Azione 38 del 17 settembre 2018

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Cooperativa Migros Ticino

Società e Territorio Economico ed ecologico: il pedibus piace ai bambini

Ambiente e Benessere L’associazione Ticinese Deboli d’Udito lancia una campagna per insegnare ai giovani a difendersi dal rumore eccessivo durante le manifestazioni musicali

G.A.A. 6592 Sant’Antonino

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 17 settembre 2018

Azione 38 Politica e Economia Il Giappone di fronte alle calamità naturali sempre più frequenti

Cultura e Spettacoli Al Kunsthaus di Zurigo una mostra celebra il grande artista francese Robert Delaunay

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Una generazione di coraggiosi

È il vostro patrimonio, venite a conoscerlo

di Alessandro Zanoli

di Ada Cattaneo

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Gabrielle Meyer DCSU

«Siamo una generazione abituata ad andare in giro con il curriculum nella borsa, lo so, e a cercare di sfruttare ogni occasione per trovare un lavoro. Ma che fatica. Alla fine non si sente mai la terra solida sotto i piedi». La ragazza che si lascia andare a questa confidenza gira il viso di lato, un po’ per nascondere un inizio di lacrima. Poi quando torna a mostrare gli occhi ha già ripreso il suo abituale sguardo deciso e determinato. Siamo noi che, a questo punto, abbiamo un po’ voglia di evitarlo, quello sguardo, e di svicolare dalla situazione. Viene sul serio da pensare a che cosa abbiamo sbagliato, al perché le cose non sono andate come abbiamo sempre immaginato. Per noi, ragazzi di una generazione cresciuta nel periodo del boom economico, le porte del mondo del lavoro erano più che aperte, erano spalancate. C’era talmente bisogno di mano d’opera che molti erano stati risucchiati verso posizioni di prestigio senza nemmeno aver terminato gli studi. Mitico il ricordo del nostro professore di matematica, assunto al Liceo dopo pochi semestri di Università. O l’invidia con cui si guardavano compagni di scuola che avevano trovato prestissimo spazio negli organi di informazione, nelle banche, nelle assicurazioni, saltando a grandi passi gli scalini della gavetta e garantendosi stipendi di tutto rispetto. Abbiamo avuto la fortuna di crescere in una realtà che ci aspettava a braccia aperte, che aveva bisogno di noi. A ripensarci oggi ci si sente davvero favoriti, rendendoci conto di aver potuto cavalcare un’onda lunga che nessuno prima di noi aveva potuto sfruttare e nessuno dopo di noi, verosimilmente, potrà rivivere, almeno alle nostre latitudini. Oggi, nei racconti dei giovani in cerca di lavoro scopriamo (con una sorpresa un po’ ingenua) che non è più così. Ed è difficile evitare il sentimento di delusione per come sono andate le cose. È stata un po’ anche colpa nostra? Sicuramente no. Il mondo sembra avere preso una piega imprevista a tutti. Le dinamiche sociali ed economiche di fine millennio potevano difficilmente essere previste (oppure no?). La rivoluzione tecnologica, il crollo delle ideologie, l’espansione economica incredibile delle nazioni orientali ha stravolto un quadro che ci sembrava intoccabile, eterno, solo perché favorevole. Col senno di poi, le aspettative ingenue di progresso, persino gli ideali ottimisti un po’ sessantottardi che tutti noi abbiamo sottoscritto in qualche modo, si fondavano su un desiderio di cambiare il mondo molto superficiale, poco lungimirante. A rimanere invece lucidi e determinati, invece, sembrano proprio loro, i nostri figli che non trovano lavoro. Hanno sviluppato una forte personalità, nonostante tutto e magari nonostante noi, e non rincorrono la sicurezza del posto fisso. Nemmeno della relazione fissa, del resto. O della residenza fissa. «Forse partirò per l’Olanda, dicono che ci sono ottime possibilità per me, lassù» conclude la nostra giovane amica. E di nuovo negli occhi le brilla un goccia di delusione, subito temprata però da un bel sorriso di sfida. Non le passa nemmeno un attimo per la testa che l’orologio della storia stia scorrendo all’indietro. Non prova il destabilizzante senso di vuoto dato dall’idea di dover emigrare, come già i suoi antenati si erano trovati a fare. Emigrare: un destino che per la nostra generazione era quasi escluso, è tornato ad essere un’opzione plausibile, una speranza. Il coraggio di questi ragazzi, alla fine serve persino per lenire il nostro disagio: sono loro, bravissimi, a dare conforto a noi, per un mondo che non è più come prima.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Attualità Migros

M Quadri in movimento Arte e commercio al dettaglio Presto i

disegni della pittrice ginevrina Catherine Kirchhoff popoleranno le strade, perché decoreranno con i loro motivi colorati le nuove borse della spesa di Migros

Lisa Asticher* La lampadina dell’idea si è accesa a Catherine Kirchhoff mentre faceva la spesa alla Migros. Aveva appena preso un pacchetto di tagliatelle dallo scaffale e immediatamente le è stato chiaro che quel prodotto poteva essere lo spunto per un nuovo quadro. Da allora l’artista 56 enne cerca ispirazione nei prodotti di consumo e nei loro colori vivaci. Parte dalle immagini presenti sulle diverse confezioni, che interpola poi con altre immagini, con nuove colorazioni e forme, creando figure stranianti e ricomposte. Alla fine del processo il prodotto iniziale non è più riconoscibile. La pittrice ginevrina usa colori «pop» intensi e li stende strato dopo strato sulla tela. Conferisce a generi alimentari che vediamo ogni giorno sulla nostra tavola un’estetica completamente inconsueta. Chi osserva le sue opere vede prodotti a cui è abituato con occhi del tutto nuovi. «Gli oggetti banali che ci circondano non devono necessariamente avere anche forme banali» dice Kirchhoff per descrivere il suo lavoro. Ora i suoi quadri prendono la strada che li riporta al luogo in cui sono nati, il supermercato. I suoi disegni de-

I nuovi gerenti delle filiali Migros Ticino

Carlo Casartelli

Luogo di lavoro: Filiale di Bellinziona Data di nascita: 29.09.1976 Stato civile: Sposato Figli: Alessandro Hobby: Calcio e Beach- volley Tre aggettivi per descriversi: Carismatico, Cordiale, Gentile Cosa voglio offrire alla clientela: Accoglienza calda e spontanea proponendo freschezza e qualità

Azione

Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni

corano infatti le nuove borse artistiche di Migros, che sono disponibili da subito nelle filiali. In questo modo l’artista continua una tradizione iniziata tanti anni fa, nel 1987, con i disegni del pittore bernese e creatore di sculture in acciaio Bernhard Luginbühl: Migros offre regolarmente a pittori e scultori la possibilità di creare delle borse della spesa e aprire alle loro creazioni una finestra sulla quotidianità del commercio. All’autrice piacerebbe molto che le borse trovassero modo di farsi apprezzare anche all’estero; qualche cliente potrebbe ad esempio portarle con sé in vacanza... * Redattrice di Migros Magazin

Sostenibilità: il riciclaggio diventa arte La borsa artistica di Migros è utile per l’ambiente: è riutilizzabile ed è prodotta con materiale plastico riciclato. È in vendita il tutte le maggiori filiali per fr. 2.90.

L’autrice con le sue opere. (M. Spohn)

Banca Migros da 30 anni a Bellinzona Ricorrenze Festeggiate con noi il doppio anniversario

Nel 1988 la Banca Migros aprì la sua succursale di Bellinzona. In quell’anno nascevano il pilota italo-svizzero Sébastien Buemi e la pop star Rihanna, mentre alle Olimpiadi invernali di Calgary la Svizzera vinceva 15 medaglie. Oltre a questi avvenimenti memorabili, veniva introdotto l’indice azionario svizzero SMI... e la Banca Migros apriva la succursale di Bellinzona. Nel realizzare la sua rete di filiali in tutta la Svizzera, la Banca Migros approdò in Ticino ancora prima di aver aperto la prima sede in Romandia. Già nel 1973 e nel 1974 si insediò a Lugano e a Chiasso, mentre alcuni anni dopo seguirono le succursali di Bellinzona (1988, appunto) e Locarno (2009). L’istituto della capitale celebra dunque il suo terzo decennio e per l’occasione invita la sua clientela a festeggiare. L’appuntamento quindi è per il 20 e il 21 settembre prossimi, in Via Camminata 1: sono previste tante sorprese e un gioco a premi. Alla ruota della borsa la vittoria è dolce: con una mano fortunata potete accrescere il vostro patrimonio in monete di cioccolato. Giocando scoprite inoltre strategie e Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Tel 091 922 77 40 fax 091 923 18 89 info@azione.ch www.azione.ch La corrispondenza va indirizzata impersonalmente a «Azione» CP 6315, CH-6901 Lugano oppure alle singole redazioni

Informazioni Banca Migros SA Via Camminata 1 6500 Bellinzona Service Line 0848 845 400 www.bancamigros.ch Orari di apertura: Lu-ve 8.30-12.15, 13.30-17.00.

possibilità d’investimento e partecipate all’estrazione finale di due marenghi d’oro. «Dall’apertura della nostra filiale di Bellinzona molte cose sono sicuramente cambiate», spiega il Responsabile della succursale Marco Menghini. «Sono però rimasti immutati i nostri valori cooperativi, che risultano più attuali che mai». È per questo che la Banca Migros non punta alla massi-

mizzazione dei propri profitti, bensì desidera offrire ai clienti condizioni vantaggiose. Questa filosofia aziendale non esiste solo da 30 anni, ma è messa in pratica sin dal 1958 quando il pioniere della Migros, Gottlieb Duttweiler, fondò la Banca Migros. Si tratta quindi di festeggiare quest’anno un doppio anniversario: 30 anni a Bellinzona, 60 anni di Banca Migros.

Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino Telefono 091 850 81 11

Tiratura 102’022 copie

Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria 6933 Muzzano Telefono 091 960 31 31

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Marco Menghini Responsabile della succursale marco.menghini@bancamigros.ch Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Società e Territorio La nostra storia Nel portale di storia partecipativa si ripercorre la nascita e l’evoluzione della Scuola Media Unica

I preti che vengono dall’Africa Nella diocesi di Lugano sono attivi diversi sacerdoti di origine africana, ne abbiamo incontrati tre

Scuola e orario prolungato Crescono in Ticino le sedi di Scuola dell’infanzia ad orario prolungato: un tema che coinvolge famiglie, scuola e Comuni

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A scuola a piedi Pedibus Un progetto economico

ed ecologico che permette ai bambini di socializzare, fare movimento, ma anche di imparare: l’esempio di Melide

Alessandra Ostini-Sutto Con la ripresa della scuola si torna a parlare di Pedibus, il sistema d’accompagnamento dei bambini sul percorso casa-scuola sotto la sorveglianza di adulti. Approdato in Svizzera, a Losanna, nel 1998, Pedibus è presente in Ticino dal 2015. In questi pochi anni nel nostro Cantone sono state create numerose linee; un’ottantina sono quelle che vengono quotidianamente percorse dai bambini. Il progetto, sano, economico, conviviale ed ecologico, è sostenuto principalmente dall’ATA (Associazione traffico e ambiente) e dal FSS (Fondo Sicurezza Stradale). In Ticino si avvale della partnership con il progetto Cantonale «Meglio a piedi». Come un vero autobus, il Pedibus rispetta un orario, segue un itinerario e ha dei conducenti. La differenza è che il tragitto si percorre a piedi. L’itinerario delle singole linee, le sue fermate e gli orari sono programmati dai genitori. Ogni adulto che iscrive il proprio figlio al Pedibus si iscrive anche come «conducente», una o due volte la settimana, a seconda delle necessità. I bambini raggiungono il Pedibus alla fermata più vicina alla propria abitazione – segnalata con un cartello ben visibile – e continuano il tragitto fino a scuola con i compagni, sotto la supervisione dell’adulto-conducente. Finita la scuola, il Pedibus riporta i bambini alle rispettive fermate. I vantaggi del progetto sono numerosi e piuttosto evidenti. Innanzitutto, con il Pedibus il bambino acquisisce i riflessi necessari e impara le regole della circolazione stradale e di comportamento, che gli serviranno più tardi per spostarsi da solo. Dal punto di vista degli adulti, il fatto di creare una linea può aiutare ad individuare eventuali pericoli sul cammino verso la scuola e a mettere successivamente in atto delle soluzioni per risolverli. Con la concretizzazione di una linea Pedibus, i genitori possono inoltre risparmiare tempo – risorsa quanto mai preziosa – evitando di dover portare a scuola i propri figli ogni giorno. Essi possono inoltre avere l’opportunità di incontrare altri genitori ed instaurare nuovi rapporti

con altre famiglie. I piccoli, dal canto loro, sul percorso verso la scuola hanno modo di socializzare e praticare movimento. Da ultimo, andare a piedi non inquina, contrariamente all’automobile che proprio sulle corte distanze consuma elevate quantità di carburante. Alla tematica «a scuola a piedi» è dedicata pure una Giornata internazionale, che si svolge ogni anno durante la Settimana europea della mobilità. Quest’anno si terrà venerdì 21 settembre. Un’occasione per «celebrare» e riflettere su un percorso quotidiano che dovrebbe essere, o diventare, un momento piacevole e che non è banale, dato che la sua sicurezza riguarda tutti, perché ognuno di noi partecipa alla sicurezza dell’altro. Per la 18esima edizione di questa Giornata internazionale è stato scelto il tema del rumore. Il rumore nuoce alla salute: disturba il sonno, rende difficile la concentrazione, aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e, per la strada, stressa e distrae i pedoni. Ma, sempre in strada, si rivela anche un alleato, segnalando l’avvicinarsi di un pericolo. Sempre più spesso però, giovani e meno giovani, hanno le cuffiette dello smartphone nelle orecchie, o, più in generale, sono distratti da questo dispositivo elettronico. Una situazione ulteriormente aggravata dal fatto che i nuovi rivestimenti stradali assorbono l’inquinamento acustico e che le auto sono sempre meno rumorose e le biciclette elettriche silenziose. Per tutti questi motivi «Apri bene le orecchie!» è lo slogan scelto per la Giornata. Per ricordare ai bambini e ai loro genitori l’importanza di guardare, ma anche di ascoltare, prima di attraversare la strada, nel nostro Cantone ogni bambino delle scuole dell’infanzia e delle scuole elementari riceverà delle simpatiche orecchie verdi. Disegnate da Tom Tirabosco, queste orecchie in cartone potranno essere indossate dagli alunni il prossimo 21 settembre. Un piccolo travestimento e un segno identificativo per i bambini che non mancherà di sorprendere i passanti! Lo scorso anno scolastico, Pedibus è stato pure fulcro del programma di una classe di seconda elementare di

Andare a scuola in compagnia e in sicurezza. (Lundi13 - Nicolas Rigetti)

Melide. «Premetto che il progetto non è partito da me. All’inizio dell’anno scolastico, alcuni bambini sono arrivati in classe portando la loro gioia nell’avere incontrato uno o più compagni durante il percorso verso la scuola», afferma la maestra Tina Rigassi, che ha colto lo spunto per elaborare il programma scolastico 2017-18. Andare a scuola in compagnia, ma anche in sicurezza, era l’obiettivo. Per raggiungerlo, bisognava trovare le risposte ad alcune domande. La prima: come fare ad incontrarsi con i propri amici? Sono stati i bambini a rispondere: si dovrà sapere dove abitano. «Abbiamo quindi cercato dapprima le case di tutti, sul posto, e poi provando a disegnare una cartina. Questo ci ha permesso di lavorare sulle coordinate spaziali, sulla mappa. Successivamente, ingrandendo una cartina di Melide, abbiamo costruito un plastico tridimensionale, con tanto di case, bambini e macchinine, e abbiamo marcato i percorsi. Questo ci ha permesso di lavorare sulla sicurezza e sulle regole

stradali», spiega la maestra Tina, che continua: «abbiamo creato tre percorsi diversi, che corrispondevano a quelli maggiormente frequentati dai bambini della classe. Per far sì che il progetto funzionasse, abbiamo dovuto stabilire degli orari per le varie fermate e, per arrivare a questo, calcolare le distanze, integrando così anche la matematica al progetto». Di conseguenza, la maestra Tina ha insegnato ai suoi bambini a leggere l’orologio, prendendo spunto da questo tema per parlare di ora legale, fusi orari e geografia. È giunto così il momento di uscire per strada e provare a percorre insieme i tragitti individuati sulle mappe, mettendo in atto quanto appreso in tema di sicurezza stradale. «Una volta rodati i percorsi, sono state inserite le case dei compagni delle elementari e dei bambini dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia», aggiunge Tina. Il progetto di studio Pedibus è stato a questo punto presentato al sindaco. Entusiasta, il Municipio ha promosso un concorso di disegno per

eleggere quelli che sarebbero poi stati utilizzati sui cartelli delle varie fermate e si è impegnato a promuovere il progetto anche intervenendo per mettere in sicurezza le strade adiacenti l’istituto scolastico. Quello di Melide è il primo esempio in Svizzera di Pedibus che nasce dalle intuizioni e dalle ispirazioni dei bambini e si concretizza in un progetto interdisciplinare di studio, che ha coinvolto la seconda elementare per tutto l’anno scolastico e, in secondo luogo, l’intera scuola, i genitori, il Municipio e tutta la comunità. Un esempio che dimostra che il Pedibus può essere anche un ottimo spunto da cui partire per affrontare svariate materie di studio. Ponendosi trasversalmente rispetto ad argomenti diversi, permette di affrontarli in modo efficace ma divertente, sottolineandone l’aspetto pratico ed aumentando al contempo la sensibilizzazione in materia di salute e sicurezza in relazione alla mobilità sul percorso casa-scuola.


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Società e Territorio

«Popolare e scientificamente fondata»

lanostraStoria.ch La nascita e l’evoluzione della Scuola Media Unica nei video delle Teche RSI

Lorenzo De Carli Introdotta in due sedi nel settembre del 1978, la Scuola Media Unica fu la risposta ticinese al massiccio incremento della popolazione scolastica degli anni Sessanta. Nel biennio 1959-1960, su un totale di 6116 alunni, il 74,1% dei giovani ticinesi frequentava la scuola maggiore; quindici anni dopo, il numero raddoppiò (11’057) e il ginnasio era frequentato dal 41,9 % degli studenti. Se l’incremento demografico della popolazione scolastica richiedeva nuovi investimenti nelle infrastrutture e nell’organico del corpo insegnanti, si era fatta palese anche la necessità di dare un nuovo assetto all’organizzazione scolastica stessa. Dall’esame dei documenti dell’epoca si evince chiaramente che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, le associazioni magistrali prima e i quadri del Dipartimento della pubblica educazione poi, studiarono una possibile riforma della scuola media tenendo conto di due fattori: la pressione di un neocapitalismo che chiedeva un costante incremento di istruzione ai futuri lavoratori, e la necessità di garantire a tutti i giovani ticinesi le medesime opportunità di accesso all’istruzione, a prescindere dalla loro estrazione sociale. Questo contesto era bene chiaro all’artefice della SMU Franco Lepori,

Franco Lepori nel 1968. (lanostrastoria.ch)

che nel 1975 scriveva: «le parole-chiave che hanno accompagnato questo lungo e complesso viaggio dal 1964 al 1974 sono quelle tipiche degli anni sessanta: democratizzazione degli studi, posticipazione delle scelte determinanti per gli allievi, discriminazione degli studi secondo l’origine socioeconomica e il luogo di abitazione, potenziamento dell’orientamento scolastico-professionale, spreco di intelligenze, bisogno di aumentare il grado di acculturazione di tutta la popolazione, ecc. […] in questo senso il cammino va verso una scuola popolare e scientificamente fondata, in opposizione alla secolare distinzione tra

scuola delle élites e scuola del popolo». Nelle pagine del portale di storia partecipativa «lanostraStoria.ch» è stato pubblicato un dossier, ricco di varie decine di video tratti dalle Teche RSI, che documentano la storia della Scuola Media Unica dal 1968, quando fu presentato il primo rapporto sulla riforma della scuola media, ad oggi. Il documento più vecchio risale al 9 novembre 1968, e ci fa comprendere quali furono le basi, dalle quali avrebbe preso avvio la riforma scolastica inaugurata un decennio dopo: in una conferenza stampa oggi storica, furono Franco Lepori, presidente della comunità di

lavoro e Werner Carobbio, docente, ad illustrare le caratteristiche della riforma scolastica auspicata dalla comunità di lavoro delle associazioni magistrali. Alla fine del 1970 il Dipartimento della pubblica educazione sottopose ai docenti e ai partiti un progetto di messaggio e un disegno di legge, che ricalcava le proposte della Commissione costituita dalle associazioni magistrali. I risultati della consultazione portarono a una parziale rielaborazione del progetto di messaggio e del disegno di legge. Un documento del gennaio 1971 mostra Nino Borioli illustrare le caratteristiche salienti del messaggio e del progetto di legge per la scuola media, che il Consiglio di Stato avrebbe trasmesso al Gran Consiglio il 6 luglio 1972. Il 20 ottobre 1974, il Gran Consiglio approvò la Legge sulla scuola media con 53 voti favorevoli, 9 contrari e 3 astenuti. Alcuni giorni prima, la trasmissione televisiva «Cronache dal Gran Consiglio ticinese», mandò in onda un servizio per illustrare la nuova legge. L’architetto Tita Carloni fu estensore del rapporto di minoranza e, illustrando l’adesione critica del PSA alla riforma, chiedeva non solo l’abolizione delle sezioni ma anche la promozione di un’attività di sperimentazione didattica costante e non «calata dall’alto», nonché una gestione democratica degli istituti, con il coinvolgimento di docenti e alunni.

La questione della sperimentazione scolastica fu già allora al centro del dibattito. Su questo aspetto chiarì bene la situazione Franco Lepori: «c’erano due strategie possibili per realizzare la riforma. Una prima strategia consisteva nell’istituire alcune scuole medie sperimentali: dopo svariati anni di esperienza e diverse verifiche si sarebbe potuta elaborare una legge che consentisse di generalizzare la riforma. La seconda strategia consisteva invece nell’elaborare e discutere la legge, che doveva essere necessariamente una legge quadro, e poi realizzarla gradualmente, comunque con una certa rapidità. Il Canton Ticino, diversamente da altri, ha scelto questa seconda strategia».

Errata corrige Nell’articolo del 27 agosto 2018 intitolato «Affacciati sull’immaginario» dedicato alla storia di Locarno Festival, abbiamo scritto che Raimondo Rezzonico ebbe l’iniziativa di organizzare nel biennio 194445 la «Rassegna internazionale del film» di Lugano. Fondatore e presidente della rassegna, antesignana del festival locarnese, fu invece Goffredo Rezzonico. Annuncio pubblicitario

30° anniversario della Banca Migros Bellinzona Festeggiamo l’anniversario: celebratelo con noi!

Il 20 e il 21 settembre festeggeremo il nostro 30° anniversario. Passate a trovarci in Via Camminata 1 a Bellinzona, abbiamo in serbo per voi tante sorprese. Saremo lieti di darvi il benvenuto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Società e Territorio

L’orario prolungato si diffonde Scuola Da quest’anno anche Locarno ha introdotto una sezione di Scuola dell’infanzia aperta dalle 7.00 alle 19.00,

mentre a Lugano ne è stata aggiunta una alle quattro esistenti, ma l’accoglienza è un tema che va ben oltre gli orari

Stefania Hubmann Il bambino al centro, la famiglia direttamente coinvolta, la scuola come istituzione che, grazie anche a servizi specializzati presenti sul territorio, si apre alle nuove esigenze della società. Attorno a questi principi ruota la continua evoluzione degli orari di accoglienza scolastici. Da settembre Locarno ha introdotto una sezione di Scuola dell’infanzia ad orario prolungato dalle 7 alle 19, mentre a Lugano ne è stata aggiunta una alle quattro esistenti. La fascia d’età dei più piccoli è quella che pone maggiori difficoltà ai genitori nel conciliare impegni familiari e professionali. Un’altra esigenza essenziale è la mensa. Le transizioni fra asilo nido e Scuola dell’infanzia, rispettivamente fra quest’ultima e Scuola elementare sono fasi delicate, da gestire in rete e con grande attenzione per permettere al bambino di compiere un percorso di crescita stimolante ma rispettoso dei suoi bisogni. Mamme più attive professionalmente, famiglie monoparentali in aumento, rete familiare poco presente e mondo del lavoro difficile sono realtà con le quali anche la scuola si confronta, adeguandosi alle richieste ma ribadendo il suo carattere istituzionale e l’indispensabile coinvolgimento delle famiglie nell’implementazione di nuove offerte. È quanto precisa Rezio Sisini, capo della Sezione scuole comunali della Divisione della scuola (Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport). «La scuola è chiamata a prendere in considerazione due aspetti, il suo compito di istituzione concentrato sul benessere del bambino da un lato e le esigenze delle famiglie dall’altro. Questo significa anche trovare sinergie con il Dipartimento della sanità e della socialità che gestisce e sostiene i servizi extrascolastici. Al proposito è in corso dall’anno scolastico 2016/2017 un progetto pilota nei Comuni di Manno e Coldrerio per instaurare una proficua interazione fra i settori prescolastico e scolastico in modo da facilitare il passaggio dal primo al secondo. Si tratta, ad esempio, di trovare soluzioni che suppliscano alla differenza di orari fra asilo nido e Scuola dell’infanzia in particolare nella fase iniziale di inserimento. L’obiettivo è di mettere a punto una serie di modelli riuniti in una guida da trasmettere ai Comuni». Spetta infatti alle autorità comunali la competenza di accrescere le offerte legate ai primi due ordini di scuola dell’obbligo, istituendo mense, doposcuola, asilo estivo o appunto

La scuola e i Comuni sono chiamati a considerare il benessere del bambino e le mutate esigenze della famiglia. (Ti-Press)

nuove sezioni di Scuola dell’infanzia ad orario prolungato. Queste ultime, spiega il funzionario cantonale, interessano al momento fra il 12 e il 15 per cento delle sedi di Scuola dell’infanzia ticinesi. «Oltre che nelle città come Lugano e Locarno, sono presenti in diversi Comuni situati prevalentemente nel Sottoceneri», aggiunge Rezio Sisini. «La diffusione sul territorio è analoga per quanto riguarda i servizi extrascolastici». Generalmente l’apertura di una sezione si inserisce in un contesto di accoglienza già esteso come è il caso di Locarno. Servizio extrascolastico Arca, doposcuola mirati (da quest’anno anche per fare i compiti) e colonia diurna estiva rappresentano risposte messe in atto con successo da diversi anni. La direttrice delle Scuole comunali Elena Zaccheo ribadisce però, come il responsabile cantonale, l’importanza di distinguere l’istituzione scolastica e la sua attenzione alle famiglie da un servizio à la carte. Inoltre l’orario prolungato non è da intendere come semplice estensione della Scuola dell’infanzia. Primo mattino e fine giornata sono momenti diversi che necessitano una presa a carico differenziata. «Per avviare il progetto – spiega la direttrice – abbiamo scelto di proposito un’educatrice con formazione in Scienze sociali ritenendo questa figura

ideale per occuparsi dei bambini e dei loro bisogni in fasce orarie particolari. Bisogni riassumibili in quattro categorie: primari, come il dormire e il mangiare, affettivi, cognitivi e sociali. Sono quindi previste attività di stampo ludico e socializzante, ma soprattutto l’accoglienza di ogni bambino nella sua specificità con interventi mirati». La preparazione dell’educatrice e il focus del progetto favoriscono inoltre una forma di osservazione in grado di captare eventuali forme di disagio. L’orario prolungato ha quindi anche un ruolo di prevenzione, così come viene rinforzato quello legato all’educazione alimentare. Oltre alla refezione di mezzogiorno che, come riferisce Sisini, è presente in quasi tutti i Comuni quale parte integrante dell’attività educativa della Scuola dell’infanzia, la colazione e la merenda consumate durante l’orario prolungato sono ulteriori opportunità di trasmettere sane abitudini sul piano alimentare. Per Elena Zaccheo bisogna infine rimanere vigili sui possibili rischi di un orario esteso all’intera giornata come ad esempio «la stanchezza dei bambini e la deresponsabilizzazione dei genitori. I vantaggi di un’accoglienza personalizzata e flessibile (giorni e orari secondo le necessità dei genitori) sono però molteplici sia per l’allievo che per la sua famiglia. Le richieste mostrano

che numerosi genitori faticano a gestire la crescente complessità della loro vita quotidiana. L’ente pubblico è attento a queste difficoltà offrendo una risposta sociale caratterizzata da rette basate sul reddito a favore di chi ha risorse economiche limitate». Medesimi principi di grande flessibilità e tariffario in funzione del reddito per la realtà della Città di Lugano, la più all’avanguardia a livello cantonale. Sabrina Antorini Massa, responsabile della Divisione prevenzione e sostegno, cui compete da due anni la gestione dei servizi extrascolastici, conferma il crescente numero di iscrizioni ai diversi servizi, iscrizioni che hanno superato quota mille. I bambini della Scuola dell’infanzia ad orario prolungato sono oltre 220. «Non tutti – precisa subito la nostra interlocutrice – frequentano però la rispettiva sezione sull’arco delle dodici ore tutti i giorni. Il modello permette ai genitori che ne fanno richiesta, dimostrando di essere entrambi attivi professionalmente, di trovare la soluzione adatta alla loro situazione. L’obiettivo di tutti i nostri servizi è quello di garantire la conciliabilità famiglialavoro con la scuola». A Lugano la Scuola dell’infanzia ad orario prolungato è presente da diversi anni. Alle sedi di Besso, Molino Nuovo, Pregassona e Viganello, si è aggiunta a inizio settembre quella di Cassarate.

fare conversazione davanti a un caffè e a parlare di banche. Emozionato e curioso all’alba dei suoi 75 anni mi dice di essere appena stato ad un incontro organizzato dalla banca del paese sul futuro del settore: «Ci hanno detto che pagheremo tutto con i nostri telefonini e in banca non ci saranno più gli sportelli con il personale ma un enorme spazio con tanti computer che daranno tutte le informazioni del caso». A sentire il suo racconto, le banche del futuro assomiglieranno a dei grandi app store dove non si faranno più lunghe code allo sportello per depositare o cambiare denaro e chiedere informazioni o consulenze ma in modalità self service ognuno gestirà i suoi business dialogando con una macchina addestrata per essere super gentile e super performante. E per tutto il resto ci saranno app e servizi che dal nostro

smartphone ci permetteranno di fare tutto: pagamenti, trasferimenti, investimenti… Sfogliando la stampa è evidente che in Germania questo è un tema di grande attualità. In un’intervista alla «Frankfurter Neue Presse» il professore di economia politica e economia aziendale Andreas Buschmeier per quanto riguarda il settore bancario è molto chiaro e parla di una disruptive innovation, un’innovazione dirompente che da qui al 2030, a suo dire, in Germania cancellerà fino al 70 per cento dei posti di lavoro. E il trend non interesserà soltanto chi è agli sportelli ma anche il personale più altamente qualificato mentre a soffrirne meno sarà il top management. E nello scenario delle banche che cambiano sollecitate in particolare da cinque fattori – perdita di fiducia da parte dei rispar-

Le aperture corrispondono ai quartieri dove risiede un maggior numero di bambini, ma dipendono anche dalla disponibilità degli spazi. Altro elemento importante la stabilità del personale in relazione al ruolo di prevenzione citato anche da Elena Zaccheo. Per Sabrina Antorini Massa «se si vuole rispondere a un bisogno, bisogna farlo bene. Nel caso specifico significa coinvolgere i genitori, essere flessibili, trovare soluzioni in tempi brevi, proporre tariffe accessibili ed essere sempre attenti ed aggiornati per capire come evolvono le esigenze». In effetti a Lugano l’accoglienza è stata via via estesa anche a parte delle vacanze scolastiche e le necessità delle famiglie valutate sulla base di un sondaggio. Il problema maggiore rimane l’accesso alla mensa al momento del passaggio dalla Scuola dell’infanzia a quella elementare. Per chi è a diretto contatto con gli allievi, per chi raccoglie le loro osservazioni quale responsabile di istituzioni o servizi, così come per chi supervisiona e guida le politiche scolastiche il benessere del bambino è e rimane l’obiettivo prioritario. Nella società odierna la sfida è quella di leggere ciò che gli addetti ai lavori definiscono «il disagio invisibile» nel quale vivono non poche famiglie al fine di coinvolgerle in soluzioni che assicurino ai più piccoli una crescita serena ed equilibrata.

La società connessa di Natascha Fioretti Le banche saranno dei grandi app store? Qualche giorno fa ero in Germania e come sempre ad un certo punto mi sono ritrovata in libreria a curiosare tra i titoli delle ultime uscite. Uno – che poi è finito nella mia borsa insieme ad altri magnifici quattro – ha subito catturato la mia attenzione. Copertina rossa, scritta vintage e il titolo Die Welt der verschwundenen Berufe (Il mondo dei mestieri scomparsi). Sbirciando in questa curiosa opera di Rudi Palla, scrittore e filmmaker austriaco, sono finita a pagina 135 dove si parla dei Laternenanzünder, i lampionai, quegli omini vestiti di una blusa turchina con sopravveste e un berretto municipale in testa che a partire dalla fine del 18esimo secolo avevano l’incarico di accendere e spegnere i lampioni a gas e a olio delle strade cittadine. Oggi che le

città sono illuminate a vista e abbiamo il problema dell’inquinamento luminoso, pensare alla figura del lampionaio che la mattina all’alba, quando tutti dormono, gira per la città a spegnere le luci sembra lo scherzo di un’allucinazione. La storia insomma ci insegna da tempo: tecnologia e progresso che arrivano, mestieri che se ne vanno o si trasformano. Sappiamo bene che si tratta di uno dei trending topic del nostro tempo e della quarta rivoluzione industriale, quella dell’automazione digitale. E tra tanti settori e professioni che si stanno radicalmente trasformando a suon di innovazione, uno tra tutti è quello bancario. E il collegamento con il libro di Rudi Palla e i lampionai non nasce per caso. Proprio in libreria incontro un vecchio amico di famiglia dei nonni. Una chiacchiera tira l’altra finiamo a

miatori dopo il crack del 2008, più elevate aspettative da parte della clientela, l’arrivo dei millennials, la diffusione di internet, nuove normative – nel gioco compaiono nuovi player interessanti e cioè terze parti tecnofinanziarie che offrono servizi sempre più attenti ai bisogni degli utenti. E, con l’estendersi di queste nuove proposte e una maggiore possibilità di scelta da parte delle persone ma anche una maggiore competizione, il sistema promette di diventare più democratico e accessibile con migliori condizioni per tutti. Stando alla Banca Mondiale, negli ultimi anni, grazie a questi nuovi attori i clienti, nelle transazioni monetarie internazionali, hanno risparmiato oltre 60 miliardi di dollari. Tutto cambia, niente resta, è la legge del digitale e anche le banche, per fortuna o per sfortuna, non ne sono immuni.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Società e Territorio

Guidati dalla fede

Reportage Nella diocesi di Lugano sono dieci i preti di origine africana ad essere a capo di una parrocchia Didier Ruef, testo e foto In una soleggiata domenica di febbraio, Don Darius Bamuene Solo cammina in testa alla processione della festa patronale de La Candelora, che commemora la presentazione di Gesù nel Tempio. Tra le mani stringe una croce d’argento, un microfono per rivolgersi alla folla e un libro di preghiere con l’effige della Vergine. Veste una casula ricamata d’oro. Don Darius è seguito da una schiera di uomini avvolti in un camice bianco sul quale indossano una cappa di color blu. Sorreggono sulle spalle una pesante lettiga di legno sulla quale si erge una statua della Madonna con Bambino. La folla sfila con solennità, pregando, cantando e compiendo atti di devozione per le strade del nucleo di Pregassona, a Lugano. L’alta statura e la pelle color ebano fanno spiccare il prete d’origine congolese tra la folla compatta del corteo. Don Darius è uno dei dieci preti africani a capo di una parrocchia della diocesi luganese e in tale veste spetta loro rendere visibile la presenza di Cristo attraverso l’eucarestia, il rito della conciliazione e quello della confessione. E poi c’è il battesimo dei neonati, le visite ai malati, i corsi di catechismo e le numerose sollecitazioni della gente. Questi preti «importati» sono qualcosa di più dei motori e dei confidenti della loro comunità di fedeli: fanno rivivere parrocchie spesso in stato di abbandono a causa della mancanza di vocazioni in Europa. A titolo di esempio, secondo le statistiche dell’Istituto svizzero di sociologia pastorale, la diocesi di Lugano conta 255 parrocchie, ma soltanto 194 sacerdoti. Questo deficit non è esclusivo del Sud delle Alpi: sul totale delle diocesi cattoliche svizzere, il numero di sacerdoti di parrocchia è passato dai 2877 del 1970 ai 1441 del 2009. L’Africa è l’unico continente dove il numero dei seminaristi – ragazzi e adulti – è in costante aumento. Nel 1957, Papa Pio XII emanava l’enciclica Fidei donum (Il dono della fede) che invitava le Chiese del Nord della Terra a stabilire relazioni di collaborazione con le Chiese d’Africa. Da allora, ogni anno, numerosi preti africani vengono in missione nei Paesi europei per un certo periodo. Se i missionari europei inviati in Africa dovevano adattarsi al clima e alle mentalità, non fanno eccezione i religiosi neri che oggi vivono in Europa. Il loro gusto dell’avventura non è minore di quello degli europei che attraversavano i mari nei secoli passati. Don Darius Solo è nato negli anni Settanta in un villaggio della regione di Goma, nell’Est della Repubblica democratica del Congo (RDC). È sempre stato un fervente cattolico. L’esempio di una zia diventata suora l’ha spinto a consacrarsi a Dio. È stato ordinato prete nel 1994 ed è arrivato in Svizzera nel 2000. Ha ottenuto un dottorato alla Facoltà di teologia di Lugano, completato da un’abilitazione all’insegnamento e da un secondo dottorato a Roma. Ha poi seguito una formazione in diritto civile e internazionale della migrazione all’Università di Milano. Oggi insegna alla Facoltà di teologia di Lugano in qualità di docente conferenziere. Tra il 2012 e il 2015 Don Darius è stato curato delle Centovalli e della Val Verzasca, prima di essere trasferito a Pregassona. Nel 2015 ha ottenuto la cittadinanza svizzera grazie alla sua perfetta integrazione e al particolare impegno con i giovani. Ha ricoperto anche la carica di vicario giudiziale, ossia di giudice del tribunale ecclesiastico. È un assiduo sportivo e si allena nella palestra della Migros due o tre volte alla settimana. Il 20 novembre 1993, il compianto Monsignor Eugenio Corecco, allora vescovo di Lugano, firmava il decreto

L’Africa è l’unico continente dove il numero di seminaristi è in costante aumento. (galleria fotografica su www.azione.ch)

della Congregazione dell’Educazione cattolica istituendo la Facoltà di Teologia di Lugano (FTL), fondata un anno prima come Istituto di Teologia. Era la prima università del Ticino. Un quarto di secolo dopo, la facoltà ha rilasciato 93 dottorati in teologia, dodici dei quali a preti africani. Ordinato prete dieci anni or sono, il 38enne Don Hervé Solofoarimanana, originario del Madagascar, è un futuro dottorando. Alloggia con altri preti africani ed europei nell’antico convento francescano di Santa Maria di Loreto, a Lugano. Ogni mattina, alla sei e trenta, si ritrovano nella chiesta attigua per celebrare le Laudes, la preghiera mattutina della Liturgia delle Ore, composta delle lodi a Dio per il giorno che inizia. La sera verso le 18.30 si riuniscono poi per i Vespri, che segnano il cambio della giornata liturgica, commemorando la creazione del mondo e celebrandone la bellezza. Don Hervé è il primogenito di quattro fratelli, tra cui un chirurgo, un ricercatore farmaceutico e un meccanico. Proviene da una cittadina della regione di Manjakandriana, a 150 chilometri dalla capitale Antananarivo. La madre era maestra elementare e il padre professore di matematica. Ferventi credenti, hanno instillato la fede nei figli. Don Hervé ha frequentato il classico corso di tre anni nel Seminario

Don Gérald in una classe delle scuole elementari di Barbengo.

minore, poi un anno propedeutico e infine otto anni di Seminario maggiore. È stato ordinato sacerdote il 31 agosto 2008, dopo di che è stato per sette anni vicario in piccole parrocchie malgasce e nella capitale, ha insegnato inglese al liceo ed è stato segretario del vescovo di Antananarivo. Don Hervé ama ripetere questa massima che guida il suo lavoro intellettuale e spirituale: «Dio lavora in silenzio, ma con efficacia. Dio ci guida sul cammino della vita». Dal 2015 vive a Lugano, dove alterna i corsi all’università con la redazione della tesi di dottorato che intende completare nel 2020. In seguito, ritornerà nel suo paese, la cui lingua, cultura e umanità gli mancano enormemente. Ogni sera guarda su Internet il notiziario della televisione malgascia. Nel fine settimana, invece, si reca a Uster (ZH), dove officia la messa per la locale comunità italiana. In settimana è spesso chiamato a fare delle sostituzioni nelle chiese del Luganese. Alla periferia di Lugano, nella scuola elementare di Barbengo, una classe di alunni tra i sette e i dieci anni segue con entusiasmo il corso di storia delle religioni impartito da Don Gérald Chukwudi Ani. Indossando un boubou (la tradizionale tunica africana) ricamata con teste di leone e cappello rosso in testa, sta seduto per terra, con le gambe attorno a un crocefisso alto

un metro. Alla sua sinistra c’è un cero pasquale che sarà acceso in occasione delle solenni cerimonie della Vigilia di Pasqua, per celebrare l’attesa della resurrezione di Cristo. A destra, posati su una sedia, ci sono dei ramoscelli d’ulivo che ricordano l’entrata trionfale di Gesù a Gerusalemme tra la folla acclamante che agitava le palme. La vita di Don Gérald è così ricca che un libro non basterebbe a raccontarla. Nato il 15 dicembre 1973 ad Aqbani nello Stato di Enugu (all’epoca chiamato «Biafra») in Nigeria, è cresciuto in una famiglia animista di 21 fratelli e sorelle, figli di un padre poligamo che divideva la vita con tre mogli e una concubina. Ogni donna aveva una piccola capanna per lei e i suoi figli, mentre l’uomo abitava in una casa al centro di quelle delle mogli. L’appezzamento era circondato da un muro d’argilla. La famiglia contadina era povera e analfabeta e allevava qualche capo di bestiame per sopravvivere. Don Gérald si rammenta della fame che, durante l’infanzia, tormentava lui e i suoi fratelli e sorelle. Da bambino assisteva il padre che celebrava cerimonie animiste nella foresta, nel corso delle quali alcuni animali venivano immolati agli dei pagani. Nel 1977, a quattro anni, la madre lo aveva mandato da un fratello maggiore nel nord musulmano della Nigeria. Era

una bocca di meno da sfamare. Qui impara un’altra lingua ed è obbligato a seguire i precetti dell’Islam. Nel 1979, in seguito a problemi etnici e religiosi, è costretto a fuggire al Sud, ritrova così la sua città, sua madre, la sua lingua Igbo e la sua cultura. Poco tempo dopo muore suo padre e la situazione economica della famiglia precipita. Gérald è costretto ad aiutare la madre con lunghe giornate di lavoro, intervallate da ore di lezione. Don Gérald Ani viene battezzato nel 1988 e ottiene la maturità nel 1991. Nel 1992 entra nel Seminario maggiore e prosegue la formazione religiosa. Nel 2003 si reca a Napoli per approfondire la formazione sacerdotale e teologica nel locale istituto dei Gesuiti. Nel 2006 approda alla Facoltà di Teologia di Lugano, dove si laurea nel 2008 e diventa Dottore nel 2014. Ordinato prete nel 2009, questo infaticabile lavoratore sempre sorridente, non si è mai preso un giorno di ferie dall’entrata in seminario. Non smette di costruire ponti verso il prossimo, in particolare tra i giovani. Appassionato di calcio sin dall’infanzia, sarebbe potuto diventare un giocatore professionista, prima che un brutto infortunio lo allontanasse dai terreni da gioco: secondo lui si è trattato di un segno del Signore per spingerlo verso la vocazione religiosa. Oggi organizza tornei misti e si confronta con i giovani delle diverse scuole dove insegna, come fa anche ogni sabato sera dopo la messa, quando li incontra attorno a un tavolo imbandito per parlare della vita, dei loro sogni e dei loro problemi. Crede che sia meglio una chiesa chiassosa con dei giovani che una chiesa semideserta, frequentata solo da anziani. Secondo lui, la Chiesa sopravviverà se saprà ascoltare i giovani e accoglierli in un ambiente vivace e aperto. Auspica meno formalismo, l’abbandono delle severe tradizioni antiche e l’accoglienza degli altri così come sono fatti. E poco importa se i giovani sono rumorosi o che i bambini giochino durante la messa: meglio una chiesa aperta ed ospitale. Una professione di fede da parte di un uomo di nome Chukwudi, che in lingua Igbo significa «Dio il più grande esiste».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Società e Territorio Rubriche

Lo specchio dei tempi di Franco Zambelloni L’utopia è ormai superflua L’Occidente ha spesso sospinto la sua storia progettando utopie: sogni di mondi migliori, ritorni all’età dell’oro, paradisi in terra. Ma oggi le utopie sembrano estinte: di giardini di delizie non si parla più (salvo forse nella pubblicità di viaggi esotici). Una delle ragioni di questo declino sta indubbiamente nel fatto che tentativi storici di realizzare società perfette se ne sono fatti, ma sono sfociati in clamorosi fallimenti. Nell’Ottocento si poteva ancora sognare una «armonia sociale» con l’abolizione delle classi, della famiglia, della proprietà privata (così scriveva Marx nel 1844); le rivoluzioni comuniste non hanno però condotto a società armoniose, ma solo a violente dittature. Anche la «secolarizzazione» e la «demitizzazione» in atto nella nostra cultura hanno illanguidito la tendenza umana a sognare l’impossibile. Però, a mio avviso, la causa principale del declino del pensiero utopico sta

nel fatto che abbiamo realizzato molti più sogni di quanti ne abbiamo fatti nel passato. Carestie, pestilenze e guerre sono – almeno per l’Europa occidentale – ricordi di un tempo abbastanza remoto: tutto quello che ha flagellato l’umanità nel corso della sua storia sembra uscito di scena e le democrazie, le conoscenze scientifiche, le nuove tecnologie permettono di prevenire con efficacia disastri e catastrofi contro i quali, prima, ci si poteva solo affidare a un Dio. E «per la prima volta nella storia si muore più per colpa degli eccessi alimentari che per la mancanza di cibo; la morte ci coglie più spesso in tarda età, per vecchiaia, che in gioventù, per malattie infettive». Tolgo la citazione da un libro apparso recentemente in traduzione italiana, dal titolo significativo: Homo Deus. L’autore, Yuval Noah Harari, evidenzia bene come il progresso scientifico, tecnologico ed economico abbia consen-

tito all’uomo di realizzare imprese che una volta potevano essere affidate solo ad un intervento sovrannaturale: in altre parole, hanno permesso all’uomo di «farsi Dio». L’ambito più vistoso – e anche il più inquietante – di queste recenti conquiste mi sembra quello della biologia e, in particolare, della genetica. Sono passati poco più di vent’anni da quando è stata clonata la pecora Dolly: un evento che ha scosso l’opinione pubblica dimostrando come sia possibile, per l’uomo, «creare» un essere vivente senza il procedimento riproduttivo naturale. La fecondazione in vitro oggi è già abbastanza frequentemente praticata. Organismi geneticamente modificati (OGM) sono realizzati nella produzione di cibi transgenici, suscitando diffidenze e paure. Nel 2000 è stata decifrata per la prima volta l’intera sequenza di un cromosoma umano – un successo foriero di possibilità ben più grandi:

poter intervenire sul codice genetico correggendone eventuali aberrazioni consentirebbe di debellare malattie congenite dell’embrione, assicurando così la nascita di un neonato sano (il primo intervento di terapia genica risale al 1990). E ci sono poi orizzonti sconfinati che si schiudono alla luce di queste nuove conoscenze: c’è chi ipotizza una riprogrammazione dei geni che consenta a futuri genitori di scegliere il sesso del nascituro, di potenziarne capacità e talenti. E, ancora, si apre davanti a noi, in un futuro non troppo lontano, la speranza di poter ringiovanire periodicamente corpi logorati dal tempo e di rinviare indefinitamente la morte. Il colosso informatico Google sta investendo cifre vertiginose in questa impresa; e i responsabili di questa ricerca sono giunti ad affermare che nel 2050 una persona in buono stato di salute potrà sottoporsi ogni dieci anni a un

processo di ringiovanimento (purché abbia un fisico adatto, e – ovviamente – notevoli risorse finanziarie), sfuggendo così interminabilmente alla vecchiaia e alla morte. Nel 2050! È ovvio pensare che parecchi, nati nel secolo scorso, di fronte a questo traguardo per loro troppo lontano non potranno fare a meno di imprecare: «Accidenti! Fossi nato venti o trent’anni dopo!...». Ma, almeno, questi «sfortunati», tra i quali figuro anch’io, hanno sempre saputo di dover dare un senso al tempo limitato della loro vita; mentre, per chi nutre prospettive d’immortalità terrena, vale la riflessione di Harari: «L’onnipotenza è di fronte a noi, quasi alla nostra portata, ma sotto i nostri piedi si spalanca l’abisso della completa insignificanza». Così, mentre ci avviciniamo a un’onnipotenza reale, finiremo forse per rimpiangere un mondo in cui era lecito sognare l’impossibile.

traffico. Diversi vecchietti in carrozzina elettrica vanno come razzi; uno se ne sbatte altamente della realtà: paglia in bocca, lattina di birra da mezzo nella mano libera. Un’antica osteria è diventata un ristorante cantonese con buffet a volontà. All’altezza del benzinaio, svolto a sinistra, imboccando una viuzza verso l’aeroporto. Una fattoria, qui, mi sembra fantascienza pura. Parallela alla pista di decollo, una strada corre dritta tagliando in due i campi. In realtà è un campo d’armi camuffato in zona campestre con tanto di pista per panzer tra i meli. Ciclisti scatenati sfrecciano via nella loro voglia cieca di credersi in campagna. Uno con degli sci di fondo da strada mi passa via accanto incarognito e mi chiedo, per un secondo neanche, cosa gli sia andato storto nella vita. Cammino e cammino e mi chiedo se non sia io ad aver sbagliato strada. Il ciclismo terapeutico incomincia a essere estenuante, devo guardarmi di continuo alle spalle. Mi sposto dunque sull’erba. Le balle di

fieno di un’altra fattoria rassicurano un po’, un campo dimenticato di fabacee da foraggio scoppietta al sole attraverso i bacelli che si aprono. L’erba medica è in fiore. Dev’essere quello là. Tutta questa strada per questa pozzanghera mi dico, eppure, accovacciato sulla sponda, salta all’occhio l’insolita limpi-dezza dell’acqua. Scruto il fondale e in effetti la sabbia chiara con il sole crea dei riflessi dorati. Le rive erbose, tra i campi appena falciati, invitano alla sosta. Il punto di vista migliore però è un po’ arretrato, su una della due panche all’ombra di un vecchio frassino. Sull’altra c’è una coppia di mezza età, non parlano, guardano fiduciosi davanti a loro. Dopo un quarto d’ora, quello che sembrava niente di speciale, si rivela un luogo da sogno. Sullo specchio d’acqua nitida, ogni tanto, si creano dei cerchi. Dev’essere il respiro dei «piccoli vulcani di sabbia» come vengono descritti in un articolo apparso sul «Neues Bülacher Tagblatt». Una betulla e un rovere si tengono compagnia, i motori a reazione degli aerei

attutiti dalla distanza s’intrecciano ai cinguettii di rari uccelli dei quali non so il nome. Alle spalle c’è il brusìo autostradale, eppure una pace insperata mi piomba addosso, sperduto qui tra Zurigo e Winterthur, in faccia a questa falda acquifera dai riverberi auriferi. La luce filtrata dagli alberi, si riflette attorno, sul finire di un pomeriggio agli inizi di settembre, quasi con la stessa delicatezza di una canzone di Nick Drake. È una risorgiva fiabesca sotto la quale c’è una città d’oro. I suoi riflessi risalgono i fori nella sabbia per scintillare agli occhi di chi si prende il tempo di vedere, senza aspettarsi né pretendere chissà cosa da un luogo. Un trattore passa via, altri ciclisti in fuga dalla vita. L’unica anitra, divorziata, sonnecchia. La coppia mi sa che non è la prima volta che viene qui a rigenerarsi sul serio al cospetto dello stagno Goldentor (427 m) di Kloten. Se hanno parlato io non li ho sentiti. La contemplazione è un hobby serio. L’unico modo, forse, senza effetti collaterali, per essere in un altro mondo.

adesso, che la polpetta è una tipica specialità locale, tanto da diventare il simbolo stesso della «Lugano città del gusto». È l’inatteso riscatto di una pietanza modesta, e per certi versi sospetta. Fra le curiosità linguistiche, raccolte da Ottavio Lurati, figura, infatti, la definizione «milite ignoto»: così gli allievi dell’Accademia navale di Livorno chiamavano la polpetta, alludendo a un indecifrabile insieme di avanzi. Ma, ecco che, ciò che era un inconveniente si tramuta in vantaggio: un modo per riutilizzare i rimasugli ed evitare gli sprechi. Assume un valore aggiunto d’ordine ambientale, finanziario e addirittura etico. Non da ultimo politico, come ha dimostrato, la recente iniziativa popolare per «alimenti equi», che se testimonia una sensibilità delle autorità per la nostra salute, d’altro canto conferma la dimensione sempre più pubblica di un ambito che, un tempo, era strettamente, quasi gelosamente privato. Certo che ne ha fatto di strada il tema

cibo, sul piano mediatico sui giornali, era relegato in un angolino della cosiddetta pagina della donna, un banale argomento femminile. Oggi, diventato unisex, domina sulla carta e sugli schermi, creando una nuova forma di divismo: lo «chef» ha persino spodestato lo stilista. E non soltanto. A fianco della professione di cuoco, che sembra attirare i nostri ragazzi, si sono sviluppate altre specialità: nutrizionisti, dietologi, assaggiatori, organizzatori di convegni dove il cibo viene affrontato sul piano filosofico. «L’uomo, diversamente dall’animale ha scoperto, mangiando, la dimensione del piacere», osservava, in un incontro luganese, il filosofo Carlo Sini. Ma, in definitiva, tutto questo fervore informativo ed educativo lascia tracce? Ha vinto lo «slow food» o il «fast food»? In proposito ricordo la battuta di una cassiera della Migros: «Sapesse quanti surgelati e precotti vedo nei carrelli».

A due passi di Oliver Scharpf Lo stagno Goldentor di Kloten C’era una volta, a nord di Kloten, uno stagno chiamato goldene Tor: porta d’oro. Le mamme dicevano ai bambini di non avvicinarsi. Non tanto per la profondità, ma per via di insidiosi buchi senza fine dai quali sgorgava una fine sabbia d’oro. Ancora oggi si racconta di un bambino che un pomeriggio, tutto accaldato, si avvicina allo stagno per rinfrescarsi con manate d’acqua in faccia. Un vortice si forma di colpo e tra i flutti, emerge una sirena; il bimbo vuole scappare via ma viene rapito dal suo sorriso. Nota poi un anello luccicante al dito, la sirena glielo mette sotto il naso, vorrebbe sfilar-glielo in fretta. In un batter d’occhio viene afferrato e trascinato sott’acqua. Un attimo prima un urlo si è sparso tra i campi. Un contadino accorso scruta la superficie, calma piatta. Come una freccia uno di quei buchi sputa fuori il bambino. Fradicio da capo a piedi, il contadino lo asciuga e rincuora. È molto scosso, sussurra solo: «la porta d’oro». Goldentor: con questo toponi-

mo è indicato, sulle cartine geografiche, lo stagno proibito. Parto così per Kloten da dove di solito si parte. Da sempre subito associato all’aeroporto e alla squadra di hockey i cui giocatori non a caso spesso sono chiamati «gli aviatori», Kloten un tempo era un tranquillo villaggio di contadini. Come quello che chiede al bambino di raccontargli qualcosa di più di questa porta d’oro. In fondo allo stagno, la sirena lo ha portato in una meravigliosa città tutta d’oro. Altre sirene incantevoli vivono lì, oltre la grande porta d’oro. «Dopo che ebbe raccontato questo, il bimbo chiuse il suo cuore e tornò a casa» si legge verso la fine della leggenda raccolta in Schweizer Sagen und Heldengeschichten (1914) di Meinrad Lienert. Un rombo di aerei mi accoglie alla stazione di Kloten da dove inizia il mio viaggio verso lo stagno fatato. Una fontana ottocentesca è un rapido tuffo nel passato, spodestato presto dalla presenza enorme di un puck scultoreo per gli ottant’anni del Kloten, nel mezzo di una rotonda per il

Mode e modi di Luciana Caglio Mangiare diventa un evento: permanente «Parla come mangi» diceva un vecchio proverbio, che raccomandava l’uso di parole semplici e comprensibili, appartenenti al linguaggio corrente. Proprio, come, per nutrirsi, ci si affidava ai cibi, genuini e digeribili della tradizione locale. E se questo detto

Lo chef è diventato un divo. (Pxhere)

popolare, spesso dialettale, forse è giù di moda, il nesso fra luogo e alimentazione, che sottintende, è invece più che mai attuale. Si sta, infatti, assistendo, alla riscoperta e al rilancio di piatti e vini nostrani, attraverso eventi che ci accompagnano tutto l’anno, e raggiungono l’apice, in autunno. La stagione della vendemmia, dei funghi, delle castagne, della caccia, è, non da oggi, l’emblema della buona tavola, che, adesso, si presta a un’infinità di rievocazioni. Dove, comune denominatore è il rimpianto per un passato, rivisitato in quella chiave nostalgica, che produce immagini e convinzioni a volte illusorie. La realtà storica parla diversamente: dal profilo igienicoalimentare, questo passato sarebbe piuttosto da dimenticare. Vale la pena, in proposito, rileggere il saggio di Rosario Talarico Il Cantone malato. Fino agli inizi del secolo scorso, anche da noi, ci si ammalava proprio a tavola, addirittura mangiando il pane: «Confezionato con farine guaste, ammas-

sate in ambienti umidi e poco ventilati dove degeneravano e acquistavano un sapore e odore “empireumatico”, cioè nauseabondo». Erano, ovviamente, cibi privi di conservanti, ancora di là da venire. Oggi, paradossalmente, ci si trova alle prese con i timori, provocati dall’opposto: l’eccesso di additivi d’ogni genere. Da qui la crescente diffidenza nei confronti di prodotti conservati, surgelati, liofilizzati, precotti e via enumerando le tante diavolerie inventate dalle multinazionali: a cui si reagisce ripristinando i piatti della cucina della nonna, promossi a simbolo di ingredienti genuini e di inesauribili capacità creative. Dovrebbe, insomma, nascere una ghiottoneria con altri connotati, antica e in pari tempo nuova, ma innanzitutto virtuosa. Questo, del resto, è l’obiettivo al centro delle iniziative, in corso in un Ticino che si dà da fare, e ci riserva persino sorprese. Da vecchia luganese, e forse non sarò la sola, scopro,


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Ambiente e Benessere Storia di Airbnb Un modello di turismo moderno che si è affermato in poco tempo e che evolve

La tecnologia pulita A fronte del problema creato dalla presenza di rifiuti in plastica si sviluppano progetti ecologici per limitarne l’impatto

Parlare anche di loro Il 26 settembre prossimo sarà la Giornata cantonale ticinese dell’autismo

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Bici da montagna Sempre più popolare, lo sport della Mountain Bike vede gli svizzeri come protagonisti pagina 19

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Il suono? Unveroamico!

Salute Una campagna di sensibilizzazione

nelle scuole per attirare l’attenzione dei giovani sui danni all’udito

Maria Grazia Buletti Oggi un adolescente su cinque lamenta un disturbo uditivo e negli ultimi 15 anni i numeri risultano in aumento del 30 percento. Questo è il monito lanciato dagli esperti internazionali sull’importanza di preservare l’udito. Allarme che trova d’altronde conferma attraverso le parole del dottor Andrea Ferrazzini, otorinolaringoiatra: «La prevenzione di danni all’udito è estremamente importante e necessaria, in quanto tutti siamo esposti a stimoli sonori più o meno forti lungo tutto l’arco della nostra vita». Lo specialista conferma che, ad esempio, per i rumori nell’ambito delle attività professionali (specialmente quando si impiegano macchinari e attrezzi) si sia già fatto molto: «Oggi, tamponi auricolari e cuffie, oltre a una limitazione delle emissioni e del tempo di esposizione, sono pratica di prevenzione conosciuta e applicata». Ma così non è nelle attività correnti e di tempo libero, soprattutto per quanto riguarda i giovani: «I ragazzi hanno minore consapevolezza dei pericoli, ad esempio nelle attività del tempo libero e soprattutto nell’ascolto della musica». Per non parlare delle norme e degli organi di controllo che, sempre secondo il medico, sono carenti proprio in materia di ascolto di musica. Considerazioni e numeri raccolti dall’Associazione ticinese per persone con problemi d’udito (ATiDU) che, considerando proprio come reale il rischio di perdita uditiva nella popolazione giovanile, promuove la campagna Unveroamico il cui obiettivo è di sensibilizzare docenti e giovani sui benefici del buon udito, sull’importanza e sull’utilità di questo organo di senso nella nostra vita quotidiana. «Il rischio di perdita uditiva nella popolazione giovanile si colloca senza ombra di dubbio tra i nuovi rischi della salute», spiega la promotrice della campagna Cinzia Santo di ATiDU. Dal canto suo, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) già nel 2015, in occasione della giornata mondiale International Ear are Day, ha lanciato un accorato allarme per nulla anacronistico: «Circa 1,1 miliardi di teenager e giovani adulti sono a rischio di sviluppare una perdita uditiva per via dell’ascolto non sicuro

di musica attraverso le cuffie e per l’esposizione a livelli dannosi di rumore in eventi e luoghi di intrattenimento». Per meglio comprendere questo progetto di sensibilizzazione di ATiDU (così importante da essere sostenuto da Lions Club Lugano), la nostra interlocutrice ci chiede di immaginare innanzitutto che qualcuno ci chiami mentre siamo in un ristorante affollato: «Voi sarete in grado di selezionare automaticamente la sorgente sonora che vi interessa. Ora immaginate che in origine il mondo fosse immerso in un silenzio assoluto, ma un giorno le cose cambiarono e qualcuno mise il volume: alcuni animali svilupparono la capacità di percepire le vibrazioni dell’aria e sentire il più piccolo rumore era una questione di vita o di morte». Cinzia Santo prosegue il racconto nei milioni di anni a seguire, quando agli animali spuntarono le orecchie di tutte le forme e dimensioni: «Immaginate le tempeste di rumori che si abbatterono su quelle orecchie: ululati, ruggiti, strilla, borbottii, squittii, cinguettii, ronzii, scrosci e ogni altra sonorità del mondo erano udibili!». E arriviamo a immaginare l’essere umano che sentiva persino i propri pensieri: «E nuovi suoni provenienti da un mondo nascosto e interiore, e poi le parole che divennero terra, i versi di sofferenza i sospiri d’amore. Lo scoppiettio del fuoco, il sibilo del vento, il fruscio di una carezza, il respiro di un figlio: un’udibile manifestazione della realtà». Poi, l’uomo inventò la musica, che è suono: «Quando è a tutto volume può diventare rumore. E fa male». Il suono è dunque amico o nemico dell’udito, chiediamo alla nostra interlocutrice che risponde: «Dipende tutto da come viene gestito». E qui entrano in gioco i giovani che, sappiamo, oggi fanno costantemente uso di cuffiette per ascoltare musica a volumi troppo alti, quasi ogni fine settimana partecipano a concerti dal vivo pop e rock, amano ritrovarsi nelle discoteche dove la musica sovrasta ogni tentativo di conversazione. «Per questo, è importante sensibilizzare i ragazzi sul fatto che una frequenza di musica troppo alta e prolungata nel tempo, ad esempio a un concerto, è già da considerare un’esposizione eccessiva al rumore e

Cinzia Santo, operatrice dell’ATiDU, con i tappi acustici offerti nell’ambito dell’iniziativa di prevenzione. (V. Cammarata)

potrebbe causare una diminuzione della sensibilità delle cellule uditive, con quella sensazione di avere dell’ovatta nelle orecchie». A quel punto, l’udito è ancora in grado di riprendersi durante le successive fasi di riposo, mentre ci viene spiegato che la situazione precipita quando i suoni sono troppo forti e i carichi fonici si ripetono: «Allora, le fasi di riposo non bastano più per il recupero e le cellule sono destinate a morire col tempo». Nessuna operazione chirurgica e nessuna medicina sapranno restituire la vita alle cellule acustiche colpite e sarà compromessa anche la capacità selettiva dell’udito, al punto che tutto potrebbe poi sembrare un miscuglio di suoni. Ecco che oltre alla sensibilizzazione su questi comportamenti a rischio, la campagna Unveroamico accende i riflettori sugli accorgimenti da adottare per proteggere l’udito e preservarlo adeguatamente. «Durante l’anno scolastico 2017/2018, e con probabile prosieguo in autunno, le

informazioni sono trasmesse ai ragazzi di 11 sedi di scuola media cantonale, attraverso una comunicazione e una sensibilizzazione di tipo innovativo e accattivante», spiega la Santo. Un progetto concepito per il target giovanile: «Il dinamico stand espositivo contiene un videoclip, informazioni, consigli, testimonianze ed esperienze interattive». Sollevare il tema «udito» con docenti e allievi permette loro di capire meglio tutta la problematica uditiva su differenti livelli e integra quelli che già sono confrontati col problema: «Così si incentiva la creazione di importanti ponti tra udenti e deboli d’udito, facilitandone l’inclusione». In concreto: «La campagna si realizza attraverso l’esposizione di uno stand durante l’arco di un’intera settimana negli atri delle scuole medie prescelte. Questo comprende uno schermo touch incorporato che permette la navigazione attraverso i contenuti multimediali, due esperienze uditive in cuffia e altri pannelli attratti-

vi sulla campagna stessa». Infine, ATiDU integra interventi nell’ora di classe nelle quarte medie delle sedi che ospitano la mostra, in modo da permettere ai ragazzi un puntuale approfondimento del tema. «L’udito è Unveroamico e come tale dobbiamo imparare ad avere gli strumenti per preservarlo», conclude Cinzia Santo.

Video intervista Sul canale Youtube di «Azione» e su www.azione.ch la videointervista a Cinzia Santo dell’ATiDU.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Ambiente e Benessere

La mia casa è la tua casa

A scuola di viaggio

Viaggiatori d’Occidente Il portale di prenotazioni online Airbnb attraversa

Bussole U n nuovo

una complicata fase di crescita

Claudio Visentin È l’estate di Airbnb. La popolare piattaforma di prenotazioni in rete fu inaugurata dieci anni fa, l’11 agosto 2008, proprio mentre si consumava il fallimento di Lehman Brothers e cominciava la crisi economica nella quale ancora ci dibattiamo. Ma nessuno allora poteva immaginare che quella minuscola società in pochi anni sarebbe diventata un pilastro della nuova sharing economy. La crescita di Airbnb è stata impetuosa. Nel febbraio 2011 si contava un milione di pernottamenti venduti, diventati già cinque milioni nel gennaio 2012 e dieci milioni solo cinque mesi più tardi. Tra il 1 giugno e il 31 agosto 2018 Airbnb ha registrato sessanta milioni di arrivi in tutto il mondo e proprio l’anniversario dell’11 agosto 2018 ha segnato il record di 3,5 milioni di transazioni. Airbnb è attiva in 191 paesi (come dire ovunque), con un milione di ospiti ogni giorno. Dalla seconda metà del 2016 Airbnb macinava profitti in rapida crescita: fattura 2,6 miliardi di dollari all’anno, impiega oltre tremila persone e alla vigilia della quotazione in Borsa è valutata trenta miliardi di dollari. Grazie al suo aiuto, negli ultimi dieci anni i proprietari di case (host) hanno guadagnato oltre quaranta miliardi di dollari (i dati sono della stessa società). L’anniversario è l’occasione perfetta per raccontare ancora una volta la storia di due compagni di studi, Brian Chesky e Joe Gebbia, che nell’ottobre 2007 si trasferiscono a San Francisco ma rimangono presto a corto di risorse per pagare l’affitto. In occasione di un importante congresso di design, con tutti gli alberghi della città al completo, decidono di sistemare dei materassi ad aria nel salotto del loro loft e di affittarlo ai partecipanti. Per qualche tempo quel loft fu anche il primo ufficio della nuova società. In principio gli alloggi offerti su questa piattaforma erano soprattutto stanze in case private, dunque con un prezzo più abbordabile rispetto agli hotel, oltre a offrire la possibilità di prendere parte alla vita dei residenti. Ben

L’estetica a volte è minimalista. (pagina99.it)

presto però l’offerta si è estesa a ogni tipo di alloggio: appartamenti, intere case e qualsiasi altro tipo di proprietà. Anche questo passaggio cruciale è stato raccontato in modo divertente, proponendo case sugli alberi, iurte mongole, baite, case nella roccia, trulli pugliesi, chiatte... Fino a quel momento Airbnb piaceva a tutti. A differenza della spigolosa Uber, in lotta con il mondo intero e alla fine ridimensionata, Airbnb ha sempre raccontato storie coinvolgenti di condivisione di spazi ed esperienze, di preziosi guadagni a sostegno delle famiglie del ceto medio in crisi. In realtà molti proprietari si occupano ormai a tempo pieno delle case che affittano, spesso più di una, o impiegano persone di fiducia per questo compito. In alcuni casi interi palazzi sono stati messi sul mercato degli affitti brevi con Airbnb. E così insieme al successo sono arrivate le critiche. Il punto di svolta è il 2016, quando abbiamo smesso di amare Airbnb. Dapprima furono accuse di razzismo, perché i padroni di casa erano restii ad affittare a neri (o omosessuali). Altri criticarono la scelta di mettere in vendita alloggi nei territori occupati da Israele. In questi casi tuttavia Airbnb ha saputo sciogliere le tensioni con scelte nitide. Anche gli albergatori protestano

da sempre, ma ormai si sono rassegnati alla presenza di questo competitore; e in parte si tratta di tensioni inevitabili quando vecchie regole si scontrano con l’innovazione. È stato invece più difficile mantenere sotto controllo alcune trasformazioni profonde innescate da Airbnb nel territorio. Un tempo si affittava la stanza libera nella casa di una persona che ti avrebbe poi consigliato e introdotto alla vita del quartiere. Ancora oggi il portale incoraggia queste «esperienze»: il surf a Los Angeles, la cerimonia del tè a Tokyo, un corso per imparare a fare la pasta a Roma… Da quando però è aumentato il numero di case destinate solo al turista, senza abitanti stabili, queste hanno cominciato ad assomigliarsi tutte. L’arredamento IKEA (un altro simbolo della globalizzazione) total white garantisce un’apparenza gradevole a buon mercato; se fotografato con la giusta luce piace sempre, ma può dare un senso di smarrimento al risveglio: dove siete? Tokyo, Londra, Los Angeles? L’architetto olandese Rem Koolhaas ha parlato di un’«allucinazione della normalità», riferendosi all’estetica di Airbnb. Sempre più di rado abbiamo la possibilità di aggirarci curiosi tra librerie, cucine e spazi di vita quotidiana al-

trui con una storia da raccontare. Harrison Jacobs, corrispondente dall’Italia di «Business Insider», giura di poter riconoscere questo tipo di appartamenti dalla qualità del cuscino: «La maggior parte delle persone non compra un cuscino scadente per sé. È fondamentale per dormire bene di notte. Se soggiornate in un alloggio di Airbnb che è la casa di qualcuno, potete quindi stare piuttosto certi che avrete dei cuscini decenti per dormire». Dagli appartamenti l’influenza di Airbnb si estende poi al quartiere circostante e all’intera città. Nelle destinazioni più richieste i proprietari ritirano dalla vendita o dall’affitto a lungo termine le loro case, riservandole ai turisti: per esempio secondo una recente ricerca dell’Università di Siena il venti per cento degli alloggi nel centro di Firenze sarebbe affittato su Airbnb. Gli affitti e i prezzi di vendita aumentano grazie alle nuove opportunità di guadagno e per i residenti è sempre più difficile (e costoso) trovare una casa alla loro portata. I negozi di alimentari lasciano il posto a caffè tutti uguali tra loro o all’affitto di biciclette per turisti. Paradossalmente proprio i visitatori che vogliono condividere la vita di quartiere, come i clienti di Airbnb, possono disturbare più dei turisti di massa degli hotel: valigie trascinate sul selciato di notte, i locali preferiti sempre affollati ecc. Da qualche tempo diverse città limitano l’attività di Airbnb: Amsterdam, Barcellona, Berlino, New Orleans, New York, Parigi, Vancouver… Airbnb poi fa troppo poco perché i profitti realizzati grazie alla sua mediazione siano regolarmente tassati nei diversi Paesi. La stessa società del resto è costantemente alla ricerca di regimi fiscali più favorevoli; non a caso i movimenti di denaro passano tutti per la sede in Irlanda, un Paese notoriamente compiacente da questo punto di vista. Nell’immediato futuro la vera sfida per Airbnb sarà trovare un punto d’equilibrio tra la standardizzazione necessaria alla crescita, la retribuzione degli investitori e quell’ideale di apertura, autenticità e condivisione alla radice del suo successo. Sarebbe il perfetto regalo di compleanno.

laboratorio con Scuola Club Migros Lugano Torniamo dalle vacanze con la mente piena di ricordi e con le memorie digitali dei nostri smartphone sovraccariche di immagini. Perché allora non provare a ricavare da tutta questa confusione un racconto efficace e appassionante? È quel che faremo nel laboratorio dedicato all’arte di viaggiare, proposto da Scuola Club Migros Lugano in collaborazione con «Azione». Da un paio d’anni ormai questo laboratorio è diventato un appuntamento regolare per i nostri lettori (che, vale la pena di ricordarlo, hanno uno sconto sull’iscrizione!), grazie anche al passaparola dei primi partecipanti. Nelle aule luminose e confortevoli della Scuola Club Migros Lugano l’intera esperienza del viaggio viene messa in gioco tra racconti, letture, discussioni e scrittura. L’insegnante sarà Claudio Visentin, il fondatore della Scuola del Viaggio (www.scuoladelviaggio.it), giornalista, conduttore radiofonico, docente universitario e curatore della nostra rubrica «Viaggiatori d’Occidente». Il laboratorio spiegherà come progettare un viaggio interessante, come prendere appunti strada facendo, come rielaborare quanto visto dopo il ritorno a casa. Il laboratorio è aperto a tutti: sono benvenuti i principianti al pari di chi ha già qualche esperienza di scrittura. Informazioni

Il laboratorio si svolgerà sabato 29 settembre 2018, ore 9.00-12.00 e 13.0016.00, presso la Scuola Club Migros Lugano, via Pretorio 15. Il costo dell’iscrizione è di Fr. 144.– (con uno sconto del 10% a chi porterà o citerà «Azione» al momento dell’iscrizione). Il corso è a numero chiuso (massimo 12 partecipanti, in ordine d’iscrizione sino ad esaurimento dei posti disponibili). È possibile iscriversi presso la segreteria della Scuola Club Migros Lugano, per telefono (091 821 71 50), via posta elettronica (scuolaclub.lugano@ migrosticino.ch) o direttamente sul sito internet www.scuola-club.ch. Annuncio pubblicitario

Fare la cosa giusta

Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Gabrielle: www.farelacosagiusta.caritas.ch

Gabrielle Bergamaz (57 anni) sta cercando un lavoro stabile


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Ambiente e Benessere I fondali marini si trasformano spesso in discariche. (Franco Banfi)

Nuovi modelli per il consumo Ecologia – 3 L’usa e getta è un’abitudine che si rivela nociva, mentre si evidenzia un’alternativa concreta

Sabrina Belloni Nel precedente articolo (v. «Azione 26» del 25 giugno) abbiamo accennato al tema dell’economia circolare e all’ambiziosa strategia promossa dall’Unione Europea per proteggere il pianeta, che si attuerà responsabilizzando i cittadini verso migliori tipologie di acquisto (che riducano l’utilizzo di oggetti usa e getta ed incentivino il riutilizzo) e verso una più capillare differenziazione dei rifiuti, promuovendo la crescita e l’innovazione delle imprese coinvolte nella filiera dei rifiuti e del riciclo ed infine agevolando una nuova crescita economica e sociale di portata ancora inestimabile, ma sicuramente interessante.

Il settore economico del CleanTech crererà in futuro nuove opportunità di investimento È di pochi mesi fa un’immagine iconica di un cavalluccio marino, solitario, aggrappato ad un cotton fioc rosa, alla deriva in un mare deserto. Tale fotografia, scattata dal fotografo americano Justin Hofman al largo della costa di Sumbawa in Indonesia, è giunta finalista al prestigioso concorso fotografico internazionale Wildlife Photographer of the Year 2017 (organizzato dal Natural History Museum di Londra, il quale richiama e premia le migliori fotografie di natura a livello mondiale) ed ha spopolato nei social e nel web mettendo in risalto il problema dell’inquinamento, con estrema semplicità e chiarezza e divenendo un emblema. Inquinamento che è determinato soprattutto da oggetti usa e getta, i quali sono entrati di prepotenza nella nostra vita quotidiana solamente da poche decine di anni e che spesso non vengono smaltiti correttamente (ad esempio molte persone, per semplicità, gettano i cotton fioc nel water, da dove non è poi così difficile uscire praticamente indenni dai sistemi di filtraggio dei depuratori cittadini e raggiungere il mare). Poiché questi oggetti spesso sono realizzati con materiali compositi, essi diventano «irriciclabili». Non è semplice capire in quale tipologia di rifiuto conferirli e pertanto restano nella spazzatura indifferenziata, da destinare all’inceneritore anziché alla raccolta ai fini di un futuro riutilizzo. Le società di selezione e rigenerazione dei rifiuti

considerano che circa il 30 per cento di materiali sono divenuti impossibili da riutilizzare. Ne sono un esempio gli imballaggi compositi, costituiti da materiali di diversa natura e pertanto incompatibili con il sistema di riciclo e di riutilizzo (ad esempio le vaschette per gli affettati), i quali hanno comunque numerosi pregi; le vaschette per alimenti infatti impediscono il deterioramento del cibo ivi contenuto e garantiscono al prodotto una vita più lunga, conservandone i principi nutritivi. Nel mese di maggio, la Commissione Europea ha presentato la sua proposta di direttiva contro l’inquinamento da plastica, che è stata approvata dal Europarlamento. La quota di rifiuti urbani (domestici e commerciali) da riciclare passerà dall’attuale 45 per cento al 55 per cento entro il 2025. L’obiettivo salirà al 60 per cento per cento nel 2030 ed al 65 per cento nel 2035. I rifiuti concepiti come risorsa, il loro riutilizzo ed il riciclo diventano gli elementi di una crescita verso una società «verde» e di una nuova crescita economica. L’indicazione più significativa è il divieto di vendita di piatti e stoviglie di plastica, cannucce per bibite e cotton fioc, agitatori per bevande e bastoncini per palloncini in plastica. Entro il 2025 gli Stati membri dovranno raccogliere il 90 per cento delle bottiglie di plastica monouso per bevande, ad esempio con sistemi di cauzione e deposito. I produttori saranno chiamati a coprire i costi di gestione dei rifiuti per mozziconi di sigaretta, palloncini ed attrezzi da pesca. Assorbenti igienici e salviette umidificate dovranno avere un’etichetta chiara e standardizzata che indichi il loro impatto negativo sull’ambiente. Sempre a maggio l’OCSE ha diffuso un rapporto sul riciclo. Nel mondo, solamente il 15 per cento della plastica viene riciclata (il 30 per cento nella UE, il 10 per cento negli USA), il 25 per cento viene bruciato negli inceneritori o termovalorizzatori ed il 60 per cento finisce in discarica, viene bruciato all’aperto (rilasciando pericolosi inquinanti) o abbandonato nell’ambiente. Secondo l’OCSE, tutto questo avviene poiché è ancora troppo ampio il divario economico fra acquistare un prodotto di plastica nuovo (più conveniente) rispetto allo stesso prodotto di plastica riciclata. Sino a pochi anni orsono, gli economisti teorizzavano la «non saturazione dei bisogni» e pertanto nemmeno quella dei consumi, indotti nei consumatori da accattivanti campagne marketing. L’idea che i bisogni umani fossero illimitati fu ben illustrata nel

L’UE si propone di raccogliere il 90% delle bottiglie entro il 2025. (Franco Banfi)

libro Affluenza – When too much is never enough (quando il troppo non è mai abbastanza), scritto dai professori Clive Hamilton e Richard Denniss, i quali teorizzavano l’ingordigia nella fruizione dei beni e pertanto la tendenza ad aumentare infinitamente il PIL di una determinata nazione. Ma già un ventennio orsono Michael Porter (accademico ed economista statunitense) affermava che «l’inquinamento è una forma di spreco economico, che implica l’utilizzo non necessario, inefficiente o incompleto di risorse. Le emissioni inquinanti sono un segnale di inefficienza aziendale e impongono attività che non generano valore». Oggi siamo consapevoli che la teoria dell’ingordigia è soprattutto una trappola evolutiva, considerato che il sistema capitalistico in cui viviamo imploderebbe in assenza di alcuna crescita. Tuttavia siamo altresì coscienti che una continua crescita di un’economia lineare (che utilizza le materie prime prelevandole dalle risorse del pianeta)

è insostenibile poiché le materie prime si esaurirebbero entro pochi anni. Altri autori (Jeremy Rifkin) evidenziano pertanto l’opportunità economica di orientarci verso l’economia circolare, dedita al riutilizzo ed al riciclo degli oggetti non biodegradabili, oltre che alle alternative biologiche alle plastiche. L’economia circolare si basa sul recupero dei materiali ed esclude l’estrazione di nuove materie prime alle scarse risorse del nostro pianeta, ed anche sul prolungamento del ciclo di vita dei prodotti e, di conseguenza, sulla riduzione dei rifiuti. Alcune ricerche indicano che gli esiti di questa direttiva UE avranno ricadute concrete, teorizzate in 600 miliardi di risparmi annui per le aziende, 140 mila posti di lavoro in più, 617 milioni di tonnellate di anidride carbonica in meno entro il 2035, imposte sui rifiuti meno onerose. Si tratta sicuramente di un cambio culturale, che solitamente richiede tempi lunghi; ma stavolta probabilmente i tempi saranno più contenuti del solito, considerato che sempre un maggior numero di cittadini dubita del concetto tradizionale di crescita, realizzando che l’incremento del PIL e del benessere sta conducendo al collasso del sistema. La Strategia Europea per la Plastica in una Economia Circolare, che è stata adottata nel gennaio di quest’anno e votata a maggio dalla Commissione, trasformerà il modo in cui i prodotti di plastica sono progettati, utilizzati, prodotti e riciclati nella UE. Prodotti con un aspetto e materiali migliori avranno un maggior numero di riutilizzi, migliori performance negli oggetti riciclati e pertanto una migliore qualità, che consentirà più numerosi cicli di raccolta e di fusione della materia iniziale.

I pesci devono convivere con l’inquinamento. (Franco Banfi)

Questa transizione è un’opportunità di trasformare la nostra economia e generare nuovi e sostenibili vantaggi competitivi a beneficio dei paesi europei. Come si posiziona la Svizzera (si veda anche l’articolo a p. 27 di questo numero) in tale contesto? Il settore del cosiddetto CleanTech è di grande interesse nella confederazione; esso concerne i prodotti ed i servizi innovativi a basso impatto ambientale. Soluzioni che consentano un consumo parsimonioso delle materie prime e la riduzione di inquinamento e rifiuti, fra cui l’efficienza energetica e la gestione sostenibile delle risorse idriche, delle energie rinnovabili e la loro conservazione ecc., sono settori di grande impulso. Secondo il Presidente della Confederazione (fonte: Swiss Federal Office of Energy, Swiss Cleantech Report, 2017) il cleantech sarà, infatti, una leva economica trascinante con la crescita significativa di prodotti, processi, beni e servizi correlati ad un impatto ecologico contenuto ai minimi. Questo recente trend nel modus vivendi creerà nuove opportunità d’investimento nell’utilizzo di prodotti e servizi cosiddetti «verdi» non solo da parte dei Governi, nella costruzione di un’economia «sostenibile», ma anche da parte degli operatori economici e della società civile. Si calcola che, solo in Svizzera, dal 2006 ad oggi siano stati investiti circa 200 milioni di CHF in progetti cleantech con la nascita di 207 nuove imprese ancora oggi sul mercato (fonte: Cleantech Alps, An overview of Cleantech start-ups, 2017) e che il valore aggiunto annuo del settore sia di circa 23 bilioni di euro, pari al 4,2 per cento del PIL, con l’impiego del 5,5 per cento della forza lavoro (fonte: Swiss Federal Office of Energy, Swiss Cleantech Report, 2017). La Svizzera, dunque, grazie anche alla sua tradizione e alla capacità d’innovazione e competitività, si rivela un’ottima piattaforma in cui investire nel comparto green. Senza scordarci che l’idea stessa di economia circolare è stata sviluppata a partire dalle intuizioni dell’architetto svizzero Walter R. Stahel a metà degli anni 70 del secolo scorso ed in seguito ripresa dalla fondazione Ellen MacArthur, fondata nel 2009 e ritenuta una delle più autorevoli istituzioni del settore: «è un termine generico per definire un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, e quelli tecnici, destinati a essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera».


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Ambiente e Benessere

Il «Rosengarten» di Berna Parchi cittadini Splendido spazio urbano che è luogo di fiori, di bellezza e armonia

Marinella Polli Forse non proprio tutti sanno che, nella nostra capitale, è il Rosengarten ad essere considerato uno dei posti ideali per gli amanti delle rose in particolare e di fiori e piante in genere, ma anche per chi semplicemente desidera staccare, o staccarsi per un istante da rumori e odori della città. Il Rosengarten di Berna è infatti un luogo perfetto per godersi le stagioni e, soprattutto, la primavera quando la natura offre il suo spettacolo. Lo splendido parco, che sorge su quello che era un tempo un cimitero in funzione sin dal 18. Secolo (nei documenti come «Rosengartenfriedhof», «Rosengarten Totenhof», «Rosengarten Totenacker) è divenuto un parco aperto al pubblico nel 1914, e ora è un vero e proprio museo delle rose, che ospita molteplici tipi di questo fiore prediletto, contraddistinte ciascuna dal suo cartellino, per offrire ai visitatori tutte le informazioni necessarie. Oltre a centinaia di varietà di rose provenienti dall’intero pianeta, vi dimorano anche rose selvatiche come per esempio la Rosa majalis o Rosa cannella, rose antiche come la Rosa gallica, numerosissimi delicati ibridi dal grande ceppo delle rose Tea, nuove ibridazioni, incroci, rose a mazzetti, rose rampicanti; è, insomma, un incantevole susseguirsi di rose adeguatamente collocate ora in aiuole armoniche nella forma e nei colori ai lati dei viali, ora arrampicate su archi e pergole. Il

parco, la cui forma è un rettangolo diviso da due viali che si incrociano nel mezzo, non è però solo uno splendido roseto, ma anche un funzionante sistema di serre, giardini ed ecosistemi nei quali vi è spazio anche per piante selvatiche, prati fioriti o disseminati di erbe e erbette rare, che si animano di grilli, cavallette e farfalle di ogni genere e colore durante la bella stagione. Vi si possono trovare anche dei ciliegi giapponesi, in stupenda fioritura da fine marzo a inizio aprile, regalati da Yoshiyuki Urata nel 1975, in segno della sua grande ammirazione per Berna. Non mancano un giardino delle iris, magnifici tigli, olmi, frassini e aceri, castagni d’India secolari, una magnifica sezione per i rododendri, un orto botanico, fontane, zampilli, sculture, un laghetto delle ninfee dai delicati toni dal bianco al rosa, o dal giallino all’arancione, ma anche rosso scuro come la magnifica Black Princess. Nel giardino adagiato su un’altura che permette un meraviglioso colpo d’occhio sul celebre Centro storico di Berna (Patrimonio dell’Unesco) accoccolato in seno al fiume Aare, sul Gurten e sulle Alpi, vi sono ovviamente anche un parco giochi, un palco per concerti, un ristorante con terrazza, possibilità di fare picnic e naturalmente molte panchine su cui riposare o leggere; passeggiando si può persino incontrare la statua di bronzo di Albert Einstein (che ha vissuto a Berna dal 1902 al 1909) seduto appunto su una panchina.

Panorama della capitale federale, vista dal Rosengarten in primavera. (Swiss-image)

Vi è inoltre un cosiddetto pavillon di lettura, una vera e propria biblioteca comprendente tra l’altro una grande collezione di libri in dialetto bernese.

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L’ingresso al parco è libero e l’intera area è accessibile alle persone a mobilità ridotta e alle persone in sedia a rotelle. Vi si arriva prendendo il Bus 10,

Cosmee per tutto il giardino

Azione

Mondoverde Una pianta molto amata,

dalle numerose varietà e colori

Anita Negretti

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Può una bustina di semi di fiori da pochi franchi modificare un intero giardino, rendendolo frizzante e colorato? Certo, se i semi sono quelli di Cosmos, o cosmea, un’annuale appartenente alla famiglia delle Asteraceae ed originaria dell’America centrale e del Messico. Ha steli lunghi 40-80 centimetri in base alla varietà ma alcune superano anche il metro d’altezza, fiori a forma di grosse margherite che sbocciano da giugno fino alla fine di ottobre, foglie verdi e composte. Cresce senza problemi in tutti i terreni, al pieno sole e con suolo irrigato una volta alla settimana durante le estati calde. In maggio si semina in cassette con terriccio umido mischiato a sabbia e quando le pianticelle raggiungono i 1015 centimetri di altezza si possono trasferire in piena terra. Al raggiungimento dei 30 centimetri delle piante di cosmea è utile cimare i fusti per favorirne l’accestimento: in questo modo la pianta svilupperà

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partendo dal marciapiede L di Piazza della Stazione, (di fronte ai Grandi Magazzini Loeb) e scendendo alla fermata «Rosengarten».

Piacevoli da vedere ma anche delicate. (Pinterest)

parecchi rami che porteranno un gran numero di boccioli di fiori. La distanza ideale durante la piantumazione tra una pianta e l’altra è di 30-40 centimetri per permettere un buono sviluppo sia delle radici sia della parte aerea. La semina la si può anticipare a fine inverno utilizzando cassette da tenere in un posto caldo e luminoso, oppure si possono acquistare piantine già sviluppate e ben radicate da trapiantare in varie zone delle aiuole per avere un pronto effetto d’impatto. Rustico e generoso di fiori, il Cosmos soffre però in caso di vento forte e di acquazzoni in grado di abbattere i lunghi e sottili steli di queste piante annuali. Per non ritrovarsi nel bel mezzo dell’estate con steli rotti e piante compromesse, è utile utilizzare dei tutori per la crescita, come dei pali di bambù o di plastica e legarli con dello spago o della rafia. Il genere Cosmos è composto da almeno 25 specie, sia perenni sia annuali ed il più diffuso è C. bipinnatus, annuale, alto fino ad 1 metro, con fiori bianco rosa e porpora e dal diametro di ben 10 centimetri. C. atrosanguineus è invece una perenne con fiori semplici e vellutati, color marrone e dal particolare profumo di cioccolato. I Cosmos si possono coltivare sia in piena terra che in vaso, ma in questo caso è meglio utilizzare varietà con steli corti , alti non più di 40-60 centimetri. Un trucco per averli belli fino ad autunno inoltrato? Tagliate i fiori appassiti fino in fondo allo stelo e concimate una volta al mese con un concime minerale composto.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Ambiente e Benessere

Promuovere l’inclusione

Handicap Il prossimo 26 settembre sarà dedicato al tema dell’autismo, un disturbo che è sempre più riconosciuto

e che richiede una presa a carico specializzata

Nicola Mazzi Mercoledì 26 settembre, dalle ore 9.00 alla Fondazione O.T.A.F. di Sorengo, si terrà la Giornata Cantonale Autismo che quest’anno sarà focalizzata su un tema che concerne tutti in modo diretto o indiretto: l’inclusione. Durante la giornata – dedicata a un disturbo che tocca l’1% della popolazione – non mancheranno le testimonianze di chi quotidianamente è in contatto con persone autistiche. Claudio Cattaneo (direttore della Fondazione ARES-Autismo Risorse e Sviluppo) evidenzia i passi avanti fatti, negli ultimi anni, nella presa a carico dei pazienti. «Il cambiamento più importante a cui abbiamo assistito è la maggiore prevalenza del disturbo. Mi spiego: se fino a 30 anni fa si pensava che fosse una problematica rara, oggi si sa che la prevalenza si situa all’1%. Nello spettro del disturbo autistico inglobiamo le persone con compromissioni gravi e quelle con una condizione meno pregiudicata e che quindi possono permettere al ragazzo di frequentare le scuole con regolarità e avere un impiego. Abbiamo diagnosi sempre più sicure e precoci, eseguite entro i 3 anni di vita». Come aggiunge lo stesso Cattaneo «nel concreto si assiste a un inserimento scolastico di un crescente numero di ragazzi. Ogni anno in Ticino si diagnosticano circa 20 bambini autistici e una parte di loro riesce, grazie anche a vari tipi di supporto, a frequentare le scuole regolari».

Detto della scuola un’altra evoluzione importante è quella delle strutture per invalidi adulti. In questi istituti, Ares è impegnata a formare in modo puntuale gli operatori sociali al fine di una migliore presa a carico. Ma come rileva lo stesso direttore di Ares il lavoro è ancora lungo. «Tra le maggiori sfide quotidiane vi sono quelle legate alla formazione degli operatori, all’informazione e alla sensibilizzazione delle persone con uno sviluppo tipico. È sempre difficile far capire il funzionamento autistico e le reazioni, a volte bizzarre, di queste persone alla gente comune, ma è un’operazione importante che portiamo avanti con impegno». Da notare che la Fondazione ARES, nata nel 1995, offre l’esperienza e la competenza, maturate nei suoi anni di attività di consulenza e di presa a carico di bambini, giovani e adulti con Disturbo dello Spettro Autistico, a professionisti e famiglie che quotidianamente si occupano del loro progetto di vita. Il dr. med. Paolo Manfredi è il responsabile di UNIS, l’Unità operativa multidisciplinare dell’OSC istituita per l’intervento diretto a bambini e ragazzi con disturbi dello spettro dell’autismo (DSA) e alle loro famiglie: «L’intervento di UNIS si svolge sia in fase diagnostica, sia nella presa a carico abilitativo-terapeutica» ci spiega. «Non è facile individuare le problematiche più frequenti tra i bambini, anche perché allargando lo spettro diagnostico ci sono molti più casi di un tempo. In-

Ogni anno in Ticino si contano 20 nuove diagnosi. (Claudio Rossi)

dubbiamente il problema più evidente è relativo alle difficoltà nelle relazioni sociali e nella comunicazione. Per alcuni diventa invalidante anche un’altra caratteristica e cioè la difficoltà di accettare le variazioni dell’ambiente. Ma in generale i problemi sono parecchi e diversificati». Come detto anche da Cattaneo vi è stato un cambiamento radicale negli ultimi decenni. «Nello spettro dell’autismo consideriamo molte persone che prima non avremmo preso in considerazione. L’approccio anglosassonefenomenologico era arrivato prima a queste conclusioni, rispetto a noi latini. Per esempio, negli anni 80, da noi si riconosceva una persona autistica solo nel caso grave, mentre negli USA

i casi presi in considerazione erano già parecchi. E aggiungo che secondo gli ultimi studi americani si riscontra, nei bambini di 8 anni, un caso su 68. Un risultato che addirittura cambia se osserviamo il genere. Infatti siamo addirittura a 1 su 45 per quanto riguarda i maschi». Uno dei pericoli di questo allargamento diagnostico è però quello finanziario. «È vero, lo riscontriamo. È una conseguenza dell’aumento dei casi. Infatti si sa che esiste un finanziamento dell’Assicurazione Invalidità ai ragazzi a cui viene diagnosticato una forma di autismo e questo fatto può portare a una maggiore pressione delle famiglie verso chi, come noi, effettua la diagnosi». Il dottor Manfredi guarda comun-

que avanti con ottimismo e auspica una maggiore consapevolezza nella popolazione. «Mi auguro davvero che l’autismo, malgrado sia diventato anche purtroppo una moda – grazie a un numero crescente di film, serie TV e libri – serva alle persone che hanno davvero bisogno di essere facilmente riconosciute, per poter poi attivare le strutture adibite come quelle scolastiche, sanitarie, ecc.». E i genitori che cosa dicono? Secondo Patrizia Berger, mamma di una ragazza autistica di 37 anni e presidente di ASI «oggi le famiglie possono beneficiare di un intervento precoce e di una rete multidisciplinare, la quale può offrire un supporto a più livelli, per una presa a carico globale». Una rete che va costruita con la famiglia e alimentata costantemente per poter offrire aiuti mirati nelle diverse fasce di età. «Grazie a servizi come ARES e UNIS, ai professionisti e alle associazioni che operano a sostegno delle famiglie, possono essere attivate risorse per rispondere ai diversi bisogni e soprattutto elaborare strategie per offrire nuove opportunità e speranze. Per esempio, per noi, la grande sfida aperta è quella di cercare di capire quali sono i supporti che si possono offrire alla persona autistica adulta e sapere in che modo i genitori possono seguire nuove strategie per dare al ragazzo nuove opportunità». E giornate come questa hanno proprio l’obiettivo di alimentare il dialogo e creare nuove sinergie Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Ambiente e Benessere

Entrecôte di cinghiale ai funghi

Migusto La ricetta della settimana

Piatto unico Ingredienti per 4 persone: 350 g funghi misti · ad es. porcini e gallinacci ·

1 scalogno · 1 spicchio d’aglio · 4 entrecôte di cinghiale di 140 g ciascuno · sale · paprica dolce · 4 cucchiai d’olio d’oliva · 1 cucchiaino di pepe rosa · 50 g di burro · ½ mazzetto d’origano.

migusto.migros.ch/it/ricette Per diventare membro di Migusto non ci sono tasse d’iscrizione. Chiunque può farne parte, a condizione che un membro della sua famiglia possieda una Carta Cumulus.

1. Mondate i funghi e tagliateli a bocconcini. Tritate lo scalogno e l’aglio. Condite la carne con sale e paprica. Scaldate l’olio in una padella e rosolate la carne ca. 3 minuti per lato. Avvolgete le entrecôte nella carta alu e lasciatele riposare per ca. 10 minuti. 2. Nel frattempo, nella stessa padella rosolate il trito di scalogno e aglio per 1 minuto. Unite i funghi e continuate la cottura per ca. 2 minuti. Condite con sale e pepe rosa. Aggiungete il burro e fatelo schiumare. Spacchettate la carne e mescolate il succo formatosi nella carta alu con i funghi. Servite la carne con i funghi e il burro. Decorate con le foglioline di origano e accompagnate con i rösti. Preparazione: circa 30 minuti. Per persona: circa 30 g di proteine, 24 g di grassi, 2 g di carboidrati, 360

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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e Benessere Giochi per “Azione” - Ambiente Settembre 2018 Stefania Sargentini

- Furetto potpotta - Alce bramisce) Campioni(N. 33per caso?

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Giancarlo Dionisio La storia dello sport è costellata di trionfi sorprendenti da parte di atleti che poi non sono riusciti a confermarsi. Pensate, ad esempio, al titolo mondiale conquistato in discesa libera nel 1993 a Morioka, in Giappone, da Urs Lehmann. Lo sciatore argoviese in seguito non è più salito sul podio. Non sapremo mai se quel successo gli sia servito per essere nominato Presidente della Federazione Svizzera di Sci. Sappiamo tuttavia che la legge dello sport recita che la stragrande maggioranza delle vittorie ha delle ragioni ben fondate. Qualche anno fa il mondo ci dipinse come un popolo di navigatori. Sì, navigatori agli Svizzeri, persone che per vedere il mare devono espatriare, e che sono cresciute a pane, formaggio, hockey su ghiaccio e sci. E questo perché una barca elvetica, «Alinghi», patrocinata da un imprenditore svizzero di origini italiane, Ernesto Bertarelli, era riuscita a conquistare la prestigiosissima Coppa America, prima europea dopo 28 trionfi Americani, 2 neozelandesi e 1 australiano. Fu un caso? Solo per i profani. L’analisi dell’avventura di Alinghi permise di comprendere le ragioni dello storico evento. Anzitutto il budget: Bertarelli, multimiliardario nel settore biochimico, non badò a spese. Secondariamente l’equipaggio: Alinghi fu affidata al top del mondo velico; lo skipper, in occasione del primo dei 2 successi, quello del 2003, era niente meno che Russel Coutts, lo straordinario lupo di mare neozelandese, che nel 1995 e nel 2000 aveva regalato al suo

Giochi Cruciverba «Ho finito le barzellette che avevo in serbo…» Termina la frase che Maurizio Battista sta dicendo al conduttore, leggendo a cruciverba ultimato le lettere evidenziate. (Frase: 2, 4, 6, 3, 6, 2, 6)

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E N A T O R E O T così come la sangallese Jolanda Neff fra le donne, e la zurighese Sina Frei O23. E non pensiate S che I dietraT le Under tro di loro ci sia il deserto. Ci vorrebbe un’intera per citare O paginaC A i nomi T degli atleti che almeno una volta sono saliti su un podio europeo, mondiale o di UPocheCsettimane E fa, Coppa delL Mondo. ad esempio, il quasi imbattibile Nino R decise di rinunciare ai CamSchurter, pionati Europei di Glasgow, tuttavia continentale, grazie al 25enne M ilLarstitolo I Forster, non è sfuggito ad un biker svizzero. E E il Ticino, in questa storia, che ruolo ha? Un bel ruolo, non ancora da principale, ma comunC protagonista E

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Filippo Colombo, talento ticinese della Mountain Bike. (CdT)

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paese i primi allori nell’ultracentenaria gliori del circuito. 8Un caso? Evidente7 storia dell’America’s Cup. Infine tecno- mente no. logia e materiali, frutto di una proficua Il pioniere fu Thomas Fri9 collaborazione fra Alinghi e il settoreschknecht. 10 Subito argento nei primi ricerca della Scuola politecnica federale mondiali della storia, nel 1990, primo di Losanna. Tutto ciò fu sufficiente per Svizzero 11 a diventare campione monconquistare il bis nel 2007, tuttavia nel diale, nel 1996, primo a conquistare 2010 Alinghi fu costretta a cedere di l’iride nella Marathon, nell’edizione 12 13 14 15 16 nuovo il titolo ad un’imbarcazione ne- organizzata nel 2003 dal VC Monte ozelandese. Tutto normale. Non siamo Tamaro. Soprattutto Thomas fu l’ideun popolo di navigatori. atore, unitamente al suo Team Mana17 18 Siamo invece gente che, tradi- ger Andy Seeli, della Swiss Bike Cup. zionalmente, ama la bicicletta ed il È stato l’uovo di Colombo: gareggiare 19 20 21 ciclismo, e che da un paio di decenni per crescere. Si tratta di un circuito sta scoprendo la nuova frontiera del nazionale con 8 gare di livello interna22 Bike, un mezzo 23 ciclismo: la Mountain zionale, nato una ventina di anni fa. È che ci ha portati in cima al mondo. Da aperto ai ragazzini dagli 8 agli 11 anni, alcuni anni i biker svizzeri sono i mi- e ai competitori dai 12 anni, su su fino 24 25

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S E R N. V 34 O MEDIO U M Soluzione: 11 7 I Scoprire i3 I N E S S M numeri corretti da inserire nelle 5 1 L colorate. O I O N I C caselle 16 2 1 O N E R E D I Giochi per “Azione” - Settembre 2018 18 S Stefania E QSargentini U E L A (N. 33 - Furetto potpotta - Alce bramisce) 20 6 8 F L I F U C O R E N A T O 4 6 21 22 I T O P A R E O T I C A D I P A S T O S I 9 25 24 O L F A T T O C A T C R A I L O T A 6 L U C9 E 27 B O L I R I A T O 5

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all’élite mondiale. I piccoli si confrontano su percorsi atleticamente poco esigenti, ma tecnicamente impegnativi, perché alla base del successo c’è la capacità di guidare la bici su sassi, scalini, salti e radici. Il fisico, quando si guida con competenza, viene da sé, poiché l’allenamento è un divertimento, non una tortura. I grandi hanno invece la possibilità di sfidare i pari età più forti al mondo, quindi di avere dei riferimenti per poter crescere ulteriormente. Accade esattamente l’opposto di ciò che avviene nel ciclismo su strada, in cui ci sono sempre meno corse, sempre meno vocazioni. Non è quindi un caso se da anni il grigionese Nino Schurter è il numero uno al mondo,

Vinci una delle 3 carte regalo da 50 franchi 9 2con il cruciverba 6 una delle carte in regalo da 50 franchi con il sudoku vuoieinizio con 2quelle croato” 5 7

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que un ruolo eccellente, nonostante il movimento cantonale sia nato, quasi per caso, solo 7 anni fa, ai margini dei Mondiali di Champery. In quell’occasione Thomas Frischknecht, ancora lui, cercò di convincere Daniele Zucconi a scendere dalla sella per formare un gruppo di giovani bikers. Detto fatto! In pochi giorni fu allestito un progetto, sottoposto ai dirigenti del VC Monte Tamaro, che non si fecero sfuggire l’opportunità. Nel 2012 Daniele iniziò con un gruppetto di ragazzini. Fra questi c’era, e c’è tuttora Filippo Colombo, un giovane in cui testa, cuore e gambe girano all’unisono. Primo ticinese a laurearsi Campione Svizzero, primo a diventare Campione del Mondo, Filippo è entrato stabilmente nell’élite mondiale. Compirà 21 anni il 20 dicembre. È probabilmente troppo giovane per pensare ai Giochi Olimpici del 2020 a Tokio, tuttavia nel 2026 a Parigi, 42 anni dopo Michela Figini, potrebbe farci fare di nuovo un sogno a cinque cerchi.

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R A R I M I 8 2 U S A N Z E AZIONE - SETTEMBRE 2018 T I E SUDOKU Lsettimana C E PER Soluzione della precedente L’ A FORISMA – «Quando qualcuno giudica il tuo cammino…» Resto della frase: N. 33 FACILE «…PRESTAGLI LE TUE SCARPE». Schema Soluzione

16. Il monte degli dei (N. 36 - ... sul torace prendendosi le spalle con le mani) 18. Scritta sulla croce di Gesù

ORIZZONTALI 1. Domestico d’altri tempi 5. Disposizioni passeggere dell’animo 10. Fu amata da Vasco de Gama 11. Molto magro, asciutto 12. Legge francese 13. Pietra ornamentale 14. Si ripetono nella confusione 15. Succedono per legge 16. Stanno in coda 17. Susseguirsi ininterrotto 18. Raganelle arboree 19. Le iniziali del cantante Leali 20. Termine di diminutivi maschili plurali 21. Componimento poetico 23. Il verso della rana

25. Prefisso che vuol dire al di sotto 26. Contrapposto al dittongo 27. Bocca in latino 1 2 3 4 5 VERTICALI 1. Magazzini per cereali 2. Ninfa, figlia11di Cebreno 3. Colpevoli 4. Le iniziali dell’attore Salemme 13 dopo la pioggia 5. La terra 6. I gatti di casa 7. Incitazione spagnola 16 8. Le iniziali dello Zerbi della tv 9. Piccolo osso alla radice della lingua 11. Da18il nome alla legge di rifrazione19 della luce 13. Hanno l’oro tra le mani... 22 21 15. Il bene nei prefissi

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

24 regalo Migros I premi, cinque carte del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati partecipanti che avranno 26 tra i27 fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblica29 zione del gioco.

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20. Come finisce comincia... 6 - ... 7 8 le tue9 scarpe) 10 (N. prestagli 21.34 Gatto londinese 22. Dea greca dell’aurora 1 2 3 4 5 6 24. Viene in camera dopo me 12

N. 35 DIFFICILE

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Politica e Economia Brexit, fase cruciale Bruxelles sostiene la May mentre i Brexiters vogliono impallinarle il piano dei Chequers in Parlamento, con Boris che cerca il fare il salto di qualità nonostante gli scandali sessuali

Perchè Trump chiude (con) l’Olp L’Amministrazione Usa procede come un carro armato nel suo piano di pace per il Medio Oriente, che non piace ai palestinesi

La scoperta dell’America 1492: prosegue la serie dedicata alle date che hanno influenzato la storia: 5. puntata

Canapa di successo Servono nuove direttive legali per la sperimentazione medica, mentre si diffonde il tipo «light»

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Il primo ministro giapponese Shinzo Abe (al centro) in raccoglimento per le vittime del terremoto di Atsuma. (AFP)

Un monito che viene dal Giappone

Clima Una serie di catastrofi naturali legate al surriscaldamento globale e alla sismicità del territorio ha messo

a dura prova la capacità del governo e della popolazione di reagire Giulia Pompili L’ultima volta che il monte Fuji ha eruttato era il 1707. Da allora il simbolo del Giappone è silente – almeno dagli anni Sessanta, quando è stata registrata attività vulcanica e le scalate verso la sua vetta erano state sospese. Ogni anno infatti, e solo per una finestra di tre mesi, migliaia di giapponesi e di turisti salgono nottetempo fino al punto più alto, a 3.776 metri sul livello del mare, per vedere l’alba, e quindi il Sol Levante, immagine talmente emblematica che è presente perfino sulla bandiera nipponica. Nonostante i trecento anni che ci separano dall’ultima eruzione, il «gigante che dorme» fa ancora paura, soprattutto dopo gli ultimi terremoti di intensità notevole e la pressione del magma interno che aumenta. Per questo qualche giorno fa il governo di Tokyo ha istituito un panel composto da quattordici membri esperti per studiare gli effetti che potrebbe avere l’eruzione del vulcano più famoso del mondo sulla capitale. Nonostante i cento chilometri di distanza da Tokyo, la cenere vulcanica potrebbe fuoriuscire per giorni e costituire un problema di ordine pubblico. Del resto il Giappone è il Paese della riduzione del rischio, della prevenzione e dell’e-

laborazione degli scenari peggiori, soprattutto quando si parla di disastri naturali. Non è una questione di scaramanzia, ma di metodo: il primo passo per convivere in uno dei paesi più colpiti dalle catastrofi naturali è accettarle, secondo un princìpio che nei secoli ha trasformato il Giappone in uno dei paesi più resilienti del mondo. Così, anche il panel sul monte Fuji istituito dal governo non è stato accolto dalla popolazione come l’ennesimo spreco di denaro e di tempo, ma come un utile strumento per la sicurezza pubblica. C’è una ragione, specialmente in queste settimane. Quella appena trascorsa è stata l’estate più difficile per il Giappone sin dal 2011, quando il terremoto e lo tsunami che hanno colpito la regione del Tohoku hanno provocato quasi sedicimila morti e più di duemilacinquecento dispersi. Questa estate, una serie di catastrofi naturali legate ai cambiamenti climatici e alla sismicità del territorio giapponese ha di nuovo messo alla prova la capacità del governo e della popolazione di reagire. Tutto è iniziato il 18 giugno scorso, quando la terra ha tremato a Osaka, un terremoto del sesto grado della scala shindo, la scala d’intensità sismica dell’Agenzia meteorologica giapponese – che è diversa dal-

le nostre, proprio per la specificità del territorio giapponese. Cinque persone sono morte, almeno quattrocento sono rimaste ferite ma soprattutto centinaia di persone hanno dovuto trascorrere settimane nei centri per gli sfollati. Poco dopo, intorno alla fine di giugno, sono arrivate le piogge. Ventitré prefetture, otto milioni di persone coinvolte. Un evento epocale, che ha costretto l’Agenzia giapponese a trattare anche burocraticamente quelle precipitazioni come un «disastro naturale». Era dall’alluvione di Nagasaki del 1982 che la pioggia, con le conseguenti inondazioni e frane, non faceva tanti morti. Fino ai primi giorni di luglio 54 mila membri delle Forze di autodifesa giapponesi hanno portato in salvo le persone nelle aree più colpite, tra le prefetture di Hiroshima, Okayama ed Ehime. Bussando casa per casa, recuperando intere famiglie dai tetti dei palazzi. Ma il problema, secondo il governo, sono gli anziani: in un Paese che invecchia sempre di più, le campagne sono isolate, e intere comunità faticano a trovare nuove generazioni a cui interessi ripopolarle. I vecchi sono soli, spesso non autosufficienti, e gli aiuti del governo attraverso l’assistenza sociale non bastano. La maggior parte delle vittime aveva più di 65 anni, tutti

coloro che non sono riusciti a mettersi in salvo da soli prima dell’arrivo dell’inondazione. Dicono gli esperti il governo di Tokyo deve iniziare a prendere seri provvedimenti: con la temperatura degli oceani in aumento, secondo l’Agenzia meteorologica giapponese l’arcipelago sarà sempre più spesso colpito da precipitazioni eccezionali simili. E la paura, adesso, arriva soprattutto in vista delle Olimpiadi del 2020 che verranno ospitate da Tokyo: nella parte est della città ci sono un milione e cinquecentomila persone che vivono sotto il livello del mare, sul fiume Arakawa. In caso di alluvione si stima che più di duemila persone potrebbero perdere la vita, per un danno economico complessivo di 550 miliardi di dollari. Come nelle peggiori delle piaghe bibliche, dopo le piogge, in Giappone è arrivato il caldo. Tra luglio e agosto in tutto il Paese si sono registrate le temperature più alte sin dal 1945, e il termometro è rimasto per molti giorni oltre i quaranta gradi centigradi. Alla fine il governo di Tokyo ha contato 133 decessi legati all’ondata di caldo. La temperatura dell’aria, secondo gli scienziati, potrebbe essere parte della potenza registrata dal tifone Jebi, che ha raggiunto le coste giapponesi il 4 settembre. La fine dell’estate è tradi-

zionalmente periodo di tifoni, ma da venticinque anni non si vedeva una potenza simile: tetti delle case scoperchiati, vetri in frantumi, undici morti. L’aeroporto internazionale del Kansai, che è costruito su un’isola artificiale nella baia di Osaka, è rimasto isolato per giorni, dopo che una petroliera colpita dalla tempesta ha danneggiato l’unico ponte che collega l’aeroporto alla terraferma. Due giorni dopo, il 6 settembre, un terremoto del grado 6,7 della scala shindo (il cui massimo è 7) ha colpito l’isola più a nord del Giappone, l’Hokkaido. Ad Atsuma, trentasei persone sono state investite da una frana che ha distrutto un intero villaggio. Quarantuno morti. Tenbatsu, si dice in lingua giapponese, un monito del cielo: i disastri naturali di queste settimane hanno cambiato per l’ennesima volta la società giapponese, che era già passata attraverso lo shock del 2011, i morti e la distruzione. La prevenzione del rischio non è mai sufficiente, quando si tratta di disastri naturali. Lo sa bene il primo ministro Shinzo Abe, che tra poco sfiderà Shigeru Ishiba nella corsa alle primarie del Partito liberal democratico. Chi vincerà sarà il prossimo candidato alla presidenza. Il tema della campagna elettorale, a oggi, è quasi esclusivamente la gestione dei disastri.


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Politica e Economia

John Elkann, solo sul proscenio Nomen Omen Il nipote di Gianni Agnelli

dovrà gestire l’eredità di Marchionne Alfio Caruso

Brexit, fase cruciale

Il punto A sette mesi dalla data formale dell’uscita di Londra

dall’Ue e a poche settimane dal vertice che dovrebbe sancire l’intesa euro-britannica, a Londra può ancora accadere di tutto

Cristina Marconi I tempi stringono, e questo potrebbe essere un bene per raggiungere quell’accordo sulla Brexit che secondo il negoziatore capo Michel Barnier è possibile già tra sei settimane, magari nel corso di un vertice a metà novembre, a condizione che tutti siano «realistici». Ma il rapporto con l’Unione europea è l’ultimo dei problemi del Regno Unito, che ancora una volta sta cadendo vittima della faida interna tra euroscettici e europeisti all’interno del partito conservatore: d’altra parte se la lotta fosse meno accanita, non ci sarebbe mai stato nessun referendum sull’uscita dell’Unione europea. E la premier Theresa May, che fino a prima dell’estate era riuscita a sedare le liti, è ora più vulnerabile che mai perché a un certo punto anche a lei, maestra di immobilità politica, è toccato calare le carte e presentare una proposta, quella dei Chequers di luglio, che ha già suscitato una serie di dimissioni di alto profilo prima dell’estate e sulla quale i Tories sono pronti a dare battaglia.

Da un lato i partner europei aprono a un accordo con la May, dall’altro si infittiscono gli ostacoli con i Tory e con l’ultrà Boris La fronda si nasconde dietro un nome seriosissimo, lo European Research Group, che di suo evocherebbe studi ponderosi e articolate proposte alternative alla membership dell’Unione europea e che invece fino ad ora ha prodotto solo trame, complotti e riunioni semi-segrete con un solo punto all’ordine del giorno: come mandare via la May. Il leader è Jacob Rees-Mogg, un deputato che sembra uscito da un libro di P.G. Wodehouse e che ha un certo seguito nella base Tory per via di quella stessa inspiegabile illusione collettiva che fa sì che due persone nate nel privilegio come Nigel Farage e Boris Johnson siano percepiti come vicini al popolo e contro le elites. La loro proposta sull’annoso problema di cosa fare tra Irlanda del Nord e Irlanda una volta che la prima sarà fuori dall’Unione europea è semplice: le cose resteranno uguali a adesso, perché non dovrebbero? Su molti altri punti il livello di

superficialità è lo stesso e questo non significa che i Brexiters non abbiano argomenti in assoluto, ma piuttosto che la loro è una fobia ideologica che non sentono il bisogno di argomentare nel dettaglio. L’11 settembre si sono riuniti per complottare, salvo smentire il giorno dopo di voler un cambio della guardia a Downing Street. L’obiettivo? Tenere la premier sulle spine. Il tema della cacciata della May, che terrà inevitabilmente banco nelle cronache politiche in attesa del congresso Tories che si terrà a Birmingham dal 30 settembre al 3 ottobre, non è solo dovuto alla Brexit, ovviamente. Anzi, alla sua gestione cerchiobottista del dossier più difficile dai tempi della seconda guerra mondiale non è mancata una certa saggezza che anche gli avversari riconoscono: non ha preso decisioni drastiche e in attesa che il Paese mettesse a fuoco la portata di quello che ha votato ha traghettato l’arco politico verso una «soft Brexit», cercando di scongiurare le ipotesi peggiore. Il problema principale della premier è che ci sono altre persone che vogliono la sua scrivania a Downing Street e che Boris Johnson, ex ministro la cui performance al Foreign Office ha suscitato sopracciglia alzate e colpi di tosse, continua ad avere il prestigio della «wild card», dell’asso nella manica, dell’uomo così poco avvezzo a seguire le regole che magari potrebbe riuscire anche a piegare quelle europee. Una fonte citata dal «Times» lo ha descritto come «un figlio dei nostri tempi, un biondo fornicatore populista sul modello di Trump», ed è questo che continua a dargli energia: il presidente statunitense non potrebbe essere più screditato, ma l’economia va bene, e alcuni britannici pensano che lo stesso avverrà da loro, nonostante tutto. Il fatto che solo l’1% dei leader delle grandi aziende sia a favore di una hard Brexit la dice lunga su come la comunità economica e finanziaria viva la prospettiva di nuovi anni di incertezza. Più della metà di loro preferirebbe che il referendum fosse annullato e che tutto rimanesse com’era prima, e così anche una parte crescente della popolazione e soprattuttto degli elettori del partito laburista, ma la May, come David Cameron prima di lei, è costretta a vezzeggiare gli oltranzisti invece di prendere atto apertamente di quello che ha già dimostrato di aver capito benissimo a Chequers, la residenza di campagna dove ha presentato la proposta: la Brexit è un suicidio inutile. Ma per Rees-Mogg la piattaforma, che prevede regole comuni per semplificare i controlli alle

dogane per i beni manifatturieri e agricoli e massima libertà per i servizi, «è una papera morente in una tempesta, se non proprio una papera già morta». Per placare gli animi la May giovedì scorso ha annunciato misure più dure sull’immigrazione, tema che le è caro dai tempi in cui era ministro dell’Interno, con la possibile introduzione di visti per i cittadini europei che vogliono trasferirsi nel Regno Unito e la fine del regime preferenziale nei loro confronti. Se sia sufficiente o meno per evitare che un numero sufficiente di deputati presenti una mozione di sfiducia nei suoi confronti si saprà solo nelle prossime settimane. Secondo un ex sottosegretario, Steve Baker, ci sarebbero 80 deputati pronti ad affossare la piattaforma dei Chequers e tra mille smentite è ovvio che la situazione, a meno di 200 giorni dall’uscita ufficiale dalla Ue, fissata per il 29 marzo 2019, è incandescente. Boris Johnson, la cui vivace vita privata è stata oggetto di titoli e pettegolezzi nell’ultima settimana, dopo l’annuncio del divorzio dalla sua compagna di 25 anni, Marina Wheeler, non ha molto tempo per farsi avanti: la Brexit ha congelato il dibattito politico del Paese sia a destra che a sinistra, ma prima o poi arriverà una nuova generazione di politici e l’ex sindaco di Londra sa che potrebbe non farne parte. Nel partito c’è chi giura che mai e poi mai lavorerebbe con un uomo così infedele, sentimentalmente ma soprattutto politicamente, ma l’aria è così tesa che nulla si può escludere. Dopo che Barnier ha teso la mano alla May indicando la possibilità di un accordo, da Bruxelles ha parlato anche il «poliziotto cattivo» Jean-Claude Juncker, che nel suo discorso sullo Stato dell’Unione ha fatto presente che la trattativa non consiste nel permettere alla premier di scegliere le ciliegie migliori dalla cesta per salvare la propria pelle a Westminster. Chi se ne va non può restare parte del mercato interno, e «senz’altro non delle parti del mercato interno che ha scelto», ha spiegato il presidente della Commissione prima di aggiungere: «Michel Barnier resta pronto a lavorare giorno e notte per raggiungere un accordo. Non sarà la Commissione a mettersi di traverso». Parole dure, che fanno appello al realismo e ricordano che l’Europa non è un menù dal quale scegliere. E la piattaforma dei Chequers, sebbene più responsabile di altre proposte, continua ad essere troppo vantaggiosa per Londra. Anche se, incredibilmente, in città non piace a nessuno.

A quarantadue anni John Philip Jacob Elkann (foto), detto Yaki, conserva fisionomia e capigliatura da putto rinascimentale. Ma dietro quest’aspetto delicato c’è una scorza temprata da oltre vent’anni di prima linea nel ruolo assai esposto di erede designato di un casato, gli Agnelli, che ha segnato il Novecento italiano. Padroni della Fiat e di tanto altro bendidio, dai giornali alle assicurazioni, hanno spesso piegato il Paese alle proprie esigenze dietro il falso slogan che quanto andava bene alla Fiat, andava bene all’Italia. L’unica attenuante lo charme di Gianni, capace per cinquant’anni d’incantare ogni platea, d’inorgoglire e abbindolare con il proprio successo planetario i tanti provinciali pronti a comprare le sue auto e ad accettare che le autostrade si mangiassero le ferrovie. A differenza del nonno, che conferita la presidenza al professor Valletta nel 1946 si dette alla bella vita fino all’età matura, Elkann è stato messo a bottega già a ventun anni. Un’investitura frutto del cancro, che aveva portato via il trentatreenne Giovannino, figlio di Umberto Agnelli e nipote di Gianni, la cui nomina a futuro numero uno doveva servire anche da risarcimento a talune imposizioni esterne subite dal padre; e frutto pure dello straniamento di Edoardo, il primogenito di Gianni, in allontanamento quasi volontario dalla famiglia e dall’azienda. Una trafila assai veloce quella di Elkann, però segnata da scelte traumatiche. La prima e la più dolorosa ha riguardato la rottura totale con la madre Margherita Agnelli. Un mese dopo la morte di Gianni Agnelli, febbraio 2003, era cambiato l’assetto della «Dicembre», la cassaforte dell’impero, fin lì divisa in parti eguali fra la moglie Marella, la figlia Margherita e il nipote John. Secondo le indicazioni del marito, la nonna aveva donato il 25% al nipote che era così salito al 58%. A Margherita erano andati conti correnti, immobili, quadri e sculture per 1200 milioni di euro, ma lei aveva ritenuto di esser stata comunque raggirata. Aveva pubblicamente affermato che il patrimonio del padre fosse molto più consistente e che era suo dovere difendere l’eredità dei cinque figli avuti nel secondo matrimonio. È incominciata una lite giudiziaria, che non ha portato ad alcun risultato, tranne far scoprire che il mitico Avvocato, in realtà dottore in legge, aveva beffato il fisco italiano come nessun altro, prima e dopo, con beni accumulati all’estero per circa un miliardo e mezzo di euro. Elkann mai ha speso in pubblico una parola sul comportamento della madre. D’altronde non si ricorda una sua intervista sul privato, non esistono foto men che rituali e quasi sempre in occasioni ufficiali legate al lavoro. Impossibile trovare immagini dei suoi tre figli. Rarissimi gli scatti con la sorella

Ginevra e quel simpatico matto del fratello, Lapo, benché raccontino di un legame assai profondo. Non lo si incontra ai party, alle feste, ai ricevimenti, dove sfilano i potenti. Ha persino lasciato la presidenza della Juve, una strepitosa cassa di risonanza mediatica, al cugino di secondo grado Andrea, il figlio di Umberto, attualmente l’unico a esibire il cognome del capostipite. Una riservatezza più da Elkann che da Agnelli. Il nonno Jean Paul è stato un rilevante banchiere, industriale, rabbino capo di Parigi, appartenente all’elite ebraica europea al pari della nonna Carla Ovazza, discendente anch’essa da una famiglia di banchieri con la contraddittoria figura dello zio Ettore, amico di Mussolini fino al 1938 (promulgazione delle leggi razziali), animatore financo di un movimento giudaico-fascista, massacrato dai nazisti nel 1943 per impossessarsi dei suoi tesori. Ma se deve al nonno Gianni l’ascesa, Elkann avrebbe conosciuto un futuro ben più gramo senza l’ultima intuizione del prozio Umberto, il minore dei sette figli di Edoardo, che ha funto per una vita da accompagnatore del carismatico fratello Gianni. Le sue ambizioni erano state stoppate, con il beneplacito di Gianni, dal veto di Enrico Cuccia per mezzo secolo dominus attraverso Mediobanca dell’economia e della finanza. Soltanto alla morte di Gianni, e defunto anche Cuccia, Umberto poté ricevere le insegne del comando, nella fase però più critica della Fiat, quando il fallimento pareva inevitabile. Stroncato in meno di un anno da un tumore al polmone, aveva già adocchiato Sergio Marchionne. Lo inserì nel consiglio d’amministrazione e ne caldeggiò l’impiego ai massimi livelli. La cronaca dell’ultimo quindicennio racconta i considerevoli meriti di questo manager: ha salvato la Fiat lanciandola nell’empireo dei grandi marchi automobilistici; ha moltiplicato i proventi della holding, su tutti il marchio Ferrari; ha avuto la capacità di giocare d’anticipo con lampi geniali, il più importante: l’acquisizione della Chrisler con i soldi del contribuente statunitense, per altro restituiti fino all’ultimo centesimo. La sua scomparsa obbliga adesso Elkann ad assumersi ogni responsabilità. Si ritrova da solo sul proscenio, che fin qui è parso non amare molto, a parte alcuni simposi sullo sviluppo dell’informazione, in tutte le sue branche antiche e moderne, e il finanziamento di una scuola d’elite, dove s’insegna a far nascere aziende. La mossa iniziale è stata la nomina del successore di Marchionne, l’inglese Mike Manley: per la prima volta, dopo centoventi anni, l’agglomerato Fiat, ora Fca, non è guidato da un italiano. Un tributo all’internazionalizzazione della holding da chi vive a Torino, dopo aver girato mezzo mondo, e ha fatto nascere i figli nell’ospedale legato da decenni alla generosità degli Agnelli.

Marka

La premier inglese Theresa May con il presidente della Commissione europea JeanClaude Juncker. (AFP)



Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Politica e Economia

Nuova picconata alla pace Medio Oriente W ashington taglia i fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi e chiude la rappresentanza Olp

a Washington perché «estende all’infinito» l’esistenza stessa dei profughi e perché Abu Mazen non accetta il piano Usa Marcella Emiliani L’aveva minacciato fin da gennaio e il 31 agosto, l’ha fatto. Trump ha annunciato che non finanzierà più l’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees), l’agenzia dell’Onu che assiste i rifugiati palestinesi. Ha avuto otto mesi per riflettere sulle conseguenze della sua decisione e si presume che l’abbiano informato sulle conseguenze negative che avrà su milioni di persone in Cisgiordania, Gaza, Giordania, Libano e Siria, ma non è servito a niente. Pur di spingere la leadership dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) ad accettare il suo piano di pace per il conflitto arabo-israeliano, il presidente americano ha tirato dritto per la sua strada, ha progressivamente sospeso l’erogazione di quasi 200 milioni di dollari in aiuti bilaterali ai palestinesi e versato all’Unrwa solo 60 dei 368 milioni di dollari che ancora nel 2016 faceva arrivare nelle sue casse, un terzo dell’intero bilancio dell’organizzazione. Non bastasse, il 10 settembre scorso ha ordinato la chiusura della rappresentanza diplomatica dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) a Washington perché – a suo dire – «Non fa abbastanza per la pace» israelo-palestinese, detto in altre parole perché i palestinesi non hanno accettato il suo piano di pace. In che cosa consiste, allora, il piano di pace ideato dal presidente americano? Il primo passo è stato il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele il 6 dicembre dell’anno scorso che, se ha fatto felici gli israeliani, ha rappresentato un vero e proprio shock per i palestinesi. Il presidente Anp, Abu Mazen, ha avuto una reazione durissima, si è ritirato dal negoziato di pace e soprattutto ha ripudiato qualsiasi futura mediazione americana ritenendo che gli Stati Uniti non siano più gli «onesti mediatori» che avrebbero dovuto essere nella trattativa con Israele. In questo clima, il taglio ai finanziamenti dell’Unrwa non solo non ha spinto i palestinesi a tornare al tavolo negoziale, ma ha confermato Abu Mazen nel suo rifiuto mentre Hamas il 30 marzo scorso ha lanciato dalla Striscia di Gaza la cosiddetta Marcia del ritorno che fino ad oggi ha fatto almeno 166 morti e 18’000 feriti, Marcia che peral-

tro non è ancora terminata. Dal canto suo il presidente dell’Anp si limita a prestare un orecchio distratto alle proposte che gli arrivano dalla squadra incaricata da Trump di portare a buon fine il conflitto israelo-palestinese: suo genero Jared Kushner, nominato consigliere per il Medio Oriente e l’inviato speciale Jason Greenblatt, cui va aggiunto dietro le quinte l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti David Friedman. È così che finalmente si è venuti a conoscenza del contenuto del piano di pace americano che fino ad oggi era rimasto avvolto nelle nebbie delle supposizioni. Lo ha illustrato proprio Abu Mazen agli attivisti dell’organizzazione israeliana Peace Now che ha incontrato il 2 settembre scorso. Il piano consiste sostanzialmente in un’Operazione Lazzaro cioè nel resuscitare un’ipotesi riapparsa più volte come soluzione per por fine al conflitto arabo-israelianopalestinese: la Confederazione giordano-palestinese. Ne hanno discusso allo sfinimento in passato i defunti re Hussein di Giordania e il leader dell’Olp Yasser Arafat, ma non si è mai arrivati a realizzarla soprattutto perché Arafat non intendeva sconfessare, accettandola, il diritto al ritorno in patria dei palestinesi. Quanto ad Abu Mazen, il 2 settembre per fare abortire la proposta, ha «suggerito» agli americani di inserire nella Confederazione anche Israele, essendo più che certo che lo Stato ebraico non accetterà mai questa soluzione. Re Abdullah II di Giordania, dal canto suo, fino ad oggi non ne ha mai voluto sentir parlare. Per i palestinesi, in tutti i casi, il diritto al ritorno resta il punto cardine di qualsiasi negoziato di pace, non ultimo perché il suo corollario naturale è la creazione nella Palestina storica di due Stati, uno israeliano e uno palestinese. Visto nell’ottica dell’attuale premier israeliano, Benjamin Netanyahu e di Trump, la via più breve per affossare l’uno e l’altra è stata proprio tagliare i fondi all’Unrwa. Vediamo perché. Il problema nasce dalla guerra del 1948, quella che scoppiò tra lo Stato ebraico e gli Stati arabi all’indomani della dichiarazione di indipendenza di Israele, il 15 maggio. Israele vinse il primo round del conflitto peraltro ancora in corso, il cui risultato più pe-

noso fu una consistente diaspora palestinese quantificata in circa 700’000 persone che – spinte nei paesi vicini dai combattimenti – non poterono fare ritorno alle proprie case. Sia chiaro che palestinesi e israeliani forniscono cifre e cause del tutto diverse per la diaspora palestinese: i primi parlano di un milione e mezzo di persone «cacciate dalla Palestina storica», i secondi di 350’000 «dislocate dal conflitto». La cifra di 700’000 è quella ufficializzata, appunto, dall’Unrwa che venne creata appositamente dall’Onu l’8 dicembre del 1949 proprio per assistere solo e soltanto i palestinesi fuoriusciti. Del loro futuro in prima istanza si era già occupato l’articolo 11 della risoluzione n. 194 dell’11 dicembre 1948, che sanciva il diritto al ritorno di quelli che allora venivano ancora definiti «profughi palestinesi». A chiarire cosa si intendesse per rifugiato intervenne nel 1951 la Convenzione di Ginevra per la quale il rifugiato è una persona fuggita da casa che non potendo o non volendo tornare in patria per timore di essere perseguitato «per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche», ha bisogno di trovare aiuto e protezione in altri Stati e tale aiuto e protezione li chiede. Profugo, invece, è chi, essendo fuggito dal proprio paese per le più diverse cala-

Usa C rescita cinese e terrorismo pakistano i temi affrontati in India

Alcuni quotidiani indiani, all’indomani della visita del Segretario di Stato americano Mike Pompeo (foto) e del Segretario alla Difesa John Mattis hanno entusiasticamente titolato che: «L’India entra nella Nato». Sottolineando con un titolo a effetto la firma di un trattato definito una pietra miliare nei rapporti tra Washington e New Delhi. Si tratta del Communications Compatibility and Security Agreement, per brevità Comcasa: un accordo che gli Stati Uniti hanno firmato con una trentina di paesi in tutto il mondo e che garantisce tutta una serie di benefici in termini di condivisione di informazioni militari e di intelligence e di difesa. Garantisce inoltre all’India, e da qui i titoli dei quotidiani, l’accesso a un sistema di comunicazione militare che si chiama Link 16 e che è stato concepito in origine per i paesi facenti parte della Nato. Nel passato recente la Corea del Sud ha ottenuto accesso al Link 16, e adesso l’India. Pompeo ha dichiarato che «È cominciata una

nuova epoca per le relazioni tra India e Stati Uniti». D’altra parte, già da qualche anno, a livello strategico le relazioni tra i due Paesi hanno subìto un deciso cambio di rotta rispetto al passato: cambio di rotta inaugurato dalla firma del trattato sul nucleare a opera di Manmohan Singh, e proseguito poi negli anni con la firma di una serie di trattati in materia di Difesa e di trattati commerciali tanto che, al momento, gli Stati Uniti sono il

mune preoccupazione per le aggressive strategie espansionistiche cinesi in tutta l’area geopolitica: la cosiddetta nuova Via della Seta, l’Obor, considerata da molti il moderno avatar dell’antica east India Company, e in particolare il Cpec, il China Pakistan Economic Corridor, ma non solo. Nell’equazione entra anche la strategia cinese nel South China Sea e, dulcis in fundo, la preoccupazione condivisa tra India e Stati Uniti per il terrorismo di matrice pakistana. In effetti, prima di arrivare a Delhi, Pompeo si è fermato, per cinque ore appena, a Islamabad dove ha incontrato il neoeletto primo ministro Imran Khan, un paio di ministri del governo e i generali a capo delle Forze Armate e dei servizi segreti considerati dai più, in Pakistan, i veri governanti del paese. La visita, al netto delle dichiarazioni di circostanza rilasciate da entrambe le parti, non è stata esattamente amichevole. Arrivava subito dopo l’annuncio che Washington ha sospeso 300 milioni di aiuti militari al Pakistan e dopo l’ormai famosa inclusione del paese nella grey list dell’Fatf avvenuta a giugno. Gli americani cercano di costringere il Pakistan a smetterla di fornire protezione e supporto ai talebani afghani, con cui sono state di recente intavolate trattative dirette a Doha. La questione del terrorismo e, in partico-

lare, dell’Afghanistan, è scottante e resa ancora più delicata dalla vittoria alle elezioni di Imran Khan. Imran è stato soprannominato in patria «Taliban Khan» per le sue posizioni estremiste. È un sostenitore dichiarato della giustizia tribale dei talebani, e da anni attribuisce agli americani, e ai bombardamenti con i drone, la colpa dell’avvento del terrorismo in Pakistan. Dopo la visita di Pompeo, e mentre il Segretario di Stato firmava i trattati a Delhi, Imran Khan dichiarava che: «Il Pakistan non combatterà mai più le guerre di qualcun altro», con chiaro riferimento all’Afghanistan e alla solita narrativa pakistana. Islamabad, secondo i suoi governanti, è vittima del terrorismo, degli americani e di tutto il resto del mondo. Un’adolescenza prolungata, per essere clementi. Che non riesce a uscire dalle usurate strategie dei doppi giochi, del terrorismo usato come principale mezzo di politica estera, da una concezione ormai vecchia dell’ordine mondiale. E il fatto che al governo sia stato mandato un sostenitore dell’esercito, dei talebani e di jihadi vari non promette per niente bene. L’India è ormai entrata a far parte del resto del mondo, mentre il Pakistan sembra, come la mitica Brigadoon, allontanarsi sempre più dentro alle nebbie del passato.

A Gaza protesta palestinese contro la decisione Usa di tagliare i fondi Onu. (AFP)

Pompeo in Asia del Sud Francesca Marino

mità (dalla guerra alla carestia) non è nemmeno o non è ancora in grado di chiedere la protezione internazionale. Detto in parole povere il rifugiato gode di uno status legale internazionale, il profugo no. Dei rifugiati in generale dal 1950 si occupa l’Unhcr, United Nations High Commissioner for Refugees, che si adopera per farli tornare in patria o integrarli nel paese in cui hanno ricevuto asilo o in un paese terzo. In questi casi, i rifugiati perdono il loro status, legalmente cioè non sono più rifugiati. Quelli palestinesi invece possono trasmettere lo status di rifugiato ai loro discendenti in virtù del diritto al ritorno in patria che è stato loro riconosciuto – come dicevamo – dalla risoluzione n. 194 del 1948. Quella dell’Unrwa doveva essere una soluzione provvisoria e invece l’agenzia opera ormai da 70 anni ed è la «cosa» più vicina ad uno Stato-ombra che i palestinesi abbiano mai avuto. Oggi assiste non solo quanti sono ancora in vita dei rifugiati del 1948 (da 30’000 a 50’000), ma anche i sopravvissuti dei rifugiati della guerra dei Sei giorni del 1967 (da 280’000 a 325’000), più tutti i loro discendenti che sono almeno 4’950’000 per un totale di 5’149’742 persone (dati del 2015) raccolte nei campi di Gaza, Cisgiordania, Giordania, Libano e Siria. Assistere significa fornire ai palestinesi scuole

di ogni ordine e grado, ospedali fissi e mobili, lavoro e cibo in caso di carestia o grave penuria alimentare come spesso si è verificato nella Striscia di Gaza bloccata da Israele. Secondo gli Usa e Israele, degli oltre 5 milioni di assistiti dall’Unrwa, solo una parte è realmente costituita da rifugiati. Non si può cioè essere considerati rifugiati per decenni perché lo status di rifugiato dovrebbe essere di per sé temporaneo. Quello che nel caso dei palestinesi lo protrae nel tempo è proprio il diritto al ritorno che viene ereditato di padre in figlio. A riprova che lo status di rifugiato viene considerato come frutto di un’emergenza temporanea c’è inoltre il fatto che nessun paese arabo ha mai integrato i palestinesi fuggiti dal conflitto in Palestina. Con l’unica eccezione della Giordania, non hanno concesso loro la cittadinanza «per evitare la dissoluzione della loro identità e proteggere al tempo stesso il loro diritto al ritorno in patria» e in pratica li hanno rinchiusi in campi sovraffollati, impedendo loro di lavorare al di fuori, perché li hanno sempre temuti economicamente e politicamente. Il tentativo di rovesciare il trono giordano nel 1970 da parte di organizzazioni estremiste palestinesi e lo scoppio della guerra civile in Libano nel 1975 rappresentano due esempi eclatanti delle conseguenze nefaste dell’instaurazione da parte palestinese di uno «Stato nello Stato» in entrambi i paesi. Ma auto-proclamarsi sostenitori della causa palestinese ha legittimato molti raïs mediorientali a consolidare le proprie dittature e a dichiarare guerra a Israele con l’unico scopo di garantirsi la leadership del mondo arabo e convincere i rifugiati palestinesi che solo una sconfitta militare dello Stato ebraico avrebbe garantito davvero il loro diritto al ritorno in patria. Per quel che riguarda Israele non è un mistero che l’attuale governo consideri la Giordania come la patria «naturale» dei palestinesi e molti dei suoi ministri sarebbero felici di trasferirceli tutti. È altrettanto vero però che Israele non accetterà mai di essere «invaso» da 5 milioni di palestinesi come in teoria preconizza il loro diritto al ritorno. Quello demografico è uno dei dossier più delicati della politica israeliana strettamente interconnesso com’è al problema della sicurezza.

secondo fornitore di armi al Paese. Non che tra Washington e Delhi sia sempre filato tutto liscio: gli interessi statunitensi non sempre coincidono con quelli indiani, e nei mesi scorsi si sono rilevate alcune frizioni di rilievo. L’India ha forti interessi in Iran, nel porto di Chabahar anzitutto. Dipende in modo sostanziale dal greggio iraniano, e non ha alcuna intenzioni di seguire gli Stati Uniti nel rinnovo delle sanzioni contro Teheran. New Delhi ha inoltre ordinato a Mosca un sistema di difesa missilistico chiamato S-400, nonostante le sanzioni americane sugli acquisti di armi dalla Russia. A questo proposito Pompeo ha dichiarato che: «Gli Stati Uniti capiscono la storia dei rapporti tra l’India e la Russia...Non abbiamo intenzione di penalizzare un partner strategico di grande rilievo come l’India» e, a quanto pare, gli americani stanno lavorando a una specie di «dispensa presidenziale» che consenta a New Delhi di comprare armi e greggio senza violare le sanzioni americane. A fare da collante, difatti, sono motivazioni più stringenti. Come la co-


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Politica e Economia

Conquistadores e conquistati Le date che hanno influenzato la storia – 5. La scoperta

dell’America, nel 1492, da parte di Cristoforo Colombo e la successiva colonizzazione europea hanno cambiato il mondo. Il loro e il nostro Federico Rampini Anno 1492. La presunta «scoperta» dell’America. Cioè l’arrivo di uno di noi. Il navigatore genovese Cristoforo Colombo ci approda per sbaglio. In realtà voleva scoprire una rotta nuova, più corta e più economica, per trasportare merci dall’Europa all’India. Anzi, alle Indie orientali, come si diceva a quell’epoca: una definizione che includeva India, Indonesia, Giappone. Già a quei tempi noi europei compravamo tanto dai cinesi e dagli indiani, per esempio spezie e tessuti pregiati. I cinesi da noi volevano quasi una cosa sola: l’argento. Per arrivare fino a casa loro usando le navi, bisognava circumnavigare tutta l’Africa come fece il portoghese Bartolomeo Dias nel 1488 superando il Capo di Buona Speranza. Era un viaggio lungo, pericoloso, costoso. Colombo – grazie ai libri di Gutenberg! – era convinto che la terra fosse rotonda (cosa che era già abbastanza assodata ma non tutti avevano capito). La credeva molto più piccola. Per la verità aveva letto anche dei libri sbagliati (fake news?) e s’immaginava un globo a forma di pera… Il genovese s’illudeva che partire dall’Europa puntando a Occidente lo avrebbe portato in India più velocemente. Non

immaginava che in mezzo ci fosse un altro continente. Partì con tre caravelle: la Nina, la Pinta, la Santa Maria. Quando avvistarono una terra, non era quella che oggi intendiamo quando usiamo la parola America (spesso ci riferiamo agli Stati Uniti). Erano approdati nelle isole dei Caraibi, in un mare che sta fra gli Stati Uniti, il Messico, il Venezuela. Le prime isole toccate da Colombo oggi si chiamano Bahamas. Poi sbarcò a Hispaniola (oggi l’isola divisa tra Haiti e Repubblica Dominicana). I primi abitanti che incontrò erano per lo più dell’etnìa Taino, che lui chiamò indiani perché convinto di essere nelle Indie. Anche chi ha viaggiato, ha letto tanti libri, e crede di sapere molto sull’America, spesso pensa che gli indiani fossero pochi e primitivi. Se è così, l’America era un continente quasi vuoto. E gli abitanti non potevano certo resistere di fronte all’arrivo di popoli numerosi e «moderni» venuti dall’Europa. La realtà è ben diversa. Le Americhe – il plurale è consigliabile perché l’America del Nord, quella centrale e quella del Sud hanno storie diverse – furono «scoperte» diecimila, forse ventimila anni fa o anche prima. I veri pionieri vennero quasi certamente dall’Asia. È probabile che i primi siano venuti dall’estremo

Nord, in un’epoca in cui le terre dell’Alaska e della Siberia asiatica erano quasi attaccate oppure unite da ghiacci. Quei primi abitanti all’inizio erano nomadi, vivevano di caccia e di pesca. Poi inventarono l’agricoltura e divennero sedentari, proprio come gli abitanti del Medio Oriente (Mesopotamia) dei quali noi siamo i diretti discendenti. Si formarono delle civiltà importanti, soprattutto nell’America meridionale (gli Inca dell’odierno Perù) e in quella centrale (Zapotechi, Olmechi, Toltechi, Aztechi e Maya nelle zone che oggi sono Messico, Guatemala, Honduras). Anche nell’America settentrionale, lungi dall’essere solo nomadi, i nativi ebbero delle civiltà sedentarie e organizzate come ad esempio il conglomerato urbano Tsenacomoco dei Powhatan, situato dove oggi c’è lo Stato Usa della Virginia. Le cosiddette civiltà «pre-colombiane» hanno avuto delle storie lunghissime e importanti. Un esempio di quanto fossero avanzate: padroneggiavano la matematica e l’astronomia, a volte meglio dei popoli europei a loro contemporanei. È probabile che abbiano «inventato» il numero zero, indice di un pensiero raffinato, astratto. Un luogo comune diffuso tra noi, descrive gli «scopritori» europei come

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Il sale delle Alpi svizzere.

Sbarco di Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo, (1594), incisione di T.de Bry. (AFP)

dei guerrieri formidabili in confronto agli indiani. I nostri usavano le armi da fuoco, i primi fucili, mentre gli indiani combattevano con archi, frecce, pugnali. Dunque era inevitabile che vincessimo noi europei? In realtà i fucili di quell’epoca (moschetti) erano armi rozze, spesso facevano cilecca, la precisione di tiro era scarsa. Se spaventavano gli indiani era soprattutto a causa del rumore e del fumo. Gli archi e le frecce, se maneggiati da guerrieri esperti, avevano una gittata più lunga e una precisione superiore. Ancora nel XVI secolo, nel primo incontro tra i cosiddetti Padri Pellegrini – coloni venuti dall’Inghilterra – e gli indiani, questi ultimi erano più alti, più robusti e meglio nutriti dei bianchi. Poiché la salute è un indicatore di benessere, erano loro il popolo ricco. Il paesaggio americano, lungi dall’essere quella natura incontaminata che immaginiamo, era segnato da millenni di gestione dell’ecosistema (foreste, praterie, fiumi e laghi, zone coltivate e aree per la caccia) da parte dei nativi, la cui agricoltura manteneva probabilmente decine di milioni di abitanti. Le tende indiane come tenuta stagna e calore interno, proteggevano dalla pioggia dalla neve e dal gelo meglio di tante case inglesi dell’epoca. I Padri Pellegrini stavano per morire di fame e furono salvati dalla generosità di quegli indiani: a questo episodio risale la festa del Ringraziamento, Thanksgiving, che è rimasta tra le più importanti nel calendario degli Stati Uniti. Allora perché l’America è stata a poco a poco invasa e colonizzata dagli europei? La causa decisiva della vittoria europea potremmo chiamarla, con un termine moderno, la «guerra batteriologica». Colombo e i suoi successori la fecero senza saperlo. In Europa esistevano malattie che potevano essere mortali a quei tempi: si moriva di vaiolo, malaria, epatite, perfino di morbillo. Però chi non moriva – la maggioranza – sviluppava delle immunità naturali, anche prima che venissero scoperti i vaccini. Le stesse malattie non esistevano in America. I primi esploratori, conquistatori, colonizzatori arrivati dall’Europa erano spesso portatori – magari portatori sani, senza saperlo – dei germi del vaiolo, dell’epatite, del morbillo. Oppure trasportavano i vettori delle malattie europee sotto forma di animali o insetti o piante nelle stive delle loro navi. Contagiavano gli indiani, che non avevano protezioni immunitarie, non avevano resistenze naturali, non riuscivano a produrre anticorpi. Una malattia grave come il vaiolo in un’epidemia in Europa poteva uccidere il 10% della popolazione (che è già tanto); quando si trasmetteva a una popolazione indiana poteva arrivare a sterminarne il 90%. Questo spiega anche la falsa convinzione che l’America fosse quasi deserta, disabitata. In realtà alcune zone d’America nella fase del massimo splendore delle civiltà pre-colombiane avevano avuto forse più abitanti dell’Europa. L’ecatombe delle epidemie ne fece sparire la maggioranza. Limitarsi a raccontare le nostre conquiste, ignora l’altra metà: «scoprendo» le Americhe, noi fummo anche conquistati. Dalle loro piante, dal loro cibo, dal loro tabacco, dalle loro malattie. Lo scambio di sementi e di germi non fu a senso unico. La manipolazione genetica avvenne su vastissima scala, per lo più inconsapevole,

con risultati imprevisti da ambo i lati. Una tecnologia dove i nativi americani non erano affatto arretrati, era l’agricoltura. Furono capaci di «addomesticare» un cereale molto nutriente, che non a caso ha conquistato il mondo intero: il mais, che noi italiani chiamiamo anche granoturco. L’elenco degli alimenti che noi europei abbiamo importato dalle civiltà pre-colombiane, è molto lungo, dal pomodoro alla patata al cioccolato. C’è pure il tabacco che è una storia a parte, e non delle minori. Tra le malattie che ci hanno contagiato: la sifilide, e un flagello vegetale che è la peronospera della patata (indirettamente fece stragi di umani: vedi la grande carestia delle patate nell’Irlanda dell’Ottocento). Questa è l’altra metà della «scoperta dell’America», dove i colonizzatori furono colonizzati. È quello che è stato chiamato lo Scambio Colombiano, uno degli effetti più durevoli dello sbarco a Hispaniola nel 1492 e 1493. Tra i miei autori preferiti su questi temi ci sono Jared Diamond (Armi acciaio e malattie), Charles C. Mann (1493. Pomodori, tabacco e batteri). 250’000 anni fa i continenti erano quasi completamente attaccati fra loro, le terre emerse formavano un’entità unica che è stata chiamata Pangea. Poi delle forze geologiche hanno smembrato quell’insieme. Con la deriva dei continenti hanno cominciato a prendere forma l’Eurasia e le Americhe. La loro separazione è durata abbastanza a lungo da dare origine a biosfere quasi totalmente separate e non comunicanti, con specie di piante e di animali (compresi i piccolissimi organismi viventi come i germi) che esistevano in un continente ma non nell’altro. Separati dagli oceani, questi ecosistemi ebbero pochissimi scambi tra di loro, per lunga parte della storia umana. I viaggi di Colombo e poi dei suoi emuli, seguiti dai conquistadores, per gli studiosi di scienze naturali «ricostruirono Pangea», riunificarono le biosfere separate. È una trasformazione di tale importanza, che i biologi la considerano la più importante svolta nella storia della vita terrestre dopo l’estinzione dei dinosauri. Molto più delle storie di re e regine, papi e chiese, generali e battaglie, questa trasformazione epocale ha generato il mondo moderno quale lo conosciamo. È stata definita lo Scambio Colombiano. Accade un cortocircuito tremendo all’interno dello Scambio Colombiano, che apre un capitolo totalmente nuovo. Le malattie importate dagli europei stanno sterminando le popolazioni indigene. Manca manodopera. Per i nuovi business trainanti, le piantagioni di tabacco e canna da zucchero, spunta la soluzione dello schiavismo. Tra il XVI secolo e il 1840, quasi dodici milioni di africani sono stati portati nelle Americhe in stato di schiavitù. La dimensione imponente della tratta dei neri fa sì che per un bel pezzo di storia le Americhe vengono «africanizzate» molto più di quanto vengano «europeizzate». È solo nel boom industriale dell’Ottocento che soprattutto l’America settentrionale comincerà a importare grandi masse di lavoratori immigrati dall’Europa. È a causa dell’immigrazione ottocentesca che l’America diventa più bianca, e la nostra memoria storica si appiattisce su quell’episodio più recente, facendoci dimenticare tutta la storia indo-africana o afro-indiana precedente.


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Politica e Economia Una coltivazione di canapa light, della ditta BIOCAN SA, a Bassersdorf: il consumo di questa variante sta esplodendo. (Keystone)

Dove va a finire la plastica usata in Svizzera?

Ambiente Siamo tra i paesi più virtuosi nel

combattere l’inquinamento. Tuttavia anche una parte della nostra plastica finisce in mare portata dal Reno Ignazio Bonoli

Segnali di fumo, alla canapa

Politica delle droghe leggere Presentata una modifica della legge

sugli stupefacenti per permettere lo svolgimento di sperimentazioni scientifiche nelle maggiori città svizzere. Il Consiglio federale vuole anche facilitare l’accesso alla canapa a scopo medico. Intanto, la marijuana light registra un grande successo Luca Beti La legge federale sugli stupefacenti vieta la coltivazione, l’importazione, la fabbricazione o la messa in commercio della canapa e prevede pene detentive sino a tre anni. Eppure non si può certo parlare di mercato nero in difficoltà. Stando all’Ufficio federale di polizia Fedpol, all’anno vengono vendute e consumate circa 60 tonnellate di canapa. La maggior parte, dal 50 al 75 per cento, viene prodotta in Svizzera. È un business che vale 600 milioni di franchi all’anno, prendendo come base di calcolo il prezzo di mercato di 10 franchi per grammo di «erba». E i clienti certo non mancano. Secondo le stime, oltre 200 000 persone fumano regolarmente marijuana. Un numero che non diminuisce, nonostante i divieti e la repressione. Nel 2017 si sono registrate più di 17mila multe per violazione della legge sugli stupefacenti. Un mercato illegale florido e prospero, quindi, a cui sono confrontate soprattutto le grandi città. Per questo motivo, Zurigo, Basilea, Ginevra e Berna hanno creato un gruppo di lavoro per trovare assieme, nell’ambito di studi pilota, possibili soluzioni al problema. Per ora, però, la legge sugli stupefacenti non permette simili sperimentazioni poiché vieta la vendita in farmacia della canapa senza ricetta medica. E così, nel novembre scorso, la città di Berna si è vista rifiutare la domanda di svolgere uno studio scientifico approvato dalla commissione di etica del cantone e sostenuto con un importo di 720mila franchi dal Fondo nazionale per la ricerca scientifica. Il Centro di studi clinici dell’Università di Berna intende permettere a un campione di 500 consumatori di lunga data, maggiorenni e residenti nella città abbracciata dall’Aare di acquistare in farmacia 15 grammi di canapa al mese e di fumarsela senza rischiare multe o la confisca. Un sogno andato in fumo, non solo per i circa 4000 consumatori della capitale, ma anche per i ricercatori che volevano verificare gli effetti della vendita legale di canapa sui consumatori, sulla società e sul mercato illegale. Come detto, l’attuale legislazione non permette simili studi scientifici. E proprio per andare incontro alla necessità di analizzare scientificamente nuovi modelli e strategie di regolamentazione, il Consiglio federale ha posto in consultazione un articolo sulle spe-

rimentazioni. La procedura, a cui partecipano cantoni, partiti, associazioni mantello e cerchie interessate, si concluderà alla fine di ottobre. Grazie a questi progetti di ricerca sul consumo di canapa a scopo ricreativo, il governo si augura di ottenere degli elementi nuovi volti a favorire un dibattito oggettivo intorno alla politica delle droghe e a creare la base per future modifiche della legge sugli stupefacenti. Un passo avanti di Alain Berset promosso da cinque mozioni parlamentari e da un’iniziativa della Commissione della sicurezza sociale e della sanità del Consiglio nazionale, atti inoltrati a seguito del rifiuto al progetto bernese. Ma c’è già chi vede nell’articolo sulle sperimentazioni un tentativo di liberalizzare o legalizzare la canapa, di by-passare la volontà popolare. Infatti, dieci anni fa, nel novembre 2008, il popolo aveva bocciato un’iniziativa a favore della sua depenalizzazione. Un vento di fronda che si è sentito anche durante l’ultima sessione estiva del parlamento federale, dove la Camera del popolo ha bocciato una mozione volta proprio all’introduzione di un simile articolo nella legge sugli stupefacenti. Il Consiglio nazionale non ne ha voluto sapere, anche se per soli tre voti di scarto, e nonostante le rassicurazioni del ministro della sanità Alain Berset secondo cui «non si tratta di depenalizzare la cannabis, ma di offrire la possibilità di realizzare degli studi scientifici limitati nel tempo». Se da una parte c’è chi fuma per piacere, dall’altra c’è chi nella marijuana ha trovato una preziosa alleata. Nel 2017, la canapa è stata prescritta a scopo terapeutico a circa 3000 pazienti in Svizzera; sono malati terminali o persone anziane, affetti da patologie incurabili come la sclerosi a placche o il cancro. Infatti, la canapa medicinale sa alleviare dolori cronici dove altri farmaci o trattamenti hanno fallito. Anche se l’efficacia dei preparati alla canapa non è ancora scientificamente comprovata, un numero sempre maggiore di medici la prescrivono e di malati vi fanno ricorso. Ma la legge non fa distinzione tra canapa per uso medico o a scopo ricreativo e quindi per ogni trattamento è necessaria un’autorizzazione eccezionale dell’Ufficio federale della sanità pubblica; una procedura lunga che ritarda la terapia. Per questo motivo, molti pazienti – secondo le stime sono più di quelli con l’autoriz-

zazione – si procurano illegalmente la marijuana. Il Consiglio federale intende quindi allentare la prassi per facilitare l’accesso alla canapa per uso medico e ha chiesto al Dipartimento federale dell’interno di adeguare la legislazione in tal senso e di elaborare un progetto di legge da mettere in consultazione entro l’estate 2019. In Svizzera ad avere il vento in poppa non è solo il mercato nero della canapa, bensì anche quello legale. Dal 2011 è infatti possibile coltivare oltre alla canapa industriale per la produzione di oli o fibre, anche altre specie con un tasso di THC, il principio attivo della pianta, inferiore all’uno per cento. Se inizialmente questo cambiamento della legge sugli stupefacenti è passato quasi inosservato, di recente ha causato un vero e proprio boom. In tre anni la superficie di terreno impiegata per la coltivazione di canapa legale è quadruplicata, passando da 6 a 24 ettari, un’area grande quanto 30 campi di calcio. Altri dati forniti dall’Amministrazione federale delle dogane illustrano bene il fenomeno: a inizio 2017 erano registrati cinque produttori, dodici mesi dopo erano 490 e ora sono circa 630. E dall’estate 2016, dopo il via libera dell’Ufficio federale della sanità pubblica alla vendita di prodotti della canapa con una bassa percentuale di THC, sono spuntati, come negli anni Novanta, i cosiddetti canapai: sono negozi, edicole, shop online e distributori automatici che propongono la marijuana «light» sotto forma di infiorescenze, sigarette preconfezionate o estratti. Ma anche alcuni distributori al dettaglio hanno fiutato l’affare e nei loro scaffali si trovano pacchetti di sigarette alla canapa. Un’industria che produce utili stimati sui 100 milioni di franchi all’anno. E quello della vendita dei prodotti della canapa con un basso tenore di THC è un affare anche per le casse statali. Nel 2017, grazie all’imposta sul tabacco la Confederazione ha registrato 13 milioni di franchi di entrate non preventivate per la vendita di sigarette alla canapa e nel 2018 i milioni dovrebbero essere 15. Un boom, quello della vendita della marijuana «light», che ha avuto forse il merito di risvegliare il sonnacchioso dibattito intorno al consumo della canapa. La politica dovrà presto dare una risposta sulla questione delle sperimentazioni scientifiche nelle maggiori città svizzere e del consumo per uso medico.

Forse non ci rendiamo ancora conto dei danni che la plastica sta provocando all’ambiente a livello mondiale. I media se ne stanno occupando con regolarità, e anche le autorità prendono qualche provvedimento per limitarne il consumo. In Svizzera siamo generalmente ben attrezzati per il trattamento dei rifiuti, ma per quanto riguarda la plastica, riusciamo a eliminare solo il 30% di quello che produciamo e usiamo. Secondo una recente statistica, ogni abitante in Svizzera consuma non meno di 90 chilogrammi di plastica all’anno. Ovviamente non si tratta di un consumo diretto di plastica come nutrimento alimentare, ma di un consumo «indiretto» della plastica usata o contenuta in molti oggetti di uso quotidiano. Così 4,5 kg vanno a finire negli apparecchi elettronici di uso quotidiano: telefono, computer, televisore, ecc.; 22,5 kg vengono utilizzati nelle costruzioni, ad esempio come protezioni, tubi e altro. Altri 22 kg in oggetti di largo impiego come giocattoli, attrezzi, abiti sportivi o altri. 33 kg vengono utilizzati per gli imballaggi. Qui è però necessaria una parentesi: se il sacchetto per la spesa viene utilizzato più volte o viene eliminato correttamente, il danno è limitato, anche perché utilizza meno acqua di un tessuto, per esempio come il cotone. In realtà però l’uso molteplice di imballaggi di plastica è molto limitato. Altri 8 kg del nostro consumo annuale di plastica sono contenuti nei mezzi di trasporto che utilizziamo, comprese le gomme delle auto. Infine, 600 grammi vengono aggiunti da particelle che si staccano dai prodotti di plastica e finiscono generalmente in acqua. Ma sono proprio queste particelle, aggiunte ai sacchi o alle bottiglie di PET distrattamente dimenticati o buttati, che vanno a formare la montagna di plastica che finisce nel mare. Per valutare l’impatto che anche un paese di soli 8,5 milioni di abitanti può avere sul nostro pianeta, un gruppo di ricercatori ha pubblicato un’interessante analisi in un supplemento del venerdì della «Neue Zürcher Zeitung». Con una significativa illustrazione grafica, lo studio segue il «viaggio» della plastica svizzera fino al Mare del Nord, valutandone, di passaggio in passaggio, i quantitativi. All’inizio, i quantitativi di plastica che partono dalla Svizzera sono dovuti in misura del 37% a imballaggi, del 9% ad automezzi, del 5% all’elettronica,

del 25% alla costruzione e del 24% ad altre fonti. Di questi, ben il 99,3% viene eliminato correttamente. Tuttavia ben 500’000 particelle di plastica per chilometro-quadrato finiscono nei laghi svizzeri e nel Reno. L’89,1 per cento viene bruciato mentre il 10,2% viene riciclato. Quanto va a finire nell’acqua proviene per il 53,8% da imballaggi e simili, per l’11,6% da tessuti sintetici, per il 32% dal consumo di gomme e dell’asfalto delle strade, per l’1,3% dalla lacca di protezione dei natanti, per lo 0,3% da micro-pellets e per lo 0,6% da cosmetici. I punti più inquinati da microplastiche in Svizzera sono il lago Lemano e il lago Maggiore, con 220’000 particelle per chilometro-quadrato. Gli altri laghi svizzeri e perfino il Reno, nel tratto svizzero, sono meno inquinati. Il tratto di maggior inquinamento del fiume che nasce in Svizzera si situa fra Düsseldorf e Rotterdam, ma i grandi quantitativi di plastica iniziano poco dopo Colonia. Il maggior inquinamento inizia subito dopo Duisburg e raggiunge i 2,9 milioni di particelle per chilometroquadrato. La quantità diminuisce verso la foce, poiché il Reno rallenta la sua corsa e molta plastica viene depositata sul fondo e sulle rive. Per finire, giungono nel Mare del Nord, dal Reno, 100 chilogrammi di plastica al giorno. Comunque il Reno è molto meno inquinato rispetto ad altri grandi fiumi. Il Danubio porta per esempio 1000 chilogrammi al giorno, mentre lo Yangtse, in Cina, giunge perfino a 10 milioni di chilogrammi al giorno! Ci si chiede dove vada poi a finire tutta questa plastica che arriva al mare. Una cartina a livello mondiale mostra che il maggior inquinamento dei mari avviene laddove c’è anche una forte presenza di popolazione e di attività economiche. In Europa, nel Mediterraneo, nel Sudest asiatico. Tuttavia il vento e le correnti trasportano questa plastica anche molto lontano. Lo si vede nell’Atlantico e nel Pacifico. Solo le zone artiche ne sono risparmiate, così come parte delle zone equatoriali, anche se non completamente. Ma la plastica proveniente dai fiumi come il Reno è solo una parte del problema dell’inquinamento dei mari: da 0,79 a 1,25 milioni di tonnellate, mentre il totale di plastica in mare viene valutato a livello mondiale tra i 4,8 e i 12,7 milioni di tonnellate. Ne soffrono moltissimo i pesci e anche altri animali marini. In sostanza, già oggi, attraverso i pesci, rischiamo così di mangiare i nostri propri rifiuti.

La foce del Reno a Rotterdam: il fiume porta 100 kg di plastica al giorno nel Mare del Nord; il Danubio per contro ne porta 1000 kg al giorno. (Keystone)


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Politica e Economia

Acquistare ora azioni dei mercati emergenti? La consulenza della Banca Migros Thomas Pentsy

I mercati emergenti sono una classe di asset molto volatile 100.0 80.0 60.0 40.0 20.0 0.0

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Performance annuale MSCI Emerging Markets in %

scoraggiano la propensione al rischio degli investitori internazionali. Potremmo quindi non esserci ancora lasciati alle spalle questo momento di calo. Le azioni EmMa sono tuttavia una classe di asset molto eterogenea. I giovani mercati di crescita sono composti da Paesi

molto diversi fra loro con dati di base e valutazioni differenti. A lungo termine, i titoli EmMa sono un arricchimento e completano ogni portafoglio ampiamente diversificato. Questa categoria di titoli è decisamente più soggetta alle oscillazioni rispetto alle azioni statu-

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Fonte: Bloomberg (al 3 settembre 2018)

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Thomas Pentsy è analista di mercato e dei prodotti presso la Banca Migros

Il mondo della borsa capovolto: euforia negli Stati Uniti, malumore sui mercati emergenti (EmMa). L’indice S&P 500 specula al rialzo da quasi dieci anni. La tendenza verso l’alto è il più lungo bull market nella storia della borsa statunitense. Allo stesso tempo, i mercati emergenti si trovano quest’anno sull’orlo di un bear market. Un mercato ribassista si innesca quando i corsi crollano di almeno il 20% dall’ultimo valore massimo. Se pensiamo al suo apice annuo, l’MSCI Emerging Market si attesta vicino a questa soglia. Il suddetto calo è riconducibile a vari motivi: il crollo della lira turca, le preoccupazioni per un’escalation della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, i segnali di un rallentamento della crescita economica mondiale e la solidità del dollaro. Sono stati pertanto sempre più numerosi gli investitori internazionali che hanno abbandonato questi mercati. La domanda sorge spontanea: la situazione peggiorerà ancora? Oppure ci aspetta un’inversione di tendenza? Alla luce del rapporto prezzo/utile, le azioni EmMa sembrano ottenere una valutazione sempre più interessante. È tuttavia troppo presto per dare il segnale di cessato allarme su ampia scala. Finché il dollaro resterà così forte, potrebbe protrarsi la tendenza alla fragilità dei titoli EmMa. A ciò si aggiungono come di consueto le incertezze politiche, che

nitensi. Dagli anni Novanta, i mercati emergenti hanno assistito a oltre il doppio delle correzioni di corso e dei bear market rispetto alla borsa statunitense. A un’intensità di fluttuazione maggiore corrisponde però un potenziale di utile pregno di opportunità a lungo termine. Annuncio pubblicitario

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Politica e Economia Rubriche

Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Imprenditorialità in Ticino: qualcosa si muove Il discorso sulla carenza di imprenditorialità dei ticinesi è forse uno dei più vecchi tra quelli affrontati da chi, negli ultimi 250 anni si è occupato dello sviluppo della nostra economia. Il punto di partenza sono le osservazioni sul carattere dei ticinesi del pastore zurighese Schinz, che aveva visitato quelle che allora si chiamavano le fogtie italiane, negli anni Settanta del Settecento. Schinz attestava loro acutezza e capacità creativa ma incapacità di portare a termine i progetti che avrebbero voluto intraprendere. Un paio di decenni dopo, il canonico Ghiringhelli aggiungeva un’altra tessera alla discussione precisando che i ticinesi erano in grado di manifestare la loro industriosità (ecco un termine molto più italiano di quello di imprenditorialità) solo fuori dal paese natìo. Secondo lui: «Se il ticinese dimostra all’estero un’industriosità fuori del comune è perché esso diviene, coll’abbandonare il suolo natìo, un altro

uomo». Il tema delle carenze imprenditoriali dei ticinesi fu poi sviluppato, nel Novecento, in un’altra chiave. Le dimensioni limitate del paese e il suo isolamento erano altrettanti ostacoli che si frapponevano alla creazione di aziende e quindi all’affermarsi di una classe imprenditoriale locale. Il che non impedì però alla Camera di Commercio, negli anni Trenta dello scorso secolo, di protestare contro la penetrazione economica, ossia contro il fatto che imprenditori della Svizzera tedesca venissero a creare aziende in questo Ticino così carente di attrattiva. La situazione si rovescia negli anni Cinquanta del Novecento quando la politica, in materia di imprenditorialità, diventa invece proprio quella di attirare, nella misura del possibile, capitali e imprenditori da fuori Cantone. Questa politica di fatto riconosceva che i ticinesi, per tare di carattere o per gli ostacoli, posti dalla natura e dalla frontiera, o per altri fattori ancora,

non erano imprenditori. Arriviamo così ai giorni nostri o, per essere più precisi, ai decenni più recenti dove, per iniziativa dello Stato e di privati, ha cominciato a diffondersi l’opinione che se i ticinesi non nascono imprenditori, lo possono però diventare seguendo corsi sull’imprenditorialità. Sull’esito degli sforzi intesi a formare nuovi imprenditori abbiamo fino ad oggi poche informazioni. È vero che il numero delle aziende in Ticino è aumentato, almeno fino al 2011/2012, in modo sostenuto. È vero anche che nelle aziende ticinesi, incluse quelle del secondario, troviamo oggi, nei posti direttivi, molti più ticinesi di quanto non era il caso 50 anni fa. Però queste osservazioni sono istanze singole che non danno modo di apprezzare la portata del nuovo fenomeno imprenditoriale e soprattutto non consentono confronti. Per ottenere informazioni più ampie possiamo però rifarci a due inchieste che si tengono a livello

nazionale da qualche anno. Si tratta dei rilevamenti del GEM, ossia del «Global Entrepreneurship Monitor» e di quelli della «Global University Entrepreneurial Spirit Students’Survey». Ambedue le inchieste misurano la vocazione all’imprenditorialità e consentono, tra l’altro, qualche confronto tra le grandi regioni del paese. Dei loro risultati, per molti aspetti sorprendenti, ci informa Andrea Huber in un interessante articolo, apparso nella rivista Dati dell’ottobre dello scorso anno. L’inchiesta condotta tra gli studenti universitari (per il Ticino hanno partecipato a questa inchiesta un po’ più di un centinaio di studenti della SUPSI) chiede ai partecipanti di specificare cosa intendono fare al momento in cui terminano gli studi e 5 anni più tardi. Il dato interessante è quello che concerne il medio termine. Il 38 per cento degli studenti della SUPSI dichiara infatti che, 5 anni dopo il termine degli studi, vorrebbe essere imprenditore. Le percentuali

per gli studenti della Svizzera francese, rispettivamente della Svizzera tedesca, sono solo il 29,4 e il 20%. Delle regioni linguistiche della Svizzera, la Svizzera italiana è dunque quella che dimostra di avere, potenzialmente, più vocazioni all’imprenditoria. Anche il GEM rileva le intenzioni di carriera con un campione, in Ticino, di 500 persone. Stando ai risultati di questa inchiesta, da noi, il 64,9 per cento dei partecipanti considera l’imprenditorialità come una buona scelta di carriera, contro il 60,7 per cento dei partecipanti nella Svizzera francese e il 30,3 per cento nella Svizzera tedesca. Qualcosa si sta quindi muovendo, riguardo all’imprenditorialità in Ticino. Sembra che la stessa sia diventata una scelta di carriera significativa. Prima di eccedere nell’ottimismo, ricordiamoci però quello che affermava il pastore Schinz e cioè che i ticinesi sono purtroppo incapaci di portare a termine i progetti che vorrebbero intraprendere.

racchio dell’invasione che lui naturalmente non ha mai visto, avendo chiuso le frontiere e non avendo partecipato al programma di ricollocamento europeo. Ma le ragioni della procedura disciplinare hanno soltanto in parte a che fare con l’immigrazione: il report presentato dalla parlamentare verde olandese Judith Sargentini – è il testo discusso e votato al Parlamento europeo – indica sette punti critici sul sistema ungherese. Il primo parla dell’immigrazione, degli abusi riscontrati dalle agenzie internazionali da parte della polizia di frontiera e delle regole molto restrittive per i richiedenti asilo. Ma è soltanto un punto. Gli altri hanno a che fare con lo stato di diritto ungherese, con la chiusura o l’acquisizione da parte di imprenditori vicini al governo dei giornali d’opposizione, del conflitto di interesse, della corruzione che ha riguardato specialmente i fondi europei e del sistema giudiziario. Il governo di Budapest ha pubblicato un «foglio informativo» che

risponde alla relazione della Sargentini, ma la sua linea retorica è stata sempre: è una «vendetta» dell’Europa per il fatto che l’Ungheria non è stata solidale con la redistribuzione degli immigrati. Durante il dibattito a Strasburgo però i parlamentari hanno cercato di non cadere nella trappola orbaniana: in discussione non c’era l’immigrazione, bensì la tenuta della democrazia in Ungheria, quindi i valori che tengono insieme il progetto europeo. Il cambiamento di posizione di Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare europeo, è paradigmatico: Weber vorrebbe fare il presidente della prossima commissione europea e come prima cosa deve vincere con il Ppe le elezioni del maggio del prossimo anno. Per questo è sempre stato molto conciliante nei confronti dell’Ungheria e di Orban, che con il suo partito Fidesz è nel Ppe: Weber ha bisogno di tutti per poter avere successo. Nella dialettica con i partiti più estremi, Weber, che è tedesco ed è della

Csu bavarese, il partito gemello della Cdu merkeliana, ha sempre puntato sul compromesso: insieme siamo più forti, troveremo un modo per andare d’accordo nonostante le idee differenti. È con questo spirito che ha affrontato il dibattito al Parlamento europeo, ma mentre crescevano le pressioni e mentre si faceva largo l’idea che in gioco non ci fossero né esclusivamente la questione migratoria né la presunta caccia alla streghe di sinistra, Weber ha cambiato idea e ha deciso di votare per l’apertura della procedura disciplinare contro Orban. Il suo partito, la Csu, ha votato in modo diverso, così come molti altri, a partire dall’Italia, ma Weber ha deciso di mettere in primo piano i valori del progetto comunitario più che i suoi dettagli. Che è un po’ il senso delle prossime europee e dello scontro in atto: non stiamo discutendo di quanti migranti fare entrare né di che dogane riattivare, ma di quel che vogliamo dall’Europa di domani, dalla democrazia di domani.

del divertimento a relitto sanatoriale di un’epoca al tramonto. Atmosfera simile nel contiguo municipio: anche qui la sventura si è abbattuta su un’ottantina di impiegati comunali. Spesso ci siamo chiesti, osservando l’andirivieni della clientela, non tutta straricca, che tipo di società fosse nata all’ombra del Casinò, con quale dotazione di modelli, mentalità, cultura, valori. Si poteva considerare una comunità del genere, che viveva soprattutto di notte, una comunità moralmente sana? Le indagini che ogni tanto la magistratura italiana avviava lasciavano intravedere un sottobosco fatto di riciclaggio e traffici illeciti. E pensare che qualche decennio fa la febbre del gioco d’azzardo aveva reso euforici un po’ tutti a meridione delle Alpi, non solo Lugano, Locarno e Mendrisio, ma anche Chiasso e Bellinzona. Fortunatamente qualcuno si avvide per tempo del pericolo e si pose un limite. L’appello delle maestranze campionesi

prima alla Regione Lombardia e poi alle autorità centrali romane non ha finora trovato ascolto. Al governo gialloverde (Lega+Cinque Stelle) – che tra l’altro, attraverso il Decreto Dignità, intende combattere la ludopatia – il destino di Campione non sembra importare gran che, ben altri sono infatti i grattacapi che lo tormentano. Vie d’uscita dal vicolo cieco? C’è chi pensa ad un centro commerciale, ad una clinica specializzata, ad una residenza di lusso per anziani facoltosi. Ad ogni modo prima bisognerà appianare il debito accumulato. E poi, ammesso che sia possibile, provvedere a riqualificare il personale, orientarlo verso nuovi profili professionali. Insomma, un bel busillis. A dire il vero un’alternativa – ma qui siamo nel campo della fantapolitica – ci sarebbe: annettere l’enclave al canton Ticino. Non una spedizione militare analoga a quella intrapresa da Gabriele D’Annunzio nel 1919 nei confronti di Fiume, ma un’incorpo-

razione politica pacifica, fondata sul consenso di entrambe le parti. Allora il Vate, alla testa dei suoi legionari, fu scacciato dalla città adriatica per opera della stessa marina italiana, dato che l’occupazione contrastava con gli accordi fissati nel Trattato di Rapallo; ma questa volta la protesta di Roma non arriverebbe, o sarebbe soltanto tiepida... Un fastidio in meno. Fantasie dannunziane a parte, questa amara vicenda insegna che un territorio, un distretto, una città non dovrebbero mai puntare l’intera posta su un’unica attività economica, mai rimanere prigionieri di una monocultura. La crescita ipertrofica di un settore a scapito degli altri genera fatalmente squilibri che, al primo mutar di vento, finiscono per trascinare tutti nel burrone. A Campione è andata così. Con la roulette si è arricchita, con la roulette è rotolata nel Ceresio. Legare la propria sorte al gioco d’azzardo è sempre un rischio... e non è una battuta.

Affari Esteri di Paola Peduzzi Orban e i valori dell’Europa Il Parlamento europeo ha votato contro la deriva illiberale dell’Ungheria: bisogna aprire la procedura dell’articolo 7 del Trattato europeo, ha deciso. L’articolo 7 è uno di quegli strumenti di cui si ignora l’esistenza finché non diventa improvvisamente indispensabile e decisivo, ma a guardarlo bene quel che si può dire è che è molto macchinoso. Siamo al primo comma dell’articolo, che prevede appunto un voto parlamentare a Strasburgo, un voto del Consiglio europeo e rimanda poi al secondo comma che riapre il negoziato con il paese sottoposto alla procedura disciplinare, per poi ripassare dall’aula e dal Consiglio e infine arrivare al comma 3, che prevede un meccanismo sanzionatorio molto variabile. Se avete letto «l’Europa sanziona l’Ungheria» è perché in questa vicenda le parole sono state usate in modo un pochino estremo: non c’è alcuna sanzione, forse non ci sarà mai. La Polonia, che è in mezzo alla stessa procedura per le stesse

ragioni – deterioramento dello stato di diritto – sta negoziando abilmente per cercare di non avere troppe ripercussioni perché, come dice la leadership polacca, Bruxelles come bancomat non è affatto male. L’Ungheria è a uno stadio ancora precedente rispetto a quello polacco ma ha scelto una strategia un pochino diversa, pur avendo approfittato in modo altrettanto allegro del bancomat europeo: il premier, Viktor Orban, è andato a Strasburgo denunciando la «caccia alla streghe» messa in piedi dalle sinistre per punire l’Ungheria della sua politica immigratoria restrittiva. Le frontiere sono nostre e facciamo quello che vogliamo, ha detto Orban: non pretendo di farvi cambiare idea, so che avete già deciso, ma non trasformerò il mio Paese nella «patria dell’immigrazione». Il premier ungherese è un ottimo oratore e un buon stratega, sa benissimo che la questione immigratoria spacca tutti i paesi europei e quindi sventola lo spau-

Cantoni e spigoli di Orazio Martinetti A Campione rien ne va plus costata il doppio di quanto messo a preventivo. Ad osservarlo dal basso sembra la poppa di un transatlantico incagliatosi nella montagna. Luci spente, porte sbarrate, qua e là i primi segni dell’incuria. Da rutilante mecca

CdT - Martinetti

«È giunta mezzanotte / Si spengono i rumori, / Si spegne anche l’insegna / Di quell’ultimo caffè / Le strade son deserte / Deserte e silenziose...» Si rimane colpiti, anzi sbalorditi, dalla parabola di Campione. Un borgo cresciuto sotto le ali di una casa da gioco ch’era diventata sinonimo di cornucopia; una gonfia mammella che nutriva una numerosa cucciolata con stipendi invidiabili, dal semplice usciere allo stuolo dei dirigenti. Spettacoli e fuochi d’artificio per tutti, e gratis. Sembrava intramontabile questa fortuna dell’enclave, un po’ svizzera e un po’ italiana, un minuscolo emirato lacuale legato a doppio filo con il comune, generatore di posti di lavoro e di prebende. Improvvisamente il castello è franato, al sogno è subentrato l’incubo: crollo degli introiti, aumento dei debiti, bancarotta, disoccupazione, futuro nerissimo. Al centro, cattedrale ormai deserta, è rimasto il Casinò, una ciste abnorme,


Il pane migliore lo trovi dal panettiere. E quindi da noi. Sanda M., proprietaria della Migros

La Migros è della gente. Per questo l’arte tradizionale della panificazione ha per noi un ruolo essenziale: più volte al giorno, 900 panettieri preparano l’impasto direttamente nelle filiali e con ingredienti pregiati, garantendo così la freschezza del nostro pane. E si sente. migros.ch/pane


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Cultura e Spettacoli I colori di Gilliam Per la prima volta l’Europa (e in particolare Basilea) dedica una grande mostra a Sam Gilliam

Tutti alla Bâtie, tutti a Ginevra Ogni anno la kermesse romanda sembra diventare un po’ più cult grazie a spettacoli appassionanti, controcorrente e che spingono naturalmente alla riflessione

Berta e D’Antoni, un dialogo Grazie a una mostra in corso a Giubiasco, si riconoscono importanti affinità tra i due artisti

Le risorse dentro di noi In Da soli la scrittrice e regista Cristina Comencini si china su relazioni di coppia e solitudine

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Un pittore orfico

Mostre Robert Delaunay al Kunsthaus

di Zurigo

Gianluigi Bellei Robert Victor Félix Delaunay (Parigi, 1885 – Montpellier 1941) è un artista molto noto in Francia; assieme alla moglie Sonia Delaunay Terk. Probabilmente un po’ meno alle nostre latitudini. Per chi non lo conoscesse ancora è il momento di farlo. Guillaume Apollinaire ha definito la sua pittura come «cubismo orfico», anche se il termine cubista non è propriamente esatto. Quando impiegava il metodo della scomposizione delle forme, infatti, lavorava con colori quasi indipendenti da queste in un’armonia musicale dai risultati morbidi e circolari. Due sono gli aspetti che è necessario conoscere per addentrarsi nel suo lavoro: l’Orfismo e il contrasto simultaneo. L’Orfismo nasce in contrapposizione al rigorismo cubista di Georges Braque e Pablo Picasso con un carattere libero, giocoso e lirico. Apollinaire così scrive: «è l’arte di dipingere composizioni con elementi attinti non dalla realtà visiva, ma interamente creati dall’artista, e da lui dotati di una possente realtà». Il contrasto simultaneo è un fenomeno scoperto nel 1840 dal chimico francese Michel-Eugène Chevreul, direttore del laboratorio delle arazzerie Gobelins di Parigi. Senza entrare nei dettagli della questione – per altro un po’ complessa e non certamente attraente e per la quale rimando al prezioso volume di Luigina De Grandis Teoria e uso del colore – basti sapere che il contrasto simultaneo si basa sul principio della complementarietà. In pratica nelle zone immediatamente adiacenti a una campitura di rosso appare non il colore dipinto, mettiamo il giallo, ma quello complementare al rosso, cioè il verde. In più se una determinata area è di colore chiaro quella accanto sarà più scura del colore dato e viceversa. Chevreul nel suo libro scientifico di 756 pagine del 1839 De la loi du contraste simultané des couleurs spiega così: «Se si guardano contemporaneamente

due aree di chiarezza diversa ma dello stesso colore, o della stessa chiarezza ma di colore diverso, in giustapposizione, cioè l’una confinante con l’altra, l’occhio osserva (purché le aree non siano troppo grandi) delle modificazioni che nel primo caso influenzano l’intensità del colore e nel secondo la composizione ottica dei due colori giustapposti». All’inizio del Novecento molti artisti fanno proprie queste scoperte come, per esempio, Gaetano Previati nel suo scritto Principi scientifici del divisionismo del 1906. Robert Delaunay studia Chevreul e nel 1923, assieme a Sonia, fonda a Parigi l’Atelier Simultané. Nel 1976 all’Orangerie di Parigi si è tenuta una grande retrospettiva dedicata all’artista e in seguito nel 1999 il Centre Georges Pompidou, sempre a Parigi, ha proposto il suo lavoro svolto fra il 1906 e il 1914. Periodo centrale, questo, dei suoi soggetti prediletti che si rifanno a un mondo in trasformazione (l’aeronautica, le grandi strade…). In quell’occasione i commissari scientifici dell’esposizione Jean-Paul Ameline e Pascal Rousseau scrivono che dopo i trattati di Chevreul e Rood «si torna verso l’animazione puramente cromatica dei dipinti: le vibrazioni dei colori mettono l’occhio dello spettatore in presa diretta con l’agitazione della realtà». Attualmente, e fino al 18 novembre, il Kunsthaus di Zurigo dedica un’esposizione a Robert Delaunay comprendente un’ottantina di quadri che coprono tutto il suo percorso artistico, dai primi ritratti divisionisti del 1906-1907 ai progetti per il Palais des Chemins de Fer e il Palais de l’Air in occasione de l’Exposition Internationale di Parigi del 1937 fino all’ultimo ciclo pittorico Rythmes sans fin. Ampio spazio viene dedicato alla rappresentazione della Tour Eiffel. Costruita nel 1889 per l’Exposition Universelle di Parigi, la torre, nonostante le critiche di buona parte della «cultura» cittadina che ne chiedeva l’abbattimen-

Robert Delaunay, Portrait de Madame Heim, 1926. (Calouste Gulbenkian Museum / Modern Collection. Foto: José Manuel Costa Alves)

to, è un simbolo della tecnica e del modernismo. Per Delaunay diventa quasi un’ossessione e la ritrae, complici le fotografie dell’epoca, dal basso, dall’alto, di fianco. Sempre con colori accesi e mediante forme destrutturate. Grandiosa la tela del 1922 nella quale appaiono visti dall’alto i giardini di Champs de Mars con i loro ghirigori. Accanto le foto realizzate da Man-Ray, André Kertész, El Lissitzky e altri; splendide quelle di Germaine Krull raccolte in Métal del 1928. Seguono i dipinti dei tetti parigini e la serie degli interni della chiesa di Saint-Séverin con le sue arcate gotiche altissime e scintillanti. Poi i ritratti degli amici fra i quali troviamo Tristan Tzara, Louis Aragon e l’incantevole e ironica Maria Lani. Tre in ogni caso i dipinti emblematici: Disque (Le premier disque) del 1913, rigorosamente aniconico, che

indaga la struttura cromatica del colore e i due oli del 1924-25 Les coureurs, nei quali la differente luminosità dei colori degli atleti in gara trova forma, movimento e tridimensionalità senza l’ausilio di alcuna sfumatura. In conclusione del suo altalenante percorso, fra figurativismo e astrazione, Delaunay ritorna all’astrazione geometrica con i suoi cerchi cromatici puliti e luminosi per terminare con la monumentale opera realizzata con Sonia per le Palais de l’Air de l’Exposition Internationale di Parigi del 1937 fatta di anelli e cerchi colorati della quale a Zurigo si può vedere uno schizzo preparatorio. Una mostra precisa, con scritti, fotografie, film come il godibilissimo estratto da Le P’tit Parigot di René Le Somptier del 1926: otto minuti di vera «essenza parigina» con musica, balli, dipinti e costumi dei due Delaunay. Ot-

timo l’allestimento come le luci. Esauriente il catalogo. Da notare che di fronte al Kunsthaus ora si possono vedere i muri del nuovo edificio progettato da David Chipperfield Architects che nei mesi scorsi ha raggiunto la propria altezza effettiva. Una struttura quadrangolare che sarà l’ampliamento e il completamento del Kunsthaus stesso. Il più grande museo della Svizzera del XXI secolo, a tre anni dall’avvio del cantiere, termina così la sua struttura portante. Il completamento è previsto «puntualmente» entro il 2020. Dove e quando

Robert Delaunay e Parigi. A cura di Simonetta Fraquelli. Kunsthaus, Zurigo. Fino al 18 novembre. Catalogo Fr. 51.–. www.kunsthaus.ch


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Cultura e Spettacoli

Le improvvisazioni astratte di Sam Gilliam Mostre Basilea ospita la prima personale europea dell’artista afroamericano

Tiziana Arnaboldi, i primi 30 anni Anniversari Due

serate per celebrarla Giorgio Thoeni

Emanuela Burgazzoli Nel video proiettato a metà del percorso espositivo, lo si vede seduto su una sedia a rotelle. Ma ciò non impedisce a Sam Gilliam, un signore di 84 anni, di seguire con attenzione l’allestimento della mostra al Kunstmuseum di Basilea; nelle grandi sale della nuova ala, l’artista è intento a supervisionare ogni dettaglio dall’inizio alla fine, dando indicazioni precise. Già, perché appoggiare una grande tela su un cavalletto in mezzo a una sala, o appenderla come un drappeggio o un sipario alla parete, in dialogo con altre opere, non è cosa da poco; si tratta di un gesto che crea un movimento complesso che inciderà direttamente sullo sguardo dell’osservatore, alle prese con un inaspettato gioco di ombre e luci, di colori che si ricompongono in una nuova geografia visiva.

La reale portata delle tele di Gilliam appese al soffitto non è apparsa subito evidente al pubblico europeo, abituato all’Espressionismo astratto Sam Gilliam sta vivendo un momento d’oro: negli ultimi tempi musei e gallerie importanti gli dedicano mostre, le sue quotazioni sul mercato dell’arte hanno raggiunto prezzi mai visti. All’artista afro-americano – il primo a rappresentare nel 1972 gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia – viene riconosciuto un ruolo di innovatore nella storia dell’arte americana degli ultimi decenni, e il recente successo commerciale lo conferma. Un successo tardivo, giunto quasi dopo mezzo secolo di carriera; perché è stato un artista così a lungo sottovalutato e misconosciuto (soprattutto in Europa)?

Perché forse, come suggeriscono alcuni, Gilliam ha sempre evitato di seguire un cammino convenzionale, non legandosi a una galleria, facendo arte astratta quando non era di moda e soprattutto quando gli artisti afroamericani erano chiamati a fare un’arte che fosse compatibile con la causa politica; e così i galleristi non lo espongono e le sue origini, pur non connotando la sua arte, finiscono per pregiudicarne la visibilità e condizionarne il riconoscimento pubblico. Fra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta – periodo sul quale si focalizza la mostra basilese con una selezione di 45 opere – Gilliam è alla ricerca di una propria identità artistica; scopre ben presto che si può liberare la tela dalla struttura del telaio, dapprima versandoci il colore direttamente, piegandola e strofinandola, per poi fissarla su un telaio inclinato e lasciare colare casualmente le strisce di colore; i suoi beveled-edge paintings assumono così l’aspetto di un oggetto; nel 1968 con i suoi Drapes, la tela è direttamente appesa a un soffitto o a una parete, seguendo un ritmo preciso e ogni volta adattandosi al contesto dello spazio espositivo. Si tratta di un gesto radicale che infrange vecchie regole e antiche barriere, ma la cui reale portata non appare forse evidente a un pubblico europeo, che ha ancora l’imprinting visivo dei maestri riconosciuti dell’Espressionismo astratto. Eppure Gilliam, nato nel 1933 a Tupelo nel Mississippi, è un pioniere, fra i primi forse a scoprire il valore plastico della pittura e fare uso del principio dell’improvvisazione, inventandosi un genere a metà fra pittura, scultura e performance, così come nella musica il mondo stava scoprendo il jazz libero e sovversivo di John Coltrane e Miles Davis, tanto ammirati dall’artista che una volta ha dichiarato: «Prima della pittura, c’era il jazz». L’idea – rivelò in seguito Gilliam – gli venne in parte osservando le donne che stendevano il bucato fuori dalla finestra del suo atelier a Washington, la città in cui si era

Sam Gilliam, acrilico su tela, 1970. (Foto F. Nilsen, a ProLitteris Zurigo)

trasferito nel 1962 e dove si era fatto conoscere all’inizio come rappresentante della così detta Washington Color School. Se Sam Gilliam ha vissuto sempre al di là dei «ghetti» politici e artistici, non ha però ignorato i grandi cambiamenti che attraversavano la società americana in quegli anni, con le battaglie per i diritti civili; Green April è un riferimento al giorno della morte di Martin Luther King; Lady Day e Lady Day II, due tele per la prima volta esposte insieme, richiamano la figura di Billie Holiday la cui celebre Strange Fruit era diventata l’inno di protesta contro il linciaggio degli afroamericani negli Stati Uniti. Ma se i soggetti politici sono quasi inesistenti, con l’opera dal sapore autobiografico Dark As I am, del 1973, l’artista sembra intervenire con una chiara consapevolezza nel dibattito in corso all’epoca

sull’identità culturale afroamericana. La pittura resta però lo spazio della creazione individuale, senza piegarsi a connotazioni ideologiche o etniche, come dimostra per esempio la sala consacrata alla natura stessa della pittura; con la serie Atmosphere Gilliam si fa interprete di un astrattismo meditativo in cui lo spettatore vive un’immersione visiva, analoga a quella che si prova di fronte alle Ninfee di Monet. Un’immersione assecondata da un allestimento minimalista, che lascia tutto lo spazio possibile alla presenza delle opere. Dove e quando

The Music of Color. Sam Gilliam, 19671973. Basilea, Kunstmuseum, fino al 30 settembre. Orari: ma 10.00-18.00; me 10:00-20:00; gio-do 10.00-18.00; lu chiuso. kunstmuseumbasel.ch

«Quello che cerco è la verità. Mi interessa portare la vita sulla scena, mirare all’essenza, penetrare segreti e intimità, svelare paure e incertezze per incontrare un “oltre”: la bellezza». È sulla falsariga di questa confessione che lo scorso fine settimana il pubblico ha potuto assistere sul palco del Teatro San Materno di Ascona all’incontro-spettacolo di 10 danzatori storici della Compagnia di Tiziana Arnaboldi con i quali, sull’arco di trent’anni, la coreografa ticinese ha firmato la sua avventura artistica con numerose creazioni applaudite da un pubblico internazionale, grazie a un lavoro appassionato e riconosciuto. Per i fortunati spettatori si è trattato di una sorta di festa della danza contemporanea in cui l’artista ha voluto ripercorrere con i suoi danzatori i momenti forti, e le emozioni che li hanno segnato maggiormente. Lo ha fatto radunandoli e chiedendo loro di condividere la memoria di tracce significative, gesti e emozioni di percorsi importanti. Ma che cos’era, danza o teatro? Un interrogativo che se accompagnava provocatoriamente le prime produzioni, oggi colora pagine coreografiche che hanno meritato un posto nella storia della scena: spettacoli ispirati a opere letterarie come Per un solo istante a Valdrada (da Le città invisibili di Calvino), Finestra sul mare (da Oceano mare di Baricco) o Attesa Ni Na Nà (da Aspettando Godot di Beckett), oppure nati dall’incontro con la drammaturgia di Pierre Byland come The birds are on the wings o Falls after Newton, o legati a temi sensibili come per Donne che si raccontano o Cruda bellezza. Le due applaudite serate di Ascona sono stati momenti di gioiosa orchestrazione, corpi, gesti e immagini di repertorio che oltre a risvegliare la memoria hanno contribuito a regalare momenti danzati intensi, in cui il rigore della perfezione del gruppo si accompagnava a libere interpretazioni, lasciando emergere la personalità degli artisti e facendoci riscoprire il senso di una bellezza ritrovata come nell’emblematico refrain della Piaf in Je ne regrette rien. Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli Un momento dello spettacolo integrato Gala di Jérôme Bel. (batie.ch)

Guido Ceronetti, un uomo di vita

In memoriam Il grande intellettuale italiano

è morto a 91 anni il 13 settembre Pietro Montorfani

Splendide utopie

Festival La Bâtie, appuntamento controcorrente e dall’anima

internazionale, è sempre più amato Muriel Del Don Difficile descrivere a parole un festival come La Bâtie. Sì, perché La Bâtie non è solamente una manifestazione fatta di spettacoli sorprendenti e magnificamente destabilizzanti; la Bâtie è anche e soprattutto un’atmosfera, uno stato d’animo. Già dalle prime edizioni, rannicchiata nell’accogliente decoro del Bois de la Bâtie (da qui il nome della rassegna), il festival ginevrino mostra il suo lato sovversivo e controcorrente. Tutto nasce da una sorta di utopia, una volontà feroce di liberare le arti della scena da un formalismo soffocante ma anche da barriere geografiche che con l’espressione artistica hanno poco a che vedere. «L’arte non ha frontiere» diceva lungimirante Victor Hugo, come a volerci ricordare che sul palcoscenico conta di più la creatività che il passaporto. La Bâtie ha fatto della frase di Victor Hugo il suo motto, la sua battaglia. Questa nuova edizione, che ha avuto luogo dal 30 agosto al 16 settembre, è stata capitanata da un nuovo direttore, Claude Ratzé, personaggio elegante che dietro un’apparente timidezza nasconde una visione artistica ben definita. «Quando ho postulato avevo l’ambizione di affermare la missione transfrontaliera del festival e di trasformarlo in una manifestazione culturale capace di strutturare e unificare il territorio della grande Ginevra», dice Ratzé alla serata d’apertura del festival, sorta di monito a una linea politica che sembra fare di tutto per impedire che questa profezia si realizzi. La Bâtie vuole onorare i fondatori della manifestazione sviluppando ancora di più i partenariati e le collaborazioni tra le città e i comuni della «grande Ginevra». Il Festival romando è stato in effetti il primo a proporre, 25 anni fa, una programmazione che uscisse dalle frontiere della città. Le francesi Annemasse, Ville-la-Grand o Divonne-lesBains, passando per Ginevra e le sue innumerevoli sale di spettacolo come il Bâtiment des forces motrices, la mitica Usine, l’alternativo Théâtre du Loup o il ricercato Théâtre d’Ouchy a Losanna,

hanno accolto gli spettacoli de La Bâtie permettendole di abbattere tutte le frontiere territoriali, per diventare una manifestazione faro della scena culturale romanda. La programmazione di quest’anno è stata all’altezza delle aspettative, permettendo a Claude Ratzé di imporre la sua «griffe». Il pubblico variegato ed entusiasta ha potuto gustare opere memorabili di coreografi emblematici delle arti della scena: Jérôme Bel, La Ribot, Christophe Honoré ma anche progetti emergenti di artisti che non hanno paura di percorrere sentieri meno battuti: Laetitia Dosch, Jan Martens, Théo Mercier, Steven Michel o Alessandro Serra per non citarne che alcuni. Grande novità di quest’anno è la sezione «kinky Bâtie», dedicata a progetti per gli over 18 che affrontano il tema della sessualità e del desiderio sotto tutte le sue forme. Spettacoli audaci e coraggiosi come 21 pornographies della sempre sorprendente coreografa danese Mette Ingvarsten, spettacolo che mette in scena la storia del porno e il ruolo del desiderio nella nostra quotidianità; o ancora Témoignage d’un homme qui n’avait pas envie d’en castrer un autre di Thibaud Croisy, esperienza singolare e sensoriale destabilizzante che interroga i rapporti di dominazione, il dolore e il piacere attraverso il teatro. La «Kinky Bâtie» si inserisce in quel movimento di riscoperta artistica della sessualità spronato da festival diventati ormai referenze come La fête du slip a Losanna o i Porny Days di Zurigo. Tra i personaggi che hanno fatto brillare questa nuova edizione troviamo l’inimitabile Jérôme Bel, portavoce di una generazione di coreografi belgi che hanno saputo miscelare con incredibile destrezza eccentricità, umorismo e forza scenica. Per l’apertura de La Bâtie, Jérôme Bel ha deliziato il pubblico con il suo spettacolo Gala, galleria di ritratti di personaggi venuti da orizzonti molto diversi. La scena è in effetti invasa al contempo da professionisti e da amatori, essere umani variegati che portano fieramente la bandiera della «diversità». Quello che conta è l’espressione di una danza «senza qualità»

come definita da Bel stesso, una danza senza giudizio, gioiosa, imperfetta certo ma anche estremamente potente. Grazie a Gala il coreografo belga interroga le aspettative del pubblico e confonde le piste mischiando momenti di eleganza formale e toccante amatorialismo. La scena diventa così una comunità capace di trasformare le debolezze in forza e l’imperfezione in estasi. Altro momento toccante marcato da un potente misticismo è stato Rule of Three di Jan Martens. Figura libera della nouvelle vague belga (ancora il Belgio!) Jan Martens ha stuzzicato i sensi del pubblico attraverso ritmi primordiali e ripetitivi dal sapore techno che sembrano provenire direttamente dall’antro oscuro del Berghain. Decisamente sorprendente anche Hate, ultimo lavoro della franco svizzera Laetitia Dosch, che divide la scena con un maestoso cavallo bianco. Fianco a fianco la donna e l’animale esplorano la relazione che li unisce, si cercano e si addomesticano mutualmente in un gioco tra amore e odio che ricorda una tragedia greca. Altra artista emblematica presente quest’anno a La Bâtie è La Ribot, accompagnata su scena dalla compagnia Dançao com a Diferença. Il suo ultimo spettacolo Happy Island è il risultato di un magico incontro con una compagnia di danza inclusiva portoghese. Il tema dell’integrazione e del rapporto all’altro, amico-nemico dal doppio volto, impregna la scena in un’ode all’immaginazione, alla gioia di vivere e all’esistenza sotto le forme le più variate. Da non dimenticare infine Lorenzo Serra che ha allietato l’immaginario del pubblico con il suo Macbettu, versione in sardo della famosissima opera di Shkespeare. Con un cast esclusivamente maschile, il fondatore della compagnia Teatropersona crea un affresco di una bellezza potente e velenosa. Insomma, molte le proposte qualitativamente sorprendenti di questa nuova edizione, a dimostrazione di quanto il festival ginevrino abbia ancora da offrire. Una manifestazione internazionale dall’animo elvetico che ci fa sentire tutti re e regine della scena.

«Finché resta carne, finché c’è un osso ‒ almeno il sacro ‒ c’è fornicazione. Un fratello e una sorella in Cristo non dovrebbero conoscere che ricongiungimenti pneumatici; non fu così. Perché quando Eloisa, vent’anni dopo Abelardo, fu calata accanto a lui nel sepolcro, Abelardo aprì le braccia e le rinchiuse sopra di lei, e in quella posizione di Eros tumulario rimasero, finché non fu tornata polvere la polvere». Mi piace ricordare Guido Ceronetti a pochi giorni dalla morte con questo formidabile apologo, pubblicato una prima volta nel 1971 nell’edizione delle Lettere curata da Federico Roncoroni per l’editore Rusconi (poi anche nell’Occhiale malinconico, Adelphi, 1988). Non già perché cristallizzi in poche righe il suo ben noto pessimismo, anzi, proprio per il contrario, per quella inevitabile lode della vita che sempre è insita nel flirtare con la morte, nel sottostare alle mannaie del tempo, alla finitudine stessa dell’esistenza umana. E spiace, per restare in tema, che nemmeno Giovanni Orelli sia più, perché suoi erano stati i maggiori affondi nell’opera di Ceronetti (poeta, saggista, uomo di teatro, formidabile traduttore dell’ebraico biblico) che si siano potuti leggere a queste latitudini, in una terra alla quale lo scrittore di Cetona (Siena, ma le sue origini erano piemontesi) aveva deciso di affidare per tempo le sue carte personali, con-

servate sin dal 1994 nell’Archivio Prezzolini della Biblioteca Cantonale di Lugano. Quella storia, assieme a molte altre che legavano la sua figura magra e silenziosa alla realtà culturale del Canton Ticino, tra il Teatro Foce e la redazione del «Giornale del Popolo» (con Manuela Camponovo), si ricostruisce oggi grazie al bel fascicolo di «Cartevive» stampato nel 2007, in occasione dei suoi ottant’anni. Ma per allargare un poco il quadro, Ceronetti fu contemporaneamente uomo del mondo, feroce polemista sui quotidiani nazionali italiani, specie contro la massiccia urbanizzazione del territorio, estensore di rubriche e interviste spiazzanti, sovente al limite del sopportabile (ne seppe qualcosa anche Michele Fazioli in un difficilissimo Controluce) e uomo fuori dal mondo, come era giusto che fosse per uno scrittore abituato a dare del tu al libro dei Salmi e a quello del Qohelet, a Catullo, Marziale, insomma a un selezionatissimo gruppo di testi che condensavano in loro la sua stessa visione dell’esistenza. Nei suoi contributi saggistici e nelle sue traduzioni era andato sempre più identificandosi con un editore (Adelphi) che ne piangerà a lungo la scomparsa, tanto aderenti erano i suoi titoli alla linea editoriale tracciata con forza da Roberto Calasso. L’ultimo soltanto pochi mesi or sono, ventotto traduzioni da Orazio che diventano ora, giunto all’estrema «contrazione della vita», il suo testamento.

Guido Ceronetti aveva affidato le sue carte all’Archivio Prezzolini di Lugano. (Marka) Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Un inno al colore Fotografia All’Elysée di Losanna una mostra omaggia il fotografo e pittore francese Jacques Henri Lartigue

Giovanni Medolago Sono parecchi i maestri che nutrivano seri dubbi sulla fotografia. Henri Cartier Bresson diceva che «serve solo per far vendere: agli editori le loro riviste e a tanti altri le loro merci». Ancora più sprezzante Walker Evans, secondo cui «è di una volgarità assoluta». Oggi che la cromia gode di un monopolio quasi assoluto grazie all’evoluzione tecnica, possono sembrare curiosi i tanti pre/ giudizi sulla policromia fotografica; resta però il fatto che solo nel 1976 – ben 70 anni dopo l’avvento del colore – il MoMa di New York e il suo allora direttore John Szarkowski decisero di aprire le porte del loro museo al fotografo William Eggleston e alle sgargianti tonalità dei suoi lavori. Quest’ultimo, alla domanda su come fosse passato dal b&n al colore, rispose: «Niente di più facile: ho semplicemente cambiato tipo di pellicola nel mio apparecchio!». La fotografia a colori era sdoganata. Da sempre attento alle numerose quanto sorprendenti scoperte (auto, aerei, cinema, piroscafi sempre più performanti…) che caratterizzarono gli anni della sua infanzia, Jacques Henri Lartigue (1894-1986) aveva da poco cominciato a divertirsi con la macchina fotografica quando non gli par vero che, grazie all’autochrome dei Fratelli Lumière, brevettato nel 1903 e messo in commercio l’anno dopo,

poteva realizzare immagini a colori. «Mi sono sempre considerato un pittore più che un fotografo – ripeterà più volte Lartigue nel corso della sua lunga vita – e naturalmente vedevo il mondo con i suoi colori». Il suo era un mondo dorato che attraversava una belle époque apparentemente infinita: le nevi di Megève o Chamonix, il mare della Costa Azzurra o della Bretagna, la campagna parigina. È in questi scenari da favola (e allora assolutamente incontaminati!) che il piccolo JHL comincia a realizzare quello che sarà il suo «Album della mia vita», un’opera omnia costantemente aggiornata e che nel 1979 – quando il suo archivio verrà affidato all’Associazione «Amici di JHL» – conterrà ben 160mila tra negativi veri e propri, lastre di vetro o diapositive. Un album/diario dove, accanto alle immagini, JHL annota tutto ciò che vorrebbe fermare nel tempo; e decenni prima del Woody Allen di Manhattan compila una lista di «ciò che mi rende felice: Dio, la mia famiglia (ricca e aristocratica, con nonno e bisnonno guarda caso inventori, n.d.r.), una discreta salute e… il fatto che non mi annoio mai!» Ma ecco che l’autochrome, con i suoi lunghi tempi d’esposizione, comincia a venirgli un po’ a noia. Soprattutto lo inquieta il fatto che, attraverso la lenta tecnica dei Lumière, non possa inseguire movimento e velocità, suoi precipui motivi d’interesse. Sicché,

metterà a disposizione apparecchiature vieppiù sofisticate e soprattutto veloci. Il Museo dell’Elysée di Losanna, con la mostra intitolata La vie en couleurs ci offre l’occasione di (ri)scoprire un Lartigue certo meno frequentato (e visto) di quello reso celebre dai suoi scatti in bianco e nero. Fatte salve le ovvie differenze, anche nei suoi lavori multicolor JHL conferma la sua ammirata attenzione d’esteta verso gli aspetti più piacevoli della vita: le meraviglie della natura (si va dal pittorialismo alle still life spesso tendenti all’astrattismo), le belle donne a passeggio sul Bois de Boulogne, gli amici (Sacha Guitry, Picasso, Fanny Ardant, Edward Steichen canuto come il suo grosso cane pastore, Federico Fellini: «Non è né alto né grosso, ma ugualmente mi sembra un gigante e mi guarda un po’ come un padre felice del fatto che il suo figliolo sia divenuto il primo della classe»). Emergono empatia e rispetto verso ciò che finiva davanti al suo obiettivo. E del resto lo stesso JHL confessava: «La sola cosa che conta per me è cogliere («attraper») tutto ciò che mi meraviglia. Se deformo invece di cogliere, beh… allora non sto lavorando bene».

Florette, Monte Carlo Beach, 1958 di Jacques Henri Lartigue. (© Ministère de la Culture France)

dopo un sia pur prolungato periodo d’entusiasmo, JHL abbandona il colore in quanto fotografo, mentre gioco forza continua a impiegarlo nelle sue tele, tra

Dove e quando

l’altro «terribilmente convenzionali», secondo la sua biografa Martine Ravache. JHL tornerà alla policromia solo decenni più tardi, quando la tecnica gli

Jacques Henry Lartigue, La vie en couleurs, Losanna, Musée de l’Elysée. Orari: ma-do 11.00-18.00; fino al 23 settembre 2018. www.elysee.ch Annuncio pubblicitario

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Cultura e Spettacoli

Il patrimonio svelato

Mostre La Divisione cantonale della cultura e degli studi universitari si sta impegnando a fondo per rigenerare

il proprio rapporto con i cittadini – si parte con una mostra al Castello di Sasso Corbaro Ada Cattaneo Il 2018 è stato scelto dalla Commissione Europea come «Anno del patrimonio». Anche la Svizzera è coinvolta nelle celebrazioni e, ancora per qualche mese, sarà possibile seguire le iniziative organizzate per l’occasione. È il caso della mostra Il patrimonio si racconta al Castello di Sasso Corbaro a Bellinzona, aperta al pubblico lo scorso 4 settembre e visitabile ancora fino al 7 ottobre. Dopo la chiusura, rimarrà disponibile online sul sito del DECS una pubblicazione in cui sono presentati i soggetti culturali coinvolti nell’iniziativa, anche grazie alle immagini di Gabriella Meyer. Oltre a rientrare di diritto nelle celebrazioni europee, l’esposizione costituisce un momento utile per mettere in luce l’operato della Divisione cantonale della cultura e degli studi universitari, che molto sta facendo per rigenerare il proprio rapporto con i cittadini. Troppo spesso sono solo gli specialisti ad apprezzare il lavoro delle istituzioni pubbliche dedicate ai beni culturali, mentre i più ne ignorano l’operato.

Il patrimonio riguarda tutti ed è un valore comune di cui ognuno di noi è il fortunato portatore Così, quando si presenta la necessità di contenere i costi, molti cadono nell’insidia di credere che i tagli alla cultura siano in definitiva un male di poco conto. In questa iniziativa, invece, la macchina della cultura mostra i suoi ingranaggi e racconta che il patrimonio non è un concetto astratto, bensì è qualcosa di molto vicino a noi e continuamente intrecciato al vivere quotidiano.

Sono nove i soggetti afferenti al DECS coinvolti nel progetto: Archivio di Stato, Sistema bibliotecario, Centro di dialettologia, MASI, Osservatorio culturale, Pinacoteca Züst, Sistema per la valorizzazione del patrimonio culturale e Ufficio dei beni culturali. Al loro fianco, è stato coinvolto anche il Laboratorio di cultura visiva della SUPSI. Curatore è Giulio Zaccarelli, docente nell’ambito del corso di laurea in Architettura d’interni, e il progetto allestitivo è diventato la tesi di laurea di due studenti, Giulia Martini e Gianluca Crippa. I temi su cui lavorare in occasione dell’Anno del patrimonio erano molti, ma la scelta del gruppo di lavoro è stata di evitare un approccio onnicomprensivo e di focalizzarsi piuttosto sul patrimonio in quanto valore comune, di cui ognuno è portatore. Non solo oggetti al di là di un vetro, ma proprietà di ciascuno di noi, dall’uomo qualunque allo specialista. Non fonte di separazione e discordia, ma legame transnazionale che accomuna pur nelle differenze. Zaccarelli spiega quindi come il punto di partenza sia stata l’eliminazione di ogni tecnicismo e termine tecnico, concetti difficili che finiscono troppo spesso per spegnere l’interesse del visitatore medio. Si è invece individuato un criterio che favorisse solo oggetti, prestati dai vari istituti culturali coinvolti, che suscitassero la meraviglia e la curiosità dell’osservatore oppure che gli permettessero di fare collegamenti con il proprio vissuto e il proprio immaginario. Il percorso espositivo è diviso in vari ambienti, seguendo l’architettura non sempre scorrevole del castello, cercando di definire spazi fra loro ben diversificati, ma sempre connessi. La visita inizia al piano terra, dove viene proiettato un filmato realizzato dalla RSI con immagini di quel patrimonio più difficile da portare fra le mura di un

Il patrimonio riguarda, arricchisce e racconta tutti noi. (Elisabeth La Rosa - DCSU)

edificio: meraviglie della natura e patrimonio immateriale. Si passa alla Sala Poglia, notevole già di per sé, dato che ospita la boiserie seicentesca prelevata dalla Villa Emma di Olivone. Considerato l’ambiente, qui il curatore ha voluto allestire una vera e propria Wunderkammer, con pezzi dalle collezioni cantonali ticinesi, dal Settecento ad oggi. Un insieme di oggetti eterogenei, presentati con un’alta densità, mischiando vari livelli e vari registri, di modo che il visitatore riconosca anche pezzi che hanno fatto parte dalla sua vita, per sottolineare la vitalità del patrimonio e il rapporto che sussiste fra di esso e il nostro quotidiano. Seguono le stanze dedicate al nucleo concettuale dell’esposizione: chi si occupa del patrimonio in Ticino? Cinque parole chiave – tutela, studio, con-

servazione, valorizzazione e trasmissione – per raccontare i nove soggetti coinvolti e la filiera che caratterizza il patrimonio e il suo viaggio fino a noi. L’allestimento è stato sviluppato per essere coerente rispetto ai contenuti: gli organizzatori non volevano in nessun modo dare una visione estetizzante, si sono invece soffermati su una tipologia di riflessione non consueta, dimenticando per un attimo i capolavori e dando spazio al mondo di significati che può veicolare il più semplice degli oggetti. Un’ultima considerazione è che un simile lavoro di ricerca sul patrimonio culturale del territorio ticinese potrebbe essere di gran lunga potenziato se fosse applicato ad esso anche un approccio di tipo ecomuseale. Nella definizione data nei primi anni Settan-

ta da Georges-Henri Rivière e Hugues de Varine l’ecomuseo non è un museo tradizionale, ma «mostra l’uomo nel tempo e nello spazio, nel suo ambiente naturale e culturale, invitando la totalità di una popolazione a partecipare allo sviluppo di esso». Non più solo oggetti per raccontare il patrimonio, ma anche persone invitate a scegliere cosa mostrare e a raccontare le storie racchiuse in ogni frammento del loro e del nostro mondo culturale. Dove e quando

Il patrimonio si racconta. Valori e visioni culturali nel Cantone Ticino. Bellinzona, Castello di Sasso Corbaro. Orari: tutti i giorni dalle 10.00 alle 18.00. Fino al 7 ottobre 2018. www.patrimonio18.ch

Tra rigore e creatività Mostre Allo Spazio polivalente Arte e Valori di Giubiasco le opere di Carlo Berta e Gino D’Antoni Alessia Brughera A un primo sguardo non potrebbero sembrare più diversi tra loro i lavori di Carlo Berta e di Gino D’Antoni: ordinati e precisi i primi, popolati come sono da scrupolose sequenze di piccoli quadrati, fluidi e sciolti i secondi, caratterizzati da forme flessuose che paiono librarsi disinvolte nello spazio. Osservandoli con maggiore attenzione, però, ci si accorge di come quella disciplina e quella nitidezza tanto evidenti nelle composizioni di Berta si possano scorgere anche nelle sculture di D’Antoni, così come quel dinamismo e quella libertà che distinguono le opere di quest’ultimo non siano poi così estranei agli esiti del collega. Punta su questa complicità espressiva la mostra allestita nelle sale dello Spazio polivalente Arte e Valori di Giubiasco (una realtà nata nel 2016 per volontà di Suzanne e Gioachino Carenini che ha già all’attivo una decina di interessanti rassegne), che, con l’accostamento dei lavori di Berta e D’Antoni, ha dato vita a un inedito colloquio fatto di sottili consonanze da ricercare nell’incontro tra regola e gioco, tra stabilità e ritmo, tra meticolosità ed estro. Carlo Berta, ottanta primavere raggiunte a inizio anno, è figura poliedrica e molto nota in Ticino. Grafico, pittore, scenografo, insegnante e anche musicista jazz, si è formato come artista all’Accademia di Brera e ha lavorato

per decenni come apprezzato grafico editoriale e della comunicazione visiva. Nella mostra di Giubiasco è stata raccolta una selezione delle sue opere più significative eseguite dagli anni Settanta a oggi, composizioni geometriche soggette a una logica impeccabile che testimoniano la coerenza che ha accompagnato Berta lungo tutto il suo percorso. Che l’estremo rigore sia alla base della sua produzione lo rivela l’artista stesso, confessando una sorta di ossessione nell’ideare e poi applicare le scrupolose norme che regolano le sequenze dei suoi quadratini in plastica adesiva. Non è dunque lasciata al caso la scelta di utilizzare proprio il quadrato qua-

Gino D’Antoni, Carnevale di Venezia, 2014.

le forma geometrica esclusiva dei suoi lavori, manifestazione perfetta della sua attitudine al metodo e al calcolo: figura antidinamica per eccellenza che già in passato ha ammaliato tanti maestri (Kazimir Malevič la considerava «il primo passo della creazione pura in arte»), la struttura quadrangolare è simbolo di definizione della materia, di sistemazione di ciò che è informe e caotico. Eppure, nelle opere di Berta, questa forma ancorata sui quattro lati che rappresenta la stasi e l’immobilità acquisisce nella sua infinita reiterazione una dimensione dinamica, un palpito vitale che sa trascendere la razionalità. Ecco allora che, concluse nella loro rigida successione ma fantasiose e «in

divenire» nel loro sviluppo, le realizzazioni dell’artista appaiono leggere e pregne di un’energia che sembra percorrere le frenetiche traiettorie tracciate dai piccoli quadrati. Le serie si dipanano seguendo schemi che vivono di variazioni millimetriche e di graduali passaggi di colore, di accostamenti capaci di generare effetti chiaroscurali e da cui nascono composizioni briose e audaci, in una fusione perfetta di perizia e fervore creativo. Gino D’Antoni, classe 1954, è siciliano di origine e vive dall’età di cinque anni in Canton Ticino. Infermiere di professione, ha iniziato giovanissimo a dedicarsi all’arte portando avanti il suo percorso da autodidatta, sempre mosso dal desiderio di sperimentare nuove tecniche. Dalle opere pittoriche che hanno contraddistinto quasi esclusivamente i suoi esordi, D’Antoni si è poi dedicato alla scultura, trovando in essa lo strumento espressivo più consono alla sua ricerca. È proprio la produzione plastica dell’artista a trovare spazio nella mostra di Giubiasco, tra piccoli lavori lignei intrisi di poesia e colorate sculture in gesso e resina dai profili sinuosi. Nelle opere di D’Antoni le forme mutuate dalla realtà vengono trasformate in stravaganti elementi astratti, divenendo immagini della visione lirica e gioiosa che l’artista ha dell’esistenza. Ludiche, bizzarre, fin quasi surreali, le sculture di D’Antoni attribuiscono una

nuova identità agli elementi del reale, catapultandoli in un universo dominato dalla leggiadria del sogno. Dagli esili spessori e dalle conformazioni allungate di queste sculture prendono vita forme che rimandano ora a maschere, a occhi e a mezzelune, ora a foglie e a fiori, tramutandoli in sagome essenziali dall’andamento verticale, quasi volessero librarsi nell’aria. Non stupisce, dunque, come nei titoli delle opere vi siano riferimenti espliciti alla musica e alla danza, con il ritmo a modellare l’insieme e l’armonia a conferirgli leggerezza. Nel lavoro Do, datato 2015, D’Antoni sembra dare concretezza a una nota, una tangibilità che emerge dal contrasto cromatico tra il nero e l’arancione ma che viene smussata dalla sottigliezza della materia e dalla flessuosità dei contorni fino a convertirsi in lievità. Con il suo animo aperto all’esperienza del diletto creativo, D’Antoni ci parla del grande potere dell’immaginazione e di come reale e fantastico possano convivere grazie a uno sguardo poetico sul mondo. Dove e quando

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Cultura e Spettacoli

Da soli è (forse) meglio

Narrativa Nel suo recente romanzo Da soli, edito da Einaudi, Cristina Comencini sonda i delicati

e complessi rapporti all’interno delle coppie della sua generazione

Massimo Melasecca Cristina Comencini, regista, scrittrice e drammaturga italiana, esce per i tipi di Einaudi (2018) con il romanzo Da soli. Dopo la pubblicazione di Essere vivi (2016), che segna il suo debutto con la casa editrice torinese, la scrittrice fa il bis, attraverso un nuovo testo narrativo, che darà origine anche a un film, come dichiarato dalla stessa regista. Il libro è diviso in due parti. La prima caratterizza la psicologia e gli aspetti esistenziali di ciascuno dei protagonisti del romanzo che, in passato, erano parte di due matrimoni appena disciolti. Si scoprirà leggendo, che essi, hanno agito o subito la separazione dal partner secondo modalità differenti. La seconda sezione del romanzo, in una prospettiva temporale, tra passato e futuro, attualizza le riflessioni dei personaggi e le conseguenze personali su di loro, delle nuove distanze affettive. Da subito si nota, anzi è l’autrice stessa ad annunciarlo al lettore, l’adozione di una scrittura più cruda e diretta, per caratterizzare i protagonisti maschi della storia e uno stile più vocato al femminile, per meglio cogliere le sfumature psicologiche dell’altra metà del mondo. Il numero due e il suo primo multiplo, saranno il quinto protagonista nascosto del libro. Infatti, due sono le parti principali del libro, quattro le sezioni contenute all’interno della prima di esse. Due sono le stagioni convocate, quattro i personaggi principali. Due le coppie all’inizio del racconto,

Da soli dovrebbe diventare presto un film.

quattro, totalmente diverse al termine del romanzo. Due gli stili di scrittura impiegati, quattro le analisi dei personaggi che animano il romanzo. Dunque, siamo ai giorni nostri, principalmente a Roma, con trasferte a

Milano, Tel Aviv e Parigi. I protagonisti sono Marta, Andrea, Piero e Laura. La scena iniziale del libro avviene sul ponte di una nave, prima fuga d’amore delle due coppie appena costituitesi e, allo stesso tempo, simbolo del viaggio della

vita. L’avvio del romanzo è un punto cardinale della storia, perché avanzando con la lettura si coglierà la precarietà degli accoppiamenti e la volubilità delle scelte del partner, che in quella prima notte sulla nave avrebbero anche potuto essere cambiate. Come anticipato, Comencini prosegue, con la sua scrittura immediata e disillusa, attraverso la descrizione dei quattro personaggi principali, evidenziandone i tratti rilevanti. Laura e Andrea, rappresentano le figure apparentemente sottomesse alla relazione con Piero e Marta, che per contro esprimono un carattere più dominante. Questi ultimi assurgono ad attori della separazione all’interno della coppia, mentre i primi due rappresentano piuttosto gli spettatori del distacco. Attraverso una sorta di giochi di specchi e del suo contrario, la scrittrice dipana il suo filo di lana che è la solitudine dei personaggi, prima ma soprattutto dopo lo scioglimento dei rispettivi matrimoni. Alla progressiva ricerca di sé stessi e non più dell’altro, i quattro adulti sembrano prendere il largo dal partner, come la nave all’inizio del romanzo, che prima attraccata al porto, in seguito salpa per mari sconosciuti. L’autrice del libro decompone un puzzle di coppie, che non regge più alla distanza del tempo. Dopo venticinque anni di condivisione delle piccole nevrosi quotidiane, tra figli, vacanze e carriere professionali, i sodalizi sembrano logori e improponibili. Lo sguardo della Comencini sulla realtà quotidiana delle due coppie è impietoso e non risparmia

nemmeno dettagli personali di rilievo. Con l’emergere della solitudine, quale dimensione sempre più presente nel libro, il rapporto con la morte da parte dei quattro protagonisti diventa esplicito e irrinunciabile. La riflessione della scrittrice scava dunque nel fondo della psicologia dei soggetti e degli stessi restituisce al lettore un’immagine parzialmente rinnovata e speranzosa. Le figure apparentemente più fragili e dominate all’interno del rapporto di coppia, si riveleranno importanti risorse per sé stessi e per l’altro. Dopo un profondo lavoro di interpretazione dell’inerzia delle relazioni all’interno delle due coppie, realistico e sospeso da ogni giudizio moralistico, il romanzo si risolve grazie all’innesto di nuove dinamiche interpersonali e di inattese prospettive. Attraverso un romanzo decisamente intimista e appassionato, Cristina Comencini ci regala un affresco vivido dei successi e dei fallimenti della sua generazione, che definisce «in transizione». Da soli, inoltre, racconta degli sforzi delle persone di costituirsi in coppie e poi in nidi familiari, con la speranza di eludere alcune delle dimensioni esistenziali, fra cui la solitudine e la morte. L’autrice ci spiega anche che dal confronto vero con queste componenti ineludibili della vita, l’essere umano esce rafforzato e rinnovato. Bibliografia

Cristina Comencini, Da soli, Torino, Einaudi, 2018. Annuncio pubblicitario

Un’ultima ratio già cara agli antichi

Azione

Massimario classico F attucchiere

e chiaroveggenti da sempre interpellati Elio Marinoni Heu vatum ignarae mentes / «O menti ignare degli indovini» (Virgilio, Eneide IV, 65). Con quest’esclamazione – a cui fa seguito la duplice interrogativa «A che giovano all’insana i voti, a che i templi?» (ibid., 65-66) – Virgilio esprime la propria partecipazione all’azione descritta nei versi precedenti (ibid., 56 ss.). Si tratta delle offerte rituali con cui Didone, innamorata di Enea da poco giunto alla sua reggia, chiede agli dei di propiziare la sua passione; e in particolare dell’esame delle viscere delle vittime sacrificali, condotto dagli aruspici allo scopo di conoscere la volontà degli dei (ibid., 63-64). La sfiducia nei confronti dell’affidabilità dei profeti ha alle spalle una lunga tradizione, dalla figura di Cassandra, veritiera ma non creduta annunciatrice di sventure, a quella del veggente cieco Tiresia. Con riferimento a quest’ultimo, il re di Tebe Creonte afferma sprezzante che «tutta la razza degli indovini ama il denaro» (Sofocle, Antigone, 1055) e in un’altra tragedia Giocasta sostiene che «non c’è essere mortale che conosca l’arte divinatoria» (Sofocle, Edipo re, 708-709). Dall’esclamazione di Virgilio trasuda tutto lo scetticismo del poeta, imbevuto di filosofia epicurea, nei confronti delle pratiche divinatorie e più in generale religiose. Del resto Cicerone, che certo epicureo non era, ricorda che Catone «diceva di meravigliarsi che un aruspice non scoppiasse a ridere vedendone un altro» e commenta: «Quanti avvenimenti predetti da costoro si sono verificati? O, se qualcosa si verifica, come si può dimostrare che non sia avvenuto per caso?» (Cicerone, Sull’arte profetica, II, 51-52). In quel trattato Cicerone so-

stiene, con una buona dose di cinismo, che le pratiche divinatorie, pur non avendo fondamento scientifico, vanno mantenute in vigore per la loro utilità sociale: diffondendo il timore degli dei contribuiscono infatti a tenere le masse sotto controllo. La religione, insomma, se non come «oppio dei popoli», certo come instrumentum regni. Al quesito posto da Cicerone («quanti avvenimenti predetti da costoro si sono verificati?») si può oggi tentare di dare una risposta con le armi della statistica, e alla diffusa credulità nei confronti di presunti maghi, medium, chiromanti, che oggi si possono avvalere di tv e internet, cerca di opporsi perfino un apposito «Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale», dotato di un sito internet (www. cicap.org) e di una rivista («Scienza & Paranormale»). Ma il pubblico raggiunto da questo periodico, come ha osservato sconsolatamente Umberto Eco (Come arricchirsi sul dolore altrui, in Pape Satàn Aleppe, La Nave di Teseo, Milano 2016, pp. 228-230) è certamente assai più ridotto dei milioni di persone «catturati» dai fattucchieri dell’etere. Anche perché chi si trova in una situazione di grave crisi è portato ad aggrapparsi all’irrazionale come unica possibilità di salvezza. Né si tratta esclusivamente di persone di poca preparazione culturale: la disperazione induce talvolta anche individui di solida formazione a riporre qualche speranza nell’irrazionale. Non è perciò inverosimile la trovata dello scrittore Marco Vichi nel romanzo Morte a Firenze (Guanda, Parma 2009): di fronte a un’indagine sull’uccisione di un ragazzino il commissario Bordelli cede per un istante alla tentazione di affidarsi a una cartomante.

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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Cultura e Spettacoli Rubriche

In fin della fiera di Bruno Gambarotta Giochi d’infanzia È difficile dire di no ai promotori di un evento organizzato a scopo benefico che richiedono la nostra presenza. Si trattasse di una festa, di un convegno, di un’anteprima, rispondere «no, grazie, ho già un impegno» non è un problema. Ma come si fa a vanificare la nobiltà di una missione senza sentirsi in colpa? Gli organizzatori lo sanno e, nella granitica certezza di essere dalla parte giusta, adottano un piglio autoritario, assente oramai altrove. Nel sotto testo della convocazione è presente una minaccia: se rifiuti sarai considerato un verme egocentrico. Ecco perché mi sono sentito in dovere di accettare la proposta, o meglio di ubbidire all’ordine emanato da benemeriti di un associazione dedita ad alleviare la triste condizione degli anziani ricoverati nelle case di riposo. «Abbiamo scoperto che i nostri vecchietti ricevono stimoli positivi se li esortiamo a rievocare i giochi della loro infanzia. All’inizio sono bloccati, nessuno osa iniziare, c’è

bisogno di qualcuno venuto da fuori che dia l’esempio». Così eccomi qui a riordinare le idee e a mettere in fila i ricordi. Cominciamo a dividerli in due grandi famiglie, i giochi da casa e quelli da strada, avendo avuto la fortuna di nascere in un tempo in cui si poteva giocare nelle vie e nelle piazze dei nostri paesi. Se penso ai giochi da casa mi viene in mente la parola «balsa». Dal dizionario Garzanti: «legno molto leggero fornito da un albero dell’America centrale». La balsa è collegata al Traforo e qui i ricordi si velano di malinconia. Avvicinandosi le feste di Natale, mio padre non ha mai voluto sapere quali fossero i miei desideri: «i regali devono essere una sorpresa». In effetti, mai ho sognato da ragazzo di giocare con il Meccano o con il Traforo. Mio padre invece sì, infatti ci giocava lui. Avevo l’autorizzazione a iniziare ma alla prima incertezza o errore (il controdado di una vite allentato nel meccano, nel traforo la rottura di un seghetto nel

taglio della stramaledetta balsa), lui mi sfilava il gioco dalle mani: «Ti faccio vedere come si fa». Non erano previsti esami di riparazione, da quel momento diventavo un annoiato spettatore delle imprese paterne. Anni dopo mio padre ci ha descritto la sua vita da ragazzo nella famiglia di un padre litografo e di una madre sarta, con nove figli, cinque dei quali morti in tenera età. Durante le scuole elementari era spedito a casa di un compagno per aiutarlo a fare i compiti. In quella famiglia benestante quel ragazzo affamato che sarebbe diventato mio padre faceva onore a sontuose merende. Terminati i compiti, i due compagni giocavano, al Meccano o al Traforo. Se il bambino ricco si accorgeva che mio padre si appassionava al gioco glielo sfilava di mano e pretendeva di passare ad altro. Tornando ai miei giochi, si svolgevano per la quasi totalità fuori di casa, qualunque fosse la stagione. D’inverno a combattere a palle di neve, talvolta con pietre avvolte

da uno strato di neve compatta. Il nostro portone si apriva su una strada in discesa. La sera, prima di andare a letto, uno di noi scendeva in strada al buio a versare sul selciato del marciapiede un secchio d’acqua che, ghiacciando nella notte, diventata una meravigliosa pista di pattinaggio. E pazienza se qualche adulto, andando al lavoro, si esibiva in spettacolosi e involontari capitomboli. Con la bella stagione era la volta del gioco del portafoglio. Vecchio, consunto, gonfio di carta straccia, con una banconota da cinque lire a spuntare fuori. Deposto sul marciapiede all’altezza della grata della nostra cantina, assicurato con un cordino invisibile, era l’esca per ignari passanti. Lo avvistavano, si bloccavano, si guardavano intorno per controllare che nessuno li vedesse, si chinavano fingendo di allacciarsi una scarpa e, quando la mano rapace scattava a ghermirlo, era il momento di tirare la corda e farsi grasse risate a spese degli adulti. Il re dei nostri giochi

da strada era «tana, liberi tutti». Uno di noi stava sotto e, rivolto contro il muro, contava fino a dieci. Tutti gli altri correvano a nascondersi. Il gioco consisteva nell’arrivare a toccare tana senza farsi acchiappare; chi ci riusciva gridava «tana, liberi tutti» e con quel gesto affrancava i compagni. Potrebbe essere il format di un gioco televisivo. Per esempio un quiz: cinque o più concorrenti devono rispondere a domande di difficoltà crescente per arrivare a vincere un premio stabilito. Mettiamo il caso che i primi tre concorrenti diano una risposta errata collocandosi fuori gioco. Tocca al quarto che invece ce la fa. A questo punto può scegliere se tenersi tutto il malloppo (da dividere con il quinto se anche lui supera la prova) oppure dichiarare il «liberi tutti» che rimette in gioco i primi tre che saranno impegnati ad aiutarlo nel dare una risposta giusta alle successive domande e parteciperanno alla spartizione del bottino. È «il dilemma del prigioniero».

cano, Joy, ne attribuisce l’invenzione a Joy Mangano, intraprendente ragazza che negli anni Cinquanta ha pensato al cosiddetto miracle mop: le difficoltà della vita avevano spinto Joy a trascurare il suo istinto di inventrice, e col passare del tempo si era resa conto con delusione che nessuno dei sogni che aveva si era mai avverato. La scintilla si riaccende quando un giorno si trova a dover ripulire il ponte di una barca dai resti di calici di vino rosso, infatti le sue mani insanguinate dai frammenti di vetro la spingono a creare un nuovo accessorio per la pulizia della casa, che non comporti il dover strizzare con le mani il panno usato per pulire. Questa digressione sul lavapavimenti capelluto serve a comprendere l’insensata figura della signora che pulisce per terra come Cenerentola, «salvata» dall’uomo travestito da prete e dal suo aspirapolvere. Aristotele avrebbe seguito con entusiasmo questo spot all’apparenza insulso e anche brutto, per le luci e i toni, a ve-

dersi. In esso infatti pullulano elementi di retorica. Partiamo dall’iperbole della Cenerentola che si spezza la schiena, un’esagerazione per colpire la nostra intelligenza, o quella che ci rimane mentre guardiamo questi orrori televisivi. Poi il travestimento del presentatore, che sembra ma non è un finto prete: potrebbe trattarsi di una metafora, come i pastori salvano le anime, così l’aspirapolvere ti salva dalla fatica. O una metonimia, dove la parte è per il tutto: lavorare meglio in casa rende migliore tutta la vita. Ma c’è di più, c’è l’inganno. L’abito che richiama quello dei preti è il cuore di più di un sillogismo: il pastore dà buoni suggerimenti; il pastore invita a comprare l’aspirapolvere; quindi comprare l’aspirapolvere è un suggerimento buono. E insieme: il pastore bello e brizzolato è accattivante; il pastore è associato all’elettrodomestico ormai noto; l’elettrodomestico è accattivante. Ma non sono sillogismi, potreste obiettare, anzi obiettate di sicuro con

sdegno. Sono piuttosto paralogismi, perché partono da una menzogna, quell’uomo non è un vero pastore, anzi, ne suggerisce solo l’idea, nemmeno si spaccia per tale. Infatti la retorica non è la logica, miei cari. Lo scopo della logica è condurre ragionamenti certi, mentre il fine della retorica, come si legge nelle prime righe dell’omonima opera di Aristotele, è persuadere. Sarà poi la coscienza di ciascuno a vedere se ciò di cui si vuole convincere è cosa buona o cattiva o anche neutrale. E sarà poi la decisione di ciascuno porre un limite alla forza esercitata dai suoi mezzi di persuasione. In fondo, si suppone che la vita non cambi a causa di un’aspirapolvere, quindi è con un sorriso divertito che noi osserviamo il doppiamente finto pastore alle prese con i pavimenti. Ma le cose cambiano quando si pubblicizza il gioco d’azzardo, quando si inculca un’ideologia cattiva, quando si presentano stili di vita rovinosi ai più deboli, ai bambini, agli adolescenti.

bambino il cui padre è morto a 26 anni nel 2014 in un incidente automobilistico: il padre non aveva una moglie né una compagna ufficiale o clandestina. Dunque? Il bimbo è nato grazie al seme paterno (estratto postumo), da una donatrice di ovuli e da una madre surrogata per volontà dei genitori del defunto, bramosi di avere un nipote. ■ Il 52% della ricchezza dei russi si trova all’estero. ■ Secondo la grafologa anglosassone Emma Bache, la firma di Donald Trump rivela il carattere di «un uomo che non teme di mostrarsi com’è… un uomo d’affari dominato dall’impulso di far soldi e concludere affari, con un potente narcisismo. Sbaglia chi lo liquida come uno scemo, incapace di comprendere le conseguenze delle sue azioni». ■ L’ultra-maratoneta Dean Karnazes può correre 560 km senza dormire. ■ Le 182 ragazze che partecipano a Jesolo a Miss Italia devono fare a meno dei loro cellulari. ■L’aristocratico milionario britannico sir

Benjamin Slade cerca una moglie a cui lasciare il patrimonio. Requisiti richiesti: età fertile, tra i 30 e i 40 anni, altezza non più di un metro e 65 cm, intelligenza e capacità gestionali. Infine la futura moglie deve avere il porto d’armi e la licenza da pilota di elicotteri. Sir Benjamin ha fatto sapere che da oltre un anno ha lanciato l’annuncio senza però trovare ancora la persona giusta. ■ Oltre 100 persone sono morte in un naufragio al largo della Libia il primo settembre. Tra le vittime ci sarebbero anche venti bambini. ■ Una principessa saudita ha denunciato di aver subito un furto di gioielli per un valore di 800 mila euro dalla sua suite al Ritz sulla Place Vendôme. I gioielli non erano tenuti nella cassaforte e la stanza non presentava segni di effrazione. ■ Altezza media dei giocatori impegnati nel mondiale di volley: metri 1,99. Il centrale della squadra russa, Dmitriy Muserskiy è alto metri 2,19. Altezza media dei giocatori impegnati nel mondiale del 1978: metri 1,89.

■ In lieve calo la Borsa della Corea del Sud, indice Kospi –0,2%, dopo l’annuncio della Casa Bianca, di un nuovo incontro tra Trump e Kim Jong-un. ■ Per la prima volta in Europa è stato diagnosticato in un essere umano un caso di vaiolo delle scimmie. A risultare positivo è un ufficiale della Marina nigeriana. ■ Spesa media dei maschi italiani per la biancheria intima nel corso del 2017: 17,08 euro. Spesa media delle donne nello stesso arco di tempo: 36,59 euro. ■ La Lego ha stanziato un miliardo di corone danesi (circa 150 mio di euro) e assunto un centinaio di persone per studiare plastiche vegetali e abbandonare il petrolio; finora non ha trovato niente. Adesso, provate a rispondere: leggendo queste notizie ora tragiche ora comiche, ora allarmanti, spesso inutili, trovate così senza gerarchia tra le rovine degli scavi, un post-umano del 3018 che cosa dirà? A. Com’erano simpatici i nostri antenati, B. Che bei tempi e che nostalgia!, C. Ecco perché siamo ridotti così!

Postille filosofiche di Maria Bettetini Un aspirapolvere per una nuova vita Passo davanti al televisore acceso e intuisco con la coda dell’occhio una scena almeno curiosa: mi par di vedere un prete con in mano un’aspirapolvere. Mi fermo, ora il sant’uomo rovescia per terra di tutto per mostrare le meraviglie del macchinario, che raccoglie asciuga pulisce disinfetta. È un bell’uomo, capelli corti lievemente brizzolati sulle tempie, alto, magro il giusto, potrebbe recitare in una fiction, da Uccelli di Rovo a Grey’s Anatomy. Ma non è un prete, nemmeno un attore che fa il prete, come ci si potrebbe aspettare. È un venditore vestito di nero, sotto la giacca (di taglio lievemente antiquato, come anche i pantaloni) ha un golfino un po’ aperto sotto il collo, sotto il golfino una maglietta bianca con, attenzione, il collo alto. Proprio come il cosiddetto «collare» o collarino che, dai tempi di Urbano VIII, accompagna pastori e vescovi delle chiese cristiane, della cattolica come di quelle di altro rito o le riformate. Insomma, una figura

rassicurante: se si dà volentieri ascolto, o addirittura retta, alle parole di un pastore in ambito spirituale, teologico, famigliare, vogliamo non ascoltare i suoi consigli sugli aspirapolvere? Ci si fida più volentieri del parroco che di un commerciante, anche se qualche parroco si è comportato male, ma sarà una minoranza, e quanti commercianti invece imbrogliano per vile denaro? Quindi, istintivamente, ci cattura il consiglio del pastore d’anime, usate l’aspirapolvere taldeitali, dite basta a spaccarvi la schiena pulendo per terra. Segue immagine di giovane signora bionda che maledice il turpe lavoro dello straccio tirato a ginocchioni, attività non più praticata almeno dall’invenzione del mocio, quella specie di spazzolone coi capelli che fu inventato e brevettato quasi due secoli fa, nel 1837, da Eddy Key, negli Stati Uniti, poi perfezionato nel Novecento da uno spagnolo che gli diede il nome di mocho. In verità un recente film ameri-

Voti d’aria di Paolo Di Stefano Noi, gli antenati del 3018 Notizie dagli scavi. È il titolo di un racconto di Franco Lucentini, apparso da Feltrinelli nel 1964, il cui protagonista, detto il «professore», è in realtà un «disabile», come si direbbe oggi, tuttofare in una pensione malfamata di Roma. Un giorno, visitando gli scavi e le rovine antiche della Villa Adriana, il «professore» si rende conto che la realtà e il tempo sono indecifrabili e oscuri per chiunque, ed è grazie a questa sorprendente illuminazione che tutto – il passato e il presente – sembra acquistare un senso e una ragione. Ora supponiamo di essere abitanti del post-mondo fatto di macerie e collocato circa nel 3018 e di scoprire, scavando tra le rovine antiche, frammenti di notizie databili alla prima settimana di settembre 2018. La domanda è: quale luce accenderebbero nella coscienza di un postumano del futuro le seguenti notizie strampalatissime o tragiche o assurde o comiche o allarmanti? (In attesa del verdetto del 3018, ciascuno può farsi le proprie idee assegnando mentalmente o a penna

il suo voto d’aria, dopo aver valutato il tasso di indignazione, di sorpresa, di terrore, di indifferenza o di comicità che queste piccole cronache del nostro tempo riescono a produrre). Eccole. ■ Le buste di plastica vengono usate in media 12 minuti e restano in mare anche 50 anni; secondo uno studio dell’Arcadis, il 5% dei rifiuti che si trovano sulle spiagge del Mediterraneo (701 ogni cento metri) è composto da sacchetti di plastica. ■ In Lombardia 8 mila cattedre su 15 mila risultano scoperte e gli insegnanti di sostegno sono solo 140 rispetto ai 5 mila necessari. ■ Il ministro dell’Interno italiano ha dichiarato: «Non prendo lezioni dall’Onu». ■ Nel Pacifico esiste un’isola fatta di sacchetti di plastica e altra spazzatura a cui è stato dato nome Plastic Vortex. ■ A Treviso un bambino di otto anni guarito dalla leucemia non potrà andare a scuola perché alcuni compagni non sono stati vaccinati. ■ In Inghilterra nel 2015 è nato un


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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

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shopping Tradizione in evoluzione

Attualità Fino al 23 settembre il mitico Camion Vendita Migros «rivisitato» in chiave catering

ti aspetta a Lugano Città del Gusto con sfiziose proposte culinarie

Fino alla prossima domenica gli amanti del buon gusto si ritrovano sulle rive del Ceresio dove li attende la manifestazione enogastronomica più importante della Svizzera: Lugano Città del Gusto. Incontri con gastronomi, chef stellati, produttori locali, nutrizionisti, enologi, nonché degustazioni, laboratori didattici, spettacoli e mostre a tema… sono solo alcuni degli eventi previsti durante questi coinvolgenti undici giorni del gusto luganesi (www.luganocittadelgusto. ch). Migros Ticino non può mancare a questo importantissimo evento, a cui parteciperà in modo originale e moderno, proponendo ai visitatori succulente creazioni gastronomiche preparate sul momento con prodotti freschi Migros e selezionati con grande cura da esperti chef (vedi sotto). Ti aspettiamo!

Presso il Camion Vendita Migros «rivisitato» ti aspettano diverse sfiziose creazioni gastronomiche. (Flavia Leuenberger Ceppi)

La nostra proposta culinaria fino al 23 settembre:

M Tartare Panino scuro cotto su pietra con tartare di manzo condita, julienne di carote e zucchine e burro di montagna montato alle erbe.

M Burger Michetta grande con burger di manzo, rösti, uovo fritto, bacon saltato, crumble di cipolla, pomodoro, formaggio Raclette e insalata batavia.

M Vegi Mini twister rustico con melanzane, zucchine e carote alla piastra, pomodoro cuore di bue, spinacino fresco, mozzarella nostrana e pepe della Valle Maggia.

M Angus Beef Baguette cotta su pietra con tagliata di Angus, rucoletta, pomodoro carnoso, salsa maionese e aglio, zucchina alla griglia e crumble di cipolla.

M Wild Baguette cotta su pietra con scaloppata di capriolo, riduzione ai mirtilli, cabis rosso, crumble di cipolla, cavolino di Bruxelles scottato, schiacciata di spätzli al burro e lamelle di pera guyot.

Le ultime tappe

M Buongustaio Panino ticinese con sbrisolata di marroni, formaggino di capra, lardo nostrano, miele ticinese e pepe della Valle Maggia.

M Chicken Spiedi con bocconcini di pollo avvolti da bacon croccante con mozzarelle mignon e cherry scottato.

M Meatballs Duo di polpette manzo e pollo, concassé di pomodoro, verdure di stagione, scaglie formaggio Val di Blenio e patate Amandine al rosmarino.

M Salad Bouquet di insalata mista, pomodoro cherry, robiolina di mucca ticinese, bacon croccante, funghetti di stagione, crostini alle erbe, uovo sodo, servita in tortilla di mais.

17-18 settembre Piazza Castello, Lugano 19 settembre Piazza S. Rocco, Lugano 20-23 settembre Piazza Castello, Lugano


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Idee e acquisti per la settimana

Cremosa delizia

Novità Un brie a base di latte vaccino nostrano prodotto dalla LATI di S. Antonino

Brie Nostrano 100 g Fr. 2.40

Immancabile in un tagliere di formaggi misti, ma apprezzato anche caldo, per esempio su torte salate, flammkuchen e, perché no, sulla pizza, il brie, insieme al camembert, è tra i formaggi a pasta molle più conosciuti. Dal sapore più delicato

rispetto al cugino normanno, il brie è originario dell’omonima regione francese dell’Ile-de-France, a pochi chilometri da Parigi. Nel 1815, in occasione del congresso di Vienna, il brie de Meaux venne addirittura eletto «Re di tutti i formaggi». An-

che in Svizzera nel secolo scorso si è diffusa con successo la produzione del brie. Una produzione ripresa più recentemente anche dalla LATI, che lo confeziona in modo tradizionale facendo capo al buon latte vaccino raccolto presso oltre cento produtto-

ri distribuiti su tutto il territorio ticinese. Come tutti i brie, anche quello nostrano si caratterizza per la sua crosta bianca fiorita – assolutamente commestibile – data da uno specifico trattamento con muffe speciali del tipo penicillium. Al suo inter-

Tempo di selvaggina

no presenta una pasta chiara dalla consistenza morbida e burrosa, che conquista il palato grazie al sapore delicato, dolce e nocciolato. L’affinamento dura almeno venti giorni in ambienti con temperatura e umidità costanti.

Che spasso! Azione 20% sulle Fettine di cervo Nuova Zelanda, a libero servizio, 100 g Fr. 3.65 invece di 4.60 dal 18 al 24 settembre

Alla Migros si è aperta la stagione della selvaggina. Buongustai e amanti di questa tenera carne ricca di sapore, sono avvisati e invitati a recarsi nei reparti macelleria Migros, nei quali è già disponibile un variegato assortimento di specialità fresche, al banco e al libero servizio, e di pietanze già pronte come gli apprezzati salmì, la salumeria mista e i paté. La carne di cervo, capriolo o cinghiale, inoltre, non è solo gustosa, ma anche povera di grassi e ricca di proteine. I nostri specialisti dei banchi macelleria sono a vostra completa disposizione per consigli personalizzati sulla migliore preparazione di ogni taglio. A proposito: questa settimana le fettine di cervo (nella foto) sono proposte a un prezzo particolarmente vantaggioso. Voglia di un piatto semplice ma gustoso? Condire le fettine di cervo con sale e pepe. Rosolarle a fuoco vivo circa 2 minuti per lato. Sfumare con un bicchiere di vino rosso. Aggiungere della panna liquida e lasciar ridurre la salsa per qualche minuto. Servire subito, per esempio con degli spätzli.

Laser Pro Chariot 1 auto Fr. 12.90 Laser Pro Chariot 2 auto Fr. 19.90 In vendita nei reparti giocattoli Migros

Impossibile non divertirsi con le super trendy e coloratissime automobili Laser Chariot Pro Speed Car. Queste mini macchine ultraveloci sono in grado di girare in qualsiasi contenitore di forma rotonda, facendo incredibili acrobazie e senza mai cadere. Puoi addirittura scegliere tra due velocità differenti per un doppio divertimento. Inoltre, sono dotate di luci lampeggianti e, grazie alle batterie ricaricabili, hanno un’autonomia di 15-17 minuti. Sono vendute singole oppure nella confezione da due, incluso contenitore, cavo di ricarica e porta-macchinina.


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Idee e acquisti per la settimana

La fabbrica dei sogni del futuro Disney MickeyMania Topolino ha 90 anni, mentre dieci ne compie il laboratorio di ricerca

della Disney a Zurigo. Qui gli specialisti informatici creano gli eroi cinematografici del futuro

Markus Gross vorrebbe forse volare nello Spazio? Il ricercatore esamina una struttura sferica di tubi metallici che ricorda un po’ una capsula spaziale. In verità si tratta della costruzione di un cosiddetto «light stage», un’impalcatura delle dimensioni di un uomo a cui sono fissate 150 lampade ed otto cineprese. Con essa si può misurare e digitalizzare la mimica di una persona, fino al più piccolo movimento dei muscoli facciali. Ci troviamo nel laboratorio di ricerca della Disney a Zurigo, una moderna fabbrica dei sogni. Si trova in un anonimo edificio di uffici. Markus Gross vi dirige un gruppo composto da una settantina di giovani scienziati. Gross è anche professore di informatica al Politecnico di Zurigo. Con tranquillità e grande modestia, il 55enne d’origine tedesca ci spiega in cosa consiste il suo lavoro, sottolineando di continuo i meriti dei suoi collaboratori, quasi come se volesse rendersi invisibile. Creature fantastiche ma realistiche

Eppure Gross avrebbe tutte le ragioni per vantarsi. Guida infatti una squadra il cui lavoro è già confluito in ben 18 lungometraggi prodotti a Hollywood, l’ultimo dei quali è il grande successo

«Avengers: Infinity War». Nel film si vede una creatura aliena dall’aspetto diabolico di nome Thanos, che vorrebbe cancellare dalla faccia dell’Universo la metà di tutti i suoi abitanti. Il mostruoso super cattivo ha la pelle violacea e la mascella come una pala di escavatore. La sua mimica però assomiglia molto a quella dell’attore hollywoodiano Josh Brolin. Infatti, questo fantasmagorico incrocio tra un mostro e un uomo in carne ed ossa non sarebbe mai potuto nascere senza il lavoro di ricerca nel laboratorio Disney. «Per trasformare in modo convincente un uomo reale in una creatura fantascientifica, bisogna innanzitutto digitalizzare la mimica della persona in carne ed ossa», spiega Gross. «Un tempo per gli effetti speciali di questo tipo si memorizzavano 150 punti di un volto; ora con il nostro light stage se ne possono scansionare a milioni». Ecco come nascono delle creature fantastiche che hanno espressioni incredibilmente realistiche quando sono pensierose o ridono o piangono. Topolino resta com’è

Nel 2018 il laboratorio zurighese compie dieci anni, mentre contempora-

La collezione Fine del primo tempo della «Disney MickeyMania» Attualmente, quando fate la spesa alla Migros potete collezionare adesivi da scambiare con dei peluche raffiguranti Topolino, Minnie, Pluto, Paperino e Paperina.

Con il suo impianto per effetti speciali il capo del laboratorio Markus Gross potrebbe creare un nuovo Topolino. Si scansiona il volto di una persona (in alto) e lo si fa diventare un personaggio di fantasia dai tratti umani.

neamente la società Disney festeggia il 90° compleanno di Mickey MouseTopolino. Non sarebbe tempo che Gross mettesse mano al più famoso dei personaggi dei cartoni animati? «Naturalmente, con la nostra tecnica di trucchi sarebbe possibile sviluppa-

re ulteriormente Topolino», ammette Gross. «Potremmo rendere molto umana la sua mimica. Ma grandi e piccini di tutto il mondo amano Topolino così com’è. Ed è così che deve restare». / Testo Michael West; Foto Paolo Dutto

È così facile: fino all’8 ottobre per ogni acquisto da 20 franchi effettuato in qualsiasi supermercato della Migros o su LeShop.ch, riceverete un adesivo (al massimo 15 adesivi per ogni spesa, fino ad esaurimento, escluso l’acquisto di buoni e carte regalo). Una volta completato l’album della raccolta con 20 adesivi, entro l’8 ottobre potrete scambiare gratuitamente il vostro album con un personaggio di peluche. (L’offerta è valida fino a esaurimento delle scorte, non è possibile acquistarla). Per maggiori informazioni: migros.ch/mickeymania Annuncio pubblicitario

20% sull’intero assortimento Zoé.

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Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 18.9 ALL’1.10.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


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Idee e acquisti per la settimana

Concorso

Caffè

Sempre quello giusto

Ora durante le settimane del caffè premi per un valore di Fr. 10’000 in palio. www.migros.ch/caffe

Moka, macchina da espresso o completamente automatica, per infusione, direttamente in tazza o comodamente in capsule. Esistono innumerevoli modi per preparare il caffè. Come pure molte varietà di caffè. Per fortuna, visto che le diverse combinazioni influiscono sull’aroma

Il bollitore è spesso usato in ufficio oppure in campeggio per la preparazione del caffè. Con i caffè istantanei della Migros si può preparare in modo semplice un buon caffè. Per il caffellatte basta miscelare il caffè istantaneo direttamente nel latte caldo.

Testo Claudia Schmidt; Foto Claudia Linsi

La Bialetti è da decenni una vera star. Il caffè della moka, come viene anche chiamata la caffettiera, risulta forte, quindi, dopo la preparazione si consiglia di posizionare la caffettiera su un panno umido per evitare che la bevanda bruci e diventi amara.

Le macchine per caffè espresso e quelle completamente automatiche sono indicate per gli amanti del caffè che vogliono gestire tutti i fattori della preparazione. Chi sceglie una macchina da espresso deve prestare attenzione anche alla macinatura del caffè. Gli apparecchi completamente automatici sono i più comodi e necessitano un po’ di pratica, ma offrono anche alcune opzioni di regolazione.

Le macchine da caffè a capsule sono indicate per chi desidera un caffè come al bar premendo solo un tasto. Grazie alle capsule sigillate in diversi aromi, il caffè risulta sempre come appena macinato, la riuscita è garantita e inoltre si può cambiare la varietà di caffè in qualsiasi momento.

Serie

La tostatura del caffè

Caruso Oro in chicchi 500 g Fr. 9.40

Exquisito macinato 500 g Fr. 7.70

Delizio Espresso 12 capsule Fr. 5.30

Café Royal Cappuccino 16 capsule Fr. 4.95

Cafino Classic Instant confezione da 550 g* Fr. 10.80 *Azione 2 x 550 g Fr. 15.10 invece di 21.60 fino al 24.09

Noblesse Café Zaun decaffeinato 100 g Fr. 6.20

Café Royal Espresso Café Royal Lungo 33 capsule** Fr. 12.– 10 capsule** Fr. 4.10 **Azione ** D a 2 confezioni 20% di sconto sulle confezioni da 10 e 33 pezzi, fino al 24.09

Nelle prossime settimane potrete leggere interessanti informazioni sulla tostatura del caffè e perché un caffè con una tostatura scura non è indicato per il caffè filtro.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Concorso

Caffè

Sempre quello giusto

Ora durante le settimane del caffè premi per un valore di Fr. 10’000 in palio. www.migros.ch/caffe

Moka, macchina da espresso o completamente automatica, per infusione, direttamente in tazza o comodamente in capsule. Esistono innumerevoli modi per preparare il caffè. Come pure molte varietà di caffè. Per fortuna, visto che le diverse combinazioni influiscono sull’aroma

Il bollitore è spesso usato in ufficio oppure in campeggio per la preparazione del caffè. Con i caffè istantanei della Migros si può preparare in modo semplice un buon caffè. Per il caffellatte basta miscelare il caffè istantaneo direttamente nel latte caldo.

Testo Claudia Schmidt; Foto Claudia Linsi

La Bialetti è da decenni una vera star. Il caffè della moka, come viene anche chiamata la caffettiera, risulta forte, quindi, dopo la preparazione si consiglia di posizionare la caffettiera su un panno umido per evitare che la bevanda bruci e diventi amara.

Le macchine per caffè espresso e quelle completamente automatiche sono indicate per gli amanti del caffè che vogliono gestire tutti i fattori della preparazione. Chi sceglie una macchina da espresso deve prestare attenzione anche alla macinatura del caffè. Gli apparecchi completamente automatici sono i più comodi e necessitano un po’ di pratica, ma offrono anche alcune opzioni di regolazione.

Le macchine da caffè a capsule sono indicate per chi desidera un caffè come al bar premendo solo un tasto. Grazie alle capsule sigillate in diversi aromi, il caffè risulta sempre come appena macinato, la riuscita è garantita e inoltre si può cambiare la varietà di caffè in qualsiasi momento.

Serie

La tostatura del caffè

Caruso Oro in chicchi 500 g Fr. 9.40

Exquisito macinato 500 g Fr. 7.70

Delizio Espresso 12 capsule Fr. 5.30

Café Royal Cappuccino 16 capsule Fr. 4.95

Cafino Classic Instant confezione da 550 g* Fr. 10.80 *Azione 2 x 550 g Fr. 15.10 invece di 21.60 fino al 24.09

Noblesse Café Zaun decaffeinato 100 g Fr. 6.20

Café Royal Espresso Café Royal Lungo 33 capsule** Fr. 12.– 10 capsule** Fr. 4.10 **Azione ** D a 2 confezioni 20% di sconto sulle confezioni da 10 e 33 pezzi, fino al 24.09

Nelle prossime settimane potrete leggere interessanti informazioni sulla tostatura del caffè e perché un caffè con una tostatura scura non è indicato per il caffè filtro.


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Idee e acquisti per la settimana

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L’agnello dell’alpe è disponibile alla Migros da subito e fino verso metà ottobre.

TerraSuisse

Il momento di salire all’alpe

A inizio giugno 420 pecore provenienti da cinque cantoni sono state trasferite sull’Alpe Plazèr, nella Bassa Engadina. L’estivazione non è stata senza problemi, ma ne beneficiano ad ogni modo gli animali, la biodiversità nelle zone alpine e non da ultimo anche noi

TerraSuisse Spezzatino di agnello dell’alpe senz’osso* per 100 g prezzo del giorno

4

Testo Judith Wyder, Foto Stephan Bösch

TerraSuisse Arrosto di spalla di agnello dell’alpe* per 100 g prezzo del giorno

1 Gli allevatori sono sempre vicino ai loro animali: Stefan Platzer e Othmar Buschor. 2 L’allevatore Martin Keller (a destra) giuda il gregge di pecore dalla Valle S-charl fino all’alpe. 3 Martin Keller con uno dei suoi cani da protezione delle greggi. 4 Lungo il torrente Clemgia in direzione della Valle S-charl. TerraSuisse Costolette di agnello dell’alpe* per 100 g, al banco prezzo del giorno *Nelle maggiori filiali

1

La giornata è appena iniziata, tuttavia questo sabato mattina le pecore hanno fretta di affrontare l’imminente risalita all’alpeggio. Con chiassosi belati scendono da tre grossi mezzi di trasporto. La maggior parte di loro è stata caricata a Buchs, SG, e Wolfhalder, AR. Da lì il viaggio è proseguito fino ai confini di S-charl, un villaggio della Bassa Engadina ubicato a 1800 metri. Nell’apposita gabbia montata sul fuoristrada dell’allevatore di pecore Martin Keller, di Buchs, ci sono tre cani da pastore maremmano abruzzesi che attendono di dare avvio al loro lavoro: Donnia, la più anziana, Anika e Arno. Come è di prassi per questi cani da pastore, in pianura vivono nella stalla con le pecore. Nel corso dei successivi tre mesi e mezzo dovranno controllare giorno e notte circa 420 pecore. Le pecore, che provengono dai cantoni

San Gallo, Appenzello Interno ed Esterno, Lucerna e Grigioni e hanno 15 differenti proprietari, percorrono in gruppo gli ultimi 200 metri di dislivello fino all’Alpe Plazèr. Sempre belando, transitano attraverso quello che un tempo era l’insediamento di minatori S-charl per poi proseguire sull’acciottolato. Sono accompagnate da un pastore, Stefan Platzer, dai membri di alcune famiglie di allevatori di pecore e da due border collie che guidano il gregge. Naila funge da fanalino di coda. Othmar Buschor, di Wolfhalden, che accompagna le sue 49 pecore, spiega che il cane durante la risalita cambia il modo di lavorare: «Normalmente riporta il gregge nella mia direzione, ora invece lo spinge a procedere davanti a me». La metà della salita è alle spalle e gli animali per la prima volta mangiano la gustosa erba d’altura. In modo del tutto

spontaneo, nel corso del periodo estivo le pecore e gli agnelli di prendono cura dei pascoli, promuovono la biodiversità e qui, al confine con il parco nazionale, contribuiscono alla conservazione della biosfera sulle alpi, che altrimenti imboschirebbe. L’ordinanza federale sulla montagna e l’alpe regola anche le modalità di tenuta degli agnelli sugli alpeggi, e comporta l’obbligo di gestire le Alpi in modo naturale e rispettoso. Martin Keller, socio Migros e pastore: «Gli agnelli dell’alpe hanno una grande libertà di movimento e si nutrono unicamente di erbe di montagna e latte materno. Ciò li rende particolarmente resistenti e si riflette positivamente sulla qualità della carne. Soddisfiamo in tal modo anche gli alti requisiti per il benessere degli animali conformemente a quanto richiesto da IP-Suisse». Gli agnelli devono rimanere un minimo di 56 giorni sugli alpeggi.

Ogni allevamento da cui provengono viene controllato da IP-Suisse. L’agricoltore di San Gallo è co-promotore del marchio «Alplamm», agnello dell’alpe. Nel 2011 assieme a IP-Suisse, la Federazione svizzera d’allevamento ovino e Micarna, l’azienda propria di lavorazione della carne, Migros ha dato avvio al progetto agnello dell’alpe. La carne di agnello dell’alpe è disponibile in esclusiva alla Migros e per un breve periodo con il label TerraSuisse. Il programma, che garantisce tra l’altro la marcatura elettronica all’orecchio e un banco dati per tracciare ogni singolo animale fino all’alpeggio, è già ora una storia di successo. «Assicura la continuità. Inoltre il proprietario della pecora ottiene circa 20 franchi in più per ogni animale», ci dice Martin Keller. Il periodo estivo in montagna non è però senza problemi. Nonostante il programma di protezione delle greggi, lo scorso

anno tre animali sono rimasti vittima dell’orso, e ciò malgrado la collaborazione con il guardiacaccia, che ha da subito segnalato ogni nuova traccia.

Proprietario della Migros

«Il meglio per tutti»

Irrinunciabile ieri come oggi

Dopo un’ora e mezza buona il gregge raggiunge la sua destinazione, l’Alpe Plazèr. Nel corso dei prossimi tre mesi e mezzo gli animali potranno beneficiare dell’aria fresca di montagna e di 500 ettari di pascolo alpino. Martin Keller rappresenta la quarta generazione che passa l’estate all’alpeggio. Per il suo bisnonno la risalita richiedeva ogni volta quasi una settimana, dal momento che partiva con gli animali da Buchs e in Engadina attraversava il Passo del Flüela. Da allora non molto è cambiato sull’alpeggio: l’estivazione, che dura fino a metà settembre, era ed è culturalmente irrinunciabile per la conservazione del paesaggio.

Marco Scherer è sostituto responsabile macelleria nella filiale Migros Mall of Switzerland.

Marco Scherer: «In qualità di proprietario Migros, sono orgoglioso del fatto che Migros sviluppi costantemente nuove eccellenti proposte assieme ai produttori. Durante il periodo estivo trascorso sull’alpeggio, gli agnelli IP-Suisse mangiano erbe di montagna a piacimento e hanno libertà di movimento. E ciò si percepisce anche dal gusto delicato della carne. È quindi il meglio per tutti: per gli animali, per i produttori e per i clienti».

Gli animali vengono allevati in gruppo e con libertà di movimento in aziende agricole IP-Suisse rispettose delle specie.

Parte di

La Migros è della gente. Per questo si impegna come nessun altro a favore della sostenibilità.


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L’agnello dell’alpe è disponibile alla Migros da subito e fino verso metà ottobre.

TerraSuisse

Il momento di salire all’alpe

A inizio giugno 420 pecore provenienti da cinque cantoni sono state trasferite sull’Alpe Plazèr, nella Bassa Engadina. L’estivazione non è stata senza problemi, ma ne beneficiano ad ogni modo gli animali, la biodiversità nelle zone alpine e non da ultimo anche noi

TerraSuisse Spezzatino di agnello dell’alpe senz’osso* per 100 g prezzo del giorno

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Testo Judith Wyder, Foto Stephan Bösch

TerraSuisse Arrosto di spalla di agnello dell’alpe* per 100 g prezzo del giorno

1 Gli allevatori sono sempre vicino ai loro animali: Stefan Platzer e Othmar Buschor. 2 L’allevatore Martin Keller (a destra) giuda il gregge di pecore dalla Valle S-charl fino all’alpe. 3 Martin Keller con uno dei suoi cani da protezione delle greggi. 4 Lungo il torrente Clemgia in direzione della Valle S-charl. TerraSuisse Costolette di agnello dell’alpe* per 100 g, al banco prezzo del giorno *Nelle maggiori filiali

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La giornata è appena iniziata, tuttavia questo sabato mattina le pecore hanno fretta di affrontare l’imminente risalita all’alpeggio. Con chiassosi belati scendono da tre grossi mezzi di trasporto. La maggior parte di loro è stata caricata a Buchs, SG, e Wolfhalder, AR. Da lì il viaggio è proseguito fino ai confini di S-charl, un villaggio della Bassa Engadina ubicato a 1800 metri. Nell’apposita gabbia montata sul fuoristrada dell’allevatore di pecore Martin Keller, di Buchs, ci sono tre cani da pastore maremmano abruzzesi che attendono di dare avvio al loro lavoro: Donnia, la più anziana, Anika e Arno. Come è di prassi per questi cani da pastore, in pianura vivono nella stalla con le pecore. Nel corso dei successivi tre mesi e mezzo dovranno controllare giorno e notte circa 420 pecore. Le pecore, che provengono dai cantoni

San Gallo, Appenzello Interno ed Esterno, Lucerna e Grigioni e hanno 15 differenti proprietari, percorrono in gruppo gli ultimi 200 metri di dislivello fino all’Alpe Plazèr. Sempre belando, transitano attraverso quello che un tempo era l’insediamento di minatori S-charl per poi proseguire sull’acciottolato. Sono accompagnate da un pastore, Stefan Platzer, dai membri di alcune famiglie di allevatori di pecore e da due border collie che guidano il gregge. Naila funge da fanalino di coda. Othmar Buschor, di Wolfhalden, che accompagna le sue 49 pecore, spiega che il cane durante la risalita cambia il modo di lavorare: «Normalmente riporta il gregge nella mia direzione, ora invece lo spinge a procedere davanti a me». La metà della salita è alle spalle e gli animali per la prima volta mangiano la gustosa erba d’altura. In modo del tutto

spontaneo, nel corso del periodo estivo le pecore e gli agnelli di prendono cura dei pascoli, promuovono la biodiversità e qui, al confine con il parco nazionale, contribuiscono alla conservazione della biosfera sulle alpi, che altrimenti imboschirebbe. L’ordinanza federale sulla montagna e l’alpe regola anche le modalità di tenuta degli agnelli sugli alpeggi, e comporta l’obbligo di gestire le Alpi in modo naturale e rispettoso. Martin Keller, socio Migros e pastore: «Gli agnelli dell’alpe hanno una grande libertà di movimento e si nutrono unicamente di erbe di montagna e latte materno. Ciò li rende particolarmente resistenti e si riflette positivamente sulla qualità della carne. Soddisfiamo in tal modo anche gli alti requisiti per il benessere degli animali conformemente a quanto richiesto da IP-Suisse». Gli agnelli devono rimanere un minimo di 56 giorni sugli alpeggi.

Ogni allevamento da cui provengono viene controllato da IP-Suisse. L’agricoltore di San Gallo è co-promotore del marchio «Alplamm», agnello dell’alpe. Nel 2011 assieme a IP-Suisse, la Federazione svizzera d’allevamento ovino e Micarna, l’azienda propria di lavorazione della carne, Migros ha dato avvio al progetto agnello dell’alpe. La carne di agnello dell’alpe è disponibile in esclusiva alla Migros e per un breve periodo con il label TerraSuisse. Il programma, che garantisce tra l’altro la marcatura elettronica all’orecchio e un banco dati per tracciare ogni singolo animale fino all’alpeggio, è già ora una storia di successo. «Assicura la continuità. Inoltre il proprietario della pecora ottiene circa 20 franchi in più per ogni animale», ci dice Martin Keller. Il periodo estivo in montagna non è però senza problemi. Nonostante il programma di protezione delle greggi, lo scorso

anno tre animali sono rimasti vittima dell’orso, e ciò malgrado la collaborazione con il guardiacaccia, che ha da subito segnalato ogni nuova traccia.

Proprietario della Migros

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Irrinunciabile ieri come oggi

Dopo un’ora e mezza buona il gregge raggiunge la sua destinazione, l’Alpe Plazèr. Nel corso dei prossimi tre mesi e mezzo gli animali potranno beneficiare dell’aria fresca di montagna e di 500 ettari di pascolo alpino. Martin Keller rappresenta la quarta generazione che passa l’estate all’alpeggio. Per il suo bisnonno la risalita richiedeva ogni volta quasi una settimana, dal momento che partiva con gli animali da Buchs e in Engadina attraversava il Passo del Flüela. Da allora non molto è cambiato sull’alpeggio: l’estivazione, che dura fino a metà settembre, era ed è culturalmente irrinunciabile per la conservazione del paesaggio.

Marco Scherer è sostituto responsabile macelleria nella filiale Migros Mall of Switzerland.

Marco Scherer: «In qualità di proprietario Migros, sono orgoglioso del fatto che Migros sviluppi costantemente nuove eccellenti proposte assieme ai produttori. Durante il periodo estivo trascorso sull’alpeggio, gli agnelli IP-Suisse mangiano erbe di montagna a piacimento e hanno libertà di movimento. E ciò si percepisce anche dal gusto delicato della carne. È quindi il meglio per tutti: per gli animali, per i produttori e per i clienti».

Gli animali vengono allevati in gruppo e con libertà di movimento in aziende agricole IP-Suisse rispettose delle specie.

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La Migros è della gente. Per questo si impegna come nessun altro a favore della sostenibilità.


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Idee e acquisti per la settimana

G u s t a r si

. o n n u t u a ’ l

Alla Migros si trova tutto ciò che ruota attorno ai piaceri autunnali.

Sun Queen

Alla scoperta di gusti croccanti

Noci e frutta secca sono un spuntino ideale durante le escursioni.

La luce calda e i colori intensi del paesaggio invitano a fare una passeggiata autunnale e a concedersi un semplice spuntino all’aria aperta. Sun Queen offre un’ampia scelta di specialità a base di noci e frutta secca che soddisfa tutti i gusti: noci ricche di sostanze nutritive, miscele di noci aromatizzate così come frutta secca e conserve di frutta. Rifocillati con noci e frutta, si è pronti a continuare il giro alla scoperta della natura.

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche le specialità di noci e frutta secca Sun Queen.

Sun Queen Spicchi di mango secchi 200 g Fr. 4.10

Sun Queen Miscela di frutta secca e noci 200 g Fr. 2.70

Sun Queen Noci miste 170 g Fr. 4.90

Sun Queen Max Havelaar Pezzi di ananas 270 g Fr. 1.90


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I caffè

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Tutte le capsule Café Royal in conf. da 10 o da 33, UTZ a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

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15.10 invece di 21.60 Cafino Classic in conf. da 2, UTZ in busta, 2 x 550 g

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. o c s e r f te n e m il ib d e r c In 30%

9.70 invece di 13.90 Fettine di pollo impanate Don Pollo in conf. speciale prodotte in Svizzera con carne del Brasile, 5 x 130 g

20%

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2.55 invece di 3.70

Filetto di salmone bio per es. con pelle, d’allevamento, Norvegia, per 100 g, 4.30 invece di 5.40

Prosciutto speziato M-Classic Svizzera, per 100 g, offerta valida fino al 24.9.2018

30%

30%

2.55 invece di 3.65

4.60 invece di 6.60

Mini filetti di pollo Optigal Svizzera, imballati, per 100 g

Prosciutto cotto alta qualitĂ Lenti Italia, affettato, in vaschetta da 120 g

20%

25%

3.65 invece di 4.60

4.70 invece di 6.30

Fettine di cervo Nuova Zelanda, in conf. da 2 x ca. 185 g, per 100 g

Filetto di tonno (pinne gialle) Oceano pacifico, al banco a servizio, per 100 g, fino al 22.9

20%

11.50 invece di 14.40 Filetto dorsale di merluzzo MSC con mandorle, pistacchi e basilico in vaschetta per la cottura in forno pesca, Pacifico nordorientale, 360 g

HIT DELLA SETTIMANA PER IL GRILL.

20%

2.80 invece di 3.50 Aletta di manzo TerraSuisse Svizzera, imballata, per 100 g

20%

6.30 invece di 7.90 Fettine di fesa di vitello fini TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 18.9 AL 24.9.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

25%

6.30 invece di 8.40 Prosciutto crudo S. Daniele Italia, affettato, in vaschetta da 100 g

30% Ali di pollo Optigal al naturale e speziate, Svizzera, per es. al naturale, al kg, 9.40 invece di 13.50


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20%

1.90 invece di 2.50 Insalata iceberg Svizzera, il pezzo

33%

3.20 invece di 4.90 Fagioli Svizzera, in sacchetto da 500 g

20%

3.90 invece di 4.90 Fichi bio Turchia, in conf. da 250 g

20%

20%

1.75 invece di 2.20

Fondue moitié-moitié e formaggio fuso Swiss-Style in conf. da 2 per es. fondue moitié-moitié, 2 x 800 g, 22.40 invece di 28.–

Gottardo Caseificio prodotto in Ticino, in self-service, per 100 g

conf. da 3

33%

conf. da 6

20%

3.90 invece di 5.90

Yogurt M-Classic in conf. da 6 per es. alla mela e al mango, alle fragole, ai mirtilli, 6 x 180 g, 2.60 invece di 3.30

Uva Pizzutella Italia, sciolta, al kg

20% Mezza panna per salse, mezza panna acidula e prodotti M-Dessert Valflora per es. mezza panna per salse, 180 g, 1.40 invece di 1.80

20%

4.65 invece di 5.85 Tutti i tipi di Caffè Latte Emmi in conf. da 3 Macchiato, Espresso o Cappuccino, per es. Macchiato, 3 x 230 ml

conf. da 3

15% Tutte le minirose Fairtrade, mazzo da 20 disponibili in diversi colori, lunghezza dello stelo 40 cm, per es. rosse, il mazzo, 10.95 invece di 12.90

33%

3.20 invece di 4.80 Patate Amandine Svizzera, imballate, 1,5 kg

Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 18.9 AL 24.9.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

20%

3.60 invece di 4.50 Peperoni, bio Spagna, imballati, 400 g

35% Tutto l’assortimento di zuppe Dimmidisì per es. minestrone di verdure, 620 g, 3.20 invece di 5.–

30%

9.– invece di 12.90 Lasagne alla bolognese M-Classic in conf. da 3 3 x 400 g

20%

4.90 invece di 6.50 Ravioli al salmone e mascarpone Garofalo in conf. da 250 g


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. te r e p io m r a p is r te r e Le nostre off – .5 0

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3.– invece di 3.50 Treccia al burro TerraSuisse 500 g

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20% Tutti i praliné in scatola Frey e i praliné Adoro Frey, UTZ per es. Praliné Prestige, 250 g, 12.60 invece di 15.80, offerta valida fino all'1.10.2018

CONSIGLIO

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Oggi padellata di spätzli! Agli spätzli rosolati con cornetti, cipolle e aglio si aggiunge il tocco raffinato del formaggio fresco alla doppia panna – una vera squisitezza! Trovate la ricetta su migusto.ch/consigli

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20% Spätzli Anna’s Best in confezioni multiple per es. spätzli all’uovo in conf. da 3, 3 x 500 g, 6.70 invece di 8.40

20% Tutti i prodotti di pasticceria ai vermicelles per es. vermicelles, 2 x 80 g, 3.35 invece di 4.20

20% Tutte le torte non refrigerate per es. Torta alle noci dell'Engadina, 500 g, 5.60 invece di 7.–

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Hit

5.80

Brezel in conf. speciale 500 g

20% Bastoncini alle nocciole, fagottini alle pere e fagottini alle pere bio (mini esclusi), per es. bastoncini alle nocciole, 4 x 55 g, 2.60 invece di 3.25

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15.10 invece di 21.60 Cafino Classic in conf. da 2, UTZ in busta, 2 x 550 g

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33% Biscotti Rondo o Carré Choc Midor in conf. da 3 per es. Rondo, 3 x 100 g, 6.60 invece di 9.90

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20% Tutti gli zwieback (Alnatura esclusi), per es. Original, 260 g, 2.55 invece di 3.20

– .5 0

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Tutte le tavolette di cioccolato Frey da 100 g, UTZ Tutti i biscotti in rotolo (Alnatura esclusi), per es. biscotti margherita, 210 g, (Eimalzin, M-Classic, Suprême e confezioni multiple escluse), a partire da 3 pezzi, 20% di riduzione 1.40 invece di 1.90


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50%

a par tire da i 2 confezion

– .5 0

di riduzione Tutta la frutta secca bio o tutte le noci bio (Alnatura escluse), a partire da 2 confezioni, –.50 di riduzione l'una, per es. pinoli, 100 g, 6.40 invece di 6.90

20% Tutti i funghi secchi in bustina per es. porcini, 30 g, 2.85 invece di 3.60

3.50 invece di 7.05 Pizza Margherita M-Classic in conf. speciale surgelata, 3 x 275 g

a par tire da 2 pe z zi

20%

20%

Tutte le noci e le miscele di noci salate Sun Queen Premium per es. noci di anacardi salate, 170 g, 3.60 invece di 4.50

Tutti i prodotti a base di spinaci prodotti surgelati (Alnatura esclusi), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione

20% Tutti i tipi di purea di patate Mifloc per es. 4 x 95 g, 3.60 invece di 4.55

50%

7.65 invece di 15.30 Cosce di pollo al naturale M-Classic in conf. speciale surgelate, 2 kg

50%

6.10 invece di 12.20 Filetti di pangasio Pelican in conf. speciale, ASC surgelati, 1 kg

conf. da 2

40%

11.75 invece di 19.60 Olio d’oliva Don Pablo in conf. da 2 2x1l

conf. da 4

20% Chips e dolci Zweifel in confezioni multiple per es. chips alla paprica in conf. da 4, 4 x 30 g, 4.45 invece di 5.60

OFFERTE VALIDE SOLO DAL 18.9 AL 24.9.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

25% Tutti gli sciroppi in bottiglie di PET da 75 cl e da 1,5 l per es. ai lamponi, 1,5 l, 3.15 invece di 4.25

25% Coca-Cola Classic e Zero da 1 l e in conf. da 6 x 1 l per es. Classic, 6 x 1 l, 8.10 invece di 10.80

30% Tutto l’assortimento di lettiere per gatti per es. Fatto Plus, 10 l, 4.95 invece di 7.10

30% Tutto l'assortimento di prodotti per animali M-Classic per es. sabbia per uccelli, 2,3 kg, 1.10 invece di 1.60


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33% Dentifrici Candida in conf. da 3 per es. White Micro-Crystals, 3 x 75 ml, 6.60 invece di 9.90, offerta valida fino all'1.10.2018

Tutti i tovaglioli, le tovagliette e le tovaglie di carta Cucina & Tavola e Duni (prodotti Hit esclusi), a partire da 2 pezzi, 50% di riduzione

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Tutto l’assortimento Zoé (prodotti Zoé Sun e prodotti per la cura delle mani Zoé esclusi), a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino all'1.10.2018

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17.80 invece di 26.55 Vanish Gold Oxi Action in conf. speciale pink o bianco, per es. pink, 1,5 kg, offerta valida fino all'1.10.2018

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Prodotti Le Petit Marseillais in conf. da 3 per es. docciacrema ai fiori d’arancio, 3 x 250 ml, 6.95 invece di 10.50, offerta valida fino all'1.10.2018

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19.75 invece di 39.50 Detersivi Total in flacone da 5 l per es. Aloe vera, offerta valida fino all'1.10.2018

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Prodotti di ovatta Primella in conf. da 2 per es. dischetti d'ovatta, 2 x 80 pezzi, 3.– invece di 3.80, offerta valida fino all'1.10.2018

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24.10 invece di 48.20 Detersivi Total in conf. speciale Color e Classic, per es. Color , 7,5 kg, offerta valida fino all'1.10.2018

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Tutte le bustine morbide Hipp a partire da 4 pezzi, 25% di riduzione, offerta valida fino all'1.10.2018

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33% Pellicole o sacchetti Tangan in conf. da 3 per es. pellicola salvafreschezza e per forno a microonde n. 11, 36 m x 29 cm, 5.70 invece di 8.55, offerta valida fino all'1.10.2018

3 per 2 Tutti i pannolini Pampers (confezioni speciali escluse), offerta valida per 3 prodotti con lo stesso prezzo, per es. Baby Dry 4, 3 x 44 pezzi, 33.60 invece di 50.40, offerta valida fino all'1.10.2018

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12.– invece di 17.40 Buste Papeteria C5, FSC 229 x 162 mm, 200 pezzi, offerta valida fino all'8.10.2018

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20% Tutta la biancheria in spugna per es. asciugamano Neva, grigio talpa, 50 x 100 cm, 10.30 invece di 12.90, offerta valida fino all'1.10.2018


Gustoso al punto giusto.

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La videoricetta «Cervelas e formaggio in insalata» e molte altre pietanze autunnali sono disponibili su migusto.ch/autunno. Gustati ora l’autunno. Da questa offerta sono esclusi gli articoli M-Budget e quelli già ridotti. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 18.9 AL 24.9.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK

M per il Magico autunno.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Potz

Per vederci sempre chiaro Il detergente per vetri è chiaramente per il vetro, più chiaro di così! Tuttavia il Potz Xpert Glass Power-Cleaner assicura una perfetta pulizia anche su altre superfici come metallo o ceramica. Questo potente detergente è indicato sia per l’interno, sia per l’esterno, così eliminerete anche lo sporco ostinato come pollini, fuliggine e escrementi di uccello. E in un baleno le superfici risplendono!

PotzXpert Glass Power-Cleaner 500 ml Fr. 4.60 Nelle maggiori filiali

Pulizia senza aloni: il detergente per vetri Potz elimina anche lo sporco più resistente.

Potz Vetri 500 ml Fr. 3.90

Migros Plus Vetri 750 ml Fr. 4.30

M-Industria crea numerosi prodotti Migros, tra cui anche Potz.


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NUOVI COLORI TRENDY

PUNTI

PER CAPELLI FANTASTICI. Men Perfect copre i capelli grigi con un risultato naturale al 100%. Spray per coprire in pochi secondi la ricrescita dei capelli.

Henna: i colori vegetali naturali sfumano il colore dei capelli in modo delicato e duraturo.

4

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1 6 7

Un paio di highlight fra le novità per colorazioni: 1 Henna Colorazione marrone* 100 g 7.90 2 I am spray istantaneo per coprire la ricrescita die capelli marrone scuro 75 ml 6.90 3 I am kit racine biondo chiaro a medio 3.95 4 Men Perfect Gel Coloration marrone scuro* 6.70 5 Syoss Colorist Tools Salonplex Add-in Serum* 3,8 ml 4.90 6 Colovista Hair Makeup #RoseGoldHair* 30 ml 11.50 7 Garnier Express Retouch marrone* 10.80 * In vendita nelle maggiori filiali Migros. Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. OFFERTE VALIDE SOLO DAL 18.9 ALL’1.10.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


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Idee e acquisti per la settimana

Pullover, sciarpe, cappelli e guanti in cachemire sono morbidi e disponibili in diversi colori.

John Adams Pullover da uomo con scollo a v 100% cachemire Fr. 89.–

John Adams Berretto da uomo 100% cachemire Fr. 34.90

Ellen Amber & John Adams

Meravigliosamente caldi e morbidi: i pullover e gli accessori in cachemire di Ellen Amber e John Adams hanno un costo ragionevole e sono l’ideale per le giornate fredde. Sono piacevoli da sentire sulla pelle. La pregiata lana ha molti vantaggi: immagazzina calore, è traspirante, si asciuga rapidamente e praticamente non assorbe gli odori. Per poterli utilizzare a lungo, pullover, sciarpe, cappelli e guanti devono essere lavati al rovescio e a mano.

Foto Gerry Ebner; Styling Mirjam Käser; Hair e make-up Arlette Kobler

Pregiata maglieria per lei e per lui

Ellen Amber Pullover da donna con scollo rotondo 100% cachemire Fr. 79.–

Ellen Amber Berretto da donna 100% cachemire Fr. 34.90

Tutti i prodotti sono disponibili nelle maggiori filiali.


Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 17 settembre 2018 • N. 38

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Idee e acquisti per la settimana

Papeteria

Organizzazione perfetta

Papeteria Pianificazione mensile 9,5 x 16 cm Fr. 3.95

A breve verranno fissati i primi appuntamenti per il 2019. Sia che si frequenti una scuola, si studi, si svolga un apprendistato o un lavoro d’ufficio in proprio, gli impegni sono sempre numerosi. Nel trambusto quotidiano, la giusta agenda permette di ricordare ogni appuntamento, compleanno o cena con gli amici. Le nuove agende, nei diversi formati, sono disponibili in colori discreti e di tendenza, così come con motivi vivaci.

Papeteria Agenda A7 Fr. 5.95

Papeteria Agenda A6 Fr. 7.95

Papeteria Agenda A6 Fr. 8.95

Papeteria Agenda A5 Fr. 11.95

Papeteria Agenda A5 Fr. 13.95

Foto Yves Roth; Styling Miriam Vieli-Goll

Papeteria Agenda A5+ Fr. 13.95

Chi comincia con metodo è a metà dell’opera: queste agende servono allo scopo. Tutti gli articoli sono certificati FSC. Papeteria Agenda da tavolo Fr. 6.95


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Idee e acquisti per la settimana

Papeteria

Organizzazione perfetta

Papeteria Pianificazione mensile 9,5 x 16 cm Fr. 3.95

A breve verranno fissati i primi appuntamenti per il 2019. Sia che si frequenti una scuola, si studi, si svolga un apprendistato o un lavoro d’ufficio in proprio, gli impegni sono sempre numerosi. Nel trambusto quotidiano, la giusta agenda permette di ricordare ogni appuntamento, compleanno o cena con gli amici. Le nuove agende, nei diversi formati, sono disponibili in colori discreti e di tendenza, così come con motivi vivaci.

Papeteria Agenda A7 Fr. 5.95

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6 ore di protezione intensa per denti sensibili.

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Per denti e colletti sensibili Con l’efficace tecnologia DeSens Riduce rapidamente e durevolmente la sensibilità dei denti 6 or e io n e z e t Pr o t en s a. in

Protegge, rimineralizza e rinforza lo smalto Efficacia confermata da test clinici

4.50 Dentifricio Sensitive Professional Candida 75 ml, offerta valida fino all'1.10.2018

Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 18.9 ALL’1.10.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


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Idee e acquisti per la settimana

Candida

Efficacia da sorriso smagliante

Anche chi ha denti sensibili può sorridere. Ciò grazie alla combinazione degli innovativi principi attivi del nuovo dentifricio Professional Sensitive di Candida. Rebecca Bick ci spiega il perché Foto Paolo Dutto

Rebecca Bick è Responsabile sviluppo Oral Care presso Mibelle Group.

Rebecca Bick, quanti tipi di dentifricio esistono per i numerosi «disturbi» della bocca?

Candida annovera una vasta gamma di prodotti per ogni esigenza legata all’igiene orale. Per esempio?

Molte persone soffrono poiché hanno denti sensibili. Proprio per questo esistono dentifrici che proteggono e curano in modo ottimale i denti sensibili al dolore. Candida ha sviluppato anche prodotti specifici per la cura di gengiviti, tartaro, erosione dello smalto dei denti e alitosi, la cui efficacia è stata dimostrata da studi clinici. In che modo si differenziano i dentifrici?

Sensitive Professional, per esempio, protegge intensivamente i denti per sei ore. Ciò è reso possibile dall’abbi-

namento di un trio di ingredienti dai nomi scientifici: idrossiapatite, xilitolo e polossamero.

Possiamo essere orgogliosi di aver sviluppato questa tecnologia DeSens.

Qual è il loro effetto?

L’anno prossimo Candida festeggia il suo 70mo anniversario. Ciò è possibile grazie al fatto che per decenni abbiamo collaborato con università e istituti rinomati, così che abbiamo acquisito un’importante esperienza che ci ha permesso di aggiornare costantemente le formule dei dentifrici secondo i più attuali progressi scientifici. Più grandi sono gli ostacoli da superare e maggiore è la soddisfazione quando si conclude lo sviluppo di un prodotto.

In nostri denti sono costituiti principalmente di idrossiapatite. Utilizziamo questa componente naturale dei denti come principio attivo che aiuta a rigenerare lo smalto. Ciò impedisce a fattori esterni di arrivare all’interno del dente tramite sottili canali, i cosiddetti tubuli della dentina, e causare dolore. Lo xilitolo aiuta a immagazzinare minerali nello smalto, mentre il polossamero crea uno strato protettivo che copre i tuboli della dentina: i fattori esterni non possono così avanzare fino a raggiungere il nervo del dente. Cosa contengono di speciale?

L’aspetto innovativo è il modo in cui abbiamo combinato i tre principi attivi.

Di cos’altro siete fieri?

Azione intensiva per sei ore: Candida Professional Sensitive 75 ml Fr. 4.50

Questa è una buona ragione per un sorriso smagliante…

…e per dare un’occhiata alla nostra gamma di efficaci dentifrici sbiancanti. Scommettiamo che hanno un risultato da sorriso smagliante?

M- Industria crea numerosi prodotti, tra cui anche quelli per l’igiene orale di Candida.


Azione 30%

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12.– invece di 17.40 Buste Papeteria C5, FSC 229 x 162 mm, 200 pezzi, offerta valida fino all'8.10.2018

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5.70 invece di 8.20 Colla in stick Papeteria in conf. da 4 offerta valida fino all'8.10.2018

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5.50 invece di 7.90 Nastro adesivo Papeteria 19 mm x 33 m, 10 pezzi, offerta valida fino all'8.10.2018


Un piacere da 20x condividere. PUNTI

a f a r in e n o C ci di c e c hi fioc a. en d'av

3.20 Blévita mini con semi di girasole e zucca o con chia e sesamo per es. semi di girasole e zucca, 130 g, offerta valida fino all'1.10.2018, in vendita solo nelle maggiori filiali

Con Blévita Mini puoi gustare uno snack integrale ai ceci equilibrato e naturale. L’ingrediente principale dei Mini è la farina di ceci, mentre in superficie sono cosparsi di semi vari. Ai semi di zucca o con sesamo e chia, entrambe le varietà sono vegane e ricche di fibre alimentari. I Mini sono un fingerfood ideale e, grazie alla pratica confezione, sono anche facili da condividere. Da questa offerta sono esclusi gli articoli già ridotti. OFFERTA VALIDA SOLO DAL 18.9 ALL’1.10.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK


Grandi gioie per i piccoli.

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Tutto l’assortimento MAM a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione, offerta valida fino all'1.10.2018

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