Cooperativa Migros Ticino
Società e Territorio Centrale termica di Losone: a tre anni dall’avvio del progetto i risultati sono molto incoraggianti
Ambiente e Benessere Strade a elevata percorrenza: i medici ribadiscono quanto la qualità dell’aria sia importante per la salute dei bambini
G.A.A. 6592 Sant’Antonino
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXI 3 dicembre 2018
Azione 49 Politica e Economia Si apre a Katowice, Polonia, la Conferenza delle Nazioni Unite sul clima
Cultura e Spettacoli In ricordo di Giovanni Orelli, un convegno a Berna e una raccolta dei suoi articoli per noi
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di Dalla Valle e Marino pagg. 17 e 27
Francesca Marino
Profumi e tesori dell’India
Un’iniziativa vaga e sospetta di Peter Schiesser L’ampiezza della sconfitta dell’iniziativa popolare dell’Udc per l’autodeterminazione mostra una cosa: la maggioranza degli svizzeri non è a priori avversa a ciò che odora di estero, di straniero. Se il tema avesse riguardato l’Europa, diversi cantoni avrebbero votato a favore, di certo il Ticino. Invece, nemmeno lo spauracchio dei giudici stranieri (in questo caso il diritto internazionale) e il richiamo alla democrazia diretta da salvaguardare hanno impressionato i due votanti su tre che il 25 novembre hanno archiviato un’iniziativa che ci avrebbe messo in imbarazzo di fronte alla comunità internazionale. L’Udc questa volta non è riuscita ad andare oltre il suo bacino elettorale. Ha raccolto più voti l’allevatore grigionese con la sua iniziativa per i sussidi alle vacche e alle capre con le corna. Eppure, un anno fa, un primo sondaggio del Gfs, poco pubblicizzato, dava i favorevoli e tendenzialmente favorevoli all’iniziativa Udc molto vicini ai contrari e tendenzialmente contrari (24+21 per cento, contro 37+12 per cento), con solo un 6 percento di indecisi. Significa che in questi mesi molti «tendenzialmente favorevoli» hanno tirato
il freno a mano: troppo elitaria la discussione, ambigua e vaga la portata dell’iniziativa, rischiosa per le relazioni con l’estero, da infrangere lo scetticismo elvetico di fronte ad avventure imprevedibili. Ciò significa, verso l’esterno, che la Svizzera continuerà ad essere un partner affidabile senza eccessive derive sovraniste, e verso l’interno che ai giudici del Tribunale federale resta quel margine di flessibilità e libertà giuridica nel soppesare una preminenza del diritto nazionale o internazionale, quindi di potere anche invalidare l’esito di votazioni popolari se collidono con il diritto internazionale – ciò che l’Udc intendeva appunto combattere. L’esito di questa votazione dovrebbe però anche spingere il parlamento federale ad approfondire la discussione sulla ricevibilità o meno delle iniziative popolari, che dopo la convalida delle firme devono essere accettate dalle Camere federali prima di essere poste in votazione popolare. Non ha senso che il popolo sia chiamato a votare su delle iniziative se queste poi vengono invalidate dal Tribunale federale perché in contrasto con la Costituzione elvetica e/o con il diritto superiore internazionale, come successo alcune volte negli ultimi dieci anni. Il parlamento qui ha delle chiare responsabilità, sarebbe suo compito porre un argine
a iniziative irricevibili o troppo ambigue, anche se questo potrebbe risultare impopolare (e magari costare la rielezione a qualche deputato). Eviterebbe uno spreco di risorse e di energie politiche che sarebbe meglio impiegare altrove. Alcuni commentatori sollevano l’interrogativo se questa nuova sconfitta in una votazione federale sia preludio di un calo elettorale dell’Udc alle federali del prossimo ottobre (ne ha collezionate diverse, dopo la vittoria del 9 febbraio 2014 sull’immigrazione di massa). Probabilmente ciò è più frutto di un desiderio che della realtà. Anche se in effetti un certo senso di usura si percepisce, da ciò che trapela all’esterno del partito: alcuni deputati Udc riflettono ad alta voce sulla necessità o meno di ritirare l’iniziativa popolare per l’abolizione della libera circolazione delle persone, il drastico calo dell’immigrazione netta offrirebbe una scappatoia politica. Ma senz’altro Blocher e gli altri dirigenti non si faranno mettere in minoranza. Dopo la votazione del 25 novembre, ci sono ben altri banchi di prova che potranno mostrare lo stato di salute e il grado di influenza dell’Udc: l’eventuale accordo quadro con l’Ue e, appunto, l’iniziativa per l’abolizione della libera circolazione delle persone.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Attualità Migros
M Le nostre luci di Natale sono i vostri successi
Un Calicantus per Natale Concorso Un
pomeriggio musicale con il coro locarnese in occasione delle Feste
Scuola Club Migros Ticino L’albero delle Feste ricorda le esperienze positive
maturate durante l’ultimo anno di attività
Ogni anno, quando l’atmosfera del Natale si fa più vicina, anche alla Scuola Club arriva il momento di pensare a come addobbare le nostre sedi per renderle ancora più accoglienti, calde e scintillanti. È per noi un modo per dire grazie a tutti coloro che ci hanno scelto per orientarli e accompagnarli nei loro percorsi formativi; per ricordare con affetto chi è cresciuto insieme a noi; per festeggiare i partecipanti che hanno raggiunto obiettivi di cui andare davvero orgogliosi. Sono questi volti, questi momenti, queste conquiste che in conclusione di un lungo e ricchissimo anno di formazione sentiamo particolarmente vicini e desideriamo celebrare. Sono queste le luci più belle che vogliamo appendere al nostro albero di Natale. Quest’anno, ogni boccia di colore rosso ci parlerà di chi, con grande im-
pegno e determinazione, ha affrontato una prova d’esame e conquistato un diploma o un certificato che vanno a valorizzare il suo Curriculum Vitae. Tra i tanti volti c’è quello di Moreno che insieme alla sua docente, Manda Klaric, ha ottenuto risultati davvero straordinari migliorando in brevissimo tempo il suo livello di conoscenza del tedesco. In meno di nove mesi, Moreno si è presentato a ben tre esami di livello differente (B1, B2 e C1), superandoli al primo tentativo! Le grandi bocce blu racconteranno di tutte le aziende che si sono affidate a noi per far crescere i loro collaboratori e rendere più forte l’impresa nell’affrontare le grande sfide dei mercati globali grazie all’acquisizione delle giuste competenze, dalle lingue all’IT. Tra le tante storie di successo vogliamo ricordare in particolare quel-
la della G. Dazio & Associati SA, uno dei più importanti studi di ingegneria in Ticino, che ha scelto la Scuola Club quale partner formativo per i suoi dipendenti. L’accompagnamento modulato ad hoc sulle esigenze specifiche dell’ufficio ha portato Elisa e Samuele a superare con ottimi risultati il Goethe – Zertifikat B1! Le bocce color oro ricorderanno i nuovi partner che quest’anno ci hanno permesso di mettere a punto e sperimentare percorsi formativi innovativi e sfidanti: la Joia Academy, la Scuola del Viaggio, la Società svizzera sclerosi multipla, la Federazione Svizzera dei Sordi, la Lega svizzera contro il reumatismo… Sul nostro albero non mancheranno neppure le bocce argento, una per ogni formatore della Scuola Club di Migros Ticino. Sono i nostri docenti
che accompagnano, passo dopo passo, con passione e competenza, i partecipanti a raggiungere le loro piccole e grandi mete! Il nostro albero si sta riempiendo di colori e luci. Aggiungiamo ancora un numero particolarmente scintillante che racconta di un anno di bellissimi successi? Ecco appeso un bel «4», come la posizione della Scuola Club di Migros Ticino nella classifica delle Scuole Club della Svizzera con il miglior rapporto tra numero di partecipanti e abitanti. Con questo ultimo tocco il nostro meraviglioso albero è pronto, grazie a voi e alla fiducia che continuamente ci rinnovate! Siamo felici di contribuire ogni anno a coronare il sogno di tante persone! Gioioso Natale a tutti dalla vostra Scuola Club di Migros Ticino.
Si terrà domenica 16 dicembre prossima, alle ore 17.00, nella bellissima cornice della chiesa di San Francesco a Locarno il consueto appuntamento del coro giovanile Calicantus, concerto sostenuto dal Percento culturale di Migros Ticino. Per l’occasione si esibiranno tutti i 150 allievi della scuola, sotto la direzione di Mario Fontana. Il coro Calicantus è uno dei gioielli per quel che riguarda la musica corale giovanile ticinese. Un’esperienza didattica originale che punta a rendere la pratica del canto non soltanto una forma di apprendimento e di formazione creativa, ma anche un’occasione di incontro, di socializzazione e di crescita. Con la sua attività musicale e didattica il coro Calicantus si propone di suscitare esperienze positive e ricche nei suoi giovani coristi, che dal canto loro ricambiano con gli splendidi risultati che conosciamo. Tanto, che sono ormai numerosissime le attestazioni di successo e le esibizioni all’estero sollecitate dalla bravura dell’ensemble. Le più recenti e prestigiose affermazioni sono il «Primo premio» nella categoria cori giovanili e il «Grand Prix assoluto» al Concorso internazionale di Cattolica «International Choral Festival Queen of the Adriatic Sea» dello scorso maggio, in cui la formazione locarnese rappresentava la Svizzera. «Azione» mette in palio alcune coppie di biglietti omaggio per il concerto di Natale a Locarno del Coro Calicantus. Le istruzioni per aggiudicarseli sono pubblicate nella pagina web www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna e Buon Natale! Informazioni
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Quando la povertà mostra il suo volto Per saperne di più su Modeste: www.farelacosagiusta.caritas.ch
Modeste Traoré (54 anni), pescatore in Mali, lotta contro il cambiamento climatico
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Società e Territorio Ragazzi che insegnano Gli allievi del Liceo Lugano 1 e l’esperienza della Scuola Penny Wirton
Le relazioni familiari interrotte «Mio figlio non mi parla più», «da anni non sento mio fratello»: il doloroso argomento dello strappo parentale sarà al centro di una conferenza di Mario Papadia
Invecchiare al femminile L’associazione AvaEva, il movimento che si rivolge alle donne delle terza età, compie cinque anni pagina 10
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Con il legno ticinese si va lontano
Energia Sono oltre quattro i chilometri
della rete di teleriscaldamento della Centrale termica di Losone, interamente alimentata con legno indigeno
Elia Stampanoni Sembra una piazza ma si tratta della Centrale termica di Losone. Inaugurata nel 2015 dopo un lungo periodo di studio e progettazione, è un’opera fortemente voluta dal Comune e dal Patriziato di Losone che, assieme alla Società Elettrica Sopracenerina, hanno valorizzato un bene prezioso e disponibile in Ticino, il legno, per produrre energia pulita a chilometro quasi zero. Il cippato che alimenta la centrale della ErL SA (Energie rinnovabili Losone SA) proviene infatti dal nostro cantone e arriva regolarmente a Losone tramite il consorzio di ditte forestali che si sono aggiudicate il contratto di fornitura. Il legname ridotto in scaglie (cippato) viene scaricato nelle due botole del silo d’alimentazione, che ha una capienza di 500 mc, e subito svanisce. Sottoterra s’avvia il meccanismo che permette alla centrale di produrre energia per una settantina di clienti (al momento), fornendo circa dieci milioni di kWh all’anno, a dipendenza delle temperature esterne. Si tratta di abitazioni private, industrie ed edifici pubblici, quali le scuole elementari o le scuole medie situate a due passi e che sono state tra le prime infrastrutture a voler beneficiare di quest’alternativa d’energia rinnovabile. «Nel settembre del 2015 abbiamo allacciato le scuole elementari di Losone e da allora si sono aggiunti ulteriori consumatori che hanno creduto nel progetto; il nostro potenziale può arrivare a oltre dieci milioni di kWh annui e presto saranno per esempio allacciati anche la casa anziani (in costruzione), la casa comunale, la chiesa San Lorenzo e altri edifici privati, nuovi o esistenti», conferma Pietro Mariotta, segretario del Consiglio d’amministrazione della ErL SA, dove siedono due rappresentanti per ognuno dei tre enti: Comune di Losone, Patriziato di Losone e Società Elettrica Sopracenerina, ognuno con un terzo del capitale sociale. Alla sua massima potenza, la centrale è capace di coprire circa il 15% del fabbisogno di calore del Comune di
Losone, ma in caso d’aumento della richiesta il progetto ha già previsto degli sbocchi: è stato infatti predisposto per un eventuale ampliamento dell’impianto che già oggi è il maggiore per dimensioni in Ticino. Ma prima d’arrivare al raddoppio bisognerà innanzitutto trovare nuovi clienti e convincerli della concorrenzialità dell’energia proveniente dal cippato indigeno. «L’esperienza pratica ha dimostrato che le potenze allacciate sono in taluni casi inferiori a quanto previsto in fase di progetto e il prezzo dell’energia è assolutamente concorrenziale con quello fornito da altre fonti quali gasolio o gas. Anche i costi d’installazione, grazie pure agli incentivi cantonali, sono presto coperti e allacciarsi alla nostra centrale di teleriscaldamento conviene in definitiva sia per abitazioni esistenti sia per quelle in costruzione e non solo per i benefici ambientali», commenta l’ingegner Mariotta. Ma di quali infrastrutture si parla? Il calore generato dalla centrale viene trasportato nelle case tramite la rete di teleriscaldamento, ossia oltre 4 chilometri di tubi interrati dove scorre acqua calda verso gli edifici e acqua più fredda di ritorno alla centrale. Il passaggio di energia dalla centrale alle abitazioni avviene per mezzo di un semplice scambiatore di calore (un impianto contenuto in una cassetta di piccole dimensioni) che permette di portare l’energia nel riscaldamento delle case rendendo inutili le caldaie, ciò che fa risparmiare anche spazio utile. L’acqua che scorre nei tubi ha una temperatura in uscita che oscilla, secondo la stagione e le esigenze, tra i 65 e i 90°C. Durante il suo viaggio, grazie all’ottimo isolamento dei condotti, perde solo 1°C circa per chilometro percorso e, dopo aver ceduto il suo calore tramite lo scambiatore, l’acqua torna in centrale a circa 50° e ricomincia il suo ciclo. Come detto, oltre alla piazza con il camino di fuoriuscita dei fumi, della centrale termica non si percepisce traccia sul territorio, se non ogni tanto il gradevole odore di legno e di bosco. Il piazzale, luogo di scarico del cippato,
La torre della centrale termica di Losone. (Elia Stampanoni)
è divenuto a tutti gli effetti anche uno spazio utilizzato per eventi e manifestazioni, come mercati o feste. Tutte le altre strutture sono invece sotterranee, costruite in una fossa profonda circa otto metri e su una superficie di 2000 mq, mentre la torre con i camini svetta per 22 metri. Torre che, vuoi il caso, è anche rappresentata nello stemma comunale. La centrale termica è dotata di due caldaie che bruciano il cippato, una con una potenza di 2400 kW e la seconda di 1200 kW. Esse permettono di gestire la combustione secondo il fabbisogno degli utenti, che varia sia nelle stagioni sia nelle varie fasce della giornata. «In estate – spiega Pietro Mariotta – rimane per esempio in funzione unicamente la caldaia più piccola per garantire il fabbisogno di acqua calda sanitaria, mentre nelle mezze stagioni funziona quella più grande e nei periodi più freddi entrambe. Per sopperire a eventuali
guasti o fabbisogni eccezionali, nella centrale è pure integrata una caldaia a olio combustibile di 4000 kW di potenza, che però copre solo il 5% dell’energia termica prodotta». La legna, come detto, arriva a Losone sotto forma di cippato e proviene al 100% dai boschi ticinesi. Il fabbisogno della centrale si aggirerà presto, quando tutti gli utenti si saranno allacciati, sui 16’000 mc all’anno di legname ridotto in scaglie. Un quantitativo facilmente reperibile a prezzi concorrenziali nei boschi ticinesi che, con questo progetto, sono ulteriormente valorizzati. Dal lato ambientale sono diversi gli accorgimenti. Grazie all’installazione di due filtri, le emissioni prodotte dalla centrale sono costantemente inferiori rispetto ai valori fissati dall’Ordinanza contro l’inquinamento atmosferico (Oiat). Il primo filtro a ciclone permette di separare le particelle più grandi,
mentre un filtro elettrostatico abbatte le polveri fini. Le caldaie sono inoltre di ultima generazione e l’intero procedimento di combustione avviene pertanto in modo molto più «pulito», riducendo le emissioni e mitigando le perdite di calore. «Grazie a quest’impegno la centrale termica di Losone, a pieno carico, evita ogni anno la diffusione di circa 2200 tonnellate di CO2 equivalenti nell’ambiente. Il quantitativo annuo è definito dal sistema di controllo basato sulle complesse prescrizioni della Confederazione e ogni anno deve essere attestato da un ente esterno. I certificati sono poi venduti alla fondazione Myclimate e confluiscono in progetti di salvaguardia ambientale mirati. Il ricavato della vendita dei certificati viene immesso quindi al 100% nel calcolo delle tariffe di vendita del calore, riducendone il prezzo per il consumatore», conclude l’ingegner Mariotta.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Società e Territorio
Una scuola per tutti
Penny Wirton L ’esperienza e l’entusiasmo dei ragazzi del Liceo Lugano 1 che insegnano italiano
ai ragazzi migranti. Abbiamo parlato del progetto con la direttrice Valeria Doratiotto Prinsi Alessandra Ostini-Sutto Penny Wirton e sua madre è il titolo di un romanzo per ragazzi di Silvio D’Arzo, pubblicato nel 1978. Racconta la storia di un bambino povero e disprezzato che non ha mai conosciuto il padre e che, passando per numerose prove, riesce a conquistare la propria dignità, grazie anche all’aiuto del supplente della scuola del villaggio. Simbolo della possibilità di riscatto, questa figura ha ispirato una particolare scuola di lingua italiana rivolta ai migranti, fondata da Eraldo Affinati, scrittore e docente, e sua moglie, Anna Luce Lenzi, tra le altre cose studiosa di Silvio D’Arzo. La sua storia inizia nel 2004, quando Affinati, trasferito su sua richiesta alla comunità «La Città dei Ragazzi» di Roma, sente la necessità di aiutare gli adolescenti immigrati che posseggono solo un italiano embrionale, insufficiente a trasmettere le esperienze e le emozioni di cui sono portatori. Quattro anni dopo, nella stessa Città, fonda con la moglie la Scuola Penny Wirton, che offre corsi gratuiti di italiano per immigrati. Nel 2010 nasce l’omonima associazione, titolare del marchio Penny Wirton. Da allora in Italia sono nate decine di Scuole Penny Wirton, che operano autonomamente aderendo ai principi espressi nella condivisa Carta d’intesa.
Le lezioni coinvolgono una sessantina di liceali e una quindicina di ragazzi provenienti da Siria, Afghanistan, Eritrea e Etiopia Prima scuola Penny Wirton oltre i confini italiani è quella nata all’interno del Liceo di Lugano 1, su suggerimento dello stesso Affinati. «Il presidente dell’Associazione Penny Wirton è stato invitato nel dicembre del 2016 per un incontro con le classi e, in quell’occasione, ha proposto agli allievi di creare una Penny Wirton», spiega Valeria Doratiotto Prinsi, che il primo settembre dello stesso anno ha assunto la carica di direttrice dell’Istituto, affiancata a quella di docente di italiano: «La reazione da parte dei ragazzi è stata impressionante; quando abbiamo organizzato una riunione informativa, dall’aula prevista ci siamo dovuti spo-
Valeria Doratiotto Prinsi spiega che l’idea è nata dall’incontro degli allievi con Eraldo Affinati, padre delle Scuole Penny Wirton.
stare in Aula magna perché si sono presentati oltre 100 allievi». All’entusiasmo dei ragazzi si sono aggiunti altri fattori: «Da un lato, a livello di direzione e tra i docenti c’era una forte sensibilità riguardo alla tematica, dall’altro, la scuola pubblica era confrontata dal 2015 con l’arrivo di una sessantina di minori non accompagnati in Ticino, per seguire i quali è stato dato un mandato alla Croce Rossa», continua la direttrice. Dalla coincidenza di questi due fronti, è nata l’idea di declinare il concetto della Penny Wirton – aperto a qualsiasi tipo di volontario verso qualsiasi tipo di migrante – in un progetto focalizzato sui giovani. I corsi della Scuola Penny Wirton presso il Liceo luganese sono cominciati in via sperimentale nel maggio del 2017 e poi in modo ufficiale nel settembre dello stesso anno. «L’elemento più difficile è stato confrontarci con le iniziali paure. Dei timori molto concreti, del tipo come iniziare e cosa fare», commenta Valeria Doratiotto Prinsi, «io ed un collega abbiamo quindi fatto visita alla Penny Wirton di Milano, diretta da Laura Bosio, una scrittrice, amica di Eraldo Affinati. In un attimo sono sparite tutte le paure. Se ne può infatti
parlare tanto, ma solo quando ci si trova dentro un’aula di una scuola Penny Wirton si capisce davvero cos’è. Di conseguenza, abbiamo invitato Laura Bosio a venire a parlare ai nostri allievi e rispondere alle loro domande». Una volta partito, il modello luganese è funzionato da subito, tant’è che il secondo ciclo è cominciato a settembre all’insegna della continuità. Le lezioni si tengono ogni mercoledì pomeriggio, in presenza di almeno un docente e della coordinatrice professoressa Michela Maiocchi, e coinvolgono una sessantina di studenti liceali, che a turno impartiscono lezioni a una quindicina di ragazzi di età compresa tra i dodici e i circa vent’anni, provenienti prevalentemente da Siria, Afghanistan, Eritrea ed Etiopia. «Alcuni sono residenti nei foyer di Paradiso e Cadro della Croce Rossa Svizzera Sezione del Sottoceneri, altri sono stati segnalati dalle Scuole medie di Barbengo e Besso; attualmente è in fase di attivazione una collaborazione con S.O.S. Ticino», precisa la direttrice, «il progetto è infatti in espansione: alcuni Istituti stanno considerando se aderirvi – come la scuola media di Chiasso – o prendere spunto da esso per sviluppare un progetto proprio». Per i liceali non dev’essere facile
assumere il ruolo che hanno scelto, soprattutto se si considera che la maggior parte dei loro allievi, nonostante la giovane età, ha affrontato un percorso duro per arrivare sin qui. Per essere pronti a svolgere il loro compito, gli studentidocenti vengono formati su più livelli. «Per esempio sulla cultura di provenienza degli allievi migranti, attraverso la collaborazione con la Croce Rossa», commenta Valeria Doratiotto Prinsi. L’insegnamento vero e proprio ruota invece attorno ad un grosso manuale rosso, opera di Eraldo Affinati e Anna Luce Lenzi. «Il volume parte dall’alfabetizzazione e, in maniera molto accelerata, attraverso anche disegni e colori, integra i testi. Al giovane insegnante spetta il compito di capire e scegliere quali parti usare in base a chi ha di fronte», spiega la direttrice, «oltre al manuale, vi sono ragazzi che hanno creato dei materiali per rispondere alle esigenze del proprio allievo». E questo corrisponde appieno all’idea della scuola Penny Wirton, che è proprio quella di lavorare al presente, con chi c’è e con quello che si ha, senza classi, senza voti, senza burocrazie. E per farlo la soluzione migliore – secondo i suoi ideatori e chi ne ha sposato la filosofia – è il rapporto uno a uno. Tramite il confine dato dal libro, i ragazzi
sono a contatto, si guardano, si raccontano, si conoscono, ridono. «Un elemento caratterizzante della scuola Penny Wirton sono proprio i sorrisi e la spontaneità. Alla fine si tratta semplicemente di due persone che si incontrano», continua la direttrice. L’aria che si respira nell’aula in cui si svolgono le lezioni può essere percepita guardando il documentario (proiettato, su iniziativa della Fondazione Azione Posti Liberi, al Festival dei diritti umani 2018) di Mattia Monticelli, studente del Conservatorio internazionale di scienze audiovisive (CISA), che ha seguito per cinque settimane le lezioni. «Per gli allievi attivi nell’ambito di questo progetto, il fatto di sapere che dentro quell’aula si trovano persone con la loro stessa sensibilità, ha innescato un micromondo. Capita, per esempio, che, pur non avendo il proprio allievo, dei ragazzi si presentino lo stesso, portandosi i propri compiti», spiega Valeria Doratiotto Prinsi, «questi ragazzi sono accomunati dal fatto di sentire in modo forte il tema dell’immigrazione, quindi da un’attenzione all’attualità, unita alla volontà di essere dentro al mondo, in maniera attiva. Oltre a ciò hanno in comune la generosità, il fatto di voler donare il proprio tempo in un gesto che parte da un sentimento di volontariato ma che arriva ad essere altro». Le lezioni della Scuola Penny Wirton sono percepite infatti come uno scambio tra due adolescenti che, pur avendo vissuto esperienze diversissime e pur provenendo da mondi lontani, parlano in fondo un’unica lingua. Così i giovani migranti, oltre a ricevere un grande aiuto nell’apprendimento della nostra lingua, hanno modo di sentirsi accolti. «Nella grande maggioranza dei casi il destino dei minori non accompagnati è di rimanere in Ticino. È quindi compito del Cantone integrarli a livello di scolarizzazione ed è compito della società tutta – e quindi della scuola – di fare in modo che l’integrazione avvenga anche nella relazione tra le persone», conclude la direttrice: «grazie alla scuola Penny Wirton i nostri studenti imparano che la migrazione, tema complesso filtrato spesso attraverso la comunicazione dei mass media e i discorsi della politica, non tocca solo masse anonime, non è solo l’immagine del barcone che attraversa il Mediterraneo, ma è una persona, che ha un nome e un cognome, che ha dei sogni, che ha un vissuto anche vicino al loro. Questo è un valore di educazione alla cittadinanza che è compito della scuola insegnare».
Viale dei ciliegi di Letizia Bolzani Mark Brake (testo) – Brendan Kearney (illustrazioni), Il libro della Terra, Editoriale Scienza. Da 8 anni Se siete alla ricerca di una strenna non di narrativa ma di divulgazione scientifica, che possa durare nel tempo e costituire un prezioso serbatoio di scoperte e informazioni per giovani lettrici e lettori interessati a ciò che li circonda, questo libro non deluderà le aspettative. Non è solo un «libro della Terra» ma una vera e propria enciclopedia per ragazzi contemporanea, che affronta – con leggerezza, precisione e spigliatezza – una ricca gamma di discipline: storia, geologia, genetica, biologia, paleontologia, zoologia, astrofisica, ecologia, geografia, persino linguistica, musica e altro ancora. Ma non affastellando nozioni, bensì con un respiro ampio, sostenuto dall’efficace grafica e dalle ben integrate illustrazioni, che sa porsi a misura di ragazzino pur non escludendo il lettore adulto (chi scrive ha imparato
tanto!). Filo conduttore è la quadripartizione negli elementi Aria, Acqua, Fuoco, Terra, che serve solo come (utile) suggestione per suddividere gli argomenti, e raccontarli. Nell’introduzione si esplicita subito che questi quattro elementi appartengono al pensiero degli antichi Greci, mentre «oggi sappiamo che il pianeta e tutto ciò che vi si trova è costituito da 118 elementi chimici diversi». Però organizzare così gli argomenti aiuta la comprensione. Quattro macrocapitoli, dunque, e tanti microcapitoli, ognuno di sole due
pagine, incisivo, chiaro, sintetico. Nel capitolo «terra» si parlerà ad esempio di com’è nato il nostro pianeta, della sua struttura ed evoluzione, degli strati del suolo, delle rocce, dei vulcani, di faglie e placche, di terremoti, ma anche di preistoria, di evoluzione dell’uomo, di genetica; in «aria» avremo i gas, gli strati dell’atmosfera, i venti, ma anche le tecniche di volo, gli uccelli, gli aerei, l’apparato respiratorio, e il suono, la parola, il linguaggio, i cambiamenti climatici, e così via, anche per «fuoco», con vari capitoli sui combustibili e le varie energie, e «acqua», nelle sue tantissime declinazioni. Un libro che farà compagnia per molti anni, da leggere anche aprendolo qua e là, per comprendere sempre meglio il mondo in cui abitiamo. Storie classiche di Natale, Einaudi Ragazzi. Da 9 anni Il «racconto di Natale» si è consolidato da almeno due secoli come genere letterario, ed è stato accolto da subito
con favore anche dalla letteratura per ragazzi, sia in opere scritte esplicitamente per i lettori più giovani, sotto forma di storie brevi o di parti di romanzi (si pensi all’incipit di Piccole Donne), sia in opere che ai più giovani vengono proposte per consuetudine (come accade con il racconto di Natale per eccellenza, il dickensiano Christmas Carol). Ci sono entrambe le categorie letterarie in questa raccolta di storie classiche di Natale, dove l’aggettivo classico connota il fatto
che vengono tutte dalla «grande» letteratura del passato. Grandi autori, dunque, di varia provenienza e stile: le atmosfere fantastiche di Hoffmann (Lo schiaccianoci, che peccato non sia integrale!), quelle malinconiche di Andersen (La piccola fiammiferaia e L’abete), quelle fiabesche dei Grimm, quelle invece più scanzonate di Baum, o decisamente ironiche di Jerome K. Jerome. C’è Beatrix Potter con il Sarto di Gloucester e Selma Lagerlöf con Trappola per topi; ci sono celebri italiani, come Collodi, Gozzano, Deledda, De Marchi, e naturalmente Rodari. Ma ci sono anche poesie (di Satta e di Rostand), e non manca il famoso e sempre commovente Dono dei Magi di O. Henry. Tutti adatti alla lettura ad alta voce, in famiglia. Einaudi Ragazzi ha già in catalogo tante belle raccolte di Natale, che offrono racconti della tradizione, popolare o d’autore, e questa nuova strenna va elegantemente ad aggiungersi ad esse.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Società e Territorio
Come affrontare lo strappo Famiglia Una conferenza con Mario Papadia in programma giovedì
prossimo a Bellinzona toglie il velo alle relazioni familiari interrotte
Stefania Hubmann Perché non mi parla più? Chi vive in prima persona uno strappo parentale si pone con dolore sovente dissimulato il tormentoso quesito. Chiedere aiuto, affrontare la propria situazione, trovare le risorse per poi operare delle scelte sono tappe di un percorso volto a migliorare la qualità di vita con l’aiuto di professionisti. Per far emergere un tema delicato e più diffuso di quanto si possa immaginare, e-counseling propone un incontro pubblico giovedì prossimo 6 dicembre (18.30) alla Biblioteca cantonale a Bellinzona. Ospite della serata – assieme a Marco Galli, responsabile dell’Ufficio cantonale del sostegno a enti e attività per le famiglie e i giovani – sarà Mario Papadia, psicologo e psicoterapeuta, counselor trainer supervisore, direttore dell’Accademia per la Riprogrammazione e della Libera Università della Riprogrammazione di Roma. Il giorno seguente l’esperto italiano condurrà una giornata di approfondimento per i professionisti sensibili al tema. Mario Papadia, da molti anni impegnato ad insegnare e diffondere un modello globale di approccio alle situazioni critiche, è stato invitato da Patricia Elzi (sua ex allieva) e Dolores Belloli, da cinque anni titolari a Bellinzona dello studio e-counseling. Dal loro osservatorio,
che comprende anche il Punto ascolto attivato dal Comune di Monteceneri, le due consulenti psicosociali hanno potuto constatare quanto frequenti e dolorosi siano i casi di strappo parentale. «Non sempre il tema della mancanza di contatto fra parenti stretti viene espresso come tale da chi si rivolge a noi», spiegano ad «Azione». «In diversi casi scopriamo in un secondo tempo che alcune forme di malessere derivano dalla rottura di legami familiari importanti». Le due colleghe evidenziano come il problema sia quindi sommerso al punto che alcune persone non sono nemmeno consapevoli del medesimo e delle sue conseguenze. Per questo motivo all’inizio del 2018 hanno proposto una nuova modalità di incontro mensile che si è tradotto in un gruppo di parola. «Desideriamo contrastare la tendenza a minimizzare ed insabbiare – precisano Patricia Elzi e Dolores Belloli – perché la situazione non è senza via d’uscita e grazie ad un percorso adeguato si può migliorare la propria condizione». Come si svolgono gli incontri? «I partecipanti in generale tendono dapprima a raccontare la loro storia, esternando sensazioni, emozioni e profondo dolore. Parlare però non è un obbligo. Anche il semplice ascolto può essere un primo passo. Il gruppo di parola può essere definito come uno spazio di incontro e narrazione dell’e-
sperienza in assenza di giudizio. La nostra presenza, basata sui principi del counseling, permette di andare oltre attraverso suggerimenti di riflessione. Soffermarsi sul significato delle parole, chiarire supposizioni, silenzi e interpretazioni sovente all’origine di uno strappo familiare, valutare la relazione interrotta da un altro punto di vista, riportare il focus su se stessi e le proprie risorse sono fasi di approfondimento attraverso le quali si può giungere ad una maggiore consapevolezza e accettazione. A questo stadio si può ripartire attivando le proprie risorse per decidere se rimanere nello strappo ma con minore sofferenza o attivarsi per cercare di ricucirlo». L’obiettivo è quello di trasformare un circolo vizioso in virtuoso. Se affrontato senza pregiudizi, lo strappo parentale può trasformarsi in un’opportunità di crescita personale e di cambiamento nelle relazioni familiari. Gli incontri con Mario Papadia sono volti a trasmettere questo messaggio e a sensibilizzare la rete degli operatori psicosociali. In assenza di eventi determinanti, come separazioni e divorzi o un lutto, l’interruzione relazionale fra parenti è ancora poco visibile. Sovente resta racchiusa nella sfera familiare e solo particolari ricorrenze portano a mostrarla e a chiedere un aiuto professionale per giungere ad una mediazione. Se i casi
Un percorso basato sul counseling per aiutare a gestire e attenuare la sofferenza legata allo strappo parentale.
più manifesti riguardano in prevalenza il rapporto genitori-figli, frequenti sono pure le rotture a livello di fratelli e sorelle o di nonni e nipoti. In quest’ultimo caso l’interruzione dei rapporti è particolarmente dolorosa, soprattutto per il genere femminile, come dimostrano anche le testimonianze raccolte da Ludovica Spinedi nel suo Mémoire di Master Le droit aux relations personnelles entre petits-enfants et leurs grands-parents: faut-il renforcer un tel droit dans le contexte juridique suisse?. Per la ricerca interdisciplinare in diritto e scienze sociali presentata lo scorso settembre all’Università di Friburgo la studentessa ticinese ha intervistato otto nonni e due nipoti nel Cantone d’origine. Ha così toccato con mano quanto il tema sia ancora un tabù sociale. La prima difficoltà è stata infatti quella di trovare le persone da intervistare. In seguito è emerso il timore da parte dei nonni di svelare questa realtà familiare, timore legato alla sensazione che gli altri si chiedano cosa abbiano mai commesso per giungere a una tale rottura. Da parte dei nipoti – due gio-
vani adulti che hanno raccontato il loro passato – emerge una visione tradizionale dei nonni, depositari di affetto, vizi e sostegno. «È stato significativo – precisa Ludovica Spinedi – osservare come il bambino possa essere attore nel conflitto che oppone genitori e nonni. Un nipote ha spiegato di essere stato lui a insistere a più riprese con il genitore per riallacciare i rapporti con i nonni». Questo tipo di strappo evidenzia secondo l’autrice «come la sfera femminile sia più implicata nel mantenere la famiglia unita e quindi anche più sofferente e con maggiori sensi di colpa di fronte all’interruzione dei rapporti». Se in determinati momenti gli strappi parentali non sono evitabili, è vero che è possibile affrontarli in modo costruttivo. Gli eventi di questa settimana così come gli studi mirati contribuiscono a far emergere una realtà che può essere espressa e condivisa. Informazioni
Patricia Elzi, tel. 079 278 31 44. Dolores Belloli, tel. 076 338 15 61. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Società e Territorio Sono molti i gruppi autogestiti nati in seno all’associazione. (www.avaeva.ch)
L’architettura del Ticino dal 1850 al 1978 lanostrastoria.ch Una traiettoria storica
descritta da Paolo Fumagalli Lorenzo De Carli
Libere di invecchiare
Associazioni AvaEva, movimento per le donne della terza età,
compie cinque anni e si racconta
Sara Rossi Guidicelli Lustro significa lucente: come i cinque anni di AvaEva, un’associazione ora indipendente nata dalla sorella ticinese del progetto GrossmütterRevolution, ideato dal Percento culturale Migros e attivo da più tempo in Svizzera interna. Entrambi si occupano di creare una rete di scambio, proposte di attività e di riflessioni alle donne che hanno raggiunto la terza età. AvaEva è un’associazione strutturata in maniera democratica, mi spiegano Norma Bargetzi, la coordinatrice, di professione psicoterapeuta, e Anita Testa-Mader, membra di comitato, ricercatrice psicosociale. Ci sono attività promosse dall’Associazione stessa, come il convegno annuale a ottobre e la tavola rotonda in primavera, dove AvaEva sceglie un tema e propone conferenze, workshop e discussioni con specialiste; ma poi ci sono molti gruppi autogestiti nati in seno all’associazione su desiderio delle partecipanti. C’è il caffè narrativo, in tedesco ad Ascona e in italiano a Mendrisio, che lavora sull’autobiografia, ci sono le uscite tra nonne e nipoti alla scoperta della natura nel nostro cantone, ci sono i gruppi che riflettono sui diritti giuridici delle nonne o sul femminismo nella terza età, ci sono i gruppi per parlare, per fare le passeggiate.
L’associazione vuole valorizzare ogni persona per quello che è perché non esiste un unico modo di invecchiare Le donne hanno temi specifici che riguardano l’invecchiare, il ritrovarsi sole, il fare le nonne, l’avere poca disponibilità finanziaria pur avendo lavorato a casa tutta la vita, l’abitare, la sessualità, i simboli e gli antichi linguaggi femminili. La sociologa Marina Piazza, che è stata ospite di AvaEva durante il suo ultimo convegno lo scorso ottobre, ha sottolineato come la vecchiaia è ormai un fenomeno di massa e come sia preponderante il numero di donne in questa fascia di età; questo le porta a essere più sole, spesso più vulnerabili, senza dimenticare che non esiste un modo unico di invecchiare, ma tanti, proprio come esistono tanti modi di essere giovani. E le mie due interlocutrici aggiungono che si vuole uscire dallo stereotipo sia della donna vecchia che non piace più e quindi diventa oggetto
di derisione, sia dai modelli pubblicitari, in cui si vedono donne eternamente giovani: «Si fa fatica a ritrovarsi sia nell’una che nell’altra figura. E questo è un discorso che rientra nella visione che la società ha della donna: per noi e per le giovani di oggi vogliamo proporre un discorso diverso, che valorizzi ogni persona per quello che è». In un quaderno che racconta degli incontri luganesi del lunedì (una delle varie proposte di AvaEva), viene citata questa frase della scienziata Rita Levi Montalcini: «Ho perso un po’ la vista, molto l’udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent’anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente». Mi spiegano Norma e Anita che le donne socie o partecipanti a uno o più incontri sono molto diverse fra loro, solo accomunate dalla generazione. «Ognuna di noi ha il suo percorso di vita, la sua storia, la sua situazione attuale. Ma il sogno comune è di stare bene, di incontrarsi e far lavorare la mente tutte insieme. Chi lo fa per necessità, su temi molto pratici, come la solitudine o le questioni finanziarie; chi lo fa per la compagnia, andando a visitare luoghi di cultura o camminando per i boschi; chi invece ha voglia di impegnarsi in momenti di riflessione sulla politica, o l’autostima, o il valore del femminismo intergenerazionale, o la salute, il corpo, la cura, la morte». Anita, che nel corso della sua vita è stata impegnata politicamente come femminista e nei gruppi sindacali, aggiunge che «è molto bello confrontarsi con uno spettro più ampio di donne. Anche tra noi “nonne femministe” ci sono differenze, però abbiamo un linguaggio comune, sappiamo che la pensiamo in modo simile su molte questioni; invece “tra le AvaEva” come ci chiamiamo qui, ci sono donne di ogni origine e colore politico, anche neutro, e non tutte sono femministe. Questo è molto arricchente per me; a volte è incredibilmente facile, perché ci si intende subito sul linguaggio e ci si scambiano opinioni e si passano bellissimi momenti insieme, altre volte va costruita una lingua comune e questo è molto stimolante». Nella terza e nella quarta età, dunque, le questioni di genere non scompaiono, anzi: sono età in cui la donna ha più da dire e da pensare, perché ci sono percentualmente più donne anziane che uomini e anche più donne nelle case di riposo e in quelle medicalizzate; ci sono inoltre anche più donne che si occupano della cura dei nipoti, dei figli
adulti, dei partner, del contesto famigliare e sociale. Si tratta dunque di un tema femminile, senza dimenticare che le “nonne” rischiano maggiormente di trovarsi in difficoltà finanziaria una volta raggiunta l’età della pensione, visto che le disparità salariali durante la “vita attiva” si ripercuotono sull’Avs e che il lavoro casalingo non è retribuito. «Non da ultimo», proseguono Anita Testa e Norma Bargetzi, «le differenze tra le nostre vite e quelle delle nostre nonne sono più grandi che quelle tra i nostri mariti e i loro nonni: per questo ci concentriamo sulle donne, ma ciò non significa che gli uomini non possano sostenerci! Un altro aspetto che ci sta a cuore è che ci sono tante donne che hanno sviluppato competenze importanti, magari anche solo stando in casa, ma hanno acquisito questi saperi in modo inconsapevole, senza osare, senza crederci, senza valorizzarli. Per questo nei gruppi spontanei non chiamiamo per forza una specialista, ma cerchiamo di dare spazio alle competenze di ognuna, dicendo che non c’è bisogno sempre dell’esperta che viene da fuori e che ci aiuta a capire di cosa abbiamo bisogno. Il motto è: prova prima a guardarti dentro». L’età dell’invecchiare è un’età legata a momenti di fragilità: si è più stanche, in molte cose si lascia il posto ai giovani, si è comunque però magari sollecitate ad aiutare i figli che lavorano, ci sono amici e amiche che si ammalano, parenti, e ci si deve prendere cura di loro, a volte si è più confrontate anche con la morte. In ogni caso le energie non sono più quelle di prima, e nemmeno la freschezza fisica. Può essere difficile da accettare, da trasformare in un periodo pieno di possibilità e di esperienze nuove, ricche, serene. Ancora Marina Piazza: «E non vi dirò che invecchiare è bello, non dirò “la fortuna di invecchiare”, non dirò “felici di invecchiare”, cercherò di dire: libere di invecchiare». AvaEva è nata anche per stare insieme durante questo processo, prestando ascolto a tutte, e incoraggiandosi ad affrontare ciò che occupa e preoccupa le sue 127 membre. AvaEva, così come GrossmütterRevolution, beneficia del sostegno di Percento culturale Migros. Il nome in dialetto leventinese, proposto da Romana Camani-Pedrina, significa Nonna Eva, anche se l’associazione non è indirizzata letteralmente alle nonne, bensì alle donne della loro generazione.
Piattaforma di storia partecipativa, «lanostraStoria.ch» si presta molto bene a raccoglie documenti in grado di dar conto delle rapide e profonde trasformazioni che ha conosciuto il territorio della Svizzera italiana e in particolare del Ticino dalla metà dell’Ottocento ad oggi. La ferrovia del Gottardo prima, il boom edilizio poco dopo il secondo dopoguerra, la costruzione dell’autostrada tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, e quindi la crescita di agglomerati urbani che hanno rigirato come un guanto pressoché l’intero territorio, andando a costituire una continuità di edifici lungo i principali assi stradali, distruggendo i tradizionali equilibri tra centro e periferia, tra città e campagna, tra urbano e rurale. Questi gli eventi che hanno maggiormente caratterizzato le trasformazioni avvenute sul territorio cantonale. Gli archivi video della RSI sono utili per documentare queste trasformazioni. Le prime ricerche realizzate allo scopo di pubblicare documenti video pertinenti con le finalità editoriali di «lanostraStoria.ch» ha fatto emergere alcuni fatti di rilevo: nei primi anni Sessanta, il regista Sergio Genni lavorò sui video del fotografo luganese Vincenzo Vicari allo scopo di illustrare le trasformazioni urbanistiche di Lugano nei primi decenni del Novecento. Tra le fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, con la trasmissione Misure curata da Genni, l’allora TSI fece proprio il compito di divulgare – spesso con la consulenza di studiosi di valore – la conoscenza del patrimonio architettonico rurale e, con un programma come I problemi dei nuclei ticinesi, di attirare l’attenzione sulla rapida urbanizzazione del secondo dopoguerra, che causò la precipitosa distruzione di edifici di cui non è rimasta documentazione. Alla fine degli anni Settanta – molto probabilmente grazie allo stimolo della mostra Tendenzen. Neuere Architektur im Tessin, che si tenne nel
1975 a Zurigo e che mise in circolazione l’espressione «Scuola ticinese di architettura» – la TSI produsse una serie di trasmissioni dedicate alla storia dell’architettura in Ticino curate dall’architetto Paolo Fumagalli, in quegli anni direttore della «Rivista Tecnica della Svizzera Italiana». Bisogna attendere un paio di decenni, per tornare sistematicamente sul tema dell’archiettura con la trasmissione «Eclettica», cui collaboraroro lo stesso Fumagalli affiancato da Tita Carloni. Le cinque trasmissioni intitolate L’architettura del Ticino dal 1850 ad al 1978 curate da Fabio Bonetti e Paolo Fumagalli sono ora disponibili sul portale «lanostraStoria.ch». Partendo dall’esame di ville e palazzi dell’Ottocento, passando per il Liberty e l’Eclettismo prima, l’Avanguardia e il Modernismo poi, ed esaminando quelli che, allora, erano gli ultimi cinquant’anni di architettura in Ticino, Bonetti e Fumagalli si avvalsero della consulenza di Enrico Mantero, docente al Politecnico di Milano e Alfred Roth, docente al Politecnico di Zurigo; nonché dell’economista Angelo Rossi e dello storico Giorgio Cheda. Oggi improponibili in televisione, quei cinque preziosi documentari intrecciavano con coerenza diversi piani di analisi: la descrizione degli edifici, le vie e i sistemi di trasporto, la contestualizzazione storica e il raffronto con le arti contemporanee. In questo modo Bonetti e Fumagalli riuscirono a compiere un’operazione che non si riscontra in altre trasmissioni simili: fornire un solido contesto europeo di riferimento, e mettere in luce la diversa velocità che il «moderno» in architettura ebbe in Ticino rispetto ad esperienze coeve a Nord così come a Sud; mostrando inoltre con quale incoerenza il Ticino vide contemporaneamente sorgere edifici come il teatro San Materno di Carl Weidemeyer (1927-28), e rassicuranti riproposte di stilemi classici nei molti edifici dell’architettura «ufficiale» coeva, che smorzò anche i giovanili slanci di un Mario Chiattone.
Informazioni
www.avaeva.ch – info@avaeva.ch
Il teatro San Materno dell’architetto Carl Weidemeyer. (lanostrastoria.ch)
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Società e Territorio Rubriche
L’altropologo di Cesare Poppi ...nella tomba là nel pian… «Ora, se si dovesse rendere necessario che io rinunci alla mia vita per portare la giustizia oltre i limiti attuali e che io mischi il mio sangue col sangue dei miei figli e di quei milioni di persone in questo paese di schiavisti i diritti dei quali sono violati da leggi malvagie, crudeli ed ingiuste – bene, se questo dovesse essere il caso così sia». Questo è quanto riporta il verbale d’interrogatorio di John Brown susseguente il suo arresto dopo il fallito tentativo di saccheggiare il deposito federale d’armi e munizioni di Harpers Ferry, in West Virginia. Era il 18 ottobre 1859. John Brown era arrivato in zona sotto falso nome già da luglio per preparare il colpo. Dei suoi 21 compagni – tre dei quali peraltro rimasero in retroguardia – 15 erano bianchi, tre erano neri liberi, uno era un nero liberato e l’ultimo uno schiavo fuggiasco. Determinati e pronti a tutto, Brown e i suoi erano convinti che nel Sud schiavista americano i
tempi fossero maturi per una rivolta di massa degli schiavi: bastava mettere loro a disposizione armi e leadership e la vergogna dello schiavismo sarebbe presto stata cosa del passato. Al momento dell’arresto John Brown era uno dei personaggio più in vista del movimento abolizionista. La sua persuasione era maturata in seguito all’assassinio di Elijah Parish Lovejoy, un ministro presbiteriano abolizionista da parte di sostenitori dello schiavismo il 7 novembre 1837. Di fronte ad un pubblico di testimoni, John Brown fece un voto solenne: «Di fronte a Dio e a questi testimoni io dichiaro che da oggi in poi dedicherò la mia vita all’abolizione della schiavitù». Da uomo d’azione quale era, mal sopportava il pacifismo delle organizzazioni pacifiste ufficiali: «Questi qui sono solo dei parolai. Ma quello di cui abbiamo bisogno è l’azione. L’azione!». Coerente con se stesso, era salito alla ribalta nazionale
fra il 1855 ed il 1856 per una serie di azioni che lo avevano visto tener testa con pochi uomini a schiaccianti forze pro-schiavitù provenienti dagli Stati meridionali ed in particolar modo dal Missouri. La posta in palio era il Kansas, dove sacche di pionieri determinati ad impedire l’impiego di schiavi si trovavano a malpartito di contro alle forze meglio armate ed organizzate degli schiavisti. Fra gli abolizionisti del cosiddetto Kansas Free State vi erano anche i numerosi figli di John Brown. Due di loro, John jr e Jason, furono catturati per poi divenire pedine per un lungo e complesso scambio di prigionieri fra le forze contrapposte. Ma il 30 agosto 1856 l’altro figlio di John Brown, Frederick, fu ucciso dai 300 miliziani del Missouri al comando del generale John W. Reid in uno scontro a fuoco destinato a consacrare la già notevole fama di John Brown come eroe nazio-
nale presso l’opinione pubblica della nascente Unione. I trentotto uomini del Nostro riuscirono a tener testa a forze sette od otto volte numericamente superiori grazie a tattiche di guerriglia che le portarono a sganciarsi dagli inseguitori con una ritirata (strategica, naturalmente) rimasta leggendaria. «…con diciannove suoi compagni di valor…»: entrare nella leggenda, allora come oggi, vuole anche dire entrare nel mirino delle autorità. Quando John Brown e i suoi 19 occuparono la polveriera dell’Unione il 17 ottobre 1859 la reazione delle milizie locali e di quel poco che la forza pubblica fu in grado di mettere in campo fu tale da costringere gli insorti a chiudersi nella sala delle macchine. All’alba del 18 ottobre questa era circondata da un’intera compagnia di marines al comando dell’allora Colonnello Robert E. Lee – lo stesso che sarebbe poi diventato (poiché la nemesi storica non perdona nessuno) generale
degli eserciti sudisti di quella devastante guerra civile che John Brown profeticamente scrisse poche ore prima di salire il patibolo: «Io, John Brown, sono ora certo che i crimini di questa colpevole terra non saranno mai riscattati se non col sangue». Il suo atto finale fu di leggere la Bibbia in presenza della moglie, avendo rifiutato l’assistenza del clero poiché non si riuscì a trovare un singolo ministro che non fosse a favore della schiavitù. Nel frattempo il pubblico americano poteva leggere, ormai obsoleta, una lettera di Victor Hugo largamente pubblicata dai giornali: «…politicamente parlando, l’assassinio di John Brown sarebbe un peccato senza remissione. Creerebbe nell’Unione una crepa che alla distanza la farebbe saltare (…). Forse salverete la vostra vergogna [nella forma della schiavitù] ma ucciderete la vostra gloria come democrazia». «…ma la sua anima vive ancor…»
finiscono per armonizzarsi. Senza che lui diventi un «mammo» però, perché i bambini hanno bisogno di due genitori, capaci di collaborare senza perdere le caratteristiche specifiche. Avete mai osservato una mamma dinanzi al fasciatoio? Tocca delicatamente il suo cuccioletto, lo accarezza, lo vezzeggia, lo bacia, lo stringe al petto. Il papà invece lo schernisce «Ma va là piscione!», lo maneggia come una polpetta, gli parla come fosse un ragazzino e infine lo fa volteggiare per l’immancabile «vola vola». In tal modo il bambino riceve due messaggi che gli saranno utili sino all’adolescenza: mentre la mamma dice «resta», il papà gli suggerisce «vai», due movimenti complementari, necessari per raggiungere l’autonomia preservando la sicurezza. Una tentazione dei padri più giovani è invece quella di trasformare il necessario supporto fisico e psichico alla madre in una competizione, in una gara a punti per stabilire chi è più abile e competente. In questi casi la sfida danneggia l’attaccamento profondo
che lega madre e figlio. In ogni caso è opportuno che la coppia originaria si apra progressivamente per far entrare in gioco anche il papà. Una mossa importante che aiuta tutti, soprattutto i bambini, accompagnandoli più attrezzati lungo il cammino della vita. Ci saranno inevitabilmente frangenti difficili ed è importante prepararsi per tempo ad affrontarli senza temere di provare, sbagliare e riprovare. Ricordo che le scadenze più a rischio per la tenuta della coppia sono oggi quelle legate all’arrivo e all’uscita di casa dei figli, prove impegnative che si superano meglio accettando la miscela che tiene insieme, nello straordinario laboratorio della famiglia, somiglianze e differenze, vicinanze e lontananze.
intentati per motivi pretestuosi. Con un’evidente differenza: oggi, nell’era della Cina, potenza economica, i reati, almeno quelli a nostra conoscenza, non sono più d’ordine ideologico ma finanziario o industriale. Come ben rileva Danilo Taino sul «Corriere della Sera», commentando il caso D&G: «Ovunque, un imprenditore può fare un errore, usare un linguaggio inopportuno. Di solito sono i consumatori e il mercato a stabilire la gravità del fatto. Solo in Cina è costretto a produrre un video umiliante nel quale fa autocritica come ai tempi della rivoluzione culturale di Mao». Ma da questa vicenda emerge ancora un altro aspetto inquietante, e, tanto più perché ci concerne da vicino. Infatti, anche nei paesi democratici, dov’è consentito, si restringe lo spazio che spetta all’umorismo. In particolare per quel particolare filone, definito sense of humour (l’inglese qui è d’obbligo), che sottintende la capacità di relativizzare guai pubblici e privati. Non si tratta di
banalizzarli, piuttosto di affrontarli ricorrendo alla valvola di sfogo dell’ironia, dell’allusione scherzosa, della vignetta che colpisce nel segno, della pagina irriverente. Strumenti che, rischiano di andare in disuso, che hanno innescato un circolo vizioso. Da un lato, si disimpara l’arte di fare umorismo e, dall’altro, la disponibilità mentale ad accettarlo. Anzi, si assiste alla tendenza opposta. Cresce una nuova forma di suscettibilità, provocata magari con le migliori intenzioni dal politically correct, che ci trasforma tutti, in un modo o nell’altro, in vittime di un’offesa, capaci d’indignarsi e non più di ridere sulle cose che capitano. Tempo fa, un collega d’oltre Gottardo rivolgeva ai politici l’invito a ricorrere all’umorismo, per migliorare la qualità dei loro discorsi. Ma qui sta una micidiale insidia: capita (dando di questi tempi un’occhiata oltre frontiera) che i politici riescano a far ridere. Ma involontariamente.
La stanza del dialogo di Silvia Vegetti Finzi L’importanza del padre Cara Silvia, mi ha molto colpita la lettera di Estella, la «mamma cattiva», perché anch’io ho rischiato di comportarmi allo stesso modo. Ma quello che mi ha mosso a scriverle è la constatazione che, nella vita di quella donna, non c’è posto per il padre di suo figlio. Persino lei, cara Silvia, sempre così attenta ai rapporti familiari, non fa rilevare questa mancanza. Ed è in proposito che le scrivo, non per salire in cattedra ma per dare una testimonianza che mi auguro possa servire alle mamme in difficoltà, convinta come sono che anche quando sbagliano non vanno condannate ma aiutate dai papà, troppo spesso immaturi e impreparati. Anch’io, come Estella, non ho avuto un buon rapporto con mia madre, separata da quando avevo quattro anni. Cresciuta tra incomprensioni e litigi, sono stata sballottata da una parte e all’altra. Così che, quando sono rimasta incinta, mi sentivo confusa e spaventata e i primi mesi di nausea gravidica non mi hanno permesso di prepararmi al lieto evento. Che infatti non è stato lieto.
Tornata a casa, sola col mio fagottino non sapevo da che parte voltarmi. Ma sono stata fortunata perché ho trovato accanto a me un uomo straordinario. Si è dimostrato subito un buon padre e un buon compagno accettando i miei sbalzi di umore, sostenendomi nei momenti di stanchezza, sostituendomi appena possibile in modo da lasciarmi qualche spazio di libertà per telefonare alle amiche, andare dal parrucchiere, seguire il mio programma preferito in Tv. E soprattutto mi ha sempre fatto sentire una donna, oltre che una mamma. Ora nostro figlio Alessio ha cinque anni e con suo padre ha un ottimo rapporto: sono amici e complici. Come vede, molto dipende dagli uomini ed è a loro che mi rivolgo per dire: state accanto a mamma-figlio in modo discreto e premuroso e vedrete che, non solo farete la cosa più giusta per loro, ma anche la più bella per voi. Grazie per l’ascolto. / Lucia Cara Lucia, la ringrazio per questa bella testimonianza che mi permette di sottolineare,
nell’ambito del rapporto madre-figlio, l’importanza del padre. Una figura che avevo lasciato in ombra per non turbare il grido di dolore di una madre che si riconosce coraggiosamente incapace di comportarsi come vorrebbe, di non essere all’altezza dei suoi ideali. In proposito lei, cara amica, ha ragione: il padre è la persona più efficace per contenere l’ansia di una neo-madre e proteggere la coppia madre-figlio da rischi involutivi. Ma trasformare il due in tre, accettare l’introduzione di un terzo non è mai facile. L’amore materno, anche se ambivalente, fatto di luci e di ombre come tutti i sentimenti, tende a essere assoluto e possessivo. Molte giovani donne si aspettano che il compagno si comporti come farebbe la loro mamma, senza ammettere le insuperabili differenze di sesso, di età, di ruolo. E, appena lui si rivela impacciato e maldestro, lo allontanano deluse con la frase: «lascia stare, faccio io». Ma anche la paternità s’impara e, con un po’ di pazienza, i due modi di fare
Informazioni
Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch
Mode e modi di Luciana Caglio Quando l’indignazione è sospetta A prima vista, è potuto sembrare un fatto grave, tanto da meritare l’indignazione generale, sentimento oggi più che mai mobilitabile. Stiamo parlando dell’incidente di cui sono stati protagonisti, e poi vittime, Stefano Gabbana e Domenico Dolce, a Shanghai, lo scorso 21 novembre. Alla vigilia della sfilata, preceduta da uno spettacolo con divi famosi, davanti a una platea di 1500
Punto vendita Dolce&Gabbana a Hong Kong. (Wikipedia)
selezionatissimi ospiti, insomma un evento speciale, come si dice in un gergo che non risparmia i superlativi, all’improvviso arriva il contrordine. La manifestazione dev’essere sospesa, per motivi dapprima oscuri. Poi chiariti. A buttare all’aria lo show, e, in pari tempo, a bloccare un’operazione commerciale miliardaria, erano stati tre spot: attraverso Weibo, il più cliccato social cinese, diffondevano un messaggio, evidentemente frainteso. Per pubblicizzare la presenza della sigla D&G nell’Impero di Mezzo, si era pensato di ricorrere a immagini destinate a illustrare il rapporto Italia-Cina, attraverso i simboli del folclore culinario. Ecco, allora, comparire una pizza, un piatto di spaghetti, un cannolo con cui si trova alle prese una bella ragazza cinese, che tenta di mangiare servendosi dei bastoncini. E, sorridendo, si arrende. Niente sorrisi, invece, da parte dell’opinione pubblica e soprattutto delle autorità cinesi che, in questo spot, in
verità basato su un banale stereotipo, hanno ravvisato un’offesa alla cultura e alla dignità nazionale, addirittura intenti razzisti e antifemministi. Scoppia un putiferio di grande portata mediatica che coglie di sorpresa i due stilisti siciliani, costringendoli a una raffazzonata autodifesa dai toni patetici, in cui rivelavano la loro passione per la cultura di una Cina amata e più volte visitata: «Dalla quale abbiamo molto da imparare». Infine, di fronte all’ondata di proteste popolari, cosiddette spontanee, a provvedimenti polizieschi, tipo agenti che per sicurezza presidiano le boutique D&G, e alla riprovazione da parte di personaggi illustri, Dolce e Gabbana fanno pubblica ammenda. Un video li ritrae, visibilmente preoccupati, mentre chiedono scusa. A questo punto, l’episodio si carica di altri significati. Da semplice fatto di cronaca diventa fatto politico. E qui, dove è avvenuto, sembra riallacciarsi alla tradizione storica dei processi,
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Ambiente e Benessere La fertilità dei Centocampi Si deve al diavolo, pare, la ricchezza della terra sui monti del Gambarogno
C’è pace nel caos di Agra Un viaggio in India alla scoperta di monumenti spettacolari come spettacolare è la loro storia pagina 17
Piccola ma «di valore» Il pesce che mancherebbe di più se dovesse scomparire improvvisamente è l’acciuga pagina 19
pagine 14-15
Una morte «straordinaria» Il decesso della lupa della Valle Morobbia si sta rivelando molto utile agli studiosi
pagina 21
La piscina comunale di Mendrisio sorge accanto all’autostrada. (Ti-Press)
I bambini e la qualità dell’aria
Salute Molti impianti sportivi e scuole sorgono vicini a strade a elevata percorrenza, i medici mettono in guardia
sui rischi per la salute dei bambini Roberto Porta Ci vorrebbe un pallottoliere di dimensioni imponenti per contare tutte le scuole e tutti gli impianti sportivi che nel canton Ticino sono stati costruiti a due passi da un’autostrada o da una strada a elevata percorrenza. Impianti e scuole frequentati regolarmente da bambini e ragazzi. Come dire che molto spesso le generazioni più giovani si vedono costrette a trascorrere buona parte delle loro giornate in luoghi non ottimali, per usare un eufemismo, dal punto di vista ambientale e sanitario. Inquinamento atmosferico, inquinamento fonico, a cui vanno aggiunti i pericoli generati dal traffico sul percorso casa-scuola: è questa la realtà scolastica e sportiva di parecchi bambini e ragazzi ticinesi. Malgrado i progressi fatti registrare negli ultimi anni, i dati relativi all’inquinamento atmosferico ci dicono che la situazione in Ticino rimane preoccupante, in particolare nelle regioni densamente abitate. Non per nulla, nell’edizione 2017 della statistica in materia, pubblicata dalla Sezione della protezione dell’aria del canton Ticino, si legge: «I superamenti dei limiti fissati dall’Ordinanza contro
l’inquinamento atmosferico dimostrano che la qualità dell’aria è ancora insufficiente in diverse località ticinesi. I valori limite di diossido di azoto, ozono e polveri fini sono frequentemente sorpassati nelle zone urbane, dove vive la maggior parte della popolazione». Per quanto riguarda l’inquinamento da ozono le analisi giungono a questa conclusione: «Il numero di superamenti rispetto al valore limite orario, pari a 120 microgrammi al metro cubo, risulta eccessivo». Un problema cronico, e un guaio rilevante per i più piccoli, come ci spiega il dottor Marco Pons, pneumologo e primario di medicina interna all’Ospedale Civico di Lugano nonché professore presso la facoltà di medicina di Ginevra. «I bambini sono più vulnerabili agli effetti nocivi dell’inquinamento atmosferico perché la loro frequenza respiratoria è più alta rispetto all’adulto e respirando più velocemente assorbono una quantità maggiore di sostanze inquinanti». Succede quotidianamente, ad esempio ai bambini o ai ragazzi che sul tragitto casa-scuola si trovano costretti a percorrere strade soffocate dal traffico. È il caso ad esempio a Lugano, per chi si reca alle scuole elementari di Loreto, in un quartiere paralizzato dal
traffico pendolare. Oppure ad Agno, comune in cui le scuole elementari, e anche l’asilo, si trovano direttamente sull’incrocio che porta a Ponte Tresa, una delle strade più trafficate dell’intero canton Ticino. E potremmo allungare di parecchio questa lista di esempi negativi. «Considerando la loro statura fisica – continua il dottor Pons – i bambini respirano ad una distanza minore dal suolo rispetto all’adulto ed inalano quindi una quantità maggiore di sostanze inquinanti. Occorre ricordare che il corpo del bambino, e quindi anche i polmoni, sono maggiormente vulnerabili perché si trovano in una fase di sviluppo. Le vie respiratorie dei bambini, ovvero i bronchi, sono piccoli e stretti; ogni sostanza irritante provoca più facilmente uno stato infiammatorio con tendenza alla chiusura dei bronchi, soprattutto nei bambini asmatici. L’asma colpisce il 6% degli adulti e il 10% dei bambini; il paziente asmatico è particolarmente sensibile agli effetti delle sostanze inquinanti inalate». Questo il dato medico e sanitario. C’è però un aspetto politico, legato in particolare alla pianificazione del territorio e all’organizzazione urbanistica del canton Ticino. Facciamo qualche esempio concreto: quale è la qualità
dell’aria che respira un ragazzo che fa nuoto nelle piscine di Bissone, Mendrisio o Chiasso, costruite a pochi metri dall’autostrada? O che gioca a calcio in uno dei tanti campi sportivi situati lungo le strade ad alta percorrenza? Cosa significa questo per la salute di questi ragazzi? La risposta è ancora affidata al dottor Marco Pons. «Significa avere più probabilità di reagire in modo sensibile alle sostanze inquinanti inalate, in particolare per i bambini asmatici, che possono quindi più facilmente lamentare tosse, irritazione bronchiale e fatica a respirare». Certo molte scuole e impianti sportivi sono stati costruiti già diversi decenni fa, quando la sensibilità nei confronti delle tematiche ambientali era diversa o addirittura assente. Ci si può comunque chiedere se non vi siano altre soluzioni possibili, anche perché i rischi non sono per nulla da sottovalutare, come afferma l’Ufficio federale dell’ambiente in una scheda informativa: «l’inquinamento atmosferico causa circa tremila decessi prematuri all’anno. In Svizzera i costi generati dall’inquinamento atmosferico ammontano annualmente a diversi miliardi di franchi». Sul banco degli imputati non c’è comunque solo il traffico. L’inqui-
namento atmosferico è causato anche dai riscaldamenti delle nostre case e dalle diverse attività economiche. Il problema non riguarda il solo Ticino. A livello svizzero uno studio condotto dall’università di Basilea su 4500 scolari di tutte le regioni del nostro Paese ha confermato quanto i medici vanno dicendo da tempo. Nelle zone con un forte carico di polveri fini e di diossido d’azoto aumentano i casi in cui i bambini soffrono di tosse, raffreddori, influenza e bronchiti. La percentuale è di un bambino su due nelle città più inquinate. Sull’argomento l’Organizzazione mondiale della salute (OMS) ha appena pubblicato uno studio dedicato proprio alle conseguenze dell’inquinamento atmosferico sulla salute dei bambini. Disponibile solo in inglese, questa ricerca porta il titolo Air pollution and child health: prescribing clean air. Tra le conclusioni c’è in particolare questo dato da segnalare. Il 93% dei giovani del nostro pianeta, con un’età inferiore ai 15 anni, vive in luoghi in cui l’inquinamento atmosferico rischia di compromettere il loro sviluppo e la loro salute. In pratica più di nove ragazzi su dieci. Di che far riflettere perché questi dati riguardano le generazioni più giovani e quindi il futuro del nostro pianeta.
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Ambiente e Benessere
Ambiente e Benessere
Il diavolo dei Centocampi
Passeggiate Un’escursione tra storia e leggenda sui sentieri dei monti del Gambarogno
Romano Venziani, testo e fotografie Povero diavolo, a volte mi fa quasi pena. Gli hanno attribuito così tante malefatte, che, pur concedendogli il dono dell’ubiquità, non avrebbe mai potuto compierle tutte. E mica gliela davano vinta, quando barattava una buona azione con qualche anima da portarsi all’inferno, anzi, spesso e volentieri ne usciva sconfitto e scornato. Un esempio? Lo ricorderete tutti il ponte sulla Reuss, nelle tumultuose gole della Schöllenen. Nel passato, le impressionanti pareti rocciose, tra Göschenen e Andermatt, nelle cui profondità scorre impetuoso il fiume, erano un ostacolo quasi insormontabile, che rendeva arduo se non impossibile l’accesso al passo del San Gottardo, la via più breve tra il nord e il sud dell’Europa. Anche gli abili Walser, venuti dall’alta valle di Goms, dove si erano ingegnati a costruire nei luoghi più impensabili chilometri di bisses (i canali per il trasporto dell’acqua), il massimo che sono riusciti a fare sono delle traballanti passerelle di legno ancorate alla roccia, che permettono di superare con mille rischi e acrobazie le gole della Schöllenen e lo spumeggiare spaventoso della Reuss. Solo a fine Cinquecento, su quelle acque, verrà gettato un ponte in pietra, aprendo la «via delle genti» a un traffico importante e composito di merci e di persone. Un’opera ardita, quel ponte, per l’epoca, tanto che la storia della sua realizzazione sconfina da subito nella leggenda, che l’attribuisce all’unico essere in
Il percorso illustrato da Romano Venziani. Sul sito www.azione.ch si trova un’ampia galleria fotografica.
grado di portarla a termine: il demonio. Il quale, va da sé, volle qualcosa in cambio. I montanari urani gli promettono dunque l’anima del primo sfortunato passante che attraverserà il ponte, ma i furbi gli rifilano un ignaro caprone, che s’incammina con aria spaesata sopra il manufatto, prima di essere inghiottito da un pandemonio di fuoco e fiamme scatenato dal diavolo imbestialito per l’inganno. Forse sono partito un po’ da lontano, ma non l’ho tirato in ballo a caso, il
demonio. Una leggenda simile a quella del «Ponte del diavolo» si racconta anche sui monti del Gambarogno. Non ci sono fiumi e gole spaventose da superare, qui, anzi, il paesaggio è aperto e radioso e ammantato dal verde dei boschi. Piccoli nuclei di cascine occupano le rughe del terreno, da dove lo sguardo si libera sopra il blu profondo del lago e la città di Locarno «stesa laggiù attorno al suo magico golfo», come ha scritto qualcuno. Ed è proprio una delizia per gli oc-
chi, il panorama offerto da quest’escursione lungo il rosario di maggenghi, che punteggia la montagna a mezza costa, seguendo con minimi scarti l’isoipsa degli 800 metri. Una passeggiata, impegnativa solo per la sua lunghezza, che parte dai monti di Piazzogna e, passando da quelli di Vairano, Gerra e Sant’Abbondio, arriva ai Centocampi, i monti di Caviano, un incantevole e ampio terrazzo affacciato sulla riviera del Gambarogno. Ed è proprio qui che Belzebù pare
abbia manifestato la sua sulfurea presenza, alimentando una leggenda – quella dei Centocampi, appunto – tramandata di generazione in generazione e ormai incrostata con le sue tante e sfumate varianti nelle pieghe della memoria collettiva. Anche in questo caso, se ne tornerà beffato all’inferno, il maligno, e senza nemmeno averci guadagnato l’anima di un caprone. Si racconta che, un tempo, quassù era tutto un groviglio di rovi, sterpaglie e boschi impenetrabili, tanto che ai contadini l’idea di dissodare questo vasto pianoro si presentava come un’opera sovrumana. Trasformare quell’immane caos vegetale in un vasto e fertile terreno coltivabile era però l’idea fissa del sagrestano, un ometto tranquillo e devoto ma animato da grande ambizione, per il quale il proposito era diventato una vera e propria ossessione, che lo teneva sveglio di notte a rimuginare soluzione su soluzione. Una volta, mentre contemplava il bosco immerso in quel suo pensiero fisso, gli scappò un’incauta esclamazione: «Darei la mia anima al diavolo, se solo potessi realizzare il mio sogno!». Il maligno, sempre pronto a fiutare le occasioni di portarsi qualche anima all’inferno, prese la palla al balzo: «Affare fatto» rispose, apparendogli all’improvviso. E con un largo sogghigno gli buttò lì la sua proposta: «In cambio della tua anima, in una notte trasformerò questa selva intricata in cento campi pronti per essere seminati!» Al povero sagrestano, tornato in
paese, non rimase che rifugiarsi terrorizzato sul campanile, aggrapparsi con mani tremanti alla corda delle campane e suonare l’Angelus, che mise fine a quella giornata disgraziata annunciando l’arrivo della notte. La sua ultima notte. Fattosi buio, Belzebù si mise subito all’opera, poiché il tempo concessogli scadeva con l’Ave Maria dell’indomani. Volarono alberi e sterpaglie, rotolarono i sassi, mentre la terra, rivoltata dal vomero infuocato dell’aratro trainato da due cavalli, scoprì la sua umida e feconda sostanza pronta ad accogliere i semi di generosi raccolti. Lavorò a ritmo indiavolato, il demonio, e i campi dissodati si moltiplicarono a vista d’occhio. Venti, trenta, sessanta, novanta… Era ormai quasi l’alba, quando Belzebù, sputando fiamme, affondò l’aratro nell’ultimo lembo di terreno, quello che sarebbe stato il centesimo campo. All’improvviso, uno squillo vibrante di campane incrinò l’immobilità dell’aria con il suono dell’Ave Maria. Il sagrestano, in un sussulto di lucidità, si era aggrappato alle corde con la forza della disperazione, anticipando l’annuncio della preghiera del mattino, convinto che rimangiarsi la parola data a Belzebù non sarebbe stato giudicato come un peccato così grave. Il diavolo, scacciato dal suono delle campane, maledisse chi l’aveva beffato e, sconfitto, sprofondò tra fumo e fiamme in un abisso che lo portò dritto all’inferno. Da allora, quassù, sui monti di Caviano, è rimasto un esteso appezzamento di terreno coltivato, che nei secoli seguenti l’intervento diabolico produsse un mare ondeggiante di segale, colorando di tinte dorate l’estate tranquilla dei Centocampi. Tornerò tra poco, sulla segale. Intanto, lasciatemi ricordare il profumo caldo e inebriante di fiori e d’erba diffuso dai pascoli che affiancano la stra-
da. Nel primo tratto di quest’escursione, dai monti di Piazzogna a quelli di Vairano, si cammina, infatti, su una carrozzabile montana, la quale facilita l’accesso alle cascine, in gran parte ristrutturate (non tutte con lo stesso buon gusto, a dire il vero). Là sotto, il blu del Verbano, costellato di virgole bianche delle barche a vela e delle scie di motoscafi. E poi Locarno, con le sue valli, che s’incuneano profondamente tra le montagne. La Verzasca, selvaggia, con la diga di Vogorno, appoggiata lì nel mezzo come un enorme catino traboccante d’acqua. La Vallemaggia, di cui s’indovina appena, dopo la strozzatura di Ponte Brolla, lo zigzagare del percorso verso nord. Dopo i monti di Vairano inizia un comodo sentiero disteso nell’ombra di un fitto bosco, che si apre comunque qua e là offrendo scorci di lago. Il pendio è inciso regolarmente da vallette in cui scorrono ruscelli, che formano di tanto in tanto alte cascate, come quella di Frodalta. Seguono i monti di Gerra, su cui aleggiano profumi di grigliate e di fieno appena tagliato, e poi quelli di Sant’Abbondio, che s’intravvedono appena sotto il sentiero. Da qui si sale leggermente, per poi abbassarsi definitivamente di quota e raggiungere i Centocampi: un nucleo compatto di cascine affiancato da un’ampia e luminosa distesa di prati in cui d’estate pascolano pecore, capre e qualche pacifica mucca assorta nel loro ruminare. Certo che il demonio ha fatto un bel lavoro, ma sono poi state le generazioni di contadini, che si sono succedute quassù, a prestare a quei campi le cure necessarie. «Salivamo in aprile, con le vacche e le capre, e poi si faceva su e giù fino ad autunno inoltrato», mi aveva raccontato, anni or sono, un’anziana del paese, Guglielmina Masa. «A inizio secolo, erano soprattutto le donne a lavorare la terra. Gli uomini, fumisti, pittori, ven-
ditori ambulanti, se n’andavano al di là del San Gottardo, dove il pane sembrava meno duro. Sì, perché qui si mangiava il pane vecchio di settimane. Era pane di segale, che si coltivava ai Centocampi e in ogni altro minimo appezzamento di terreno». La paglia che rimaneva dopo la battitura della segale serviva a ricoprire i tetti delle stalle e dei fienili. Tetti aguzzi, a forte pendenza, che richiamavano spaesate capanne africane. Un tempo queste costruzioni erano molto diffuse nel Gambarogno e, in particolare, ai Centocampi, dove una mappa del 1949 ne rivela ancora una trentina. Il progressivo abbandono delle attività agricole e della coltivazione della segale segnerà il declino definitivo dei tetti in paglia, sostituiti da altre meno nobili, ma forse più funzionali, coperture. Ero salito per la prima volta ai Centocampi attorno alla metà degli anni Novanta. Allora, dei tetti in paglia rimaneva solo qualche intreccio di travi residue, protese verso il cielo come lo scheletro dilavato di uno strano e grosso animale. La loro scomparsa e la quasi estinzione della civiltà contadina che li aveva prodotti non sono comunque coincise con la perdita della conoscenza delle tecniche costruttive. L’avevo scoperto con sollievo passando da Motto Borre, un monte semi abbandonato sopra Sant’Abbondio. Lì avevo conosciuto Christian Spiller, educatore di Winterthur, da molti anni in Ticino, che aveva assimilato e fatta sua un’eredità preziosa, in grado di mantenere in vita la memoria del passato. Forte degli insegnamenti di Virgilio Pedrazzi, un anziano di Caviano, Christian aveva ricostruito alla fine degli anni Ottanta il tetto in paglia di una stalla, riappropriandosi di antiche tecniche, che nulla concedevano al caso. Il vecchio Virgilio gli aveva detto, ad esempio, che le tòrte, i ramoscelli con cui si assicurano i co-
Interno con il tradizionale soffitto in paglia di una stalla di Centocampi.
voni alle travi, devono essere di betulla, perché, nell’evenienza di un incendio, bruciano in un attimo, lasciando scivolare a terra la paglia infuocata e risparmiando dalle fiamme la travatura, costituita dal più resistente castagno, che così potrà essere riutilizzata. L’esempio di Christian sarà all’origine di un’altra iniziativa: la copertura in paglia di uno stabile ai Centocampi, realizzata in collaborazione con Nicola Nussbaum, Walter Keller e alcuni amici, e sostenuta dall’allora Ente Turistico del Gambarogno. La «stalla museo», vestita di segale, e il fienile adiacente, con la carpenteria rifatta, ma coperto
di una semplice lamiera per evitarne il degrado, ora sono lì a testimoniare al viandante sudato, che li guarda con curiosità e ammirazione, una tradizione e una storia secolari che sarebbe stato un peccato dimenticare. Intanto, sui monti di Caviano, Walter Keller, carpentiere e contadino, che si era insediato quassù nel 1975, curando e coltivando con grande passione questo ampio balcone fiorito, ha deciso di andare in pensione. E già ci si domanda. «Che fine faranno quei fertili cento campi, che un diavolo ingenuo e sgobbone ha strappato al bosco tanti anni fa?»
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Il diavolo dei Centocampi
Passeggiate Un’escursione tra storia e leggenda sui sentieri dei monti del Gambarogno
Romano Venziani, testo e fotografie Povero diavolo, a volte mi fa quasi pena. Gli hanno attribuito così tante malefatte, che, pur concedendogli il dono dell’ubiquità, non avrebbe mai potuto compierle tutte. E mica gliela davano vinta, quando barattava una buona azione con qualche anima da portarsi all’inferno, anzi, spesso e volentieri ne usciva sconfitto e scornato. Un esempio? Lo ricorderete tutti il ponte sulla Reuss, nelle tumultuose gole della Schöllenen. Nel passato, le impressionanti pareti rocciose, tra Göschenen e Andermatt, nelle cui profondità scorre impetuoso il fiume, erano un ostacolo quasi insormontabile, che rendeva arduo se non impossibile l’accesso al passo del San Gottardo, la via più breve tra il nord e il sud dell’Europa. Anche gli abili Walser, venuti dall’alta valle di Goms, dove si erano ingegnati a costruire nei luoghi più impensabili chilometri di bisses (i canali per il trasporto dell’acqua), il massimo che sono riusciti a fare sono delle traballanti passerelle di legno ancorate alla roccia, che permettono di superare con mille rischi e acrobazie le gole della Schöllenen e lo spumeggiare spaventoso della Reuss. Solo a fine Cinquecento, su quelle acque, verrà gettato un ponte in pietra, aprendo la «via delle genti» a un traffico importante e composito di merci e di persone. Un’opera ardita, quel ponte, per l’epoca, tanto che la storia della sua realizzazione sconfina da subito nella leggenda, che l’attribuisce all’unico essere in
Il percorso illustrato da Romano Venziani. Sul sito www.azione.ch si trova un’ampia galleria fotografica.
grado di portarla a termine: il demonio. Il quale, va da sé, volle qualcosa in cambio. I montanari urani gli promettono dunque l’anima del primo sfortunato passante che attraverserà il ponte, ma i furbi gli rifilano un ignaro caprone, che s’incammina con aria spaesata sopra il manufatto, prima di essere inghiottito da un pandemonio di fuoco e fiamme scatenato dal diavolo imbestialito per l’inganno. Forse sono partito un po’ da lontano, ma non l’ho tirato in ballo a caso, il
demonio. Una leggenda simile a quella del «Ponte del diavolo» si racconta anche sui monti del Gambarogno. Non ci sono fiumi e gole spaventose da superare, qui, anzi, il paesaggio è aperto e radioso e ammantato dal verde dei boschi. Piccoli nuclei di cascine occupano le rughe del terreno, da dove lo sguardo si libera sopra il blu profondo del lago e la città di Locarno «stesa laggiù attorno al suo magico golfo», come ha scritto qualcuno. Ed è proprio una delizia per gli oc-
chi, il panorama offerto da quest’escursione lungo il rosario di maggenghi, che punteggia la montagna a mezza costa, seguendo con minimi scarti l’isoipsa degli 800 metri. Una passeggiata, impegnativa solo per la sua lunghezza, che parte dai monti di Piazzogna e, passando da quelli di Vairano, Gerra e Sant’Abbondio, arriva ai Centocampi, i monti di Caviano, un incantevole e ampio terrazzo affacciato sulla riviera del Gambarogno. Ed è proprio qui che Belzebù pare
abbia manifestato la sua sulfurea presenza, alimentando una leggenda – quella dei Centocampi, appunto – tramandata di generazione in generazione e ormai incrostata con le sue tante e sfumate varianti nelle pieghe della memoria collettiva. Anche in questo caso, se ne tornerà beffato all’inferno, il maligno, e senza nemmeno averci guadagnato l’anima di un caprone. Si racconta che, un tempo, quassù era tutto un groviglio di rovi, sterpaglie e boschi impenetrabili, tanto che ai contadini l’idea di dissodare questo vasto pianoro si presentava come un’opera sovrumana. Trasformare quell’immane caos vegetale in un vasto e fertile terreno coltivabile era però l’idea fissa del sagrestano, un ometto tranquillo e devoto ma animato da grande ambizione, per il quale il proposito era diventato una vera e propria ossessione, che lo teneva sveglio di notte a rimuginare soluzione su soluzione. Una volta, mentre contemplava il bosco immerso in quel suo pensiero fisso, gli scappò un’incauta esclamazione: «Darei la mia anima al diavolo, se solo potessi realizzare il mio sogno!». Il maligno, sempre pronto a fiutare le occasioni di portarsi qualche anima all’inferno, prese la palla al balzo: «Affare fatto» rispose, apparendogli all’improvviso. E con un largo sogghigno gli buttò lì la sua proposta: «In cambio della tua anima, in una notte trasformerò questa selva intricata in cento campi pronti per essere seminati!» Al povero sagrestano, tornato in
paese, non rimase che rifugiarsi terrorizzato sul campanile, aggrapparsi con mani tremanti alla corda delle campane e suonare l’Angelus, che mise fine a quella giornata disgraziata annunciando l’arrivo della notte. La sua ultima notte. Fattosi buio, Belzebù si mise subito all’opera, poiché il tempo concessogli scadeva con l’Ave Maria dell’indomani. Volarono alberi e sterpaglie, rotolarono i sassi, mentre la terra, rivoltata dal vomero infuocato dell’aratro trainato da due cavalli, scoprì la sua umida e feconda sostanza pronta ad accogliere i semi di generosi raccolti. Lavorò a ritmo indiavolato, il demonio, e i campi dissodati si moltiplicarono a vista d’occhio. Venti, trenta, sessanta, novanta… Era ormai quasi l’alba, quando Belzebù, sputando fiamme, affondò l’aratro nell’ultimo lembo di terreno, quello che sarebbe stato il centesimo campo. All’improvviso, uno squillo vibrante di campane incrinò l’immobilità dell’aria con il suono dell’Ave Maria. Il sagrestano, in un sussulto di lucidità, si era aggrappato alle corde con la forza della disperazione, anticipando l’annuncio della preghiera del mattino, convinto che rimangiarsi la parola data a Belzebù non sarebbe stato giudicato come un peccato così grave. Il diavolo, scacciato dal suono delle campane, maledisse chi l’aveva beffato e, sconfitto, sprofondò tra fumo e fiamme in un abisso che lo portò dritto all’inferno. Da allora, quassù, sui monti di Caviano, è rimasto un esteso appezzamento di terreno coltivato, che nei secoli seguenti l’intervento diabolico produsse un mare ondeggiante di segale, colorando di tinte dorate l’estate tranquilla dei Centocampi. Tornerò tra poco, sulla segale. Intanto, lasciatemi ricordare il profumo caldo e inebriante di fiori e d’erba diffuso dai pascoli che affiancano la stra-
da. Nel primo tratto di quest’escursione, dai monti di Piazzogna a quelli di Vairano, si cammina, infatti, su una carrozzabile montana, la quale facilita l’accesso alle cascine, in gran parte ristrutturate (non tutte con lo stesso buon gusto, a dire il vero). Là sotto, il blu del Verbano, costellato di virgole bianche delle barche a vela e delle scie di motoscafi. E poi Locarno, con le sue valli, che s’incuneano profondamente tra le montagne. La Verzasca, selvaggia, con la diga di Vogorno, appoggiata lì nel mezzo come un enorme catino traboccante d’acqua. La Vallemaggia, di cui s’indovina appena, dopo la strozzatura di Ponte Brolla, lo zigzagare del percorso verso nord. Dopo i monti di Vairano inizia un comodo sentiero disteso nell’ombra di un fitto bosco, che si apre comunque qua e là offrendo scorci di lago. Il pendio è inciso regolarmente da vallette in cui scorrono ruscelli, che formano di tanto in tanto alte cascate, come quella di Frodalta. Seguono i monti di Gerra, su cui aleggiano profumi di grigliate e di fieno appena tagliato, e poi quelli di Sant’Abbondio, che s’intravvedono appena sotto il sentiero. Da qui si sale leggermente, per poi abbassarsi definitivamente di quota e raggiungere i Centocampi: un nucleo compatto di cascine affiancato da un’ampia e luminosa distesa di prati in cui d’estate pascolano pecore, capre e qualche pacifica mucca assorta nel loro ruminare. Certo che il demonio ha fatto un bel lavoro, ma sono poi state le generazioni di contadini, che si sono succedute quassù, a prestare a quei campi le cure necessarie. «Salivamo in aprile, con le vacche e le capre, e poi si faceva su e giù fino ad autunno inoltrato», mi aveva raccontato, anni or sono, un’anziana del paese, Guglielmina Masa. «A inizio secolo, erano soprattutto le donne a lavorare la terra. Gli uomini, fumisti, pittori, ven-
ditori ambulanti, se n’andavano al di là del San Gottardo, dove il pane sembrava meno duro. Sì, perché qui si mangiava il pane vecchio di settimane. Era pane di segale, che si coltivava ai Centocampi e in ogni altro minimo appezzamento di terreno». La paglia che rimaneva dopo la battitura della segale serviva a ricoprire i tetti delle stalle e dei fienili. Tetti aguzzi, a forte pendenza, che richiamavano spaesate capanne africane. Un tempo queste costruzioni erano molto diffuse nel Gambarogno e, in particolare, ai Centocampi, dove una mappa del 1949 ne rivela ancora una trentina. Il progressivo abbandono delle attività agricole e della coltivazione della segale segnerà il declino definitivo dei tetti in paglia, sostituiti da altre meno nobili, ma forse più funzionali, coperture. Ero salito per la prima volta ai Centocampi attorno alla metà degli anni Novanta. Allora, dei tetti in paglia rimaneva solo qualche intreccio di travi residue, protese verso il cielo come lo scheletro dilavato di uno strano e grosso animale. La loro scomparsa e la quasi estinzione della civiltà contadina che li aveva prodotti non sono comunque coincise con la perdita della conoscenza delle tecniche costruttive. L’avevo scoperto con sollievo passando da Motto Borre, un monte semi abbandonato sopra Sant’Abbondio. Lì avevo conosciuto Christian Spiller, educatore di Winterthur, da molti anni in Ticino, che aveva assimilato e fatta sua un’eredità preziosa, in grado di mantenere in vita la memoria del passato. Forte degli insegnamenti di Virgilio Pedrazzi, un anziano di Caviano, Christian aveva ricostruito alla fine degli anni Ottanta il tetto in paglia di una stalla, riappropriandosi di antiche tecniche, che nulla concedevano al caso. Il vecchio Virgilio gli aveva detto, ad esempio, che le tòrte, i ramoscelli con cui si assicurano i co-
Interno con il tradizionale soffitto in paglia di una stalla di Centocampi.
voni alle travi, devono essere di betulla, perché, nell’evenienza di un incendio, bruciano in un attimo, lasciando scivolare a terra la paglia infuocata e risparmiando dalle fiamme la travatura, costituita dal più resistente castagno, che così potrà essere riutilizzata. L’esempio di Christian sarà all’origine di un’altra iniziativa: la copertura in paglia di uno stabile ai Centocampi, realizzata in collaborazione con Nicola Nussbaum, Walter Keller e alcuni amici, e sostenuta dall’allora Ente Turistico del Gambarogno. La «stalla museo», vestita di segale, e il fienile adiacente, con la carpenteria rifatta, ma coperto
di una semplice lamiera per evitarne il degrado, ora sono lì a testimoniare al viandante sudato, che li guarda con curiosità e ammirazione, una tradizione e una storia secolari che sarebbe stato un peccato dimenticare. Intanto, sui monti di Caviano, Walter Keller, carpentiere e contadino, che si era insediato quassù nel 1975, curando e coltivando con grande passione questo ampio balcone fiorito, ha deciso di andare in pensione. E già ci si domanda. «Che fine faranno quei fertili cento campi, che un diavolo ingenuo e sgobbone ha strappato al bosco tanti anni fa?»
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Ambiente e Benessere
«This is not a car»
Motori Al Los Angeles Auto Show non vedrete esposti veicoli della Volvo, ma di certo non mancheranno prototipi
e nuove proposte provenienti dalle altre case
La nuova Crosstrek Hybrid. (Subaru)
Mario Alberto Cucchi Los Angeles è detta anche «la Mecca del cinema», ma è anche tanto altro. Qui dal 30 novembre al 9 dicembre gli appassionati di automobili potranno varcare le porte del L.A. Auto Show, salone internazionale dedicato alle quattro ruote che si tiene negli Stati Uniti con cadenza annuale. Degno di un film di Hollywood è l’annuncio dato in questi giorni dal Costruttore automobilistico Volvo: «sul nostro stand niente auto». Proprio così, la Casa svedese a Los Angeles non espone nessuna vettura, niente prototipi e neppure modelli di serie. Solo una grande scritta al centro del padiglione posizionata su una pedana: «This is not a car». Questa non è un’automobile. Perché? «Decidendo di chiamare questa mostra espositiva Automobility L.A., gli organizzatori hanno voluto riconoscere il profondo cambiamento in atto nel nostro settore» ha dichiarato Mårten Levenstam, responsabile della stra-
tegia di prodotto di Volvo Cars. «Noi vogliamo dimostrare di aver colto il messaggio e avviare un dialogo sul futuro dell’auto-mobilità. Quindi, invece di esporre una concept car, preferiamo parlare del concetto di automobile. Quest’anno non vinceremo certo il pre-
Il posteriore della nuova Crosstrek Hybrid. (Subaru)
mio di “migliore auto del salone”, ma ci sta bene. Perché questo non è un salone dedicato alle auto». Ecco allora che Volvo cercherà di coinvolgere i visitatori con dimostrazioni interattive sull’utilizzo dei servizi in connettività. Dalla consegna delle
merci al car sharing, passando per la guida autonoma. «Il nostro settore sta cambiando. Piuttosto che costruire e vendere automobili, quello che facciamo veramente è dare ai nostri clienti la libertà di muoversi in modo personalizzato, sostenibile e sicuro» ha commentato Håkan Samuelsson, CEO di Volvo Cars. Tutto vero, ma i saloni dell’auto sono da sempre l’occasione per poter vedere nello stesso giorno e nello stesso luogo diversi modelli. E forse anche per questo, per ora, il caso di Volvo resta unico. È da capire se si tratta di una provocazione, oppure se in futuro le auto si sceglieranno da casa sullo schermo del computer, poi magari arriveranno a casa nostra guidandosi da sole grazie alla guida autonoma. Intanto al Los Angeles Auto Show le novità anche quest’anno sono molte e si possono toccare con mano. Una tra le più interessanti arriva da Subaru. Si tratta della prima vettura ibrida plug-in nella storia del costruttore giapponese. Si chiama Crosstrek Hybrid
e arriverà nei concessionari statunitensi entro la fine dell’anno. Se il nome vi è sconosciuto, ma vi sembra di averla già vista, è perché in Europa è commercializzata con il nome XV. Sotto la carrozzeria c’è una nuova piattaforma modulare che sarà usata su tutti i futuri modelli della Casa delle Pleiadi. Crosstrek Hybrid abbina un propulsore 2 litri boxer alimentato a benzina a due motori elettrici. Uno funziona da motorino di avviamento e da generatore, mentre l’altro invia potenza alle ruote e recupera l’energia in fase di decelerazione e frenata. Alimentati da una batteria agli ioni di litio installata sotto il vano bagagli, consentono di percorrere circa 27 km in modalità di marcia totalmente elettrica a patto di non superare i 104 chilometri orari. La trazione è a quattro ruote motrici, quella integrale. Quella che ha reso famosa Subaru in tutto il mondo. Quella che ha permesso alla mitica Subaru Impreza WRC di vincere decine di rally tra il 1993 e il 2008. Altri tempi… Annuncio pubblicitario
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Ambiente e Benessere
Il bianco e il rosso di Agra
Reportage Un viaggio indiano tra i marmi del Taj Mahal e l’arenaria del forte militare, da un pegno d’amore
a una prigione con vista
Porta d’ingresso del Taj Mahal.
I turisti all’ingresso del Taj Mahal.
Simona Dalla Valle, testo e foto Le scarse condizioni delle strade rendono il percorso da Delhi ad Agra scomodo e lento. A differenza delle ampie e scorrevoli corsie autostradali del mondo occidentale, infatti, nelle autostrade indiane sono frequenti incroci, passaggi a livello, mandrie di mucche o altre bestie che attraversano, all’improvviso, tratti con una sola corsia. Buche enormi, a pochi metri l’una dall’altra, fanno sobbalzare il veicolo. Spesso è necessario muoversi a zigzag tra camion, mucche, pedoni e motorini e a volte il traffico va in tilt a causa di un incrocio o di un mezzo con un carico enorme che occupa l’intera carreggiata. Dopo un percorso quantomeno impegnativo anche l’arrivo nel caos di Agra è di grande sollievo. La città è grande e non particolarmente affascinante, ma ospita alcune tra le principali meraviglie del mondo. Il Taj Mahal è la più famosa e accoglie ogni anno circa otto milioni di turisti dall’India e da tutto il mondo. Patrimonio dell’umanità dal 1983, nel 2007 inserito nella lista delle sette meraviglie del mondo, il mausoleo fu fatto costruire nel 1632 dal primo imperatore della dinastia moghul Shah Jahan in memoria di Arjumand Banu Begum, la moglie da lui preferita, più nota come Mumtaz Mahal (in persiano, «la luce del palazzo»). Secondo una credenza generale il nome Taj Mahal (il cui significato letterale è «Palazzo della Corona» oppure «Corona del Palazzo») non è altro che una versione abbreviata del nome di Mumtaz. Mumtaz morì nel 1631 dando alla luce il quattordicesimo figlio dell’imperatore e l’ultimo suo desiderio era che il marito costruisse una tomba in sua memoria. E
grazie all’amore dell’imperatore anche noi possiamo godere di tale capolavoro. I lavori di costruzione del mausoleo, iniziati nel 1632, durarono 22 anni per concludersi nel 1654. Tra le 20mila persone che vi presero parte si contano anche numerosi artigiani provenienti dall’Europa e dall’Asia Centrale, tra i quali anche l’artista italiano Geronimo Veroneo. Il Taj Mahal fu costruito utilizzando materiali provenienti da ogni parte dell’India e dell’Asia, trasportati per mezzo di oltre un migliaio di elefanti e bufali. Il marmo bianco era originario di Makrana, il diaspro del Punjab, la giada e il cristallo, dalla Cina. I turchesi furono portati dal Tibet e i lapislazzuli dall’Afghanistan, gli zaffiri dallo Sri Lanka e la corniola dall’Arabia. In tutto furono incastonati nel marmo bianco 28 diversi tipi di pietre preziose e semipreziose, per un costo complessivo di circa 32 milioni di rupie. L’unico materiale locale a essere utilizzato fu l’arenaria rossa che decora le diverse strutture del complesso. Le impalcature, anziché in bambù (come era tradizione in quelle zone) furono realizzate in mattoni e al termine dei lavori fu previsto che lo smantellamento delle stesse avrebbe richiesto oltre cinque anni. Secondo la tradizione, l’imperatore stabilì che chiunque avrebbe potuto prendere per sé i mattoni dalle impalcature e l’intera area fu liberata in una sola notte. I lavori di costruzione furono finanziati grazie ai proventi della vendita del salnitro, componente per la fabbricazione della polvere da sparo, oggetto di ingenti acquisti da parte dei paesi europei all’epoca impegnati nella Guerra dei trent’anni.
Interno della torre Musamman Burj del Forte Rosso.
Mausoleo Taj Mahal illuminato dal sole. Sul sito www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.
Negli ultimi anni il Taj Mahal ha dovuto affrontare il problema dell’ingiallimento delle pareti e delle macchie verdi e marroni dovute tanto alle sostanze nocive prodotte dal traffico quanto agli insetti che si sollevano dal vicino fiume Yamuna. Al fine di risolvere questo problema la struttura è sottoposta a periodici lavaggi a base di fango e argilla commissionati dal Governo indiano. Una legge vieta di costruire industrie inquinanti nell’area attorno al Taj Mahal e dal gennaio 2018 gli ingressi giornalieri sono stati limitati a 40mila. Il mausoleo è l’unico edificio interamente rivestito di marmo bianco: gli altri hanno solo alcuni elementi de-
corativi di questo materiale, ma sono rivestiti quasi totalmente di roccia arenaria rossa locale. L’arenaria rossa è il materiale principale utilizzato anche per la costruzione del Forte di Agra, struttura meno famosa del Taj Mahal ma di mastodontica bellezza e ancora una volta legata al nome dell’imperatore Shah Jahan. Fu infatti il padre Akbar a iniziare l’ambiziosa costruzione, che terminò nel 1573. Situato a circa 2,5 km a nord-est del Taj Mahal il Forte, anch’esso inserito nella lista dei patrimoni UNESCO e conosciuto anche come Lal Qila o Forte Rosso, aveva la duplice funzione di punto strategico militare e di residenza degli imperatori moghul fino al 1638,
Angoori Bagh (Giardino della vita) del Forte Rosso.
anno in cui la capitale della dinastia fu spostata da Agra a Red Fort a Delhi, comportando una notevole riduzione dell’importanza della città di Agra. Ci vollero otto anni di lavoro e la manodopera di oltre un milione di persone per costruire il complesso originario, al quale Shah Jahan aggiunse la moschea, e dal successore Aurangzeb che completò la costruzione con l’aggiunta di bastioni esterni. Salito al potere nel 1658, Aurangzeb imprigionò Shah Jahan nella raffinata torre ottagonale del forte, detta «Musamman Burj», per otto anni. Da questa torre si gode di una vista meravigliosa sul Taj Mahal e secondo la leggenda Shah Jahan morì ammirando la tomba dell’amata Mumtaz. Il forte, una vera e propria cittadella di 380mila metri quadrati sulla riva occidentale del fiume Yamuna, è protetto da un complesso di mura a forma di mezzaluna alte 20 metri. I massicci bastioni circolari sono intervallati da merlature, feritoie e caditoie e ognuno dei quattro lati della struttura è dotato del proprio accesso. All’interno vi è un labirinto di edifici con vaste sezioni sotterranee e ampi giardini: una vera e propria città all’interno della città nella quale molte delle strutture furono distrutte nel corso degli anni da Nadir Shah, dai maratha, dai Jat e infine dagli inglesi, che hanno utilizzato il forte come presidio. Ancora oggi gran parte del forte è utilizzato dai militari e l’accesso al pubblico è quindi limitato.
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Ambiente e Benessere
Pioggia e sole, gli ingredienti dei vitigni di Andalusia e Canarie
Scelto per voi
Bacco giramondo I vini di Jerez, Malaga, Huelva e Cordoba sono unici,
e portano al mondo dei vini spagnoli qualcosa di particolare Davide Comoli Circa 3000 anni or sono i navigatori Fenici fondarono l’attuale Cadice e acclimatarono i primi ceppi di vite, ma furono in seguito i Greci a incominciare veramente a occuparsi di viticoltura e a introdurre la «potatura» delle vigne. A dispetto delle idee che si hanno sul clima a sud della Spagna, completamente errate, in questa regione piove molto in primavera e in inverno, soprattutto lungo la costa. È soprattutto in prossimità del mare e del monte Grazalema, vicino a Cadice, che troviamo la regione più bagnata di tutta la Spagna. Un altro record di questa regione è appannaggio di Jerez e Sanlúcar de Barrameda, dove più di tremila ore annue di sole fanno di questa regione la più (alle volte) soleggiata al mondo. L’Andalusia è un mondo viticolo a parte, conosciuta superficialmente anche dagli stessi spagnoli, possiamo solo dire che i vini di Jerez, Malaga, Huelva e Cordoba sono unici, e portano al mondo dei vini spagnoli qualcosa di particolare. I vini delle quattro D.O. sopracitate non sono uguali, anche se li possiamo mettere nella stessa categoria, sono vini che possiedono un alto grado alcolico ottenuto o con la fermentazione naturale o acquisito attraverso l’aggiunta di alcol. In questo modo spesso vengono usati come aperitivo, ma anche a fine pasto; altri come i Finos e i Manzanilla, invece, accompagnano molto bene le specialità andaluse, mettendole in evidenza: i frutti di mare grigliati e fritti, le famose tapas e non dimentichiamo i famosi prosciutti spagnoli. Purtroppo i dolci vini prodotti a Malaga e Montilla-Moriles non godono dell’attenzione che meritano. Tut-
tavia va detto che nel 1850 la provincia di Malaga era addirittura la seconda regione viticola spagnola. Oggi la superficie viticola si è molto ridotta, causa la speculazione edilizia causata dal turismo di massa. Due sono le tipologie di vino di Malaga che vengono prodotte: il Dulce natural o più semplicemente Malaga deve contenere almeno 300 grammi di zucchero residuo e 13% vol. d’alcol svolto. I vitigni con cui è prodotto sono quelli del Pedro Ximénez con delle piccole percentuali di Moscatel. Il Malaga classico non è costituito dal semplice mosto (spesso, aromatico, concentrato), ma di una concentrazione di mosto (arrope) e vino prodotto con uve seccate al sole (vino tierno) con un procedimento che ogni produttore cela gelosamente; si sa però che essi aggiungono ai loro vini una piccola percentuale di alcol etilico fino a portarli a 15% vol. Le molteplici indicazioni che appaiono sulle etichette del vino di Malaga
sono dovute a un mercante tedesco. In effetti furono i tedeschi a dominare per un lungo tempo il commercio di questa tipologia di vino. Potete quindi trovare: il Malaga seco, il Dulce, il Pálido, l’Oscuro, Añejo, il Demi-sec e il Lágrima, che designa il succo che cola dal mosto (il migliore!). Il vino di Malaga diventò famoso alle nostre latitudini nel 1492, quando al soglio di S. Pietro fu eletto (il molto discusso) cardinale Rodrigo Borgia con il nome di Alessandro VI. Ettolitri di vino di Malaga, luogo d’origine del pontefice, furono serviti nelle (poco cattoliche) stanze vaticane. Dei vini di Montilla-Moriles e di Jerez, parleremo a parte prossimamente nella rubrica Vino nella storia. Le vigne delle Isole Canarie, 11’400 ettari vitati, presentarono numerose particolarità. I rendimenti sono ancora minori che sul continente, così come sono atipici i sistemi di coltivazione.
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Mandorla Negroamaro/ Primitivo Puglia IGT 2017, Puglia, Italia, 6 x 75 cl
Mandorla Negroamaro/ Primitivo Puglia IGT
Rating della clientela:
2017, Puglia, Carne rossa, verdure,
Italia, 6Negroamaro/ x 75 cl Mandorla pasta, pizza, grigliate Rating della clientela: Primitivo Puglia IGT Negroamaro, 2017, Puglia, Primitivo Italia, 6 x 75 cl Carne rossa, verdure, Rating1–4 della clientela: anni pasta, pizza, grigliate Negroamaro, Primitivo Carne rossa, verdure, pasta, pizza, grigliate 1–4 anni Negroamaro, Primitivo
40% 37.80 40% 37.80 40% 1–4 anni
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6.30 a bottiglia invece di 10.50
la concorrenza *Confronto con invece di 63.– 6.30 a bottiglia invece di 10.50
Sulle sette isole, la tradizione vinicola risale solo al XV secolo, dopo la conquista spagnola. I primi vitigni furono portati dai nuovi venuti e sono i vitigni tradizionali spagnoli, ma troviamo tracce anche di vitigni portoghesi. In quel periodo, il gusto britannico impose la coltivazione di vini dolci e pesanti, prodotti con i vitigni Malvasia e Moscatel. Questi vini erano molto ricercati nelle principali corti europee, il «Canary sack» era spedito in tutta Europa via mare. A contribuire alla sua fama fu la celebre opera di William Shakespeare, l’Enrico IV dove Falstaff è soprannominato sir John Canaries, in ragione del forte consumo proveniente dalle suddette isole. Nel 1980, la grande massa di turisti aumentò la domanda di vino. Per contrastare il massiccio requisito di vino a buon mercato proveniente dal continente spagnolo, nel 1992-1996 sono state create delle D.O., così da potersi inserire anche in un’altra parte di mercato: grazie alla loro particolare eleganza ed espressività, questi ultimi vini sono venduti a prezzi un po’ più alti. Trentatrè sono i vitigni protetti nelle isole, dei quali 19 a bacca bianca e 14 a bacca rossa. In generale i vini bianchi hanno più personalità dei rossi, citiamo ad esempio il Vino del Tea prodotto a nord di La Palma, invecchiato in botti di pino; e sono assolutamente da non perdere i vini di Lanzarote, nota per i suoi caratteristici vigneti ad alberello, coltivati in piccole depressioni del terreno per proteggerli dal calore e dal vento (da provare, unica al mondo la Malvasia Bodega El Grifo). E infine non perdete i vini rosati, che non sono vinelli popolari, ma ottimi compagni con le zuppe di pesce.
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Verger du Soleil Syrah/Merlot
Stone Barn White Zinfandel Rosé
Rating della clientela:
Rating della clientela:
2017, Pays d’Oc IGP, Carne rossa, Francia, 6 xpesce 75 cl d’acqua salata, pasta, ratatouille Rating della clientela:
2017, California, Stuzzichini insalate, Stati Uniti,da6 aperitivo, x 75 cl tofu ecc., grigliate, cibi americani Rating della clientela:
2017, Pays d’Oc IGP, Francia, 6 x 75 cl
Verger du Soleil Syrah/Merlot
Verger du Soleil Syrah/Merlot Syrah, Merlot 2017, Pays d’Oc IGP, Francia, 6 x 75 cl Carne rossa, pesce d’acqua salata, Rating2–3 della clientela: anni pasta, ratatouille Syrah, Merlot Carne rossa, pesce d’acqua salata, pasta, ratatouille 2–3 anni Syrah, Merlot 2–3 anni
2.95 a bottiglia invece di 5.90
Stone Barn White Zinfandel Rosé
Stone Barn White Zinfandel Rosé Zinfandel (Primitivo) 2017, California, Stati Uniti, 6 x 75 cl Stuzzichini da aperitivo, insalate, Rating1–3 della clientela: anni tofu ecc., grigliate, cibi americani Zinfandel (Primitivo) Stuzzichini da aperitivo, insalate, tofu ecc., grigliate, cibi americani 1–3 anni Zinfandel (Primitivo)
37% 24.95 37% 24.95 37%
invece di 39.90
4.20 a bottiglia invece di 6.65
invece di 35.40
Enoteca Vinarte, Centro Migros S. Antonino
2017, California, Stati Uniti, 6 x 75 cl
1–3 anni
invece di 35.40
2.95 a bottiglia invece di 5.90
Barsac è situata sulla sponda sinistra della Garonna, a nord-ovest di Sauternes, separate dal piccolo torrente Ciron. L’autunno porta delle nebbie mattutine che vengono disperse da un forte soleggiamento pomeridiano, clima dunque molto favorevole allo sviluppo della Botrytis cinerea, il famoso fungo (muffa nobile), che permette di produrre i grandi vini bianchi liquorosi, rinomati per la loro complessità. Doisy-Daëne è prodotto con uve Semillon in maggioranza, Sauvignon Blanc e Muscadelle, che maturano su un suolo argillo-calcareo ricco di ghiaia. È un prodotto fine ed elegante che, nel colore, con l’andar del tempo, evoca le tinte dell’ambra. Al naso è un’esplosione di profumi (vale la pena soffermarsi a goderne), pesca, frutti esotici, miele, albicocche secche, marmellata d’arance e brioches fresche. Il bouquet intenso di questo vino ve lo ritroverete in bocca con un finale fresco e lungo, può invecchiare più di vent’anni. Classico l’abbinamento con il fegato d’oca e la frutta secca che si porta in tavola il giorno di Natale, la famosa Tarte Tatin e i grandi formaggi erborinati a partire dal Roquefort. / DC
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Raccolta di uva passa di Malaga, Andalusia, Spagna. (Montuno)
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Château Doisy-Daëne
Casa Giona Ripasso della Valpolicella DOC Superiore 2016, Veneto, Italia, 75 cl
Casa Giona Ripasso della Valpolicella DOC Superiore
Rating della clientela:
2016, Veneto, Carne rossa, pizza, formaggio a
Italia, 75 Ripasso cl Casapasta Giona dura, ratatouille della Rating della clientela: Valpolicella DOC Superiore Corvina Veronese, Rondinella 2016, Veneto, Italia, 75 cl Carne rossa, pizza, formaggio a Rating2–5 della clientela: anni pasta dura, ratatouille Corvina Veronese, Rondinella Carne rossa, pizza, formaggio a pasta dura, ratatouille 2–5 anni Corvina Veronese, Rondinella
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Ambiente e Benessere
Il pesce che va salvato? L’acciuga Qualche tempo fa, in viaggio con amici ghiottoni quanto me per andare in un ottimo ristorante a pranzo, è nata una (piccola) discussione su un tema: qual è il pesce (o crostaceo o mollusco) che, se per disgrazia, sparisse, ci lascerebbe più orfani. Classica discussione di quando non hai nulla di importante da fare… Alla fine abbiamo trovato un accordo: l’acciuga. Perché sarebbe, sì, triste fare a meno di astici o black cod (carbonaro dell’Alaska) ma di certo sarebbe più triste non trovare più le umili, onnipresenti, magiche acciughe.
Le acciughe dei mari caldi, in linea di massima, sono più grasse, perciò si usano per farne conserve Il nome scientifico è Engraulis Encrasicolus: acciuga è il termine corretto, in alcune parti d’Italia si usa alice, ma è sempre lo stesso pesce. Appartiene alla categoria del pesce azzurro, del quale è la specie più piccola: può misurare al massimo fino a venti centimetri; si distingue dagli altri pesci azzurri per la conformazione della mascella inferiore, più corta di quella superiore. Sono onnipresenti in tutti i mari del mondo, quindi disponibili tutto l’anno. Le acciughe dei mari caldi, in linea di massima, sono più grasse di quelle dei mari freddi, il che si traduce in più deperibili, perciò si usano per farne conserve. Le ricette con le acciughe fresche sono tantissime: è ottima cruda, dopo averla marinata nell’aceto o nel succo di limone; infarinata e fritta; a tortino, con pangrattato, prezzemolo, aglio e pomodoro; farcita e cotta in tegame o in forno. Oltre che fresca, si acquista conservata sott’olio o sotto sale. Praticissima anche la pasta di acciughe, in
vendita in pratici tubetti, da usare per insaporire salse e condimenti. Se fresche, vanno mondate. Per mondarle, squamatele (meglio comprare un attrezzo apposito, si trova facilmente e costa poco), privatele della testa tirandola delicatamente con le dita in modo da sfilare anche le interiora, che sono attaccate alla testa, e gettatele: teoricamente si potrebbero utilizzare, ma a livello casalingo è quasi impossibile. Apritele lungo il ventre lasciando intatto il dorso (è l’apertura cosiddetta «a libro») e rimuovete la lisca; sciacquatele rapidamente e asciugatele molto bene. Le acciughe sott’olio vanno solo ben scolate, meglio se tamponandole con carta da cucina: poi gettate l’olio di conserva – io non amo farlo ma non ne ho mai trovato un utilizzo acconcio. Quanto alle acciughe sotto sale, per dissalarle è bene evitare di passarle nell’acqua, si infradicerebbero troppo. Meglio raschiarle con un coltello, utilizzando la parte opposta alla lama, con un po’ di pazienza e aiutandosi con uno strofinaccio o con carta da cucina. Delle innumerevoli ricette a base di acciughe, qui ne rammento solo una: l’acciugata, una salsa amatissima. In verità la ricetta ve l’avevo data già dieci anni fa, ma siccome è passato tanto tempo… Gli ingredienti sono per 4/6 persone. Dissalate 10 acciughe sotto sale. In una casseruola scaldate 4 cucchiai di olio, unite le acciughe e fatele sciogliere schiacciandole con un cucchiaio di legno fino a ottenere una pasta omogenea. Tutto qui. Lo so, molti usano la pasta d’acciughe, ben più comoda, ma se si fa in casa è tutt’altra cosa. Utilizzate la salsa per condire pesce lesso, patate bollite o uova sode o tantissimo altro; provate. Potete prepararla aggiungendo anche 1 cucchiaino di capperi dissalati interi se piccoli, o tritati, 1 cucchiaio, meno ortodosso ma si può fare, di olive nere tritate o 1 cucchiaio di salsa di pomodoro o 1 punta di concentrato di pomodoro stemperata in poca acqua.
CSF (come si fa)
Catia Giaccherini
Allan Bay
Pxhere.com
Gastronomia Tra le tante ricette che si possono preparare, qui si dà quella dell’acciugata
Ci sono termini che ingenerano confusione. Ecco un esempio. Uccelli scappati o osei scampai. Non sono volatili ma involtini di carne di vitello o maiale tipici della cucina lombarda, emiliana e veneta. Farciti con pancetta o speck e cipolla, vengono infilzati su lunghi stecchi a mo’ di spiedini, inframmezzati da foglie di salvia, pezzetti di lardo o pancetta, e rosolati; si possono preparare anche con cubet-
ti di fegato, rognone o salsiccia. L’icastico nome risale al passato, quando li si cucinava per rimediare a una caccia sfortunata, che non avesse permesso di mettere volatili nel carniere. Quanto al consumo di uccellini o uccelletti che dir si voglia: i più apprezzati sono allodole, ortolani, beccafichi e tordi. Si tratta di specie oggi per lo più protette, perciò in vendita si trovano animali di importazione, spesso già avvolti in lardo o pancetta e aromatizzati con salvia o rosmarino. Vengono normalmente cotti in salmì o allo spiedo. Altro è il termine: all’uccelletto. È un metodo di cottura dei fagioli tipico della tradizione toscana. Il nome sembrerebbe derivare da un’analoga ricetta per la preparazione degli uccelletti, tanto cari all’antica gastronomia toscana. Ma che oggi non si utilizza più.
La ricetta originale consiglia di utilizzare i cannellini. Io amo una variante del tutto non ortodossa. Vediamo come si fa. I miei fagioli all’uccelletto. Ingredienti per 4 persone. Mettete a bagno 200 g di fagioli cannellini secchi per 12 ore. Tagliate a striscioline 1 manciata di cotenne. Scolateli e lessateli per 2 ore, unendo 1 manciata di cotenne tagliate a julienne e 2 foglie di alloro. In una casseruola scaldate 1 filo di olio con 2 spicchi di aglio mondati e leggermente schiacciati, 10 cm di salsiccia spellata e tritata e 4 foglie di salvia, quindi rosolate per circa cinque minuti. Aggiungete i fagioli scolati e 250 g di spinaci lessati e tritati. Cuocete per 5 minuti, bagnando con poca acqua bollente se necessario. Regolate di sale e di peperoncino.
Ballando coi gusti Oggi, due ricette di carni, molto semplici: per lo stufato si parte da avanzi di carne bollita; le costolette di agnello possono essere sostituite da altre carni tagliate a scaloppine. Stufato di bollito
Agnello alle mele
Ingredienti per 4 persone: 600 g di carne bollita a piacere · 600 g di patate · 1 cipolla · 1 foglia di alloro · brodo di carne o vegetale · olio di oliva · sale e peperoncino.
Ingredienti per 4 persone: 4 costolette di agnello · 4 mele · 1 manciata di mandorle
Lavate bene le patate, cuocetele al vapore tenendole molto al dente, scolatele, lasciatele intiepidire e pelatele o meno a piacer vostro. Tagliate la carne a bocconi. Mondate e affettate la cipolla e fatela rosolare in una casseruola con 1 filo di olio e l’alloro per pochi minuti, mescolando. Unite la carne e lasciatela insaporire per pochi minuti, quindi aggiungete le patate. Bagnate con poco brodo e cuocete per pochi minuti. Regolate di sale e di peperoncino e servite.
Rosolate le costolette in una padella con un filo di olio, 1 spicchio di aglio e rosmarino tritato. Sfumate con vino e mettetele in una pirofila pennellata di olio. Tenete in caldo. Sbucciate le mele, eliminate il torsolo e tagliatele a spicchi. Fatele rosolare per 5 minuti nella padella delle cotolette, poi aggiungetele alla carne. Unite anche le mandorle tostate a parte. Cuocete in forno a 180° per 5 minuti. Regolate di sale e di pepe e profumate con prezzemolo.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Ambiente e Benessere
Una famiglia allargata
Mondoanimale Il lupo dispone di una struttura sociale che poggia sui concetti di accudimento e di solidarietà altresì presupporre che i tre piccoli godano di buona salute: «A 8 mesi i cuccioli sono considerati giovani adulti, a 10 mesi cominciano a partire dal branco e questo periodo può protrarsi anche fino al secondo anno di età. Quelli dell’anno precedente hanno solo un anno e mezzo e potrebbero farsi carico dei tre fratellini minori che possono perciò contare sull’accudimento dei parenti rimasti». Ecco la grande flessibilità sociale del lupo. «Ora potrebbe anche esserci una femmina che avrà sostituito la madre, almeno per quanto concerne il ruolo di cacciatrice. Qualcuno andrà a caccia e qualcun altro curerà i cuccioli». Ciò che si desume da queste informazioni ci permette di non preoccuparci troppo della sorte dei piccoli: «Lo vediamo anche negli orsi, per i quali però l’allattamento dura un po’ più a lungo: sono animali che hanno un’immensa capacità di adattamento alle situazioni e una grande voglia di sopravtre cuccioli li colloca in valle a settem- spendere qualche parola circa la vita vivere che se secondo i nostri criteri bre, quando avevano all’incirca 4 o 5 di branco del lupo: «Nella loro vita so- fossero messi abbastanza male, essi se mesi di vita». Questo è però il periodo ciale, i lupi sviluppano grande collabo- la giocherebbero in tutto e per tutto e in cui hanno perso la madre. Tuttavia razione: anche in presenza dei genitori avrebbero a prescindere grandi probaci viene detto che non dovrebbe esse- biologici, i cuccioli vengono accuditi bilità di sopravvivenza. Accudimento, re stato un problema: «La lupa allatta i dagli zii o dai fratelloni». Una ricetta solidarietà e resilienza sono qualità che suoi piccoli all’incirca per 6/8 settima- per la sopravvivenza della specie è posseggono già da cuccioli». ne; a 3 mesi essi escono con la mamma dunque quella della solidarietà e quanPer conoscere davvero le sorti dei dalla tana in cui sono nati e vengono to capitato in valle Morobbia lascia -tre piccoli lupi 2018 sono però necessarie SUDOKU PER AZIONE NOVEMBRE per “Azione” - Novembre lasciati soli quando gli adulti vanno a Giochi presumere che anche questo2018 branco prove certe: «Sul territorio ci sono delle Stefania Sargentini cacciare. Dunque, dai 20 giorni di vita agito così: «In particolare, ma- foto-trappole che eseguono un lavoro N. 41abbia FACILE essi cominciano a nutrirsi anche di gari i Schema piccoli vengono ora accuditi dal- di monitoraggio, anche se non scientiSoluzione (N. 42solido». - Le valli, i monti innevati, il sangue dei patrioti) cibo la lupa o dal lupo figli della cucciolata fico o sistematico, ma dovrebbero ba9 5 7 i superstiti 3 8 6 se4questi 1 7 precedente». 8 1 di lupa i pic- dell’anno stare a 2fotografare 1 2 Alla morte 3 4 5 mamma 6 V A A Lacquisite sui lupi saranno ancora lì». Non ci resta che atcoli erano dunque svezzati: «A quell’e- L 7ELe conoscenze 8 1 7 9 6 4 2 3 5 3 7 8 9 L avvistati I I in Mvalle O Morobbia per- tendere nuove notizie, anzi: potremmo tà non cacciano ancora, ma aspettano Aalpini 4 6 3 5 2 1 9 8 7 3 2 9 10 11 12 il ritorno degli adulti che portano loro Nmettono A T diI affermare I Z che forse oggi ci dire che attendiamo nuove immagini 13 14 3 4 8 2 1 5 7 6 9 3 4 2 il cibo». Ma la mamma è sempre la Isono N in A giro N cuccioloni E I dell’anno pre- che ritraggono i lupacchiotti della valle 15 17 18 19 20 6 6 5 1 8 9 7 3 2 4 mamma e a 16questo punto dobbiamo cedente («giovani Morobbia. 1 9 3 adulti»), 4 e possiamo D C V U O T A T I 21 22 23 24 9 7 2 6 4 3 1 5 8 9 7 2 3 1 5 I A L I N E S A 25 26 27 28 29 30 7 2 4 1 8 6 5 9 3 7 4 8 6 5 N G U E I D E A 31 32 33 34 35 1 1 8 9 3 5 2 4 7 6 I N O P I A 7 I R T A 36 37 38 5 3 6 4 7 9 8 1 2 5 A 6R I A 9 8O 1T 2O I I
Maria Grazia Buletti La notizia è fresca ed è di quelle che in un batter d’occhio fa il giro del cantone. Riferisce di un lupo, anzi una lupa, nota sul nostro territorio. «È morta F08, l’unica lupa-mamma ticinese», «È morta la lupa della cucciolata in valle Morobbia», «Muore di cimurro e di tumore l’unica mamma lupa ticinese», sono solo alcuni dei titoli dei media locali che hanno dato giusto risalto al comunicato dell’Ufficio caccia e pesca a proposito del ritrovamento della carcassa di una lupa, il mese di settembre, nella valle che solo qualche mese prima l’aveva vista dare alla luce l’ultima sua cucciolata. «Si tratta di un evento assolutamente straordinario!», esclama l’esperta di grandi predatori Joanna Schönenberger da noi interpellata per sapere che ne potrebbe essere stato dei lupacchiotti rimasti orfani. Innanzitutto conferma l’eccezionalità del ritrovamento della carcassa di un lupo morto di morte naturale. Perciò, per una volta non si tratta di disquisire su sostenitori o detrattori della presenza del lupo nel nostro cantone. E non si focalizza sui presunti o accertati danni che avrebbe potuto apportare al bestiame locale: «Settembre segna il periodo della caccia che forse, con la maggiore presenza dei guardiacaccia sul territorio, ha potuto portare al ritrovamento avvenuto in valle Morobbia. Questo fatto raro documenta una morte naturale e non accidentale o antropogenica (non per mano dell’uomo) dell’animale». L’eccezionalità dell’evento permette perciò di aggiungere tasselli di conoscenza sul lupo: «Ora sappiamo
Giochi
Che fine avranno fatto i lupacchiotti della mamma lupa trovata morta poco tempo fa in Valle Morobbia? (WWF)
che anche le lupe possono andare incontro a un tumore mammario che le può portare a una morte naturale come è stato appurato per questo esemplare deceduto appunto per un tumore mammario e cimurro. Inoltre, questo ritrovamento ci permette di approfondire ulteriormente la dinamica della vita della specie: su come si sviluppa, come sopravvive e a cosa può andare incontro». Sta di fatto che ci preme sapere della sorte dei cuccioli di questa lupa e riproponiamo la questione all’esperta che presume con cauto ottimismo che siano sopravvissuti. «Di norma i lupacchiotti nascono fra aprile e maggio». La presenza dei tre piccoli in questione è documentata: «La prima fotografia di
Giochi per “Azione” - Dicembre 2018 SUDOKU PER A Stefania Sargentini
Vinci una delle 3 carte regalo da 50N. franchi con il cruciverba 45 FACILE (N. 46 - Dicembre nevoso anno fruttuoso) e una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il sudoku
Cruciverba Per scoprire il proverbio nascosto nello schema, risolvi il cruciverba e leggi le lettere nelle caselle evidenziate. (Frase: 8, 6, 4, 9)
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N. 42 MEDIO marino) 2 (N. 43 3 - L’orca 4 e il coccodrillo 5 6 8 5 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
D I C64 57E31 28R59 34 I 61 3 5E D E2 9M86 1A7 6 4 7 3 2 5 1 9 8 9 10 4 R E S91 48 565 34N626 78E32 12 1 7 3 4 M A 38 62V79 67 I 43 51T59 7 9 6 8 5 17 5 1 4 9 8 2 7 P R O S A P O E T 1 2 7 19 ( N. 44 - ... ma nell’avere nuovi occhi) N. 43 DIFFICILE I 6N2 N 9O 8 F A5 4R31 8R6 2O77 M A N I E R O 22 8 9 2 7 1 3 5 O LU E7 1A D E5E L N O T A I4 9 3 9 7 7 2 1 37 6 5 5 ' L' T V I S I 25 26 7 O 5 4M G A T TR O I 4O 1 E7 55C42 9 33 1U2 9 3 1 6 2 8 4 V E N2 T O R E N I 28 C U L4 TM O5 E S AD V I E O 6 8A O 2 6E8 4S7 5S89 5 '
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O R D A C A 3 Soluzione: D E A L E C 8 3 Scoprire i3 6 I O D O C I numeri corretti 2 4 O F E L I D da inserire nelle R colorate. U B I N I caselle A8C E 3 7 6 R A S 6 1 5 A R I 5 1 N A 7V A
S T E A O S L I I D 9 L I 1L E V O M A 4I N R R O
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ORIZZONTALI 1. Pettegolezzi 7. Ematoma, livido 8. Cosa in latino 9. Il nonno di re Saul 11. Può precedere il se 12. Un’acrobazia dell’aereo 13. Con lei proprio non c’è verso... 17. Uno come Foscolo 18. Può essere liturgico o patriottico 19. Un cereale 20. Tre vocali 21. Sono pubblici ufficiali 23. Scorre... perfido 25. Le iniziali del tenore Caruso 26. Le hanno tutte e due 27. Il cantante Minghi 28. Un pronome
O D I O9 4 C E T2 O I 6 8 7 3 9 4 1 5 2 S U D W A L T C D 5 7 4 1 5 2 8 7 6 9 3 VERTICALI 21. Il24padre di Sem e Cam Soluzione della settimana precedente A A G H I F O R M E 3 9 1 2 9 e1 5 6 Resto 8 4 della 7 1. Strato superficiale della pelle 22. Il nome di Teocoli TRA AMICHE – «Maria, se cerchi un uomo che sia3paziente curato…». 2. Si può rendere anche se non ci è stata in bel cuorgiro suo in ospedale!”) frase: «…FATTI UN BEL GIRO IN OSPEDALE!» (N.24. 45Deridere... - “... fatti un N. 44 GENI prestata... 26. Le3 iniziali dello scrittore Saba7 1 2 4 5 6 8 F A T O6 M 5 A 1R T I N A 3. Questi a Parigi 9 7 4 8 2 6 3 5 1 9 9 10 11 4.1 Le iniziali della cantante Marrone U F O B A N E R B 6 1 2 5 3 7 8 9 4 1 7 4 2 3 4 5 6 12 13 14 15 5. Un principe di Monaco N O 4 S E N N A L E I 5 8 3 1 4 9 6 2 7 5 3 6. Giudea 16 17 18 E N O L O G A L A S T 7 Misura di peso 2 4 9 6 1 3 7 8 5 10. 7 5 19 20 I V A N O G I N O 12. Ingordo, insaziabile Vincitori del concorso Cruciverba 8 5 1 4 7 2 9 6 3 3 21 22 23 24 R I V I F E U D O su «Azione 47», del 19.11.2018 13. Sinonimo di leggerezza 8 9 25 26 7 3 6 9 8 5 1 4 2 728 9 8 5 14. Trasporta informazioni genetiche R. Lupi, L. Bisi,27V. Gilardi A M P I P A N T A N O 29 30 31 1 9 8 7 5 4 2 3 6 8 2 Vincitori del concorso Sudoku 15. Responsabilità S I A P A T I O E L 16. Suona se manca una... su «Azione 47», del 19.11.2018 32 33 34 35 10 11 3 6 5 2 9 1 4 7 8 6 P R D1 T U O O R I 17. Si spalma F. Ceccarelli, G. Zanon 37 36 4 2 7 3 6 8 5 1 9 2 O D 3 I6 S S E 1 A I L E O 19. Nucleo del tifone
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch
I premi, cinque carte regalo Migros del valore di 5016 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta 17 entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco.
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(N. 47 - ... abiterai sempre nello stesso luogo) I vincitori
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online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. 18 19la lettera o Partecipazione postale: la cartolina postale che riporti la soPartecipazione
N. 46 MEDIO
A B I 7L 6 I T 9 A2 5 C E R E 4O S A L T I 9 1A S 2 C E E E 9M I 8 1 3 7 8 I N P R E S E N T E luzione, corredata da nome, cognome, è possibile un pagamento in contanti 5 indirizzo, email del partecipante deve dei premi. I vincitori saranno avvertiti essere iscritto. vincitoriL sarà A spedita a L«Redazione E Azione, O 4N per I Il nomeE6deiPartecipazione Concorsi, C.P. 6315, 6901 pubblicato su «Azione». 8 Lugano». 7 Non si intratterrà corrispondenza sui riservata esclusivamente a lettori che O sonoSescluse. SNonOrisiedono inTSvizzera. E8 S I concorsi. R Le vie legali
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Politica e Economia Brexit: «deal» a Londra? Il parlamento britannico è chiamato a ratificare l’accordo raggiunto con l’Ue
Reportage dall’India Fra i mercati e il cibo di strada: uno dei tanti volti spettacolari di questo Paese è destinato a diventare un ricordo spazzato via dalla modernità
SSR, realtà in mutamento I tagli per 100 milioni di franchi obbligano l’ente radiotelevisivo a numerose ristrutturazioni
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Fiscalità più trasparente Il Consiglio federale ci riprova: licenziato il nuovo messaggio sulla trasparenza fiscale; prevista anche la soppressione delle azioni al portatore pagina 29
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Attivisti di Greenpeace sono saliti sulla cima della più grande centrale a carbone europea a Belchatow, Polonia, per sensibilizzare l’opinione pubblica. (Keystone)
Clima, cambierà il vento?
COP 24 Si apre il 3 dicembre a Katowice la nuova conferenza sul clima, in un contesto di dati sempre più allarmanti,
che sembrano smuovere persino Washington Alfredo Venturi Il nostro pianeta ha la febbre e la comunità internazionale cerca la giusta terapia in un contesto che non potrebbe essere più contraddittorio. Al sentimento di ansia che ormai dilaga nelle opinioni pubbliche, atterrite dai disastri climatici e dalle cupe prospettive delineate dalla scienza, si contrappongono lo scetticismo e i pregiudizi di chi, come il presidente Donald Trump, considera il surriscaldamento niente altro che una bufala. Il tema è sul tappeto ormai da un quarto di secolo, da quella conferenza di Rio de Janeiro che nel 1992 lanciò la Convenzione Onu sui cambiamenti climatici e le annuali Conferenze delle parti. Ma nonostante la crescente presa di coscienza della gravità del fenomeno e qualche marginale progresso la meta ambiziosa di Rio, ridurre in misura significativa le emissioni di gas a effetto serra e la deforestazione, appartiene ancora al regno dell’utopia. In questi giorni si apre a Katowice, Polonia, la 24.esima Conferenza delle parti: COP 24. Mentre gli indicatori continuano a segnalare allarme rosso, l’obiettivo di contenere l’aumento della
temperatura globale al di sotto di 1,5 °C rispetto ai valori pre-industriali sembra sfuggire di mano. Eppure la scienza parla chiaro: oltre quella soglia, che alle condizioni attuali verrebbe raggiunta nel 2030, fenomeni come il clima impazzito, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento del livello dei mari, possono diventare irreversibili. Oltre i 2°C, poi, la catastrofe sarebbe totale. La formula tematica della COP 24 è «Cambiare insieme». Ma il lungo consulto al capezzale del pianeta febbricitante dimostra che su questa esigenza d’azione comune prevalgono gli egoismi nazionali. Troppe le defezioni rispetto agli obiettivi comuni fissati a livello negoziale. È bastato un avvicendamento alla Casa Bianca perché gli Stati Uniti, che condividono con la Cina il ruolo di massimi inquinatori, denunciassero il pur cauto programma elaborato a Parigi nel 2015, che fissava il limite invalicabile dei 2°C e quello auspicabile di 1,5°C, e dunque rifiutassero di applicare le misure necessarie per raggiungere l’obiettivo. È vero che proprio nei giorni scorsi il quarto rapporto sul clima dell’amministrazione americana ha clamoro-
samente contraddetto il punto di vista di Trump elencando le pesanti conseguenze del fenomeno: disastri climatici a non finire, minacce per la salute, fine dell’impetuosa crescita economica che il successore di Barack Obama si vanta di avere assicurato agli Usa. La reazione del presidente non si è fatta attendere. «Non ci credo», ha detto quando un giornalista lo ha interpellato sul rapporto del suo stesso governo. D’altra parte l’imprevedibile Trump non aveva escluso, dopo il rifiuto degli accordi di Parigi, la possibilità di un ripensamento purché il programma fosse drasticamente ritoccato. Al momento restano valide certe sue decisioni sul rilancio dei combustibili fossili, sulla costruzione di nuovi oleodotti, sulla riapertura di alcune miniere di carbone. In ogni caso il negazionismo trumpiano è ormai dilagato oltre le frontiere americane. È dei giorni scorsi la decisione del governo australiano di respingere la raccomandazione dell’IPCC (comitato intergovernativo sul cambiamento climatico, formato dalle agenzie Onu per l’ambiente e la meteorologia) a proposito delle centrali a carbone. L’IPCC chiede che queste centrali, le più inqui-
nanti per le massicce emissioni di gas a effetto serra, vengano chiuse in tutto il mondo entro la metà del secolo. Niente affatto, risponde Scott Morrison, primo ministro a Canberra: la nostra priorità è l’energia a buon mercato e il carbone fa proprio al caso nostro. Del resto la Polonia, che ospita la conferenza chiamando a raccolta migliaia di delegati da tutto il mondo, è fra i paesi che producono energia con la più alta percentuale di carbone. La stessa Katowice è al centro di una densa area industriale storicamente alimentata da questo combustibile. Sembra un paradosso, ma proprio nell’imminenza della COP 24 Varsavia ha annunciato la costruzione, vicino ai confini con Bielorussia e Lituania, di una centrale a carbone da mille megawatt. Eppure Patricia Espinosa, segretaria generale della Convenzione, segnala che nonostante le molte defezioni l’applicazione degli accordi di Parigi comincia a dare i primi frutti. A Katowice si cercherà di completare le linee di attuazione che dovrebbero rendere quelle intese pienamente operative. Insomma si proverà ad andare avanti su un doppio binario: da una par-
te le misure per diminuire la produzione di fumi inquinanti, dall’altra quelle destinate ad assicurare l’assorbimento almeno parziale dei veleni in eccesso. A questo proposito si parla sia della riforestazione, sia di un procedimento ancora in fase sperimentale ma certamente destinato a dominare presto la scena: la raccolta e lo stoccaggio del carbonio. Per vincere le tenaci resistenze ai programmi di risanamento dell’ambiente un argomento fortemente persuasivo potrebbe essere rappresentato dalla pressione migratoria. Fra le cause di questo fenomeno figurano certe conseguenze devastanti del cambiamento climatico sull’economia di molti paesi poveri, in particolare le ricorrenti siccità che mettono in ginocchio le attività agricole e dunque la produzione di cibo. Questo significa che il contrasto al deterioramento del clima potrebbe avere a medio termine effetti positivi sullo sviluppo di quei paesi, contenendo l’esodo altrimenti inarrestabile dei cosiddetti migranti economici. A questi effetti dovrebbe essere particolarmente sensibile proprio quel fronte conservatore che non si cura più di tanto del clima, ma teme come la peste l’«invasione» dei derelitti.
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Politica e Economia
Brexit, «deal» o «no deal»?
Parliamo europeo di Paola Peduzzi
Gb-Ue Il percorso sulla Brexit prosegue con il voto del Parlamento britannico
chiamato ad approvare, entro Natale, l’accordo appena raggiunto con Bruxelles. Ma l’impatto in termini economici e sociali potrebbe risultare più complicato anche in caso di un «no deal»
Dimostranti antiBrexit sul ponte di Westminster a Londra. (AFP)
Cristina Marconi La Brexit è un disastro, il Paese vuole la Brexit: cosa si fa? In questi giorni, intorno al totem dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, si stanno agitando fantasmi di ogni tipo. Dopo gli ostacoli negoziali con Bruxelles, si sono sollevate le obiezioni politiche più feroci da parte di un Parlamento che ha deciso di vendere cara la pelle in occasione del «voto significativo» dell’11 dicembre prossimo. Sembrava sarebbe stato quello il tema portante delle prossime due settimane quando ecco che sono arrivati i dati economici ad arrecare nuovo scompiglio. Sebbene fosse stata l’argomento chiave della campagna contro la Brexit, soprannominata «progetto paura» per la quantità di allarmi lanciati, la notizia che il pil britannico soffrirà con qualunque scenario, confermata dal cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond in una serie di interviste e dal governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, ha fatto scalpore. Aggiungendo confusione alla confusione in un momento in cui la premier Theresa May sta cercando di chiudere nella maniera meno dannosa possibile una pratica aperta due anni e mezzo fa e foriera di enormi divisioni all’interno della società e della politica del suo Paese. La May, che ha votato «Remain», ha dato un’interpretazione molto chiara del referendum del 23 giugno del 2016: per lei i britannici hanno chiesto di mettere un freno all’immigrazione europea, a cui però è legata la possibilità di rimanere nel mercato unico, godendo di tutti i benefici del caso e tutelando settori dell’economia fondamentali come la finanza, che sarà controversa ma rappresenta il 12% del pil britannico. Da lì quelle «linee rosse» che la premier ha delineato nella prima parte del suo mandato e che poi sono rimaste lì a legarle le mani anche quando c’erano da risolvere nodi gordiani
Azione
Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Redazione Peter Schiesser (redattore responsabile), Barbara Manzoni, Manuela Mazzi, Monica Puffi Poma, Simona Sala, Alessandro Zanoli, Ivan Leoni
come l’Irlanda del Nord. E ora i deputati proprio questo le rinfacciano, di essere stata l’unica a prendere sul serio il risultato di un voto che qualcun altro ha promosso al posto suo e che per una folta schiera di colleghi a Westminster, nonché per una stampa popolare che non ha esitato a dare del «traditore» a chiunque cercasse di dare della Brexit una lettura circostanziata, era intoccabile. Cercando di conciliare con realismo gli aspetti fattibili da quelli fantasiosi di questa avventura euroscettica nazionale. Mercoledì scorso sia il governo che la Banca d’Inghilterra hanno detto la loro sul futuro dell’economia, mettendo in chiaro che tutto ha un prezzo, nel mondo della Brexit. Con l’accordo raggiunto da Bruxelles e dalla May, ad esempio, il pil perderebbe il 4% in quindici anni e ognuno avrebbe 1100 sterline in meno all’anno, mentre con il «no deal» l’impatto sarebbe ben peggiore, tra il 7,7% e il 9,7%, e colpirebbe soprattutto il Paese al di fuori di Londra, secondo le valutazioni del governo. Inoltre, i prezzi delle case crollerebbero di un terzo e la sterlina perderebbe un quarto del suo valore nel breve termine, dal punto di vista del governatore Mark Carney, che ha messo in guardia sul fatto che un «no deal» porterebbe a una recessione peggiore di quella della crisi del 2008, pari al 10,5% nei primi cinque anni. L’ipotesi di un accordo di libero scambio sul modello canadese, poi, secondo il governo inciderebbe del 6,7% sull’economia, mentre se si riuscisse a realizzare quel «commercio senza frizioni» sognato dalla premier, a condizione di mantenere la libera circolazione dei lavoratori che lei esclude a priori, il danno sarebbe solo dello 0,6%. Senza immigrazione europea, infine, bisogna calcolare almeno il 2,5% in meno per l’economia, perché è proprio questo uno dei fattori più importanti per le prospettive di crescita futura. «Se si
guarda al punto di vista strettamente economico, ci sarà un costo nell’uscire dalla Ue perché ci saranno ostacoli al commercio», ha ammesso il cancelliere Hammond, aggiungendo che «altre idee» potrebbero emergere nel caso la May non potesse radunare la maggioranza necessaria per far approvare il suo accordo. Piano piano che ci si abitua al buio, stanno iniziando a emergere i contorni delle soluzioni possibili a una débâcle a Westminster e la data dell’11 dicembre da ultimatum si sta sempre più facendo «penultimatum». Perché le alternative ci sono. Innanzi tutto il 4 dicembre l’avvocato generale della Corte europea di giustizia dirà cosa pensa della possibilità che il Regno Unito revochi l’attivazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona senza l’approvazione dei Ventisette. Può Londra mettere il tasto «pause» sulla Brexit, come chiesto dai deputati scozzesi che hanno sollevato il caso, per fare un secondo referendum? Prima di arrivare a questa opzione, pericolosa visto che i sondaggi non danno segno di cambiamenti radicali nell’opinione pubblica e difficile da eseguire visto che l’iniziativa dovrebbe partire da Downing Street, la cui inquilina attuale ritiene la sola idea un tradimento della democrazia britannica e del voto espresso dagli elettori, ci sono altre opzioni. Dopo l’11 dicembre, in caso di bocciatura, il governo ha 21 giorni per fare un intervento ai Comuni e spiegare come intende procedere, trasformando la propria linea in una mozione da far approvare entro una settimana. Per bloccare il «no deal» che avverrebbe automaticamente la sera del 29 marzo del 2019 il governo dovrebbe però presentare un disegno di legge. Siccome si pensa che i mercati reagirebbero male a una bocciatura dell’accordo, facendo crollare la sterlina, l’idea potrebbe essere quella di proporre lo stesso testo per un secondo
voto dopo qualche giorno. Al di là degli scenari economici negativi, il testo della May ha il vantaggio di conciliare gli inconciliabili e di lasciare, nella dichiarazione politica non vincolante messa a punto con Bruxelles, abbastanza libertà per negoziare relazioni future di tipo meno punitivo. Per queste ragioni secondo il «Financial Times», che pure è sempre stato a favore del Remain, bisogna mandare giù l’accordo, «dura realtà rispetto alle illusioni e alle bugie dei fanatici della Brexit», e approvarlo per iniziare a parlare di cose più produttive. Considerando che difficilmente da Bruxelles arriverà qualcosa di meglio, perché i Ventisette ritengono di aver fatto già fin troppe concessioni. L’appuntamento dell’11 dicembre si presenta così: dopo cinque giorni di dibattito, potranno essere presentati e votati degli emendamenti sul testo finale dell’accordo, anche se non è chiaro se prima o dopo la discussione sulla mozione centrale, che al momento è fondamentalmente la richiesta di approvare o bocciare il compromesso raggiunto. La May ha bisogno di 320 voti per l’approvazione, nel suo partito ci sono almeno 81 ribelli e il DUP nordirlandese le ha sottratto i 10 deputati di sostegno, infuriati per una soluzione sull’Irlanda che non piace neppure ai paramilitari lealisti. Però ci sono i laburisti, confusi e quasi senza guida, e qualcuno potrebbe decidere che il «no deal» è l’unico vero nemico. In queste settimane tutti parleranno ad alta voce, la posta in gioco è più alta della Brexit, quando la May e il laburista Jeremy Corbyn si confronteranno in tv il 9 dicembre più di qualcuno penserà che non sono i leader del futuro, qui c’è da ricostruire un Paese. Quello estorto a colpi di sentenze e ricorsi è diventato un voto troppo «significativo» e questo la May lo sapeva, tanto che aveva cercato in tutti i modi di evitarlo. Saggio o poco democratico?
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articolo 50: tutto (RI) parte da qui La Corte di giustizia europea deve decidere se l’articolo 50 può essere revocato o prolungato unilateralmente dal paese che lo ha attivato, senza il consenso degli altri paesi membri dell’Unione europea. La sentenza non arriverà con tutta probabilità prima del voto parlamentare inglese sull’accordo Bruxelles-Londra sulla Brexit – il piano di Theresa May – ma il dibattito è aperto, ed è meno tecnico di quanto si pensi. L’articolo 50, previsto dal Trattato di Lisbona, dice che ogni Stato membro dell’Ue può decidere di abbandonare l’Unione conformemente alle sue norme costituzionali. Se decide di farlo, deve informare il Consiglio europeo, negoziare un accordo sul suo ritiro – ha 24 mesi per farlo – e stabilire le basi per il futuro rapporto con l’Unione europea. Il Regno Unito è stato il primo paese della storia europea ad attivare l’articolo 50, e la scadenza del negoziato è prevista per il 29 marzo del prossimo anno: i 24 mesi sono però estendibili, dice il trattato, ed è proprio questo il punto politico di cui si discute molto in queste ultime settimane. Il tempo, come si sa, non è molto: si può certo dire che finora non è stato utilizzato granché bene, perché il negoziato si è protratto fino all’ultimo con molti rovesciamenti, soprattutto da parte britannica. Ora che sta arrivando la resa dei conti, molti dicono che in realtà un paio d’anni in più non sarebbero male: l’accordo della May sembra spacciato, a Westminster non ci sono i voti sufficienti per farlo passare e questo significa che, per ben che vada, si dovrà negoziare ancora, per evitare il «no deal», l’uscita brusca dall’Ue che tutti, europei e inglesi, considerano l’alternativa più catastrofica possibile. Per riaprire il negoziato si deve necessariamente prolungare l’articolo 50 perché al testo approvato la settimana scorsa a Bruxelles non possono essere apportate modifiche estemporanee – anche se molti politici inglesi non hanno ancora realizzato che questo dettaglio è dirimente, e continuano a proporre alternative dell’ultimo minuto. Per prolungare l’articolo 50 ci vuole l’unanimità dei 27 paesi dell’Ue – salvo sentenza della Corte di giustizia europea – ma è difficile immaginare che alle elezioni europee del maggio prossimo il Regno Unito possa presentare ed eleggere propri europarlamentari. Così come le implicazioni da un punto di vista economico sono molte: ne va del bilancio pluriennale 2021-2027, per dire. Però da sempre l’Ue dice di essere pronta ad accettare – e festeggiare – un ripensamento britannico, e questa sembra una promessa: se ce lo chiedete, prolunghiamo l’articolo 50 (che si può anche revocare completamente, ma questa è la via più radicale). Londra potrebbe decidere di non toccare l’accordo di divorzio e invece di negoziare diversamente le relazioni future, assecondando il partito «facciamocome-la-Norvegia». È una strada che in realtà porta dritto a una non-Brexit, considerato che già adesso la Brexit negoziata è molto soft, ma questo è un messaggio troppo duro per essere lanciato ora. Per questo si continua a parlare dell’articolo 50 come se fosse una procedura tecnica, ma è molto di più: è già un modo per dire che forse sì, Londra cambia idea. Abbonamenti e cambio indirizzi Telefono 091 850 82 31 dalle 9.00 alle 11.00 e dalle 14.00 alle 16.00 dal lunedì al venerdì fax 091 850 83 75 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera: Fr. 48.– Estero: a partire da Fr. 70.–
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Politica e Economia
Odori di strada
Reportage Le riforme economiche stanno cambiando in modo radicale il tessuto sociale dell’India e molto presto,
forse, anche i mercati notturni, così come il cibo venduto agli angoli delle strade in barba a tutte le norme igieniche
Francesca Marino Il mercato comincia quando comincia la notte. La notte di quelli che tirano tardi, la notte dei tassisti, dei camerieri, degli inservienti dei locali pubblici, dei poliziotti. La notte delle spogliarelliste e delle prostitute. La notte di coloro che di giorno dormono, o hanno altro da fare. È un mercato antico, quello che a Calcutta comincia quando la notte è più giovane, il primo ad aprire i battenti. Un mercato dove si vendono sari e abiti usati: un tempo era il mercato delle prostitute di Sonagochi, che potevano fare shopping per se stesse e per i propri figli senza doversi svegliare troppo presto la mattina. Adesso è un formicaio popolato di uomini e donne di ogni genere che vendono bracciate e bracciate di stoffe più che altro a coloro che comprano in blocco per rivendere poi ai fabbricanti di kanta: coperte, scialli, borse o copricuscini realizzati unendo vecchi sari e cucendo poi il tutto con delle file fitte di punti regolari. Una volta erano un modo casalingo per riciclare gli abiti: adesso sono diventati una moda, e uno degli impieghi più comuni di molte donne che cercano di guadagnare qualche soldo lavorando da casa.
Ogni città ha i suoi cibi di strada che la distinguono, ogni stagione è caratterizzata da un particolare cibo o bevanda disponibile soltanto in quel particolare periodo dell’anno Ai bordi del mercato, sotto una lampadina fioca, crocchi di persone si ristorano con una tazza di tè o caffè caldi. Alle cinque è tutto finito, mentre qualche chilometro più in là, all’ombra dell’Howrah Bridge, finisce la notte dei fiorai e dei sacerdoti induisti. Nei templi cominciano a risuonare in sordina preghiere e campanelle, mentre sul selciato sotto al ponte, sempre bagnato a quest’ora, montagne e montagne di fiori colorati appaiono come d’incanto. Rose rosse con il gambo, con la corolla soltanto, a ghirlanda. Gelsomini di ogni genere cuciti in lunghe stringhe profumate, lunghe collane di tagete in ogni sfumatura possibile dal giallo all’arancio bruciato. Contro il cielo grigio e luminoso della mattina i colori e i profumi esplodono tra le grida dei venditori che chiamano i clienti, che si affannano a prendere gli ordini per decorare templi, per inghirlandare sale da cerimonie, per fornire addobbi ad alberghi e ristoranti. Quando il sole passerà dal rosso dell’alba a essere una palla giallo pallido contro l’orizzon-
te, troppo calda per far sopravvivere corolle e foglie, il mercato chiuderà i battenti e i fiori avanzati saranno trasformati in petali: mucchi di petali da vendere a peso a qualche centesimo al chilo. Nello stesso momento chiuderanno i battenti anche i mercati di verdure all’ingrosso dove per tutta la notte si sono vendute all’asta casse di cavolfiori o caschi di banane, ceste di cipolle e grosse balle di spinaci. La luce del primo mattino di Bara Bazaar assomiglia all’alba dopo una battaglia, un’alba che illumina montagne e montagne di scarti di verdure e frutta, il selciato praticamente scomparso sotto a una coltre viscida e multicolore in cui si cammina immersi fino alla caviglia. Venditori e compratori, facchini e battitori d’asta si ritrovano stanchi all’angolo della strada a bere una tazza di tè e fare colazione attorno ai banchetti di cibo di strada che cominciano ad aprire i battenti. Ai bordi del mercato del quartiere cinese di Calcutta si vendono momo (una specie di ravioli al vapore ripieni di maiale o pollo), zuppe calde o piatti di spaghetti di riso, quasi dappertutto si preparano roti (un pane piatto senza lievito) e ceci in salsa piccante, o patate speziate. Col passare delle ore scompaiono i venditori all’ingrosso, i mercati al dettaglio e le bancarelle itineranti cominciano la loro giornata, ma i chioschi del tè o del cibo di strada non chiudono mai: vendono cibi diversi a diverse ore del giorno, ma sono sempre là ad accogliere lavoratori stanchi, passanti, scolari, studenti o semplici buongustai. All’ora di pranzo si vedono file e file di persone sedute su panche di legno o su muretti di cemento a consumare un pasto caldo. Non uno snack, ma vero e proprio cibo nutriente e robusto, con ricette trasmesse di generazione in generazione da un venditore all’altro: come il korma, uno spezzatino di carne piccante. O il kachori che vendono a Calcutta accompagnato da puri (o luchi, in bengali), patate e verdure cotte in casseruola. O gli shami kebab venduti a Lucknow vicino alla moschea della città vecchia, preparati con carne macinata finissima e poi impastata per ore e ore a mano con le spezie per essere infine passata sulla carbonella. E il biryani (riso, carne, yoghurt e spezie cotti assieme) di Hyderabad o della vecchia Delhi, venduto nella interminabile fila di bottegucce attorno alla Jama Masjid. Gli snack servono da merenda per i bambini, da spuntino per le signore che fanno shopping o per gli studenti. Viene preparato a vista, davanti ai tuoi occhi. I samosa si impastano, si riempiono e si friggono in enormi padelle, le aloo tikki (polpette di patate e spezie) si cuociono su grosse piastre che servono anche a preparare al momento un piatto di chowmin, gli spaghetti cinesi. Ci sono i gol-guppa, cialde rotonde riempite al momento di purè e acqua speziata, i kathi roll (piadine riempite di carne o uova o verdure cotte sulla piastra
I colori e i profumi esplodono fra le grida dei venditori che chiamano i clienti. Su www.azione.ch un’ampia galleria fotografica. (Francesca Marino)
e arrotolate al momento) oppure i jhalmuri (riso soffiato condito con limone, peperoncino e spezie e servito in un cartoccio di carta di giornale. E poi ci sono i venditori di kebab con i fuochi di carbone accesi all’angolo della strada, e i jallebi che si mangiano per colazione: arabeschi rossi e traslucidi fritti e immersi nello sciroppo di zucchero. E le chaat: patate, ceci, cipolla e quant’altro ricoperte da una salsa di tamarindo e yoghurt. Impossibile censire tutte le varietà di delizie vendute per strada. Guardare, assaggiare, farsi guidare dai profumi è una delle esperienze più incredibili dell’India: il cibo di strada è anche cibo per l’anima e per i ricordi d’infanzia. E non è mai buono come per strada, nonostante la polvere e le condizioni igieniche precarie. L’odore delle spezie delle centinaia di migliaia di piccoli chioschi lungo la strada, di fornelli di creta arrangiati ovunque ci fosse un metro quadrato disponibile, il profumo di tutti i cibi cotti e venduti per strada, quell’odore misto all’odore di umidità, di immondizia e di incenso bruciato un po’ dovunque era, una volta, l’odore dell’India. Una volta perché, almeno nelle grandi città come Delhi e Bombay, chioschi e chioschetti sono stati sloggiati dalle vie delle città in nome di decoro e dignità: nei nuovi quartieri dove vive la upper middle class non sono più ammessi banchetti improvvisati, e diventa sempre più raro sentire il familiare richiamo, alla mattina presto, dei
venditori ambulanti o del lattaio. Il richiamo dei piccolissimi commercianti, quelli che vanno in giro con i bidoni del latte, i carretti di verdura o le sporte del pesce e che ti svegliano alla mattina al grido di «maach» (pesce), «Duud» (latte). Nelle città vecchie però, nelle città di provincia, in quelle zone dell’India che non sono ancora state toccate e in qualche modo cambiate dalla modernità o che resistono strenuamente a quest’ultima, il cibo di strada resiste ancora. Perché non è semplicemente cibo: è una filosofia, uno stile di vita, nonché l’unico mezzo di sostentamento per i milioni di persone che ogni giorno devono mettere assieme il pranzo con la cena. Camminare per Old Delhi, per le strade di Calcutta o di Amritsar, sui ghat di Benares o sulla spiaggia di Bombay significa essere assaliti da una sinfonia di profumi. Ogni città ha i suoi cibi di strada che la distinguono, ogni stagione è caratterizzata da un particolare cibo o bevanda disponibile soltanto in quel particolare periodo dell’anno. Tra poco ad esempio, appena l’inverno prenderà piede, a Delhi e a Benares appariranno i venditori di un particolare dessert, il più romantico di tutti: una spuma di latte guarnita di mandorle e pistacchi che dicono bisogna esporre tutta la notte alla brina e alla nebbia per ottenere la consistenza aerea che lo caratterizza. C’è chi organizza veri e propri tour gastronomici dei migliori chio-
schi di Delhi o Calcutta, e c’è perfino un’associazione, la Nasvi, che cerca di proteggere i dieci milioni di venditori che vivono con la costante minaccia di essere scacciati dalla strada in nome del progresso e dell’estetica dei luoghi e che svolge un servizio indispensabile per la comunità generando reddito, creando posti di lavoro pur guadagnando, alla fine della giornata, cifre ridicole: un centinaio di rupie al giorno, quando va tutto bene. Mentre un chilo di cipolle, nell’India della modernità, costa circa ottanta rupie. Nessuno si è ancora organizzato, invece, per proteggere i proprietari delle bancarelle che decorano più o meno tutte le strade indiane e che vendono le cose più disparate. Monodose, in porzione singola: una bustina di shampoo, una sigaretta, cinquanta grammi di yoghurt o una fettina da trenta grammi di formaggio. Sono gli unici negozi in cui tre quarti della più grande democrazia del mondo può permettersi di fare acquisti. A Delhi come altrove, nei quartieri residenziali destinati alla borghesia medio-alta, i venditori di strada e i piccolissimi esercizi vengono inesorabilmente sloggiati. Le riforme economiche stanno cambiando e cambieranno in modo radicale il tessuto sociale del Paese e molto presto, forse, anche i mercati notturni, così come il cibo venduto allegramente all’angolo della strada in barba a ogni norma igienica saranno soltanto un ricordo. Come l’odore dell’India. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Politica e Economia
SSR in mutamento
Servizio pubblico I risparmi annunciati per 100 milioni di franchi
comportano numerosi tagli, intanto cambia (e si riduce) la fruizione Enrico Morresi L’esito della votazione popolare del 4 marzo è stato interpretato come un atto di fiducia nei confronti del servizio pubblico radiotelevisivo. Si può essere d’accordo. Sul rifiuto dell’iniziativa può tuttavia avere influito anche la promessa di una fattura più leggera da pagare, a partire dal 2019, per ricevere i programmi. Si è parlato poco, in seguito, della cura dimagrante che la Confederazione voleva comunque imporre all’ex monopolio SSR: cento milioni da tagliare, a partire dal 2019 (alla RSI: dieci milioni), di cui venti da investire in nuovi programmi, in particolare fiction svizzere. Le misure finora annunciate hanno suscitato reazioni soltanto negli ambienti professionali interessati. È tempo che si cominci a riflettere sulle conseguenze che le decisioni avranno per l’utente, ma anche sul futuro della comunicazione radiotelevisiva.
I consumi si frantumano e si disperdono, non si attende più il TG o il Radiogiornale per informarsi La Concessione federale da sempre assegnava a regioni linguistiche e cantoni diversi i centri di produzione della radio e della televisione di servizio pubblico. Distribuzione secondo le lingue nazionali, per cominciare: quattro società regionali, una per regione linguistica, ma anche sedi locali diverse per alcuni servizi nelle due regioni più grandi: per esempio, in quella germanofona, la Televisione a Zurigo, la Radio in parte a Berna (le notizie) in parte a Basilea (la cultura); per quella francofona, la Televisione a Ginevra, la Radio a Losanna. Zurigo e Losanna sono ora destinate ad accentrare la produzione della rispettiva regione linguistica. Ai giornalisti che protestano si fa notare che la SSR preferisce «risparmiare nei muri» che sulle persone. In Ticino è già in atto il trasferimento di tutta la produzione nel Centro di Comano, lo studio di Lugano-Besso sarà messo in vendita. Di sicuro, il modello vigente finora rifletteva meglio la struttura federalista della Confederazione. La vicinanza al territorio è importante, soprattutto per l’informazione: e se qualche volta a noi pare che la RSI esageri quando considera la Svizzera italiana le nombril du
monde, la situazione al sud delle Alpi può ancora essere ritenuta adeguata. Ma non sarà il caso dei cantoni più periferici, come San Gallo, Turgovia, Neuchâtel, il Giura… Se poi si considera che il servizio pubblico radiotelevisivo dovrebbe profilarsi come l’antidoto, o la compensazione, per la concentrazione già in atto nella stampa scritta, si misura il rischio che la cura dimagrante della SSR può far correre alla qualità del giornalismo nel suo insieme, accelerando il moto centripeto. Tutto questo avviene sullo sfondo della transizione da un regime di fornitore unico a un regime di fornitori diversi. Si assiste a una moltiplicazione delle opportunità: dal 2013 al 2017 il numero dei canali in lingua italiana reperibili nella Svizzera italiana è raddoppiato: erano una trentina nel 2013, sono una sessantina oggi. Ma una parte dovremo sempre più andare a cercarla, a pagamento, presso altri fornitori. Alcuni ci offrono, oltre a molti canali radio-televisivi, il telefono o il computer di casa: come Swisscom, Sunrise, UPC, ecc. Ma ci sono fornitori ancora più specializzati: per il cinema, lo sport, o i programmi per bambini. Già ora è così per il calcio e l’hockey su ghiaccio: se uno desidera spaziare su tutta l’offerta, li trova pagandoli a parte. A chi si lamenta che alla RSI i film premiati ai grandi festival non si vedono più si risponde che, oggigiorno, a comprare i diritti di diffusione non sono più solo le stazioni storiche (la RAI, la BBC, l’ARD/ZDF, France Télévision) bensì aziende multinazionali private disposte a pagarli a prezzo di mercato per offrirli in esclusiva sulle loro reti. Alcune (come Netflix) finanziano i nuovi film addirittura prima che vengano girati. Una contrazione dolorosa si appresta a operare la TSI con la rinuncia a La2, il secondo programma televisivo diffuso anche via etere. Costa molto ed è poco seguito, tranne che per lo sport: la fruizione oggi è caduta al 7,4% del pubblico. La perdita sarà avvertita dagli sportivi e dagli amanti delle riprese di vecchi programmi: per questo la Direzione di Comano non accetterà di lasciarlo cadere se non sarà sicura che tutti i provider principali (Swisscom, Sunrise, UPC, ecc.) la offriranno nel loro «pacchetto». Un altro cambiamento che sarà avvertito, sia pure da una parte minore del pubblico, riguarda il tipo di segnale con cui vengono trasmessi i programmi radio. Dal 2024 la radio non userà più la modalità FM (modulazione di frequenza) ma la DAB (Digital Radio
Gli studi della radio SRF a Berna: 170 impieghi verranno trasferiti a Zurigo. (Keystone)
Broadcast). I vecchi apparecchi saranno fuori uso. Ma già ora, i ricettori rimasti su FM sono una minoranza (il 40% del totale) e l’85% delle auto nuove è equipaggiato per ricevere in programmi radio in DAB. Si direbbe una transizione en douceur: ma forse non varrà per tutto. Il paesaggio della radiotelevisione apparirà fra non molto radicalmente mutato. L’immagine «tradizionale» dell’utenza RSI: quello di una grande famiglia raccolta ogni giorno alle 12.30 all’ascolto del Radiogiornale di ReteUno e alle 20.00 davanti allo schermo del Telegiornale – reale fino alla svolta del secolo – non corrisponde più alla realtà. I consumi si frantumano e si disperdono. Le quote di ascolto, giudicate con il metro europeo, possono sembrare ancora favolose: quasi un terzo (29%) del pubblico potenziale presente su La1 nelle ore serali, e addirittura il 75,1% all’ascolto della radio. Ma queste quote sono tutte in diminuzione: La1 faceva registrare il 25,6% di ascolti su tutta la giornata nel 2013: ora è scesa al 20,9%. In parte la diminuzione è stata compensata dalle radio (e televisioni) private: ma è il consumo in genere che si erode. Di questo i responsabili dei vari programmi (pubblici o privati) tengono già conto: sul web, la rete Internet, si possono già ricevere servizi non disponibili prima. Non occorre più attendere l’ora fissata per il Notiziario: le notizie sono date in tempo reale, appena caricate dalla redazione, immagini comprese. Tutti i programmi si possono riascoltare e rivedere su podcast (radio) e play TSI (televisione) ed esistono programmi – per i bambini, per esempio – ricevibili solo via web. Quello del consumo di media radiotelevisivi via Internet si profila tuttavia già come un problema politico. Nell’ultima edizione del Rapporto «Qualität der Medien» (2018) si rileva la crescita dei cosiddetti «Newsdeprivierte», ossia dei fruitori di Internet che non scelgono l’informazione quando cliccano sul loro apparecchio (in prevalenza lo smartphone che si tiene in mano): categoria cresciuta dal 21% al 36% della popolazione tra il 2009 e il 2018. I giovani tra i 18 e 25 anni che non guardano mai le notizie sono passati dal 32% al 53%. Se si associa questo fenomeno all’astensionismo dalle votazioni il quadro si oscura ancora di più. Il concetto stesso di «sovranità popolare» sarebbe da rivedere criticamente. C’è ancora qualcuno che ritiene sia una sinecura lavorare alla radio o alla televisione?
Paese che vai, pedaggio che paghi Trasporto privato Analisi comparata dei
costi autostradali: punti di forza e debolezza degli approcci al problema «traffico» Edoardo Beretta Il concetto di «pedaggio» è, da sempre, interessante per il fatto che è assimilabile a quello di «gabella», cioè di quella tassa indiretta riscossa nel Medioevo su scambi e consumi di merci. Inviso dai frequenti fruitori di percorsi a pagamento (in quanto calcolato a consumo) tanto quanto apprezzato dai sostenitori della mobilità ecocompatibile, pagare per spostarsi in auto è un trend tutt’altro che recente, ma rimane certamente una fonte di introiti assai importante. Ma si proceda con ordine. Lo scrivente – da sempre, propugnatore del principio economico del «chi sceglie paga» (tranne che per beni/servizi pubblici di assoluta necessità) ‒ non può contestare l’idea di fondo, per cui sia economicamente legittimo che l’utilizzo autostradale sia tariffato a consumo: tale approccio, però, perde di condivisibilità allorquando ‒ si pensi al caso italiano ‒ non siano previste forme di abbonamento forfettario (con conseguente alleggerimento della spesa a carico di coloro definibili frequent driver), ma eventualmente soltanto modalità di pagamento stopless tramite portali d’accesso. Un altro discorso potrebbe ‒ sempre per la vicina Penisola ‒ essere formulato con riferimento ai prezzi stessi, se si pensa (a mero titolo esemplificativo) che la tratta Milano-Aosta (181,4 km) costa 35,70 Euro, mentre Milano-Bologna (197,6 km) 15,20 Euro e Napoli-Reggio Calabria (508,1 km) 4,30 Euro1. Alla prova dei fatti tiene altrettanto poco l’argomentazione per cui l’infrastruttura stradale presenti elevati costi di manutenzione e la necessità di mantenerla adeguata al traffico comporti continui rincari autostradali: infatti, tali progetti sono originariamente perlopiù finanziati dallo Stato (ergo: dalla collettività), mentre la struttura stessa è data poi in gestione privatamente. Trattasi di un esempio di PPP (public-private partnership), che può implicare una potenziale doppia imposizione dapprima come contribuente fiscale (e finanziatore indiretto dell’opera) e, successivamente, fruitore del bene/servizio. Nel caso svizzero, invece, la «vignetta» autostradale con il suo prezzo di 40 franchi (invariato dal 1995, mentre dal 1985 al 1994 era pari a 30 franchi) rappresenta una tariffazione piuttosto «politica», cioè che difficilmente può sempre coprire i costi infrastrutturali nella sua generalità. Riprendendo ed integrando un mio precedente articolo per «Azione» sul canone televisivo pari (ancora) a 451,10 franchi per la ricezione radiotelevisiva e ben superiore a quello italiano di 90 Euro, poco si spiegano i 411,10 franchi di differenza fra i due prezzi (40 franchi versus 451, 10 franchi) tale discrepanza di prezzo a fronte dei volumi di spesa da sempre impegnati in ambito infrastrut-
turale. Con ciò, naturalmente, si è ben lungi da sostenere che ogni Nazione debba conformarsi (al rialzo) in quanto una tassazione individuale inferiore in una voce contabile dovrebbe compensare un’altra maggiore in un altro ambito (e viceversa). Che non sia sempre così, è spesso imputabile al macchinoso «processo di traduzione» delle misure economiche in applicazione concreta politica. Del resto, in Europa ci sono Paesi dotati di «vignetta» autostradale ‒ quindi di un sistema all inclusive ‒, altre del solo pedaggio autostradale e/o per certi ponti/tunnel ‒ in questo caso, il legislatore ha attribuito un peso maggiore all’incidenza dell’effettivo utilizzo infrastrutturale ‒ ed altre ancora senza alcuna forma di pagamento. Ciò a conferma di quanto gli approcci alla questione siano eterogenei e motivabili a seconda delle esigenze locali. Con stupore, invece, si è assistito ‒ per compiacimento del Governo bavarese, il cui territorio è senz’altro più coinvolto dalla problematica ‒ all’introduzione della PKW-Maut in Germania, uno degli ultimi Paesi fino al 2016 privo di pedaggi per le automobili, è da introdursi ora entro il 2021: compiendo quindi un «atto di equilibrismo», i contribuenti tedeschi saranno rimborsati del relativo ammontare attraverso la riduzione di un’altra imposta obbligatoria, mentre saranno le sole auto straniere ad essere assoggettate senza alcuna compensazione. Inutile ricordare che ogni riscossione tributaria, però, ha anche un costo di raccolta e la misura rischia di costare in termini di implementazione di più di quanto frutti: sebbene la si reputi un primo step verso ulteriori innalzamenti, rimane che la «razionalità politica» spesso non coincide con quella economica. Una precisazione: l’idea del pedaggio non è di per sé illegittima o sbagliata. È, tuttavia, da ponderarsi con grande oculatezza poichè non c’è «vizio» peggiore (quanto frequente) di sostenere che «nel Paese XYZ si operi così, cioè ...», astenendosi da menzionare ogni altro aspetto non «in linea» (seppur prassi consolidata nella Nazione presa a modello) con quanto si voglia invece propugnare. Al contrario, le modalità di formulazione del pedaggio possono essere (insieme a molti altri fattori di attrattività economico-politico-culturale, naturalmente) ben strategiche da un punto di vista imprenditoriale e, quindi, i policymaker dovrebbero evitare un utilizzo «rinforzato» della leva fiscale, che rimane la preferita specialmente nell’Area Euro dove strumenti alternativi a disposizione dei decisori pubblici sono già scarsi. Nota
1. Elaborazione propria sulla base di: http://www.autostrade.it/autostrademobile/percorso2.do.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Politica e Economia
Trasparenza fiscale, nuovo progetto Politica federale Il Consiglio federale ha licenziato il nuovo messaggio. Prevede anche la soppressione delle azioni
al portatore e qualcuno interpreta la legge come un nuovo cedimento alle pressioni internazionali Ignazio Bonoli Dopo alcuni mesi di riflessione, il Consiglio federale ha pubblicato il messaggio sulla trasparenza fiscale. Un primo progetto, posto in consultazione nello scorso mese di gennaio, aveva incontrato forti opposizioni da parte dei partiti di centro-destra e degli ambienti economici, ma il governo, con il nuovo testo, non si è discostato molto dalle idee espresse nel primo progetto. La sua posizione è dettata dal fatto che, senza gli aggiornamenti proposti, la Svizzera non avrebbe superato il prossimo esame da parte del Forum Globale per la trasparenza fiscale. Questo Forum è di per sé un organismo indipendente, ma è strettamente collegato con l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), con sede a Parigi e di cui anche la Svizzera fa parte. I 150 membri dell’organizzazione vengono presi regolarmente in esame sul rispetto degli standard globali per la trasparenza fiscale. Uno dei punti più contestati durante la consultazione era la proposta di sopprimere l’azione al portatore per società non quotate in borsa. Il Consiglio federale aggiungeva però anche l’intenzione di garantire in certi casi l’assistenza giudiziaria anche nel caso di dati fiscali sottratti indebitamente, ma che non sono forniti direttamente allo Stato interessato dall’autore del furto. Ora i «global standards» non chiedono l’abolizione pura e semplice delle
Secondo tentativo per il consigliere federale Maurer, in un’immagine d’archivio con il direttore dell’ amministrazione federale delle contribuzioni Hug. (Keystone)
azioni al portatore, ma piuttosto la soppressione del loro carattere economico. Il Consiglio federale propone perciò di concedere l’emissione di azioni al portatore soltanto a quelle società i cui titoli vengono quotati in borsa. A questo punto entrano in gioco le regole severe della borsa, che corrispondono agli standard richiesti. Oppure di considerare le azioni al portatore come una specie di «credito contabile» nei confronti della società emettrice. In questo caso le azioni al portatore potrebbero essere considerate al pari delle azioni nominative. In questo modo però i vantaggi
delle azioni al portatore – in particolare la semplicità di un trasferimento e l’anonimità – andrebbero persi. Inoltre, la gestione di questi titoli potrebbe perfino costare di più della gestione delle azioni nominative. Da questa misura verrebbero colpite soprattutto le piccole e medie imprese. Non solo, ma se entro il termine di 18 mesi dopo l’entrata in vigore delle nuove regole, le società interessate non hanno fatto i necessari adeguamenti, i loro titoli al portatore vengono trasformati automaticamente in azioni nominative. Gli azionisti interessati, entro un termine di 5 anni, possono rivol-
gersi al giudice per far registrare le loro azioni e salvaguardare così i loro diritti. Il mancato rispetto dei termini è passibile di una multa fino a 10’000 franchi. Si calcola che circa 57’000 piccole e medie aziende (cioè il 26% di tutte le società anonime in Svizzera) siano interessate alla questione. Inoltre, la Svizzera si impegna a fornire informazioni fiscali ai membri del Forum sui loro soggetti fiscali, qualora le stesse fossero richieste, anche in caso di dati trafugati, a meno che il paese interessato abbia dato lui stesso l’ordine o abbia pagato i dati rubati. Il Tribunale
federale, lo scorso luglio, ha già interpretato le nuove regole in questo senso, ma per ora manca ancora una base legale, che verrebbe creata con la nuova legge. La questione è piuttosto spinosa. Alcuni membri del Forum si lamentano dell’atteggiamento restrittivo della Svizzera, che però è già stata confrontata con casi come quello della banca HSBC di Ginevra. Le pressioni sulle autorità fiscali elvetiche sono in aumento. Alcuni paesi hanno sospeso o perfino annullato la richiesta di assistenza giudiziaria in materia fiscale, quando la Svizzera ha informato gli interessati. Da ora in poi l’interessato straniero verrà informato della procedura in corso solo se anche l’autorità fiscale del suo paese è d’accordo. Infine, il Consiglio federale, viste le numerose critiche sollevate, rinuncia ad obbligare le società emettrici ad avere un conto in una banca svizzera. Anche il prolungamento dei termini per l’adeguamento è una concessione alle numerose critiche espresse nella consultazione. Questo non significa che la legge avrà vita facile in Parlamento. Il rimprovero di volersi mostrare sempre come «il primo della classe» non mancherà e il Consiglio federale dovrà dimostrare che queste misure sono il minimo che possa fare per superare il prossimo esame. Si prevede che questo esame durerà l’intero anno prossimo, ma la nuova legge verrà presa in considerazione solo se sarà approvata entro il prossimo autunno. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Politica e Economia Rubriche
Il Mercato e la Piazza di Angelo Rossi Nuovi investimenti nella rete ferroviaria Desta attualmente discussioni e commenti il messaggio del Consiglio federale alle Camere concernente gli investimenti nell’infrastruttura ferroviaria fino al 2035. Si tratta di un messaggio deludente per i ticinesi perché il nostro governo federale non ha ritenuto la proposta di inserire, già in questo programma di infrastrutture ferroviarie, la proposta di prolungare l’Alptransit, da Lugano sino al confine. Con grande probabilità la stessa sarà riformulata in sede di esame parlamentare e con la stessa probabilità verrà respinta dalla maggioranza dei deputati sia nella Camera bassa che in quella alta. È infatti difficile che una formula di distribuzione, elaborata con infinita pazienza durante la preparazione del programma di investimenti e, soprattutto, durante la lunga fase di consultazione sulle proposte del Consiglio federale, venga
ribaltata (perché questo sarebbe l’esito se si accogliessero le rivendicazioni dei ticinesi) in sede di dibattito parlamentare. Chi auspica che l’Alptransit venga terminata dovrà purtroppo continuare a condurre la sua battaglia. Movendosi se del caso anche in sedi extraparlamentari. Ma torniamo alla chiave di ripartizione dei mezzi auspicata dal messaggio del Consiglio federale. Intanto ricordiamo che la somma da investire complessiva è di 11,5 miliardi. Anche su questo montante ci fu, a suo tempo, un po’ di maretta perché i rappresentanti delle diverse regioni del paese avrebbero aumentato volentieri questa somma di almeno un paio di miliardi. Di nuovo, non è detto che in sede parlamentare anche il montante totale torni ad essere discusso. Tuttavia è difficile che venga aumentato perché, da parte governativa, si citeranno i limiti della gestione finan-
ziaria che, attualmente, comprimono gli aumenti di spesa, anche quando i mezzi vengono destinati a investimenti sicuramente positivi per lo sviluppo della mobilità nel nostro paese. Per la distribuzione di questi mezzi la Svizzera è stata divisa in 6 regioni e cioè: Svizzera occidentale, Zurigo, Svizzera nord-occidentale (la regione attorno a Basilea), Svizzera centrale, Svizzera orientale e Ticino. La domanda di investimenti ferroviari da parte di queste regioni è sicuramente diversa e, altrettanto sicuramente, riguarda progetti di diversa importanza. Nella procedura di scelta dei progetti da finanziare si è proceduto accordando la priorità ai progetti più urgenti. Quali siano questi progetti e quali saranno le regioni che maggiormente profitteranno dei mezzi della Confederazione è presto detto. Se dividiamo il traffico ferroviario in traffico passeggeri e
traffico merci ci accorgiamo che nella scelta dei progetti da promuovere il Consiglio federale – seguendo ovviamente le raccomandazioni che gli saranno state fatte dalle FFS – ha dato la priorità al traffico passeggeri, privilegiando così le regioni metropolitane del nostro paese: Zurigo in primis, ma anche Basilea e Ginevra-Losanna. Non sorprende quindi constatare che esiste un altissima correlazione tra la grandezza della popolazione residente nella regioni ritenute e l’importanza del montante di investimenti che il Consiglio federale si propone di realizzare. Così il Ticino, che è la regione più piccola, è anche la regione che riceve meno mezzi: la proposta del Consiglio federale è di 900 milioni di franchi. La Svizzera occidentale, che conta quasi dieci volte di più abitanti del Ticino è invece la regione che riceverà più mezzi: 8,8 miliardi di
franchi. Tra i progetti da realizzare in questa regione spicca, per importanza della spesa, il compimento del secondo binario del tunnel del Lötschberg che richiederà una spesa di 900 milioni, il che consentirà la realizzazione di un orario cadenzato con un treno ogni mezz’ora tra il Vallese e Berna. Il programma di investimenti del Consiglio federale ha fatto felici i vallesani ma ha deluso non solo i sostenitori del compimento dell’Alptransit: anche altre regioni del paese hanno visto i loro progetti rimandati, in particolare Lucerna che, da decenni ormai, si batte per avere una stazione di transito e non di capolinea. La discussione sul messaggio del Consiglio federale sarà dunque agguerrita, specialmente nel Consiglio degli Stati. Tuttavia, che dalla stessa possano uscire modifiche di peso è, come abbiamo già rilevato, molto improbabile.
Salvini non vuole tornare con Berlusconi, semmai logorare i 5 Stelle.
capovolto la ragione sociale della Lega: da sindacato del Settentrione, con velleità secessioniste, a partito nazionalista e antieuropeo. Bossi vagheggiava di staccare la Padania dal resto d’Italia per restare ancorato alla Germania e all’euro; Salvini sogna di portare l’Italia tutta intera fuori dall’Europa e dalla moneta unica. Entrambi i progetti sono destinati a rimanere sulla carta. Però il disegno di Salvini nell’immediato non è tornare con Berlusconi. È logorare i 5 Stelle, prendersi la quota di destra del loro patrimonio elettorale, ridurli a un movimento più piccolo e caratterizzato a sinistra, e diventare il leader unico del populismo italiano. È doveroso ripetere che dal Nord viene una spinta diversa. Nella cultura politica della Lega c’è l’alleanza con Forza Italia, nel nome della lotta – a parole più che nei fatti – contro lo statalismo, la burocrazia, il fisco. Ma Salvini la cultura politica della Lega l’ha rovesciata. E di tornare ad Arcore – la storica residenza di Silvio – Matteo farebbe
volentieri a meno. Sa che verrebbe letto come un ritorno al passato: non il massimo per un leader nuovo e giovane. Ma un conto è la strategia di Salvini; un altro è ciò che consentono le condizioni del Paese. Che sono gravissime: la crescita economica azzerata, lo spread quasi insostenibile. Logorare i 5 Stelle presuppone andare avanti con questo governo per anni; ma Conte potrebbe cadere anche prima. Un po’ di respiro per i grillini verrebbe da una vittoria di Zingaretti, che aprirebbe un canale di dialogo. Di Maio è in difficoltà. Eppure i 5 Stelle hanno due formidabili armi: il Sud, che è ancora con loro, in attesa del reddito di cittadinanza; e la rete. Gialli e verdi continueranno a essere i due poli del nuovo bipolarismo fino a quando non emergeranno alternative. Il 3 marzo 2019 ci saranno le primarie Pd, a un anno dal disastro elettorale. Il partito viene da cinque anni di Renzi, che è in sostanza un centrista. Non si è mai posto come antiberlusconiano; semmai come postberlusconiano. Ma
anche quando la contrapposizione ideologica era forte, almeno attorno alla persona del Cavaliere, le politiche di governo di centrodestra e centrosinistra non erano poi così diametralmente opposte. Certo, ogni schieramento strizzava l’occhio ai propri elettori. Ma insomma la politica economica di Tremonti, uomo di formazione liberalsocialista, non è che fosse proprio agli antipodi di quella di Giuliano Amato o di Padoa-Schioppa. L’Italia della Seconda Repubblica è stata fondamentalmente governata dal centro; proprio come ai tempi della Prima. Ora questa fase è finita. Ora l’ideologo del primo partito del Paese teorizza che bisogna superare il Parlamento e la democrazia rappresentativa, e il leader del secondo cita Mussolini tutti i giorni. Questo non significa affatto che il fascismo sia alle porte; i fenomeni storici non si ripresentano mai due volte; e poi il fascismo fu una tragedia che va condannata, non evocata ogni momento. Diciamo che non è tempo per moderati.
«nostrano», cioè un populismo che sia ancorato alle origini, cioè che mantenga le radici nella democrazia diretta, quella che da noi sopravvive con la politica dei cantoni e dei comuni. Ci provo partendo da una notizia che mi suggerisce di collegare l’attualità di casa nostra con quanto è capitato oltre mezzo secolo fa in Valle di Muggio dove sono nato e abitavo. La notizia arriva anch’essa da una delle nostre valli, forse la più romita (che purtroppo è sinonimo anche di remota) del nostro cantone: la Lavizzara, i cui abitanti oggi formano comune unico. Quindici anni dopo l’aggregazione dei comuni che da Prato Sornico e Peccia portano sino a Fusio, constatato che la popolazione diminuisce (da oltre seicento anime si è scivolati a 560), il municipio aveva già varato degli «incentivi» economici con l’intento di sostenere nuove famiglie e più figli (anche per salvare la sede scolastica). Ora ha deciso di realizzare un’altra riforma proposta dalla speciale commissione istituita per affrontare il problema
dello spopolamento e ha sottoposto al consiglio comunale di istituire un credito quadro per finanziare contributi a chi amplia vecchi edifici o costruisce nuove abitazioni a uso primario. Anche questa seconda misura, se accettata dal legislativo comunale, è chiaramente finalizzata a fronteggiare il calo demografico. Dalle dichiarazioni delle autorità comunali si intuisce che alle speranze («se il numero delle richieste dovesse essere maggiore alla disponibilità, verrà fatta una graduatoria») si abbina ora una decisionalità molto esplicita (in caso di approvazione «è prevista l’entrata in vigore con effetto retroattivo al 1. gennaio 2018»), quasi per non escludere dall’incentivazione progetti già avviati. Come già accennato, l’iniziativa di Lavizzara mi porta indietro nei ricordi, ad un’analoga iniziativa ideata a Sagno. Inizio anni Sessanta, edilizia cantonale ormai con il turbo, si costruisce un po’ dappertutto mirando quasi esclusivamente a seconde residenze e a una clientela extra ticinese. Sagno,
comune che stava subendo un pesante declino demografico imputabile ai richiami dei posti di lavoro e dei centri al piano, decide di reagire e di scendere in campo nell’immobiliare. Spinti da un esecutivo dinamico e ardito, gli abitanti accettano di alienare i terreni ormai incolti e senza alcuna resa del patriziato allo scopo di consentire al comune di parcellizzare e dotare di infrastrutture una vasta fascia di terreni su cui viene innestato un formidabile incentivo: 400 mq gratuiti a chi compera altri 400 o più metri, impossibilità di rivendita e impegno a iniziare i lavori di costruzione entro 12 mesi. Formula vincente, sia perché ha consentito di trattenere giovani nel comune, sia perché ha richiamato abitanti anche dai centri vicini, unitamente a una serie di acquirenti svizzero-tedeschi, lombardi e germanici. Le critiche iniziali (in particolare del «Blick») per presunte speculazioni o per il «patrio suolo regalato» a stranieri, sono risultate fuori luogo davanti a un risultato concreto: Sagno
in pochi anni è diventato il comune di montagna con il moltiplicatore più basso. Nonostante qualche diversità di fondo (a Sagno si puntava all’attrattiva del possesso fondiario, oggi a Lavizzara ci si limita a sovvenzioni per ristrutturazioni o nuove abitazioni) entrambi i progetti mirano a sconfiggere spopolamento e denatalità, fenomeno che la politica invece da sempre ama trascurare. Anche da noi. E ancora oggi. Lo conferma un recente comunicato della roboante «Piattaforma di dialogo Cantone – Comuni», riunitasi in seduta la scorsa settimana: tutto a posto, clima costruttivo e positivo, intese per la riforma dei rapporti istituzionali e per la riforma fiscale. Alla fine ecco un riferimento «demografico»: i comuni riceveranno un sostegno finanziario se... faranno avere l’opuscolo «easyvote» ai propri giovani. Capito? Se questi se ne vanno dalle valli il problema è dei comuni; l’unica preoccupazione è che i sopravvissuti... leggano i volantini e votino alle cantonali.
In&outlet di Aldo Cazzullo Non è tempo per la moderazione È il momento di Matteo Salvini. Mezza Italia pende dalle sue labbra. Certo, la situazione economica e sociale del Paese è talmente grave che i cicli politici si sono abbreviati: gli italiani si infatuano e si disilludono molto rapidamente, e a Salvini potrebbe toccare la stessa sorte di Renzi. Nel frattempo però la politica dipende da lui. È stato lui a prendere a male parole la Commissione europea, per poi riaprire un dialogo che potrebbe portare a un compromesso. È stato lui
a costringere il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a non firmare il global compact delle Nazioni Unite sui migranti, contrariamente a quanto il premier aveva annunciato. Ma qual è la strategia del leader leghista? Ricostruire il centrodestra con Berlusconi? Dall’elettorato del Nord viene una forte spinta in questo senso. I leghisti tradizionali non vorrebbero pagare il reddito di cittadinanza ai disoccupati del Sud. Ma Salvini ha
Zig-Zag di Ovidio Biffi Comuni storie di comuni Chissà se in Ticino con Giuliano Bignasca e con la Lega, e fors’anche in Svizzera con la parallela gestione dell’Udc da parte di Christoph Blocher, noi abbiamo vissuto una sorta di prima ondata o di avanguardia dello tsunami populista che ora imperversa in buona parte dell’Occidente? È una domanda che mi ritrovo nella mente ogni volta che il tema del populismo arriva a monopolizzare l’informazione, vuoi con neri segnali delle destre dell’est-europeo, oppure con prodezze del grezzo bipolarismo italiano o con qualche manzoniana braverìa inventata alla Casa Bianca. E restando in Italia, con la grancassa gialloverde e i suoi giullari al governo, vien da chiedersi: è proprio populismo il loro o è piuttosto populismo quello della gente del Friuli Venezia Giulia che in poche settimane, senza invocare o aspettare aiuti del governo sovranista, ripara gli incommensurabili danni provocati al loro territorio dalle tempeste del mese scorso? L’interrogativo sembra un invito a privilegiare un discorso più
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Cultura e Spettacoli Ferrara ospita Courbet A Palazzo dei Diamanti una restrospettiva sull’opera del celebre pittore francese
Il Lux ha 60 anni In programma una serie di festeggiamenti per ricordare l’importante ruolo ricoperto dalla sala cinematografica di Massagno pagina 37
Omaggio a Giovanni Orelli A due anni dalla sua morte sarà organizzato un convegno a Berna: vi proponiamo una breve antologia dei suoi articoli per «Azione»
Un Nobel controverso Fa discutere la decisione di sospendere per quest’anno il celebre premio alla letteratura
pagina 39
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Metamorfosi e cannibalismo Mostre Picasso a Palazzo Reale di Milano
Gianluigi Bellei Pablo Picasso è la rockstar dell’arte. Ma è anche un passe-partout per facili guadagni. Tutte le sue mostre, anche la più risibile, attirano profitti a iosa. Soprattutto agli eredi. Sì, perché questo litigioso popolo di parenti, figli, figliastri, nipoti e via discorrendo, riconosciuti o meno, hanno tutta una serie di introiti vari. Insomma, vivono così, alle spalle di Pablo, la maggior parte senza aver mai lavorato. Claude Picasso – Pablo non lo aveva riconosciuto e lui iniziò una causa per la paternità, che vinse – durante una cena alla domanda che cosa facesse nella vita rispose: «Sono Claude Picasso». Claude, per intenderci, è quello che emette i certificati di autenticità e riscuote i diritti delle opere. Se ci fate caso in tutte le mostre e in tutti i cataloghi fra i ringraziamenti c’è il suo nome. In realtà dovrebbe essere lui a ringraziare. Pensate che non gli era nemmeno permesso di frequentare il «padre». Picasso è l’unico artista al quale sono dedicati ben sette musei. Ma è anche l’unico che ha realizzato sessantamila opere. Che fruttano l’ira di Dio. Jean Clair anni fa si disse indignato del fatto che il Musée national Picasso di Parigi, finanziato dallo Stato, «generi profitti per gli eredi». Su «Le Monde» Michel Guerrin ha scritto che anni fa un museo ha proposto al Reina Sofia di Madrid 10 milioni di dollari per il prestito di Guernica. Insomma, si parla di arte ma come sempre, sotto sotto, quello che prevale è il denaro. Detto questo vi chiederete come mai siamo ancora qui a scrivere di Picasso? Ultimamente lo abbiamo fatto parecchie volte con accenni critici o di lode come per esempio in occasione degli ottant’anni di Guernica al Museo Reina Sofia di Madrid nel 2017. Nel caso odierno si tratta di un’esposizione particolare che mette in luce un aspetto di Picasso poco sviscerato. Intendiamoci, qui non ci sono capolavori ma l’analisi, o il tentativo, di un metodo di lavoro. Il rapporto cioè fra l’artista e alcune sue fonti di ispirazione. La mostra Picasso. Metamorfosi nasce all’interno del progetto «Picasso-Méditerranée» iniziato nel 2017 e promosso dal Musée national Picasso di Parigi con l’intento di mettere a fuoco la relazione fra l’artista e i suoi luoghi del Mediterraneo. Hanno collaborato al progetto settanta istituzioni per mettere in calendario una quarantina di mostre monografiche o a tema in altrettanti luoghi differenti. Per farsene un’idea si può entrare nel sito dedicato: www.picasso-mediterranee.org.
Picasso. Metamorfosi si svolge in questi mesi a Milano, e più precisamente a Palazzo Reale, a cura di Pascale Picard, direttrice dei Musei civici di Avignone. Picasso ha una memoria strepitosa, si ricorda tutto quello che vede, e come si sa è iperattivo. Dipinge, si muove, incontra persone; ogni situazione è buona per trovare uno spunto, un’idea, dalla visita al museo del Louvre a quella del mercato delle pulci di SaintOuen, dalle riviste alle cartoline. Il suo metodo consiste nel cannibalizzare quello che osserva e poi trasformarlo. O meglio, probabilmente ricorda tutto quello che vede ma non nei dettagli e questo lo aiuta a ricostruire il tutto in maniera differente dall’originale. Ad André Malraux nel 1975 riferisce che ha «una memoria eccezionale», ma soprattutto sostiene che la «maggior parte dei pittori fabbrica uno stampo per le torte e poi fa le torte. Sempre le stesse torte. Sono molto contenti. Un pittore non deve mai fare quello che la gente si aspetta da lui. Il peggior nemico di un pittore è lo stile». Come Ingres e Rodin, Picasso frequenta il Louvre. I biografi citano una prima visita al museo parigino nel 1900, poi nel 1902. In seguito dal 1904, anno durante il quale si stabilisce a Parigi. Ardengo Soffici, vissuto nella ville lumière dal 1900 al 1907, racconta di averlo incontrato al Louvre intento a studiare opere egizie, fenicie, greche e romane. «Andava avanti e indietro come un cane alla ricerca di un osso». Per comprendere la sua ossessione per l’arte antica basti ricordare un frangente particolare. Nel 1911 viene rubata la Gioconda da parte di tale Vincenzo Peruggia. Sospettati di essere complici vengono arrestati sia Picasso che l’amico Guillaume Apollinaire. In quell’occasione viene fuori il furto di due statuette iberiche arcaiche del Louvre da parte di Apollinaire che poi le vende, tramite il suo segretario Géry Pierret, proprio a Picasso che le costudisce gelosamente in fondo a un armadio. È lo stesso Picasso che, ricordando l’avvenimento, dice: «Se osservate le orecchie delle Demoiselles d’Avignon riconoscerete le orecchie di quelle sculture». La mostra milanese è suddivisa in sei sezioni: «Mitologia del bacio», «Arianna tra Minotauro e Fauno», «Alla fonte dell’antico – Il Louvre», «Le Demoiselles del Dyplon: tra Greci, Etruschi e Iberici», «Antropologia dell’antico» e «L’antichità delle metamorfosi». Così accanto al Bacio di Picasso del 1969 troviamo quello del
Pablo Picasso, Le Baiser (Il bacio), olio su tela. (Musée national Picasso-Paris)
Anonimo, Frammento di oscillum raffigurante un bacio, terracotta. (Parigi, Musée du Louvre – © Tony)
frammento di oscillum in terracotta da Tarso; Lo scultore e la modella di Picasso del 1932 accanto ad Arianna addormentata una scultura del II secolo avanti Cristo; di fianco al piccolo nudo di spalle di donna con le braccia alzate di Picasso osserviamo un cratere in stile geometrico del Maestro del Dipylon del 750 avanti Cristo; La donna stante di Picasso del 1930 è accanto alla Statuetta di orante del 125-175 avanti Cristo; mentre la terracotta di Picasso Volto di donna del 1950 è perfettamente uguale al vaso tripode di Cipro del 2000 avanti Cristo.
Circa 200 opere da vedere tutte di un fiato. Perché, come scrive Laurence Madeline in catalogo, «il rapporto di Picasso con l’antichità e il mito è profondo, articolato e complesso. Mescola inestricabilmente vocabolario formale, riferimenti letterari, organizzazione cosmogonica e rimaneggiamenti dei codici mitologici…». Per chi dispone di 250 euro facciamo notare che Skira ha ristampato per l’occasione in facsimile l’edizione del 1931 di Les Métamorphoses di Publio Ovidio Nasone, illustrate con 30 acquaforti di Pablo Picasso, allora tirata
in 145 esemplari. Le stampe originali sono in mostra, perfette, lineari, entusiasmanti (si veda il taglio chiaro e sicuro del Frammento di corpo femminile per farsi un’idea). Bel catalogo, buone le luci e l’allestimento dell’architetto Pierluigi Cerri, utili i pannelli esplicativi di sala. Dove e quando
Picasso. Metamorfosi. A cura di Pascale Picard. Palazzo Reale, Milano. Fino al 17 febbraio. Catalogo Skira euro 39. www.mostrapicassomilano.it
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Cultura e Spettacoli
La natura di Courbet
Chi ha paura della paura?
Mostre Fino al 6 gennaio rimarrà aperta al Palazzo dei Diamanti di Ferrara
la mostra dedicata al pittore francese Giovanni Gavazzeni «Forse nessun pittore francese del XIX° secolo è stato tanto odiato quanto Courbet». A metà Novecento Lionello Venturi spiegava che gli atteggiamenti guasconi e la consapevolezza della propria statura artistica di Courbet non furono capiti come espressione del pensiero schietto di un socialista utopico, profondamente radicato nella Franca Contea natale, terra di liberi pensatori e anarchici. Venturi però sottolineava la portata storica della pittura di Courbet, ingabbiato dai suoi detrattori come un doppio pittorico di Zola (peraltro grande ammiratore del pittore): «senza Coubert sarebbe impensabile l’impressionismo e Manet, Renoir, Cézanne». In Francia si censuravano l’egocentrismo dell’artista che si poneva al centro del mondo (L’Atelier del pittore) e l’immoralità dei soggetti: vecchi ubriachi e nudi femminili prorompenti. Courbet pagò interessi altissimi per la sua libertà di spirito. Durante i mesi sanguinari della Comune di Parigi il suo ruolo di spicco (salvò le collezioni del Louvre dal vandalismo comunardo) costò al pittore la galera come presunto mandante dell’abbattimento della colonna Vendôme. E dopo il carcere, morì in esilio a La Tour-de-Peilz, con l’incubo di pagare la colossale ricostruzione della colonna. Proprio Cézanne aveva capito che il famoso «occhio di Courbet» segnava «l’ingresso lirico della natura nella pittura: l’odore di foglie bagnate, le pareti muscose delle foreste, il mormorio delle piogge, l’ombra dei boschi, il passo del sole sotto gli alberi. Il mare. E la neve». I soggetti elencati da Cézanne sono il tema di una splendida mostra, Courbet e la Natura, allestita presso il Palazzo dei Diamanti di Ferrara. Una monografia che ha richiamato nella città estense tele provenienti dai musei d’Europa e d’America, e che rimarrà aperta fino al 6 gennaio 2019, anno del bicentenario della nascita del grande pittore. Il visitatore è salutato al suo ingresso dal simbolo stesso dell’arte di Cou-
Gustave Courbet La quercia di Flagey, 1864, olio su tela. (Ornans, Musée Gustave Courbet)
rbet, una straordinaria quercia secolare. Come la sua pittura, affonda le radici nella terra natale ed è bagnata dalle acque di quelle sorgenti, grotte e fiumi che incantarono il pittore. La sala centrale più grande lascia senza fiato. Il mare domina. Il suo ruggire furioso, scriveva Courbet a uno dei pochi artisti di cui aveva soggezione, Victor Hugo, «mi fa pensare a un mostro chiuso in gabbia che potrebbe divorarmi». Quelle «raffigurazioni eroiche di muri d’acqua sormontati da schiuma che collassano su se stessi», videro la luce in una spoglia stanzetta in Normandia, come ha ricordato lo scrittore Guy de Maupassant. Attorno «il mare si avvicinava tanto che sembrava abbattersi contro la casa, immersa nella spuma e nel rumore. L’acqua sporca picchiava come grandine contro la finestra e colava lungo i muri». E nelle tele «un groviglio di spruzzi sospesi in aria, una marea che parte dal profondo dell’eternità, un cielo
lacerato, la livida nitidezza della scena». Maupassant sentiva nella tela la puzza di schiuma di mare, perché nella pittura di Courbet il tatto e l’olfatto hanno parte altrettanto decisiva della vista. «Guardandoli» ha scritto Giuliano Briganti, «sentiamo la superficie rugosa e leggera della scorza di sughero che fascia le grandi querce, l’asperità delle dure rocce grigie che strapiombano sulla Loue, il freddo dell’acqua che scorre nera e profonda sul fondo delle gole e stagna nel mezzo delle grotte, l’odore del verde fresco dell’erba ancora non falciata, l’odore aspro che emana dal pelo ruvido dei cervi, la densità delle nuvole che si raffreddano in neri lembi sul mare minaccioso». Oltre alla furia marina e alle falesie della Normandia, al paesaggio rurale e alle acque della Franca Contea, anche la luce del Mediterraneo (catturato a Palavas, davanti a Montpellier) e la maestà delle Alpi (ammirate dalle rigene-
ratrici acque del Lemano) stimolarono Courbet nella sua adorazione della madre natura. Nel documentato catalogo trova la giusta collocazione storica anche il periodo svizzero di Courbet (già oggetto nel 2014 di una mostra al Musée Rath di Ginevra). A lungo considerati minori, causa esilio, cumulo debitorio, omeriche sbronze quotidiane e falsari in azione, gli anni svizzeri sono rivelatori di una nuova attenzione alle variazioni atmosferiche nei tramonti con le cime dei Dents du Midi toccate dal rosa, intorno ai torrioni leggendari del castello di Chillon, davanti al mare lacustre di Vevey. La Natura fu sempre per Gustave Courbet identificazione totale della pittura con la materia. Per aver gettato sul tappeto della pittura non già un’idea, ma la materia, Giovanni Testori lo proclamò «fondatore della pittura moderna». Materia «fecondissimo magma». Materia «fecondissima melma».
Spettacoli La grande regia di Donnellan e il Winnipeg del Paravento
Tragedia, commedia e dramma fra intrighi e contro intrighi, brame di potere e corruzione, complotti e tranelli, omicidi, stupri, amori incestuosi e sopra tutto vendetta. Una summa ideologica del teatro elisabettiano e manna per la geniale visione registica di Declan Donnellan (Leone d’Oro alla carriera nel 2016) che ha rimaneggiato La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton, contemporaneo di Shakespeare anche se più giovane: un testo reso splendidamente nella versione italiana da Stefano Massini per un allestimento prodotto dal Piccolo Teatro di Milano. Lo spettacolo è approdato sul palco del LAC per due serate coinvolgendo il pubblico nell’appassionante lettura teatrale di Donnellan. Per vendicare la morte della promessa sposa, avvelenata dal malvagio Duca reggente, il nomen omen Vindice architetta con il fratello un meccanismo spietato che non lascerà scampo al colpevole il quale verrà assassinato utilizzando proprio il teschio dell’amata uccisa. Un chiaro riferimento all’Amleto shakespeariano. Un gorgo vendicativo che non risparmierà neppure la galleria di umanità
Aretini presenta all’Iride il suo nuovo documentario Simona Sala
Quando il teatro racconta pagine di storia e canta i mali dell’umanità Giorgio Thoeni
Anteprima M irko
ipocrita asservita al potere. Come una danza macabra, la regia di Donnellan usa registri d’effetto con un ritmo implacabile sul piano del grottesco in una scacchiera di crudeltà, con umorismo e ironia pulp per muovere personaggi sui quali incombono soluzioni splatter con un ingranaggio perfetto, aiutato da una scenografia (Nick Ormerod) che tutti vorrebbero: pareti mobili di un muro chiazzato di rosso su cui compaiono le gigantografie dei volti delle tele di Mantegna, Tiziano, Piero della Francesca o tenui paesaggi campestri. Eccellente la recitazione, una sfida per Donnellan alle prese per la prima volta con attori
italiani. A partire dall’ottimo Fausto Cabra nel ruolo di Vindice, ma anche Ivan Allovisio, Massimiliano Speziani (Premio Hystrio 2018 all’interpretazione), Pia Lanciotti, Marta Malvestiti e tutti gli altri accolti da calorosi e prolungati applausi. La nave della speranza
Fra i tormentoni linguistici più frequenti, l’espressione essere sul pezzo, soprattutto in ambito giornalistico, sta a indicare un tema aderente all’attualità. Anche il teatro può esserlo se si occupa per esempio di migrazione, un soggetto ricorrente nel dibattito politi-
Fausto Cabra in una scena de La tragedia del vendicatore al Teatro Piccolo di Milano. (Marsiar Pasquali)
co e nei titoli principali dell’attualità. È stato il caso con Il Winnipeg. La poesia che attraversò l’Atlantico, spettacolo che il Teatro Paravento ha recentemente proposto al Foce di Lugano. È il racconto teatralizzato del viaggio speciale della nave Winnipeg per portare in salvo oltre duemila spagnoli rifugiatisi in Francia dopo la guerra civile e l’arrivo al potere di Franco. L’operazione umanitaria fu gestita dal poeta Pablo Neruda, allora giovane diplomatico, che avendo ricevuto incarichi consolari fra la Francia e la Spagna, nonostante difficoltà e ostruzionismi, riuscì a portare a termine l’impresa. Scritta con mano felice e diretta da Miguel Ángel Cienfuegos, artista sensibile a certi argomenti e situazioni, vissuti sulla propria pelle da quando nel 1974 è arrivato in Ticino come rifugiato politico cileno. La narrazione fila con un buon ritmo nello stile teatrale della compagnia e la recitazione di Davide Gagliardi, Marco Capodieci, Luisa Ferroni, Laura Zeolla e lo stesso Cienfuegos, è convincente. Nel 2019 saranno trascorsi ottant’anni dalla fine della guerra civile spagnola e dall’arrivo in Cile del Winnipeg. Ci auguriamo che lo spettacolo possa continuare a essere sul pezzo.
Impalpabile e strisciante, devastante e sottile… sono molti gli aggettivi potenzialmente in grado di tracciare un identikit di quella che da Tiffany Watt Smith nel suo Atlante delle emozioni umane (UTET, 2017) viene definita come «la più primitiva e fondamentale delle emozioni umane», ossia la paura. Eppure quando siamo chiamati a delineare questa emozione, che se portata all’estremo può addirittura gettarci in uno stato di paralisi o di angoscia, ci rendiamo conto che le sue sfaccettature sono infinitamente diverse tra di loro, così come le sue ripercussioni. Ce lo raccontano anche i tredici protagonisti interpellati dal regista Mirko Aretini per il suo documentario Full Metal Mind (realizzato con un budget molto low cost). Chiamati a spiegare in cosa si traduca la paura quando sopravviene, gli interlocutori del regista parlano di sensazioni diverse, con grande probabilità frutto dell’ambiente in cui sono nate e si sono sviluppate. La paura del medico Gino Strada ad esempio, ha il sapore delle deflagrazioni e del sangue che ne consegue, si sviluppa dunque su un piano fisico oltre che mentale. Pao-
Tra gli intervistati Paolo Villaggio.
lo Villaggio invece (Aretini ha fatto in tempo a registrarne la testimonianza prima della scomparsa, nel 2017) racconta dell’angoscia provata da chi vive e si nutre di applausi, e si ritrova confrontato con l’incognita della durabilità del successo. Daniele Finzi Pasca racconta invece di un timore più sottile e forse meno immediato, ma con tutta probabilità noto a tutti noi perché inevitabile: quando manca una persona amata si ha paura di dimenticarne tutte quelle peculiarità che nessun video o fotografia sono in grado di congelare per l’eternità. Parliamo di gesti, odori e sapori, irrimediabilmente consegnati a una memoria come quella umana, che sappiamo fallace ed estremamente soggettiva. Da Full Metal Mind esce un ritratto a tratti sorprendente poiché ci presenta riverberi della paura cui non avevamo mai pensato. Percorsi esistenziali ed esperienze diverse portano naturalmente a risultati diversi, ma forse, ancora parziali. Ciò è emerso nel corso della discussione nata tra il pubblico, il regista e il produttore Silvano Repetto (IFDUIF). Mancano infatti all’appello tra i tredici interpellati (oltre ai già citati Strada, Villaggio e Finzi Pasca, anche Ascanio Celestini, Francesco Tesei, Paolo Rossi, Nicolai Lilin, Goran Bregovich, Andrea Zurlini, Mogol, Giorgio Nardone e Jacopo Fo) rappresentanti del sesso femminile. Sarebbe infatti stato molto interessante scoprire se esiste un modo diverso di sentire, elaborare, raccontare e affrontare la paura per le donne. Gli autori però promettono che è solo una questione di tempo, che a questa prima analisi al maschile, ne seguirà naturalmente una al femminile. Per chi volesse farsi un’idea di cosa possa essere la paura, l’appuntamento è per mercoledì 5 dicembre, quando al Cinema Iride di Lugano (ore 20:30) verrà proiettato Full Metal Mind alla presenza dei suoi creatori.
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Cultura e Spettacoli
Il nuovo Lux ha 60 anni
Anniversari U n programma di festeggiamenti speciale per rilanciare un’importante sala
che ha fatto la storia del cinema ticinese
Nicola Mazzi I 60 anni sono un traguardo importante che sarà festeggiato, dal 19 al 23 dicembre, con diverse manifestazioni, perché il Lux di Massagno è stato ed è tuttora un punto di riferimento importante non solo per il Luganese, ma per tutto il Cantone. Per ripercorrere la storia di questa struttura e per capire come si sta trasformando abbiamo intervistato il responsabile della sala, Joel Fioroni. «Il cinema è stato inaugurato nel dicembre del 1958. Un progetto ampio, fortemente voluto dalla parrocchia di Massagno e che comprendeva anche il salone Cosmo sotto la sala cinematografica. All’inizio e per alcuni anni è stato gestito da una SA, la Cinema LUX SA, e programmato dalla AutoCineSonoro, una società anonima che controllava oltre al Lux un’ottantina di sale parrocchiali in tutto il Ticino». Ma da subito non sono mancati i problemi finanziari. Ce lo ricorda lo stesso Fioroni. «Effettivamente la sala ha sempre fatto fatica a sopravvivere. Per diverse ragioni. Anzitutto è piuttosto grande e può contenere fino a 300 persone. Ammortizzarla non è semplice. Inoltre, a quel tempo, doveva vedersela con altre sale cinematografiche presenti nella regione. Pochi
Concorso per Bianco su bianco «Azione» in collaborazione con il Comune di Massagno, mette in palio alcune coppie di biglietti per lo spettacolo di sabato 22 dicembre, ore 20.30, Bianco su bianco, proposto dalla Compagnia di Daniele Finzi Pasca, nell’ambito dei festeggiamenti per i 60 anni del Cinema Lux, manifestazione sostenuta dal Percento culturale di Migros Ticino. Per partecipare al concorso seguire le istruzioni contenute nella pagina del sito www.azione.ch/concorsi. Buona fortuna!
anni dopo la costruzione è perciò stato deciso di farla gestire dalla famiglia Tami, che già si occupava di altre sale con la Supercinema SA. Ma anche loro si sono accorti delle difficoltà e della poca produttività del Lux. Hanno quindi abbandonato la gestione e il cinema è finito nelle mani dell’Aspac, a quel tempo diretta da Andrea Incerti e che gestiva pure il Cittadella. Si è quindi creato un collegamento importante tra le due strutture che è andato avanti per una decina d’anni. Ma anche in quel caso il deficit diventò ingestibile e la società decise di lasciare il Lux che quindi tornò nelle mani del Comune. Eravamo a cavallo tra gli anni 80 e 90 e la sala veniva usata solo per conferenze o manifestazioni puntuali». Vedere il Lux quasi sempre vuoto e poco frequentato faceva male ai massagnesi, come al direttore delle scuole Fabrizio Quadranti. «Lui insistette affinché si ridesse vita alla sala e convinse Maurice Nguyen, che lavorava all’Atlantic Cinema, a prenderla in mano. Grazie a lui riprese vigore e i film tornarono in modo regolare durante la settimana. Nguyen ha gestito il Lux sino a 3 anni or sono proiettando film d’autore che altrove non si potevano trovare. Gli è quindi subentrato il CISA, continuando con lo spirito positivo di Maurice e con qualche miglioria. Con il trasloco a Locarno della scuola, dall’inizio di quest’anno lo gestisco io». Sessant’anni, si diceva, sono un traguardo importante. Per questo il Comune ha voluto organizzare una serie di eventi che partiranno mercoledì 19 alle ore 18, con il saluto del sindaco Giovanni Bruschetti, del direttore della RSI Maurizio Canetta e con la proiezione del documentario dello stesso Fioroni Fiat Lux, in cui si potranno vedere i vari momenti storici e ascoltare le testimonianze di chi ha gestito la sala in passato (informazioni e programma sul sito www. massagno.ch). Gli spunti di interesse non mancheranno: film, concerti e lo spettacolo Bianco su Bianco di Daniele Finzi Pasca. Ma diamo uno sguardo a quello
Una platea da 300 posti: la programmazione aggiornata è su www.luxarthouse.ch
che è ora il Lux e a quello che potrà diventare. «L’attuale programmazione – aggiunge Fioroni – è rimasta art-house. Ho voluto aggiungere un aspetto che secondo me mancava e cioè i sottotitoli in italiano. Una novità che i distributori hanno fatto un po’ fatica ad accettare all’inizio, ma che ora sta dando buoni risultati con una crescita di spettatori. Un aumento anche dovuto al fatto che il Cinestar si concentra sui blockbuster e lascia a noi la possibilità di avere film d’autore, ma non troppo di nicchia». Lo stesso responsabile del Lux evidenzia quanto fatto quest’anno. «Abbiamo portato anche diverse rassegne nuove come quella legata ai documentari sul mondo dell’arte. Inoltre abbiamo continuato le iniziative
ideate da Nguyen come la trasmissione – in diretta dal Metropolitan di New York e dal Bolshoi di Mosca – delle opere. E prosegue con un buon successo anche il cineclub inglese. Tutti eventi che stanno fidelizzando il pubblico». E per l’anno prossimo? «C’è un aspetto che desidero approfondire e cioè portare al Lux i ragazzi, un pubblico che ora ci manca. In proposito abbiamo delle trattative aperte con le scuole di Massagno e il gruppo genitori per organizzare degli eventi ai bambini in orari extrascolastici». Ed è, infine, interessante riportare le definizioni che il gestore del Lux ha dato al suo cinema. «È un luogo accogliente perché abbiamo cercato di renderlo un ritrovo e non solo una
sala cinematografica. Credo che sia importante far diventare il Lux un posto in cui si venga per bere qualcosa prima della proiezione e dove si possa restare anche dopo il film, magari per discuterne. Ma il Lux è anche un luogo di scoperta. Ho infatti notato che il nostro pubblico viene anche senza sapere che cosa vedrà quella sera. Lo fa per il piacere di scoprire un nuovo film. Infine cerchiamo di curare la qualità delle proiezioni, sia sotto il profilo video sia sotto quello audio. Io voglio che l’esperienza parta da quando si entra in sala fino a quando termina il film. Tengo molto a questi aspetti e credo che anche in un cinema storico come il Lux sia importante lavorare sulla tecnologia», conclude Fioroni. Annuncio pubblicitario
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Cultura e Spettacoli
Giovanni Orelli, il libro di tutti i libri Anniversari A due anni dalla morte ci sarà un convegno in suo ricordo all’Archivio svizzero di letteratura di Berna
(6-7 dicembre): vi proponiamo una piccola antologia tra i contributi pubblicati per oltre quarant’anni su «Azione»
Uno dei libri più importanti sulla Svizzera italiana, attorno alla sua storia, a questioni identitarie e linguistiche, all’aprirsi e chiudersi delle frontiere fisiche e mentali, ai suoi rapporti con la cultura italiana e con quella transalpina, è un libro che di fatto non esiste. Sparso in mille rivoli, si «rimonta» leggendo in sequenza i contributi pubblicati da Giovanni Orelli su «Azione» nell’arco di quarant’anni giusti giusti (1976-2016), dai primi interventi sul linguaggio dei giovani, sul senso del fare scuola o sulla politica universitaria del Cantone Ticino, stimolati da Luciana Caglio, fino alle letture frammentate e sofferte delle ultimissime settimane di vita. Per gli amanti delle statistiche, un simile volume raccoglierebbe qualcosa come 600 tra recensioni e segnalazioni, spesso anche molto corpose, e decine e decine di cronache letterarie, ricordi personali, attualità, interviste. Un ipotetico libro stampato, di cui si offre qui uno stringato campionario, supererebbe le 1000 pagine. Ciò che più sorprende, in tanta mole di lavoro distesa su tanti anni, è la continuità di un discorso che non ha mai abbandonato il fuoco dei propri interessi e, di rimbalzo, l’identità precisa dei propri lettori potenziali: non i manzoniani «venticinque», bensì soltanto «quattro» (come i gatti), quasi a dire che si era rimasti in pochi ad apprezzare libri «non facili», lontani dalle strenne natalizie, dalle pubblicazioni illustrate, dagli ultimi bestseller tutto-trama e poco più. Con un rigore che gli fa onore, Giovanni Orelli non ha mai lasciato la barra di un timone che mirava dritto ai classici (greci e latini, ma anche Dante, Guicciardini, Rabelais, Shakespeare, Vico, Leopardi e Manzoni, da sempre nella sua personale top ten) e a quegli scrittori che meglio avevano saputo dialogare con loro nel Novecento, da Kafka a Montale a Gadda ai suoi contemporanei. Nella stagione di maggiore impegno, dopo il pensionamento, sotto la conduzione di Ovidio Biffi era giunto a produrre per «Azione» due pagine mensili fitte di rubriche, notizie e consigli di lettura, pagine pensate esclusivamente per stimolare quell’apertura mentale, quel dialogo trasversale tra le epoche e le culture, che gli pareva l’unica via percorribile, l’unico modo per contrastare la dinamica dei compartimenti stagni o lo strapotere della tecnica. Forte di un prestigio dato dall’età e dall’esperienza, sin dagli anni Novanta si era concesso il lusso di qualche stroncatura (poche quelle non costruttive), incarnando nei fatti quel lettore curioso, inquieto, mai del tutto soddisfatto, al quale si è rivolto per tanti anni. / Pietro Montorfani Un elogio
Le radici, le memorie poetiche di Fleur Jaeggy vanno ben oltre i (contigui) prati un po’ come laccati di verde autunnale e svizzero di Dürrenmatt e di Keller (il grande Keller). L’ossimoro (figura retorica che dominava, fin dal titolo, I beati anni del castigo) poteva spingere i suoi tentacoli fino ai classici lontani. Poniamo fino al «dolceamaro indomabile serpente» (l’amore per Saffo) o al «sorge qualcosa di amaro che strozza gli stessi fiori» («surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat»: l’angina dei fiori, se ricordo bene il latino di Lucrezio). […] Ma la galleria di ritratti che qui ci vengono mostrati è piuttosto impressionante: esseri candidamente atroci, soavemente infernali. Ritratti che tendono alla miniatura. Avesse stemperato la sua aguzza, sottilissima matita, la Jaeggy ne avrebbe potuto cavare abbastan-
la più importante (per carità!). Per dire che qualche tessera del mosaico poteva essere sacrificata. (2 settembre 1993). Restauri possibili
Qui preme aggiungere un’altra cosa che già si sapeva: che il Martinola, oltre che storico di valore, oltre che gran lavoratore, è un bravo scrittore […] e se ne potrebbero fornire le prove. Segnalerò qui appena tre luoghi, antologicamente. Dico antologicamente perché certe volte penso ai restauri possibili (e ai necessari!) alla mia antologia Svizzera italiana. Dovesse avvenire, forse toglierei qualche nome, ma correrei presto a tre nomi per i quali l’ammirazione mia cresce, dunque (beninteso, in tutti i suoi limiti) la quotazione: Piero Bianconi (il traduttore in particolare), Brenno Bertoni (scelta non facile, coi suoi frequenti alti e bassi). E Martinola. (12 gennaio 1995). Il primo gradino
Lo scrittore leventinese è stato docente al Liceo di Lugano.
za facilmente sette romanzi. Ha fatto bene a fare come ha fatto. I classici le darebbero sette volte ragione. (17 novembre 1994). Una stroncatura
Ennio Maccagno è autore di La vetrina dell’ornitologo, edito da Casagrande di Bellinzona. Nella «vetrinetta» di copertina (di solito scritta dall’autore stesso), si dice «Ben lontano dalla narrativa sociale della tradizione ticinese, anzi facendone spesso la parodia, Ennio Maccagno guarda il suo paese con occhio ironico, canzonatorio, irridente. L’io narrante ha il compito di studiare, con rigorosi criteri statistici...» ecc. No. Qui non c’entrano né la narrazione sociale né i rigorosi criteri statistici. La narrativa «ticinese» (si pensi a quella al femminile: della Ceresa, della Jaeggy, della Felder, Guidinetti, Albeverio-Manzoni, ecc.) non è comparabile, tanto è loro superiore, con le cose scritte in questo libro. Non mi sfidi a duello l’autore. Impieghi meglio i suoi mezzi, e ci ritroveremo alla opera seconda. (22 dicembre 1992).
Un consiglio
Graziano Papa è l’uomo della tradizione. Come tale, tra l’altro, non si pone il problema, per catturare il lettore, di ridurre un libro alla misura delle 150 pagine. Egli ne scrive uno di 500, al motto (taciuto) del «chi mi ama mi segua». Questa della mole è solo una delle caratteristiche del libro, certamente non CH11631_ANNONCE MIGROS
Un libro di qualità
Conosco una signora che già pensa a fine ottobre ai libri da regalare (saggiamente) anche a sé: per Natale. Mi ha eletto consulente suo diplomato. Ciò che mi ha messo in difficoltà che cresce di giorno in giorno è una aggiunta buttata là con nonchalance: vorrei, ecco, un libro «di qualità». Che cosa vuole dire? Dare titoli di libri è facile. Dare titoli di libri di qualità del passato è altrettanto facile. Ciò che non è facilissimo è il libro di qualità abbastanza fresco di stampa. Non è facilissimo ma neanche troppo difficile. Prendete Søren Kierkegaard... (16 novembre 1995).
Un fax ad Antonio Caccia
In questa Bibliografia padre Callisto […] elenca, in ordine alfabetico, 5717 schede. Sono 5717 numeri come in un elenco telefonico […]. Così ora abbiamo lo strumento agile, comodo, con sobrie e concentrate indicazioni, per «telefonare» a Enrico Zschokke (sono all’ultima scheda) o a qualche «Abbecedario»… Io, per conto mio, manderò un fax ad Antonio Caccia junior, perché mi aiuti, se può, a fare una giusta divisione delle opere che vanno sotto il nome suo o dello zio: sempre Antonio Caccia […]. Poi, un sabato sera, con tutto agio, telefonerò al Franscini, che aveva simpatia per i bedrettesi: più di cinquanta numeri! Mia figlia sta già parlando con Atanasio Donetti, ma sì sul dogma dell’8 dicembre, il dogma della «sinelabe», e su altre questioni che scottavano negli anni a metà strada del secolo passato. (30 novembre 1995). 08:47 Annuncio pubblicitario
Uno spiracolo di luce
La volta scorsa, 15 dicembre, mettendo insieme una pagina condita di succhi aspri, non confortosi: e non per colpa mia e ancora meno di Popper, Arbasino e Luperini, che avevo citato come testimoni, sul come va il mondo di oggi; la volta scorsa avevo come sentito, più che sulla pelle, il bisogno di aprire almeno uno spiracolo di luce. E quello spiracolo mi era venuto, miracolo!, dal calunniato Medioevo, da uno dei santi a me più cari, Ambrogio. Col suo elogio del gallo mattiniero, beneaugurante, il gallo dell’Aeterne rerum conditor, con il «Coraggio ora leviamoci»; e quel che segue. (29 dicembre 1994).
La parola pomeriggio (dopo-pranzo, afer-noon, Nach-mittag, après-midi), dal latino post-meridiem, mi richiama alla memoria un gustoso aneddoto che raccontava (quando era in vita) Olinto Gobbi da Piotta, gigante buono, guardia di confine, popolarissimo tra gli Urani di Chiasso. Una volta, agli esami (suppongo a Piotta), l’ispettore chiede a un Garrone di lassù che cosa vuol dire pomeriggio. E quello, siccome nel parlar materno (di lassù) le patate si dicono pom (leE10 mele invece pompianta) dedusDUO PACK VECTO HD.pdf 3 13/11/2018
se, con perfetta, elementare deduzione logica: «Mah? sarà lo schiacciapatate», donde risolino dell’ispettore (non geniale), risate a tutta orchestra degli astanti e rossore dei parenti stretti: ignari tutti che quel ragazzo, nella sua logica, saliva il primo gradino di una lunga scala che potremmo chiamare: natura del linguaggio. Come funzionano le parole? Qui potete scomodare, ad libitum, e chi più ne ha più ne metta, filosofi e filologi: da Platone a Ferdinand de Saussure. (4 maggio 1995).
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Cultura e Spettacoli
Il Premio Nobel si prende una pausa
La casa di Parise
Editoria Case e storie degli scrittori d’Italia,
in un molto gradevole libro di Mauro Novelli
Il caso Riflettendo attorno a un’istituzione che, nel bene o nel male,
orienta la discussione letteraria mondiale
Stefano Vassere
Matteo Campagnoli I due maggiori eventi letterari dell’anno, almeno finora, riguardano due assenze: la morte di Philip Roth e la sospensione del Premio Nobel per la Letteratura, di solito annunciato il primo giovedì di ottobre. Due fatti non equiparabili, certo, ma nemmeno del tutto slegati, dato che da almeno una trentina d’anni la mancata assegnazione del premio al grande scrittore americano è emersa in quasi ogni discussione o polemica sull’operato dell’Accademia di Svezia. Ma in base a quali criteri andrebbe assegnato il Nobel? Se ne sentono parecchie al riguardo. Approfittando della pausa, proviamo a ripartire da zero. Innanzitutto verrebbe da dire che la giuria di qualsiasi premio è libera di darlo a chi vuole, e questo in parte è vero. D’altro canto il testamento di Alfred Nobel, seppur laconico, parla chiaro: il premio va assegnato a chi «ha prodotto le opere più eccellenti in una direzione ideale» e «senza considerare la nazionalità dei candidati». Ora, cosa sia una «direzione ideale» non è facile a dirsi, ma l’eccellenza è eccellenza: se si prende per buona la direttiva del suo fondatore, il premio dovrebbe servire a indicare che chi lo riceve è un modello da seguire, parte di un canone che serva a farci comprendere meglio in cosa s’incarni l’eccellenza letteraria ai nostri giorni. In questo senso il Nobel mancato a Roth è sicuramente un grave errore. È anche vero però che le sue opere, come quelle di altri illustri estinti ignorati dall’Accademia, possono benissimo farne a meno. Chi è più letto oggi tra Kafka e Eyvind Johnson, tra Joyce e Pearl Buck, tra Nabokov e Patrick White? Quelli di cui ho scritto solo il cognome, evidentemente, sebbene loro il Nobel non l’abbiano mai ricevuto. Diversa è la questione nell’immediato, dove le conseguenze del premio sono enormi: inviti dai quattro angoli del mondo, cachet e contratti stellari, molte più traduzioni e la dotazione stessa, che ultimamente si aggira attorno ai novecentomila euro. Tutte cose che a molti scrittori cambiano radicalmente la vita, in particolare ai poeti, che spesso faticano a fare il loro mestiere perché godono di notorietà e introiti decisamente più bassi dei loro colleghi romanzieri e drammaturghi. E dei cantanti. Il nome di Bob Dylan appariva da tempo nella lista dei papabili, e letto accanto a quelli di Roth, Zagajewski,
Philip Roth, candidato vincitore eternamente disilluso. (youtube.com)
Didion, Atwood, Grossman, faceva l’effetto di quelle risposte che in certi questionari a scelta multipla sembrano inserite da un saggio cinese per ricordarci che nella vita persino l’esame più serio è un gioco, o da un professore un po’ sadico e sornione per vedere se tra i suoi studenti ce ne sia qualcuno veramente così sprovveduto da spuntarla. Questo finché a Stoccolma non l’hanno spuntata davvero. Cosa ne abbia pensato Roth, lo si intuisce da un breve commento riportato sul «New Yorker»: «Ok, ma adesso devono darlo anche a Peter, Paul, & Mary»; e la prima reazione di Derek Walcott, che il premio l’aveva vinto nel 1992, è stata: «Ora cosa dovrei fare, entrare in classe e insegnare Mr. Tambourine?». La domanda era retorica, non solo perché Walcott era già in pensione. E cosa intendeva fare l’Accademia con questa scelta apparentemente così radicale? Svecchiare il premio, dandolo a un settantaseienne che più famoso di così non si può? Dire al mondo che anche le canzoni sono letteratura? Mi sembrano questioni di poco conto, materia per chiacchiere da salotto. A voler essere davvero rivoluzionari, avrebbero potuto darlo a Quentin Tarantino, perché molte sue sceneggiature, a differenza dei testi di qualsiasi cantautore, funzionano benissimo anche solo sulla pagina, come le opere teatrali fin qui premiate. E il test per un premio letterario non dovrebbe essere questo? Le parole devono bastare, altrimenti si gioca sporco. Oppure no? La questione è intricata, ma una cosa è certa: se considerati come poesie, i testi di Dylan non reggono il confronto con quelli di poeti che a Stoccolma, bene
che gli vada, ci andranno in vacanza, e questo semplicemente perché le canzoni sono canzoni e le poesie, poesie. Possiamo anche fermarci prima, però: cineasti e musicisti hanno già i loro premi, ricchi e prestigiosi, capaci di dare risonanza mondiale alle loro opere e garantire loro la possibilità di lavorare meglio in futuro. In sostanza, non hanno bisogno di un Nobel. Sia come sia, l’anno scorso in Svezia si sono accordati su una scelta più tradizionale – tra le più tradizionali di sempre, in verità – e hanno laureato il romanziere inglese di origine giapponese Kazuo Ishiguro. Dal suo concepimento nel 1901 a oggi, solo la Seconda guerra mondiale era riuscita a fermare il Nobel. Ora ci hanno pensato gli scandali venuti a galla questa primavera: molestie sessuali, soffiate, finanziamenti usati in modo illecito, misoginia, ripicche. Niente di così diverso da ciò che tristemente accade a ogni latitudine. La pausa servirà a rinfrescare l’aria nelle stanze chiuse dell’Accademia e a «ridare credibilità alla giuria», così è stato detto, e anche a rendere le sue operazioni e le sue scelte più trasparenti. Nel frattempo, i librai svedesi hanno istituito un loro premio alternativo, che immagino ogni scrittore di peso stia facendo gli scongiuri per non vincere. Cosa ci riserverà il Nobel rinnovato? Punterà più sull’eccellenza o darà più spazio alle considerazioni politiche, oppure continuerà a oscillare fra le due, come ha fatto finora? Premierà altri cantautori, e anche sceneggiatori, fumettisti, autori di graphic novel, o tornerà come nell’era pre-Dylan a limitarsi a prosatori, poeti e drammaturghi? The answer, my friend, is blowing in the wind.
«Anche Parise negli anni settanta sentì il richiamo fortissimo di un “Veneto barbaro di muschi e nebbie”. Dopo avere abitato una quarantina di case in mezzo mondo si installò a Salgareda, a pochi metri dal Piave, dove ristrutturò un fienile, mantenuto dagli attuali proprietari come lui lo lasciò nel 1984 per trasferirsi poco più in là, a Ponte di Piave». Abbiamo tutti (quelli che stanno, alla grossa, tra i quarantacinque e i sessantacinque) vissuto la stagione della puntigliosa, ingombrante eppure così cara semiotica, soprattutto francese, che illuminò le migliori cattedre di letteratura in Europa negli anni Settanta e Ottanta e che sembrava potesse non morire mai. Negava, quell’approccio critico, l’importanza o addirittura l’esistenza stessa dell’autore, nei confronti del quale era sistematico e anzi d’obbligo il disinteresse. Capitò per esempio di vedere meticolose quanto carine colleghe studentesse rimproverate con asprezza perché si erano permesse di chiedere conto a un poeta, magari a casa sua, delle sue liriche e del loro senso. E capitò più e più volte nelle avanguardie più esasperate di quella scuola di vedersi distribuiti in classe testi monchi dell’indicazione dell’autore; tanto non contava e che nessuno si permettesse di chiedere chi egli fosse. Suonano quindi come liberatorie (quasi un lasciapassare alla lettura per i reduci di allora) le parole che Mauro Novelli pone all’inizio di questo suo appassionato La finestra di Leopardi. Viaggio nelle case dei grandi scrittori italiani, appena uscito: «a cinquant’anni dalla dichiarazione di morte firmata da Roland Barthes, possiamo ben dire che l’Autore gode invece di salute flori-
da, garantita proprio dalle premure del Lettore nei suoi confronti». Da Pavese e Fenoglio a Salgari, Gozzano, D’Annunzio, Petrarca, Comisso, Leopardi, Pirandello, Moravia e tutti gli altri, avvicinati e raccontati a partire dalle dimore che hanno abitato. Oltre ai testi, il libro porta gli indirizzi postali, due notevoli inserti in carta patinata con fotografie a colori e una ricca bibliografia commentata. Al solito, ognuno avrà le sue schede, i suoi luoghi e i suoi autori preferiti, oltre che le proprie immagini. Qui, certamente l’avversione a trovare casa stabile di Luigi Pirandello (che viene fuori in più punti anche nel bel romanzo-saggio Biografia del figlio cambiato di Camilleri); l’arrivo di Novelli (autore nell’autore) a Casarsa e alla casa di Pasolini, accolto dal vento della Carnia e dall’«odore di nevi raccolte nelle selle solitarie, dall’afrore di ciclamini e di muschi»; oppure Montale, che scoraggiava i seccatori imitando, al telefono, la voce dell’anziana governante Gina. Insomma, le vicende degli scrittori, la loro stessa voce che ne racconta tappe e circostanze senza riserve. Il libro di Novelli, il lungo viaggio, soprattutto ci rallegra anche se quella così memorabile scuola ancora, per metodo, incombe sovrana. Soprattutto ci dimostra il sollievo tutto particolare che ci viene dato quando è l’autore stesso a narrarci di sé e spesso di lui capita di voler sapere molto. Una volta a Venezia Goffredo Parise trascorse una serata con Truman Capote e Marilyn Monroe e ci lasciò memorabili parole: sul corpo trasparente di Marilyn, su «quel pigolio-miagolio» di voce, ma soprattutto su quell’odore, che sentì abbracciandola in ballo. «Non un profumo, bensì l’odore, qualcosa tra lo zolfo e una capretta di latte». Dovendo destinare questo volume a un settore specifico della libreria di casa (sempre che il Lettore ne abbia previsti), si tentennerebbe tra la critica letteraria e l’amato settore «libri sui libri»; oppure, non sembri diminutivo, La finestra di Leopardi potrebbe sostenere e nobilitare la sezione delle guide di viaggio, pronto per essere prelevato alla prima occasione per compulsare storie e indirizzi, farlo uscire nel mondo, concedere all’autore il respiro di una vita concreta. Anche Barthes ebbe, si sa, la gloria della indimenticabile biografia di Claude Hagège e nessuno sembra lamentarsene più di tanto. Bibliografia
Mauro Novelli, La finestra di Leopardi. Viaggio nelle case dei grandi scrittori italiani, Milano, Feltrinelli, 2018. Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Idee e acquisti per la settimana
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circa 40 ogni 100 grammi di prodotto. Coloro che prestano particolare attenzione alla provenienza e agli aspetti ecologici, possono scegliere le fresche arance di produzione bio, per esempio, quelle coltivate in Spagna nel rispetto delle normative europee sull’agricoltura biologica. Qui gli agrumi crescono senza l’utilizzo di concimi e prodotti fitosanitari; parassiti e malattie vengono combattute con metodi naturali. Organi indipendenti riconosciuti anche
in Svizzera assicurano il rispetto delle norme bio. La coltivazione di arance ecologiche in Spagna
La coltivazione di arance in Spagna è cambiata in maniera notevole negli ultimi anni e molte aziende si sono convertite alla produzione ecologica. I consumatori sono infatti sempre più alla ricerca di prodotti il più possibile naturali, ottenuti nel rispetto dell’am-
biente, privi di pesticidi e sostanze chimiche. Le arance bionde bio sono perlopiù coltivate in Andalusia, nella provincia di Huelva, e si caratterizzano per la ricchezza di polpa e per l’aroma intenso. Le condizioni geografiche e climatiche favorevoli di questo territorio, con estati calde e inverni miti, permettono di ottenere un prodotto di elevata qualità. La Spagna è il quinto produttore mondiale di arance al mondo e il primo in Europa.
Ingredienti per 4 bicchieri: 2-3 arance 3 dl di succo di carote 10 g di zenzero 5 g di curcuma pepe Preparazione: Sbucciate le arance e tagliatele a pezzettini. Versatele in un frullatore a bicchiere alto e aggiungere tutti gli altri ingredienti rimanenti. Frullate finemente, riempite i bicchieri e servite subito.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Idee e acquisti per la settimana
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Il filetto di manzo alla Wellington Godetevi la compagnia dei vostri ospiti grazie a questa carne eccelsa pronta da mettere in forno.
Questo Natale... più tempo per i tuoi ospiti
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Il filetto di bisonte Una carne dal sapore deciso che si scioglie in bocca, per delle feste d’eccellenza.
Il maialino da latte Una carne tenera dal sapore delicato che conquista grandi e conviviali tavolate.
Per rendere ancora più golosa l’attesa delle Festività, presso i nostri banconi macelleria e gastronomia troverete un opuscolo con una ricca selezione di specialità di alta qualità, appositamente selezionate dai nostri intenditori e che
potrete riservare presso i supermercati o il party service di Migros Ticino. Che si tratti di raffinata salumeria, delicata gastronomia, carne sopraffina, pollame speciale oppure pesce sostenibile, siamo a vostra disposizione per offrirvi un ser-
vizio impeccabile e personalizzato, affinché le vostre Feste possano trasformarsi in qualcosa di indimenticabile. Vi proponiamo qui qualche esempio delle molte prelibatezze che troverete nello speciale opuscolo natalizio di Migros Ticino.
Il Moliterno al Tartufo non può mancare sulla tavola natalizia.
Supermercato
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Golosi assaggi
Degustazioni Venite a provare le nostre
specialità festive e lasciatevi conquistare dal loro delicato sapore
Da qui fino a Natale in alcune filiali Migros vi attendono allettanti e sfiziose degustazioni di prodotti perfetti per arricchire i vostri menu di festa. Questa settimana, per esempio, potrete assaggiare formaggi quali Formaggella bio e Moliterno al Tartufo (il 6.12 a Taverne e Agno), Formaggini freschi per l’aperitivo (il 7.12 a Crocifisso, Radio, Arberdo-Castione e Faido), nonché lo squisito salame parmense Strolghino
(l’8.12 a Molino Nuovo e Cassarate). Un prodotto eccezionale e raffinato è il Moliterno al Tartufo. Si tratta di un formaggio semiduro, saporito e delicato, prodotto in Sardegna con latte di pecora. Il suo gusto pieno è anche dovuto alla presenza di tartufo nero tagliato a fette sottili. La crosta presenta i tipici segni del canestro in giunco utilizzato per la maturazione del formaggio.
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Idee e acquisti per la settimana
Dolce tradizione dal 1896 Da oltre 120 anni il nome Dal Colle è sinonimo di prodotti dolciari di qualità elevata. Questa dinamica azienda veronese è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo soprattutto per le specialità tradizionali che sforna in occasione delle feste più importanti dell’anno. Il fondatore dell’azienda, Egidio Dal Colle, fu uno dei primi a utilizzare un ingrediente che avrebbe portato i prodotti del marchio al successo: il lievito madre. Atri segni distintivi della produzione dolciaria firmata Dal Colle sono antiche ricette tradizionali tramandatesi nel tempo, materie prime di prima qualità, farciture gustose e alta digeribilità. Inoltre, i prodotti non contengono né grassi idrogenati, né additivi, né coloranti alimentari. Accanto ai classici articoli Dal Colle già presenti sugli scaffali, quest’anno Migros Ticino propone come novità il panettone e il pandoro prodotti con ingredienti agricoli certificati biologici. Ciò significa che le materie prime utilizzate provengono da un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e della natura, senza l’impiego di concimi chimici e pesticidi.
Panettone Biologico Dal Colle 500 g Fr. 6.90
Pandoro Biologico Dal Colle 500 g Fr. 6.90 Annuncio pubblicitario
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Idee e acquisti per la settimana
Con le decorazioni natalizie aumenta il piacere di trascorrere momenti di intimità in famiglia.
Concorso
per i membri Famigros su famigros.ch/avvento dal 1° al 24 dicembre
L’avvento
Che sia un periodo di riflessione Una gioiosa attesa è il più grande piacere. Ma più ci si avvicina al 24 dicembre e più per molti genitori lo stress aumenta. Non sarebbe tuttavia difficile affrontare il periodo che precede il natale in un modo più riflessivo. Vanessa Glässel, del club per le famiglie Famigros, dà cinque suggerimenti
Vanessa Glässel (44) è responsabile del progetto Famigros e tre volte mamma.
Regali «Prendete nota durante tutto l’anno dei desideri dei vostri figli e acquistate, impacchettate e nascondete i regali in anticipo. In tal modo distribuite questa bella attività su un lungo lasso di tempo, senza dover far tutto in fretta.»
1
Attività «Il fatto che sia natale non è motivo per soddisfare tutte le aspettative degli altri. Si dovrebbe fare solo ciò che può rientrare nei propri programmi. Ciò permette a tutti di essere più rilassati .»
4
Lista dei desideri o sorpresa? «Entrambe. Fino a una certa età la lista dei desideri al Gesù bambino fa parte del natale. I genitori completano la sorpresa con i doni più adatti.»
2
Inviti «Spesso a dicembre gli impegni si accumulano. Questo periodo di raccoglimento serve però anche per rilassarsi. Datevi delle priorità, Natale è un momento da dedicare alla famiglia e non una maratona di impegni!»
3
Decorazione «Decorare l’albero di Natale e la casa aiuta a rallentare i ritmi come niente altro. I bambini vanno assolutamente coinvolti in questo rituale.»
5
Altri suggerimenti, così come idee per regali, lavoretti e decorazioni di natale: famigros.ch
Azione 33%
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6.30 invece di 9.50
Tutto l’assortimento Sélection (cesti regalo esclusi), per es. carciofini, Fairtrade, 145 g, 3.65 invece di 4.60, offerta valida fino al 17.12.2018
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Filetto di manzo Paraguay, imballato, per 100 g
45%
2.65 invece di 4.90 Clementine Spagna, rete da 2 kg
Hit
2.50
Parmigiano Reggiano Parmareggio in conf. da 150 g
a par tire da 2 pe z zi
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–.60
di riduzione Tutto l’assortimento Blévita a partire da 2 pezzi, –.60 di riduzione l'uno, per es. al sesamo, 295 g, 2.70 invece di 3.30
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50%
40%
1.75 invece di 3.10
4.70 invece di 9.40
Aletta di manzo Svizzera, al banco a servizio, per 100 g
Bratwurst di maiale in conf. speciale Svizzera, 4 x 140 g
CONSIGLIO
Alle fettine di manzo si accompagna bene il burro aromatizzato fatto in casa, magari arricchito con cipolle rosse cotte nel porto.
Trovate la ricetta su migusto.ch/consigli
40%
3.30 invece di 5.50 Fettine di manzo à la minute TerraSuisse per 100 g
20%
5.– invece di 6.30 Filetto di sogliola limanda pesca, Atlantico nordorientale, per 100 g
20%
4.75 invece di 5.95 Costolette di vitello TerraSuisse Svizzera, imballate, per 100 g
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 4.12 AL 10.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
40%
9.30 invece di 15.50 Cosce di pollo in confezione Family (6 cosce superiori e 4 cosce inferiori) Svizzera, in conf. da ca. 1,25 kg, al kg
25%
2.75 invece di 3.70 Fettine di tacchino «La belle escalope» Francia, imballate, per 100 g
conf. da 2
33%
15.90 invece di 23.80 Sminuzzato di pollo Optigal in conf. da 2 Svizzera, 2 x 350 g
30%
9.– invece di 13.– Ossobuchi di maiale Svizzera, imballati, al kg
30%
5.05 invece di 7.25 Prosciutto crudo Emilia Romagna, affettato Italia, per 100 g
30% Diversi prosciuttini e spallette per es. spalletta Quick Mini TerraSuisse, per 100 g, 1.85 invece di 2.70, offerta valida fino al 24.12.2018, in vendita solo nelle maggiori filiali
30%
1.40 invece di 2.– Fleischkäse TerraSuisse, affettato finemente per 100 g
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20%
3.90 invece di 6.90
5.40 invece di 6.80
Arance bionde bio Spagna, rete da 1,5 kg
33%
3.90 invece di 5.90 Arachidi bio Egitto, in sacchetto da 500 g
25%
3.60 invece di 4.80 Noci Grenoble Francia, imballate, 500 g
45%
1.90 invece di 3.50 Pomodorini ciliegia a grappolo Spagna/Italia, vaschetta da 500 g
35%
2.80 invece di 4.50 Patate resistenti alla cottura Svizzera, busta da 2,5 kg
Migros Ticino OFFERTE VALIDE SOLO DAL 4.12 AL 10.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
Piatto di salumi ticinesi misto prodotto in Ticino, affettato in vaschetta da 140 g
20%
3.90 invece di 4.90 Formentino Ticino, imballato, 150 g
33%
2.30 invece di 3.50 Broccoletti bio Italia, imballati, 400 g
25%
1.80 invece di 2.40 Formaggella Blenio «Ra Crénga dra Vâll da Brégn» prodotta in Ticino, in self-service, per 100 g
25%
2.70 invece di 3.60 Salametti a pasta grossa prodotti in Ticino, in conf. da 2 pezzi, per 100 g
20%
1.40 invece di 1.80 Appenzeller surchoix per 100 g
20%
–.60 invece di –.80 Tutti gli yogurt bio (yogurt di latte di pecora esclusi), per es. alla fragola, 180 g
20%
1.35 invece di 1.70 Le Gruyère dolce in conf. da ca. 200 g / 250 g, in self-service, per 100 g
25% Tutto l’assortimento i Raviöö prodotti in Ticino, per es. col pién da Brasaa (al brasato), 250 g, 5.10 invece di 6.80
40%
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I nostri superpr ezzi. conf. da 3 conf. da 3
33% Ravioli Anna’s Best in conf. da 3 per es. ricotta e spinaci, 3 x 250 g, 9.80 invece di 14.70
20%
conf. da 2
20%
Tutti i panettoni e i pandoro San Antonio per es. pandoro in scatola, 800 g, 9.20 invece di 11.50
50%
3.70 invece di 7.40 Succo d'arancia Anna’s Best 2 litri
Tutti i tipi di pasta per biscotti per es. pasta per cuori al cioccolato Anna's Best, blocco, 500 g, 2.55 invece di 3.20
– .4 0
di riduzione
2.20 invece di 2.60 Pane delle Alpi TerraSuisse 380 g
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 4.12 AL 10.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
20% Tutti i tipi di crème fraîche per es. al naturale, 200 g, 2.05 invece di 2.60
25% Olio d’oliva Classico e Delicato Monini in conf. da 2 per es. Classico, 2 x 1 l, 20.40 invece di 27.20
50%
2.95 invece di 5.90 Vittel in conf. da 6 x 1,5 l
50%
a par tire da 2 pe z zi
4.40 invece di 8.85 Rösti Original XL in conf. da 3 3 x 750 g
30%
11.55 invece di 16.50 Scatola festiva con prodotti da forno per l'aperitivo Happy Hour prodotto surgelato, 1308 g
20%
Tutte le zuppe istantanee e in bustina Bon Chef a partire da 2 pezzi, 20% di riduzione
30% Verdure miste svizzere o piselli dell’orto Farmer’s Best in conf. speciale prodotti surgelati, per es. piselli dell’orto, 1 kg, 3.90 invece di 5.60
30%
10.05 invece di 14.40 Tutti i tipi di Rivella in conf. da 6 x 1,5 l per es. rossa
I nostri superpr ezzi. conf. da 3 conf. da 3
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20%
20%
Datteri da 300 g e fichi da 500 g Sun Queen, secchi per es. datteri, 300 g, 2.20 invece di 2.80
30% Tutti i Praliné du Confiseur Frey, UTZ (confezioni multiple escluse), per es. Inverno, 147 g, 5.35 invece di 7.70
33% Tutti i tipi di caffè in chicchi da 1 kg, UTZ per es. Caruso Imperiale Crema, 10.15 invece di 15.20
Tutto l'assortimento Kellogg’s per es. Special K, 500 g, 3.85 invece di 4.85
50% Chips M-Classic in conf. speciale al naturale o alla paprica, 400 g, per es. alla paprica, 3.– invece di 6.–
conf. da 6
10x PUNTI
Cioccolato da appendere all'albero Frey, UTZ per es. cioccolato al latte, vuoto, assortito, 300 g, 7.80
20% Tutti i caffè istantanei Cafino, Noblesse e Zaun, UTZ per es. Cafino Classic in bustina, 550 g, 8.60 invece di 10.80
OFFERTE VALIDE SOLO DAL 4.12 AL 10.12.2018, FINO A ESAURIMENTO DELLO STOCK
30%
30%
Tavolette di cioccolato Frey da 100 g in confezioni speciali, UTZ disponibili in diverse varietà, per es. al latte finissimo in conf. da 6, 6 x 100 g, 8.40 invece di 12.–
20x PUNTI
5.90
Tutti i Delizio Flavoured Edition Coffees, UTZ per es. Lungo Nocciola, 12 capsule
Tutti i tipi di zucchero fino cristallizzato Cristal da 1 kg e in conf. da 10 x 1 kg per es. 1 kg, –.70 invece di 1.–
50%
2.75 invece di 5.50 Miscela natalizia con e senza creste di gallo all’anice, 500 g per es. senza creste di gallo all’anice
30% Tutto l'assortimento Sarasay per es. succo d’arancia, Fairtrade, 1 l, 2.– invece di 2.90
30%
9.95 invece di 14.40 Filets Gourmet à la Provençale Pelican in conf. speciale, MSC surgelati, 2 x 400 g
30% Tutto l’assortimento di alimenti per gatti Exelcat per es. Snackies al pollo, 60 g, 1.65 invece di 2.40
20%
20%
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Idee e acquisti per la settimana
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Idee e acquisti per la settimana
Ellen Amber
Festoso e sexy Il seducente assortimento di biancheria intima e per la notte di Ellen Amber offre un’ampia e raffinata scelta. Il reggiseno rosso con bordo bianco in ecopelliccia e lo string abbinato sono originali e intriganti. Anche i diversi reggiseni disponibili in nero o argento
sono altrettanto deliziosi ed eleganti, da indossare come intimo in casa o quando si esce. I diversi capi possono essere abbinati l’uno con l’altro, creando un «mix and match» coordinato, che può essere indossato anche come comoda biancheria per la notte.
Azione 40% Foto Mirjam Kluka, Styling Miriam Vieli-Goll, Hair & Makeup Emmanuel Florias
sull’intero assortimento di abbigliamento per adulti (inclusi biancheria, calzetteria, scarpe, borsette, accessori e cinture, esclusi articoli SportXX) il 6 e 7 dicembre
Tutti gli articoli sono disponibili nelle maggiori filiali.
Reggiseno Ellen Amber rosso taglie 75-90 B, 80-95 C, 80-100 D 95% poliestere, 5% elastan Fr. 24.80
String Ellen Amber due pezzi, rosso taglie S-XL 95% poliestere, 5% elastan Fr. 16.80
Reggiseno Ellen Amber nero, argento taglie 75-90 B, 80-95 C, 85-100 D 93% poliammide, 7% elastan Fr. 24.80
Négligé Ellen Amber nero, argento taglie S-XL 93% poliammide, 7% elastan Fr. 29.80
Reggiseno Ellen Amber nero taglie 75-90 B, 80-95 C, 85-100 D 90% poliammide, 10% elastan Fr. 29.80
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Pigiama Ellen Amber bordeaux taglie S-XL 100% cotone Fr. 39.80
Pigiama Ellen Amber nero taglie S-XL 100% viscosa Fr. 39.80
Pigiama Ellen Amber grigio taglie S-XL 100% poliestere Fr. 39.80
Camicia da notte Ellen Amber nero, taglie S-XXL 80% cotone bio, 20% poliestere Fr. 24.80
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino • 3 dicembre 2018 • N. 49
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Ellen Amber
Festoso e sexy Il seducente assortimento di biancheria intima e per la notte di Ellen Amber offre un’ampia e raffinata scelta. Il reggiseno rosso con bordo bianco in ecopelliccia e lo string abbinato sono originali e intriganti. Anche i diversi reggiseni disponibili in nero o argento
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