma di soprammobile da salotto, teste di bodhisattva che sono contenitori per fiori, festoni di inutili bandierine colorate, paperette di gomma per neonati rivestite con il manto monacale e altri simili orrori. Prodotti di consumo che rispecchiano quel fenomeno tipico della società moderna che un antropologo ha definito come «cialtronizzazione culturale»; lo snaturare cioè il valore culturale intrinseco di un oggetto mettendolo fuori contesto e riducendolo a vuoto simulacro.
La mostra di Zurigo è uno spunto per riflettere sul nostro rapporto con la spiritualità orientale Visitando la mostra del Rietberg si fanno scoperte interessanti. Ho citato prima il nome del Principe Siddharta e a qualcuno sarà venuto in mente il nome di Hermann Hesse e del suo famoso libro (che magari sarebbe bello leggere o rileggere prima di visitare la mostra). Non è questo il solo risvolto ticinese: per esempio si può ammirare una austera statua di un monaco orante che veniamo a sapere era una delle preferite di Eduard von der Heydt, che l’aveva probabilmente acquistata negli anni
20 del Novecento a un’asta o da un antiquario, come era solito fare; insieme ad altri capolavori di tutte le parti del mondo, la statuetta rimase esposta a Casa Anatta al Monte Verità dal 1926 al 1939. La donazione avvenuta in seguito della sua prestigiosa collezione alla città di Zurigo nel 1946, portò proprio alla nascita del Museo Rietberg. Ma Ticino a parte ci sono altre rarità che vengono esposte per la prima volta in Svizzera. Citerei una grande statua in pietra proveniente dal Pakistan con un fantastico ritratto del Buddha dalle sembianze occidentali, frutto dell’influenza ellenistica nella regione del Gandhara (a partire dal I sec. a.C) portata dal grande Alessandro. Staccato da specialisti zurighesi dalla sua base originale nel museo di Peshawar per la prima volta da quasi un secolo, è il primo frutto di un accordo di collaborazione culturale tra il nostro Dipartimento degli affari esteri e l’omologa istituzione pakistana. Il prestito più eccezionale, dicono gli organizzatori, è però un insieme di gemme trovate nell’India meridionale da un archeologo dilettante britannico di nome William Claxton Peppé nel 1898. Erano sepolte in profondità in diversi contenitori all’interno di uno stupa che qualcuno diceva essere la tomba del Buddha storico, ed erano mescolate alle ceneri e ai resti ossei di un defunto. Il Buddha forse? Nel 1900 parte di queste reliquie furono divise tra importanti templi e monasteri di Sri Lanka, Birmania e Thailandia, dove sono ancora venerate dalle popolazioni locali e da milioni di pellegrini; quelle rimaste a Claxton Peppé vengono ora esposte per la prima volta in Svizzera grazie alla disponibilità dei suoi eredi. Non vorrei dimenticare un ultimo prestito dai musei di Praga che hanno portato sulla Limmat un prezioso e antico rotolo giapponese dipinto che illustra la vita del Buddha Shakyamuni dalla nascita all’estinzione nel Nirvana; così come si raccontavano per immagini le storie della vita di Gesù sulle pareti delle nostre chiese medievali. Per questa mostra, ed è un peccato, niente catalogo; è stato però preparato un utile abbecedario con i termini utilizzati dal buddhismo, in tedesco, francese e inglese. Dove e quando
La locandina della mostra in corso a Zurigo.
Prossima fermata Nirvana. Approcci al Buddhismo, Zurigo, Museo Rietberg. Fino al 31 marzo 2019. www.rietberg.ch
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Cultura e Spettacoli
Deliziosi esperimenti
Musica Una conferma di classe: Joe Jackson, «gentleman» per eccellenza del pop inglese più raffinato,
torna a deliziare i suoi fan con un nuovo, riuscitissimo lavoro
Benedicta Froelich Si può dire che, nell’ambito della musica angloamericana anni 80, l’ormai 64enne britannico Joe Jackson abbia rappresentato, fin dai suoi esordi, una sorta di anomalia. In un’era di pop spesso effimero, soffocato dall’uso improprio ed eccessivo di sintetizzatori e drum machines, Jackson si è, infatti, presto distinto tra gli artisti del decennio per il suo grande amore per le contaminazioni sonore e le sortite in atmosfere tipiche di generi più «elevati»: un’attrazione che lo ha portato a prodursi in exploit collocabili a metà strada tra la new wave inglese e il cool jazz (senza disdegnare nemmeno certa musica ska!), al punto da divenire uno dei nomi più conosciuti e rispettati del cosiddetto «sophisti-pop» – simbolo della raffinatezza vagamente démodé alla quale Joe si è, in effetti, rifatto per tutta la sua carriera, rimanendo sempre fedele al proprio, caratteristico sound. Quella stessa maestria si ritrova oggi nell’attesissimo ritorno discografico dell’artista, uscito a quattro anni di distanza dal precedente Fast Forward. E questo Fool è, in effetti, pervaso da intriganti e inaspettate commistioni ed esperimenti stilistici, evidenti fin dalla traccia d’apertura, l’ottima Big Black Cloud: un brano dal grande vigore espressivo e narrativo, che ripropone le sonorità urbane da sempre care a Jackson (e il suo uso sapiente del pianoforte come principale strumento di supporto e accompagnamento), dan-
do vita a un affresco inquietante delle quotidiane frustrazioni tipiche di una normale famiglia della middle class inglese; il tutto impreziosito dall’elegante coda jazzata che chiude il pezzo. E questa fedeltà di Joe alle peculiari sfumature «vintage» del suo abituale songwriting significa anche ritornare allo stile più fresco e ritmato dei tempi d’oro, come nell’accattivante e irresistibile Friend Better – e, in chiave differente, in Alchemy, la lunga e ipnotica traccia di chiusura, vero e proprio esercizio di stile caratterizzato da avvolgenti tappeti sonori e atmosfere soffuse ed eleganti. Da parte sua, il più convenzionale Fabulously Absolute è in tutto e per tutto un brano squisitamente anni 80, che potrebbe definirsi come una surreale miscellanea di vari sound dell’epoca – un incrocio tra gli exploit più cantautorali degli Smiths di Morrissey e alcuni tra i deliri più riusciti dei Cure. E seppure questa traccia sia forse un po’ troppo inflazionata da citazioni per risultare davvero coinvolgente, è pervasa dallo stesso spirito surrealista dal sapore «British» riscontrabile anche in una piccola gemma come Dave – un pezzo agrodolce dalle sfumature a cavallo tra critica sociale e nichilismo esistenzialista, che ricorda vagamente lo stile del giovane Bowie (miscelato, però, al gusto degli XTC e perfino di certo britpop anni 90). Ma la cosa davvero intrigante di questo Fool è che Jackson si dimostra ancora in grado di stupire il suo pubblico, combinando sfumature musicali
Fool non disattenderà le aspettative degli ammiratori.
anche molto differenti tra loro: ne è un esempio la struggente ballata Strange Land, quasi un pezzo da manuale sul personale, sotterraneo senso di estraniamento a cui nessuna persona realmente sensibile può davvero definirsi immune. Tuttavia, la vera, grande sorpresa è l’irresistibile title track, in
grado di mischiare con impeccabili sagacia e ironia suggestioni narrative in puro stile da folk americano dei tempi andati e atmosfere etniche anni 60-70, con tanto di assoli di sitar e inserti sudamericani – i quali lasciano poi il posto a un’improvvisazione jazz tra pianoforte e basso e a uno stile vocale che
richiama, in più di un passaggio, l’irriverenza del Joe Strummer d’antan. Soprattutto, una delle caratteristiche più meritevoli dell’album sta nell’originalità lirica di Joe, i cui testi rimangono esempi di un’inventiva dalla forte valenza emozionale, come accade con la sorprendente 32 Kisses, riflessione amara (e assai veritiera) sull’impietoso trascorrere del tempo e su come gli unici a uscire indenni dall’allucinante giostra delle aspettative tradite siano «i pochi fortunati a cui è concesso di avere una vita». Sono proprio queste suggestioni, di volta in volta in bilico tra il più disarmante candore e una dolorosa e cocente disillusione, a fare di Fool un disco di alto valore sia dal punto di vista lirico, che da quello squisitamente melodico – e, quasi sicuramente, uno dei migliori sforzi discografici di quest’ancora giovane annata 2019. E dato che il songwriting di Jackson dimostra qui una capacità di coinvolgimento emotivo ancor più marcata che in passato, non sarebbe esagerato affermare che questo nuovo lavoro sia uno dei migliori mai firmati dal britannico. Anche perché, per chiunque ami davvero il pop anglosassone d’alto livello nella sua accezione più cantautorale, un album come Fool non costituisce soltanto una graditissima sorpresa, ma anche, in fondo, un’autentica consolazione – un prezioso quanto necessario rimedio alla troppa musica pop plastificata e «ready-made» a cui le classifiche ci hanno ormai abituati. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Guerrieri innamorati cantano contro l’indifferenza Musica Il 13 marzo Tommaso Giacopini porta il proprio teatro canzone al Foce
Zeno Gabaglio «L’individualismo fomentato da una società meritocratica, che elegge alcuni al titolo di privilegiati e altri a poveracci: ecco cosa non capisco. Quell’individualismo sfrenato e dilagante di cui sento di essere figlio, in quanto appartenente a quest’epoca serissima e grave». No, non avete sbagliato né pagina né giornale. Non state leggendo un fascicolo di aspra critica post-globalista e nemmeno le pagine economiche o politiche di «Azione». Siamo sempre qui, dove si parla di musica.
Nel «teatro canzone» (in cui Gaber fu maestro) Tommaso Giacopini ha trovato la propria cifra espressiva ideale Ma purtroppo – diremmo anzi: per fortuna – nella nostra materia non è sempre possibile scindere i contenuti politico-sociali da quelli puramente creativi ed estetici. E di sicuro non è possibile farlo nell’opera di Tommaso Giacopini, giovane (giovanissimo, classe 1993) artista che abbracciando discipline molto diverse – teatro, danza, canzone – negli ultimi anni si è mosso sull’inedita direttrice Carabbia-Verscio-Londra per portare avanti il proprio discorso poetico. E che discorso! – verrebbe da chiosare: fresco e originale come nella Svizzera italiana non se ne sentivano da tempo. Ma torniamo alle parole di Giacopini, all’individualismo, e introduciamo un filo di speranza. «Attraverso
il mio lavoro cerco di lottare per raggiungere un grado di consapevolezza e sensibilità. E soprattutto di infondere nel pubblico, malgrado tutto, un messaggio di luce e di speranza nell’uomo. Sempre più gente si tiene informata su ciò che succede nel mondo e ha il coraggio di prendere posizione con le proprie scelte, dicendo no ad alcune cose e sì ad altre. Basti guardare cosa sta succedendo con lo sciopero delle scuole a favore dell’ecologia: è un movimento mondiale, è grandioso». Quale mai sarà il genere musicale che offre un contesto fertile per simili messaggi? Dove avrà trovato Giacopini la possibilità e la disponibilità per andare oltre la superficiale esteriorità che ormai attanaglia la maggior parte delle produzioni musicali? Nel «teatro canzone», where else! «È un genere ormai poco frequentato, ai giorni nostri, dove la teatralità s’incarna sia nella musica sia nella narrazione. L’essenza del teatro da sempre è intimità, scambio tra esseri umani: qualcuno racconta, altri ascoltano e rivivono le vicende narrate. Per il mio raccontare sento che la canzone è il mezzo più vicino, la forma in cui meglio esprimermi». Parlando di «teatro canzone» immediatamente si pensa a Giorgio Gaber. «Il maestro indiscusso, colui per cui lo stesso concetto di “teatro canzone” è stato coniato. Nel lavoro di Gaber – assieme a Sandro Luporini, co-autore dei testi – era incredibile la capacità di restare impersonale, di far sentire gli spettatori partecipi delle storie narrate come se le vivessero in prima persona. Raccontava i tuoi sentimenti come neppure tu avresti potuto; non solo quelli nobili, ma anche quelli più oscuri, che magari non sappiamo d’avere». A proposito del dar voce a senti-
Il Fiore Oltre andrà in scena a Lugano il prossimo 13 marzo. (compagniatg.com)
menti non filtrati: «vi saluto, stasera io parto. Apro le ali e volo, vado a viver lontano, vado su una nuvola. E da lì vi piscerò in testa» recita Alla sconfitta di Tommaso Giacopini. Un flusso di coscienza intimo che si spinge assai lontano dal politico, mentre in altri testi si approda addirittura all’amore. «Racconto storie, alcune sono vere altre sono metafore (e per questo forse
ancora più vere). Certe storie parlano d’amore, ma l’amore è in sé un atto politico, un’alternativa alla cattiveria, all’egocentrismo, all’individualismo. Le mie canzoni ritraggono un amore in contrasto con il mondo: l’innamorato è un guerriero e l’amore il suo destriero». Ed è proprio con lo spirito del guerriero innamorato che Tommaso
Giacopini si proporrà in pubblico il prossimo mercoledì 13 marzo al Teatro Foce di Lugano. Il Fiore Oltre è il titolo dello spettacolo – già recensito su queste pagine da Giorgio Thoeni il 17 dicembre 2018 – che si presenta come un «viaggio poetico-musicale intimo e pungente. Una risposta irriverente al clima di torpore intellettuale e politico del suo tempo».
Un immodesto ed autorevole organizzatore
Mostra Il Palazzo Reale di Milano celebra Paolo Grassi e la sua vita dietro le quinte dei grandi teatri italiani
attraverso scatti, scritti e manifesti: la mostra rimarrà aperta fino al 24 marzo Giovanni Gavazzeni Una mostra al Palazzo Reale di Milano (aperta fino al 24 marzo) porta un titolo ironico che non sarebbe dispiaciuto a Lina Wertmüller, Senza un pazzo come me, immodestamente un poeta dell’organizzazione. Frase (auto)descrittiva che cerca di riassumere una delle figure più importanti e singolari della vita teatrale italiana del secondo dopoguerra, Paolo Grassi
(1919-1981), di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Fotografie, lettere, manifesti compaiono anche nel ricco catalogo pubblicato da Skira (272 pp., a cura di Fabio Francione), che ripercorre la vita-lavoro del vulcanico organizzatore culturale prima ancora dell’avventura principale, la fondazione del Piccolo Teatro di Milano, aperto nella storica prima sede di via Rovello, dove, durante gli anni della Repubblica Sociale Italiana c’era
Paolo Grassi sul palco del Piccolo Teatro di Milano. (palazzorealemilano.it)
stato un luogo di tortura e sofferenza. Grassi muove i primi passi come regista e inizia subito l’attività di critico «drammatico», mentre la scrittura e i libri rimarranno sempre amatissimi passatempi: le due mai sopite e predominanti passioni convergeranno nel Piccolo, di cui fu co-fondatore e guida per venticinque anni, quasi tutti passati in coabitazione con il genio creativo di Giorgio Strehler, l’altro cofondatore, non certo meno veemente e motivato del primo. Una diarchia, quella Strehler/ Grassi (1947-68), che in realtà fu un triumvirato, poiché mantenuto in equilibro dall’insostituibile azione diplomatica della guida amministrativa del Piccolo, Nina Vinchi. Triumvirato che ha fatto la storia del teatro italiano del dopoguerra, aprendo le scene italiane alla produzione europea negletta durante il ventennio fascista, un titolo e un nome su tutti, Bertolt Brecht e la sua Opera da tre soldi, passata con successo leggendario dal fascino sofferto di Milly a quello più dirompente di Milva; non dimenticando il più nobile teatro dialettale, come per El Nost Milan di Bertolazzi e il maggior drammaturgo italiano allora vivente, Eduardo (La Grande Magia); oppure rileggendo i classici, da Shakespeare alle commedie di Carlo Goldoni, i luminosi spaccati umani delle Baruffe chiozzotte e del Campiello; l’Arlecchino
servitore di due padroni, diventato ammirato biglietto da visita della compagnia del Piccolo in tutto il mondo. La convivenza fra il direttore Grassi e il regista stabile Strehler fu tanto fertile quanto difficile. «Caro Giorgio», scriveva Grassi a Strehler, «ricevo il tuo espresso. Drammatico come sempre. Inutilmente drammatico. Inutilmente suicida. Dal 1939 ricevo lettere tue tragiche e annuncianti catastrofi e sofferenze estreme, dal 1939 il nostro carteggio porta da parte tua sempre tristezze senza pari, disperazioni, esasperazioni, sfiducie, dissolvimenti, manie di persecuzione. Se non ti conoscessi da antica data e se non avessi sott’occhio centinaia di lettere sempre nere, sempre cariche di incubi, probabilmente mi spaventerei a quella di ieri. Non mi spavento perché gli incubi d’oggi sono quelli di ieri». Poi nella vita di Grassi, dopo il doloroso distacco da Strehler e dal Piccolo, ci furono i successivi prestigiosi incarichi, primo la sovrintendenza del Teatro alla Scala (1972-77), che per anni era stato l’asso pigliatutto nelle sovvenzioni comunale e statali, rappresentando una sorta di «rivale» o di scomodo «compagno di viaggio» per quello che era diventato il più importante teatro stabile italiano. Grassi irrompeva nel mondo dell’opera proclamando la necessità di rendere la macchina organizzativa più produt-
tiva ed efficiente, ma dovette passare anche lui tante forche caudine fra contestazioni e rivendicazioni sindacali. Lottò però sempre perché anche la Scala fosse conscia, non solo del prestigio passato, ma del suo ruolo attuale, organizzando un ufficio per la promozione culturale (retto per decenni dalla figura di Silvestro Severgnini), sicuro che il melodramma, come il teatro, andava conosciuto da tutti gli strati della società civile. Questo non volle dire che nella serata di Sant’Ambrogio entrasse il quarto stato: da autentico socialista credeva nella capacità della cultura di migliorare la vita dei «lavoratori» indossando alle prime un elegante smoking. Dopo il quinquennio alla Scala ci fu la «promozione» alla presidenza della Rai (1977-80), affrontata con lo stesso piglio leonino. Lontano non solo geograficamente dall’organizzazione meneghina, il lottizzatissimo colosso radiotelevisivo di Stato si rivelò poco «governabile», nonostante le linee guida di Grassi e il suo senso della qualità si possano leggere nelle scelte coraggiose, come in alcuni kolossal realizzati in quella stagione, per esempio, il celebre Gesù di Nazareth affidato a Franco Zeffirelli. A Roma come in precedenza a Milano, Paolo Grassi tenne sempre alta l’idea del teatro come luogo di incontro e fondamento della società civile.
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Cultura e Spettacoli
Sauvage, il corpo in balia del presente
DVD Nel suo primo lungometraggio il regista francese Camille Vidal-Naquet si china sullo scabroso tema
della prostituzione maschile di strada
Muriel Del Don Il primo lungometraggio di Camille Vidal-Naquet, sensazione assoluta dello scorso festival di Cannes (Semaine de la critique), parla d’amore, un amore folle che non conosce ragione o raziocinio. Sauvage, come indica il suo titolo, si impone come un’opera grezza, ruvida e spigolosa nella sua ricerca di infinito. Il personaggio principale, Léo interpretato da un maestoso e sublime Félix Maritaud, non indietreggia di fronte a nulla: violenza, rigetto, emarginazione, poco importa la croce da portare, quello che conta è la bellezza effimera del presente. La disperazione e le difficoltà di una quotidianità vissuta sul filo del rasoio si trasformano attraverso il suo sguardo in tappe decisive di una via crucis che conduce all’amore assoluto.
Lo sguardo insolito di Vidal-Naquet toglie allo spettatore la speranza in un happy end Léo è un sex worker, rent-boy, hustler o qualsiasi nome anglofono gli si voglia affibbiare. Perché bisogna dirlo, la lingua di Dante non ha ancora coniato un termine specifico che definisca colui che vende il suo corpo (eccezione fatta forse per «marchettaro»), come a volerci inculcare l’idea che nella nostra società la prostituzione maschile non esista e se esiste deve rimanere nell’ombra. Insomma, Léo vende il proprio corpo per soldi alla ricerca di un affetto effimero che si trasforma spesso in violenza. Il suo quartiere generale è un parco dove si ritrova con i colleghi a caccia di clienti. Léo è giovane, di una bellezza ingenua e incosciente che ricorda i personaggi dei film di Pasolini. Il suo corpo è esposto allo sguardo di tutti, come fosse mercanzia. Malgrado il freddo, Léo si esibisce, dà spettacolo di sé a clienti avidi di divertimento, tenerezza o cruda violenza. La sua
attitudine è più quella di un «esserecorpo» che di un «essere-persona», un involucro di carne che porta i segni di una vita basata sulla sopravvivenza. La droga, i fugaci momenti di tenerezza condivisi con il «branco» tra un cliente e l’altro sono le uniche stampelle che lo tengono in piedi. Camille Vidal-Naquet mette in scena la prostituzione di strada, i corpi devastati di uomini abituati a vivere nella precarietà più tragica. Niente escort di lusso dove l’atto sessuale a pagamento è nascosto dietro la parola «accompagnatore», qui la monetizzazione dei corpi è mostrata con brutale realtà. Malgrado ciò Sauvage non cade mai nella trappola della pietà compassionevole. Léo è ferito, martirizzato e rifiutato, ma mai sconfitto. La società in cui vive lo spinge verso i margini, lo vorrebbe annientare, sfruttandone il corpo nell’ombra, ma questo non gli impedisce di esistere. Poco importano le sue scelte: prostituirsi, drogarsi, amare un ragazzo senza essere ricambiato non è socialmente accettato, quello che conta è la libertà di vivere la vita scelta. In quanto spettatore è difficile non sperare in una sorta di «happy end» (ed è quello che il regista sembra in un primo momento proporci) o per lo meno in un cambiamento che tolga Léo dai pericoli della strada. Lo sguardo senza filtri di Vidal-Naquet ci costringe però ad abbandonare questa speranza iniziale per riflettere in modo diverso. Cosa cerca veramente Léo? La nostra concezione di «happy end» – ossia una vita sicura accudito da un compagno amorevole che lo mantiene – è anche la sua? Il regista di Sauvage ci mostra un’altra via, un modo eccessivo e intransigente di percepire l’esistenza: «ho immaginato un outsider, un personaggio al di fuori delle regole, rigettato e alla ricerca dell’amore. Un personaggio che non si preoccupa della vita materiale e che non corrisponde a niente di quello che conosciamo delle regole sociali». Per Léo scegliere di vivere al di fuori delle norme sociali è un atto politico involontario, un grido anticonformista all’insegna di un amore quasi
Félix Maritaud, classe 1992, è il protagonista di Sauvage. (youtube)
mistico per l’umanità, intesa nella sua spesso crudele globalità. Il corpo di Léo è in effetti offerto a ogni sorta di clienti, a fantasmi che vanno dalla tenerezza alla brutalità. Nell’immaginario collettivo, colui (o colei) che si prostituisce è avvenente, curato, sano, a tratti asettico e impersonale. Nel caso di Léo e del suo branco (quella striscia nell’ombra), la realtà è ben diversa: feriti, affamati, stanchi e sporchi, la strada spinge questi ragazzi a sopravvivere come possono. I loro corpi diventano allo stesso tempo vittime della durezza della vita che fanno e oggetti di desiderio. Questa dualità è di una crudeltà sorprendente, un pugno nello stomaco che ci fa aprire gli occhi su di un mondo, quello della prostituzione maschile di strada appunto, troppo spesso ai margini. Il cinema, soprattutto francese, l’ha rappresentato poco, eccezione
fatta forse per J’embrasse pas d’André Téchiné, L’homme blessé di Patrice Chéreau e Eastern Boys di Robin Campillo. Vidal-Naquet affronta invece la tematica di petto, offrendoci un ritratto sincero di un essere umano più che di un «sex worker». La prostituzione è mostrata come un atto spesso meccanico che lascia però sui corpi delle tracce indelebili. Per Léo il lavoro è diventato normalità: egli non si lamenta mai, non cerca di uscirne ma al contrario accetta la situazione e la fa sua. Léo esiste quasi esclusivamente attraverso il suo corpo. Parla poco, si esprime più attraverso i gesti e i movimenti che la parola. La sua emarginazione sociale passa anche da questo, come se il suo statuto non gli permettesse di accedere alla parola, strumento di un’élite alla quale non apparterrà mai. Sauvage non è però un’analisi so-
ciologica della prostituzione maschile, anche se lo stile quasi documentario ci spingerebbe a crederlo. Vidal-Naquet non intende mostrare o spiegare perché i suoi personaggi fanno quello che fanno. Quello che propone è piuttosto un’esperienza sensoriale, diretta e brutale che faccia «sentire» cosa significa subire l’esclusione sociale e la violenza. Sauvage è un’opera diretta, selvaggia come il suo titolo lascia intendere, illuminata dalla presenza del giovane attore francese Félix Maritaud, scoperto nel film di Robin Campillo 120 battiti al minuto. Maritaud incarna letteralmente il suo personaggio, lo abita grazie alle sottili tonalità della sua recitazione. Félix non recita Léo, Félix è Léo. Una performance impressionante che gioca sull’ambiguità e i sottintesi come a volerci ricordare che il cinema può, se lo vuole, trascendere il reale.
Il sistema democratico americano e le visioni di Romeo Castellucci Teatro Nell’ambito della «Nuova Drammaturgia» è andato in scena un testo profondo e a tratti difficile
Giorgio Thoeni La stagione teatrale di LuganoInScena ha dedicato una piccola parte della sua programmazione alla Nuova Drammaturgia, al nuovo teatro. Ma che cosa dobbiamo intendere per nuovo? Forse la manifestazione di uno spostamento dalla sintassi, un ribaltamento di significati, altri percorsi cognitivi per comprendere l’essenza di un messaggio? Proviamo a parlarne senza dare risposte definitive ma partendo dagli stimoli ricevuti con Democracy in America, spettacolo del regista romagnolo Romeo Castellucci visto recentemente sul palco del LAC. Geniale costruttore di visioni che si nutrono di archetipi culturali complessi, proiettati in una dimensione che sfugge a facili definizioni, il lavoro di Castellucci porta a considerare il suo teatro come opera d’arte, un valore in divenire nella società e rappresentato in tutta la sua complessità.
Un processo che il regista costruisce ispirandosi a uno dei più significativi testi di sociologia politica, La democrazia in America scritto tra il 1835 e il 1840 dall’aristocratico francese
Alexis de Toqueville dopo un viaggio effettuato nel nord della nascente nazione americana. Un’articolata e profonda riflessione sulla creazione di una realtà alla luce di tutte le sue con-
Una scena di Democracy in America, regia di Castellucci. (Guido Mencari)
traddittorie componenti. Dallo scontro di mentalità fra coloni e nativi fra terre di confine, fra pensiero religioso e divino nel processo di formazione di una lingua intesa come fondamentale paradigma del pensiero e elemento indispensabile e comune a tutto il mondo occidentale democratico. Per Castellucci (e per Toqueville) il diritto nasce nel momento in cui Dio muore; non c’è diritto nella religione sebbene il fondamento della democrazia americana tragga le sue origini proprio dai Puritani che concepiscono una società non aristocratica, dove tutti sono allo stesso livello. Ovviamente ad eccezione dei nativi e delle donne. Un’ipirazione sostenuta nel Vecchio Testamento e messa a confronto con la forza muscolare della fede dell’individuo. È dunque nuovamente in una dimensione religiosa che Castellucci ricorre alla rappresentazione attraverso quadri straordinari, sia da un punto di vista visivo e pit-
torico, sia per profondità di analisi e ricchezza di significati. Già dalle prime scene capiamo il divenire di un discorso che analizza le componenti di una articolata trasformazione. Ecco allora gli sbandieratori che, anagrammando il titolo dello spettacolo, propongono una chiave di lettura in divenire, i nativi che decifrano la nuova lingua e la coppia di agricoltori in un bellissimo dialogo che racconta la nascita della bestemmia, del peccato da un linguaggio costruito sulla parola arbitraria e vuota. Una giostra di maschere mistiche e colori per un’immagine di progresso dove la lingua si trasforma in legge, in un codice nuovo e apparentemente egalitario di fronte a Dio. Il disegno di Castellucci, autore dei testi con la sorella Claudia, si avvale di un ensemble di eccellenti interpreti, ma in particolare di attrici come Olivia Corsini e Giulia Perelli calate in dimensioni difficili, sospese.
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